Documento Politico Rete della Conoscenza 2012

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Il Documento Politico della Rete della Conoscenza, approvato all'unanimità nell'Assemblea Nazionale del 17-18-19 Marzo 2012 a Genova

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Genova, 17-18-19 Marzo 2012

DOCUMENTO POLITICO

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Indice

Tesi 1 – Attacco alla democrazia.................................................................................. 4Tesi 2 – L'Italia del dopo Berlusconi............................................................................. 6Tesi 3 – La crisi economica e finanziaria...................................................................... 8

3.1 – Come siamo arrivati a questo punto............................................... 83.2 – Cosa si può fare subito.................................................................. 103.3 – Un nuovo modello di sviluppo....................................................... 11

Tesi 4 – Tra rivolte arabe e indignados: un nascente movimento globale................... 12Tesi 5 – La conoscenza dopo l'attacco........................................................................ 14

5.1 – Il contesto globale: cambiare i saperi per cambiare il mondo........ 145.2 – Il caso italiano: l'AltraRiforma contro la privatizzazione................. 155.3 – Le prospettive: il mercato della formazione e la ripubblicizzazione dei saperi...............................................................................................17

Tesi 6 – Costruire l'AltraEuropa...................................................................................19Tesi 7 – La stabile precarietà di una generazione....................................................... 22

7.1 – Difendere il welfare, ricostruendolo............................................... 25Tesi 8 – Beni comuni e partecipazione....................................................................... 28Tesi 9 – Crisi ambientale e futuro del pianeta............................................................ 30Tesi 10 – Il nostro impegno antimafia........................................................................ 32Tesi 11 – Donne e potere come verbo e non come sostantivo....................................34

11.1 – Liberi di essere............................................................................ 37Tesi 12 – Antifascismo quotidiano.............................................................................. 41Tesi 12 – Free to stay, free to move........................................................................... 42

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Tesi 1 – Attacco alla democrazia

Da anni denunciamo, insieme ai movimenti di tutto il mondo, l'attacco alla democrazia condotto dai soggetti e dagli attori del neoliberismo globale. Ma quale democrazia è sotto attacco? E a che punto è questo attacco? Cosa c'è da difendere e cosa ancora da conquistare?Per noi la democrazia non è altro che il controllo degli uomini e delle donne sulla propria vita e sul proprio destino, è possibilità di autodeterminarsi, nel rispetto reciproco. Per noi il principio della democrazia è l'uguaglianza politica dentro una comunità, ovvero l'eguale partecipazione di tutti i cittadini alle decisioni politiche. Tale partecipazione è resa possibile dall'opportunità effettiva di co-noscere e di formarsi.Storicamente questo principio si è espresso in forme molto diverse, che aldilà del principio sono sempre state il prodotto dei rapporti di forza vigenti e della mediazione tra questi. La forma con cui la democrazia si è diffusa nell'Europa occidentale nella seconda metà del '900 è solo una di queste, nata dal compromesso tra la logica democratica, e quindi il principio della decisione collet-tiva e partecipata, dal basso, e quella liberale, in cui il meccanismo decisionale è basato sul prima-to dell'individuo, della proprietà private e dell'iniziativa economica individuale.Quest'ultimo rappresenta un evidente limite alla democrazia, dato che stabilisce una sfera in cui la decisione collettiva e il controllo popolare dei cittadini non possono entrare, e in cui si applica un dispositivo di sovranità diverso: mentre all'esterno è sovrano il popolo, nelle sue complesse artico-lazioni, nell'economia è sovrano il proprietario, nel suo arbitrio individuale.Stabilire in che punto si fissa il limite di questo compromesso è forse il nodo più controverso della società contemporanea, ed è per questo che, nell'epoca dell'egemonia liberista, finiscono sotto at-tacco le costituzioni che, come quella italiana, stabiliscono questo compromesso nei punti più avanzati. Non a caso, bensì per precisa scelta politico-simbolica, il governo Berlusconi aveva propo-sto più volte di modificare l'articolo 41 della Costituzione, che tutela la libertà dell'iniziativa econo-mica privata ma vincolandola ad un contesto di interesse sociale condiviso, e non a caso tra le mi-sure richieste dalla Bce, ed entusiasticamente approvate dal Parlamento italiano, c'è anche l'intro-duzione dell'obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione: un altro livello di decisione, la politica economica, viene sottratto alla scelta dei cittadini definito aprioristicamente rendendolo indisponi-bile alla gestione democratica.Questi esempi sono parte evidentemente di un contesto più ampio. La democrazia italiana è stata ed è espressione avanzata di un processo transnazionale che vede il superamento delle forme classiche della democrazia rappresentativa, che seppure più espressione di un potere oligarchico che della sovranità popolare, garantiva quantomeno forme di mediazione tra le istituzioni e le istanze sociali e le lotte che ne derivavano. Oggi, seppur in forme differenti, in tutto il mondo occi-dentale, questo spazio si va chiudendo, non modificando solo il grado di relazione tra singolo e rappresentanza politico-istituzionale, ma incidendo profondamente sui processi collettivi e la loro possibilità di produrre cambiamento. Gli ultimi anni hanno, infatti, dimostrato come purtroppo si sia rotto il nesso tra istanze sociali collettive e capacità delle istituzioni di rispondervi.Fin quando il potere risiedeva nell’ambito della rappresentanza elettiva, per chi lo deteneva, o esercitava, rispondere a specifiche istanze era un passaggio necessario alla conservazione del po-tere, anche laddove la democrazia era decisione delle élite, vi erano dei vincoli che pur strumen-talmente impedivano ai rappresentanti di ignorare i rappresentati. Oltretutto, in altre fasi storiche, delle condizioni economiche più favorevoli, unite a delle politiche di redistribuzione della ricchez-za, avevano permesso di aumentare il potere contrattuale dei movimento sociali, riequilibrando i rapporti di forza vigenti.

Il modello di governo dell'Europa si è completamente piegato alle logiche neoliberiste della finan-

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za. Ogni tentativo di democratizzazione si è esaurito in un nulla di fatto: non solo azzerando il rap-porto tra governati e governanti, ma anche svuotando di potere la stessa azione dei governanti, a vantaggio dei mercati e del potere economico. Per effetto della globalizzazione e dei processi da essa innestati con la trasformazione della governance non si realizza solo la delocalizzazione delle imprese, ma anche la delocalizzazione della democrazia, intesa come trasferimento dei processi decisionali dalle istituzioni rappresentative alle élite economiche globali; ciò porta oltre che un di-seguaglianze e povertà, anche ricattabilità, rabbia e frustrazione. Per rendere funzionali ed efficien-ti tali processi, questo nuovo modello di governo del rapporto tra poteri e popolo si è dotato di di -versi e numerosi dispositivi di controllo. Abbiamo visto negli ultimi trent’anni, non solo l’utilizzo degli strumenti meramente polizieschi e di repressione, ma vere e proprie strategie di disciplina-mento delle vite: dall’utilizzo dei media, come fonte “pedagogiche” e di intorpedimento sociale, al senso di colpa per il debito unitamente al senso di responasbilità per il “bene del Paese”. Il ruolo dei soggetti sociali organizzati, in questo quadro, deve tener conto dell'indeterminatezza degli interlocutori. Se il Parlamento è svuotato di funzioni, il Governo è succube dei flussi interna-zionali del capitale, dell'economia finanziaria e degli organismi sovranazionali, chi è la nostra con-troparte? Chi può rispondere alle nostre istanze? Chi dobbiamo costringere ad ascoltarci? Governi appariscenti e impotenti o organismi inafferrabili e potentissimi?Lo spostamento della sovranità, ai mercati dalla politica non esenta assolutamente quest’ultima da responsabilità; la cessione di sovranità è stata una scelta chiara e consapevole, frutto di un’ideolo-gia, che ha la sua sintesi migliore nella scuola di Chicago, che nel perseguire l’obiettivo di un capi-talismo senza attrito ha rimosso ogni ostacolo, democrazia inclusa.

Ma la crisi della democrazia è anche autoritarismo crescente nella vita quotidiana in tutti i suoi ambiti, basta guardare Pomigliano e Mirafiori,o la riforma dell’Università, o ancora l’organizzazione volutamente frammentata e difficilmente organizzabile del lavoro precario, fino alle lotte territoriali in difesa dell’ambiente e dei beni comuni. Gli spazi della rappresentanza sociale sono soggetti ad un tendenza compressiva che sfiora in alcuni casi a loro chiusura totaleIn questo contesto anche i processi di privatizzazione e deregolamentazione del mercato e i tagli alle risorse economiche sono funzionali alla restrizione degli spazi di democrazia.

Per questa particolare centralità del tema democratico, nelle scuole e nelle università ad esempio, la rivendicazione di nuovi spazi di democrazia non può che essere uno dei cardini di un movimen-to ampio che rivendichi la ripubblicizzazione del sistema formativo, un’alternativa concreta alla ge-stione privatistica di scuole e università. In questo quadro i movimenti devono diventare anticipatori delle possibili declinazioni delle prati-che democratiche aprendo spazi di sperimentazione democratica nelle scuole, nelle università e nei territori.

La crisi economica, a partire dal 2008, ha impresso un'accelerazione ai processi di dismissione del settore pubblico già in atto, che limitano i margini per la contrattazione sociale. Se le Regioni, gli enti locali e gli atenei son sempre più privi di risorse a causa dei tagli del Governo centrale, quale spazio rimane per microvertenzialità e lotte territoriali? Dentro questa crisi democratica ed economica, dentro le sue conseguenze sociali, serve ridefinire obiettivi e percorsi, consapevoli che la trasformazione radicale della società, oggi più che mai ne-cessaria, passa da una lotta di lungo periodo capace, intessendo alleanze sociali vere, di modifica-re i rapporti di forza. In questo, da un lato serve mettere in campo una resistenza contro ogni tor-sione autoritaria del nostro meccanismo costituzionale, già provato da anni di forzata introduzione delle logiche maggioritarie, bipolari e presidenziali, dall'altra è improrogabile la costruzione di spa-zi di democrazia dal basso a tutti i livelli, da quello locale, con la sperimentazione di gestioni par -

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tecipate del bilancio, degli enti pubblici e dei beni comuni, oltre che, ovviamente, di scuole e uni -versità, fino a quello globale, con la rivendicazione di un controllo popolare sulle dinamiche euro-pee e globali, oggi prive di qualsiasi accountability.

Per questo in tutte le contraddizioni delle crisi dobbiamo saperci inserire per riaprire spazi di pos-sibilità per il cambiamento. Spazi reali per cambiamenti reali, consapevoli che un movimento che lotta per riconquistare spazi di democrazia e autodeterminazione o è democratico anche nelle pro-prie discussioni e decisioni o non sarà mai in grado di raggiungere il proprio obiettivo. La battaglia per la democrazia assume quindi per noi una centralità particolare, perché è la battaglia che rende possibile la vittoria in tutte le altre battaglie.

Tesi 2 – L'Italia del dopo Berlusconi

Ormai da anni, nelle nostre analisi politiche sulla crisi finanziaria ed economica, sottolineiamo come essa sta rafforzando in maniera decisiva la tendenza pluridecennale di cessione informale di sovranità da parte delle istituzioni a favore di strutture sovranazionali o direttamente degli stessi gruppi economici e finanziari di rilevanza globale. Il passaggio da Berlusconi a Monti che ha portato in carica il cosiddetto “governo dei tecnici” non è stato quindi espressione di un cambio di fase – ovvero un cambio qualitativo, nel merito del contenuto dell'azione politica – bensì di un'accelerazione nel processo di governo della crisi da parte delle Istituzioni europee per conto delle lobby economiche e finanziarie, un processo con-traddistinto dunque dal palesarsi dell'esautorazione dei tradizionali luoghi del potere. L’insolita popolarità di cui hanno goduto sia Monti sia il suo governo fin dal proprio insediamento è spiega-bile con il diffuso sentimento stratificato negli anni di antipolitica e di sfiducia nei confronti del politica che trova nel binomio Monti - Berlusconi due termini contrapposti: un tecnico sobrio, ele-gante, preparato e competente, “oggettivo nelle sue analisi, non essendo guidato da alcuna ideo-logia”, da una parte, dall’altra un politico volgare, corrotto, incapace e disonesto, che persegue solamente i suoi interessi e non quelli del paese.Certo, il passaggio dal Governo Berlusconi al Governo Monti è stato rilevante dal punto di vista della pratica politica: siamo passati dal becero populismo dell'annuncio mediatico e del consenso artefatto dei sondaggi, al mantra delle 'scelte impopolari', piena espressione dell'elitarismo tecno-cratico. Monti non è meramente un nuovo Berlusconi ripulito degli atteggiamenti ben oltre il limite del folkloristico, del patetico e dell'illegale, rappresenta piuttosto il tentativo da parte della governan-ce economico-finanziaria, che sta adoperando la crisi come dispositivo di accentramento delle scelte, di commissariare una classe politica ritenuta incapace di tutenarle gli interessi. Un anello debole già da decenni, che ha deliberatamente scelto di farsi incrinare dal mercato che in un'altra fase aveva invece provato a regolare e orientare socialmente. Questa rottura è avvenuta tramite un processo istituzionale formalmente legale, che però modifica la Costituzione materiale del Pae-se e ci pone un problema di legittimità politica, e non giuridica degli atti del governo, dato che questi sono frutto di una politica senza alcuna legittimazione popolare che ha anteposto agli inte-ressi dei cittadini gli interessi del 'mercato'.Per quel che ci riguarda non siamo mai stati antiberlusconiani a prescindere, almeno non nei ter-mini con cui l’antiberlusconismo è stato inteso in questi 17 anni. Abbiamo sempre considerato Ber-lusconi e il suo sistema di potere come una degenerazione direttamente conseguente al neoliberi-smo rampante diffusosi in Europa e nel mondo dagli anni ‘80, ma non come la causa di tutti i mali del nostro Paese.Il blocco sociale e culturale costruito dal centro-destra in questi decenni non è altro che il prodotto

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dell'individualismo sfrenato, del culto del 'self made man' e del disprezzo del vivere comune. Spes-so invece il problema è stato ridotto alla sola figura di Berlusconi: un ragionamento senza un reale sbocco politico, un odio di segno opposto ma speculare a chi invece in questi anni si è profuso nel culto del leader.Non abbiamo mai soffiato sulle braci dell'antiberlusconismo quasi trascendentale cavalcato invece da una parte dei movimenti in questi ultimi anni. Questo perché eravamo e siamo convinti che la figura di Berlusconi, per quanto emblematica e rappresentativa di un certo capitalismo all'italiana, promotore di una cultura consumista e post-ideologica fiorita negli anni '80 del secolo scorso, an-dasse 'storicizzata', ovvero inserita in un contesto molto più ampio, che coinvolge una gigantesca trasformazione del potere e del suo esercizio. Abbiamo riservato lo stesso trattamento analitico a Monti e in generale al nuovo corso tecnocratico instauratosi con la caduta di Berlusconi. Storiciz-zare, non trascendere, evitare di essere associati alla vulgata complottista per andare più a fondo nella questione, percependo anche le dissonanze che in questi mesi si sono prodotte rispetto al-l'azione del governo Monti.C'è un'area di dissenso nei confronti del governo Monti anche nella destra conservatrice, e noi la consideriamo un'espressione di conflitti tutti interni alla classe dirigente e a questo modello di sviluppo. Rifiutiamo la logica per cui l'unica opposizione a questo governo possa essere quella delle lobby e delle battaglie corporative di alcune categorie, utilizzate strumentalmente per far ap-parire Monti un coraggioso riformatore. Tra la conservazione e il presunto progresso neoliberista, noi scegliamo un'opposizione sociale per il cambiamento e l'uguaglianza.La grande assente, in questo nuovo scenario politico, è la partecipazione dal basso. Il peso con-trattuale dei movimenti e la sua capacità di imporre l'agenda politica è evidentemente in una fase di compressione. Se nel 2010 il movimento studentesco era stato in grado di parlare a tutto il Pae-se attraverso la questione della precarietà esistenziale, oggi i temi all'ordine del giorno sono quel-li dell'alta finanza, dallo spread e della riduzione della spesa pubblica. Il campo di battaglia non è stato scelto da noi, ma è necessariamente su questi temi che siamo chiamati oggi a confrontarci, tenendo però come punto fermo l'economia reale.La nostra battaglia non si mai ridotta mai all’accettazione dell’alternanza nella continuità. Sappia-mo bene che oggi governo vuol dire quasi certamente “governo dell’austerity”. La nostra opposi-zione e la nostra alternativa stanno nelle piazze di questi ultimi anni, nella vittoria ai referendum di giugno. Lo sapevamo prima e ne siamo ancor più consapevoli oggi in questo contesto di unani-mismo politico e mediatico che appiattisce sempre più il dibattito politico. Nonostante ciò non possiamo accettare un meccanismo di chiusura al confronto che sarebbe spe-culare a quanto abbiamo contestato a tutti gli ultimi governi. Con qualunque governo nazionale, come locale, noi scegliamo una strada fatta di conflitto e confronto, presentando le nostre propo-ste, rivendicando e prendendo parte a momenti di confronto, forti delle nostre proposte e della no-stra indipendenza.Il governo Monti, come qualsiasi altro governo che individui come obiettivo l'attuazione delle im-posizioni della BCE, riducendo il Parlamento al ruolo di mero esecutore dei diktat delle oligarchie finanziarie, ci vedrà nelle piazze a contestare questa gestione della crisi e a proporre un’altra stra-da. E' questa la sfida alla quale siamo chiamati in questa nuova fase della vita politica italiana che non stentiamo a definire post-democratica.Intendendo con questa definizione i regimi caratterizzati da uno svuotamento del ruolo effettivo dei luoghi istituzionali di stampo democratico in favore di un sistema in cui grande rilevanza è as-sunta da centri decisionali non soggetti né alla dipendenza formale da meccanismi di democrazia elettiva né al rendiconto presso i cittadini e che spesso ammantano le proprie decisioni di un’aura di neutralità e di certezza scientifica.

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Tesi 3 -La crisi economica e finanziaria

3.1 Come siamo arrivati a questo puntoL'agosto 2007 ha visto l'esplosione negli Stati Uniti della bolla finanziaria dei mutui subprime, ovve-ro di quei mutui sulla casa che erano stati concessi a persone senza garanzie per mantenere alti i livelli di consumo americani e alimentare così l'economia nazionale. Le banche, consapevoli dei ri -schi portati da questi mutui, li avevano cartolarizzati e poi venduti sotto forma di prodotti finanzia-ri derivati, promossi a pieni voti dalle agenzie di rating.La crisi immobiliare e la svalutazione di questi titoli ha portato molte banche americane (e non solo) ad essere a rischio di fallimento, rischio che nel caso della Lehman Brothers si è concretizza-to con pesanti conseguenze sulla stabilità dei mercati. Sia la Federal Reserve sia il governo USA sono intervenuti massicciamente acquistando titoli tossici per eliminarli dal mercato, creando linee di credito agevolato, organizzando piani per il salvataggio degli istituti a rischio di fallimento. Que-ste misure tuttavia non hanno impedito che la crisi finanziaria si estendesse dagli Stati Uniti al re-sto del mondo e che colpisse anche l'economia reale, soprattutto negli Stati Uniti ed in Europa, causando una diminuzione dei livelli di produzione e l'aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile.

Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la crisi attuale come una crisi finanziaria che solo in un se-condo momento ha avuto ricadute sulla cosiddetta economia reale, ignorando come essa sia in realtà frutto delle contraddizioni scaturite durante la restaurazione neoliberista iniziata tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80. A partire da quegli anni c’è stato infatti il passaggio a forme più flessibili sia nel -la produzione (just in time) sia nel mercato del lavoro (precarietà) che hanno portato ad una dimi-nuzione del potere contrattuale dei lavoratori, che si è concretizzata nella progressiva riduzione del salario reale e dei diritti sul posto di lavoro. A ciò si somma il progressivo smantellamento dello stato sociale, la privatizzazione di molti servizi prima offerti dal pubblico e al ricorso all’indebita-mento per accedervi (paradigmatico in questo è stato il ricorso ai prestiti d’onore per frequentare l’università). Questo genere di politiche è stato accompagnato da un intervento dello stato nell’e-conomia a favore delle imprese e dei grandi patrimoni sotto forma di incentivi e detassazioni che ha paradossalmente fatto crescere il debito pubblico di alcuni paesi, come gli Stati Uniti, in un mo-mento di smantellamento del welfare state.Insomma, la crisi finanziaria è la crisi del finanzcapitalismo, cioè degli strumenti di valorizzazione finanziaria inventati dal grande capitale per uscire dalla crisi precedente, quella degli anni ‘70. E come ogni fase dell’economia capitalista, anche questa ha prodotto i fattori che ne hanno generato la crisi, con la conseguente esplosione del debito.

