DOMENICA 10 LUGLIO 2016NUMERO 591 Cult - La...

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DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2016 NUMERO 591 Houellebecq Metto il dito nella piaga La copertina. Il tramonto dell’opera di impegno Straparlando. Oliviero Toscani: “Sono fortunato” I tabù del mondo. La fragile potenza virile FABIO GAMBARO PERPIGNAN «L’ ARTE È SEMPRE un’aggressione. De- scrivere il mondo in maniera oggetti- va significa di fatto criticarlo con aggressività. La descrizio- ne è sempre una critica. E per di più la so- la efficace». Seduto a un tavolino all’aperto di un bar della cittadina francese a pochi chilo- metri dal confine spagnolo, Michel Houel- lebecq snocciola con calma le sue convin- zioni letterarie, insistendo sulla necessi- tà per l’artista di «mettere il dito nelle pia- ghe della società». Il celebre e controver- so romanziere francese è in viaggio verso la Spagna per una breve vacanza. Tra una sigaretta e l’altra, ci parla a ruota li- bera del suo lavoro di scrittore e delle po- lemiche che spesso lo accompagnano, ma anche del suo interesse per Pascal, di Europa e di Brexit. Soprattutto, ci tiene a dichiarare la sua passione per la poesia, attività a cui si dedica da trent’anni e da cui è nato un vasto corpus di testi poetici ora pubblicato in due volumi intitolati La vita è rara. Tutte le poesie (Bompiani): «All’origine della poesia c’è la sofferen- za», ci spiega l’autore de Le particelle ele- mentari e di Sottomissione, «per guarda- re il mondo bisogna esserne esclusi, poi- ché l’esclusione produce uno sguardo og- gettivo che però è anche estetico. È vero, le mie poesie sono dominate dalla solitu- dine, dalla fine delle passioni, dal declino fisico, ma è questa la realtà che occorre guardare in faccia. Certo, c’è anche qual- che attimo di felicità, che però sulla pagi- na deve rimanere istantaneo. La descri- zione della felicità, se troppo lunga, di- venta noiosa» . Oltre che scrivere lei ama fotografare. Al Palais de Tokyo di Parigi ha inaugu- rato una mostra fotografica che ha scelto di intitolare “Rester vivant”. E dunque, come si fa a restare vivi? «Una certa megalomania può essere d’aiuto. Occorre essere convinti che la propria esistenza e le cose che si fanno sia- no importanti. Occorre determinazione, anche se non si hanno certezze». >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Cult Il racconto. Quel bastardo del commissario Ricciardi La storia. Pio La Torre che svelava i misteri d’Italia Spettacoli. Due Mondi e una finestra a Spoleto Next. C’è algoritmo in cima alle hit parade L’incontro. Salmo: “La rabbia, è lei che alla fine mi ha salvato” L’arte, la letteratura, la poesia. Ma anche l’Islam, la Francia, la Brexit. Intervista al più provocatorio scrittore francese “È la verità a fare scandalo, non io” ©PHILIPPE MATSAS/OPALE/LEEMAGE Repubblica Nazionale 2016-07-10

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DIREPUBBLICADOMENICA 10 LUGLIO 2016NUMERO591

HouellebecqMetto il ditonella piaga

La copertina. Il tramonto dell’opera di impegnoStraparlando. Oliviero Toscani: “Sono fortunato”I tabù del mondo. La fragile potenza virile

F A B I O G A M B A R O

PERPIGNAN

«L’ARTE È SEMPRE un’aggressione. De-scrivere il mondo in maniera oggetti-va significa di fatto

criticarlo con aggressività. La descrizio-ne è sempre una critica. E per di più la so-la efficace».

Seduto a un tavolino all’aperto di un bar della cittadina francese a pochi chilo-metri dal confine spagnolo, Michel Houel-

lebecq snocciola con calma le sue convin-zioni letterarie, insistendo sulla necessi-tà per l’artista di «mettere il dito nelle pia-ghe della società». Il celebre e controver-so romanziere francese è in viaggio verso la Spagna per una breve vacanza. Tra una sigaretta e l’altra, ci parla a ruota li-bera del suo lavoro di scrittore e delle po-lemiche che spesso lo accompagnano, ma anche del suo interesse per Pascal, di Europa e di Brexit. Soprattutto, ci tiene a dichiarare la sua passione per la poesia, attività a cui si dedica da trent’anni e da cui è nato un vasto corpus di testi poetici

ora pubblicato in due volumi intitolati La vita è rara. Tutte le poesie (Bompiani): «All’origine della poesia c’è la sofferen-za», ci spiega l’autore de Le particelle ele-mentari e di Sottomissione, «per guarda-re il mondo bisogna esserne esclusi, poi-ché l’esclusione produce uno sguardo og-gettivo che però è anche estetico. È vero, le mie poesie sono dominate dalla solitu-dine, dalla fine delle passioni, dal declino fisico, ma è questa la realtà che occorre guardare in faccia. Certo, c’è anche qual-che attimo di felicità, che però sulla pagi-na deve rimanere istantaneo. La descri-

zione della felicità, se troppo lunga, di-venta noiosa» .

Oltre che scrivere lei ama fotografare. Al Palais de Tokyo di Parigi ha inaugu-rato una mostra fotografica che ha scelto di intitolare “Rester vivant”. E dunque, come si fa a restare vivi? «Una certa megalomania può essere

d’aiuto. Occorre essere convinti che la propria esistenza e le cose che si fanno sia-no importanti. Occorre determinazione, anche se non si hanno certezze».

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

Cult

Il racconto. Quel bastardo del commissario Ricciardi La storia. Pio La Torre che svelava i misteri d’Italia Spettacoli. Due Mondi e una finestra a Spoleto Next. C’è algoritmo in cima alle hit parade L’incontro. Salmo: “La rabbia, è lei che alla fine mi ha salvato”

L’arte, la letteratura,la poesia. Ma anchel’Islam, la Francia,la Brexit. Intervistaal più provocatorioscrittore francese“È la verità a fare scandalo, non io”

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Repubblica Nazionale 2016-07-10

laRepubblicaDOMENICA 10 LUGLIO 2016 26LADOMENICA

Per scriveredevo

restare vivo

<SEGUE DALLA COPERTINA

F A B I O G A M B A R O

ANCHE SCRIVERE è un modo per restare vivi?

«Oggettivamente sì, ma personal-mente l’idea della posterità non mi è di grande aiuto. Sapere che si diven-terà immortali grazie ai propri scrit-ti non è decisivo, e in ogni caso io non ci credo molto. Anche perché quan-do scrivo non immagino i miei letto-ri nel futuro ma piuttosto nel presen-te. Diciamo che restare vivi più che un fine è un mezzo, perché è la condi-

zione della scrittura». Le sue poesie nascono da un lungo processo di maturazione

oppure da folgorazioni improvvise? «Nella poesia conta solo l’ispirazione che può manifestarsi

all’improvviso e poi mancare per lunghi periodi. Ad esempio scris-si le otto poesie che compongono HMT di getto e in soli venti minu-ti. Fu un caso limite perché non mi sono mai più sentito così ispira-to come quella volta. In generale comunque riscrivo poco, correg-go soprattutto la punteggiatura. La poesia è tutta emozione e per-cezione, quindi non nasce dalla riflessione. Il romanzo invece, es-sendo una costruzione razionale, deve tenere conto di molte varia-bili. E soprattutto deve evitare le ripetizioni tipiche dei romanzi lunghi, come accade ad esempio in Guerra e pace di Tolstoj. In poe-sia non si corre questo rischio perché le poesie sono come delle istantanee. Da qui il carattere visivo dei miei testi, che in fondo si avvicinano molto alla fotografia».

Ha un approccio visivo anche nei romanzi? «Un po’ meno, perché le mie narrazioni sono dominate da perso-

naggi che non si abbandonano quasi mai alla contemplazione. E in-vece, se vogliamo vedere tutte le sfumature della realtà, dobbia-mo metterci in una posizione contemplativa. Con la poesia, come con la fotografia, si adotta proprio questa prospettiva, nella narra-tiva invece domina l’azione. Nei romanzi scritti in prima persona è forse più facile inserire momenti contemplativi e poetici, anche se poi in questi romanzi il lettore rischia spesso di confondere i perso-naggi con l’autore».

Da qui anche le molte polemiche suscitate da un romanzo co-me “Sottomissione”, come se gli atteggiamenti e le dichiarazio-ni del protagonista fossero esattamente quelli dell’autore...«Quando i lettori confondono autore e personaggio è sempre un

buon segno, significa che il romanzo è riuscito. I lettori sottovaluta-no la capacità d’immaginazione del romanziere, pensano che il suo racconto sia sempre tutto vero e frutto di esperienze vissute. Io invece invento molto, perché è più facile inventare che riprodur-re fedelmente la realtà. Una storia inventata è sempre più coeren-

te della realtà, che invece non lo è quasi mai. Insomma, le polemi-che dimostrano che il romanzo è riuscito, vale a dire che i lettori hanno preso per vero il suo contenuto» .

Ma lei non è stanco delle polemiche che accompagnano i suoi romanzi?«La maggior parte dei lettori leggono i miei romanzi come sem-

plici oggetti letterari, non li considerano dichiarazioni politiche. A scatenare le polemiche sono soprattutto i media, perché ne hanno bisogno per vivere. Devo riconoscere che per loro sono un’ottima fonte di polemiche. Nel caso di Sottomissione, i media si sono con-centrati sul tema dell’Islam e del successo elettorale di un ipoteti-co partito musulmano, tralasciando tutta la parte su Huysmans,

“Non abbiamo nulla in comune, l’Europa

è solo una struttura burocratica, un’illusione

Avrei votato anch’io per lasciarla...”

IL PERSONAGGIO MICHEL HOUELLEBECQ (1956)È TRA GLI AUTORI PIÙ INFLUENTI DELLA LETTERATURA FRANCESE CONTEMPORANEA. DIVENTATO CELEBRE CON “LE PARTICELLE ELEMENTARI” (1999) HA SCATENATO MOLTE POLEMICHE CON “SOTTOMISSIONE” (2015). IN ITALIA I SUOI LIBRI SONO PUBBLICATI DA BOMPIANI

L’APPUNTAMENTO

LO SCRITTORE FRANCESE PRESENTERÀ LA RACCOLTA DI POESIE “LA VITA È RARA” (BOMPIANI) SABATO 16 A “COLLISIONI”, IL FESTIVAL AGRI-ROCK DI LETTERATURA E MUSICA A BAROLO DAL 14 AL 18 LUGLIO. “STRANGERS” È IL TITOLO DELLA OTTAVA EDIZIONE. TRA GLI OSPITIELTON JOHN IN CONCERTO IL15

©PHILIPPE MATSAS/OPALE/LEEMAGE

La copertina. Intervista a Michel Houellebecq

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che invece era all’origine del romanzo. All’inizio avevo pensato di far convertire il protagonista al cattolicesimo, proprio come aveva fatto Huysmans nel suo Contro corrente, poi però nel romanzo si è imposto l’Islam e quindi si è convertito alla religione di Allah».

