Introduzione "Il Mago e il Matto. Sapere personale e conoscenza relazionale nella rete...

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Introduzione: Il Mago e il Matto 1. Gli archetipi del sapere e del conoscere Il Mago e il Matto sono per noi la rappresentazione del sapere incarnato nella perso- na e della conoscenza generata dalla relazione. Il Mago e il Matto sono le immagini di due processi, quello dell’apprendimento individuale che avviene nel piano dei saperi e quello della generazione relazionale di nuovi saperi che avviene nello spazio della conoscenza. Due figure vive che attraverso un moto incessante si integrano tra loro per conferirci, in un sol colpo d’occhio, il senso di sé e dell’altro; la possibilità di es- sere l’uno e l’altro: il Mago e il Matto, docile e caparbio, adattabile ed eretico, concre- to e sognatore, sfruttatore ed esploratore. Il Mago e il Matto sono due degli arcani maggiori dei Tarocchi. Nessuno sa chi ha inventato i Tarocchi né che cosa voglia dire questo nome; da secoli i Tarocchi sono considerati come il linguaggio agito della memoria collettiva, quella ormai impolvera- ta dal tempo, o come il linguaggio simbolico che emerge osservando dei personaggi che esprimono, nel disegno misterioso ed affascinante della tradizione medioevale, l’invariante universo delle passioni umane. Gli arcani maggiori, nel numero di 22, rappresentano degli archetipi dell’agire umano; come afferma Carl Gustav Jung: Ogni archetipo è una forza. E’ autonomo e può impadronirsi di noi in modo repentino. E’ l’organizzazione biologica del nostro funzionamento psichico, allo stesso modo in cui le nostre funzioni biologiche e fisiologiche rispondono ad un modello. Quanto meglio comprenderemo gli archetipi tanto meglio prenderemo parte alla loro vita cogliendone l’eternità e l’atemporalità. Tutti i 78 arcani che compongono il mazzo di carte degli antichi Tarocchi di Marsiglia costituiscono, attraverso lo schema delle relazioni tra gli infiniti particolari delle loro immagini, quella enorme cassa di segreti riposti per affrontare la lunga sta- gione dell’ignoranza e pronta ad essere scoperchiata quando la persona decide di vo- ler sapere; ed eccoli i Tarocchi, disponibili a farsi belli per rappresentare ciò che o-

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Qualsiasi organizzazione è composta da una rete di persone; dunque, da una rete di Maghi e Matti che sono in relazione tra loro per raggiungere uno scopo. La cultura dell'organizzazione emerge dal sapere delle persone che interagiscono in rete perché l'apprendimento è una capacità esclusiva degli esseri viventi. La conoscenza non esiste di per sé, al di fuori di noi, ma siamo noi a generarla con le nostre azioni, interagendo costantemente con gli altri.

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Introduzione: Il Mago e il Matto

1. Gli archetipi del sapere e del conoscere

Il Mago e il Matto sono per noi la rappresentazione del sapere incarnato nella perso-na e della conoscenza generata dalla relazione. Il Mago e il Matto sono le immagini di due processi, quello dell’apprendimento individuale che avviene nel piano dei saperi e quello della generazione relazionale di nuovi saperi che avviene nello spazio della conoscenza. Due figure vive che attraverso un moto incessante si integrano tra loro per conferirci, in un sol colpo d’occhio, il senso di sé e dell’altro; la possibilità di es-sere l’uno e l’altro: il Mago e il Matto, docile e caparbio, adattabile ed eretico, concre-to e sognatore, sfruttatore ed esploratore. Il Mago e il Matto sono due degli arcani maggiori dei Tarocchi. Nessuno sa chi ha inventato i Tarocchi né che cosa voglia dire questo nome; da secoli i Tarocchi sono considerati come il linguaggio agito della memoria collettiva, quella ormai impolvera-ta dal tempo, o come il linguaggio simbolico che emerge osservando dei personaggi che esprimono, nel disegno misterioso ed affascinante della tradizione medioevale, l’invariante universo delle passioni umane. Gli arcani maggiori, nel numero di 22, rappresentano degli archetipi dell’agire umano; come afferma Carl Gustav Jung:

Ogni archetipo è una forza. E’ autonomo e può impadronirsi di noi in modo repentino. E’

l’organizzazione biologica del nostro funzionamento psichico, allo stesso modo in cui le

nostre funzioni biologiche e fisiologiche rispondono ad un modello. Quanto meglio

comprenderemo gli archetipi tanto meglio prenderemo parte alla loro vita cogliendone

l’eternità e l’atemporalità.

Tutti i 78 arcani che compongono il mazzo di carte degli antichi Tarocchi di Marsiglia costituiscono, attraverso lo schema delle relazioni tra gli infiniti particolari delle loro immagini, quella enorme cassa di segreti riposti per affrontare la lunga sta-gione dell’ignoranza e pronta ad essere scoperchiata quando la persona decide di vo-ler sapere; ed eccoli i Tarocchi, disponibili a farsi belli per rappresentare ciò che o-

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gnuno di noi può vedere in loro attraverso il rispecchiamento e la proiezione del suo sé più profondo. I Tarocchi non rappresentano la verità ma costituiscono uno stimolo all’invenzione della nostra realtà, all’interpretazione ed alla comprensione della via da scegliere, quella migliore per ognuno di noi. Come afferma Alejandro Jodorowsky, uno dei maggiori conoscitori dei Tarocchi: “Il tarocco è un camaleonte” perché si tramuta, rivelando ciò che ognuno di noi vede di sé. Il Mago e il Matto conducono il primo gruppo di arcani maggiori, composto da dieci personaggi che mostrano di svolgere le loro azioni con il corpo proteso verso l’alto, verso la luce, alla ricerca del bene e dello sviluppo dell’umanità. Sono due fi-gure importanti perché in loro si proietta la fiducia dell’uomo verso la ricerca, verso l’altro, verso una natura accogliente, verso una spiritualità salvatrice. Nel bene o nel male ognuno di questi dieci personaggi attrae a sé forti sentimenti di appartenenza; con ognuno di essi risuoniamo per qualche motivo di colleganza; in ognuno di essi ci ritroviamo a casa perché in ognuno di essi possiamo rintracciare gli infiniti legami della nostra esistenza; il nostro sguardo e le nostre impressioni ci portano in un mon-do di similitudini e di diversità. Il Mago ha il numero 1, che rappresenta l’intero, il massimo delle possibilità, perché a lui tutto è possibile. Dal suo tavolo pieno di trucchi, attraverso la sua bac-chetta, il Mago si collega con l’orizzonte imperscrutabile. E’ un uomo attaccato al ter-reno ed alla materialità del gioco; egli allena la sua abilità attraverso l’esercizio e la pratica, per poter apprendere sempre meglio, per essere perfetto. Con un occhio alla soddisfazione dei suoi bisogni e con un altro al desiderio di migliorare le proprie competenze, il Mago rappresenta sia l’intelligenza vivace dell’apprendista che la ma-gia dell’esperto artigiano. Egli lascia che il mistero dell’esercizio della sua professio-ne di apprendimento continuo conferisca un senso magico al gusto di mostrare agli altri ciò che lui sa fare, per essere corteggiato, incensato ed amato; è attaccato alla ter-ra perché ama il mondo ed è nel mondo che il Mago cerca il suo posto, per trovare sempre nuove soluzioni; lì, nel piano dei saperi presenti nella quotidianità della vita materiale. Il Mago è una persona di talento perché è abile nel mostrare ciò che sa di saper fare ed astuto nel non mostrare agli altri ciò che sa di non saper fare, perché egli ha sempre bisogno di apprendere nuovi saperi per migliorarsi; nonostante ciò, il Mago desidera mostrare che tutto è possibile e che quello che lui fa lo possono fare anche gli altri; osserva il mondo e apprende dalla diversità. E se il Mago potesse parlare con noi ci direbbe:

Non sono separato da ciò che mi circonda. Sono consapevole della stupefacente varietà

di tutto quello che esiste. Vi invito a vivere con me questo infinito inventario di diversità.

Siate coscienti di tutti gli spazi, di tutta la materia: alberi, pianeti, galassie, atomi, cellule.

Il mio tavolo da lavoro ha le gambe saldamente piantate nel suolo, e io sono ancorato da

qualche parte nella diversità e da quel punto agisco. Tra le infinite possibilità ne scelgo

una, la mia moneta d’oro, punto di trazione che mi conduce alla totalità.