Nel 2009 la crisi ha subito un'ulteriore svolta a causa del “caso greco”. Una volta insediatosi il go-verno Papandreou ha reso noto che il deficit pubblico greco era più di tre volte superiore a quello dichiarato dal governo precedente che aveva truccato i conti. Questo annuncio ha aperto la cosid-detta “crisi dei debiti sovrani” mettendo in luce le profonde contraddizioni interne all'unione mo-netaria europea, che da un lato vincola fortemente le politiche fiscali dei paesi aderenti attraverso le norme del Trattato di Maastricht, dall'altro non prevede meccanismi per salvare gli stati a rischi di fallimento, lasciandoli quindi totalmente in balia dei mercati. La gravità della situazione greca ha reso necessario un intervento: alla Grecia sono arrivati 110 miliardi di euro vincolati all’approvazio-ne immediata di politiche di austerity ed è stato creato a livello europeo un fondo salva-stati di 750 miliardi di euro per il sostegno dell’intera Eurozona. La politiche di austerità fiscale imposte alla Grecia com'era facilmente immaginabile, hanno peggiorato drammaticamente la situazione sia da un punto di vista sociale (dato l'aumento della disoccupazione, il licenziamento in massa di di-

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pendenti pubblici e lo smantellamento dello stato sociale), sia da quello economico perché il pae-se ha entrato in una profonda recessione che lo ha portato recentemente a un sostanziale default.Questo dimostra il carattere quanto mai rapace delle elité finanziarie, le quali, avendo fin dall’ini -zio coscienza dell'inevitabile fallimento della Grecia , hanno comunque cercato in tutti i modi di procrastinare lo stato di insolvenza, con la conseguenza di diminuire i diritti sociali dei lavoratori, e per lucrare su cospicui interessi così percepiti. La Grecia è stata dunque sacrificata al fine di re -cuperare i margini di profitto perduti durante la crisi speculativa precedenteLa Grecia non è rimasta un caso isolato: il Portogallo, la Spagna e l'Italia (che con la Grecia e l'Irlan-da sono stati definiti paesi PIIGS) si sono trovati presto ad essere ugualmente in difficoltà e si sono visti imporre misure di austerità simili a quelle che sono state imposte alla Grecia. Successivamen-te l'attenzione si è spostata in generale sui debiti pubblici degli stati dell'Eurozona, andando a toc -care anche paesi che sembravano insospettabili come la Francia, debiti pubblici che in questi anni sono cresciuti soprattutto a causa delle somme che gli stati hanno destinato ai salvataggi delle banche e degli istituti finanziari e alle, pur scarse, insufficienti ed erronee, politiche di rilancio del-l'economia, oltre che, in minima parte, alla maggior spesa per lo stato sociale dovuto alla crisi e al-l'aumento della disoccupazione. Le stesse agenzie di rating, perno dell'attuale vortice speculativo, che avevano promosso a pieni voti i titoli finanziari che poi hanno scatenato la crisi e gli istituti fi-nanziari che sono stati salvati dagli stati ora attaccano gli stati perché sono troppo indebitati.

Con la scusa della “crisi del debito pubblico”, quindi, ora si forza l’implementazione di nuove poli-tiche di austerity in tutto il continente, di cui l’intesa sul fiscal compact rappresenta la punta più avanzata. Anziché metter mano a quel Patto di Stabilità e Crescita più volte dichiarato “stupido” da influenti economisti e politici e violato per la prima volta proprio da parte dei rigoristi tedeschi e francesi, il Consiglio europeo ha ribadito la necessità di procedere ad una maggiore integrazione fi -scale dei paesi dell'Eurozona (più altri sottoscrittori dello stesso) vincolandosi ad irrealistici piani di rientro annuali che non tengono in considerazione gli effetti recessivi che tali manovre compor-tano. In particolar modo, uno degli impegni che i singoli Stati membri stanno progressivamente adottando è quello della costituzionalizzazione dell'obbligo del pareggio di bilancio e della sosteni-bilità del debito pubblico, che determinerebbe la fine di quelle politiche di defitict-spending di key-nesiana memoria che, proprio in un contesto di crisi derivante da contrazione dellla domanda in-terna e di aspettative non rosee, risulterebbero essere necessarie economicamente oltre che so-cialmente, per il raggiungimento della piena occupazione, come nello spirito dell'art.4 della Costi-tuzione Italiana e in antitesi al mantra liberista.Tale processo ovviamente deve avere una prospettiva sovranazionale ed europea, considerando che ora come ora è impensabile immaginare un cambiamento sul piano statale, slegato dalle con-dizioni generali dell'eurozona, date le condizioni del Capitale le cui dinamiche superano i confini nazionali.Eppure la “crisi del debito pubblico” non è affatto la naturale conseguenza delle politiche sociali o del “buonismo dello stato”, come ha infelicemente dichiarato il presidente del consiglio Monti.

Infatti, nonostante le conquiste dello stato sociale siano per lo più ascrivibili agli anni ’60 e ’70, è negli anni ’80 che il rapporto debito/pil praticamente raddoppia. A dimostrazione che l’espansione del debito non è stata causata da un welfare state troppo generoso, come sostengono i liberisti, e nemmeno soltanto dai costi della corruzione provocata dall’ingordo sistema partitocratico, bensì a causa dell’aumento del costo dei titoli di debito da parte dello Stato. La scellerata decisione di pro -cedere al “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro, nel 1981, ha proibito a quest’ultima di comprare a prezzi “politici” i titoli di Stato rimasti invenduti. Ciò ha quindi determinato l’intromissione delle banche private che hanno lucrato su quanto lo Stato riceveva (prima) quasi gratuitamente, provo-cando l’aumento degli interessi sul debito e quindi nel medio-lungo periodo, l’ammontare dello stesso.

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È perfino discutibile che esista una sola tipologia di crisi fiscale in tutto il continente. Si tratta in-fatti di fenomeni molto diversi: di bilanci truccati in Greci (avallati anche dalle agenzie di rating e da banche d'affari internazionali) a, di costosi salvataggi delle banche in Irlanda, dell’eredità del passato in Italia. Ciò che è comune a tutti questi paesi è l’impossibilità di rifinanziare il debito come fa chiunque altro al mondo, cioè per via monetaria. Il processo di integrazione europea ha messa in comune la moneta, ma non il suo strumento di controllo, cioè una banca centrale che ri-sponda a interessi democratici e non a quelli delle banche private, ma non il debito. L’Italia, quin-di, si trova con più o meno lo stesso rapporto debito/Pil di 20 anni fa, ma, con l’euro, non può più rifinanziarlo a tassi d'interesse ragionevoli. E se non si risolverà questo squilibrio centrale nel pro-cesso di integrazione europea, che avvantaggia solo la Germania, non ci sarà alcuna austerity in grado di risolvere la crisi del debito pubblico.

Il caso italiano, del resto, è emblematico, perché non c’è stato alcun collasso finanziario privato, ma semplicemente un attacco speculativo nei confronti del nostro debito pubblico molto elevato, un debito pubblico cresciuto straordinariamente a partire dagli anni '80. L'Italia costituisce su que-sto un caso diverso da quello americano, poiché la politica di detassazione dei grandi patrimoni ha avuto un minore impatto sulle finanze pubbliche, dato che la tassazione in Italia è rimasta relativa-mente progressiva. Tale differenza è stata ampiamente però compensata dall'evasione fiscale. Nello stesso modo l'Italia non ha avuto un ruolo particolarmente attivo nel salvataggio di istituti finan-ziari, come altri paesi che hanno visto salire per questo il loro debito pubblico, non bisogna però dimenticare che il nostro paese ha una consolidata tradizione nell'arte di “privatizzare i profitti e socializzare le perdite” di cui la FIAT, per fare un esempio, ha spesso beneficiato.La sfiducia dei mercati finanziari verso l'Italia, che si è manifestata attraverso la crescita dello spread tra i BTP e i Bund tedeschi, ha creato un certo allarme in Europa, essendo il nostro paese “troppo grande per fallire”. La Banca Centrale Europea è intervenuta più volte, comprando titoli di stato in cambio di politiche di austerity.L'azione poltica degli ultimi mesi del governo Berlusconi e dei primi mesi del nuovo governo è as-solutamente analoga a quelle dei governi di altri paesi europei, come il Portogallo, la Grecia, la Spagna: riforma del mercato del lavoro, riforma delle pensioni... Questi interventi non segnano al-cuna discontinuità, né la vogliono segnare, rispetto alle politiche che negli ultimi decenni sono sta-te portate avanti e che hanno portata alla crisi attuale, attraverso l'aumento delle diseguaglianza, la precarizzazione del mercato del lavoro, l'indebitamento privato per accedere a ciò che prima ve -niva garantito dallo Stato.

3.2 Cosa si può fare subitoNei mesi in cui lo shock della crisi era ancora fresco e in cui il sistema di Wall Street è stato più volte sul punto di crollare, più voci si sono levate a denunciare i danni della finanziarizzazione del-l'economia e ad invocare una riforma che vietasse l’utilizzo di alcuni strumenti finanziari, che rive-desse le concentrazioni di capitale e le formazioni di oligopoli finanziari, too big to fail, spinti ad adottare comportamenti estremamente rischiosi, certi di un futuro salvataggio da parte dello Stato. Eppure sono pochi i paesi in cui siano state fatte riforme del mercato finanziario e anche dove sono state fatte, come negli Stati Uniti, esse sono ben lontane dall'essere radicali e risolutive. Vi -viamo il paradosso per cui il capitalismo finanziario è passato dall'essere il colpevole della crisi al-l'essere chi dà le soluzioni per uscirne, le agenzie di rating che non troppi mesi fa erano sotto ac-cusa per aver promosso a pieni voti i titoli tossici ora sono il principale giudice delle politiche degli stati.

Dal punto di vista, invece, delle politiche portate avanti dagli stati europei per fronteggiare la

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crisi,pesa fortemente, la posizione intransigente della Germania, che, avvantaggiatasi del libero mercato europeo, rifiuta oggi rigidamente ogni possibile riforma istituzionale e continua ad imporre misure irragionevoli come il pareggio di bilancio in costituzione, correndo il rischio così di minare fortemente al grado di coesione sociale e tolleranza tra i paesi europei.

Per correggere i comportamenti criminali del finanzcapitalismo ci sono alcuni provvedimenti che dovrebbero essere subito messi in atto: la regolazione degli strumenti finanziari, una pianificazione economica a livello europeo, la divisione tra banche d'investimento (che devono tornare sotto il controllo pubblico) e banche creditizie, la ripubblicizzazione in Italia della Cassa Depositi e Prestiti, il recupero di un forte ruolo pubblico nell’economia tramite la Bce, riportata sotto il controllo di or-gani democratici di livello europeo, la ripubblicizzazione delle banche centrali e degli asset strate-gici per lo sviluppo (infrastrutture, energia, ecc.), la realizzazione di un audit sul debito che ne de-finisca la composizione, l’eliminazione dei credit default swap e di altri strumenti che consentono di scommettere sul fallimento di un titolo o di un’azienda, l’introduzione di standard retributivi di livello europeo e di una tassa sulla transazioni finanziarie e soprattutto la condivisione a livello eu-ropeo di una politica fiscale comune che abbia come obiettivi una redistribuzione della ricchezza e la conversione ecologica e sociale dell’economia.

3.3 Un nuovo modello di sviluppoIl Presidente della Banca Centrale Draghi, in un’intervista ha dichiarato che il modello sociale euro-peo è morto. In effetti, assistiamo oggi al più violento attacco ad un’idea (peraltro rimasta in gran parte incompiuta) di welfare state e di società in cui alcuni servizi essenziali (come la sanità,un'i-struzione pubblica e di qualità) sono garantiti a tutti ed alcuni diritti sono inviolabili, come il diritto ad un lavoro dignitoso e ad un reddito stabile, tale da garantire una condizione di vita soddisfa -cente ed una prospettiva futura certa.La recente riforma del mercato del lavoro in Spagna, la riduzione dell’indennità di disoccupazione e del salario minimo in Grecia, il forte aumento delle tasse universitarie in Inghilterra,la discussio-ne sull'articolo 18 in Italia, sono tutte espressione della stessa matrice ideologica che appare oggi molto più forte di quanto fu nel 1929.Di fronte ad una classe politica che appare oggi per lo più miope e incapace di leggere gli avveni -menti, è fondamentale che i movimenti sociali, gli studenti e i lavoratori che hanno perso negli ul-timi anni diritti, tutele e potere contrattuale, premano per imporre dei profondi cambiamenti all’in -terno del sistema economico mondiale, consapevoli che non è con semplici correttivi finanziari che usciremo dalla crisi. Se l'adozione di strumenti keynesiani di finanza pubblica, ed un audit sul de-bito, sono assolutamente necessarie e urgenti per fermare gli effetti dell’austerity e salvare dal dramma del default sociale le popolazioni d’Europa, dobbiamo sapere che tutto ciò che non è suf-ficiente.Dobbiamo immaginare e praticare, attraverso l'analisi, l'elaborazione, la controinformazione e il conflitto, una radicale inversione di tendenza, in grado di rivoluzionare l'universo del possibile. Non ci basta tamponare un sistema che sta portando il mondo verso un drammatico collasso che prima di essere economico sarebbe ecologico e demografico. La ripresa del ruolo pubblico nell’eco-nomia che chiediamo dev’essere parte di un generale piano di ribaltamento del nostro sistema economico, in grado di mettere la giustizia sociale e ambientale, l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani e la libera produzione cooperativa al centro della società. Come studentesse e studenti dob-biamo sentire su di noi la responsabilità di prendere in mano il presente per pensare un futuro completamente differente, a partire dalla difesa dei beni pubblici come l’acqua e l’ambiente che non possono diventare fonti di profitto, fino alla costruzione di un modello sociale radicalmente di-verso, libero dalle logiche del profitto, verso un'orizzonte di uguaglianza ed emancipazione colletti-va.

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Tesi 4 -Tra rivolte arabe e indignados: un nascente movimento globale

In molti paesi il 2011 è stato caratterizzato da un grande risveglio della partecipazione dei giovani nella vita politica e sociale. Abbiamo visto movimenti, non esclusivamente giovanili ma che hanno indubbiamente visto una forte caratterizzazione generazionale, hanno riempito le piazze di molti paesi del mondo: dalle piazze della “primavera araba” all'autunno di Occupy Wall Street passando per le manifestazioni degli studenti in Cile e le acampadas spagnole ed europee. Si tratta di movi-menti profondamente diversi tra di loro e con profonde contraddizioni al loro interno, anche a causa delle differenze esistenti tra i contesti in cui si sono inseriti, e troppo spesso abbiamo assi -stito a semplificazioni eccessive nell’accostare Zuccotti Park a Piazza Tahir.

Tuttavia si possono riscontrare alcuni elementi comuni. Un primo elemento è appunto la composi-zione anagrafica, la grande partecipazione di giovani che hanno voluto in questi movimenti dare la spinta per un grande cambiamento nel loro Paese, cambiamento che - occorre dirlo – non è sempre avvenuto. Altri elementi si possono trovare nelle cause di questa straordinaria partecipa-zione. Con tutte le semplificazioni necessarie, non si può non notare come questi movimenti sia-no pervasi da una questione generazionale: l'impossibilità di raggiungere le aspettative che per anni sono state promesse e garantite come raggiungibili. Di fatto, un disagio sociale tutt'altro che nuovo diventa sempre meno tollerabile per generazioni più istruite e meno disposte a sopportare, di fronte a fenomeni come l'inflazione dei beni primari, una delusione delle proprie aspettative di realizzazione personale. La neo-laureata statunitense che sente gravare sulla sua testa il peso dei debiti d'onore, lo studente cileno che reclama un'istruzione pubblica e gratuita, il giovane tunisino che non riesce a trovare un lavoro, la ragazza di Barcellona che deve confrontarsi con tasso di di -soccupazione giovanile superiore al 40% appaiono uniti da un filo rosso. In modo diverso, sono giovani a cui sono state vendute illusioni e che, alla prova dei fatti, si sono rivelate ciò che erano. I contenuti che erano stati portati dal movimento globale, partito nel ‘99 a Seattle, ricompaiono ora con maggiore urgenza, rispetto a 10 anni fa. Le previsioni e le parole d’ordine che risuonava-no nei giorni di Genova sembrano ora sempre più esatte: l’aumento delle disuguaglianze globali, i pericoli della finanziarizzazione dell’economia sono oggi più che ma una realtà. Chi in Europa e negli Stati Uniti protestava in quegli anni contro i piani d’intervento strutturale del FMI nel Terzo Mondo si trova ora a contestare l’introduzione di quelle stesse misure nel proprio Paese. I giovani europei e americani che hanno protestato in questi mesi sono la generazione che, nono-stante sia mediamente più istruita e più formata rispetto ai propri genitori, si troverà probabil -mente ad essere la prima generazione ad avere un tenore di vita inferiore alla precedente. La pre-carietà del mondo del lavoro, i crescenti tagli alla spesa pubblica (di cui questa generazione ha spesso già provato sulla propria pelle quelli al mondo dell'istruzione e dell'università), le politiche di austerity statunitensi ed europee portano in quella direzione.Si tratta principalmente di ragazzi e ragazze che sono cresciuti e si sono formati negli anni del “non c’è alternativa”, gli anni dell’ideologica retorica della “fine delle ideologie”. Chiedere una scuola pubblica, gratuita e di qualità in Cile, mettere in discussione il neoliberalismo e il capitali -smo di fronte a Wall Street o nelle aule di Harvard significa rompere un paradigma che per 30 anni in pochi hanno contrastato.

Un secondo elemento è il contesto economico, o meglio le politiche economiche a cui il popolo egiziano e quello tunisino, similmente ai popoli occidentali, sono stati sottoposti negli ultimi 30 anni. Politiche di chiaro stampo neoliberista, promosse e riconosciute da organismi come l'FMI e la Banca Mondiale che in più occasioni, anche alla vigilia delle rivolte, hanno elogiato le politiche economiche e persino sociali, dei regimi di Ben Ali e Mubarak, legittimandoli e candidandoli come Paesi guida per gli altri dell'area. Privatizzazioni selvagge, deregulation, ritiro del pubblico dalle

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politiche sociali, come quella sanitaria e dell'istruzione, unite a tratti più caratteristici dei due re-gimi come corruzione e autoritarismo di governo e forze di sicurezza, hanno prodotto un clima e una situazione socio-economica di oggettiva instabilità, che trova molte analogie con le scintille scoppiate nei paesi occidentali.

Questo complesso mosaico, in cui spesso è più facile cogliere le differenze rispetto alle affinità, non è riuscito ancora, nonostante i tentativi, a creare un movimento globale che si contrapponga alle ricette neoliberaliste e alle politiche di austerity. Le primavere arabe come le acampade spa-gnole, tanto quanto le rivolte rivolte greche e le mobilitazioni italiane sono state nei diversi Paesi dei fenomeni straordinari; tuttavia l’esito politico delle tensioni che i movimenti sociali, nelle loro diverse forme, hanno messo in campo in questi anni, è andato però nella direzione opposta. I vari governi Papademos e Rajoy , lo stesso Monti, e il governo in Egitto del partito dei fratelli mu-sulmani sono l’emblema di come i poteri forti abbiamo saputo strumentalizzare il consenso creato dai movimenti a proprio favore. Questi elementi ci fanno riflettere su un duplice aspetto: l’assen-za di una rappresentanza politica degna a sinistra, capace di rappresentare e di raccogliere le esi-genze di trasformazione che vengono dalle piazze, permette alla destra di utilizzare il consenso creato dai movimenti per poi governare nell’esatta opposta direzione. Il secondo aspetto è che solo costruendo una connessione globale tra i movimenti possiamo fare in modo che le istanze producano vittorie. Del resto ad un attacco globale bisogna rispondere in forma globale. In questa direzione è andata sicuramente la data del 15 ottobre, lanciata dagli indignados spagnoli e accolta in quasi 100 Paesi, tra cui l'Italia. Se in alcuni casi il 15 ottobre è stata soprattutto una data sim-bolica che ha visto una scarsa partecipazione, in altri invece (Italia, Spagna e Portogallo per citar-ne alcuni esempi) è stata l'occasione per manifestazioni di massa che hanno o avrebbero potuto essere di rilancio per un movimento contro un modello sociale ed economico in crisi.La manifestazione di Roma è stata la più grande della giornata internazionale, ma non ha avuto alcuna funzione di rilancio. La volontà miope e politicista di una piccola parte del corteo, che ha fatto prevalere le piccole divisioni tra aree di movimento rispetto alla grande mobilitazione che poteva nascere da quella giornata, ha bloccato sul nascere la possibilità di aprire una fase di mo-bilitazione generale che raccogliesse il portato delle varie battaglie portate avanti negli ultimi anni (gli studenti contro la Riforma Gelmini, i lavoratori contro il modello Marchionne, coloro che si erano mobilitati per i referendum).Un movimento con queste caratteristiche è oggi più che mai necessario, di fronte ad un governo che sfrutta la crisi e lo spread per portare avanti politiche e riforme che seguono pedestremente il solco di quelle riforme e di quelle politiche che ci hanno portato alla crisi attuale.Oggi più che mai è necessario creare le condizioni per movimenti sociali in grado di rappresentare fasce e anagrafiche e sociali differenti ma accomunate dalla medesima critica al sistema economi-co e sociale, ancora intorpidite dalla fine dell'era berlusconiana.Qualunque tentativo di far rinascere un vasto movimento di opposizione sociale in Italia non però prescindere dall'affrontare alcuni nodi che strutturalmente interessano i movimenti sociali: prima ancora del tema delle pratiche viene, infatti, il tema della democrazia all'interno del movimento.Al netto delle differenze di composizione e contesto, il movimento degli indignados spagnoli e le esperienze Occupy hanno posto il tema della democrazia interna come prioritario, diversamente in Italia risulta difficile affrontare serenamente la domanda “come decidiamo cosa fare?”. È neces-saria una riflessione su quali debbano essere i luoghi decisionali di un movimento e quali regole si debbano dare. Così come è necessaria una riflessione sulle pratiche – non solo su quelle di piazza – che possa conciliare il conflitto con il consenso, l'allargamento e la condivisione con la radicalità e l'efficacia, superando i riti stanchi e le prassi consolidate.Il movimento per riprendersi non ha solo bisogno di individuare date su cui proiettarsi per creare mobilitazione di massa ma deve essere in grado di generare una lotta costante che unisca radica-lità e partecipazione raccogliendo e inglobando le esperienze di lotta dal basso come quella con-tro la Tav e le esperienze di mutualismo e solidarietà.