Quando ha fatto questa scelta, non ha pensato alle polemi-che che avrebbe scatenato?«Un po’ sì, ma uno scrittore non può evitare una tematica solo

per non provocare polemiche. Un artista deve essere libero e rifiu-tare l’autocensura, deve potersi esprimere senza pensare alle con-seguenze, perché altrimenti non farebbe più nulla. Inoltre, quan-do si scrive un romanzo, a un certo punto i personaggi scappano di mano all’autore. Noi scrittori non possiamo più controllarli, diven-

tiamo semplici scrivani al servizio delle loro storie. Anche perché, a mano a mano che cresce, un romanzo assume una logica interna che non è più possibile modificare. Per esempio, la storia di Sotto-

missione avrebbe potuto sfociare in una guerra civile, ma poi il ro-manzo è andato in un’altra direzione. Il che mi è anche dispiaciuto, perché mi sarebbe piaciuto raccontare una vera guerra civile».

Anche se un romanzo ha una logica interna che sfugge all’au-tore, alla fine però chi pubblica se ne deve assumere pienamen-te la responsabilità... «Io mi assumo sempre la responsabilità di quello che scrivo. Pos-

so essere inquieto per le reazioni dei lettori, ma non mi tiro mai in-dietro. Per Sottomissione, il problema è che in Francia l’Islam è di-ventato un’ossessione collettiva. Senza dimenticare che, se non ci fossero stati gli attentati jihadisti, la percezione del romanzo sa-rebbe stata molto diversa. L’attentato a Charlie Hebdo, proprio il giorno della pubblicazione del mio libro, ha evidentemente getta-to un’altra luce sulla mia storia».

L’hanno accusa d’islamofobia... «Il romanzo poggia su un’ipotesi che però non mi sembra si stia

concretizzando, vale a dire l’idea che nel mondo islamico possa im-porsi un Islam pacifico. Purtroppo sta accadendo il contrario. Il mio era forse un auspicio, benché non creda molto alla vittoria di un Islam tollerante e figlio dei lumi. Anche perché una religione vici-na ai valori dell’illuminismo sarebbe di fatto destinata a scompari-re, dato che la razionalità ne distruggerebbe inevitabilmente la di-mensione irrazionale. Senza magia non c’è religione, e il razionali-smo illuminista elimina ogni forma di magia. Insomma, mi sem-bra veramente difficile l’avvento di un Islam moderato figlio dei Lumi. Forse c’è più spazio per un Islam mistico e non violento co-me il sufismo o l’islam pietista, ma queste tradizioni non piacciono affatto ai fondamentalisti».

Lei scrive che occorre credere nell’identità Òtra vero, bello e beneÓ...«Non so se questa identità sia vera, ma un poeta deve credervi.

Occorre avere la convizione che dicendo il vero, si raggiunge il bel-lo e si farà del bene. È una speranza. Il vero viene sempre prima di tutto, anche se la verità è talvolta scandalosa. Ma anche di fronte agli scandali occorre sempre pensare che alla fine gli effetti saran-no comunque benefici».

A tratti in lei si ritrova qualcosa di pascaliano. Mi sbaglio?«Pascal è un autore che da giovane mi ha molto colpito. Più che il

tema della scommessa, mi aveva impressionato la riflessione sull’evidenza della morte fisica e sulla paura cosmica. Fu una lettu-ra violenta, da cui non credo di essermi mai liberato. La riflessione di Pascal continua a tormentarmi».

Pascal ha molto insistito sul dualismo tra cuore e ragione...«In me, la dimensione razionale non è molto marcata. Quando

scrivo, cerco di posare uno sguardo lucido e razionale sul mondo, ma nella vita quotidiana non riesco a prendere decisioni razionali.

Agisco d’istinto e non rifletto mai su quello che faccio. In realtà, il gusto per la teoria, che in effetti mi appartiene, non ha nulla a che fare con la capacità di comportarsi razionalmente. Io utilizzo la ra-zionalità soprattutto per osservare la realtà».

È possibile fare poesia sulla realtà politica oppure sociale in cui si vive?«Non credo. In ogni caso io non ne sono capace. Anche nei miei

romanzi cerco sempre di tenermi a una certa distanza dall’attuali-tà. Quando s’inizia a scrivere un romanzo bisogna staccarsi dal flusso continuo d’informazioni cui siamo sottoposti, altrimenti se ne resta travolti. Io non potrei mai scrivere una poesia sulla Bre-xit».

A proposito di Brexit, cosa pensa dalla scelta degli abitanti del Regno Unito?«Sono rimasto piacevolmente sorpreso. Pensavo che alla fine il

popolo britannico avrebbe ceduto alle minacce delle élite politi-co-finanziarie tutte schierate contro la Brexit. Da molti anni or-mai, il principale argomento a favore dell’Europa è la paura delle conseguenze prodotte da un’eventuale fine dell’Unione europea. In Gran Bretagna però, il popolo ha votato senza paura contro le él-ite. Per il paese sarà sicuramente meglio, perché non sarà più vin-colato dall’Europa. La Ue è una struttura burocratica sovrapposta a un insieme di paesi che non hanno interessi economici comuni. Gli scopi dei singoli stati sono divergenti, quindi la loro coesisten-za non può essere democratica. Ci sarà sempre chi prevale sugli al-tri. Il progetto comune è solo un’illusione.»

Lei è francese, ma ha vissuto anche in Irlanda e in Spagna. Non si sente almeno in parte europeo? Non riconosce l’esisten-za di un spirito e di una cultura europei?«Forse questo spirito europeo è esistito in passato, nel XVIII e

nel XIX secolo, oggi però non è più così. In Francia contano solo la cultura francese e quella anglosassone, la cultura europea è come se non esistesse. E probabilmente accade lo stesso negli altri paesi del continente, dove accanto alle culture locali c’è spazio solo per la cultura americana. Il successo della cultura Made in Usa ha spaz-zato via ogni ipotesi di cultura europea comune».

Se in Francia venisse indetto un referendum analogo a quello in-glese, lei voterebbe dunque per l’uscita dall’Unione europea?«Sì. Perché in Europa non solo mancano una cultura e un’econo-

mia comuni, ma non c’è neppure un’identità condivisa. L’Europa nasce da troppe tradizioni diverse e non ha una lingua che la unifi-chi, è impossibile che possa funzionare democraticamente. Già la Francia mi sembra troppo grande, figuriamoci l’Europa. Più un ter-ritorio è vasto e meno vive democraticamente. Le piccole struttu-re – soprattutto se hanno un’identità forte come la Francia - posso-no essere più democratiche dei grandi insiemi sovranazionali. E possono perfino essere più efficaci. Quindi no, non temo affatto un’eventuale implosione dell’Unione europea».

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“Quando scrissi ‘Sottomissione’ immaginai

che avrebbe potuto suscitare delle polemiche

Ma un artista deve resistere all’autocensura”

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laRepubblicaDOMENICA 10 LUGLIO 2016 28LADOMENICA

LOJACONO AVEVA fi-nito il turno. Era presto per recarsi a cena da Letizia, e Laura era ancora nel pieno del lavo-ro. Avrebbe riem-pito il tempo che mancava facendo un giro per la cit-tà; si sforzava di conoscerla me-

glio, e due passi in quel tardo pomeriggio di inizio estate lo avrebbero aiutato nell’in-tento.

Stava proprio pensando a dove andare quando l’agente Guida, di servizio alla por-ta, lo chiamò, tossicchiando imbarazzato.

«Ispetto’, scusatemi. Hanno lasciato una busta per voi».

Lojacono lo fissò torvo, ispezionandone la divisa, peraltro in perfetto ordine; Guida aveva un sacro terrore dei suoi rimproveri e lui, con gran divertimento di tutti, non perdeva occasione di alimentarlo.

«Guida, hai una scarpa allacciata male. Se dovessi all’improvviso inseguire qualcu-no, inciamperesti finendo col culo per terra tra le risate dell’intero quartiere».

L’agente imprecò sottovoce e si chinò. In realtà la stringa era solo allentata, ma Loja-cono, maligno, non si era trattenuto dal far-glielo notare. Sul suo viso dai tratti orienta-li passò un sorriso fugace.

La busta che Guida gli aveva consegnato era un po’ ingiallita, come se fosse di carta vecchia. Sul retro, in un corsivo molto incli-nato, c’era scritto: Egr. Ispettore Lojacono Giuseppe. Come su una scheda dell’ufficio personale. Dentro c’era un biglietto con una sola frase, semplice e lapidaria: Gam-brinus, tavolo interno, vicino all’ultima ve-trata.

«Guida, chi lo portò ’sto biglietto?».La guardia sbattè le palpebre:«Come lo portò? È successo dieci minuti

fa. È venuto un ragazzino. Era combinato male, però, sporco in faccia, scalzo, con la canottiera strappata e i pantaloni legati con lo spago. Pareva uno di quegli scugniz-zi di prima della guerra, che si vedono nei film vecchi».

Lojacono non ritenne di specificare che il passato remoto era un retaggio delle sue origini siciliane. Uno scugnizzo di un’altra epoca, rifletté, e sentì montare dentro un inspiegabile disagio. Salutò Guida e si av-viò per la discesa che portava dal commissa-riato di Pizzofalcone al famoso caffè liberty di piazza Plebiscito; passeggiata per pas-seggiata, anche quella andava bene.

Lungo la strada pesò la strana inquietu-dine che lo pervadeva. Non aveva mai visto la grafia del biglietto, eppure aveva qualco-sa di familiare; inoltre c’erano l’inchiostro sbiadito, scritto evidentemente con una penna stilografica, la carta vecchia, e lo scu-gnizzo con lo spago in vita. La sua mente da poliziotto collegava gli elementi, e il risulta-to non quadrava.

Sul foglietto non c’erano orario né data, così Lojacono decise di andarci subito, al Gambrinus: troppa curiosità.