Il Mago realizza le idee con la sua praticità e la sua abilità nel rielaborare ciò che sa; ha tutti gli strumenti disponibili per trasformare le possibilità in atti di responsabi-

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lità sociale; è l’uomo che agisce senza timore anche quando è all’inizio della sua atti-vità, quando è ancora principiante. Il suo carattere è forte e radicato nel suo sapere in-carnato, nella sua crescente esperienza, nella sua fiducia che è possibile apprendere dalle diversità e dai paradossi apparentemente inconciliabili per poi far sì che gli stes-si vengano da lui trasformati ed integrati; il Mago trova la soluzione compiendo un atto di magia, anche se spesso utilizza solo una banale illusione, attraverso la quale le cose, in un modo inatteso, si manifestano al pubblico come possibili. Il Mago rappre-senta il cammino del sapere personale incarnato nel piano del mondo; egli sfrutta vo-racemente le infinite possibilità che gli si prospettano dall’incontro con le diversità e con gli opposti; e tutte queste diversità sono per lui novità che alimentano senza sosta il suo processo interno di apprendimento. Il Mago si adatta al contesto ed è docile con il suo pubblico; ed il pubblico, par-tecipando ad un gioco collettivo, si lascia illudere divenendo anch’esso docile nei confronti del mago, mostrandosi disponibile allo stupore per l’estro mostrato dal Ma-go, alla sorpresa per l’inatteso ed alla meraviglia per la bellezza dell’evento. Il pub-blico segue il Mago in territori sconosciuti e fino a quel momento inesplorati ed è per questo motivo che è pronto a stupirsi di fronte alla scoperta della novità, all’emergere dell’imprevisto, al manifestarsi delle nuove possibilità. Il Mago ha la certezza che la sua vita può migliorare quando è immerso nella realtà con tutto il suo sapere, con tutto il suo corpo che esperisce nell’attimo attraver-so quell’esercizio di invenzione della realtà che lo rende presente mentre è proiettato verso l’infinito: il Mago è il sapere incarnato che vive e si trasforma interagendo con il mondo, è il processo di apprendimento interno, personale, fondato sull’incontro con il diverso e sull’abitudine nel trasformare le abilità in competenze incarnate attraverso l’impegno, l’esercizio e la pratica. Il Matto non ha un numero: è l’unico degli arcani maggiori a non essere identi-ficato con un numero. Come il Mago con il numero 1 rappresenta il tutto, l’intero, la rappresentazione dei confini del mondo, così il Matto senza alcun numero non ha confini, non ha limiti né di direzione né di profondità. A lui è donata la libertà totale, il senso della follia e dell’eresia, la possibilità del caos e dell’utilizzo senza vincoli dell’energia. Il Matto è la rappresentazione del moto vitale della generazione, della certezza che qualunque via può risultare possibile ed anche quella migliore, perché è utile ciò che ci rende felici, liberi di dirigerci ovunque ci sia qualcosa che ci attrae; il Matto rappresenta il viaggio eterno per il mondo senza legami e senza identificazioni. Il Matto ha uno sguardo esplorativo e fiducioso verso il cielo ed è libero da qualsiasi giudizio verso l’altro, verso colui che incontrerà; ha la bisaccia piena di do-mande ed è tuttavia alla ricerca di altre possibili nuove domande. Viaggia in pellegri-naggio, senza sosta e senza meta, per confrontarsi con l’altro; il Matto mette in gioco tutta la propria esperienza perché è fiducioso di poter interagire con altre esperienze e di generare così nuova energia, nuova linfa per il piano dei saperi. E se il Matto po-tesse parlare con noi ci direbbe:

Ho smesso di essere il testimone di me stesso, ho smesso di osservarmi, sono agente allo

stato puro, un’entità in azione. La mia memoria non registra più fatti, parole o gesti. Non

vivo più sull’isola della ragione; non trascuro più le altre forze vive, le altre energie. Il

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passaggio mi si allarga. Vivo il mio corpo non come un concetto del passato ma come

realtà soggettiva e vibrante nel presente, pronto a muoversi nella sua interezza con

l’altro.

Il Matto rappresenta l’esploratore, il carattere curioso ed a tratti persino invaden-te, il coraggio della scoperta e il rischio dell’errore; il Matto non ha paura dell’errore perché agisce con la forza dell’esperienza incarnata che lo ha liberato da qualunque attaccamento alla materialità e dalla necessità del miglioramento continuo. E’ consa-pevole che il suo ruolo è quello di dispensatore di energia entrando in contatto con altre persone come lui. Questa sarà la sua scoperta: l’altro e la possibilità di co-generare con lui qualcosa di nuovo, che non appartiene a nessuno dei due e che fino a quel momento nessuno dei due sapeva. Il Matto sa di non sapere, perché sa che il sa-pere non ha limiti. Sì, è vero, nel piano dell’esistente il sapere è limitato; ma a lui, che non soffre di questi limiti, è affidato il compito di ampliare l’orizzonte del sapere viaggiando in quell’area di confine del piano che si confonde in un tutt’uno con lo spazio: lo spazio della conoscenza. E’ in questo spazio che, attraverso l’incontro tra più esploratori, si genera la conoscenza, quella molteplicità di saperi appena accenna-ti, appena nati, che accresce in modo illimitato le possibilità personali di interpreta-zione della realtà permettendo un incessante progresso della comunità. Il Matto rappresenta il processo di generazione della conoscenza e di descrizione dei nuovi saperi; rappresenta il carattere esplorativo alla ricerca di beni immateriali appartenenti al dominio relazionale, dell’io, del tu e del noi, alla ricerca di nuovi modi di pensare e di essere. E nel fare questa attività il Matto può diventare eretico perché scopre che nuove idee, nuove spiegazioni, possono essere ritenute non lecite, non gradite all’ideologia dominante. Come ci ricorda Paul Watzlawick:

Ad una ideologia che si ritiene vera e per tutti vincolante, segue, come il giorno alla not-

te, l’eresia. Questa parola originariamente non significava eresia, ma scelta – una condi-

zione in cui l’uomo può scegliere. Il cosiddetto eretico ha quindi la libertà di scegliere e

di vivere per se stesso a propria discrezione. Ma in questo modo egli entra in conflitto

con l’ideologia, con la vera fede, con la linea ufficiale.

Il Matto agisce per generare un’identità attraverso la relazione, attraverso l’adozione di una logica di organismi autonomi ma in permanente ed universale col-leganza; e allora il comportamento del Matto ci fa venire in mente gli imperativi etico ed estetico di Heinz von Foerster:

Come nel sistema eliocentrico, deve esservi un terzo elemento che faccia da riferimento

centrale. Questo elemento è la relazione tra “tu” e “io” e questa relazione è l’identità: re-

altà = comunità. Quali sono le conseguenze di tutto questo nelle sfere dell’etica e

dell’estetica? L’imperativo etico: agisci sempre in modo da aumentare il numero delle

scelte. L’imperativo estetico: se vuoi vedere, impara ad agire.

Ogni uomo ha in sé l’uno e l’altro, il Mago e il Matto; ogni uomo è allo stesso tempo un po’ Mago e un po’ Matto, qualcuno un po’ più Mago e qualcuno un po’ più

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Matto. Il Mago sfrutta il mondo che ha a disposizione, si muove in un territorio noto; il Matto esplora nuovi mondi, si incammina verso territori sconosciuti. E quando i Matti si incontrano, a volte semplicemente perché sono vicini di casa, i saperi perso-nali si mescolano, si confondono, si armonizzano. E così i saperi personali assumono nuove forme; delle forme inattese che generano nuovi schemi di pensiero, nuove idee, nuove possibilità interpretative. L’uno genera il pensiero dell’altro, in un circuito vir-tuoso di impegno e di desiderio nell’esplorare insieme nuovi territori mai attraversati prima di quel momento, con l’intenzione di acquisire nuovi modi di essere e nuovi modi di relazionarsi all’altro. È il processo di generazione del nuovo, della conoscen-za del non conosciuto, attraverso il quale si superano i vincoli del piano dettati dall’esistenza dell’ignoranza. Il Mago e il Matto rappresentano il fascino del sapere personale e della cono-scenza relazionale. Il Mago per accrescere il proprio sapere decide di apprendere sfruttando le possibilità che gli vengono offerte dalle diversità propagate sul piano. Il Matto sa che per accrescere il proprio sapere non è sufficiente accogliere la diversità; per lui è necessario generare con l’altro dei nuovi saperi, esplorare con l’altro nuovi territori per scoprire nuove possibilità. E i due si incontrano, lì sulla linea dell’orizzonte perché le percezioni non segnalano loro dei confini, ma anzi la possibi-lità di muoversi liberamente nei due domini con la certezza che non si è soli.

2. I presupposti del comportamento organizzativo

Qualsiasi organizzazione è composta da una rete di persone; dunque, da una rete di Maghi e di Matti che sono in relazione tra di loro per raggiungere uno scopo. Se ogni persona agisce, cioè mette in atto i propri comportamenti, per apprendere secondo le diverse modalità che abbiamo descritto, risulta evidente che per poter comprendere i possibili modi di funzionamento di un’organizzazione nel perseguimento del proprio scopo è necessario chiarirci molto bene le idee su che cosa per noi debba intendersi per “sapere” e per “conoscenza”; e, più in particolare, su quali siano i presupposti che costituiscono il fondamento dei rispettivi significati. Spesso gli studiosi in campo organizzativo tralasciano di argomentare sufficien-temente sui propri presupposti, ritenendoli scontati o non degni di attenzione perché ininfluenti sull’oggetto di ricerca che viene considerato qualcosa di esterno; un ogget-to, cioè, che non è determinato dal proprio modo di interpretare e di giudicare i fatti posti sotto osservazione. Un oggetto di studio che, pur essendo stato adeguatamente contestualizzato, risulta scientificamente configurato solo nel caso in cui viene sepa-rato dall’osservatore e dal suo modo di interpretare i fenomeni relazionali, in modo tale da non essere influenzato attraverso l’espressione di un giudizio personale. Il nostro punto di vista, invece, è che la descrizione dei presupposti del ricerca-tore, e più in generale di qualsiasi persona che possa determinare una significativa contaminazione sociale esprimendo le proprie idee, è da ritenersi indispensabile per verificare la coerenza delle ipotesi di lavoro rispetto allo svolgimento effettivo della realtà economica e sociale, nonché rispetto agli effettivi comportamenti delle persone quando sono in relazione l’una con l’altra. Ovviamente, quanto detto vale ancor più