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Non possiamo però pensarci ancora chiusi nelle piccolezze della sinistra sociale e politica italiana. Serve invece rilanciare un respiro e una dimensione internazionale, non solo per uscire dalle sec-che di un dibattito asfittico, ma perché sentiamo l’esigenza concreta di un movimento realmente internazionale. Non possiamo neanche accontentarci di un piano coordinato di mobilitazioni, in cui le date vengono lanciate da un singolo paese/movimento, e poi raccolte dagli altri, senza o con pochi spazi di discussione collettiva. Serve invece riprendere dalle stagioni passate la capaci-tà di discussioni internazionali, senza confini, in cui far circolare, idee, pratiche, e costruire riven-dicazioni che valichino i singoli confini e inizino a disegnare un’idea alternativa di mondo. Pertanto è necessario un impegno da parte dell’area internazionali nel seguire e informare sui movimenti di opposizione sociale, non solo studenteschi, che si sono sviluppati negli ultimi mesi o che si svilupperanno in futuro e nel rafforzare e stringere nuove relazioni con con i movimenti, anche partecipando attivamente ad eventuali incontri internazionali.

Tesi 5 -La conoscenza dopo l'attacco

5.1 Il contesto globale: cambiare i saperi per cambiare il mondoGuardare dentro i saperi, dentro i meccanismi e i processi che investono questo campo così cen-trale nella società contemporanea, per le nostre organizzazioni, significa provare a fare un salto di qualità nell’analisi e, insieme a questo, una lotta di trasformazione e di liberazione radicale.Per chi, infatti, è radicato nelle scuole e nelle università analizzare cosa sono e in che direzione vanno le conoscenze significa anche partire dal proprio vissuto; significa partire da chi ha subito e subisce in maniera diretta, sulla propria pelle, non solo l’attacco al libero accesso alle conoscenze e i processi di distruzione del sapere pubblico, ma anche la recinzione delle conoscenze e la loro mercificazione.Riflettere sui saperi, alla luce dell’attacco diretto al sistema formativo italiano portato avanti dal governo Berlusconi tra il 2008 e il 2011, interpretarli come accelerazione e compimento del proces-so bipartisan di decostruzione della libera conoscenza e del valore pubblico della formazione negli ultimi 20 anni. Questa è una condizione necessaria per cogliere appieno il ruolo del sindacato stu-dentesco all’interno del panorama nazionale ed europeo.In questo contesto ci poniamo l'obiettivo di essere una spinta radicalmente contraria e nello stesso tempo trasformatrice dei luoghi della formazione, non quindi per difendere lo status quo, ma per creare conflitto e rappresentare istanze per la liberazione dei saperi e, quindi, delle nostre identità collettive.Le macerie lasciate dalle politiche liberiste internazionali ed europee, tramite i G.A.T.S. e la Direttiva Bolkestein, meccanismi di sdoganamento dell’omogeneizzazione dei processi di privatizzazione dei servizi essenziali (e quindi della formazione), ci consegnano un’Europa devastata da un aumento drammatico della tassazione scolastica e universitaria in alcuni paesi, in altri lo smantellamento dei sistemi del diritto allo studio, in tutti l’ingresso nelle scuole e nelle università dei privati, delle imprese e in generale delle logiche della gestione aziendale mirata al profitto.Al processo di privatizzazione delle conoscenze, si unisce, in questa fase, il neofeudalesimo del li -berismo economico che punta a mettere al servizio delle imprese la qualità della produzione di sa-pere. Il sapere schiavo del mercato è il sapere che produce le armi, le macchine inquinanti, la co-struzione selvaggia, le idee recintate e brevettate, i meccanismi rapinatori e violenti che sono alla base di questa crisi. I grandi manager d’azienda, gli uomini e le donne dell’alta finanza, quelli che rappresentano l’espressione della presunta eccellenza delle università private, sono non solo i pri-mi responsabili di questa crisi, ma il frutto, il risultato lampante della formazione e della produzio -ne del sapere serva delle logiche del mercato, mascherati dietro alla retorica di slogan come “meri -

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to” ed “eccellenza”. Sono i figli dell’università privata, di un sapere che è andato nella direzione del produrre conoscenze utili al liberismo economico; a loro è stato chiesto ed imposto di studiare, di ricercare in pochi e per pochi, nella direzione dell’accumulazione capitalista e non dell'emanci-pazione umana, dell’uguaglianza sostanziale e della giustizia sociale. Questi processi, di distruzio-ne del valore pubblico della formazione e della produzione chiusa e formalizzata delle conoscenze, non sono un puro caso. Le trasformazioni del capitalismo, l’aver creato nuovi meccanismi di accu-mulazione di ricchezza, stanno alla base dei processi di esclusione sociale da una parte, dall’altra della precarizzazione del lavoro cosiddetto immateriale. Il grande saccheggio che sta alla base del-la natura stessa del capitalismo, cioè l’espropriazione di ricchezza dal lavoro, oggi diventa un furto dell’intera esistenza, e quindi in primo luogo, del sapere e delle sue forme di produzione sociale.Del resto, creare un sistema classista e gerarchico di accesso alle conoscenze, ha questa duplice funzione: determinare sulla base delle possibilità di accesso una selezione sociale ben precisa, vol-ta a creare sia un grande esercito di riserva di precari e sia un sistema di ricerca e di conoscenze basate su una produzione brevettata, formale e competitiva.

Il governo Monti è prodotto ed espressione paradigmatica di questa concezione tecnocratica del sapere, che si fa scudo del principio di autorità della propria competenza spacciando il proprio punto di vista come assolutamente migliore e fugando così ogni possibilità di essere rimesso in di -scussione.A questa concezione autoritaria del sapere dobbiamo saper contrapporre un’idea del sapere come il luogo che al contrario è massimamente permeabile alla critica e si arricchisce nel confronto dia-lettico invece che fuggirlo.

La natura invece dei saperi non è una natura formale, tutt’altro. Le conoscenze e i saperi che si formano sono frutto di un atto cooperativo e sociale; i linguaggi, soprattutto grazie alla rete hanno la capacità di diffondere, di socializzare e modificarsi con una velocità non arrestabile; i saperi sono processi ibridi, informali, ma soprattutto non recintabili. Per quanti recinti si possano porre, la conoscenza non potrà mai essere un terreno che ha delle proprietà ristrette e definite. Le leggi restrittive sulla proprietà intellettuale e l’attacco alla libera circolazione delle informazioni in rete rappresentano, in questo senso, uno degli aspetti dell’attacco alla conoscenza.

La caratteristica di bene pubblico del sapere, per quanto congegnale al progredire del sapere stes-so, non può essere data per scontata come una sua proprietà intrinseca, ma come il risultato di scelte politiche. Non è dunque una cosa che possiamo semplicemente constatare, quanto piuttosto come qualcosa da difendere e rivendicare.Liberare le conoscenze, per la nostra organizzazione, è una sfida ampia e complessa. Dobbiamo avere la capacità non solo di difendere scuole e università pubbliche, ma anche di trasformare questi luoghi, di rompere i linguaggi e le forme imposte dal liberismo economico. Bisogna oltre che lottare per il libero accesso e il valore pubblico della formazione, anche battersi per riconvertire la produzione del sapere, verso una produzione sociale che miri alla riconversione ambientale, alla redistribuzione della ricchezza, a un nuovo modello di società e di economia. Cosa si studia, che saperi si producono, in che direzione va la ricerca, è la sfida che dobbiamo cogliere per costruire giustizia sociale e uguaglianza sostanziale, una sfida di trasformazione radicale dei processi che hanno smantellato diritti, privatizzato risorse, beni e servizi.

5.2 Il caso italiano: l'AltraRiforma contro la privatizzazioneI processi europei di privatizzazione della formazione e di feudalizzazione del sapere che l’hanno piegata alle logiche del mercato hanno inevitabilmente una ricaduta sul piano italiano.Il movimento studentesco, fin dalla contestazione della Pantera alla riforma Ruberti nel 1989-'90, ha indicato chiaramente il processo in corso: le scuole e le università vivono il dramma profondo

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dello smantellamento della qualità formativa, della dismissione di quel minimo sistema di diritto allo studio esistente, della fine dell'idea dell’educazione di massa come modello di emancipazione sociale e collettiva dell’intero Paese.Negli ultimi due decenni, i governi di centrodestra e di centrosinistra sono andati avanti come un carro armato, riscrivendo completamente l’idea della formazione pubblica. A 20 anni dalla sua en-trata in vigore, possiamo dire che l’autonomia scolastica e universitaria si è rivelata un processo devastante: anziché essere un meccanismo in grado di ampliare l’apprendimento, valorizzare com-petenze ed esperienze, accrescere gli spazi di democrazia e autogoverno, ha indirizzato scuola e università verso quell’aziendalizzazione sfrenata, che, con la legge Gelmini, legittima l’ingresso dei privati nelle università, così come il governo Berlusconi ha tentato di fare anche nelle scuole.La subordinazione del sistema formativo italiano alle logiche del lavoro precario è ben evidente nella scuola, il cui indirizzo è sempre più settoriale, basato su poche competenze specifiche, in modo tale da orientare i futuri lavoratori verso un modello produttivo basato sull’assenza di diritti e tutele. L’idea di ridurre le ore nei tecnici e nei professionali, abolendo completamente la terza area, va proprio nella direzione di creare un vero e proprio “esercito di riserva”, senza competenze vere e quindi disponibile a fare qualsiasi tipo di lavoroLa grande selezione sociale, in cui influisce anche un fattore di natura culturale, quindi comincia qui: a 13 anni, al bivio della scelta tra liceo, tecnici e professionali, oppure la formazione professio-nale e l’apprendistato, i “non canali formativi” che prevedono solo una formazione lavorativa, sen-za garantire livelli, anche solo minimi, d’istruzione. Quella che chiamiamo “precanalizzazione pre-coce” ha il primo effetto di scremare un’intera fascia di adolescenti: chi continua gli studi, chi ac -quisisce un livello minimo di competenze e chi è inserito direttamente dentro il mercato del lavo-ro, anche se minorenne. L’assenza di politiche di sostegno agli studenti medi ha come effetto di imporre una rigidità sociale della selezione: chi ha la famiglia in grado di mantenere gli studi fino all’università, chi invece deve fermarsi al diploma e chi invece è costretto ad abbandonare la scuo-la, non avendo né possibilità economiche, né dispositivi culturali in grado di far comprendere l’im-portanza di una minima formazione culturale.Dentro questo schema, c’è la scuola di tutti i giorni. La situazione disastrosa delle strutture scola -stiche, che mettono a rischio la vita degli studenti ogni giorno, e l’assenza di laboratori e palestre pregiudicano notevolmente la qualità della didattica; una didattica che ha come impostazione l’i-dea frontale dell’insegnamento, fatta di nozioni parcellizzate, con un modello di valutazione capa-ce solo di classificare gli studenti (l’idea dei crediti), autoritaria (il limite delle 50 assenze) e re-pressiva ( il voto di condotta).Ma questi modelli e queste strutture si riprongono in maniera non molto diversa anche all'univer-sità. Il modello dei test d’ingresso si configura come il secondo grande momento d’iniquità sociale: porre all’ingresso dei percorsi formativi barriere sociali o giuridiche, in modo tale da costruire sog-getti sociali diseguali. Diminuendo il numero all’ingresso, non solo si impedisce agli studenti di ac-cedere liberamente a ciò che desiderano studiare, ma si indirizzano e si qualificano in maniera de-terminata alcune competenze e professioni, rispondendo agli interessi specifici di caste e corpora-zioni.Il modello di governance disegnato dalla legge 240, inoltre, concilia alla perfezione l’aziendalismo, con l’ingresso dei privati, e l’autoritarismo, con l'accentramento delle funzioni nelle mani di rettori a baroni a danno delle rappresentanze di studenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo. Il taglio indiscriminato, e senza valutazione alcuna della differenza tra i corsi di laurea necessari e quelli davvero superflui, dà poi l’idea malata di un’efficienza diretta ai numeri, che restringe note-volmente il campo universale delle conoscenze, a cui l’università è invece chiamata a dare rappre-sentanza.

Lungi dall’invertire la rotta rispetto al solco tracciato dal governo precedente, il ministro Profumo lo sta percorrendo portando avanti scelte politiche di ridimensionamento e gerarchizzazione del siste-

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ma universitario pubblico, camuffandole da operazioni tecniche di “razionalizzazione e valutazio-ne”.Gli spazi e i tempi della formazione si riducono sempre di più. I luoghi della formazione diventano dei fast food, dove ingurgitare in fretta e furia pacchetti di competenze, e da dove bisogna uscirne il prima possibile. Dalle lezioni, agli esami, si riduce fortemente lo spazio di socializzazione dentro le università con l’obiettivo di ridurre sensibilmente una composizione sociale in grado di essere forza collettiva trasformatrice tanto dei saperi stessi, quanto della società. Del resto, le università pubbliche sono oggetto di sempre più forti processi di privatizzazione, che corrispondono ad un modello classista e gerarchico di accesso al sapere, unito al disinteresse nell'investire nell'universi-tà sia a livello culturale che a livello economico e politico.L’aumento della tassazione universitaria e lo smantellamento del diritto allo studio, con l’ignominia dell’esistenza dei soggetti “idonei e non beneficiari”, consegnano ai dati sociologici un incremento elevatissimo dei casi di dispersione universitaria. Chi non abbandona, invece, è vessato da affitti altissimi, costretto a lavorare senza contratto, o con una delle tante tipologie contrattuali che ridu-cono diritti e salari in cambio di sfruttamento e asservimento.Ma la precarietà attraversa già i nostri percorsi formativi: i percorsi di alternanza formazione-lavoro e gli stage, nelle scuole, corrispondono molto spesso a forme di lavoro minorile legalizzato, e nelle università a vere e proprie forme di sfruttamento non retribuito, che bloccano, anziché favorire l’ingresso nel mondo del lavoro. Fuori dall’università, la precarietà nei percorsi formativi non dimi-nuisce, anzi. La possibilità di continuare il proprio percorso accademico è fortemente viziata, dal-l’esistenza di dottorati di ricerca, sempre meno e sempre più spesso senza borsa. “L’esercito di ri-serva”, in questo caso, non serve solo sul piano del lavoro manuale, ma anche nel campo cosid-detto cognitivo. Moltissime studentesse e tantissimi studenti sono costretti ad essere schiavi di baroni, a produrre conoscenze e competenze senza alcun riconoscimento sia culturale che econo-mico, al servizio delle logiche di mercato.Dentro questo scenario inquietante, noi abbiamo imparato a resistere ogni giorno, dando vita a movimenti studenteschi imponenti, non solo dalla capacità di mobilitare centinaia di migliaia di studentesse e studenti, ma dallo straordinario potenziale di rivelarsi come una forza trasformatri-ce. Nelle lotte, infatti, nelle scuole e nelle università, in mobilitazioni, con discussioni, riflessioni e pratiche dal basso abbiamo realizzato il progetto dell’AltraRiforma. Abbiamo imparato ad immagi-nare un modello tutto nuovo di vivere i luoghi della formazione; innanzitutto rimettendoli al cen-tro, sia del dibattito politico, sia, soprattutto, degli investimenti finanziari. Abbiamo vissuto la ridu-zione totale delle risorse per scuole e università; noi vogliamo invece ripartire da un modello di so-cietà che mette al centro saperi, ricerca e cultura in un Paese dove chiudono anche accademie, musei, scuole d’arte, conservatori, grandi patrimoni della nostra cultura, vere ricchezze sulle quali investire. Pensiamo che cambiare scuole e università significhi cambiare anche la società in manie-ra radicale. L’AltraRiforma riparte quindi dalla volontà di liberare le conoscenze dalle logiche del mercato, di ridurre le diseguaglianze e garantire l’accesso a tutte e tutti ai canali della formazione e della cultura, di cambiare il modo di insegnare, di valutare, di ricercare. Abbiamo vissuto l’Altra-Riforma come una pratica nuova, capace di mettere e mettersi in discussione in maniera radicale, di sperimentare nuove forme di partecipazione, di praticare vera democrazia tramite i referendum dentro le scuole e le università, tramite un modello di vivere la rappresentanza come strumento di cambiamento e non come un micropotere da gestire. Partendo da questa pratica, da questo labo-ratorio nuovo per il sistema dell’istruzione, e non solo, possiamo indirizzare le nostre lotte nel for-mulare le domande giuste, nel cercare risposte e soluzioni collettive, che non si limitano alla rea-zione di fronte all'attacco ma che mirino alla trasformazione reale delle cose presenti.

5.3 Le prospettive: il mercato della formazione e la ripubblicizzazione dei saperi

Siamo quindi di fronte alla fine di un doppio ciclo: da una parte un ciclo di riforme che hanno at -

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taccato per oltre 20 anni il sistema formativo italiano, portandolo sulla strada dell'aziendalizzazio-ne e della privatizzazione, dall'altra un ciclo di mobilitazioni che, dalla Pantera in poi, ha posto con forza al centro del dibattito il tema della difesa della scuola e dell'università pubbliche come tratto identitario della composizione sociale studentesca e giovanile.Dopo l'attacco subito in particolare negli ultimi quattro anni, è davvero difficile parlare, soprattutto a livello universitario, di un “pubblico” da difendere. La natura pubblica dei sistemi formativi non è più un dato assodato da mantenere, ma un obiettivo politico da riconquistare. Ciò vale sia nella concretezza quotidiana della nostra azione (ci troveremo a studiare in scuole e università sempre più differenziate e sempre meno accoglienti e accessibili per chi viene da determinati condizioni sociali) sia nel discorso pubblico (oggi l'opzione di uno sviluppo aziendalista e privatizzato per il sistema di formazione è considerata accettabile in ampi settori della politica e della società).Il modello che sembra delinearsi, in realtà, appare più complesso del vecchio spauracchio della scuola e dell'università d'élite: oggi, infatti, in una società complessa come la nostra, basata sull'il -lusione del successo individuale e sull'estensione dei consumi culturali in ogni spazio e tempo del-l'esistenza, non sarebbe socialmente accettabile tagliare completamente fuori dal ciclo formativo la stragrande maggioranza della popolazione; inoltre, la scuola e l'università d'élite non sarebbero in grado di produrre quei profitti privati di cui il capitale ha bisogno per uscire dalla crisi, e che solo l'espropriazione e l'inserimento nel ciclo della produzione del profitto di parti sempre più ampie della società, come, appunto, l'educazione, la sanità o i sistemi di welfare in generale può garanti-re.I segnali che ci arrivano dall'estero, in particolare dagli USA e del Regno Unito, indicano la tenden -za verso un sistema formativo fortemente differenziato al suo interno su base classista, che all'ap-parenza include tutti ma che in realtà fornisce pacchetti formativi diversi a seconda del denaro che ogni individuo e ogni famiglia è disposta a investire. Un mercato dei saperi in cui la qualità della formazione si misura attraverso la possibilità di ottenere un impiego redditizio con il titolo di stu-dio acquistato.

Percorsi formativi più ambiti sono incredibilmente onerosi dal punto di vista economico (prepara-zione ai test di ingresso, tasse, materiale didattico e altre spese): quanti non possono permettersi di sostenerne il costo sono preda delle trappole del sistema finanziario. I percorsi formativi odierni sono caratterizzati da un sistema di apparente inclusione molto complesso: per chi non può per-mettersi gli studi, il momento della formazione diviene occasione di imporre l’accettazione di mec-canismi di credito e quanti non vogliono o non possono accedervi sono relegati in percorsi di serie Z, che offrono soltanto l’illusione dell’inclusione. In questo modo l’istruzione diviene una comples-sa stratificazione di percorsi più o meno utili, che alimentano il sogno di un livello culturale eleva -to e di un lavoro redditizio senza spesso mantenere alcuna delle promesse che fanno: non per niente si è più volte tentato di completare questo disegno con l’abolizione legale dei titoli di stu-dio

L'implementazione in Italia di questo modello non è scontata, e sicuramente sarà un processo complesso e contraddittorio, che probabilmente dovrà affrontare resistenze e ostacoli sia all'inter-no di ciò che resta della comunità accademica sia in un sistema aziendale tutt'altro che pronto a una sfida di questo tipo. Ma è probabile che sia all'interno di questo quadro che la Rete della Co-noscenza si trova a giocare nei prossimi anni la partita della ripubblicizzazione dei saperi.Un carattere fondamentale dell’AltraRiforma è stato quello di non limitarsi a una serie di rivendica-zioni corporativistiche in difesa degli interessi degli studenti ma come una battaglia che, pur riven-dicandone e difendendone i diritti, pensa alla formazione come a una risorsa di e per tutta la so-cietà. Non è un caso che quel testo tragga i suoi natali da un confronto con dottorandi, precari, personale tecnico e ricercatori, spostando così l’attenzione dalle semplici rivendicazioni per la pro-pria categoria ad un quadro globale.