Al solito la folla dei turisti in cerca di sa-pori tradizionali integrava la massa di im-piegati in perenne pausa caffè, riempiendo i tavolini sotto i tendoni e lo spazio antistan-te il banco. L’ispettore si fece strada verso la sala interna, semivuota; troppo bello il tempo e troppo gradevole la frescura della sera per scegliere la penombra un po’ polve-rosa dei tendaggi e degli affreschi. Percor-se qualche metro tra le sedie, disposte in modo ordinato attorno ai tavoli, e intravide una figura seduta nel posto indicato dal bi-gliettino; si avvicinò ancora. Era un uomo; doveva avere qualche anno meno di lui. Por-tava una cravatta stretta, una giacca gri-gia e un soprabito, fuori contesto data la stagione; il suo profilo affilato non si spostò dalla vetrata, dietro la quale la città scorre-va come un film muto. Lojacono strinse gli occhi per abituarli alla penombra e gli par-

ve di notare che i capelli neri dello scono-sciuto avessero un aspetto un po’ unto, co-me se fossero coperti di gel, o roba del gene-re; solo un ciuffo ribelle gli ricadeva sulla fronte. Mentre l’ispettore si chiedeva chi fosse lo strano personaggio, l’altro si girò a fissarlo, mostrando un paio di occhi verdi quasi trasparenti, di sicuro l’elemento più notevole del viso.

Lojacono sentì un tuffo al cuore. Conosce-va quell’uomo, ne era certo, ma con altret-tanta certezza non aveva la minima idea di chi fosse. Restarono a guardarsi per un lun-go attimo, poi l’individuo fece un cenno col capo verso la sedia che aveva di fronte. Loja-cono, un po’ rigidamente, si sedette, quin-di si schiarì la voce e disse:

«Sono l’ispettore…».«Lojacono, sì, lo so. Sono io che ho chie-

sto di incontrarvi. Scusate il modo poco gen-tile, ma non posso muovermi da questo ta-volino».

«Si figuri, non c’è problema. È successo qualcosa? Ha bisogno di aiuto o…».

Negli occhi verdi passò un lampo di ironi-co divertimento.

«No, no. Vedete, sono anch’io un poliziot-to. Mi chiamo Ricciardi, sono un commissa-rio. Almeno lo ero. Forse lo sono ancora, da qualche altra parte. Sono in… trasferta, di-ciamo. Solo di passaggio».

Lojacono annuì.

Il racconto. Squadre mobili

L’AUTORE

MAURIZIO

DE GIOVANNI

(NAPOLI, 1958)

HA RAGGIUNTO

LA FAMA

CON LE STORIE

DEL COMMISSARIO

RICCIARDI

AMBIENTATE

NELLA NAPOLI

DEGLI ANNI TRENTA.

CON “I BASTARDI

DI PIZZOFALCONE”

E L’ISPETTORE

LOJACONO

HA INAUGURATO

UNA NUOVA

SERIE

CONTEMPORANEA

M A U R I Z I O D E G I O V A N N I

Il protagonista dei gialli di Maurizio de Giovanni, dagli anni Trenta si trova catapultato

nella Napoli cruda e crudele dei nostri giorni. Gli fa da guida l’ispettore Lojacono,

altra creatura dello scrittore partenopeo. Che ha immaginato per noi questo magico incontro

Un commissario

Repubblica Nazionale 2016-07-10

laRepubblicaDOMENICA 10 LUGLIO 2016 29

«Ah, un collega. Lei è di qui? Di quale commissariato?».

«Ho lavorato in città, sì. Ma vengo da un paese della bassa provincia di Salerno, ci vuole una giornata per arrivarci».

«Nemmeno io sono di qui, ho lavorato in Sicilia e… Ma come, una giornata? Salerno sarà a mezz’ora, sì e no!».

Ricciardi sorrise, e sembrò più giovane.«Adesso, magari. Non ai miei tempi».Lojacono sentì di nuovo il disagio di quan-

do aveva ricevuto il biglietto. Tossì e si guar-dò attorno, come per ancorarsi alla realtà, ma non c’era nessuno. La sala era deserta, non si vedeva nemmeno un cameriere.

«Posso sapere perché mi ha fatto chiama-re, collega? Forse avrebbe dovuto mettersi in contatto con Palma, che è suo pari grado: io sono solo…».

Di nuovo quel lampo negli occhi verdi.«… un ispettore, lo so. Ma io posso metter-

mi in contatto solo con voi, ispettore Lojaco-no. Condividiamo qualcosa, anche se non so bene cosa. E sono molto curioso di sape-re cosa è successo alla città. Io, vedete, man-co da parecchio tempo. Mi servono delle in-formazioni».

«Se posso, dica pure. Ma sa, io non… In-somma, non sono di qui e nemmeno lo capi-sco bene, questo posto. È strano, complica-to. Perfino per un meridionale».

Ricciardi tornò a guardare fuori.

«Sì, lo so bene. Io ci sono venuto a studia-re, e non me ne sono più andato, ma in fon-do sono sempre rimasto un forestiero. Ave-te fatto caso al rumore?».

Lojacono sospirò.«Non me ne parli. Non c’è mai silenzio, da

nessuna parte. Traffico, motori, clacson e trombe a qualsiasi ora del giorno e della not-te…».

«Posso assicurarvi, ispettore, che anche quando le automobili erano poche il rumore non mancava. I cavalli, le ruote di legno e ferro sulle pietre delle strade; e le urla della gente, le lavandaie, i venditori ambulanti».

L’ispettore assentì, convinto.«E la musica? Cantano in continuazione,

o ascoltano la radio ad altissimo volume; e non parliamo della televisione…».

Ricciardi corrugò la fronte.«Non capisco tutto quello che dite, ma

cantano, sì. Come se ci fosse da cantare e da ballare, con la povertà e la fame che ci sono. Perché ci sono ancora, no?».

Lojacono guardò fuori a sua volta.«Sì, ci sono, commissario. In certi quartie-

ri, soprattutto in periferia, si sente una rab-bia enorme che passa sulle facce della gen-te, e i bambini...».

Ricciardi strinse le labbra.«I bambini, sì. Abbandonati a se stessi, a

subire le violenze e le colpe dei genitori. Io una volta ho indagato sulla morte di un pic-

colo orfano. Sembrava accidentale, inve-ce… Me lo sogno ancora. Matteo, era il suo nome, ma lo chiamavano Tettè, perché era balbuziente».

Lojacono sentì un brivido. In qualche strana maniera sentiva quell’uomo venuto dal nulla più vicino di un fratello.

«Non creda che i figli dei ricchi stiano me-glio, commissario. Io ho avuto un rapimen-to, un po’ di tempo fa, e purtroppo non sia-mo riusciti a trovare il ragazzino; pensi che il colpevole era… Lasciamo perdere, va’. È troppo doloroso anche solo ricordare».

Un tizio, in strada, diede una spinta a una signora che barcollò e riuscì a non cade-re per miracolo; l’uomo nemmeno si voltò. Ricciardi fece un sospiro.

«Corrono, corrono. Ma perché corrono tutti? E perché neppure si guardano?».

Lojacono si strinse nelle spalle.«Perché sono soli, commissario. La gen-

te in questa città è sola e disperata, come in tutte le grandi città del nostro tempo. For-se».

Ricciardi scosse il capo, malinconico. Più lontano, al limite della piazza, una vecchia carrozza raccoglieva turisti da portare sul lungomare.

Lojacono disse, d’impulso:«Secondo me, commissario, questa città

non è mai cambiata, in realtà. E non cam-bierà mai».

Dopo una lunga pausa, l’uomo dagli oc-chi verdi mormorò:

«Magari non in tutto. Ditemi una cosa, Lojacono. Una volta, proprio a pochi metri da qui, c’era un negozio di cappelli e guan-ti. La figlia del proprietario era una signori-na alta, con gli occhiali, di nome Enrica. Ve-do che il negozio non c’è più: mi sapete dire perché?».

Lojacono allargò le braccia.«Da quando abito in città i negozi sono

sempre stati questi, commissario. Ma ho… un’amica magistrato che è qui da più tem-po, magari ne sa qualcosa. O può dare un’occhiata agli archivi della Camera di Commercio. Se mi dice dove e come posso farle sapere…».

Ricciardi lo fissò con inaspettata dolcez-za. Poi rispose:

«Non importa, ispettore. Magari lo sco-prirò da solo. E vi voglio dare un consiglio: tenete da conto questa vostra… amica. Non la perdete. Le cose belle passano, e non ri-tornano».

Restarono in silenzio per un po’. Poi Ric-ciardi fece cenno a un cameriere molto, molto anziano. E disse:

«Per favore, due caffè. E due sfogliatelle. Le più fresche che avete».

© 2016, Maurizio de Giovanni

Ricciardi a Gomorra

©RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBRO

L’ULTIMA AVVENTURADEL COMMISSARIORICCIARDI, “SERENATA SENZA NOME”(384 PAGINE, 19 EURO),È DA POCO IN LIBRERIAPER EINAUDI.IN AUTUNNO PARTIRÀ INVECESU RAIUNO LA FICTION “I BASTARDIDI PIZZOFALCONE” CON ALESSANDRO GASSMAN

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Repubblica Nazionale 2016-07-10

laRepubblicaDOMENICA 10 LUGLIO 2016 30LADOMENICA

MANCA solo un testo ori-ginale. Man-ca perché è sparito. È il resoconto stenografi-co di un suo intervento in consiglio comunale, a Palermo.

Estate del 1954, un giovanissimo Pio La Torre prende la parola a Palazzo delle Aquile e sferra un attacco violento ai padroni della città, sma-schera la speculazione edilizia che favorisce ma-fiosi e proprietari terrieri benedetti da Sua Emi-nenza il cardinale Ernesto Ruffini, mette sott’ac-cusa sindaco e assessori che non vogliono il piano regolatore. Due giorni dopo cerca la sua relazio-ne negli uffici della segreteria generale del Comu-ne e non la trova, non c’è più. Qualcuno l’ha sot-tratta e nascosta. Così il 17, il 18 e il 19 settembre l’Unità della Sicilia pubblica tre articoli a firma di Pio La Torre dal titolo “Corruzione e disordine al Comune di Palermo”.

Questo rapporto, un incrocio fra la denuncia politica e l’inchiesta giornalistica, è uno dei 1644 paragrafi di una raccolta che è la bibliografia de-gli scritti — discorsi, interrogazioni parlamenta-

ri, disegni di legge, documenti, saggi — di un te-stimone della nostra storia repubblicana, un grande italiano che non è stato solo un nemico delle mafie ma un «costruttore di democrazia». Studio appassionato e profondo curato da Fran-cesco Tornatore (che del Partito comunista è sta-to dirigente), e che in oltre trent’anni di batta-glie ricostruisce il pensiero di uno dei capi del Pci, dal secondo dopoguerra siciliano segnato da ri-gurgiti indipendentisti sino alla stagione dei de-litti eccellenti e del «terrorismo mafioso». Questa definizione — «terrorismo mafioso» — si scopre che l’ha usata per la prima volta proprio La Torre nel lontanissimo 1966, quando per colpa di un’imprenditoria rapace una grande frana tirò giù un pezzo di Agrigento. Costruivano i palazzi sull’argilla, boss e politica andavano a braccetto «in un sistema di potere poggiato sul terrorismo mafioso».