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per le argomentazioni poste a supporto delle ipotesi; in altre parole, qualsiasi modello interpretativo adottato, qualsiasi sistema di variabili prescelto, qualsiasi strumento matematico utilizzato è il frutto di scelte personali che si fondano su presupposti, su schemi dominanti di convinzioni che determinano la posizione teorica del ricercatore all’interno di uno specifico paradigma interpretativo. Chi è in azione comunica ed è parte integrante e generatrice dei significati attra-verso i quali “contamina” le relazioni sociali; è necessario, dunque, che si dichiarino attraverso la loro definizione e descrizione i presupposti che animano le ricerche, in modo tale da garantire un confronto sulla scelta dei modelli interpretativi dei fenome-ni ancor prima che sulla scelta dei modelli utilizzati per avvalorare le ipotesi di lavo-ro. Presentare un presupposto significa argomentare su concetti che regolano non solo il lavoro di ricerca scientifica ma anche la vita quotidiana, perché è proprio attraverso il nostro agire quotidiano che confermiamo o poniamo in crisi tali presupposti. Con le parole di Gregory Bateson:

La scienza, come l’arte, la religione, il commercio, la guerra e anche il sonno, è basata su

presupposti. Essa, tuttavia, differisce dalla maggior parte delle altre branche dell’attività

umana non solo perché sono i presupposti degli scienziati a determinare le vie seguite dal

pensiero scientifico, ma anche perché gli obiettivi stessi di questi ultimi consistono nel

controllo e nella revisione dei vecchi presupposti e nella creazione di nuovi. E’ chiara-

mente desiderabile che lo scienziato abbia piena coscienza dei propri presupposti e sia in

grado di enunciarli. Soprattutto è necessario che il lettore di testi scientifici conosca i

presupposti di chi scrive. Io credo alla necessità di una chiara enunciazione dei presup-

posti così da poterli migliorare.

Non si tratta di osservazioni su ciò che avviene, ma di interpretazioni personali ottenute attraverso l’adesione ad uno o più modelli che corrispondono all’applicazio-ne di più presupposti, i quali in tal modo vengono confermati e rinforzati dal ricerca-tore divenendo parte integrante e costitutiva delle successive ipotesi ed argomenta-zioni della ricerca. La persona attribuisce un proprio significato agli “oggetti”, materiali ed immate-riali, attraverso un filtro interpretativo della realtà costituito da un sistema soggettivo di convinzioni profonde che ne ispira il comportamento, cioè il suo pensare ed il suo agire. Si tratta di una struttura integrata di presupposti tra di loro connessi, attraverso i quali la persona adotta strategie di comportamento che lo differenziano dall’altro. At-traverso l’attribuzione dei significati agli “oggetti”, la persona prende posizione, giu-dica ciò che per lei è lecito e corretto e, conseguentemente, ciò che gli altri sbagliano; non portando alla luce lo schema dominante composto dalle convinzioni personali non si può instaurare tra le persone una relazione etica, fondata sulla trasparenza delle intenzioni e dei giudizi. Molto spesso i presupposti vengono occultati per evitare un’esplicita dichiarazione del proprio modo di pensare e per sfruttare una posizione dominante collegata alla circostanza che l’altro possa ignorare e, quindi, non essere in grado di argomentare diversamente; tant’è che molto spesso la richiesta di una descri-zione articolata dei presupposti genera una resistenza, a volte anche molto sottile, da parte di chi espone le proprie idee.

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Il nostro lavoro è stato quello di chiarire che cosa è un presupposto, di come a livello sociale i presupposti possano generare un paradigma culturale dominante e, infine, di come sia difficile trasformare il paradigma dominante a causa delle resisten-ze al cambiamento. Una parte rilevante del nostro lavoro è dedicata all’analisi del pa-radigma determinista, quello attualmente dominante, ed al suo confronto con il para-digma relazionale della complessità, quale dominio all’interno del quale sono invece posizionati i nostri presupposti. Descrivendo i nostri presupposti abbiamo argomenta-to come si renda ormai necessario un cambio di paradigma, in quanto il paradigma relazionale interpreta in modo più aderente ed efficace la complessità dell’attuale re-altà economica e sociale. L’adozione di un paradigma relazionale richiede una rifor-mulazione delle interpretazioni sulla dinamica delle relazioni tra le persone e con esse una rivisitazione dei principi di emergenza e progettazione degli schemi organizzativi. Nello scenario casuale predisposto per la lettura dei Tarocchi, le presenze del Mago e del Matto vengono interpretate in modo assai diverso tra le persone; ognuno conferisce un proprio significato ai due arcani, secondo un principio di introspezione personale che lo guida in un percorso interpretativo collegato al suo modo di essere, al suo mondo di convinzioni e di consuetudini comportamentali. E così pure quando il nostro livello di considerazioni si rivolge alla comunità, alla collettività; in questo ca-so, l’interpretazione degli “oggetti” rappresenta l’applicazione di un paradigma cultu-rale, sia esso prevalente o meno nel contesto di rappresentazione. Il significato confe-rito ai concetti del “sapere” e della “conoscenza”, quali “oggetti” da interpretare, di-pende dal paradigma adottato per l’interpretazione; ad esempio, all’interno dello stes-so paradigma dominante vi potranno essere anche una molteplicità di interpretazioni di un medesimo concetto, ma tutte risponderanno ad uno stesso schema prevalente di convinzioni che ne determinerà l’omologazione, la similarità e la familiarità. Quanto detto assume rilievo per le applicazioni che ne derivano in ambito organizzativo, ed in particolar modo per quel che concerne le pratiche di coordinamento delle azioni per-sonali che, pur attraverso una pluralità di modelli attuativi, non si dissociano dall’adesione ad un medesimo paradigma interpretativo dominante. La circostanza che in alcuni periodi storici si determini la prevalenza di uno schema paradigmatico rispetto ad altri comporta un’adesione diffusa e tacita delle persone ad una serie di presupposti che, anche se non esplicitati, entrano a far parte di quella cultura inconsapevole dei comportamenti che spesso rende inspiegabile l’emergenza di alcuni fenomeni che vengono ascritti integralmente al mondo della ca-sualità e, dunque, non degni di attenzione scientifica perché non ripetibili. E’ questa la circostanza che ci ha spinto, attraverso un’approfondita analisi dei presupposti del comportamento personale, a predisporre un terreno concettuale co-mune all’interno del quale possa essere successivamente posizionata l’attuale pluralità di significati attribuita alla vita delle organizzazioni aziendali. Lo abbiamo fatto attin-gendo a materiali di studio per lo più estranei al mondo degli studi organizzativi, in specie nei suoi aspetti operativi e di gestione, che fossero, tuttavia, in grado di per-metterci la costruzione di uno schema interpretativo della dinamica delle relazioni tra le persone da porre a fondamento per la generazione di un cambiamento organizzati-vo radicale, ottenuto mediante una trasformazione del paradigma culturale dominante. In particolare, in più occasioni abbiamo aderito, per un verso, al pensiero costruttivi-

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sta per quel che concerne l’analisi dei processi cognitivi della persona e delle sue mo-dalità di interpretazione della realtà e, per l’altro, ai principi della teoria della com-plessità per ciò che concerne l’analisi della dinamica delle relazioni tra le componenti di una struttura organizzata. Attraverso un sistema di convalidazioni incrociate, poiché provenienti da più a-ree del sapere e tra di loro intessute in un unico reticolo di significati, abbiamo indivi-duato i presupposti di un nuovo paradigma di tipo “relazionale” che supera il preva-lente paradigma di tipo “individualista”. Lo abbiamo fatto ponendo a confronto i due paradigmi, ma soprattutto richiamando l’attenzione del lettore sul pensiero di una molteplicità di autori, accuratamente scelti da più settori della ricerca - da quello della fisica a quello della filosofia e da quello della biologia a quello della paleontologia – i quali sostengono la necessità che si determini un cambio di paradigma culturale, per aderire con maggiore efficacia all’effettivo funzionamento delle dinamiche relazionali che si sono instaurate nel mondo contemporaneo. Il nostro è un lavoro interdisciplinare che svolge argomentazioni a favore di un cambio di paradigma: a favore dell’adesione ad un nuovo paradigma che ponga il proprio focus sulla relazione tra le persone e, con essa, sul perseguimento di un be-nessere organizzativo che non riguarda lo star bene fisico della persona quanto, piut-tosto, il perseguimento di una felicità relazionale fondata sullo star bene con gli altri, per se stesso e per gli altri. I presupposti guidano il comportamento personale sia ne-gli ambienti familiari che in quelli di lavoro; in entrambi i casi, i presupposti che ge-nerano il comportamento saranno i medesimi perché, come vedremo successivamen-te, questi presupposti costituiscono il sapere incorpato nella persona e, quindi, sono i fattori che motivano il corpo mentre compie le sue azioni.