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La sfida dell'AltraRiforma, quindi, dovrà essere ridefinita all'interno di un sistema formativo meno centralizzato e uniforme di quello che conosciamo, in cui si punterà sempre di più a costituire poli di eccellenza tecnica molto cari e poli umanistici più economici di bassa qualità. L'AltraRiforma deve diventare uno spazio di riflessione ampio e inclusivo sul ruolo dei saperi, che sappia produr-re una nuova proposta sulla funzione sociale della formazione e della ricerca nella società contem-poranea.Alle battaglie locali di resistenza contro questa ristrutturazione, va quindi accompagnato uno sfor-zo collettivo di elaborazione e di incisività, in grado di inserire la proposta di una formazione am-pia, profonda ed egualitaria all'interno di un piano per la conversione ecologica e sociale dello svi-luppo. Dobbiamo essere in grado di contrapporre alla logica di un sistema formativo in cui gli stu-denti e i saperi sono strumenti della valorizzazione capitalista l'opzione di un progetto di emanci -pazione collettiva attraverso la cultura, in cui i ragazzi e le ragazze delle nostra generazione metto-no tutte le proprie idee e le proprie energie al servizio di un cambiamento che oggi è possibile, ne-cessario e non più rimandabile.Per lanciare l’opzione della ripubblicizzazione non basterà parlare di scuola e università in maniera disgiunta tra loro e slegate dalla società operando singole battaglie difensive e parziali. La cono-scenza come bene pubblico può trovare una nuova legittimità solo all’interno di un contesto cultu-rale, politico ed economica che sappia valorizzarla e porla a fondamento di un nuovo ordine socia-le, e non come un mero strumento nelle sue forme tecniche oppure come una sorta di “bene di lusso” su cui ci si possa permettere di risparmiare.

Dovremo costruire il “Manifesto per la ripubblicizzazione dei saperi”, un manifesto che riesca a congiungere le due elaborazioni rivendicative delle AtreRiforme e tutto il bagaglio di proposta per il libero accesso alle conoscenze non formali tramite un nuovo modello di welfare e socialità. Attorno a questo manifesto la Rete della Conoscenza dovrà aggregare un vasto fronte vertenziale coinvol-gendo tutte le forze sociali che hanno agito contro le riforme della Gelmini, per lanciare una batta-glia che rivendichi una riforma complessiva di scuola, università, afam e welfare studentesco. Que-sta dovrà essere la piattaforma per le mobilitazioni dei prossimi anni, mirando a rivoluzionare il modo di vedere i saperi da strumento per la riproduzione della società capitalista a mezzo per l’e-mancipazione collettiva e individuale verso la costruzione di una società giusta socialmente e so-stenibile ambientalmente.

Tesi 6 -Costruire l'AltraEuropa

“Ce lo dice l'Europa” e noi eseguiamo; indipendentemente da chi sia a intervenire nel dibattito na-zionale, ignorando le competenze delle differenti istituzioni e il rispettivo tasso di rappresentativi -tà, l'Italia, gli altri Stati europei, i media, obbediscono, o usano strumentalmente le prese di posi-zione europee per portare avanti politiche che altrimenti sarebbero prive di qualunque consenso popolare e spesso rimangono tali.Risulta oggi più che mai evidente l' incapacità dell'Unione Europea di procedere, nel progressivo percorso di integrazione, verso la costruzione di un ampio spazio regionale in grado di unire i po-poli europei promuovendo democrazia, benessere, progresso sociale. Anzi, sembra proprio che la strada intrapresa sia l'opposta. Quanto mai oggi l'idea di un'Europa realmente unita e democratica appare tradita, sottomessa alle logiche del mercato e dell'austerity.

L’Unione Europea soffre di un pesante deficit democratico, le cui origini si possono trovare tanto tra lo squilibrio di potere tra un Parlamento, eletto dai cittadini ma privo di potere, e altri organi molto più importanti e potenti che però non rappresentano i cittadini ma i loro governi (Commis -

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sione e Consiglio Europeo), quanto nel ruolo giocato da organismi come la Banca Centrale Europea, espressione diretta di enti privati, slegati da ogni meccanismo di controllo democratico. Un quadro istituzionale vincolato da dogmi monetaristici e neoliberali, che ostacolano gli Stati membri impe-dendo loro di porsi in difesa dei sistemi di protezione sociale, il tutto in un contesto in cui tra i po-poli europei emerge una crescente competitività al ribasso, sui salari come sui diritti, e ciò alimen-ta quotidianamente chiusure reazionarie e nazionalistiche.

Non vi è, indubbiamente, regione al mondo che più dell'Europa abbia risentito della ridefinizione degli spazi della politica e della sua consequenziale crisi, dovendo affrontare numerose sfide, da quella relativa ai suoi assetti politici ed istituzionali, a quella che si gioca sui suoi confini e sul suo processo di allargamento e dunque sulla ridefinizione degli equilibri sociali, politici ed economici che ne derivano. La terza ed ultima sfida è quella che concerne il suo ruolo globale, alla quale ha cercato di far fronte con l'allargamento, privo di un reale piano politico alle spalle. Il 2007, con il definitivo allargamento a Bulgaria e Romania, ha rappresentato un evento d'importanza storica per l'Europa, sia sul piano sociale che economico. Lasciando l'Europa impreparata e incapace di gestire politicamente la crisi.

Da quando nel 2008 è esplosa la crisi economica e finanziaria, e in particolare da quando la crisi del debito privata è diventata una crisi del debito pubblico, è diventato palese come l'Europa fosse uno dei principali centri di decisione non-democratica sulle nostre vite. Ciò impone analisi rigorose da un lato e capacità di costruire iniziativa politica sul piano europeo dall'altro.Anzitutto è necessario segnalare come il processo di integrazione europeo sia stato caratterizzato a lungo da un'ambiguità di fondo: l'Europa ha rappresentato sia la costruzione di uno spazio pubbli-co capace di unire centinaia di milioni di uomini e di donne, sia un dispositivo strumentale all'am-pliamento della sfera d'influenza del capitalismo e delle sue articolazioni geopolitiche e militari. In molti casi, infatti, l'Europa è stato il grimaldello per fare entrare con forza i dogmi liberisti anche nelle politiche nazionali degli stati membri.Modello sociale europeo e implementazione della globalizzazione neoliberista sono state due facce della stessa medaglia (la costruzione dell'Unione europea): due dimensioni diverse ma connesse, interpretate talvolta in maniera conflittuale tra loro da destra e sinistra, altre volte intrecciate in un'unica narrazione egemonica e consociativa.I passaggi fondamentali delle politiche europee, anche dal punto di vista legislativo, in particolare negli ultimi due decenni, sono stati pienamente attraversati da questa contraddizione, ben rappre-sentata dal binomio Maastricht-Lisbona su cui si è retta l'Ue a cavallo del 2000: da una parte si fis-sarono ambiziosi obiettivi di progresso sociale, dall'altra si stabiliscono criteri di rigoroso monetari-smo e centralità assoluta del mercato che rendono impossibile raggiungere quegli obiettivi.Anche il terreno della conoscenza è stato attraversato dalle stesse contraddizioni: da un lato gli obiettivi di Lisbona, dall'altro il Processo di Bologna, intrecciati e contraddittori. Il “Bologna Pro-cess” si proponeva di realizzare, entro il 2010, lo Spazio Europeo dell'Istruzione Superiore. Gli obiettivi centrali di quest'ultimo erano l'aumento dell'internazionalizzazione e dalla competitività dei sistemi di istruzione superiore europei, attraverso la riforma dei cicli (incarnata in Italia dal 3+2), l'introduzione del sistema dei crediti e altre misure, recepite in maniera diversa da diverse ri-forme universitarie nazionali.Il Processo di Bologna ha portato a quel paradossale effetto per cui il sistema universitario italiano è contemporaneamente diventato iperspecialistico e liceizzato, a causa della frammentazione dei percorsi formativi e della loro dequalificazione. Inoltre sempre il Bologna Process ha fornito una faccia presentabile al percorso di sottomissione dell'università pubblica alle logiche del profitto. Le diverse Riforme che hanno coinvolto l'Università italiana degli ultimi 15 anni, infatti, sebbene siano state contraddittorie, frammentate e prive della capacità di programmare a lungo termine sulla base di un coerente progetto culturale, condividono l'ispirazione di fondo, cioè la subalternità della

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missione culturale, sociale e civile dell'Università pubblica a criteri di razionalità economica. Vi era una coerenza tra questi obiettivi e il traguardo che venne stabilito a Lisbona, di fare dell'Europa la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010. Ma entrambi gli obiettivi, in particolare quelli previsti da Lisbona sono falliti.Sono passati due anni dalla scadenza degli obiettivi della strategia di Lisbona e il modello sociale europeo è stato ormai sostituito dalle macerie dell'austerity, gli investimenti in formazione e ricer-ca sono finiti nel tritacarne dei dogmi del più rigoroso monetarismo, ben rappresentato dal six pack e dall'ancor più recente fiscal compact.In particolare l'adozione dei regolamenti six pack e del nuovo “trattato internazionale per fissare i principi relativi al rafforzamento della disciplina di bilancio e al coordinamento delle politiche eco-nomiche” diventano oggi pericolosissimi nemici, formalizzando definitivamente una strada già in-trapresa dall'UE: svuotamento di funzioni del Parlamento, stringenti vincoli monetari e di bilancio, riduzione di ogni spazio democratico, automatismi e sanzioni finalizzate a preservare le politiche di austerity.Fondare l'Unione Europea sulla regola aurea del pareggio di bilancio, che in questo contesto neoli -bersita risulta essere un dogma ideologico e recessivo, vuol dire farne un laboratorio di nuova schiavitù, terreno di saccheggio e sfruttamento per i privati e gli speculatori di tutto il mondo.Oggi, alla prova della crisi economica, queste contraddizioni appaiono quantomai stridenti. Se fino a non molto tempo fa ci si preoccupava del “deficit democratico” dell'UE, sottolinenando, ad esempio, lo scarso peso nei processi decisionali dei cittadini, del parlamento e il forte ruolo delle lobby economiche, oggi si deve prendere atto della situazione: non solo il Parlamento Europeo è del tutto privo di un reale capacità di controbilanciare il peso della Commissione e del Consiglio, ma si assiste all'imposizione di fondamentali decisioni sulle teste di governi e popoli di molti paesi europei prese anche al di fuori dei formali luoghi decisionali istituzionali, con logiche inter-gover-native dove a tenere banco sono i paesi economicamente più forti e le élite economico-finanziare.È evidente che sono queste le modalità con cui l'UE sta affrontando negli ultimi mesi la grave crisi economica e le ondate speculative che hanno preso di mira vari paesi europei. La risposta delle istituzioni europee ed internazionali (la troika Commissione UE-BCE-FMI) è quella di imporre misu-re economiche di “risanamento” pesantissime, con conseguenze sociali devastanti, che hanno come loro presupposto la “sospensione” delle forme di democrazia. Il “caso Grecia” in tal senso è emblematico (“imposizione” di un cambio di governo, impossibilità per il popolo greco di espri-mersi tramite il referendum, ecc.) ma non è troppo lontano da quanto è avvenuto e potrebbe av-venire in molti altri paesi, non da ultimo il nostro.L’Unione Europea ha quindi mostrato il suo volto, ma non possiamo rinunciare ad una vocazione europea. Non possiamo rinchiuderci in spinte identitarie e nazionali. La risposta alla crisi della so-vranità non può essere la ricerca di modelli nazionali chiusi, né l'abbandono di istituzioni democra-tiche rappresentative, che potrebbero essere l'unico argine alla dittatura dei mercati, come a forme di leaderismo altrettanto pericolose, fino a limitare le sproporzioni di potere tra stati all'interno dell'Unione. Rispetto a tutto ciò crediamo che si debba lavorare per invertire radicalmente la rotta, per riscrivere le basi istituzionali e materiali dell'Unione Europea. Siamo convinti che il percorso in-tegrazione europea, in senso unitario, debba avere come stella polare la costruzione dal basso di luoghi decisionali europei realmente democratici, espressione delle istanze dei cittadini ed in gra-do di orientare le politiche europee facendo viaggiare insieme il benessere economico all'amplia-mento dei diritti civili e sociali in tutto il continente. Crediamo in un'Europa che sappia essere, al-l'alba di questo nuovo millennio, un fecondo laboratorio di idee e politiche nuove, alternative ai dogmi neoliberisti e monetaristi, capace di estendere diritti, dare centralità alla dignità del lavoro, ai beni comuni, promuovere nel mondo un nuovo modello di relazioni internazionali contrapposto alle logiche securitarie imperanti.Invertire la rotta verso questa direzione è quanto mai urgente e necessario perchè costruire oggi un nuovo modello di società, opposto a quello imposto da questa globalizzazione, è possibile solo superando le barriere nazionali e proiettando gli orizzonti di lotta a livello internazionale.

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In questo momento noi cittadini europei dobbiamo dare vita a un ampio movimento che sia in gra-do di costituire un'Altra Unione Europea, mettendo in discussione i dogmi assunti per conto della governance economico-finanziaria internazionale, l’assetto istituzionale e il modello securitario che rende l’Europa una fortezza per coloro che ricerchino accoglienza e speranza.

La Rete della Conoscenza dovrà impegnarsi a: • Costruire una fitta rete di relazioni europee con sindacati e movimenti studenteschi e altri

movimenti sociali, sia all'interno dell'Obessu, di cui fa parte l'Unione degli Studenti, che dentro l'ESU in cui intende entrare a far parte LINK – coordinamento universitario, che all'e-sterno da queste reti in un ambito più connesso alle lotte sociali. Quello a cui puntiamo è la costruzione di una rete capace di mobilitare gli studenti e le studentesse a livello euro-peo per rispondere tempestivamente e sullo stesso livello transnazionale alle politiche por-tate avanti dall’UE e nell’UE

• Impegnarsi concretamente per la riuscita delle ICE (iniziativa dei cittadini europei) sul red-dito - promossa con una coalizione molto ampia, riunitasi per la prima volta al Teatro Valle di Roma il 10/11/12 Febbraio - sull’acqua, sulla cittadinanza.

Tesi 7 -La stabile precarietà di una generazione

Nell'ultima parte del 2011 si è aperto ufficialmente il dibattito in Italia sulla riforma del mercato del lavoro. Il tema della precarietà, del resto, ha conquistato negli ultimi anni un'inequivocabile centralità del dibattito pubblico.Un ruolo fondamentale, in questo senso, è stato giocato dal movimento studentesco. Fin dalle mobilitazioni del 2005 contro il ddl Moratti, poi nell'Onda del 2008 e in maniera più ampia e pro-fonda nelle proteste del 2010 contro la riforma Gelmini, gli studenti e le studentesse d'Italia han-no posto con forza il tema della precarietà al centro della propria azione, identificandola come una nuova forma di sfruttamento che colpisce trasversalmente il mondo del lavoro livellando ver-so il basso le condizioni di vita di fasce sempre più ampie della popolazione.Se ora anche chi sta dall'altra parte della barricata è costretto a porsi il problema della lotta alla precarietà e a giustificare in questo senso le misure regressive che propone, è anche e soprattutto perché noi studentesse e studenti abbiamo identificato nella precarietà la cifra della nostra gene-razione, ci siamo appropriati di questo tema e l'abbiamo rilanciato come un'identità ampia e in-clusiva, in grado di tenere insieme fasce diverse della società e di creare le condizioni per una ri -composizione sociale sul piano della mobilitazione e della rivendicazione.Ciò è avvenuto perché abbiamo saputo analizzare la precarietà non come un semplice dato con-trattuale, ma come una vera e propria ristrutturazione autoritaria del rapporto di lavoro, basata sul ricatto e inserita nel quadro dei grandi cambiamenti che hanno sconvolto il nostro mondo ne-gli ultimi tre decenni: l'integrazione della conoscenza nei processi produttivi ha raggiunto un gra-do inedito, e i luoghi della formazione sono stati pienamente coinvolti dall'ondata di privatizzazio-ni, di esternalizzazioni e di precarizzazione che ha caratterizzato la ristrutturazione del capitali-smo globale. Il processo di mercificazione dei saperi e di parcellizzazione della loro produzione si estende a tutti gli ambiti della conoscenza, dalle scuole alle università, dai centri di ricerca alle accademie, puntando a fare del sapere socialmente prodotto una risorsa scarsa, da contendere e commerciare, estendendo quindi la logica della precarietà anche dentro i luoghi in cui viviamo tutti i giorni.Noi soggetti in formazione siamo, come soggettività sociale, il prodotto di questi processi. L'esten-sione nel tempo e nello spazio dei processi formativi rende questo soggetto articolato e multifor -

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me: studenti lavoratori, studenti part-time, lavoratori che rientrano nel ciclo continuo della forma-zione per reagire all'espulsione dal mercato o per migliorare la propria condizione, apprendisti che passeranno la loro vita in officina e dottorandi che fanno il lavoro dei docenti. Ad attribuire a questa miriade di soggettività una condizione comune sono, da un lato, l'accesso al sapere, e quindi la possibilità di entrare a contatto con gli strumenti culturali in grado di costruire una co-scienza collettiva avanzata, e, dall'altro, l'esposizione ai processi di mercificazione di cui sopra, che hanno livellato verso il basso le condizioni materiali di vita dei soggetti in formazione, avvici-nando tra loro, pur nella frammentazione apparente, le esperienze quotidiane e le prospettive di vita di ognuno.Cogliendo il dato di una precarietà esistenziale, di una condizione di sfruttamento diffuso, di sot -tomissione di spazi e tempi sempre più ampi delle nostre vite alle logiche del profitto, abbiamo iniziato il percorso di costruzione di quella soggettività generazionale e sociale che si è espressa nelle mobilitazioni di questi anni, e che è riuscita a rappresentare in maniera chiara ed efficace l'emergenza sociale vissuta dalla nostra generazione. Il furto del futuro, la schiavitù della preca-rietà, l'emigrazione come unica via d'uscita: intorno a questi nuclei simbolici siamo riusciti a rac-contare la nostra storia, la storia di migliaia dei nostri coetanei, la vita quotidiana di gran parte delle famiglie italiane.Non riuscendo più a scalfire il consenso e la centralità conquistati da questo tema, i sostenitori della flessibilità, senza un’autocritica né un riconoscimento di ciò che è successo negli ultimi due decceni, hanno cambiato strategia: gli stessi che durante i governi di centrosinistra negavano l'e -sistenza del dramma della precarietà e che per anni hanno tessuto le lodi del pacchetto Treu e della legge 30, ora sono improvvisamente preoccupatissimi per le condizioni di vita dei precari, ed è in nome loro che propongono di distruggere le poche garanzie rimaste nel mercato del lavoro italiano.Già l'anno scorso alcuni giornali, pur difendendo la riforma Gelmini, erano intervenuti dicendo che - anche se mal posta – la questione generazionale meritava una risposta. La retorica usata dal go -verno Monti per presentare i suoi provvidementi è proprio quella di risolvere la questione genera-zionale, di dare una risposta a quei giovani che chiedono maggiori sicurezze per la loro vita lavo-rativa e non solo lavorativa.La risposta che giunge in questi mesi dal governo pare vertere principalmente su due direzioni: il contratto unico e lo scambio tra diritti e “stabilità”.Il tema del contratto unico a tutele crescenti non è nuovo. Ricorda per alcuni aspetti il CPE france-se ed stato introdotto alcuni anni fa nel dibattito italiano da due noti economisti (Boeri e Garibal-di), era già stato presentato una proposta di legge sull'argomento (ddl Nerozzi) e per alcuni aspet-ti anche la nota proposta di Ichino può rientrare in questo calderone.Al di là delle peculiarità delle singole proposte, il contratto unico prevede un ingresso nel mondo del lavoro inizialmente privo di garanzie, che vengono introdotte man mano che il lavoratore ac-cumula anzianità di servizio. I suoi difensori danno una notevole importanza alla formazione sul posto di lavoro e ritengono, in generale, che l'aver formato un lavoratore o una lavoratrice per un certo numero di anni sia una ragione sufficiente perchè l'impresa non sia indotta a licenziarlo fa-cilmente. Al di là della discutibilità dell'implicazione tra investimento sulla formazione e desiderio dell'impresa di mantenere il lavoratore o la lavoratrice, questa ricostruzione pare non tenere con-to delle caratteristiche del sistema produttivo italiano. Quest'ultimo, infatti, lungi da essere un si-stema produttivo che investe sull'innovazione e sulla qualificazione della manodopera, continua a richiedere persone con poche o nulle qualifiche personali, come dimostra l'apparente paradosso per il quale il nostro paese ha un numero di laureati molto basso rispetto alla media europea, ma ha anche un numero straordinariamente alto di laureati disoccupati, precari o sottoccupati.Lo strumento del contratto unico è pensato per eliminare il dualismo che esiste in Italia tra lavo-ratori a tempo indeterminato che godono di una serie di garanzie e lavoratori precari che non ne godono, dualismo che negli ultimi anni sta andando ad assottiliarsi a svantaggio dei garantiti più che a favore dei non garantiti. Tuttavia, in un mercato del lavoro con le caratteristiche accennate