Tutto quello che c’è da sapere su una vita politi-ca e intellettuale è nei capitoli di Ecco perché, cin-quecentododici pagine pubblicate dall’Istituto poligrafico europeo per la collana dell’Istituto Gramsci siciliano, una prefazione dello storico Salvatore Nicosia e poi una sterminata elencazio-ne di luoghi dove rintracciare praticamente tutti gli atti pubblici di un capopopolo che ha vissuto fra Palermo e Roma, fra i casolari della Madonie e le aule di Montecitorio. Ogni voce del volume è ac-compagnata da un breve riassunto che ne spiega il contenuto, la prima è del 1946 e l’ultima del 1982. Che è l’anno dell’uccisione di Pio La Torre.

La bibliografia parte dall’occupazione delle terre e finisce nella Palermo mattatoio dei primi Anni Ottanta, attraversando la giungla di cemen-to che hanno voluto Lima e Gioia e Ciancimino, fermandosi a Comiso dove gli americani avrebbe-ro voluto installare missili a testata nucleare da puntare contro Mosca.

Nelle pagine di Ecco perché c’è anche qualche scoop. Uno è su Gladio, con La Torre che dell’orga-nizzazione paramilitare clandestina sente l’odo-re molto prima di quando ne saremmo venuti uf-ficialmente a conoscenza. Un altro è sul banchie-re Michele Sindona, dato presente già nel 1965 a un summit di mafia a Palermo.

Dagli archivi del Pci e da quelli suoi personali affiora una «personalità politica complessa e straordinaria» e, nelle carte, insieme si ritrova un deposito di passaggi significativi delle vicen-de italiane.

La parola mafia compare in un suo scritto per la prima volta nel 1950. E non sarà mai più cancel-lata. Il 1950 è anche l’anno delle ultime scorriban-de di Salvatore Giuliano, assalti a caserme e a ca-mere di lavoro, massacri di carabinieri e sindaca-listi. Nel ventennale della strage di Portella della Ginestra, siamo già nel 1967, La Torre dichiare-rà al quotidiano L’Ora: «Per quella carneficina i mandanti sono da cercare anche nella Cia». È un’altra delle sue intuizioni, almeno trent’anni prima delle ricostruzioni — fondate su documen-tazione — degli storici Giuseppe Casarrubea e Francesco Renda.

È sempre il 1950 quando il dirigente del Pci è alla testa dei contadini che invadono i latifondi dei conti e dei baroni, e al feudo Santa Maria del Bosco viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Passa un anno e mezzo all’Ucciardone, il 25 febbraio del 1951 dalla sua cella scrive una lettera a Paolo Bufalini: «Anche noi che siamo in carcere contribuiamo alla rinascita della Sicilia».

Assolto, torna in libertà e viene eletto consi-gliere comunale, dal 1952 al 1960. Sono gli anni del “sacco”, i boss trasferiscono i loro affari dalla campagna in città, Palermo volta le spalle al ma-re, in ogni strada c’è un cantiere. Capolista della Democrazia cristiana è Salvo Lima, l’uomo che sarà in futuro il più fedele alleato di Giulio An-dreotti. Per descrivere le relazioni fra mafia e pubblici poteri a Palermo, Pio La Torre utilizza il termine «compenetrazione», in alcune circostan-ze è la Dc che «appoggia la mafia» e in altre è la mafia che «appoggia la Dc». Un’analisi con sinte-si finale: «La mafia è un fenomeno di classi diri-genti». Ma quasi un quarto di secolo dopo e qual-che centinaia di pagine più in là di Ecco perché, il Pio La Torre politico riserva una sorpresa. Fa «au-tocritica» sulle posizioni del suo Pci nei confronti dei “giovani turchi” — così chiamavano Gioia e Li-ma e Ciancimino — una trimurti che all’inizio ap-pariva come rinnovatrice e che prese il potere nel-la Dc «anche grazie alle lotte del partito contro cricche ripugnanti di affaristi monarchico-cleri-cali».

C’è sempre un filo che s’intreccia fra Palermo

La storia. Misteri d’Italia

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di uncomunista

Tutti

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gli scoop

e Roma e poi ancora fra Roma e Palermo. Nel 1976 La Torre è in Parlamento ed è il primo firma-tario della relazione di minoranza della commis-sione antimafia: un documento che farà storia. Al suo fianco, eletto come indipendente nelle li-ste del Pci, Cesare Terranova, il magistrato che aveva stanato i Corleonesi e che dai Corleonesi qualche anno dopo sarà ucciso.

L’attacco mafioso allo Stato è già cominciato e, nel 1980, è ancora primo firmatario della pro-posta di legge che introduce il reato di “associa-zione di tipo mafioso” nel codice penale. Alla ste-sura del testo collaborano due giovani giudici istruttori, uno si chiama Giovanni Falcone e l’al-tro Paolo Borsellino. Scrive Francesco Tornatore: «Grande merito di quest’uomo è la ricerca di una definizione corretta di “mafia” da far condivide-re all’intera opinione pubblica. Un’impresa enor-me. È magnifico che abbia trovato posto nella leg-ge e nei vocabolari: a stabilire che esiste ed è un reato».

È sempre il 1980. Pio La Torre ricostruisce il fal-so rapimento di Michele Sindona — in fuga l’esta-te prima dagli Usa e protetto in Sicilia da Cosa No-stra — e in un atto parlamentare rivela: «Il giova-ne Sindona nel 1965 era al summit internaziona-le della mafia a Palermo».

Gennaio 1982, teatro Biondo, decimo congres-so del Pci siciliano. Ricorda l’assassinio, avvenu-to due anni prima, del presidente della Regione Piersanti Mattarella e parla della strategia della tensione: «Sino a quando il ministero dell’Inter-

no e i magistrati non avanzeranno ipotesi serie, non si farà mai luce sulla catena degli omicidi po-litici in Sicilia».

Sono i suoi ultimi mesi di vita. Appena tornato sull’isola come segretario del Pci siciliano, inizia la grande battaglia contro i Cruise, i missili “da crociera” che dovevano difendere il “mondo libe-ro” dal comunismo. In un’interrogazione alla Ca-mera, chiede conto ai ministri della Difesa e dell’Interno di un’esercitazione fra Palermo e Ca-tania a protezione da un bombardamento atomi-co «e delle finalità attribuite ai comitati civili e mi-litari, costituiti nell’ambito delle prefetture sici-liane». Fa intendere di sapere qualcosa sull’esi-stenza di un corpo armato e segreto, qualcosa che somiglia tanto alla Gladio.

Tre settimane prima della sua morte, a Comi-so sfilano in centomila per protestare contro i Cruise. Poi, lui che per ventisette anni — dal 1949 al 1976, e ancora dal settembre 1981 fino a sette giorni prima della sua morte — era finito sotto sorveglianza dell’intelligence italiana co-me «agente sospetto di spionaggio a favore di un’organizzazione politica asservita agli interes-si dell’Unione Sovietica» — all’improvviso non viene più pedinato. Un fantomatico reparto “D” del servizio militare certifica che non è una spia: “Dalla documentazione in nostro possesso, l’atti-vità di La Torre non appare come conseguente a mandato conferito da servizio straniero”. Il 30 aprile 1982 lo lasciano solo con i suoi killer.

siciliano

LE FOTOGRAFIE PALERMO, 30 APRILE 1982.PIO LA TORRE STA ANDANDO VERSO LA SEDE DEL PCI SU UNA FIAT 131 GUIDATA DA ROSARIO DI SALVO. ALLE 9.20 I DUE VENGONO BLOCCATI E UCCISI DA ALCUNI KILLER. NELLA PRIMA FOTO DALL’ALTO I DUE CORPI CRIVELLATI. NELLA SECONDA LA GAMBA DI LA TORRE PENZOLA DAL FINESTRINO. NELLA TERZA FOTO, DA SINISTRA: ANTONIO CASSARÀ, GIOVANNI FALCONE E ROCCO CHINNICI SUL LUOGO DELL’OMICIDIO. SARANNO A LORO VOLTA UCCISI DALLA MAFIA (NEL 1985, 1992 E 1983). L’AUTORE DEI PRIMI DUE SCATTI È RICCARDO LIBERATI. QUEST’ULTIMA IMMAGINE È TRATTA DA “COSÌ NON SI PUÒ VIVERE” DI FABIO DE PASQUALE E ELEONORA IANNELLI (FONDAZIONE CHINNICI). LA FOTO DEI FUNERALI (“LA DONNA PIANGE LA MORTE DEL DEPUTATO PIO LA TORRE UCCISO DALLA MAFIA”) È INVECE DI LETIZIA BATTAGLIA

IL VOLUME “ECCO PERCHÉ” DI FRANCESCO TORNATORE RACCOGLIE GLI SCRITTI DI PIO LA TORRE ATTRAVERSO TRENT’ANNI DI BATTAGLIE. È EDITO DALL’ISTITUTO GRAMSCI SICILIANO (20 EURO)

Il procedere silenzioso dei compagni dietro due bare ricoperte di rosso comunista la spinse al pianto, alla preghiera, ma niente sapeva di Pio La Torre, delle sue lotte, della sua fine. Niente sapeva di Rosario Di Salvo e della sua dedizione. Così, mentre nell’aria tiepida di maggio i compagni alzarono il pugno, lei confusa si inginocchiò perché era un’anima candida ed i morti sapeva che bisognava onorarli. Non sarebbe andata a Piazza Politeama in mezzo ai centomila, né avrebbe riconosciuto sul palco un uomo forte dall’aspetto gentile che dopo decenni ancora rimpiangiamo, né si sarebbe commossa per la magnificenza di un presidente della Repubblica come Pertini. A lei bastava inginocchiarsi e pregare così come si deve per chiunque

Letizia Battaglia

‘‘Il sacco di Palermo, la Cia, Gladio e una classe dirigente che si fa mafia Fin dai primi anni ’50 Pio La Torre aveva capito come sarebbe finita Un libro ora ci aiuta a capire anche il perché

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finestrasu

Spoleto

SPOLETO

PIAZZA DUOMO È ACCECANTE nella luce di mezzogiorno. Deserta e spiri-tuale, perfetta nella caligine estiva, prima che gruppi di turisti, non-curanti di Filippo Lippi e Pinturicchio, scendano disordinatamente chiassosi in cerca della caserma di Don Matteo, della canonica di Don Matteo, di qualsiasi traccia il Don Matteo televisivo abbia lasciato in città. Dalla finestra del secondo piano dell’edificio, dirimpetto al tea-tro Caio Melisso, si ode il suono di un pianoforte. È un palazzetto adat-tato da una vecchia torre medievale, sovrastato da una veranda, l’in-gresso quasi invisibile all’angolo di via dell’Arringo, accanto al bar più scenografico di Spoleto. Era la residenza del maestro Gian Carlo Menotti, compositore e librettista, fondatore nel 1957 del Festival dei Due Mondi, che vi abitava non più di un mese l’anno, in coinciden-

za di uno degli eventi culturali più ricchi, audaci e invidiati del mondo. Pur nelle piccole dimensio-ni, è stato per decenni alcova, luogo d’incontro di artisti rivoluzionari e blasonati, rifugio dell’uo-mo che ha trasformato una città d’arte in città delle arti. Ora Casa Menotti, rilevata nel 2011 dalla Fondazione Monini, è il centro di documentazione del Festival dei Due Mondi. Nei cinque anni di apertura è diventata un luogo vivo per la cultura spoletina, cui accedono gratuitamente ogni an-no migliaia di visitatori. Qui è raccolto il materiale audio, video, fotografico e cartaceo sul Festival dal 1958 a oggi, catalogato e digitalizzato da-gli esperti della Fondazione Monini.