3. Sapere personale e conoscenza relazionale

Come abbiamo avuto modo di spiegare all’inizio, il titolo scelto per il libro è il nostro significato alla rappresentazione simbolica del Mago e del Matto, perché è di questo che il libro argomenta in modo diffuso. Ci siamo chiesti: che cosa è e come si forma il sapere? Il sapere è personale o collettivo? La persona può generare il proprio sapere o il sapere è innato? E attraverso quale processo il sapere si acquisisce e si consolida? Che cosa è e come si forma la conoscenza? Sapere e conoscenza sono dei sinonimi? Se non è così, quali sono le differenze tra la conoscenza e il sapere? E ancora: parlia-mo di attributi del corpo o parliamo di processi? E se argomentiamo di processi, quel-lo del sapere e quello del conoscere, quali ne sono le finalità? Questi processi sono tra loro interrelati? E se è così, quali sono le loro interazioni? E’ possibile che non solo la persona ma anche le organizzazioni apprendano ed abbiano un loro specifico sapere? Sapere e conoscenza possono essere gestiti? Molto è stato scritto sulla conoscenza e molte sono le definizioni che ne sono state date; e questo ci sembra naturale perché quando si desidera dare un significato ad un costrutto immateriale, come quello di knowledge, termine con il quale gli an-glosassoni definiscono tutto ciò che riguarda il dominio del sapere e del conoscere, gli spazi delle possibili concettualizzazioni si ampliano, generandosi così sovrapposizioni

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e generalizzazioni che tendono ad allontanarsi sempre più dall’esperienza del fare e ad avvicinarsi sempre più al principio metafisico del creare. C’è, allora, chi, per evita-re questo pericolo, mette in pratica un processo di “reificazione della conoscenza”, assimilandola all’informazione, ai dati, alle notizie; c’è chi, invece, la rintraccia nelle abilità implicite della persona o chi, ancora, la definisce come un insieme dell’uno e dell’altro: esperienze da decodificare contestualmente ad esperienze codificate, prati-che per abilitare chi non sa e procedure per coordinare chi già sa. In uno studio del 2000 dal titolo Enabling Knowledge Creation, Ikujiro Nonaka, Georg von Krogh e Kazuo Ichijo descrivono chiaramente questa ampia variabilità di significati attribuiti alla conoscenza:

Se voi chiedete ad un gruppo di studiosi del processo cognitivo che cosa è la conoscenza,

essi risulteranno probabilmente d’accordo sull’idea che lo studio della conoscenza coin-

volge le strutture che generano la cognizione e che servono per rappresentare la realtà.

Ma se uno di questi studiosi discute di conoscenza in una conversazione tenuta dopo ce-

na con un manager interessato all’argomento, egli si renderà conto che non vi è una de-

finizione del concetto di conoscenza che interagendo con varie discipline possa soddisfa-

re le domande provenienti dalle diverse realtà organizzative e dai diversi livelli profes-

sionali che vi operano. Il manager propenderà per un concetto di conoscenza che si avvi-

cini a quello di know how. Entrambi hanno ragione. La conoscenza è del suo utilizzatore

perché trova il suo significato a seconda dell’uso che ne fa la persona.

Tutte queste definizioni attribuiscono alla conoscenza un significato personale: è la persona che conosce, implicitamente o esplicitamente. E’ la persona che possiede il know how e, pertanto, è necessario che l’organizzazione acquisisca quella risorsa e che, successivamente, si strutturi e si configuri con uno schema tale da far sì che la conoscenza di quella persona diventi una conoscenza diffusa, posseduta anche da al-tre persone appartenenti all’organizzazione. Se ciò non avviene il know how rimane un privilegio di quella sola persona-risorsa, perché non è stato trasferito ad altri; e, conseguentemente, l’organizzazione avrà fallito nel suo obiettivo di acquisire e pro-pagare in azienda, tramite la persona, un nuovo know how. Molti studi hanno rilevato questo pericolo, dimostrando come spesso le aziende che hanno effettuato rilevanti investimenti in knowledge non sono state poi in grado di ottenere il ritorno economico sperato, perché il presupposto di questi investimenti è stato quello che la conoscenza può essere trasferita tra le persone così come può esse-re trasferito un bene materiale, una merce. Come noto, ancora oggi, la conoscenza viene considerata da molti managers e da molti imprenditori come un possibile ogget-to di scambio; si ritiene vincente il possesso del know how semplicemente per il fatto di averlo potuto acquisire in modo esclusivo, in particolare quando lo stesso non si manifesta attraverso una tecnologia quanto, piuttosto, attraverso il saper fare incorpa-to in una persona. In questa prospettiva, se è vero che la persona possiede in modo esclusivo la conoscenza, è anche vero che la persona può essere comprata ed utilizza-ta alla stregua di un qualsiasi altro bene, alla stregua di una qualsiasi altra risorsa. Ed è anche comprensibile che costi molto, perché è molto scarsa; anzi, è talmente scarsa che chi la riesce ad ottenere di certo sopravviverà, perché sarà più competitivo e potrà

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spiazzare sul mercato gli avversari. E così ci si è dimenticati che il solo knowledge non è sufficiente a decretare la sua fortuna; perché è tale nel suo contesto, nelle sue relazioni con l’altro, nelle sue espressioni di “contagio” dell’ambiente, nella sua ne-cessità di essere partecipato dalla rete sociale che lo promuove e che lo sostiene. Questa espressione della conoscenza come oggetto, come un bene trasferibile, ci è apparsa molto riduttiva, così come molto riduttivo ci è apparso l’uso del termine an-glosassone di knowledge per esprimere una molteplicità di concetti spesso assai diver-si tra loro. Ci siamo chiesti, allora, se non fosse più appropriato uscire dallo schema interpretativo dominante fondato sulla personalizzazione e sulla dimensione prevalen-temente statica e reificata della conoscenza, ricorrendo ad una diversa concettualizza-zione del fenomeno, che ne rendesse ragione anche sotto il profilo della sua dimen-sione dinamica; in particolare, incominciando ad osservare la conoscenza come un processo. Abbiamo così deciso di argomentare sulla dinamica del conoscere piuttosto che sul suo essere trasformato in oggetto; ed ancora, di non argomentare più dell’og-getto quale bene esterno alla persona e, quindi, caratterizzato dalla proprietà della tra-sferibilità, quanto piuttosto di argomentare della possibilità soggettiva di agire, di comportarsi secondo il proprio sapere incarnato.

Il piano dei saperi personali

Ed è per noi risultato naturale operare un distinguo tra il “sapere”, quale possibi-lità di agire della persona in un “affollato” piano dei saperi personali, ed il “conosce-re”, quale processo di generazione di nuovi saperi reso possibile solo attraverso la re-lazione tra più persone. Abbiamo, così, inteso la conoscenza come il primo frutto del processo di generazione di nuovi saperi pur se appena accennati, appena descritti, ap-pena rintracciati dalle possibilità linguistiche, attraverso la fissazione nella prima memoria della scoperta. Quando si genera la conoscenza ancora non si è avviato quel processo di apprendimento continuo, fondato sulla ripetizione, sulla rielaborazione, sull’esercizio quotidiano e sulla pratica di comunità, che potrà portare successivamen-te la conoscenza a divenire un sapere amico, un sapere incarnato, un sapere capace di

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manifestarsi quasi istintivamente, con tutto il corpo ed in tutta la sua capacità espres-siva: a diventare, cioè, una proprietà essenziale del comportamento personale. Il sapere è un privilegio esclusivo della persona, del suo corpo; il sapere è il sa-pere incarnato nella persona, formatosi attraverso un processo di apprendimento indi-viduale continuo che trasforma la conoscenza generata attraverso le relazioni in un sapere stabile e fruibile dalla persona, pur se spesso inconsapevolmente; un sapere chiaro ed intenso che appartiene al corpo ed alla sua gestualità e, dunque, al compor-tamento.

Il paesaggio della conoscenza(ns. rielaborazione da Caldart, Ricart, 2004)

Sapere e conoscenza non sono sinonimi: il sapere della persona è una proprietà dell’”io”, del suo corpo e, come tale, ne configura il modo di essere, il modello di comportamento, la competenza dell’agire; la conoscenza è una proprietà generativa del dominio relazionale, quello del “noi”. Preferiamo, dunque, parlare di sapere per-sonale tacito od esplicito, piuttosto che di conoscenza, così come preferiamo parlare di contaminazione nel piano dei saperi attraverso la propagazione in rete dei saperi personali, piuttosto che di trasferimento della conoscenza. A livello di comunità si po-trà parlare solo di “paradigma”, perché il sapere appartiene alla persona ed ogni per-sona lo forma conferendo dei propri significati alla realtà che esperisce. Il paradigma è una emergenza culturale che si manifesta a livello globale esclusivamente attraverso il comportamento delle persone; sarà la dimensione e la ripetitività dell’adesione ad un corpo di convinzioni a decretare la dominanza di un modo di pensare, un modo di essere al quale, secondo un principio di auto-rinforzo, più persone tenderanno sempre più ad aggregarsi, riconoscendosi attraverso di esso come appartenenti ad una comu-nità. La comunità non apprende perché l’apprendimento è una prerogativa della per-sona; l’organizzazione è una comunità di persone che apprendono. La cultura dell’or-ganizzazione emerge dal sapere delle persone che interagiscono tra di loro; l’apprendimento è una proprietà esclusiva della persona che attraverso le proprie ca-

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pacità, tipiche di ogni essere vivente, trasforma i significati che essa co-genera con l’ambiente in sapere incarnato. In questo senso, le organizzazioni non possono essere “reificate”, considerandole come degli oggetti separabili dagli elementi che le costi-tuiscono e magari rese delle macchine le cui parti possano funzionare come degli au-tomatismi, o “biologicizzate”, considerandole alla stregua di esseri viventi dotati di quegli apparati biologici, dal processo cognitivo, alla visione, alla volontà, al sapere, che generano processi e manifestazioni esclusive del vivente.