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prima, questo strumento rischia di creare un dualismo ancora più forte: quello tra coloro che han-no elevate qualifiche professionali e che ricoprono incarichi che le richiedono e coloro che non hanno qualifiche elevate oppure che non sono riusciti a trovare un lavoro che le renda necessarie. I primi potrebbero riuscire a superare la fase “non tutelata” e raggiungere finalmente le garanzie, mentre i secondi potrebbero passare di contratto in contratto senza approdare mai alla stabilità. Questo dualismo renderebbe la stabilità e i diritti sul lavoro un privilegio accessibile solo per chi ha avuto la possibilità di formarsi e studiare e la sorte di trovare un lavoro in cui le sue compe -tenze sono valorizzate.Lo scambio tra diritti e stabilità, invece, ruota soprattutto attorno al dibattito sull'articolo 18. Nella sua forma più “conveniente” per i lavoratori lo scambio si presenta in questi termini: “voi lavora-tori rinunciate al reintegro sul posto di lavoro nel caso di licenziamento senza giusta causa, in cambio sarete tutti assunti a tempo indeterminato”. Questa proposta si fonda su due premesse. La prima dice che il contratto a tempo indeterminato è un bene in sé per il lavoratore o la lavora-trice, la seconda che l'articolo 18 crea un'eccessiva rigidità del mercato del lavoro e per questo vada eliminato. Entrambe sono discutibili.Per quanto riguarda la prima è bene ricordare che il contratto a tempo indeterminato non è ne-cessariamente vantaggioso per il lavotore, tanto più che in origine fu una richiesta delle aziende per avere un maggiore controllo sui propri dipendenti. Ciò che oggi lo rende quasi un sogno per molti giovani lavoratori e lavoratrici sono proprio i diritti e le tutele che si accompagnano ad esso, tra cui l'articolo 18: prevedere un contratto a tempo indeterminato senza le tutele attuali e con una maggiore libertà di licenziamento significa rendere permanente la precarietà. Non crediamo che una donna si senta più libera di prendere i permessi parentali e familiari che la legge le con-sente se può essere licenziata in qualunque momento, di quanto non si senta ora che il suo con-tratto ha una scadenza dopo il quale deve essere rinnovato. Così come un lavoratore o una lavo-ratrice non si sentiranno più liberi di scioperare o protestare di quanto non si sentano oggi.Confondere la precarietà del lavoro con la semplice durata del contratto è fuorviante: la precarietà è la condizione di chi subisce un ricatto e dipende quindi dalle scelte arbitrarie di qualcun altro, mentre la stabilità è la libertà di scelta, l'autonomia e l'indipendenza di poter prendere le proprie decisioni senza ricatti e imposizioni.Riguardo invece alla rigidità del mercato del lavoro, da molti denunciata come un grave danno per le imprese e talvolta anche per i lavoratori (come quando si fa parla della monotonia del tempo indeterminato), spesso si dimentica che in Italia la possibilità per le imprese di licenziare non è negata, ma semplicemente regolamentata. Coloro che sono sostenitori dei mali dell'articolo 18 normalmente non sono poi in grado di fornire prove di tali mali, a parte la denuncia di singoli casi in cui questo strumento ha portato ad abusi o distorsioni, cosa che fa pensare più ad un at-tacco ideologico verso un simbolo delle vittorie dei lavoratori e delle lavoratrici nel nostro paese.Al di là del merito delle singole proposte, che ovviamente andranno valutate con attenzione caso per caso, emerge nel governo Monti un'impostazione fortemente regressiva e punitiva nei con-fronti del lavoro. Sembra che questo tema sia stato scelto per mettere sotto scacco il sindacato e costruirsi sul piano internazionale un'immagine di presunto coraggio e autorevolezza nei confronti delle parte sociali. E le aperture fatte dalla ministra Fornero sul tema del reddito minimo e della lotta alla precarietà (per ora finora non suffragate da alcuna proposta concreta in questo senso) sembrano specchietti per le allodole, costruiti per dividere il fronte sociale tra precari e presunti “garantiti”, mobilitando gli uni contro gli altri.Tale divisione, del resto, se mai è stata valida, pare di fatto superata dalla crisi, che ha costituito un ulteriore fattore di livellamento verso il basso delle condizioni di vita e di lavoro, estendendo, tramite la minaccia della delocalizzazione, il ricatto della precarietà anche a chi ha un contratto a tempo indeterminato.Oggi non è possibile per i lavoratori a tempo indeterminato mobilitarsi in difesa dei propri diritti, sempre più minacciati, senza pretendere l'uscita dalla precarietà di milioni di loro colleghi, utiliz-zati come esercito di riserva per livellare verso il basso le tutele di tutti, e allo stesso modo non è

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possibile per i precari rivendicare un miglioramento della propria condizione senza porsi il proble-ma di come riconquistare un contratto nazionale non derogabile, cancellando il vergognoso artico-lo 8 della cosiddetta manovra di Ferragosto.Il piano della mobilitazione intorno al tema della precarietà può essere quindi centrale, nei prossi-mi mesi, per l'investimento su un processo di ricomposizione sociale intorno al nodo dei diritti e del welfare, in grado di capitalizzare il percorso di intersezione e contaminazione tra le mobilita-zioni degi ultimi anni, rivendicando allo stesso tempo un welfare universale, in grado di dare ri -sposte alla domanda di dignità che viene da una parte sempre più ampia della nostra generazio-ne, e l'eliminazione della precarietà tramite l'immissione nel mercato del lavoro di regole e tutele, quelle “rigidità” cancellate dall'avanzare della “flessibilità”.Il nostro ruolo su questo tema si gioca su due piani: da una parte va proseguita e rilanciata la no-stra azione sindacale nella scuola e nelle università, per recuperare la capacità di incidere sui nodi materiali della crisi, in particolare per quanto riguarda gli studenti e le studentesse impegna-te in stage e tirocini, dall'altra dobbiamo impegnarci sul piano della proposta politica per costruire insieme a tutto il movimento studentesco e a tutti i movimenti sociali e le realtà del mondo del lavoro un appello alla mobilitazione sul tema della precarietà, approfittando di tutte le esperienze che negli ultimi anni, da Uniti contro la crisi al comitato “Il nostro tempo è adesso”, hanno favori-to il processo di ricomposizione sociale di cui sopra. Ma il lavoro da fare è ancora tanto, in parti -colare nell'individuazione di spazi di aggregazione e socializzazione che sappiano far emergere e riconoscere la soggettività precaria nel tessuto territoriale, attraverso la condivisione di luoghi e di tempi tra studenti e lavoratori, in una logica di cittadinanza sociale condivisa.Ciò si inserisce nel nostro rapporto, non esclusivo, di collaborazione con la CGIL, con cui il con-fronto schietto sui contenuti, anche nel dissenso, che abbiamo già espresso in occasione dell'ac-cordo dello scorso giugno, e che ora si concentra in particolare sull'incapacità di rappresentare in maniera adeguata il mondo del precariato, è la base per la costruzione di un rapporto che repu-tiamo strategico, nella battaglia contro l'attacco ai diritti dei lavoratori e lo smantellamento dello stato sociale, senza cadere nella trappola dell'emergenza e della responsabilità nazionale. Questo rapporto, per noi, va costruito a partire dal presupposto della nostra autonomia e indipendenza politica ed economica, e va vissuto come un sincero confronto tra organizzazioni sui contenuti, senza barriere ideologiche e strumentali, lavorando per incalzare il sindacato ad assumere posi-zioni più avanzate. Auspichiamo la costruzione di una reale opposizione sociale dal basso, in par-ticolare sui temi del welfare e del mercato del lavoro.

Serve una mobilitazione ampia e inclusiva, che comprenda tra i suoi obiettivi: la riconquista del contratto nazionale come strumento fondamentale per la tutela dei diritti dei lavoratori e la co-struzione di legami reali di solidarietà, da salvaguardare e rilanciare sul piano europeo e interna-zionale; l'eliminazione delle tipologie contrattuali atipiche che travestono da lavoro autonomo quello che è lavoro subordinato a tutti gli effetti, legalizzano il caporalato, privano di diritti centi-naia di migliaia di lavoratori; il riconoscimento a tutti i lavoratori e le lavoratrici, a tempo indeter -minato o determinato, degli stessi diritti, delle stesse tutele e degli stessi ammortizzatori sociali; l'istituzione di un reddito minimo (fissato al 60% del salario medio nazionale, come stabilito dal Parlamento europeo) come forma di welfare universale, che assicuri la continuità di reddito ai precari e liberi almeno in parte dal ricatto del posto di lavoro; il rilancio degli investimenti sulla formazione e sulla ricerca con l'obiettivo di creare un lavoro qualificato e gratificante per una sempre maggiore quota della popolazionee di realizzare una produzione di qualità, razionalmente orientata verso la sostenibilità sociale ed ambientale .

7.1 -Difendere il welfare, ricostrudendoloNell'odierno contesto della crisi finanziaria ed economica, l'attacco speculativo che ha consentito lo spostamento del debito privato sul debito pubblico, viene gestito dai Governi con continui tagli alla

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spesa pubblica, dall'istruzione alla sanità alle misure di welfare.Non solo questa strategia, oltre ad intaccare i diritti di milioni di cittadini, non è neanche efficace per uscire dalla crisi. L'esempio della Grecia in tal senso è lampante: dopo una costante riduzione della spesa pubblica, oggi il Paese è di fatto in default, mentre è già reale l'aumento della povertà e della mortalità.

Possiamo affermare senza troppe pretese che il modello neoliberista che ha generato la crisi, viene riproposto, anzi imposto, di nuovo come soluzione alle sue stesse catastrofi: taglio della spesa pubblica, abbandono dell’economia da parte dello Stato, privatizzazioni, abbattimento dei diritti.

In questo contesto il welfare è uno dei settori più colpiti, non solo per l’obiettivo di ridurre la spe -sa pubblica “tenere i conti in ordine” ma soprattutto perché un Paese senza uno stato sociale è più soggetto al ricatto e alla paura, privo di coesione sociale; insomma l’austerity è anche uno strumento di disciplinamento dei cittadini.

A fare maggiormente le spese dell’ attacco al welfare sono sia quei soggetti meno tutelati dal workfare (che esclude chi non è inserito in un percorso lavorativo) sia coloro che tentano di ren-dersi autonomi dalle reti sociali che suppliscono alle mancanze dello Stato, compito che in Italia ri-coprono quasi esclusivamente i nuclei familiari.I soggetti in formazione vivono pienamente questa condizione. Oggi in Italia è ormai centrale la questione generazionale in tutte le sue accezioni. Da un lato Monti e il suo governo utilizzano la questione generazionale come una clava contro il sistema di tutele e garanzie conquistate nel ‘900, contrapponendo giovani meritevoli e sfruttati alla bambagia dei loro genitori: una retorica offensi-va, inaccettabile e strumentale, utile solo ad alimentare una guerra tra poveri e distogliere l’atten-zione da chi davvero vive nella “bambagia”. Dall’altro lato la questione generazionale così come l’abbiamo posta in questi anni, intesa non come questione meramente anagrafica, né come con-trapposizione tra non garantiti e presunti 'garantiti', ma come grande questione sociale, che parla di welfare, ruolo dello Stato, organizzazione del lavoro, fiscalità, formazione e innovazione.

Il welfare che rivendichiamo deve avere promuovere la costruzione autonoma di percorsi formativi, di lavoro di vita, livellare le disuguaglianze territoriali che ancora oggi, nel 2011, segnano profonda-mente l'Italia e la sua capacità di dare futuro.Dequalificare scuole, università e gli altri luoghi della formazione, oggi, significa attaccare i luoghi del sapere critico, significa mettere in discussione la possibilità del Paese di risollevarsi, innovare, ed essere solidale. Bisogna ribadire che senza gli studenti l'Italia muore, perché un Paese che non investe nei percorsi di formazione – e quindi anche nel diritto allo studio – non può essere in gra-do di garantirsi un futuro.Le spinte neoliberiste prima e l’intensificarsi delle politiche di austerity hanno impresso un brusco cambiamento, nel nostro paese, anche al welfare municipale, attraverso un mutamento nelle dina-miche di potere tra Stato ed Enti Locali. Questi ultimi risentono fortemente dei tagli nel bilancio na-zionale e dei vincoli europei di contenimento della spesa e di utilizzo dei fondi.Quella che spesso è stata descritta come una crisi 'virtuale', tutta giocata sulle speculazioni inter-nazionali e sulle alchimie della finanza, ha invece manifestato tutta la sua ricaduta concreta nelle nostre città. E' nello spazio urbano che negli ultimi anni si sono condensate le grandi contraddizio-ni di questo sistema politico ed economico: dalla crisi ambientale alle disastrose politiche migrato -rie, dall'attacco ai beni comuni alle inascoltate richieste di partecipazione dal basso, dalle forme di controllo sociale alla mercificazione dei saperi e della cultura.La mutazione del modello di governance ha visto lo Stato e gli Enti Locali passare dalla posizione di provider (fornitori diretti di beni e servizi garantiti dai diritti di cittadinanza) a quella di enabler

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('facilitatori' nella complessa rete di relazione tra soggetti pubblici, misti e privati che provvedono alla costruzione dell'attuale modello di welfare).E' uno schema pienamente lineare con il ciclo di privatizzazioni degli anni '90, recentemente rilan-ciato dall’azione del governo Monti. In questo schema si aprono tuttavia possibilità di rivendicazio-ne di nuove forme di welfare (ad esempio l'accesso al servizio sanitario locale o l'istituzione delle carte studentesche) e di rimodulazione di altre parti già garantite (come l'estensione notturna del trasporto pubblico locale), provando ad innescare meccanismi di partecipazione dal basso sui terri-tori che permettano ai soggetti in formazione di agire come portatori di interessi forti nei confronti delle Amministrazioni e in generale di mutare radicalmente tale modello.

Rivendicare un nuovo welfare, oggi, non vuol dire “soltanto” rivendicare un miglioramento concre-to di un singolo servizio pubblico, il soddisfacimento di uno specifico diritto. Al tempo dell’austeri-ty rivendicare un welfare forte, universale, vuol dire inevitabilmente aprire un fronte di lotta contro questo modello di società e contro le teorie economiche imperanti. Indicando esplicitamente l’in-vestimento pubblico finalizzato a rendere la società attuale più giusta ed equa, come alternativa ad un sistema ipercompetitivo che maschera la guerra tra poveri con la cantilena meritocratica e la retorica della colpa.I soggetti in formazione e, in generale, tutte le persone, dovrebbero essere, vedersi garantiti servizi essenziali e diritti fondamentli per sciegliere consapevolmente i propri percorsi di vita, di studio e di lavoro.Dobbiamo perseguire con forza due obiettivi: tenere assieme il quadro generale di configurazione di un nuovo modello di welfare – che non può essere sganciato da un nuovo modello democratico, economico e di sviluppo – e un insieme di rivendicazioni concretizzabili nell'azione politica sinda-cale quotidiana.

In questo contesto si inserisce la campagna ‘Liberi Tutti - per la cittadinanza dei soggetti in forma-zione’, che individua cinque campi d’azione (diritto alla partecipazione, accesso libero ai saperi, diritto all’abitare, diritto alla mobilità, diritto alla salute) funzionali al riconoscimento della cittadi-nanza delle studentesse e degli studenti e all’erogazione di reddito connesso a tale condizione, in forma diretta e indiretta. Una campagna prioritaria e centrale nell’elaborazione politica della Rete della Conoscenza che dovrà essere tradotta sui territori e a livello nazionale nelle sue diverse acce-zioni di campagna culturale, di sensibilizzazione e nella micro e macrovertenzialità, costruendo an-che sui temi che lo permettono, come ad esempio la mobilità, delle alleanze sociali ampie (ad esempio con i sindacati dei lavoratori dei trasporti, esperienze di lavoratori in lotta, come i lavora-tori degli intercity notte trenitalia, o Legambiente con la sua campagna Pendolaria) e forti in grado di migliorare l’elaborazione politica e l’impianto delle rivendicazioni nonché di avere maggiore for-za sindacale nei confronti delle controparti.

Nello specifico e in breve la campagna prevede:• Diritto alla partecipazione: la partecipazione dei soggetti in formazione alle scelte decisiona-

li locali, la trasparenza e la semplificazione degli atti amministrativi, l’apertura degli spazi di condivisione dei saperi, la fruizione libera degli spazi pubblici anche nelle ore notturne

• Accesso libero ai saperi: una legge quadro sul diritto allo studio, il potenziamento delle car-te di cittadinanza studentesche, l’installazione di reti wi-fi libere e gratuite, l’utilizzo delle licenze copyleft nei luoghi della formazione

• Diritto all’abitare: politiche d’investimento per nuovi alloggi studenteschi, politiche per fa-vorire l’emersione degli affitti in nero, interventi di riqualificazione degli studentati, la costi-tuzione di agenzie pubbliche di intermediazione per la stipula dei contratti

• Diritto alla mobilità: il rafforzamento delle reti di trasporto a tutti i livelli e la riduzione dei

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costi, forme di sostegno alla mobilità alternativa (ad es. il bike sharing), la costituzione di forme di tariffazione integrata a livello regionale e nazionale

• Diritto alla salute: la possibilità per gli studenti di iscriversi all’Azienda Sanitaria del luogo di studio, l’abbattimento delle barriere architettoniche e il rispetto degli indici di sicurezza, la costituzione di consultori nei luoghi di formazione

La Rete deve avere la capacità di connettere le condizioni materiali e le istanze reali dei soggetti in formazione con un quadro molto più ampio che sappia costruire un dibattito pubblico nei luoghi di formazione e nelle città.Inoltre sarà importante esplorare anche il campo internazionale: risulta infatti evidente che l'Euro-pa si configura oggi come un'area unificata non da una politica sociale comune, bensì da una poli-tica di distruzione dello Stato sociale e di restringimento della spesa pubblica. Una tendenza che va contrastata riaffermando la necessità di costruire un'Europa politica e sociale, di ottenere un contratto unico europeo, di garantire il reddito minimo in tutti i Paesi dell'UE anche attraverso l'Ini-ziativa dei Cittadini Europei.

Tesi 8 – Beni comuni e partecipazione

La vittoria ai referendum del giugno scorso è stata sicuramente uno dei passaggi più significativi compiuti dal movimento in una stagione politica caratterizzata dall'azione predatoria del capitali-smo condotta con la collaborazione più o meno attiva delle istituzioni pubbliche nei confronti dei beni comuni.I referendum sui servizi pubblici locali e sulla produzione di energia nucleare, andando oltre le questioni strettamente attinenti i quesiti, hanno infatti sviluppato e trasferito dal tradizionale al -veo dei movimenti all'intera opinione pubblica una riflessione più generale sull'elaborazione di un modello alternativo di sviluppo, o quantomeno hanno aperto questo ragionamento al grande pub-blico, facendolo uscire da una più ristretta nicchia. Il dibattito sui beni comuni investe temi nodali come la regolamentazione e la limitazione del libero mercato ma soprattutto un nuovo modello di gestione democratica dei processi istituzionali, in netta controtendenza con la progressiva perdita da parte del pubblico del suo ruolo di tutela dei diritti fondamentali.Incidere su questo percorso di elaborazione teorica e rivendicazione concreta è un obiettivo fon-damentale che la Rete della Conoscenza deve continuare a perseguire tenendo assieme un'azione di stampo vertenziale e territoriale sul breve termine, come è successo per la campagna di 'Obbe-dienza civile' per l'effettiva applicazione dei quesiti referendari sulla gestione del servizio idrico, e un insieme di rivendicazioni più ampie nell'ottica di riappropriazione di 'potere' inteso come ver-bo e non come sostantivo: 'poter accedere' a beni e servizi necessari per vivere una vita dignito-sa, 'poter decidere' del consumo, o meglio del risparmio, e in generale della gestione dei beni co-muni, 'poter condividere', fuori dalle logiche del consumo e del mercato, spazi fisici e non di pro-duzione culturale e di aggregazione sociale, nonché la conoscenza stessa.All'interno di questo ampio dibattito sono stati inseriti in questi mesi diversi obiettivi di varia na-tura, spesso inclusi nella medesima cornice dei 'beni comuni', una cornice che è sembrata però ri-dursi sempre più ad un mero contenitore comunicativo: ai veri e propri beni comuni irriproducibili – aria, acqua, suoli, energia etc. – e riproducibili – conoscenza, comunicazione, cultura etc. – sono stati affiancati servizi pubblici – trasporti, sanità, gestione dei rifiuti etc. –, istituzioni statali – scuola, università, Cassa depositi e prestiti etc. – e addirittura il lavoro. Il rischio di questo procedimento analitico è stato segnalato in maniera molto chiara dal giurista Stefano Rodotà: “L´inflazione non è un pericolo soltanto in economia. (...) Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affida-

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ta una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua for-za”. Posta l'appartenenza a categorie giuridiche diverse tra loro, riteniamo che tutti gli elementi sopra-citati debbano essere caratterizzati da una rivendicazione comune, ovvero la loro gestione pubbli-ca nell'interesse collettivo e secondo i principi della democrazia partecipativa, favorendo processi ampi di elaborazione e legittimazione dal basso dell'azione pubblica, ovvero dell'azione collettiva svolta in forma istituzionale.La rivendicazione di una gestione 'altra' rispetto a quella privata o a quella pubblica piegata agli interessi del mercato e delle lobby economiche si inserisce in un campo, quello della governance neoliberista, fortemente compromesso: un sistema di mediazione tra interessi privati, spinte di democratizzazione dal basso e un ruolo delle istituzioni pubbliche sempre più affetto da una pro-fonda crisi di identità. Confrontarsi in maniera critica con questo modello, cercando di sovvertire il rapporto gerarchico tra interesse privato e interesse pubblico attraverso la partecipazione demo-cratica sui territori, connettendo le lotte spesso parziali e a volte in contrasto tra loro dei comitati di difesa del territorio, degli interessi dei lavoratori e degli utenti deve essere un obiettivo centra-le della Rete.In tal senso la nostra storica critica al welfare studentesco 'all'italiana', basato prevalentemente sul supporto familiare ai soggetti in formazione con un ruolo marginale delle istituzioni pubbliche, deve essere estesa alla gestione globale della res publica, troppo spesso diventata res privata per effetto di due processi diversi, ma complementari ed entrambi deleteri: le grandi svendite ai pri-vati avvenute prevalentemente negli anni '90 e la progressiva ritirata statale coperta solo in parte e senza alcun rispetto dei criteri di equità, universalità e quindi efficacia, dai cosiddetti 'corpi in-termedi' della società civile. Un processo supportato e legittimato da un ampio apparato propa-gandistico di denuncia dell’inefficienza del pubblico, spesso suffragato da una realtà fatta di cor-ruzione e dispersione delle risorse, una realtà però non legata alla proprietà del bene o servizio in questione, quanto piuttosto dalle sue modalità di gestione e in particolare dalla sottrazione al controllo e alla decisione collettiva e dal basso.E' necessario sgomberare il campo di questa riflessione da pericolose ambiguità che, non ponen-do al centro la rivendicazione prioritaria e necessaria – sebbene non sufficiente – di pubblicizza-zione di beni comuni, welfare e istituzioni che lo erogano, rischiano di rendere il dibattito sui beni comuni assimilabile nei fatti ad un'idea distorta di sussidiarietà per cui lo Stato, in ritirata sul ter -reno della giustizia sociale e della redistribuzione del reddito, è legittimato ad utilizzare come di -spositivo per la compensazione di tali mancanze strumenti intermediari tra pubblico e privato, ov-vero istituzioni private che riescono ad assolvere solo parzialmente i compiti che vengono loro as-segnati perché non dotate dei criteri di universalità e tutela dell'interesse generale caratteristici del diritto pubblico: un modello simile a quello della “big society” proposto dal conservatore Ca-meron in Inghilterra.Dobbiamo invece rilanciare con forza e senza ambiguità il tema della gestione partecipata dei beni comuni, dei servizi essenziali, e in generale della proprietà pubblica, senza abbandonarla alle aporie dei sistemi statali senza controllo popolare, in cui spesso prevalgono interessi parziali e quindi privati o meccanismi clientelari e di corruzione. Il miglior modo di difendere i beni comu-ni infatti è contrastare le privatizzazioni e garantirne una gestione partecipata e democratica. Quando la gestione di un servizio essenziale diventa economicamente vantaggiosa per un privato e viene deregolamentata, spesso accade che questo perde di equità, universalità ed efficacia, e che l'unico modo per ricondurlo all'interesse collettivo e globale – quindi non settoriale o corpora-tivo ma integrato in una gestione rispettosa dei diritti di cittadinanza, dell'integrità degli ecosiste-mi e del risparmio di risorse irriproducibili come l'acqua – è sostenerne la sua ripubblicizzazione, con una gestione e un controllo diretto della popolazione. Questa idea dovrà essere tradotta in pratica nella nostra azione quotidiana nelle scuole, nelle università e nei territori, per individuare

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e costruire altri modelli economici e politici di gestione delle risorse.