Nei giorni del Festival — la 59esima edizio-ne si conclude stasera con il tradizionale con-certo in Piazza Duomo: Antonio Pappano diri-ge l’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia con Stefano Bollani al pianofor-te, in programma Schönberg, Franz Lehár e George Gershwin — Casa Menotti ha ripreso una tradizione del maestro, gli aperitivi in musica, con il vecchio pianoforte a disposizio-ne di giovani artisti e talenti di passaggio. «Menotti, che viveva tra la Scozia e gli Stati Uniti, acquistò questa casa nel 1958 », raccon-ta Maria Flora Monini, che gestisce Casa Me-notti con la stessa dedizione e la stessa passio-ne con cui si occupa dell’azienda di famiglia. «Quando la casa andò all’asta, nel 2009, cer-cai di convincere mio fratello Zefferino della bontà dell’acquisizione. “Se non lo facciamo noi, che siamo un’importante realtà territo-riale, Casa Menotti finirà nelle mani del mi-liardario russo di turno. Lo dobbiamo al mae-stro e alla comunità”, gli dissi. Noi spoletini siamo stati tutti contagiati dal Festival, c’è chi ci ha vissuto di rendita per cinquant’anni. Pensi alle duecento maestranze che ogni an-no arrivavano dagli Usa, per non parlare dei magnati che viaggiavano al seguito di Menot-ti. Ero una ragazzina ma ricordo perfettamen-te l’aria che si respirava, la magia di certe giornate e certi incontri, lo scambio fruttuo-so che il maestro aveva con gli artisti interna-zionali; un’euforia economica e culturale che ci ha viziati».

All’interno l’atmosfera è magica, religiosa quasi. È un gesto rituale affacciarsi dalla fine-stra del primo piano, la stessa dalla quale gli ospiti illustri sbirciavano sulla piazza senza essere visti. Al secondo piano ci sono lo studio e la stanza da letto di Menotti — la grandeur del personaggio è tutta nella testiera monu-

mentale: un’immagine di Padre Pio cui era devo-to e tante foto con Toscanini e i Kennedy, Romo-lo Valli e Polanski, Jerome Robbins e Allen Gin-sberg. Al centro dello studio, in una sorta di enor-me iPad, si sfoglia la storia del Festival dei Due Mondi: interviste, servizi, foto, video dei protago-nisti e delle opere rappresentate — una gigante-sca mole iconografica. C’è da restarci incollati per giorni, colti dallo stupore, dall’incredulità, dalla commozione, dalla malinconia di un tempo e di un culto delle arti che forse non ritornerà più. In una videointervista a Menotti redatta da Carlo Mazzarella nel 1959 per la Rai, si vede la ve-randa proprio come i Monini l’hanno recupera-ta. Siamo nella remota provincia italiana, eppu-re Menotti parla di un inedito concesso al Festi-val da Tennessee Williams come ci trovassimo a Broadway o al Met. Fu quello l’anno in cui Luchi-no Visconti curò la regia del Duca d’Alba di Doni-zetti, diretto da Thomas Schippers, il carismati-co, bellissimo Schippers, direttore d’orchestra che con Spoleto strinse un patto di sangue. Fu lui a spalancare a Menotti le porte delle grandi isti-tuzioni concertistiche americane. Una foto del 1966 mostra Ezra Pound che si affaccia timida-mente alla finestra del primo piano; più tardi avrebbe recitato le sue poesie al Caio Melisso, in una edizione storica del Festival che si concluse con il Requiem di Verdi diretto da Zubin Mehta. In un video del 1967 si vedono Allen Ginsberg, vate della beat generation, e il poeta inglese Ste-phen Spender che intonano un canto indù acco-vacciati davanti al Caio Melisso. In un audio anco-ra più sorprendente, le voci di Ginsberg che reci-ta Ungaretti in inglese e di Ungaretti che decla-ma Ginsberg in italiano. Era l’anno in cui Menot-ti curò la regia del Don Giovanni, scene di Henry Moore — immagini sbalorditive. I filmati di Anto-nio Gades e Cristina Hoyos, risalenti a quell’esta-te del 1970 quando Spoleto s’incendiò di flamen-co, complici le poesie di Rafael Alberti, lasciano senza fiato. Per non parlare del recital di Nu-reyev (1977), che truccato sembra proprio il Bo-wie di Ashes to Ashes, su musiche di Bach, Masse-net, Miles Davis, Berio e Ciaikovskij. E della Na-poli Milionaria di Eduardo De Filippo con musi-che di Nino Rota. La storia per immagini è ben raccontata dalle foto di Lionello Fabbri, dai con-tributi delle Teche Rai e dalla raccolta dei prezio-si manifesti disegnati da Emilio Vedova, Giaco-

mo Manzù, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri, Willem De Kooning, David Hockney, Folon, Mi-rò, Jasper Johns, Balthus e Francesco Clemente. «L’abbiamo pensato come un luogo della cultu-ra», conclude la Monini, che nonostante il disinteresse del comune fece di tutto per aggiudicarsi l’immobile mandato all’asta da Francis Menotti, figlio adottivo che assunse la direzione del Festi-val nel 1997 e rimase in carica fino al 2007, anno della morte del fondatore e fine di un disastroso interregno. «Abbiamo acquisito questa proprietà con l’intenzione di consegnarla alla città e al mondo intero. Chissà quante idee sono nate qui dentro. Non avrei mai potuto violare questo luo-go». Ci sarà un motivo se il divino Schippers, morto a quarantasei anni nel 1977, volle che le sue ceneri fossero tumulate sul muraglione di Piazza Duomo — un gesto d’amore verso la città e il maestro amante. Ci sarà un motivo se a Spoleto, a volte per un compenso simbolico, sono transita-ti Roman Polanski, Morgan Freeman, Giuseppe Patroni Griffi, Christopher Keene, Giorgio Bassa-ni, Salvatore Quasimodo, Ingeborg Bachmann, Gregory Corso, Ennio Flaiano, Shelley Winters, Samuel Barber (che fu compagno di Menotti), Baryshnikov, Carla Fracci, Merce Cunningham, In-grid Bergman, Luca Ronconi e Robert Wilson in un panorama in cui tra teatro e danza, opera e let-teratura, musica leggera e avanguardia non c’è confine.

Un gruppo di devoti a Don Matteo fa sosta davanti Casa Menotti, incuriosito dalla targa. «Chi è?», chiede una donna. Uno che crede di saperne più degli altri prontamente risponde: «La casa di César Luis Menotti» (calciatore, allenatore di calcio e dirigente sportivo argentino, ndr). L’Italia è cambiata. Il maestro stenterebbe a riconoscerla.

IL FESTIVAL

SI CONCLUDE OGGI, CON IL CONCERTO DELL’ORCHESTRA DELL’ACCADEMIA DI SANTA CECILIA DIRETTA DA ANTONIO PAPPANO E ACCOMPAGNATA DAL PIANOFORTE DI STEFANO BOLLANI, LA 59ESIMA EDIZIONE DEL “FESTIVAL DEI DUE MONDI” DIRETTO DA GIORGIO FERRARA. DAL 24 GIUGNO SI SONO ALTERNATI SPETTACOLI DI TEATRO, MUSICA, CINEMA, OPERA, DANZA. TRA I TANTI: ROBERTO BOLLE, UN OMAGGIO A LUCA RONCONI, L’“ECCE HOMO” DI CORRADO AUGIAS, IL DJ E PRODUTTORE JEFF MILLS, LE MOSTRE DEDICATE A CANOVA E A AMEDEO MODIGLIANI, IL FILM-REPORTAGE DI BERNARD-HENRI LÉVY

Spettacoli. In piazza

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In questi sessant’anni da Casa Menotti

si sono affacciati gli artisti più grandi

Oggi la storica residenza del fondatore

del Festival diretto da Giorgio Ferrara

è un tesoro. Ricco di foto, video e ricordi

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GLI ARTISTI/1

1. GIAN CARLO MENOTTI NEL 1994 SI AFFACCIA ALLA CELEBRE FINESTRA DEL PRIMO PIANO DELLA SUA RESIDENZA SPOLETINA. FONDATORE DEL FESTIVAL DEI DUE MONDI NE È STATO IL DIRETTORE ARTISTICO PER CINQUANTA ANNI FINO ALLA SUA MORTE NEL 2007 2. BALTHUS A SPOLETO NEL 1982 IN OCCASIONE DI UNA SUA MOSTRA 3. JEROME ROBBINS NEGLI ANNI ’80 4. EZRA POUND, GIÀ A SPOLETO NEL 1965 PER UNA CELEBRE SETTIMANA DELLA POESIA, QUI CON OLGA RUDGE NEL 197O 5. ADRIANA ASTI NEL 2010 PER IL DEBUTTO DI “GIORNI FELICI” DI SAMUEL BECKETT, PER LA REGIA DI ROBERT WILSON 6. JOHN MALKOVICH NEL 2010 CON “THE INFERNAL COMEDY”

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GLI ARTISTI/2

7. ADRIANA KUCEROVA NEL 2011 PROTAGONISTA DEL MELODRAMMA “AMELIA AL BALLO” 8. CLAUDIO SANTAMARIA NEL 2011 CON IL MELOLOGO “PIER PAOLO PASOLINI - LA REALTÀ” 9. WILLEM DAFOE NEL 2013 A SPOLETO CON LO SPETTACOLO TEATRALE “THE OLD WOMAN” 10. TIM ROBBINS NEL 2011 PER IL SUO “SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE” 11. JULIETTE GRÉCO NEL 2015, AL FESTIVAL PORTÒ LO SPETTACOLO “MERCI” CON CUI HA APERTO IL SUO ULTIMO TOUR PRIMA DI DIRE ADDIO ALLE SCENE