L’emergenza del paradigma dominante

(ns. rielaborazione da Caldart, Ricart, 2004)

L’organizzazione e la sua cultura sono dei “fenomeni emergenti” dalla dinamica dell’interazione tra le persone; è la qualità delle relazioni poste in essere, e, quindi, l’intenzione che le persone scelgono per manifestarsi attraverso il proprio agire, che determina la qualità dell’emergenza organizzativa. Solo se le intenzioni sono virtuose – sinceramente aperte alle relazioni con l’altro – è possibile che si generi la conoscen-za relazionale, quella conoscenza che emerge dalla relazione e che si manifesta attra-verso l’accenno di un nuovo sapere che non appartiene al sapere pregresso di nessuno e che successivamente, attraverso un processo di apprendimento personale, potrà di-ventare un nuovo sapere incarnato. La conoscenza è il frutto della relazione e si genera attraverso l’incontro con l’altro, attraverso la relazione tra saperi che decidono di esplorare nuovi territori, nuo-ve possibilità interpretative che non si sono ancora svelate per nessuno dei due sog-getti della relazione. La conoscenza è l’improvvisa manifestazione del nuovo, è l’improvviso senso della possibile acquisizione di un qualcosa che fino a poco prima non c’era e neanche si intravedeva; è l’improvviso trasferimento al piano superiore, in una casa nuova tutta da scoprire e da arredare con pazienza, fin quando non sentiremo che essa ci apparterrà perché ogni volta che la rivedremo ci accoglierà come un vec-chio amico. Dunque, conoscere vuol dire esplorare, vuol dire essere protesi verso l’altro, andare avanti prima degli altri e tornare a casa potendo raccontare nuove cose, nuove avventure, nuove esperienze.

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Ecco che le organizzazioni, considerate come reti di relazioni tra persone dotate ognuna di un proprio sapere incarnato unico e diverso da quello di qualunque altro, consentono l’emergere della “novità” che il singolo, pur nel suo essere speciale, non può generare se non nei limiti dell’elaborazione di ciò che sa. E’ solo dalle relazioni fondate sul confronto tra le diversità e sull’apertura all’altro diverso da sé, che posso-no scaturire nuove possibilità mai considerate in precedenza e possono essere genera-te delle identità relazionali diadiche, di gruppo, di comunità. In tal senso, le organiz-zazioni possono essere considerate come degli “incubatori di conoscenza relazionale” che solo l’esperienza, l’abitudine e la ripetizione, possono trasformare in sapere per-sonale.

4. Il pensiero costruttivista e la teoria della complessità

Uno dei nostri presupposti fondanti è quello che l’uomo può conoscere e sapere solo se partecipa attivamente alla generazione ed alla realizzazione della propria cultura incarnata attraverso l’agire quotidiano. La persona non è un soggetto passivo, separa-to dall’ambiente e, quindi, separato dall’oggetto della conoscenza, ma ne è egli stesso uno dei co-generatori: l’uomo genera ciò che osserva mentre ne esperisce il significa-to che lui stesso conferisce in prima persona all’oggetto. L’uomo definisce con il suo istinto il senso dell’oggetto, filtrando le sue esperienze ontogenetiche e le sue radici filogenetiche; in altre parole, l’uomo interpreta e costruisce il suo mondo attraverso la sua storia. Nel pensiero costruttivista non esiste un mondo oggettivo; non esiste la ve-rità assoluta ma le verità e le evidenze della persona che la conducono ad assumere atteggiamenti che non possono essere indipendenti dalla sua esperienza. Ogni persona conferisce un proprio significato agli eventi a cui partecipa ed alle azioni che compie; ciò vuol dire che non vi può essere alcuna coincidenza tra due o più significati perso-nali ma solo, ed eventualmente, delle similitudini. I significati resi unici compongono quella infinita varietà di esperienze e di atteggiamenti che dà vita al piano dei saperi personali. Uno dei maggiori teorici del costruttivismo, Ernst von Glasersfeld, ci richiama al senso di responsabilità che deve caratterizzare l’uomo che dà significato alla pro-pria realtà rendendola unica:

Questa concezione porta infallibilmente a rendere responsabile l’uomo pensante, e lui so-

lo, del suo pensiero, della sua conoscenza e, conseguentemente, anche delle sue azioni.

Oggi che i comportamentisti addossano, come sempre, tutta la responsabilità all’am-

biente, mentre i sociobiologi vorrebbero scaricarne gran parte sui geni, è scomoda una

teoria la quale attribuisce a noi stessi la responsabilità del mondo in cui pensiamo di vi-

vere. Il costruttivismo rompe con le convenzioni e sviluppa una teoria della conoscenza

in cui la conoscenza non riguarda più una realtà oggettiva ontologica, ma esclusivamente

l’ordine e l’organizzazione di esperienze nel mondo del nostro esperire.

La ricerca epistemologica non può puntare alla definizione di una concordanza e di una coerenza tra l’oggetto esistente, vero, e perciò a tutti egualmente rappresentabi-

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le, e la sua definizione, quanto, piuttosto, alla determinazione di quel modo tra quelli possibili che meglio si adegui al contesto e si determini in funzione delle esperienze soggettive, della loro potenziale ripetibilità e della loro prevedibile colleganza. Pen-siamo, dunque, ad una ricerca che inserisca nei suoi progetti lo studio della fenome-nologia della persona; che definisca, cioè, degli strumenti capaci di rilevare quegli at-teggiamenti profondi della persona che possano essere considerati irriducibili ed e-stensibili per disegnare uno schema naturale dell’agire della persona nel sistema delle sue relazioni: non più una coerenza tra oggetto e definizione, ma tra esperienza in prima persona e schema relazionale di appartenenza. Questa ricerca potrebbe rendere “pubblico” quell’ “io privato” che ognuno di noi ritiene intoccabile, perché apparte-nente alla sfera degli atteggiamenti che riguardano esclusivamente la persona. A dire il vero più che di costruttivismo sarebbe più opportuno parlare di “gene-rativismo”, perché l’uomo non costruisce qualcosa di reversibile ma genera qualcosa di irreversibile, di unico, di adeguato al contesto. Costruire ci fa pensare ad una casa che, ottenuta attraverso un’aggregazione di pezzi, potrebbe essere ripetutamente com-posta e scomposta; la generazione non è il tavolo sul quale componiamo il “lego” o il puzzle, ma è lo spazio dell’emergenza, delle possibilità, delle novità: un mondo plura-lista che non ammette definizioni univoche e generalizzabili che escludano la rilevan-za del caso, dell’imprevisto, dell’inatteso. Al di là della terminologia, ciò che più rileva è che il pensiero costruttivista ga-rantisce un ruolo teorico alla contingenza rispetto ad un modello tradizionale di ricer-ca scientifica che tende, ed a volte anche in modo spasmodico, a dimostrare il destino immutabile delle parti, degli oggetti, nonchè la prevedibilità dei comportamenti colle-gati al loro essere messi insieme. Qui, nel mondo co-generato e inventato dai signifi-cati personali, il fenomeno della contingenza è strettamente connesso alla presenza di un’infinita varietà di significati e di possibilità generative; a seconda di come le varie-tà si combinano possono emergere nuovi atteggiamenti e inattesi modi di essere. Per familiarizzare con questa concezione delle relazioni, basta rifarsi al fenomeno della contingenza così come si realizza in natura e mirabilmente descritto dal paleontologo Stephen Jay Gould:

In qualsiasi ambiente possono funzionare centinaia di anomalie possibili, e le forme e i

colori della particolare popolazione che vive in una valle specifica sono conseguenze for-

tuite delle mutazioni in gran parte non adattive che, in modo del tutto accidentale, hanno

avuto origine e si sono diffuse in una popolazione isolata. (…) La nozione che gli organi

siano destinati a certe funzioni particolari, che siano idealmente adatti per uno e un solo

compito, è un residuo del creazionismo vecchio stile. Un organo potrebbe essere plasma-

to dalla selezione naturale per conseguire vantaggi in un determinato ruolo ma qualsiasi

cosa complessa ha una varietà di altri usi potenziali in virtù della struttura ereditata, co-

me noi tutti scopriamo quando usiamo una monetina come cacciavite o una carta di cre-

dito per aprire una porta.