Tesi 9 – Crisi ambientale e futuro del pianeta

La crisi che stiamo attraversando, ce lo siam detti più volti, è sistemica: investe cioè tutto il model-lo di vita e di produzione esistente. In primo luogo, crisi ambientale e crisi economica sono stretta-mente correlate ma non consequenziali. L’incapacità politica negli ultimi 30 anni di invertire la ten-denza delle emissioni di gas serra, di mettere fine allo sfruttamento del suolo, di rompere con il modello produttivo di sfruttamento delle risorse naturali, oltre che umane, è la sfida con cui oggi ci dobbiamo misurare. Questa idea di società, basata solo sull’idea dei consumi, che sta devastan-do le piccole comunità, che produce le crisi dei rifiuti e che devasta il patrimonio urbano sta con-ducendo il Pianeta all’esaurimento delle risorse naturali. La crisi ambientale è principalmenteuna crisi figlia del modello sociale ed economico. Le Conferenze delle parti (COP15-COP16) della Con-venzione quadro sul clima globale delle Nazioni Unite del biennio 2009-10 svoltesi a Copenaghen e Cancun hanno subito prepotentemente l'infiltrazione delle lobby energetiche che con le loro azioni ostruzionistiche hanno determinato il cosiddetto “stallo negativo” nella formulazione di accordi vincolanti in tema di emissioni e inquinamento da parte delle grandi industrie e società multina-zionali.L’ultima conferenza tenutasi nel 2011 a Durban ha evidenziato qualche passo avanti, ma anche le storiche indecisioni dei “paesi industrializzati”.Qualcosa si è mosso nella giusta direzione: sono stati assunti degli impegni, sempre a lungo perio-do, che porteranno alla costituzione di un percorso negoziale che entro e non oltre il 2015 dovreb-be condurre ad un accordo globale sulla riduzione delle emissioni che questa volta riguarderà tutti - paesi sviluppati e in via di sviluppo - ed entrerà in vigore entro il 2020. Tale aspetto non è as-solutamente di poco conto giacché, allo stato attuale, dal novero dei cosiddetti “Paesi Sviluppati”, quelli obbligati a ridurre le proprie emissioni, sono assenti tre giganti quali Brasile, India e Cina, quest’ultima divenuta la nazione con più emissioni al mondo.Un’altra buona notizia, ovvero l'estensione temporale del protocollo di Kyoto che prevede una ridu-zione di almeno il cinque per cento delle emissioni dei gas serra rispetto ai livelli del 1990, è stata calmierata dall’auto-esclusione di Russia, Canada, Giappone.Da segnalare, inoltre, è anche la creazione del “Green Found” (100 miliardi di dollari fino al 2020), un fondo per finanziare iniziative dei paesi poveri che mirino a contrastare il cambiamento climati-co; era un punto molto sentito dagli “ultimi” della Terra poiché poteva essere assimilato ad un sor-ta di risarcimento dei danni provocati dall'aumento della temperatura media del pianeta a causa dei gas serra immessi in atmosfera dai paesi ricchi dalla rivoluzione industriale a oggi.Per quanto riguarda l'Italia, oltre le più rosee previsioni, i risultati del protocollo di una riduzione del 6,5% tra il 2008 e il 2012, sono stati raggiunti, toccando soglia -6,8% nel 2009 (fonte ISPRA). Questi risultati non sono però dovuti alle misure intraprese, quanto alla crisi economica globale che ha avuto una forte ripercussione nei consumi della popolazione e negli sviluppi delle industrie. L'andamento è però destinato a riaumentare, specie se non verranno prese ulteriori misure caute-lari ma anzi verranno applicati piani energetici che prevedono lo sviluppo di nuove centrali a car-bone capaci di aumentare le emissioni stesse del 70% in pochi anni.Proprio sulla “Questione Carbone” la Rete della Conoscenza ha già promosso un investimento di notevole entità, rilanciando la manifestazione contro l’apertura di una centrale ENEL a Porto Tolle (RO) e partecipando a quelle di Brindisi, Civitavecchia e Vado Ligure (tutte nella giornata del 29/10/2011).La battaglia non è ancora conclusa visto che le lobby energetiche interessate al business della fon-te fossile più inquinante del mondo non hanno affatto mollato ed anzi procedono con forti campa-gne stampa che millantano qualità ed efficienza e rinnovabilità del carbone; dulcis in fundo, l’odio-

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so ricatto occupazionale perpetrate ai danni delle popolazioni dei luoghi coinvolti, poste dinanzi al ricatto della scelta tra la propria salute e la possibilità di avere un lavoro stabile.La pressione politica della nostra organizzazione non deve fermarsi, però, solo alla lotta al Carbo-ne, ma estendersi a tutte le fonti fossili, una su tutte: il Petrolio.Sarà compito della nostra organizzazione essere sempre presente e monitorare i tentativi di distru-zione delle nostre coste e dei nostri mari ad opera di multinazionali attratte da svariati fattori che caratterizzano in negativo il nostro paese: distanze bassissime se confrontate con il resto dei Paesi U.E., apparato sanzionatorio debolissimo, scarsa attenzione o compiacenza della politica, bassissi-me imposizioni fiscali per chi richiede la concessione a trivellare o sondare il fondale.La Rete della Conoscenza è, e sarà, nelle battaglie per la difesa del territorio contro le speculazioni politiche ed economiche che ruotano attorno alle grandi opere. La battaglia di contrasto ad opere controverse - come la TAV o il Ponte sullo Stretto - è sempre stata intesa da noi con un profilo pro-positivo al fianco dei tanti movimenti o di quelle reti come Sbilanciamoci che propongono un uso diverso dei fondi stanziati e una politica sulla mobilità incentrata sul miglioramento del trasporto collettivo locale. In particolare la battaglia contro la Tav è una lotta che ha dimostrato in questi anni come una bat-taglia in difesa del territorio possa uscire dai cliché dei movimenti NIMBY e diventare simbolo di una lotta in difesa dei beni comuni. Forse anche per questo motivo, oltre che per gli interessi eco -nomici che vi sono dietro, il movimento nato in Val di Susa sta subendo una durissima repressione con tentativi pretestuosi di dividere il movimento che respingiamo con forza.Queste campagne incentrate su temi specifici si legano a doppio filo con una più ampia analisi sul-le abitudini generali che noi tutte/i assumiamo quotidianamente giacché inseriti in un sistema sof-ferente di una cronica tossicodipendenza da consumo e per spreco di risorse causa dell'abnorme produzione di rifiuti.E' forse proprio questo aspetto rappresenta il problema più arduo da risolvere, nonché al tempo stesso la cura nascosta nella malattia. La capacità di convertire in maniera radicale il nostro stile di vita verso una cultura ambientale basata sulla sostenibilità e sul mutualismo può essere il fattore determinante per invertire una rotta che in termini ambientali non potrà che portarci verso il bara-tro.In ogni scuola e università dovremo riuscire a portare le campagne per il riciclaggio dei rifiuti, per l’introduzione degli acquamat per arginare gli sprechi di acqua e, sul piano territoriale, sarà impre-scindibile lanciare campagne ampie per la riconversione energetica degli edifici pubblici - a partire da scuole e università - per ridurre i consumi energetici e migliorare la condizione generale dell’e-dilizia scolastica e universitaria al contempo. Su questo fronte sarà centrale il rapporto storico con Legambiente per accrescere la capacità di incidere sulle politiche locali e nazionali in campo ener-getico.In definitiva non è più teorizzabile una crescita infinita in un sistema finito di risorse.Il senso del limite e l'uso delle risorse in maniera sostenibile sono le linee guida da seguire per ri-solvere la crisi climatica e ambientale e l'adozione di questi paradigmi naturali si effettua essen-zialmente su due livelli:- quello quotidiano e personale nelle nostre scelte di consumo alimentare, di mobilità sostenibile, di utilizzo di energie rinnovabili ed ecologiche, del riuso e del riciclo dei materiali;- quello più ampio della lotta politica nelle Scuole e nelle Università (da cui dovranno partire cam-pagne per il riciclo e di lotta allo spreco) affinché proprio i luoghi della formazione possano risulta-re il più importante punto di partenza verso una gestione razionale delle risorse, per un'ottimizza-zione dei processi di produzione e di tutte le attività umane. Riteniamo come Rete che la tutela dell'ambiente e un rapporto uomo-natura equilibrato possano essere realizzabili solo in una socie-tà che superi quella contemporanea. Finché i processi produttivi e le attività umane avranno come fine il profitto, non avremo una società sostenibile. Dobbiamo porre dei limiti a questo ipersfrutta-mento delle risorse planetarie e far capire come la questione ambientale sia un tema fortemente politico. Solo la partecipazione dei cittadini e l'eliminazione della logica del denaro, può garantire

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che il fine sia l'interesse generale e non quello privato.

La Rete si impegnerà nei prossimi mesi a rilanciare le vertenze e campagne partite con l’Assem-blea di Dicembre:

• Raccolta differenziata nelle scuole e università: in questo campo gioca un ruolo importantis-simo l’attivismo di ogni militante. Infatti ci dovremo battere affinché si compia una rivolu-zione culturale su questo fronte, per ridurre i rifiuti e inserire la raccolta differenziata nelle aule

• Acquamat nei luoghi della formazione: per continuare la battaglia lanciata con i Referendum per togliere la vendita delle bottiglie d’acqua dalle scuole e università, contribuendo a ri-durre i consumi di plastica

• Obbedienza Civile: costruiremo una battaglia battaglia politica nelle scuole e università af-finché non venga pagata la remunerazione del capitale e reinvestendo i risparmi per il Dirit-to allo Studio

• Riconversione ecologica nelle scuole e università: su questo fronte sarà necessario ampliare le battaglie per l’edilizia scolastica e universitaria per rendere i luoghi di formazione mag-giormente ecologiche e capaci di garantire un risparmio non solo energetico ma anche eco-nomico.

Tesi 10 – Il nostro impegno antimafia

Le mafie sono un fenomeno complesso che non può essere né compreso né combattuto se non considerato nei suoi moltemplici aspetti: da quello economico a quello sociale, da quello politico a quello culturale, fino a quello ambientale. Per questo, pur tenendo conto della non unitarietà delle mafie, queste costituiscono dei sistemi sociali alternativi, in forma para-statale, capaci di intrec-ciarsi col tessuto nel quale si instaurano, in una zona grigia di sconfinata ampiezza (zona di espansione). Nel suo aspetto sociale le Mafie si sostituiscono completamente allo stato in diverse zone del Paese, dal Sud alle Periferie del Nord Italia: offrono lavoro, sistemi di tutela, sicurezza, be-nessere economico, posizione sociale.Le Mafie sono uno dei fenomeni più dinamici degli ultimi secoli in Italia. Dentro il processo di fi -nanziarizzazione dell’economia, le Mafia si sono trasformate: non sono più solo le Mafie del con-trabbando di sigarette, dello spaccio e degli illeciti visibili. Le Mafie sono diventate broker e im-prenditori di grande successo: hanno a disposizione grande liquidità e possono rischiare senza grossi problemi. Oltreciò nell’economia globalizzata esse si sono dotate di strumenti di scambio in-ternazionale: non è un caso infatti che la mafia più affermata a Milano, la ‘ndrangheta, sia appun-to quella con i migliori collegamenti oltreoceano, cioè i cartelli colombiani della droga. Una Mafia quindi che accumula denaro con i meccanismi d’illegalità più diffusa: l’azzardo, gli appalti illegali, lo spaccio, la protustizione, tra gli illeciti più importanti, e che si ripulisce riciclando denaro in bor -sa o investendo in grandi patrimoni immobiliari in giro per il mondo (i più grandi locali al centro delle Capitali europee sono in mano alle Mafie) e rilevando grandi imprese. Spostare velocemente per il mondo enormi quantità di denaro è un’operazione fondamentale per far ‘perdere le tracce’ del denaro sporco. Traffici di droga, armi, esseri umani ed ecomafie sono le principali voci di un bi-lancio stimato di quasi 135 milardi di euro. Ma è importante rendersi conto del fatto che l’econo-mia sommersa in Italia costituisce più di un quarto del Pil e che pesa sull’economia del centro-nord quasi il doppio di quanto non pesi nelle regioni del Mezzogiorno. Del resto le Mafie, come sanguisughe espropriano le ricchezze fino ad esaurirle. Infatti le mafie si concentrano là dove vi sono ampie possibilità di facile profitto e non sono solo in grado di sviluppare un’economia paral-lela, ma di offrire prodotti e servizi illeciti da vendere a un mercato ‘legale’ che sempre più spesso

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si fa motore della domanda di tali servizi, diventando dunque traino per l’espansione delle mafie. Convenienza e relazioni sono la perfetta ricetta di successo che le cosche hanno sviluppato nel Nord Italia, una zona dove benché le mafie sono presenti spesso da decenni, risultano quasi total -mente prive di ‘antidoti’ culturali: la presunta superiorità morale e una conoscenza stereotipata della mafia sono una benda sugli occhi che regala ai boss eccezionali possibilità di espansione e radicamento. Le Mafie, naturalmente restano radicate in maniera imponente al Sud. La questione meridionale ancora viva in Italia, ha il suo elemento fondante proprio nella presenza delle Mafie e nell’assenza dello Stato. Le Mafie al Sud in questa fase di crisi rappresentano l’ultimo pezzo di welfare esistente. Radicamento sociale, in cambio di favori è il prezzo che il Sud Italia ha pagato. Le Mafie, prendono energia nei quartieri dove la povertà è densa, il suo esercito di riserva nelle periferie del Sud lasciato a sè, dove gli orrori urbanistici degli anno ‘80 hanno costruito in molti casi, dei veri e propri alveari. Le Mafie sono i principali responsabili del deturpamento di intere zone agricole, di paesaggi costeri completamente devastati dall’abusivismo. Ciò che le Mafie trova-no al Nord e all’estero è la ricchezza che hanno già sottratto al Sud. Hanno inaridito gran parte del-le potenzialità culturali ed economiche del Mezzogiorno. Se infatti la subcultura mafiosa assume al suo interno le caratteristiche di un totalitarismo, essa assume nella società tutte le gradazioni della scala dei grigi: sono mafiosi in giacca e cravatta che trattano con imprenditori con la ricca imprenditoria del nord, sempre più mafiosizzata. La legalità diventa una maschera, un’alibri opersino una tutela. E’ un grigiore etico che non ha difficoltà a dif-fondersi perché può viaggiare sul vasto terreno del grigiore culturale. Ma le tinte diventano subito più scure quando si passa per chi dei mafiosi è subalterno: nero è il lavoro dei braccianti agricoli stagionali sfruttati da aziende di cui non sanno il nome e vessati dai caporali, a Nardò come a Lati -na. Ma il caporalato non è solo per chi raccoglie i pomodori: lo stesso sistema funziona anche per i cantieri del nord nelle macellerie emiliane come nell’edilizia delle grandi opere del nord.La leva forte di questi meccanismi può essere chiamata in molti modi, a seconda di come la guar-di, ma è sempre la stessa: paura, insicurezza, ricatto, precarietà. E’ la paura di perdere un lavoro che non sia ha, l’insicurezza generata da un ambiente corrotto in ogni sua declinazione, il ricatto sotto violenza, il ricatto sociale; la precarietà di un’esistenza minacciata sul posto di lavoro per mancanza di tutele, o per strada dalla cieca violenza di un clan camorrista. Le mafie conservano i propri valori, tutelano l’integrità dell’organizzazione criminale, ma sono dotate di una straordinaria capacità di trasformazione e adattamento. Gli elementi di compatibilità fra sistema mafioso e capi-talismo sono numerosi perché spesso e volentieri partono da assunti analoghi. Se per il primo il denaro è uno strumento per accrescere il potere, per l’altro è speculare. Se il mafioso sottrae la ri-cerca del potere a vincoli di legge, il capitalista vuole sottrarre ai vincoli di legge la ricerca del de-naro. E se è vero che fra denaro e potere c’è un legame strettissimo noteremo che non è troppo difficile vedere uno nel ruolo dell’altro.Ci interessa costruire un’ idea di antimafia sociale, che, consapevole del fatto che spesso è la leg-ge a proteggere le vere ingiustizie. capace di attaccare quegli elementi di sistema che sono compa-tibili con la criminalità organizzata e ne rendono possibile l’esistenza, assumendo sempre quell'at-teggiamento critico fondamentale per un'idea di giustizia sociale lontana dalla retorica della legali-tà. Contrastare in questo caso significa proporre un’alternativa di società fondata non su profitto e sopraffazione, ma su uguaglianza e cooperazione; non su violenza e affermazione individuale o fa-milistica, ma su beni comuni e collettività. Solamente rimuovendo le cause sociali ed economiche che creano le vere e profonde diseguaglianze, che ci consegnano un mondo di ingiustize e sopraf-fazione, potremo costruire la vera giustizia sociale. Per questo nelle scuole e nelle università dob-biamo lavorare ogni giorno ribaltare quel paradigma culturale, che striscia silenzioso, fatto di omertà, violenza e autoritarismo; solo così sarà possibile distruggere le mafie. E’ necessario rinno-vare il ruolo del pubblico, dandogli nuova forza. Troppo spesso esso è sinonimo di malagestione, corruzione; esso deve invece assolvere a un ruolo di tutela dell’interesse collettivo e dei beni co-muni. Se infatti alcune parole hanno perso di senso è necessario riempirle nuovamente di signifi-cato: anche la parola ‘politica’ deve tornare a collegarsi alla partecipazione e non al clientelismo.