12. IL BALLERINO GIAPPONESE SHIZEN KAZAMA NEL 2015 A SPOLETO CON IL BALLETTO “DANS LES PAS DE NOUREEV”

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LA MAPPAmostra la concentrazione delle persone

sparse per il mondo che hanno gusti

simili, per tipologia di flm e serie tv,

orari di visione e attitudine, all'account

Netfix di Jaime D’Alessandro

JAIME

D’ALESSANDRO

Età: 47 Sesso: M

Nazionalità: italiana

Figli

1 (maschio, 9 anni)

Device usato

smart tv, tablet

Orari preferiti

fascia 21-23,

fascia 7-9

Serie tv viste recentemente

Dare Devil,

Jessica Jones

Film visti recentemente

Magadascar,

Kung Fu Panda,

Sleepy Hollow,

Special

Corrispondence,

Caroline

NETFLIXLa compagnia americana usa 15 diversi algoritmi per stabilire il proflo dei suoi oltre 80 milioni di abbonati

QUANTE ORE IN UNA SETTIMANA?il tempo trascorso sui vari media dalle persone nel mondo

4.8 4.0

Altri a orarifssi

Serie TV on demand

Film,serie TVe show

Filmondemand

Serie TVa orarifssi

Filma orarifssi

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NEL MONDO

Nel 2015 i videohanno rappresentato il 50% del trafco. Cresceranno del 55% all'anno fno a raggiungere il 70% del trafco mondiale entro il 2021

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IN EUROPAGuardano e ascoltano contenuti in streaming ogni giorno

Guardano e ascoltanocontenuti in streaming ogni settimana

IN ITALIAGuardano e ascoltano contenuti in streaming ogni giorno

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IL PROFILO

INFOGRAFICA DANIELE SIMONELLI

PARIGI

UNA MAPPA COSTRUITA USANDO QUINDICI diversi algoritmi. Analizza in tempo reale ciò che guardano, fra film, cartoni e serie tv, oltre 80 milioni di persone in 190 paesi. La matematica al tempo dello streaming, quando diventa rappresentazione grafica, è ipnoti-ca. Carlos Gomez Uribe, vicepresidente di Netflix, sorride mentre ci mostra la mappa. In una sala della Cité du Ci-néma, a Parigi, chiede l’indirizzo mail al quale è associato il nostro account. Lo in-serisce e la mappa si popola di zone lumi-nose. Rappresentano la concentrazione di spettatori che hanno gusti simili.

Non solo e non tanto le coincidenze nella scelta del catalogo, quanto i modi, i tempi e in generale il profilo di spettatore. Scopriamo così di far parte di una comunità numerosa in Europa e ben rappresentata sia sulla costa est sia sulla costa ovest degli Usa. Con i nostri stessi gusti ce ne sono tanti in Centroamerica fra Colombia, Venezuela e Costa Rica; e a Oriente, Dubai e Kuwait, Mumbai e Bali. Ma soprattutto in Nuova Zelanda. «Già», commenta Uribe, «ora possiamo vedere in diretta il formarsi di nicchie tra-sversali e invisibili fino a poco tempo fa». E questo permette a Netflix di produrre, con un mar-gine di errore più basso, serie, film e cartoni sapendo che lì fuori, fra Bali e l’Italia, li vedranno. «È vero, gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione permettono di disegnare un profilo de-gli spettatori prima impossibile», conferma Andrea Scrosati, il vice presidente di Sky dietro a successi come Romanzo Criminale, Master Chief, X-Factor e Gomorra. «Peccato che non per-metta di capire dove andrà il gusto del pubblico, altrimenti il mercato sarebbe già cambiato. Nonostante i big data di Hulu, Amazon e Netflix, a Hollywood il tasso di fallimento delle serie tv è rimasto immutato e solo due su dieci ottengono dei risultati apprezzabili. Oggi in America vengono prodotte ogni anno 450 serie. Sono decuplicate rispetto al 2006. Se si aggiungono quelle di altri paesi, si arriva a un numero che supera le ottocento produzioni. Ma è una bolla. La creatività è fatta di elementi imponderabili e porta a quei successi capaci di intercettare le tendenze prima che si manifestino. Costruire a tavolino un film usando i big data significa co-struirlo sulle tendenze che sono parte del presente o peggio del passato». Insomma, gli exploit di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film di Gabriele Mainetti, non nascono dai numeri. Così come quello internazionale di Gomorra.

Altrove la pensano diversamente. Nel campo musicale, per quanto sia altra cosa rispetto a

quello cinematografico e televisivo, iniziano a sostenere di avere per le mani la stessa arte che fu degli oracoli. La musica è sempre stata all’avanguardia, nel bene e nel male. È stata la prima a esser travolta dal digitale ai tempi di Napster e la prima ad aver visto l’afferma-zione di colossi hi-tech come Apple e il suo iTu-nes, che per altro pare sia ormai in piena crisi a causa dello streaming. Altro fenomeno na-to in questo settore, con i suoi cataloghi im-mensi consultabili da smartphone per pochi

euro al mese. Ed è sempre qui che stanno ap-plicando la predizione basata su algoritmi e apprendimento delle macchine. «Ora sappia-mo dove nascono i successi di domani». Jason Titus, vice presidente di Google, qualche me-se fa ne parlava così ad esempio. Quando pro-nunciò questa frase davanti a un giornalista di The Atlantic, lavorava ancora a Shazam, servizio nato a Londra e usato ogni mese da cento milioni di persone per riconoscere una canzone che si sta ascoltando per caso, poco

J A I M E D ’ A L E S S A N D R O

Mondo

Next. Coming soon

Dimmi che film vedi e ti diròchi sono quelli simili a te

streaming

Da Netflix a Spotify: sarà un algoritmo a indovinare i successi di domani?

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e i falòPollo lessoNel bollito misto piemontese, l’ordine di cottura varia con la tipologia: la gallina si cuoce dall’inizio, col manzo, mentre il pollo giovane va aggiunto a metà cottura, dopo un’ora, col vitello

PeperonataNella terracotta cipolla, acciughe, rosmarino, olio, burro e spicchi d’aglio interi, poi i peperoni a tocchetti. Dopo rosolatura, i pomodori sbucciati e privi di semi. Via l’aglio a fine cottura

Bagna caôdaSpicchi d’aglio senza germogli, tagliati a fettine, cotti con olio e burro a fiamma bassa fino a farne una crema, poi le acciughe dissalate. Vi si possono intingere tutte le verdure invernali

Lepre in civetTagliata a pezzi e marinata nel vino rosso invecchiato insieme agli odori dell’orto, chiodi di garofano e bacche di ginepro, poi rosolata e cotta nel liquido della marinatura

‘‘

Cesare Pavese

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‘‘Presero il cesto e le tovaglie. Distesero il tutto sull’erba, vicino

alla fonte. Avevano piatti e bicchieri.

Poi venne fuori il pane, la pentola

colla minestra serbata tiepida

e un gran pollo bollito

da “Ciau Masino”, 1932

DolcettoDeriva dal piemontese duset, dosso, o dall’alto tasso zuccherino dell’uva matura, il nome del vino secco e profumato, le cui origini sono contese tra Ponente ligure e basso Monferrato

“SI FACEVA la tavolata o si caricava di aglio o di acciuga la pagnot-ta e via subito... Allo-ra si mangiava forte, seduti intorno alla ta-vola, dicendo ognu-no la nostra... Quel mangiare appena giorno, prima che gli altri fossero in piedi, dopo una nottata di

strada, era una gran cosa” (da “Feria d’agosto”). Dal 22 luglio al 4 agosto, Santo Stefano Belbo, estremità orientale della Langa, ospi-ta “Con gli occhi di Cesare Pavese”, festival non solo letterario a cu-ra del Circolo dei Lettori e della Fondazione Pavese. Letta, indaga-ta, sviscerata mille volte, l’opera dello scrittore piemontese verrà declinata con accenti diversi, inusuali, coté culinario compreso.

Cesare Pavese non era certo un gastronomo. Scritti e testimo-

nianze lo raccontano bevitore e fumatore convinto, addirittura cele-brativo per quanto riguarda le sigarette (“La vita senza fumo è co-me il fumo senza l’arrosto”). In quanto al vino, più abitudine che piacere, e poca voglia di scoprirne il fascino, al di là di riconoscere la fama che già in quegli anni circonda il Barolo. Ma nascere nelle Lan-ghe è un marchio di fabbrica ineludibile. Così, la cucina ne attraver-sa come un fil rouge antropologico tutti gli scritti. Senza menù, rac-conti dettagliati o ricette. Pavese non indulge mai nella pratica del buon mangiare, né da uomo né da scrittore, se non come elemento di analisi o narrativo. Perché più del pasto, contano occasione, con-divisione e le chiavi di lettura psicologica connesse. La cucina di ri-sulta è quella di tutte le campagne, dove gli ingredienti si assomma-no arrivando direttamente da orti e stalle: farina, verdure, uova, for-maggio, qualche pezzo di carne nei giorni di festa, spesso in coinci-denza con i grandi riti campestri, trebbiatura e vendemmia in pri-mis.

Quelli sono i momenti più attesi, segnati dalla fatica e dal perpe-tuarsi di una ricompensa sacrosanta, che comincia intorno al tavo-lo. Se è tempo di caccia, lepre e fagiani, e poi oche e anatre, il maiale a dicembre. Le ricette sono codificate e immutabili: le marinature del civet, il tempo lungo della polenta, la dissalatura delle acciughe.