La relazione tra le parti genera delle possibilità inattese invalidando l’oggettività degli schemi ricorrenti ed ammettendo la pluralità di soluzioni rispetto ad una mede-sima richiesta del fare; la pluralità dei significati e dei modi offre ai ricercatori una

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nuova strada esplicativa dei fenomeni attraverso l’integrazione di più spiegazioni, tut-te descrivibili con evidenza e verificabili, da ricondurre ad un unico modello interpre-tativo: il modello della complessità. La relazione tra le parti si manifesta attraverso un circuito generativo che non ha un fondamento, non ha un inizio od una fine; l’incanto della magia e la sorpresa della scoperta non posseggono un’origine ma appartengono intrinsecamente al mondo delle relazioni, alla storia ed ai miti dei popoli, determinan-do il senso più profondo della vita e del suo essere inserita nell’evoluzione gerarchica degli universi. Scrive in proposito Mauro Ceruti:

Viviamo in un groviglio di storie nella cui stessa trama si sono diffusi e dispersi l’ordine

e il senso complessivo di quella che è stata detta la storia. Le espressioni cognitive ed ar-

tistiche generano una enorme gamma di stili, di reazioni, di accadimenti, di scoperte,

senza essere precedute da una guida per la loro interpretazione. E’ una storia senza fon-

damenti, che ha in se stessa le condizioni della propria nascita e della propria morte, e in

cui passato, presente e futuro sono connessi attraverso una rete di risonanze non lineari e

non predeterminabili.

La persona è parte integrante del processo di emergenza della conoscenza rela-zionale e la relazione è parte integrante del processo di formazione del sapere perso-nale; due processi che interagiscono su due diversi livelli. Uno, quello dell’appren-dimento, è un processo autopoietico, chiuso, che si svolge solo a livello personale e che consente alla persona di trasformare la conoscenza in sapere incarnato, in sapere esperenziale. Il secondo, quello della conoscenza, che si può sviluppare solo attraver-so la relazione con l’altro, mediante un accoppiamento esplorativo dei saperi che ven-gono resi disponibili per una trasformazione, per un loro miglioramento. I nuovi sape-ri interesseranno il processo di apprendimento personale, mentre il sapere incorpato all’interno delle relazioni esplorative diventa un potente generatore di nuove possibi-lità, di nuove idee. Non c’è inizio e non c’è fine; si tratta di circuiti generativi e di ap-prendimento che non hanno un verso né un’autonomia, poiché sono ordinati in un si-stema gerarchico di livelli che consente il passaggio dell’osservazione dal livello in-dividuale a quello relazionale. E quando, per comprendere la dinamica non solo locale ma anche globale delle interazioni tra relazioni, si effettua un ulteriore passaggio all’osservazione delle reti, ci si accorge che i livelli sono reciprocamente interagenti nello spazio in modo tale che risulti possibile la combinazione tra componenti appartenenti a livelli differenti, così come ci si accorge che si realizzano interazioni su scale spazio-temporali diffe-renti. Al livello del reticolo relazionale si svolge un ulteriore processo che si intreccia ed interagisce con i processi di formazione dell’apprendimento personale e di genera-zione relazionale della conoscenza: è il processo di contaminazione sociale che av-viene quando le persone sono in relazione tra loro, quando comunicano. Indipenden-temente dalla loro intenzione, più o meno esplorativa, le persone attraverso il loro agi-re apportano in rete delle possibilità di significazione per l’altro, con il tentativo di propagare il proprio punto di vista, le proprie ragioni, il proprio senso della vita. Gli altri scelgono e selezionano come se si trovassero in un grande “supermercato delle idee” ed una volta scelto quello che loro ritengono sia il miglior prodotto, provvedono

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a promuoverlo presso altri, perché quel prodotto, con quelle qualità, lo hanno scoperto loro e ne sono orgogliosi. Il filosofo francese Edgar Morin, uno dei più importanti studiosi di complessità, descrive così la relazione tra rete e complessità:

Ogni essere vivente emette e percepisce al contempo. A partire da questo essere che e-

mette e che percepisce si intesse una rete di comunicazioni con l’ambiente e passo dopo

passo, da vicino e da lontano, i reticoli si sovrappongono, si ricoprono, interferiscono, si

incontrano, infine si ramificano a miriadi in una sorta di polireticolo che si produce in

continuazione e che costituisce in definitiva la tela, il tessuto comunicazionale dell’eco-

organizzazione. Ma ciò non significa che si stabilisca un reticolo di comunicazione uni-

tario. Fra i reticoli intercorrono enormi buchi neri; e i reticoli vengono messi in disordi-

ne, ingarbugliati, parassitati da enormi quantità di errori e di rumori. Ma i buchi

dell’ambiguità, le ombre delle incertezze, l’onnipresenza dell’errore non soltanto non

impediscono il dispiegamento della comunicazione; al contrario favoriscono anche il suo

sviluppo. In una organizzazione complessa, la presenza multiforme e multipresente del

rumore non è fattore di degradazione; al contrario alimenta la complessità.

In natura i sistemi complessi, nonostante la mancanza di apparati centrali di co-ordinamento, mostrano un’intelligenza di funzionamento che rende il reticolo relazio-nale, sia a livello locale che a livello globale, organizzato efficacemente come un tutt’uno; capace di agire autonomamente e spontaneamente attraverso l’integrazione della diversità. La diversità si auto-organizza seguendo principi vitali e di adattamen-to che consentono al tutt’uno di modificarsi senza rinunciare al rispetto della disomo-geneità delle parti che compongono la rete. Le proprietà di relazione che si determi-nano in un sistema che si auto-organizza non sono rintracciabili osservando in modo isolato il comportamento di una delle sue parti; è l’insieme dello schema formato dal-le relazioni che consente l’emergenza di un ordine senza che ad esso sia preposta una guida o che per esso sia previsto un controllo esterno. Il sapere della persona trova la sua forma partecipando all’auto-organizzazione del corpo e del suo agire permanente; ed è così che a livello sociale il sapere delle persone si propaga attraverso la contami-nazione dei significati e si integra in un paradigma culturale emergente che si auto-organizza e si auto-configura definendo le sue parti essenziali, quali le norme e le consuetudini dell’azione.

5. L’etica dell’intenzione e la contaminazione sociale

Questo libro rappresenta un viaggio compiuto contemporaneamente sulla terra e nello spazio, tra i nodi delle reti che si estendono figurativamente tra il piano dei saperi e lo spazio delle conoscenze; un viaggio alla ricerca di nuove possibilità di scopo per l’organizzazione delle relazioni umane. Via terra abbiamo seguito le tracce di alcuni grandi pensatori contemporanei per percorrere una strada sicura, ben segnalata, che ci conducesse agevolmente nell’ampio piano dei saperi, di quei saperi esistenti ed inte-grati nella loro interdisciplinarietà che garantiscono stabilità e chiarezza al panorama delle idee e solidità teorica alle argomentazioni. Nello spazio ci siamo mossi esplo-

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rando nuove traiettorie di volo capaci di rendere il viaggio non solo più agevole ma anche maggiormente sicuro; ci siamo idealmente posizionati in entrambi i domini na-turali, quello del sapere e quello della conoscenza, cercando di sfumarne i confini e dimostrando come essi si confondano e si mescolino tanto da risultare di fatto insepa-rabili. Terra e aria, piano e spazio, sapere e conoscenza, si intersecano senza soluzio-ne di continuità e mentre i saperi sul piano si consolidano, gli stessi vengono sospinti ad una trasformazione dall’emergere nello spazio di nuove conoscenze e di nuove possibilità. E così avviene anche per i paradigmi culturali delle comunità: ve ne è uno dominante ma con esso ve ne è uno in formazione che si appresta a sostituirlo, per trasformarlo radicalmente; ed al momento opportuno a nulla varranno le resistenze di alcuni, anche di quelli più influenti, quando il disagio per la crescente insoddisfazione paradigmatica sarà ormai diffuso in gran parte della comunità. Ecco perché noi riteniamo che nel mondo contemporaneo, dove il disagio para-digmatico sembra ormai interessare gran parte delle popolazioni, qualunque tipo di ricerca debba avere quale scopo principale quello di trovare i modi per migliorare lo stato relazionale delle persone; debba, cioè, essere rivolta alla determinazione di quali siano le azioni da intraprendere per rendere l’uomo più felice perché soddisfatto delle sue relazioni con l’altro. Il doppio approccio argomentativo da noi utilizzato durante l’esposizione, quello di exploitation - basato sullo sfruttamento dei saperi - e quello di exploration - basato sull’esplorazione di nuovi modi di pensare e di agire - riflette le attività rappresentate dal Mago e dal Matto, che si uniscono, si fondono al di là delle apparenti diversità caratteriali, delle diverse modalità di esperire il mondo, delle di-verse abilità nel mostrarsi all’altro. Dal loro incontro, dal loro dibattere per conoscere, dalla circolarità delle loro interazioni personali, sono emerse delle nuove modalità di interpretazione della dinamica delle relazioni e delle nuove ipotesi di scopo per le or-ganizzazioni che ne emergono. Abbiamo argomentato, in particolare, la necessità di un cambio di paradigma culturale delle organizzazioni; della possibilità, cioè, che le organizzazioni generino uno scopo condiviso di benessere relazionale. Questo cambio di paradigma culturale può avvenire mediante uno spostamento del focus dello sviluppo organizzativo dalla persona alla relazione: è un cambiamento radicale che richiede alla persona nell’organizzazione di diventare consapevole che il suo modo di essere non è “un fat-to privato” ma un “evento relazionale” e, pertanto, sociale. Si tratta di aderire ad una centratura progettuale che risulti più adeguata al perseguimento di un moto di tra-sformazione dei comportamenti personali: dalla prevalenza di una centratura indivi-dualista, tesa all’esclusivo perseguimento di interessi personali, alla prevalenza di una centratura relazionale, attenta alla soddisfazione delle relazioni interne alla comunità. La centratura relazionale ha una connotazione etica in quanto si fonda sul presupposto che la persona entri in relazione con l’altra con un’intenzione virtuosa; un’intenzione è virtuosa perché sostiene la persona nell’assumere dei comportamenti non solo reci-procanti ma anche caratterizzati da una disposizione al rispetto dell’altro ed alla gene-razione di un bene relazionale al quale venga attribuito un valore comune sulla base di una similitudine interpretativa del significato. Abbiamo dedicato un capitolo all’analisi di questa ottica relazionale, per la quale persino il dono non è più qualcosa da cui ci si aspetta una controprestazione; il dono