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Corruzione, favori, voto di scambio. La Mafia si garantisce sicurezza e stabilità, tramite la collusio -ne col sistema politico e istituzionale da ormai mezzo secolo. Fra mondo politico, economico e so-ciale vi è sempre un legame indissolubile, ma è la qualità di questo legame che può portare a un sistema di intrecci criminali piuttosto che di giustizia sociale.Vogliamo fare uno sforzo per ascoltare le voci di tutte le vittime di mafia; vedere ciò che ci viene nascosto o che talvolta non vorremmo vedere; parlare, raccontare e gridare per denunciare le com-plicità. Vogliamo farlo come studenti, a partire dai luoghi che frequentiamo quotidianamente: le scuole e le università, le piazze, le strade. I luoghi della formazione e della cultura devono essere dei nodi di resistenza alle mafie, e lo possono essere se e solo se non vi è una gestione ammini -strativa opaca, clientelare o autoritaria, ma trasparente e democratica; scuole e università possono essere un reale anticorpo alle mafie se al loro interno gli studenti sono protagonisti del loro per -corso di formazione, perché è in questo modo che nasce il vero senso di cittadinanza responsabi-le; e questi anticorpi sono efficaci se si intrecciano col territorio, aprendosi come spazi di cultura, socialità e cittadinanza durante tutta la giornata, perché altrimenti rimangono cattedrali nel deser-to sempre più deserte e riempite di vuoto. E’ dell’inclusione che, nei contesti difficili, può fare la differenza. Le politiche di tagli e distruzione della scuola pubblica del ministro Gelmini invece han-no acuito la diffusione dei fenomeni di abbandono scolastico: l’ex ministro era evidentemente troppo impegnata a premiare le ‘’eccellenze’’ per accorgersi di consegnare alla strada ragazzi che avranno a causa di ciò come unica possibilità di riscatto quella della carriera criminale. Accanto al lavoro nei luoghi della formazione è necessario un impegno di ricostruzione del tessuto sociale. Crediamo per questo di aver ancora molto da fare sui territori, nel potenziare la nostra rete con Li -bera, con cui in questi anni abbiamo sviluppato un ottimo percorso di crescita politica. Dobbiamo intensificare questo rapporto, sia nelle iniziative nei luoghi della formazione, quando soprattutto sul piano delle città. Libera è una rete complessa, carica di esperienze diverse, tra cui la nostra. Il rapporto con essa, come sempre, è basato sulla contaminazione e la critica schietta reciproca, sia sul piano nazionale che territoriale.Un tema su cui dobbiamo di certo avviare un collaborazione diretta con Libera è il tema dei beni confiscati alle mafie. Crediamo che la nostra esperienza di mutualismo, con la cultura della legalità di Libera possa essere un ottimo strumento per sradicare quel radicamento culturale e sociale del-la Mafia. I beni confiscati erano la garanzia cumulativa del potere mafioso, nel momento in cui vengono confiscati vengono restituiti alla collettività, trasformandoli in occasioni di riscatto per quei giovani che altrimenti si vedono completamente negato un futuro. Sono luoghi che si sottrag-gono all’idea del mercato perché si affermano attraverso meccanismi di mutualismo, solidarietà, e permettono di sviluppare un’economia sociale non finalizzata al profitto. Ma è chiaro che l’impe-gno e la buona volontà non sono sufficienti: sono necessarie forme di tutela sociale per sottrarre al ricatto della precarietà gli studenti e i lavoratori.

Tesi 11 – Donne e potere come verbo e non come sostantivo

Il tema “donne e potere” non è nuovo e nota ne è la sua complessità e come il potere usi le don-ne e i loro corpi e, ancora, come eserciti un'oppressione su di loro negli ambiti della politica, del lavoro, della conoscenza e dell’economia. Spesso, ad esempio, si citano i dati sulla già scarsa pre-senza femminile negli organi rappresentativi e nella politica in generale. Scarsa presenza dovuta fortemente al persistere degli stereotipi di genere, a condizioni materiali che spesso rendono più difficile la partecipazione per una donna e al permanere di un modello di potere e di pratiche poli -tiche basati sul machismo.

La riflessione della Rete della Conoscenza su questo deve tenere in considerazione alcuni nodi pro-blematici. Innanzitutto occorre un'attenta riflessione sul tema della democrazia paritaria, sia al no-

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stro interno che al nostro esterno, e degli strumenti per raggiungerla. L’esperienza di altri paesi di-mostra come alcuni strumenti, ad esempio le quote rosa, favoriscano una maggiore partecipazione delle donne alla vita economica e politica e dopo diversi anni risultino non più indispensabili. Ma siamo consapevoli di come non basti imporre una presenza numerica delle donne se non si riesce a favorire la loro piena e libera espressione in ogni luogo decisionale. Intendiamo, pertanto, la ne-cessità di ripensare il potere in un’ottica trasversale e partecipativa e non come sopraffazione del forte sul più debole, insomma intendiamo dare rilevanza ad un potere come verbo e non come so-stantivo, contro ogni legittimità dei rapporti di dominio.Quando ci si interroga di democrazia paritaria, infatti, è necessario tener conto di alcuni elementi problematici che investono la maggior parte dei luoghi di partecipazione politica, dai movimenti, ai partiti, alle associazioni, ai sindacati. Da un lato c’è un ragionamento che riguarda la rappresenta-zione pubblica dei movimenti e gli stereotipi di genere. Si avverte spesso, soprattutto da parte di chi tende a raccontare e analizzare i movimenti, una necessità di definire in maniera articolata il ruolo e la personalità dei cosiddetti leader, di ricercarli anche quando il movimento stesso vorreb-be farne a meno, di identificarli in figure maschili che rispecchino specifiche caratteristiche, che tendono a non tener conto dell’impegno e del protagonismo che le donne sono in grado di mettere in campo all’interno dei percorsi politici. Inoltre, vi è un problema di stereotipi di genere che inve-ste le pratiche politiche, spesso basate sulla necessità di dover tener conto dei rapporti di forza, soprattutto nelle battaglie in cui la controparte (potere economico, politico, istituzionale) utilizza la delegittimazione e la repressione del dissenso. E’ importante sottolineare, però, che il movimento delle donne non è espressione di una debolezza alla quale debba essere dato spazio, questo per-chè le battaglie femministe sono riuscite ad invertire rapporti di forza culturali, politici e sociali millenari!Il problema, pertanto, riesiede nell’incapacità dei movimenti e delle organizzazioni di individuare al loro interno una democrazia che rispetti realmente le differenze, cercando un metodo di con-fronto che sappia stare nel merito delle questioni, per la ricerca di un obiettivo condiviso e la co-struzione di una strada migliore per raggiungerlo. Per questo motivo dobbiamo adottare pratiche politiche al nostro interno e all’esterno che, prima di costruire delle pratiche di conflitto condivise, sappiano trovare un piano di discussione condiviso, una modalità di confronto tra le diverse ani-me, che non passi soltanto dalla necessità dell’espressione di una forza, in questo caso “incarna-ta” in gesti, linguaggi e politicismo. Unire l'efficacia delle azioni all'uscita da questo paradigma deve essere per noi una priorità nella nostra azione quotidiana all'interno della Rete della Cono-scenza e nei movimenti a cui partecipiamo.

Un’altra riflessione importante riguarda la neutralità dei temi portati avanti dai movimenti: siamo abituati nei ragionamenti ad utilizzare un individuo (o un insieme di individui) neutro quando par-liamo di lavoro, di ambiente, di conoscenza, un individuo neutro che tende ad assomigliare molto ad una figura maschile e, nel migliore dei casi, immaginiamo la donna come una variazione, spes-so problematica, rispetto a questo universale. Eppure sappiamo che non esistono temi che siano neutrali rispetto al genere. Una riforma universitaria, una riforma del lavoro, tagli al welfare colpi -scono in modo diverso gli uomini e le donne. Questo modo di leggere la realtà influenza ovviamen-te l'azione politica e porta molte donne a mobilitarsi come studenti, lavoratori, ambientalisti e poi come donne e molti uomini a non interrogarsi mai sulla loro condizione maschile. È necessario che la Rete della Conoscenza superi questa scissione tra tematiche di genere e tutti gli altri temi, in primo luogo nei suoi spazi di discussione e di elaborazione interna, attraverso una visione ed un’analisi più completa in ottica di genere tra le diverse aree tematiche, e che sia poi capace di portare questa ricchezza fuori dall'organizzazione.

Quando si parla di potere non si intende ovviamente solo il potere politico, nei mesi scorsi abbia -

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mo lanciato il blog “Non vogliamo una crisi del genere”(nonvogliamounacrisidelgenere.blogspot.-com) proprio per mettere in evidenza il fatto che la crisi economica in corso sta determinado un aumento delle discriminazioni di genere all’interno dei luoghi di lavoro, e non può non essere parte fondamentale dell’analisi che riguarda un cambiamento del mondo del lavoro stesso e del si-stema economico.Se donna è potere, riprendersi i diritti negati vuol dire anche riprendersi il lavoro.In Italia, il tasso di inattività supera il 48%, ovvero quasi metà delle donne italiane non solo non lavora, ma non cerca neanche un lavoro, contro una media europea del 35%. Le ragioni di questo dato sono da cercarsi principalmente nel permanere di modelli di genere che lasciano sulle spalle delle donne buona parte del lavoro domestico e di cura e nell'assenza di un welfare adeguato: la bassa copertura di servizi, l'azzeramento dei contributi e degli indennizzi per le neo-mamme, la minore disponibilità dei padri a prendere congedi parentali, la pratica delle dimissioni in bianco mettono molte donne di fronte al bivio maternità-lavoro. Le giovani donne sono costrette a firma-re e rinnovare contratti a termine e non poche sono coloro che, ottenuto il posto fisso dopo diversi anni, dovranno lavorarne ancora molti prima di poter avere diritto ad una pensione minima. Per-tanto, anche la Rete della Conoscenza, chiede con forza il ripristino della L. 188/07 che impediva la pratica delle “dimissioni in bianco” per evitare che venga messo in pratica l'abuso di potere com-piuto spesso nei confronti delle giovani lavoratrici al momento dell'assunzione sul posto di lavoro.Recenti ricerche su scala europea hanno dimostrato che in paesi con sistemi di welfare più avan-zati e modelli familiari diversi, le donne con maggiori possibilità occupazionali sono maggiormente incentivate ad avere figli, nel nostro paese avviene l'inverso. Molte delle donne che riescono ad in-traprendere percorsi lavorativi soddisfacenti non raggiungono ruoli direttivi o, a parità di ruolo, percepiscono stipendi inferiori rispetto a quelli dei colleghi uomini e, in età ormai avanzata, lascia-no il loro posto.La crisi ha acuito sia il divario Nord-Sud (il tasso di inattività femminile passa dal 34% nella provin-cia autonoma di Bolzano al 68,9 della Campania) sia le differenze tra uomini e donne (in Italia sono occupati il 68,6% degli uomini e solo il 46% delle donne).

A determinare ancor di più questa situazione è il patrimonio culturale radicato in tutta la nazione e la mancanza di un adeguato e moderno sistema di welfare. Il primo lega ancora il paese al model-lo man breadwinner, come dimostra il fatto che le donne italiane svolgano in media 24 ore di lavo-ro domestico gratuito alla settimana rispetto alle 8 ore che dedicano gli uomini a questa attività, sproporzione che non vede uguali negli altri paesi europei. Un modello che sembra straordinaria-mente impermeabile a qualunque cambiamento e contro il quale dobbiamo svolgere un importante lavoro culturale. Rispetto invece ad un sistema di un welfare che rimane sostanzialmente familia-stico, esso deve essere sostituito da un sistema tutelare e di sviluppo, non solo economico, ma anche cognitivo, in grado di garantire occupazione e sussistenza a tutta la popolazione in età atti-va, con un particolare riferimento all'integrazione e alla tutela femminile. Per esempio, l’apertura degli asili nido all’interno degli Atenei, da proporre tramite mozione nei Senati Accademici e Cda, non solo ai figli delle dipendenti delle Università, ma anche a quelli delle studentesse rientra nel nostro intento di eliminazione degli ostacoli sociali che non permettono agli studenti di continuare il proprio percorso universitario in totale armonia con le scelte personali, come può essere quella di avere un figlio.

E’ necessario rivendicare il fatto che le donne possano avere la capacità di scegliere, non diessere scelte, specie nel come vivere la propria sessualità, quindi il proprio piacere e il proprio cor-po. Viviamo la contraddizione di una società apparentemente libera, dove il corpo e la continua al -lusione sessuale dominano i mass media e sono il principale mezzo pubblicitario per veicolare fa-meliche compulsioni consumistiche, ma dove vige ancora una forte inibizione verso i propri impul-si e che spesso impedisce una presa di coscienza su se stessi e sulla propria possibilità e diritto

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alla scelta. Si rafforza così un immaginario fatto di clichè e stereotipi di genere che mostrano come un uomo o una donna sono o dovrebbero essere, in cui il sesso è un'arma per raggiungere i propri obiettivi, l’unico strumento per realizzare i propri desideri. Grazie alla loro diffusione, questi mo-delli artificiali divengono un metro di confronto che alimenta aspettative che non possono essere raggiunte, creando frustrazione e disagio. Questa cornice mediatica non viene controbilanciata da alcuna educazione al corpo e alla sessualità nei luoghi della formazione: nella nostra società si può parlare di sesso in tutti i modi, purchè non se ne parli seriamente. Per questo la Rete si pre-figge di mettere in campo una campagna nazionale nei luoghi della formazione sull'educazione alla sessualità consapevole, rivendicando anche la distribuzione gratuita di contraccettivi.

Spesso è difficile notare i continui attacchi politici e culturali al diritto all’autodeterminazione della donna.In molte regioni, per esempio, la pratica dell'interruzione volontaria di gravidanza è, o sarà a bre -ve, territorio di scontro tra volontari ideologicamente orientati verso il fondamentalismo cattolico e figure professionali che lavorano quotidianamente nei consultori e negli ospedali che sono tenute a praticare ciò che le leggi italiane impongono loro. Vittime di questo scontro ideologico saranno soprattutto le donne che vogliono abortire e che saranno costrette a subire un ulteriore dolore inu-tile, un’ulteriore violenza psicologica in un momento già delicato.La Rete della Conoscenza continua, infatti, a partecipare alle vertenze territoriali contro il protocol-lo Cota in Piemonte e la Legge Tarzia nel Lazio e alle battaglie contro la diffusione della pillola RU486 e la denuncia della presenza degli obiettori di coscienza nei presidi medici, portando avanti pratiche di opposizione ed alternativa sociali che promuovano un’altra idea di donna per un’altra idea di società.

11.1 – Liberi di essereSe dell'omosessualità ciò che inorridisce soprattutto l'homo normalis, poliziotto del sistema etero-capitalistico, è il prenderlo in culo, ciò dimostra che uno tra i nostri piaceri più deliziosi, il coito anale, ha in sé una notevole dirompenza rivoluzionaria.Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, 1977

Ai tempi della crisi non c’è tempo per i diritti, né per la giustizia sociale. Il modello di sviluppo ete-ro-capitalistico fondato sulla libera speculazione e sul dominio del capitale, venduto come portato-re di benessere economico e materiale, non solo non ha portato a un conseguente benessere so-ciale e al raggiungimento di eguaglianza e libertà, ma ha fatto saltare i meccanismi dell’avanza-mento sul terreno dei diritti tutti, con un conseguente arretramento epocale.Il capitalismo genera in sè i germi dell’egoismo e del machismo più pericoloso, da modello di svi -luppo economico ha forgiato un pensiero e culture di massa. Il fallimento dell’Europa politica e economica è figlia di soluzioni accentratrici di un impero che ha sempre tenuto fuori dalle decisio-ni le periferie, le minoranze, le altre ricchezze. Questa esclusione ha a sua volta infiammato una lotta intestina tra poveri, tra coloro che si appellano a pretestuose differenze, come la razza, il ge-nere, la sessualità, la provenienza geografica per sfogare il contagio della rabbia e dell’impotenza di ciascuno, di fronte alla crisi sistemica che comprime diritti, libertà e speranze. Gli oppressi ge-nerano a loro volta oppressione.

Anche se l’Italia vanta di essere nel novero dei paesi più sviluppati economicamente, l’equazione per cui democrazia, PIL e diritti (sociali e civili) avanzano insieme non funziona: si vive invece una compressione di questi tre pilastri che si schiacciano sulla base della piramide sociale, soprattutto per chi vive sulla propria pelle oppressioni di matrice sociale e culturale: donne, migranti, lesbiche, trans, gay...

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A noi studentesse e studenti di un paese tutt’altro che pacificato, questa degenerazione fa paura, ma sappiamo come combatterla: attraverso il sapere, attraverso una rieducazione della società. Bi-sogna fare leva sulla cultura, sul rispetto del diverso e sull’importanza del coinvolgimento della maggioranza nella battaglia di una minoranza, perché è attraverso la liberazione e emancipazione di ogni minoranza che si può raggiungere la totale libertà, libertà per tutti e tutte di amare, di vi-vere liberamente i propri percorsi sessuali, i propri corpi e le proprie identità di genere.In considerazione di tutto ciò, la battaglia contro l’omofobia in Italia oggi deve passare in primo luogo attraverso un più ampio progetto di ricostruzione di una nuova politica culturale e di una nuova cultura politica, che rimettano al centro la questione lgbtqi come questione riguardante l’in-tera società. Ed in questo senso appare assolutamente necessario, da un lato, abbattere radical-mente l’industria dell’omofobia e combattere chi nel movimento l’ha generata per lucrare e media-re al ribasso sui nostri diritti. Dall’altro lato, individuare senza remore né tatticismi partitici gli av-versari politici in questa battaglia, che sono senza dubbio i molti rappresentanti della cultura cleri -cale, cattolico-integralista e neoconservatrice, ma anche i tanti ignavi che non hanno il coraggio o la volontà - specialmente a sinistra - di prendere posizione in merito.In secondo luogo, la battaglia contro l’omofobia e le discriminazioni passa attraverso la ricolloca-zione della questione lgbtqi all’interno della più ampia questione sociale, alla quale è intimamente connessa.

Ripensare nuove forme di welfare universale, individuale e diretto, che eliminino le nuove e vec-chie povertà e che assicurino l’effettività dei diritti, possono attivare un processo di liberazione culturale e integrazione sociale. Il ricatto della precarietà che la nostra generazione subisce rende la discriminazione omofoba ancora piu’ pericolosa.

Non è più concepibile un welfare familistico con cui garantire tutela, diritti, assistenza e servizi fondamentali soltanto alle famiglie di stampo eterosessuale, definita come unica famiglia naturale dal fanatismo ultra- cattolico in chiaro contrasto con la laicità del nostro ordinamento.

Questa discriminazione fa si che sia lo Stato stesso complice di un silenzio omofobo, che discrimi-na i cittadini. Sono rari i casi in cui i comuni o Regioni (Emilia, Napoli, Milano..) considerano la convivenza more uxorio meritevole di tutela, e che ritengono opportuno garantire vantaggi legali, economici e assistenziali a tutti i nuclei affettivi, attraverso i registri per le coppie di fatto.Si percepisce sempre piu’ forte in Italia, il bisogno di garantire la libertà a tutt* e a ciascun*, di vi-vere e costruire i propri nuclei d’affetto e relazione, svincolati da modelli familiari etero-sessisti e etero-patriarcali.

Queste pone come questione centrale l'importanza, nei luoghi del sapere, di una vera e propria educazione all'affettività. Un principio sancito anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2010, che riconosce il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia all’unione omosessuale intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso. Siamo per questo convinti che non si possano conquistare diritti uguali per tutt* senza una seria batta-glia culturale, ma al contempo riconosciamo che la cultura si colloca su un piano diverso dai diritti. Lla cultura muta, ma i diritti inalienabili delle persone non possono dipendere dal mutare delle cose: o ci sono del tutto, o non ci sono per niente. Presto il Parlamento, se non si deciderà a legi-ferare, si troverà a dover prendere atto di uno stato riconosciuto dai tribunali di tutta Italia.

Per noi la battaglia dei diritti lgbqti rappresenta inoltre un’occasione in più per combattere la pau-ra rivolta verso il "diverso", supportato e alimentato spesso dal potere e dalla scienza. Tutto ciò

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porta ad una forma di controllo sociale dall’alto, volta al mantenimento dello stereotipo della "nor-malità", che finisce per classificare gli orientamenti non eterosessuali come patologici.In Italia, si è costretti a passare attraverso la medicalizzazione per concludere legalmente la transi -zione da un sesso all'altro. Non è possibile ricevere la nuova identità anagrafica senza il completa-mento di tale percorso, che prevede atti chirurgici demolitivi, come la vaginoplastica o la fallopla-stica. A fianco delle associazioni che si battono da anni per la depatologizzazione del transessuali-smo, come studenti e studentesse abbiamo due compiti: l'impegno nel rendere le scuole e le uni -versità luoghi dove si combatte la transfobia e si forniscano alla popolazione studentesca guide e servizi di tutorato sulle identità di genere e sessuali (come ad esempio il doppio libretto nelle uni-versità).

La Rete della Conoscenza, tramite la chiara capacità di portare avanti battaglie sociali, deve diven-tare promotrice, nei luoghi della formazione e negli spazi cittadini di campagne educative sulla sessualità libera e consapevole, sulla prevenzione alle MST, sulla educazione alle differenze, met-tendo in atto cosi’ la prevenzione di ogni forma di bullismo omofobico e violenza di genere, per riuscire infine a creare dibattito su questi temi e sollevare vertenze che richiedano una rilettura dei libri di testo di stampo etero-patriarcali, per dare spazio e voce a tutti i personaggi storici e lettera -ri donne e omosessuali, che sono oscurati e dimenticati, per promuovere un cambiamento di pro-spettiva in chiave di genere della nostra cultura.

È nostro compito, inoltre, vigilare nei luoghi della formazione sui pericolosi attacchi omo-transfobi-ci non solo da parte di studenti ma anche della comunità scientifica. Sono stati molti i casi negli ultimi anni in cui personaggi pubblici e accademici si sono spinti in dichiarazioni oscurantiste, pe-ricolose e anti-scientifiche. Dobbiamo saper dire a gran voce che nelle nostre scuole e università, come in ogni altra istituzione pubblica e laica non c’è spazio per ogni forma di opinione discrimi-natoria.Riteniamo, infatti, grave che personaggi pubblici o con visibilità mediatica facciano allusioni lesive della dignità delle persone, perché non solo contribuiscono a nutrire il terreno sul quale l’omofobia si radica, ma possono seriamente generare conseguenze pericolose.