Sapori. Di Langa

“Polenta, coniglio e peperoni,

tutto bruciava, e i bambini

ne mangiavano tanta, e le ragazze

mangiavano. Come mangiava

Gisella! Mangiava la polenta con la bocca

e me con gli occhi”

da “Paesi tuoi”, 1941

“Masin attese fin che lo sconosociuto fu alla

fontana. E poi gli chiese: “’A l’è bôn s dôsset?’ –

L’altro afferrando una bottiglia s’illuminò

tutto in faccia: ‘Istô! Farô më!’. E con un alito

pesante gli tese la bottiglia:

beive ’na vata?”

da “CiauMasino”,1932

“Ricordo ancora la gioia con cui fece

la conoscenza di Colino il pescivendolo,

che teneva anche un barile di acciughe

e gli raccontò che tutti gli anni

andava in Spagna per rinnovarlo”

da “Feria d’agosto”, 1945

L I C I A G R A N E L L O

“Uno crede/ fin che è dentro

uno crede. Si esce fuori una sera/

e le lepri le han prese

e le mangiano al caldo/

gli altri, allegri”

da “Lavorare stanca”, 1936

DAL 22 LUGLIO AL 4 AGOSTO A SANTO STEFANO BELBO SI TIENE IL FESTIVAL

LETTERARARIO (MA NON SOLO) DEDICATO ALLO SCRITTORE PIEMONTESE

UN’OCCASIONE PER RISCOPRIRE I PIATTI DELLA TRADIZIONE CONTADINA

RILEGGENDO PAGINE MEMORABILI

la cucina

Repubblica Nazionale 2016-07-10

laRepubblicaDOMENICA 10 LUGLIO 2016 35

Notizie e collegamentiin diretta

Didatticie documentari

Eventi sportiviin diretta

Spettacolidal vivo

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45%

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VEDIAMO I VIDEOPercentuale di contenuti video in streaming sul totale del trafcoper tipo di device

donne

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SHAZAMLa mappa dell’Italia di Shazam, un’app disponibile sulle piattaforme principali, in grado di individuare, schiacciando un pulsante sullo schermo, la canzone che viene suonata

in quel momento, di condividerla con altri utenti e anche di vedere chi altri l’ha “shazzammata”. Shazam viene usata ogni mese da una media di 120 milioni di persone mentre 500 milioni hanno scaricato l’applicazione e 20 milioni la usano ogni giorno

S MARINO

ROMA

GENOVA

NAPOLI

PALERMO

CAGLIARI

VICENZA

uomini

importa se a casa di qualcuno o alla radio. Quindici miliardi i brani identificati con la sua app installata in cinquecento milioni di te-lefoni. Adesso ha iniziato a offrire alle case di-scografiche uno strumento per capire in anti-cipo quale sarà il prossimo successo commer-ciale. Lo fa guardando al passato: l’analisi de-gli ascolti messi a confronto con quel che è ac-caduto nel corso degli anni. Ricordate ad esempio Royals, la canzone con cui Lorde si è fatta conoscere? Nel 2013 apparve dal nulla, o meglio dalla Nuova Zelanda che è il suo pae-se natale, e pian piano si diffuse fino a diven-tare la più ascoltata in tremila città america-ne. L’anticamera di un successo planetario. In un mondo dove solo l’uno per cento degli artisti rappresenta il 77 per cento degli introi-ti delle case discografiche, quindi con un tas-so di “fallimento” ben più alto di quello delle serie tv, i miracoli dei big data fanno gola.

Per capire come davvero stanno le cose chiamiamo Brian Whitman. Dottorato al Mit, trentacinque anni, è il cofondatore di Echo Nest, piattaforma di analisi dati legati all’in-dustria musicale acquisita da Spotify per cen-toventicinque milioni di dollari nel marzo di due anni fa. Oggi è a capo della divisione ricer-ca e sviluppo per il colosso dello streaming di Stoccolma, lo stesso che ha appena annuncia-to di voler iniziare a produrre serie tv; ed è an-che lui convinto che la matematica, unita all’enorme quantità di dati che condividiamo e alla musica e ai video che consumiamo, stia dando vita a una forma predittiva di tecnolo-gia sfruttando le tecniche dell’apprendimen-to delle macchine che, in questo caso impara-no con il tempo divenendo sempre più preci-

se nell’analisi delle abitudini delle persone e nei consigli che riescono a dare. «Per capire i gusti musicali di qualcuno e offrirgli i brani che non conosce ancora ma che sicuramente gli piaceranno, serve circa una settimana», spiega dalla sua casa di Brooklyn. «Stiamo la-vorando per accorciare i tempi. Abbiamo ini-ziato a incrociare i dati presenti sui social net-work scoprendo che alcuni aspetti personali, l’inclinazione politica per dirne una, sono de-terminanti. Oppure se si possiede un iPhone o un Android. Oltre ovviamente al sesso, l’e-tà, al paese di provenienza». Le ipotesi di Brian Whitman nascono dalle informazioni che arrivano da una base di utenti di cento mi-lioni di persone che ascoltano musica in tutto il mondo. Ed è sempre grazie alla stessa base che vengono confermate. Fino ad arrivare a una mappa dei consumi musicali in continua evoluzione, ben oltre le classifiche dei brani più in voga, e a una capacità di previsione del-le tendenze a breve termine. Ma è un miraco-lo che accade solo nel settore musicale. Da questo punto di vista Scrosati ha ragione: malgrado Amazon abbia in mano i dati di mi-lioni di lettori non ha ancora pubblicato il ro-manzo perfetto, né Netflix il film che sicura-mente farà presa. E poi una cosa è produrre da zero un brano usando quel che dicono gli algoritmi, altro tracciarne in anticipo l’asce-sa. Ma resta il fatto che ci stanno provando. Come scrive Pedro Domingos, Università di Washington, nel suo L’algoritmo definitivo (Bollati Boringhieri), questo è un settore che sta progredendo a ritmi esponenziali. Oltre a farsi sentire potrebbe iniziare a farsi vedere.

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BaroloUndici comuni della provincia di Cuneo e un’unica tipologia d’uva, il Nebbiolo (varietà Michet, Lampia, Rosé) per il re dei vini o vino dei re - la cui storia attraversa più di due secoli

Minestra contadinaSoffritto nel coccio di lardo con sedano, aglio e cipolla, poi dentro castagne secche e fagioli ammollati la sera prima, vino bianco e brodo. Si serve con pane abbrustolito e un giro di pepe

Oca farcitaFiammeggiata, riempita col suo fegato tritato insieme a salsiccia, pancetta, caldarroste, chiodi di garofano e cannella, poi lardellata con altra pancetta, infine cotta al forno o allo spiedo

QUANDO PAVESE E FENOGLIO scrivono delle

Langhe a cavallo della Seconda guerra

mondiale, raccontano un mondo contadino

fatto di lavoro durissimo, in condizioni di

mezzadria o direttamente sotto padrone,

con piccole e grandi violenze quotidiane figlie di una società

maschilista e classista, dove ciascuno deve stare al suo posto

e ruscare per guadagnarsi il pane. Il tema del lavoro è molto

presente e spesso va a braccetto con quello del cibo, sia

perché portare un pasto caldo in tavola è sovente la

preoccupazione principale dei protagonisti, sia perché

buona parte di questi, in quanto contadini, producono essi

stessi cibo. Un cibo che scandisce le stagioni, regola i

rapporti sociali e definisce lo svolgimento di riti e

celebrazioni. Un cibo che, anche quando non direttamente al

centro del palcoscenico, accompagna costantemente

l’azione.

Nonostante la condizione precaria di una Langa contadina

ancora ben lontana dal boom degli anni ’70 – ’80 (peraltro

anche trainato in buona parte da vino, gastronomia e, in

seguito, turismo a questi legato), su queste colline il

mangiare ha sempre avuto un carattere di varietà e di

complessità nella semplicità non sempre ritrovabile in altre

zone di pianura e soprattutto in città, più penalizzate da

condizioni ancora più dure.

Ecco allora che i piatti popolari, non uso qui la parola

poveri perché a tutti gli effetti erano poveri solo coloro che li

preparavano e mangiavano, hanno ancora oggi una forza

enorme, sono presenti in maniera massiccia sulle tavole,

sono quelli che ancora definiscono la festa, non possono

mancare nelle celebrazioni e delineano un immaginario di

appartenenza che anche i più giovani condividono, magari

anche senza comprenderlo fino in fondo. Una grande cucina

della sobrietà, dell’ottimizzazione di risorse limitate e di

valorizzazione del poco. Ma a ben pensarci questo è valido

per tutte le cucine contadine del mondo. Perché chi lavora la

terra pratica la sobrietà e la misura, conosce il suo ambiente,

sa che le stagioni possono essere impietose, che bisogna

trarre il massimo anche dai frutti spontanei, che non ci si può

concedere sprechi o disattenzioni.

E allora forse nella cucina contadina di Langa possiamo

trovare tutte le cucine contadine del mondo, che ci sanno

ancora colpire non solo per quella creatività artigianale

stratificata in secoli di lavoro e perfezionamento portato

avanti da milioni di donne, ma anche e soprattutto perché ci

richiamano a quel sistema di valori che le hanno rese

possibili e che, a ben vedere, un po’ ci manca.

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©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Agnolotti del plinLa carne di tre arrosti - vitello, maiale e coniglio - più salsiccia e Parmigiano Reggiano per farcire la pasta ripiena chiusa con un pizzicotto (plin). Per condire, il sugo degli arrosti

Sono loro, pesce di campagna messo in barile e portato lungo la via del sale dalla Liguria, a venire disciolte nell’olio e accese dall’afrore dell’aglio per fortificare i raccoglitori d’uva, bagna calda per verdu-re toste come peperoni e cipolle.

E poi la carne del manzo, assente cronica dalle pentole che abi-tualmente ospitano solo ossa e verdura: se va bene, un pezzo di lar-do a insaporire il minestrone. Ma quando c’è, è festa grande. Il car-rello dei bolliti è un paradiso in cui tuffarsi con una ciotola di bagnet-to verde a portata di mano, per riaccendere un po’ del sapore finito nel brodo. La cervella e il midollo spinale (filoni) diventano ancora più grassi e sensuali avvolti nell’impanatura che precede la frittu-ra, ingentiliti da semolino e fette di mela.La cucina di Pavese è ancora rispettata e praticata in tante tratto-rie delle Langhe. Organizzate una gita a Santo Stefano Belbo nei giorni del festival, dove Pierluigi Vaccaneo, direttore della Fonda-zione Cesare Pavese, insieme a musicisti e scrittori svelerà la ma-gìa dell’universo pavesiano. Portatevi appresso “La luna, il cibo e i falò” di Giovanni Casalegno per riconoscere luoghi e racconti. Brin-disi d’obbligo alle colline- mammelle con un bicchiere di Barolo.

Tartufo biancoPresentato la prima volta nel 1929 da Giacomo Morra alla Fiera di Alba, ribattezzata quattro anni dopo Fiera del Tartufo, il tuber magnatum pico matura tra inizio settembre e Natale

“Allora mi feci coraggio e Cirino mi disse

che alla Mora ce n’era per tutti (...)

Venne Natale, Capodanno, l’Epifania;

si arrostivano le castagne, tirammo il vino, mangiammo due volte il tacchino

e una l’oca”

da “La luna e i falò”, 1950

“Era una voce un poco scabra, provocante,

brusca. Mi parve la tipica voce

delle donne del luogo. Risposi scherzando

che andavo a tartufi col cane. Lei mi chiese

se dove insegnavo si mangiavano i tartufi”

da “La luna e i falò”, 1950

Noi bevemmo e Lubrani mi disse:

‘Tu sei giovane, Pablo, e non sai che tre nasi

sono quel che ci vuole per bere il barolo.