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diventa una reciprocità fondata sul riconoscimento dell’essere in relazione per un va-lore condiviso e non per un mero fatto di scambio: l’io privato diviene parte dell’io pubblico, un’identità relazionale di ordine superiore. Luigino Bruni e Stefano Zama-gni, nel loro testo sull’Economia Civile, proprio attraverso una diversa interpretazione del concetto di dono connettono il paradigma relazionale con i fenomeni complessi caratterizzati dalla circolarità e, quindi, dall’imprevedibilità:

La differenza tra il dono come munus e il dono come reciprocità sta nel fatto che il primo

è perfettamente compatibile col paradigma individualista – come lo sono peraltro

l’altruismo e la filantropia -, il secondo postula il paradigma relazionale. Si può allora di-

re che il dono come reciprocità è espressione di scelta libera, se quest’ultima viene intesa

come una azione il cui risultato non può essere prevedibile e garantito sulla base di una

catena causale determinata.

La progettazione della dinamica relazionale nelle organizzazioni si deve basare sullo sviluppo di una diffusa intenzionalità virtuosa che aiuti il processo di cambia-mento dovuto ad una trasformazione del paradigma culturale; va da sé che non si po-trà definire virtuosa quell’intenzionalità messa in atto per corrispondere a norme od ingiunzioni. In altre parole, non possiamo attribuire la qualità di etica ad un’azione compiuta per soddisfare aspirazioni di riconoscimento o di auto-stima; la disposizione dovrà essere caratterizzata il più possibile dal disinteresse per il proprio sistema di a-desione a degli schemi ricorrenti di comportamento ed essere correlata ad un impulso immediato all’agire come espressione di un saper essere etico incarnato, liberato or-mai dalla richiesta del come fare un’azione. Stiamo parlando della realtà di tutti i giorni, quella agita spesso ben al di là del pensiero: ma agita e, quindi, non certo priva di conseguenze, come ci ricorda Roberto Saviano in Gomorra:

Si crede stupidamente che un atto criminale per qualche ragione debba essere maggior-

mente pensato e voluto rispetto ad un atto innocuo. In realtà non c’è differenza. I gesti

conoscono un’elasticità che i giudizi etici ignorano.

Codici o carte che prevedano il cosa fare o il cosa non fare per essere etici ri-spondono ad un principio normativo che presuppone l’inabilità della persona nell’auto-osservarsi e nel determinare autonomamente quali siano i più appropriati comportamenti da tenere nelle proprie relazioni sociali. L’intenzionalità con disposi-zione virtuosa abituata e consolidata attraverso l’impegno e la pratica tenderà, para-dossalmente, ad apparire inintenzionale riflettendo in tal modo il saper essere etico senza riflessioni deliberative e senza tempi dedicati al dubbio. Come afferma Franci-sco Varela in una delle sue Lezioni Italiane svolte presso l’Università di Bologna e raccolte in un testo dal titolo Un know How per l’Etica:

Il punto chiave qui è rappresentato dalla contrapposizione tra azione intenzionale vs inin-

tenzionale, e dalle sue conseguenze. Rispetto al punto di osservazione che adottiamo abi-

tualmente, potrebbe risultare assurdo rinunciare alle intenzioni. Qui stiamo prendendo in

esame il dato di fatto che gran parte delle nostre vite è piena di azioni inconsapevoli co-

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me vestirsi, mangiare e, anche più importante, preoccuparsi degli altri e rispettarli nel

comportamento proto-etico. Attività inintenzionale non significa casuale o esclusivamen-

te spontanea, bensì azioni le quali, mediante l’appropriata estensione ed attenzione, sono

state trasformate in comportamento incorpato con un lungo addestramento.

Il cambio di paradigma organizzativo può essere perseguito attuando una strate-gia di contaminazione della rete sociale interna; l’analisi delle principali caratteristi-che di funzionamento delle reti sociali ha mostrato che tale obiettivo può essere rag-giunto configurando una rete etica composta da un gruppo di nodi influenti predispo-sti alle azioni virtuose e ben addestrati ad essere d’esempio per le loro connessioni. Abbiamo argomentato, quindi, che non è sufficiente essere degli iper-connettori di rete, poiché questa posizione non garantisce assolutamente che si possa determinare un’efficace propagazione dell’annuncio contaminante; sarà decisiva la predisposizio-ne del nodo ricevente a divenire a sua volta un elemento di contaminazione. Il nuovo modello culturale dell’organizzazione dovrà emergere da una dinamica delle relazioni progettata per auto-determinarsi attraverso il libero dispiegarsi delle intenzioni personali; la propagazione ed il consolidamento di un saper essere etico condurrà all’emergenza di un’identità di scopo di benessere relazionale secondo un verso bottom-up che potrà interagire circolarmente con l’intenzione contaminativa permanentemente espressa dal management secondo un verso top-down. I due versi potranno dialogare e generare conoscenza relazionale, in modo tale da produrre un miglioramento continuo del benessere nelle relazioni organizzative. Un circuito co-generativo dell’organizzazione il cui principale scopo sia quello di star bene attraver-so un processo di progressivo miglioramento del proprio sapere; un’adesione consa-pevole e crescente degli agenti organizzativi a questo circuito co-generativo permette-rà di aumentare la possibilità delle persone di apprendere sempre più il non saputo ed alla collettività di generare sempre più nuove conoscenze relazionali.

6. Il cambio di paradigma negli studi organizzativi

I nostri due arcani, Il Mago e il Matto, rappresentano due possibili stili di comporta-mento dell’agente organizzativo; mediante un processo di sfruttamento (exploitation) e contaminazione dell’altro il Mago può agire per stimolare la propagazione dei sape-ri in rete, mentre il Matto, mediante un processo di esplorazione (exploration) e inte-grazione con l’altro, può agire per stimolare la generazione di conoscenza, di possibili nuovi saperi per la comunità. L’agente organizzativo può essere contemporaneamente l’uno e l’altro, perché in ogni persona i due arcani sono sempre presenti, possono es-sere sempre richiamati all’opera a seconda del contesto e della consapevolezza della persona. Entrambi gli atteggiamenti sono sospinti da motivazioni che possono rendere più o meno virtuoso il loro operare all’interno della comunità; infatti, l’azione orga-nizzativa dell’agente dipende dalla disposizione che ne caratterizza l’intenzione in re-lazione ai presupposti che ne sono posti a fondamento. Il cambio di paradigma che proponiamo nel nostro lavoro scardina le basi teori-che del modello classico deterministico che ancora oggi prevale in tutti gli studi orga-

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nizzativi. Il paradigma relazionale, infatti, si basa sull’emergenza dell’organizzazione dall’intersoggettività e sulla possibilità che sia il principio dell’auto-organizzazione a conferire ordine ed efficienza alle relazioni tra le persone; poche regole per generare dalla diversità dei nuovi ordini complessi che appartengano alla comunità. Certo, non è facile; ma non è detto che le cose difficili siano, per definizione, delle cose impossi-bili. Se per un verso non mancano gli sforzi per cercare di comprendere in modo più articolato la complessità dei comportamenti organizzativi, per l’altro la ricerca conti-nua a svolgersi all’interno di uno scenario paradigmatico di tipo deterministico che propone una visione della conoscenza come un sapere personale e, dunque, reso og-getto, materia; tale presupposto viene posto a fondamento della convinzione assai dif-fusa che la conoscenza possa essere trasferita e che ad essa possa essere attribuito un valore o, ancora, che la conoscenza possa essere trattata come un bene scarso la cui proprietà è individuale e, pertanto, privata. Certo, come potranno dire alcuni, questo corrisponde alla realtà di tutti i giorni; ma noi ci chiediamo: a quale realtà ci riferiamo, se la realtà è quella generata ed inter-pretata da ognuno di noi secondo un proprio specifico punto di vista? Ecco, dunque, che questa realtà richiamata è quella determinata ed agita all’interno di un paradigma culturale deterministico; si tratta a ben vedere di un mondo dove vige il predominio della separazione individualista cui corrisponde necessariamente l’identificazione con il gruppo: un mondo privo di un’effettiva interazione generatrice tra le persone. La più recente letteratura sul tema della “gestione della conoscenza” risulta ca-rente soprattutto nell’aspetto epistemologico relativo alla definizione stessa del cono-scere; quale è il significato da attribuire alla conoscenza? La conoscenza è un oggetto o un bene immateriale? La conoscenza appartiene ad una persona o è un bene colletti-vo? Si può parlare di gestione della conoscenza come se si parlasse, ad esempio, di gestione delle scorte? In altri termini: la conoscenza è una risorsa o un generatore di risorse? E se la conoscenza genera risorse qual’è e come possiamo definire la risorsa? In molti scritti che trattano di conoscenza permane una notevole sovrapposizio-ne terminologica che non chiarisce né quali siano i presupposti con i quali viene af-frontato e discusso il lavoro di ricerca, né quali siano i significati assegnati ai termini “sapere” e “conoscenza”. Il nostro è un lavoro interdisciplinare volto alla ricerca di questi presupposti e di questi significati: abbiamo definito due scenari paradigmatici composti da due diversi sistemi di presupposti fondanti ed abbiamo successivamente attribuito diversi significati al “sapere” ed alla “conoscenza”. Abbiamo, inoltre, defi-nito un circuito generativo dell’organizzazione fondato sui processi di apprendimento individuale del sapere e di generazione relazionale della conoscenza. In un recente articolo, dal titolo Condivisione di conoscenza e successo delle