Se si pensa che un adolescente ( il tentato suicidio di uno studente di Vicenza del 5 gennaio scor -so, ad es.) che già vive con difficoltà la sua identità sessuale, non solo dovrà combattere lo stigma sociale, ma dovrà anche temere di subire terapie di psicoanalisi a cui sarà probabilmente sottopo-sto dai suoi genitori, e infine peggio ancora dovrà rinnegare se stesso/a.La vera patologia che denunciamo è che nel nostro paese esiste ancora una profonda paura del di-verso, e che i sintomi più irritanti si manifestano con espressioni di incauto opinionismo e incita-zione a diverse forme di odio. Ci si rende conto da soli che le conseguenze di certe opinioni posso-no essere seriamente compromettenti soprattutto per gli adolescenti, e non vi è libertà d’opinione che tenga, se si può con un commento convinto, generare esiti socialmente e culturalmente de-vianti. È per questo che riteniamo fortemente necessaria l’applicazione della Sentenza storica per i diritti lgbtqi in Europa, in cui la Corte Europea per i Diritti Umani, ha finalmente sentenziato (2012) che “condannare l’omofobia” non viola la libertà d’espressione.

La libertà d’espressione ha quindi un limite etico ed è compito di tutte e tutti contrastare e denun-ciare ogni atteggiamento maschilista e patriarcale presente nella società, che calpesti la dignità delle donne, delle/dei trans e omosessuali, impedendone l’effettiva parità giuridica e sociale o, peggio, alimentando vili atti di violenza fisica e psicologica e verbale. Infatti la società che ci im-maginiamo è chiaramente Antisessista e non può che essere Antirazzista e Antifascista, in contra-sto ad ogni sistema di oppressione o di svilimento della dignità di ciascuna persona.

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Non lasceremo però che la società ci riconosca solo attraverso la figura delle vittime. Per questo non bastano, i "numeri di aiuto" o le pubblicità progresso per sconfiggere lo stigma legato all'omo-sessualità e al transessualismo: quello di cui abbiamo bisogno è un reale cambiamento sociale e culturale. E in questo non possiamo esimerci dal fare autocritica su discriminazioni interne al mo-vimento, come succede per la bisessualità, orientamento sessuale che viene doppiamente discri-minato, non solo nel mondo etero, ma anche in quello omo e trans. Viene considerato, infatti, come una condizione transitoria, spesso collegata alla fase adolescenziale: uomini e donne bises-suali vivono, secondo questa concezione, una sessualità ibrida, che non “sceglie” né di stare in un senso né nell’altro. Esistono poi associazioni LGT che non riconoscono i bisessuali come soggetti ri-vendicativi di diritti o tutele, se non considerati come “omosessuali per metà”. Abbiamo il dovere di stigmatizzare concezioni che sminuiscono, un orientamento sessuale esistente non solo negli adolescenti, ma anche nelle persone adulte.

Non dobbiamo dimenticare quindi che la libertà di essere è il primo tassello che accomuna la co-munità lgbtqi nel costruire una società paritaria per tutt* e che faccia della diversità la sua ricchez-za.Come studentesse e studenti rivendichiamo quindi un processo di soggettivazione, convinti che questa battaglia non possa essere combattuta esclusivamente da una "minoranza". Ci domandia-mo quindi che ruolo possa avere una minoranza di persone lesbiche, gay, trans, intersessuali e bi-sessuali nel contesto della dittatura della maggioranza. Esattamente quello di essere il sale che brucia nelle ferite della politica. Poter essere un misuratore sociale della salute pubblica di una de-mocrazia, non più a partire dalla critica degli altri modelli (culturali, giuridici, perfino etici), ma pri-ma di tutto a partire dall’autocritica del proprio modello e della propria politica.Il movimento deve smetterla di guardarsi l'ombelico e deve saper affermare che la questione lgbt-qi, esattamente come quella sui beni comuni e sui diritti dei lavoratori, riguarda il benessere di tutt* e di ciascun*. Deve essere consapevole, all’interno prima ancora che all’esterno, che tanto la garanzia di una effettiva eguaglianza giuridica quanto il raggiungimento di una vera e propria libe-razione culturale sono questioni che riguardano in prima istanza l’intera società. Deve persino ab-battere le dimensioni di ‘interno’ ed ‘esterno’ rispetto al movimento stesso, per riuscire a ottenere l’adesione militante alla propria causa di strati sempre più larghi della popolazione. Per questo dobbiamo rendere i movimenti sociali più “gay” e movimenti gay più “sociali”.

La Rete della Conoscenza deve saper agire nel suo protagonismo interno al movimento, in que-st’ottica, deve poi saper collocare all’interno del movimento lgbtqi la sua critica e rappresentare così un punto di forza e di riferimento per chi è lontano dai luoghi della formazione, dove credia-mo possa nascere il cambiamento. Dobbiamo essere protagonisti di una nuova fase di movimento che sappia riconoscere nel mosaico di alcune associazioni gli interlocutori primari con cui condivi-dere gli obiettivi di un cambiamento sociale e politico. Dobbiamo costruire percorsi larghi e innova-tivi, sperimentare nuove pratiche e portare nuovi contenuti mutuati dal movimento lgbt, che ci consentano di aderire in massa dalle nostre scuole e università ai Pride, e portare così in quei luo -ghi di conflitto e provocazione pubblica un elemento di novità rispetto al passato: la partecipazio-ne e la visibilità di studentesse e studenti etero che lottano uniti con la popolazione lgbtqi, per ab-battere il muro della discriminazione e raggiungere la liberazione di tutte le soggettività, e quindi anche la loro. Il momento storico di allargamento delle istanze sociali è propizio per raccogliere e stimolare le esigenze di partecipazione politica che arrivano da più parti, anche nel mondo lgbti. Vogliamo poter rispondere al bisogno di avere associazioni e movimenti che possano criticare libe-ramente la politica per rappresentare quel senso grande che la tutela di una minoranza ha nel be-nessere di tutti. Dobbiamo interpretare questo bisogno per costruire insieme gli strumenti che ci li -berino e tutelino dalle ingiustizie, per tornare ad essere protagonisti di una grande stagione di lot-te. Per essere protagonisti, per la prima volta, di vittorie.

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Tesi 12 – Antifascismo quotidiano

L'avanzata delle Destre radicali nel nostro Paese, in Europa e nel mondo, di cui la società civile e i media sembrano essersi accorti solo dopo fatti di cronaca gravissimi quali la Strage di Senegalesi a Firenze (13 dicembre 2011) o l'incendio di un campo rom a Torino dopo una falsa denuncia di uno stupro, è in realtà un fenomeno che ha accompagnato la storia politica italiana dal dopoguerra ad oggi. Per certi versi potremmo dire che il Fascismo nel nostro Paese non è mai morto, ma anzi ha trovato il modo di rigenerarsi, di tenersi in vita e di entrare in ogni tessuto sociale.Il fascismo ha saputo ricrearsi e re-inventarsi. Ne è dimostrazione la composizione diversa dell’uni-verso neo-fascista italiano di oggi. Si ha da un lato gruppi che rasentano il culto “religioso”, come Militia, quelli che ripropongono il fascismo con ben poche evoluzioni di pensiero e azione rispetto al regime del Ventennio, come Forza Nuova, e invece chi ha saputo rimodellarlo alle esigenze e alle contraddizioni della società d’oggi, CasaPound Italia.

L’esperienza partita da Roma nel 2003, sotto il nome di Casa Pound Italia, è paradigmatica. L’aggre -gazione neo fascista in una prima fase ha creato un immaginario teso all’aggregazione intorno al cosidetto fascismo del terzo millennio, provando a rilanciare, in forma populistica e demagogica, temi sociali; si tratta infatti di campagne che non hanno mai avuto tralatro alcuno sbocco concreto in termini di difesa di quelle fasce sociali che dicono di rappresentare. Casa Pound prova ad aggre-gare sia nelle periferie, con le campagne populistiche, sia pescando nell’appoggio delle borghesie delle città legate al centro destra che appoggiano strumentalmente questo tipo di aggregazione. E’ evidente quanto l’esperienza di CasaPound sia ben più subdola rispetto a quella di FN, andando a insinuarsi nei problemi reali delle grandi città (mancanza di luoghi di aggregazione o problema del-la casa) o in luoghi di aggregazione come le scuole (cosa che forza nuova fa con molto meno im-pegno) o gli stadi.L’esperienza di CasaPound è ben più pericolosa di quella di altri gruppi neofascisti, poiché tende comunicativamente a mostrare un altro volto del fascismo, apparentemente intelligente, aperto, critico verso il totalitarismo e, sempre apparentemente, non violento.

Una seria campagna volta a rivalorizzare i temi dell’antifascismo e della memoria storica deve, ne-cessariamente, partire da qui, dall’annientamento di quelli che sono i punti di forza delle aggrega-zioni neo fasciste, evitando le strumentalizzazioni e forme di contrapposizione unicamente sul campo muscolare. Il fascismo è la pratica della violenza e del macismo, abbattere la sotto cultura fascista significa essere radicalmente alternativi a queste logiche. Pensiamo che sia necessario, sui territori e a livello nazionale far emergere le vere contraddizioni di tutte le forze neo fasciste, spe-cialmente di CPI, che nasconde il suo vero volto omofobo, razzista e populista. Questo lo possiamo fare eliminando questa sorta di sfida e competizione, che da anni provano a giocare sul piano del -l’aggregazione e della socialità, solo quindi rilanciando la nostra azione politica sul piano della rap-presentanza sociale a 360° e del mutualismo.

Necessario in tutto ciò è avviare una seria interlocuzione politica con l’ANPI, ultimo baluardo della memoria storica collettiva sulla Resistenza, tramite cui poter mettere in campo una collaborazione e, di conseguenza, una campagna che possa vedere il rilancio effettivo dellla memoria storica anti-fascista nei luoghi della formazione.Tale campagna deve porsi come obbiettivi:– lo studio nelle scuole di figure della Resistenza insieme ai comitati d’onore A.N.P.I.- iniziative pubbliche sull’argomento e sulla sensibilizzazione sul tema delle nuova destra radicale.

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L’obiettivo principe della campagna, e dell’area tematica in generale, è quello di riuscire a uscire dal pantano di una visione dell’antifascismo come un’idea vecchia e inattuale, che rappresenta la caccia al singolo o al gruppetto, più che alla distruzione del fenomeno, pur dovendo comunque im-pedire l’avanzata in termini di presenza legittimata e visibile di tali aggregazioni; una modalità di praticare l’antifascismo incapace di intercettare un largo consenso e che rischierebbe di mettere fuori gioco sui territori tutti gli sforzi e i risultati politici raggiunti. In questo momento particolare in cui i media sono molto attenti all Destra Radicale, in cui ne denunciano le incongruenze e le dif-ferenze, connesse a fatti di cronaca, non possiamo permetterci di commettere l’errore di cadere nella trappola della violenza ingiustificata.

Per fare in modo che questi obbiettivi vengano attuati, che si avvii l’interlocuzione, seria, con l’A.N.P.I., è necessario che si torni a parlare di Antifascismo e Memoria Storica nelle nostre basi ter-ritoriali.Troppo spesso l’analisi degli avvenimenti legati a CPI o alle altre forze della Destra Radicale, a par-tire dai fatti di cronaca sino alle iniziative culturali, vengono giudicate sui territori in modo ideolo-gico senza porre una reale “contro-offensiva” che sia tesa a rispondere alla politica con la politica, alla cultura con la cultura.Troppo spesso l’iniziativa antifascista appare o violenta oppure chiusa a chi non è fortemente mos-so dai valori dell’antifascismo. Uno degli obbiettivi delle basi territoriali deve essere di conseguen-za ripensare o emulare iniziative come, ad esempio, la rivalorizzazione dei quartieri attraverso la copertura delle scritte fasciste, coinvolgendo comitati di quartiere; oppure organizzando iniziative, anche ludiche, il cui obbiettivo non è solo quello di creare un sentimento antifascista ma anche, e soprattutto, quello di aggregare, anche chi non si sente ancora antifascista, poiché confonde ciò con la violenza.

Per porre fine all’ascesa della nuova destra radicale è fondamentale cominciare col ripensare alle iniziative e all’analisi su questo tema in ogni base territoriale.Nell’era della comunicazione risulta importante cominciare da ciò: creare antifascismo attraverso una nuova comunicazione che si muova dall’ideologismo puro, e che sappia arrivare a parlare alla gente e a quegli studenti che non masticano politica.

Risulta dunque fondamentale cominciare dall’aggregazione e dalla comunicazione. Solamente fa-cendo questo e coinvolgendo i soggetti in formazione, e non solo, nelle nostre città, possiamo mettere in reale difficoltà CPI, la vera minaccia del nuovo fascismo, quello che ha saputo crearsi una nuova maschera.

Tesi 13 – Free to stay free to move

L’immigrazione è un fenomeno che ha sempre interessato il nostro paese, vedendoci o come mi-granti,(come all’inizio del ‘900 verso Paesi europei con maggiore sviluppo economico o verso gli Stati Uniti e l’Australia) o come Paese oggetto di forti migrazioni. Dal crollo del muro di Berlino, si è iniziato ad avere un flusso numeroso e crescente nel tempo, composto prima dalle popolazioni che abitavano nel blocco Sovietico e dall’altra parte si sono accentuate le presenze di popoli nord-africani nel nostro Paese. In Italia negli ultimi 20 anni si è sviluppata una visione antropologica dell’immigrato che rasenta il limite del razzismo e che ha prodotto una serie di politiche di chiu -sura delle frontiere verso i Paesi con un minore sviluppo economico, ma dall’altra ha aperto le frontiere alle popolazioni europee che, solo per una questione economica, sono da favorire rispet-to agli immigrati. In Italia, la visione distorta che si ha dell’immigrazione ha avuto i suoi apici con

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la legge Bossi-Fini (30 luglio 2002 n.189), che andò a modificare la legge Turco-Napolitano in mate-ria di immigrazione.

La legge Bossi-Fini ha introdotto il reato di clandestinità. Viene ritenuto clandestino colui che non è in possesso di documenti di identità, condotto in appositi Centri di permanenza in cui rimane fino a 60 giorni, durante i quali si cerca di scoprirne l'identità per poterlo rimandare in patria. Se ciò non è possibile, al clandestino viene "intimato" di lasciare il paese entro tre giorni. La Bossi-Fi-ni prevede anche il reato di ingresso clandestino: un extracomunitario che rientra in Italia clande-stinamente dopo un'espulsione, compie un reato che lo porta in prigione. I permessi di soggiorno devono essere rinnovati ogni 2 anni a condizione che l’immigrato abbia un lavoro al momento del rinnovo. Tutto ciò è problematico, dal momento che la maggior parte degli immigrati possiedono contratti di lavoro temporanei. Nell’ordinamento italiano i CIE costituiscono un’agghiacciante novi-tà: prima non era mai stata prevista la detenzione di individui se non a seguito della violazione di norme penali. Le condizioni umanitarie di questi luoghi sono state evidenziate dalla relazione 2003 della Corte dei Conti; in essa si parla di «programmazione generica e velleitaria», «strutture fatiscenti», e “scarsa attenzione ai livelli di sicurezza», come afferma anche Amnesty International nel suo rapporto sui centri, molte volte i detenuti sono sistemati in container e in altri tipi di al-loggi inadeguati a un soggiorno prolungato, esposti a temperature estreme, in condizioni di so-vraffollamento. È stato verificato come siano ben pochi i centri ad aver steso un regolamento in-terno, come richiesto dal ministero, e la "carta dei diritti e dei doveri" consegnata ai detenuti al-l'ingresso nei centri – non essendo spesso tradotta nelle lingue dei detenuti, e mancando un ade-guato servizio di informazione legale (spesso svolto da personale non specializzato dell'ente ge-store) – sia insufficiente allo scopo previsto. Così, come emerge da tantissime testimonianze, il migrante si trova chiuso in una prigione senza sapere nulla né del perché si trova lì dentro, né di cosa gli accadrà in seguito. Molte organizzazioni di volontariato e umanitarie sono state duramen-te contestate per la collaborazione nella gestione dei C.I.E e per alcuni accadimenti in cui il suo operato ha lasciato qualche ombra. Sicuramente rilevante, a questo rispetto, è la difficoltà di es-sere ammessi dentro le strutture. Dal rapporto di Amnesty International si evidenzia che più de -nunce riguardavano : abusi di matrice razzista, aggressioni fisiche e uso eccessivo della forza da parte degli agenti di pubblica sicurezza e da parte del personale di sorveglianza, in particolare du-rante proteste e in seguito a tentativi di evasione.

La situazione attuale in Italia per quanto concerne la discriminazione e il razzismo, anche a causa della legge Bossi-Fini se la inquadriamo in un processo sociale e politico di criminalizzazione del-l’immigrato, è preoccupante. Si registrano spesso atti di razzismo violenti e spesso frutto di ideo-logie dannose, ricordando il recente episodio della strage di senegalesi per mano del neofascista Gianluca Casseri. Per capire quanto sia diffusa questa "patologia sociale" è sufficiente riportare alla luce il caso della cittadina calabrese di Rosarno ad inizio 2010, dove degli immigrati vivevano sottomessi al caporalato e in condizione di schiavi. E come non citare alcuni episodi nelle scuole, che invece di essere luoghi dove apprendere anche la convivenza con stranieri, al contrario si re-gistrano fatti aberranti, come nel dicembre dello scorso anno, quando una maestra della scuola primaria abbassò il voto ad una sua alunna usando come movente la provenienza della ragazza. Oppure, sempre in quel mese, i tre ragazzi italiani di tredici anni che hanno preso a sprangate per futili motivi un compagno cingalese.

Altro fenomeno legato all’immigrazione è il traffico di esseri umani o tratta di persone è l'attività criminale che comprende la cattura, il sequestro o il reclutamento, nonché il trasporto, il trasferi -mento, l'alloggio o l'accoglienza di una o più persone, usando mezzi illeciti ed ai fini dello sfrutta-mento delle stesse. Si contano 27 milioni di persone sfruttate. Inoltre 3 moderni schiavi su 4 sono

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donne e la metà del totale sono bambini. Il panorama della tratta assume svariate sfumature; di-versi tipi di sfruttamento, quali l’adozione internazionale, la tratta a sfondo sessuale insieme al lavoro forzato e allo sfruttamento minorile.Anche il nostro paese non è esente dall’ esercizio di questo commercio. Citando recenti avveni-menti riportiamo l’esempio dei numerosi migranti nord-africani (circa 62000) che sono sbarcati sulle nostre coste la scorsa primavera in condizioni di totale degrado e abbandono. Agli 11800 mi-granti cui è stato concesso un permesso di soggiorno temporaneo, si accostano gli altri 50000 pri -vi di documenti, la maggior parte di questi sono tutt’oggi detenuti nei Cie. Che fine hanno fatto questi corpi anonimi? In che condizioni umane e sociali si trovano? Quali opportunità si prospetta-no per costoro se non un lavoro sottopagato e la maggior parte delle volte in nero?

Quando si parla di integrazione si pensa che chi viene integrato debba uniformarsi alla nuova realtà in cui è inserito, rinunciando per così dire alle proprie origini, alle proprie tradizioni, ai pro-pri valori. Al contrario, noi riteniamo che l’immigrato debba essere posto nelle condizioni di inse-rirsi in una comunità nuova comprendendone un determinato sistema di valori, e nello stesso tempo, la propria identità culturale.D’altra parte la comunità che accoglie deve essere invogliata a conoscere lo straniero, le sue origi -ni e tradizioni, in una parola la sua cultura. Integrazione significa che ognuno, chi è inserito e chi accoglie, riceve qualcosa dall’altro. Solo con questa premessa ha allora un senso parlare di acco-glienza e integrazione.

Con l'affermarsi di un mercato globale è stato permesso il libero scambio di merci e capitali, a questo processo però non è seguita una libera circolazione delle persone. Questa situazione ha pertanto dato luogo a un progressivo impoverimento e sfruttamento di alcune aree geografiche bloccandone sia lo sviluppo economico sia quello socio-politico e culturale. Alle popolazioni che si sono trovate in queste aree, non è stato consentito di migrare liberamente ricercando il proprio benessere: si è affermata così una ghettizzazione di queste popolazioni. Per porre un argine a questa situazione a nostro parere si dovrebbero adottare trattati tra i paesi sull'esempio di Schen-gen. In questo modo si potrebbero controllare questi flussi per non creare contingenze dalle quali possano scaturire perdite di identità culturali o nascite di movimenti estremisti nazionalistici. In questo modo si eviterebbe pure la tratta dei migranti da parte di associazioni di stampo mafioso e si inizierebbe ad avere una nuova concezione antropologica del migrante, favorendo serie politi-che di integrazione lavorativa, politica sociale e culturale, tale da permettere una società in cui la multiculturalità sia una risorsa di cui un Paese debba andare fiero e non guardare con orrore. Al-l’interno delle scuole questo processo di integrazione potrebbe essere aiutato dalla sostituzione dell’ora di religione con ora di studio delle religioni e all’interno sia delle scuole che delle univer-sità, bisognerebbe garantire delle attività per lo studio delle diverse culture, incentivando anche i progetti con università estere al fine di mettere a contatto quanti più studenti italiani con altre culture. I luoghi della formazione devono avere un ruolo preminente nel mettere in atto un dialo-go tra culture, arricchendole tra di esse. Questo vuol dire che gli studenti migranti debbano fruire pienamente di servizi per accedere ai canali culturali non formali, per mantenere un legame con la loro cultura di origine e per conoscere a pieno quella di adozione. La Rete della Conoscenza deve battersi sui territori affinché vengano incrementati gli spazi sociali dedicati agli studenti, af-finché si incrementi il dialogo tra comunità migranti a partire da un novo modello di socialità che faccia incontrare su una base solidale le comunità migranti con la comunità indigena. La lotta per il welfare che la Rete della Conoscenza ha lanciato con Liberi Tutti ha un valore particolare per gli studenti e le studentesse migranti che, come tutti i soggetti che vivono una marginalità sociale, hanno una necessità improrogabile di autonomia sociale e, con essa, del Sindacato studentesco.

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