‘Non lo so’, dissi asciutto. ‘

Ma com’è buono’, disse Linda”

da “Il compagno”, 1947

“Mangiai qualcosa, un grosso piatto

di minestra e un po’ di pane, che andai

a prendermi in cucina nell’unto e nel fumo. Altri stavano dentro

nel grande stanzone e mangiavano insalate

e bevevano”

da “La casa in collina”, 1948

Lavorare stancama a volte aiutaa mangiare meglio

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C A R L O P E T R I N I

“...Sentivo il fuoco e l’odore della carne

che friggeva e il rimbombo dell’asse

dove quelle impastavano.

Non mangiare troppo – disse Candido –

poi ci sono gli agnolotti”

da “Feria d’agosto”, 1945

Repubblica Nazionale 2016-07-10

laRepubblicaDOMENICA 10 LUGLIO 2016 38LADOMENICA

MILANO

AL PIANO TERRA DI UNA CASA DI OLBIA, in Sardegna, un ragazzo di ventisette anni posa sopra il piatto del giradischi una telecame-ra, comincia a farla girare e lui stesso ci gira intorno rappando una canzone appena scritta, Il senso dell’odio. Dice: “Mi capita di stare anche peggio, ma di che parli? Parlo da solo, dovrei pre-

occuparmi?”. In casa adesso non c’è nessuno. Il padre ha un passato da spor-tivo, da culturista, e un presente in cui ha perso il lavoro. Il suo sogno, il cam-po sportivo che aveva aperto in società con altre persone, ha chiuso. La ma-dre non lavora, il fratello neanche, lui rappa: “Amo il senso dell’odio, corro-so, come chi sa che non sarà mai famoso, ma per famoso tu che cosa inten-di? In Italia è inteso per quanto ti vendi”. Intanto la telecamera inquadra un armadio, delle pareti spoglie in bianco e nero e una finestra da cui la voce esce, scende giù in strada e, come il piatto del giradischi, comincia a gira-re. Rabbia. Molta rabbia.

Era il 2011 e Maurizio Pisciottu, fermato il giradischi, caricava il vi-deo sulla sua pagina YouTube. Cinque anni dopo, al primo posto dei di-schi più venduti in Italia c’è Hellvisback, il suo quarto album a nome Salmo. Elvis è tornato dall’inferno, con una manciata di nuove canzo-ni che adesso sta portando in tour con una band in tutta Italia. Un tour estivo con così tante date che diventerà invernale e si concluderà a di-cembre. Ricordando quel pomeriggio da cui tutto nacque dice: «Era un periodaccio. Uno di quei momenti familiari in cui non

te la passi tanto bene. Ci eravamo dovuti trasferire con tutta la famiglia in una casa piccolissima, sempre a Olbia, e da lì sono ve-nuti fuori i pezzi del mio primo disco». Il video de Il senso dell’o-dio venne condiviso su Facebook dal rapper Marracash: «Scris-se qualcosa tipo, “Non è mio fratello, non è un mio amico, ascol-tatelo che spacca”». Iniziarono ad ascoltarlo in tanti, così Mau-rizio decise di lasciare Olbia per trasferirsi a Milano e portare la sua musica nel resto d’Italia: «All’inizio il cambiamento è sta-to brutale».

A fargli da Cicerone nella nuova città, e nel giro musicale, c’è un altro rapper, Ensi, quell’anno vincitore del programma Mtv Spit. Conosce Gue Pequeno dei Club Dogo e firma per la sua etichetta discografica, la Tanta Roba Label, poi ne apre una sua, la Machete Empire, una sorta di factory che produ-

ce anche altri artisti, video musicali e merchandising. Le canzoni di Hellvisback le ha scritte nella sua nuova casa, a Milano, un

loft a due piani che divide con il fratello, che nel frattempo l’ha raggiunto dalla Sardegna ed è diventato il suo manager. L’immagine del Re del Rock redivivo si moltiplica sui dischi d’oro e di platino appesi al muro. In un ango-lo c’è una batteria. Dietro una porta c’è lo studio di registrazione. Nel frigo in cucina una birra sarda. Sul tavolo ci sono un campanello da reception d’al-bergo e una copia della raccolta di racconti di Charles Bukowski, Niente can-zoni d’amore. Non lontano da qui ci sono gli studi televisivi di un talent show. Ci si potrebbe confondere e, sbagliando porta, ritrovarsi davanti a una giuria di coach canori. Per arrivare al primo posto Salmo ha scelto tutta un’altra strada: «Ho dormito sui palchi, ho mangiato male, ho fatto la gavet-ta, sono andato a suonare a Londra con una band hardcore metal e intanto facevo qualsiasi lavoro, il lavapiatti, il cameriere. Prima di trasferirmi a Mi-lano ho lavorato nel bar aperto poi dai miei genitori, ero il peggior barista del mondo e mi sono salvato in extremis. Ho avuto la fortuna di riuscire a combinare qualcosa a ventisette anni. Meglio così: se fossi diventato famo-so a ventidue anni, probabilmente avrei fallito subito, o non sarei riuscito a sostenere il successo».

Indossando una maschera da teschio, una camicia a scacchi da boscaiolo e ruotando una mazza da baseball a favore di telecamera, appare così in una serie di video autoprodotti. Voce roca, aspra, bassa e profonda. Immagi-nario che centrifuga film horror, musica elettronica, rap anni Novanta, punk, Rob Zombie, tendoni da circo e giocolieri con coltelli, videogiochi e in-terni David Lynch, fumetti, racconti della cripta, motel inquietanti “No Va-cancy”, da provincia americana italiana. In 1984, primo singolo estratto da Hellvisback, canta “Questo è l’anno dei miracoli, Craxi mangia coi tentaco-li, muore Berlinguer e Maradona è al Napoli”. È un racconto di formazione che ripercorre la storia dell’Italia di quell’epoca e la sua storia personale. «La maggior parte degli ascoltatori italiani», dice, «sono straniti da questo ego-trip dei rapper. Pensano che nell’autocelebrazione non ci sia un’idea, un contenuto. Invece ti sto raccontando la mia storia, stai ascoltando la vita di un’altra persona, puoi rispecchiarti, è comunicazione». La sua storia af-fonda le radici nel nonno che aveva un vivaio di cozze, in cui la madre lavora-va fin da giovane, in uno zio che suona il basso, bluesman e pittore che dipin-ge quadri con il sanguinaccio, in un giorno in auto tornando da Sassari, quando vede un incidente che finisce in una canzone sulle sue prime volte: “Il primo cadavere che ho visto stava in una Clio, il figlio morto affianco io, era la prima volta che mi scordavo di Dio”. I suoi pezzi non passano in radio ma durante la settimana dell’ultimo festival di Sanremo, al primo posto in classifica c’è lui. In Sardegna partecipa a una cena con Mogol: «Era una tavo-lata di politici locali, mi avevano presentato come il fenomeno del posto. Ha iniziato a dire che i giovani artisti sono una mandria di idioti, che si fanno ru-bare i soldi da internet. Io spero vivamente fra vent’anni di riuscire a mante-nere una visiona fresca, a capire la musica che verrà». Viene da immaginare un passato in cui Battisti produceva anche maglie con sopra la sua faccia,

Piero Ciampi non si perdeva perché al lato artistico avrebbe sapu-to unire quello imprenditoriale. Cantautori con logo. Capaci di prendere posto dietro a un pianoforte ma anche a un consiglio di amministrazione di se stessi.

Tornando al presente, suona con Travis Barker dei Blink182, apre i concerti dei Prodigy e di Jovanotti, per cui co-firma anche la

regia del video di Sabato. Adesso quando torna a Olbia gli sem-bra strano non vedere in giro le compagnie di ragazzi e i moto-

rini, come se la gioventù fosse altrove, al chiuso, a farsi auto-grafare un disco in un centro commerciale: «Fossi rimasto ad Olbia probabilmente mi sarei sposato e avrei fatto un figlio, come tutti quelli della mia età, o mi sarei impiccato per i debiti. Nelle piccole città sono due le cose che puoi fa-re. Oppure la terza, prendi e parti. Io ho scelto l’ultima».

Durante il tour promozionale che l’ha portato proprio nei centri commerciali, ha postato ogni giorno sulla sua pagina Facebook un video del suo arrivo nei negozi. Firen-ze, Roma, Lecce, Palermo, sembrano sempre la stessa cit-

tà fatta di una stradina silenziosa, di un ingresso laterale che si apre, di un corridoio ovattato da palazzetto dello sport e poi esplosioni di folle minorenni che scandiscono il suo no-me. Forse è proprio per loro che sta lavorando all’apertura di una scuola d’arte: «Si chiamerà la Lebonski Accademy. L’i-dea è di farne un’accademia che sia un’alternativa all’uni-versità per aspiranti fotografi, registi, illustratori o musici-

sti. Avranno la possibilità di misurarsi subito sul lavoro e con nomi grossi». La sede c’è già, a Olbia, in quello che prima era un negozio di abiti da sposa, e dove adesso è possibile trovare il senso dell’amore per qualcosa, sognare e cercare di co-struirsi un futuro diverso.

Vero nome Maurizio Pisciottu, da Olbia, Sardegna. Padre ex-cultu-

rista e poi disoccupato come lui, come la madre e come il fratello.

“A ventisette anni non avevo niente. Solo la rabbia. È stata lei a sal-

varmi”. Sceglie un nome d’arte, rappa, scrive un testo che parla di

odio, mette un video su YouTube che “spacca”. Cinque anni dopo

la sua casa è un loft su due piani a Milano, e il suo ultimo disco arri-

va in cima alle classifiche. Insomma, quasi una star: “Fossi rima-

sto ad Olbia mi sarei sposato e

avrei fatto un figlio, oppure

avrei finito per impiccami per i

debiti. Da noi queste sono le due

alternative. Oppure ce n’è una

terza: prendi e scappi”

MOLTI SONO STRANITI DA QUESTO EGO TRIP DEI RAPPER. PENSANO CHE SIA SOLO AUTOCELEBRAZIONE SENZA CONTENUTI. E INVECE TI STO RACCONTANDO LA MIA STORIA, STAI ASCOLTANDO LA VITA DI UN’ALTRA PERSONA, TI CI PUOI RISPECCHIARE: È COMUNICAZIONE

ADESSO VORREI CREARE UN’ACCADEMIA PER ASPIRANTI FOTOGRAFI, REGISTI, ILLUSTRATORI O MUSICISTI. AVRANNO LA POSSIBILITÀ DI MISURARSI SUBITO SUL LAVORO E CON NOMI GROSSI

Salmo

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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I TALENT NON FANNO PER ME,

PREFERISCO LA GAVETTA

HO DORMITO SUI PALCHI,

HO MANGIATO MALE, HO FATTO QUALSIASI

LAVOROHO SUONATO

CON UNA BAND HARDCORE METAL

V A L E R I O M I L L E F O G L I E

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L’incontro. Arrabbiati

Repubblica Nazionale 2016-07-10