ICT nelle organizzazioni: una questione tecnologica o sociale, Massimo Bergami, Gabriele Morandin e Francesco Sguera discutono sul fenomeno della condivisione della conoscenza, scegliendo tra le ipotesi sviluppate da diversi autori quelle che si fondano sul presupposto partecipativo degli attori organizzativi al processo di condi-visione della conoscenza. Sulla base di questa scelta, essi individuano due figure che partecipano a questo processo: il Contribuente ed il Cercatore. Queste due figure a prima vista sembra si avvicinino alle nostre rappresentazioni del Mago e del Matto,

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perché il Contribuente agisce per rendere la conoscenza disponibile per tutti, mentre il Cercatore gira in cerca di conoscenza:

I cercatori sono alla continua ricerca di consigli e informazioni: essi postano (lasciano

messaggi in uno spazio comune) domande e problemi nella comunità e, in questo senso,

rappresentano il lato della domanda nella condivisione di conoscenza (…) (e) si aspetta-

no (…) una ricompensa in termini di conoscenza. (…) I contribuenti si possono identifi-

care dalla parte dell’offerta. Il comportamento tipico di questi attori è quello di offrire

conoscenza e rispondere alle domande dei ricercatori inducendo spesso un processo col-

lettivo di problem solving. (…) Dal punto di vista motivazionale, risulta chiaro come i

cercatori siano sempre intenzionati a partecipare e a postare domande perché possono

vedere risolti i loro problemi e possono imparare dall’esperienza dei membri della

community. I contribuenti, spesso, offrono conoscenza senza ricevere alcuna tangibile

ricompensa spendendo tempo ed energia per convertire in esplicito il loro knowledge on-

line. Questi attori sono quelli che decretano il fallimento o il successo della condivisione.

Qui, però, la conoscenza appare interpretata quale stock informativo, ancorché esperenziale, posseduto dalla persona. Il dilemma dell’essere Contribuente o Cercato-re, o l’uno o l’altro, si può giocare solo tenendo ben presente che vige il presupposto che il sapere è un bene posseduto dalla persona, quale insieme di esperienze e di in-formazioni private, valorizzabili e trasferibili. Tutto qui si gioca sulla convenienza che ogni persona ha nel compiere determinate azioni organizzative, a seconda di co-me viene percepito dalla comunità il valore del bene, ed in un contesto dove il concet-to di percezione viene di fatto trasformato in utilità, secondo il più classico dei mec-canismi di coordinamento costituito dal mercato e dal suo prezzo di equilibrio tra do-manda ed offerta. Mi conviene più essere cercatore o contribuente? In quale ruolo posso avere maggiore potere? Se percepisco il mio sapere come un bene di grande va-lore, allora potrò chiedere molto al momento in cui decido di effettuare lo scambio. Tutto dipende, dunque, dall’intenzione dell’attore, ma tale intenzione si forma sulla base dell’utilità che l’attore persegue nello scambio; un’utilità collegata alla soddisfazione di un interesse personale, anche se poi tale interesse si dovrà identifica-re con la comunità organizzata di appartenenza. E, come vedremo in uno dei capitoli del nostro lavoro, il processo di identificazione, così come quello di cittadinanza, rap-presenta un modo attraverso il quale la persona decide discrezionalmente di aderire allo scopo della comunità, sempre che questa aderisca a sua volta al soddisfacimento degli interessi della persona. Certamente, quanto più una persona si identifica con la comunità, tanto più sarà disposta a “trasferire” agli altri il proprio sapere; ma questo avviene, ed a noi sembra assolutamente naturale, perché la persona attraverso la sua identificazione nella comunità delega ad altri il perseguimento di uno scopo che corri-sponde a quello proprio, individualista. La persona si identifica perché delega ad altri la responsabilità del proprio agire di scopo, senza con questo aderire in alcun modo ad una finalità di benessere relazionale che richiede l’agire secondo un’intenzionalità virtuosa ed allineata alla propria identità. L’identificazione, dunque, è un processo posizionato all’interno del paradigma separativo perché consente alla persona di par-tecipare a diverse comunità a seconda degli specifici scopi che essa persegue nel ri-

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spetto della propria intenzione individualista; la persona si costruisce una sorta di i-dentità sociale come somma di identificazioni separative, alla cui base vi sono una serie di scelte di adesione a diverse comunità che potranno avere fra di loro anche scopi assai diversi e spesso contrastanti. E così la persona è una parte dell’organizzazione; i due “attori”, persona ed organizzazione, non si co-determinano perchè ognuno ha una “vita” propria, ognuno brilla di luce propria; la persona parte-cipa e si identifica con l’organizzazione che è autonoma ed espressa attraverso i suoi “organi” formali e le sue “cordate” informali. In questo quadro di presupposti separativi, risulta evidente come il problema po-sto dai ricercatori sia quello di condividere la conoscenza e non, piuttosto, quello di interpretare il sapere esistente che viene propagato in rete attraverso delle contamina-zioni relazionali. Ed ancora, il problema è quello di trasferire un oggetto del sapere al quale però non può essere assegnato un valore, poiché tale valore dipende esclusiva-mente dall’interpretazione che la persona conferisce all’annuncio contaminante. Infi-ne, il problema non può che divenire quello di misurare la conoscenza; ma come è possibile misurare un bene immateriale che viene generato dalla relazione ed il cui valore dipende dalle intenzioni e dalle disposizioni mostrate dalle controparti dello scambio? Dunque, non è sufficiente che un agente organizzativo mostri reciprocità né che decida quale valore attribuire al proprio sapere, perché tale sapere non può per definizione né essere trasferito né tanto meno essere valorizzato indipendentemente dall’interpretazione dell’altro; perché chi contamina con il proprio sapere modifica l’ambiente attraverso la propria relazione con l’altro. Il richiamo a questo recente lavoro ci dimostra, però, che gli studi organizzativi si stanno sempre più avvicinando all’idea che le organizzazioni non sono fatte solo fisiologicamente dalle persone e che forse non è più sufficiente studiare la relazione tra due “oggetti di ricerca” separati: l’individuo e l’organizzazione. L’organizzazione emerge dalle relazioni tra le “persone” e tra i loro diversi saperi; occorre un cambio del paradigma interpretativo della dinamica delle relazioni che sposti il focus degli studi organizzativi dal livello della persona al livello della relazione; non più attori per livelli dimensionali, ma agenti per livelli emergenti di identità complesse. Tutta-via, ciò non è ancora sufficiente per affermare che si è determinato un cambio di pa-radigma culturale rispetto a quello attuale fondato sulla separazione e sul persegui-mento di interessi individualistici; per far sì che si determini un cambio di paradigma, da separativo a complesso, da individualista a relazionale, da determinista a circolare, è necessario che muti la disposizione delle intenzioni personali nel comportamento organizzativo, perché è attraverso il circuito intersoggettivo delle intenzioni che e-merge l’organizzazione o, meglio ancora, il suo scopo effettivo. Questa conoscenza, magari da condividere on-line, non può essere una cosa che si vende, come fosse un bene materiale; non è una cosa il cui prezzo si determina se-condo un mercato di domanda e di offerta; il sapere è la persona e la persona non è un oggetto. Ciò che rende il sapere personale fonte di arricchimento per la persona che lo incarna è la sua possibilità di agire in modo che il suo saper essere possa contaminare la comunità ed essere parte co-generatrice di conoscenza. La persona è responsabile del suo contaminare e, circolarmente, del suo apprendere al fine di accrescere le pos-sibilità di miglioramento della comunità. La contaminazione non ha valore se non con

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l’apprendimento e viceversa. Il valore non è nell’oggetto ma nella relazione tra le per-sone che si incontrano e che possono, se lo desiderano, partecipare ad un circolo vir-tuoso di co-generazione delle organizzazioni, decidendo di riconoscersi e rispettarsi reciprocamente in modo tale da stabilizzare nella comunità il predominio di un para-digma culturale fondato sul benessere relazionale: quale principio di stare bene insie-me sul fondamento di un interesse relazionale co-generato. Giugno 2008 Università degli studi di Chieti

Facoltà di Scienze Manageriali di Pescara Cattedra di Gestione della Conoscenza e delle Risorse Umane