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Dispense di Antropologia Culturale Massimo Canevacci 1. Concetto Inizio spiegando le tre matrici linguistiche della materia: anthropos in greco si riferisce sia all’uomo che alla donna, quindi coinvolge l’essere umano in generale – logos è inteso non come scienza che cerca leggi universali, ma come discorso che ruota intorno al genere umano – culturale è l’aggettivo che qualifica tale discorso non come si intende a scuola o all’università, cultura come sinonimo di cultura intellettuale, di sapere istituzionalizzato, bensì in un più vasto significato che coinvolge il pensare, il sentire e l’agire, cioè le dimensioni intellettive, emozionali e pratiche. Meglio ancora, la cultura - seguendo un approccio interessante contemporaneo – riguarda una rete di significati che avvolgono qualsiasi tratto dell’espressività umana. Per cui la cultura è un fatto semiotico, fatto di segni e simboli che vanno interpretati e prodotti. La nascita di questa disciplina, che è tipicamente occidentale nella sua fondazione, coinvolge il viaggio e la solitudine. Gli esempi classici dei primi antropologi ante- litteram, che cioè costituiranno le premesse di quello che sarà una pratica empirica di ricerca, sta nel viaggiatore solitario. Quello che parte e non sa esattamente quando ritorna. E che quando ritorna, non sarà lo stesso di prima. Erodoto e la sua ingenuità, Odisseo e la sua curiosità, Marco Polo e la sua meraviglia: ma anche il loro potere e una sorta di ansia che oscilla tra fascino e dominio sull’altro. Questa parola – l’altro – è il cardine mobile e plurale della disciplina. Essa è portata a conoscere l’altro e, in questa difficile relazione, a conoscersi meglio. Conoscere le culture altre significa conoscere dialogicamente anche la propria cultura. Cioè attraverso uno scambio tra due soggettività che - nelle parole e nei rituali, nelle regole e nelle improvvisazioni, nell’osservare e anche nel partecipare - costruiscono il significato. Lo studio, attenzione, non è più sull’altro, come una volta, ma con l’altro. Ciò vuol dire che l’antropologo non studia “i” villaggi, “la” cultura diversa, come fosse un astronomo o un misuratore di crani. Il primo interprete di una determinata

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Dispense di Antropologia CulturaleMassimo Canevacci

1. ConcettoInizio spiegando le tre matrici linguistiche della materia: anthropos in greco si riferisce sia

all’uomo che alla donna, quindi coinvolge l’essere umano in generale – logos è inteso non come scienza che cerca leggi universali, ma come discorso che ruota intorno al genere umano – culturale è l’aggettivo che qualifica tale discorso non come si intende a scuola o all’università, cultura come sinonimo di cultura intellettuale, di sapere istituzionalizzato, bensì in un più vasto significato che coinvolge il pensare, il sentire e l’agire, cioè le dimensioni intellettive, emozionali e pratiche. Meglio ancora, la cultura - seguendo un approccio interessante contemporaneo – riguarda una rete di significati che avvolgono qualsiasi tratto dell’espressività umana. Per cui la cultura è un fatto semiotico, fatto di segni e simboli che vanno interpretati e prodotti.

La nascita di questa disciplina, che è tipicamente occidentale nella sua fondazione, coinvolge il viaggio e la solitudine. Gli esempi classici dei primi antropologi ante-litteram, che cioè costituiranno le premesse di quello che sarà una pratica empirica di ricerca, sta nel viaggiatore solitario. Quello che parte e non sa esattamente quando ritorna. E che quando ritorna, non sarà lo stesso di prima. Erodoto e la sua ingenuità, Odisseo e la sua curiosità, Marco Polo e la sua meraviglia: ma anche il loro potere e una sorta di ansia che oscilla tra fascino e dominio sull’altro.

Questa parola – l’altro – è il cardine mobile e plurale della disciplina. Essa è portata a conoscere l’altro e, in questa difficile relazione, a conoscersi meglio. Conoscere le culture altre significa conoscere dialogicamente anche la propria cultura. Cioè attraverso uno scambio tra due soggettività che - nelle parole e nei rituali, nelle regole e nelle improvvisazioni, nell’osservare e anche nel partecipare - costruiscono il significato. Lo studio, attenzione, non è più sull’altro, come una volta, ma con l’altro. Ciò vuol dire che l’antropologo non studia “i” villaggi, “la” cultura diversa, come fosse un astronomo o un misuratore di crani. Il primo interprete di una determinata cultura è l’attore sociale, chi la vive e la riflette. L’antropologo può entrare in tensione dialogica con questa soggettività altra, con questa diversità culturale, per cercare di capire meglio l’estrema pluralità, differenza, specificità ma anche miscelazione, ibridismo, meticciato che l’umanità non solo ha realizzato nel passato, ma anche continua a produrre nei tanti presenti del mondo contemporaneo.

Si fa musica in modo diverso, come si danza, si raccontano miti, si mangia, si dorme, si hanno rapporti di parentela, tabù, si controllano le emozioni, si praticano religioni (al plurale), si usa Internet e il web, si muove il corpo e si inscenano opere d’arte. Le culture sono differenti, come gli individui. L’antropologia è passata da una fase in cui metteva in risalto le uniformità, i tratti comuni interni, le omogeneità e si producevano sistemi universali, cioè validi per tutti i luoghi e le rispettive culture, a quella attuale che sottolinea le differenze sia interne che esterne a un determinato gruppo, apprezza le distinzioni di ruoli (sessuali, generazionali, etnici, lavorativi), favorisce la moltiplicazione delle soggettività.

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A lungo la nostra cultura occidentale ha preteso (e ancora pretende) di avere un sistema di valori universale, che la sua cultura sia (o dovrebbe essere) quella di tutti. Proprio tale concetto di universale è contrastato dall’antropologia contemporanea, che anzi vede nell’uso di tale concetto un rischio per il futuro-presente dell’umanità. I concetti universali sono pieni di dominio, un sottile dominio che – dietro la facciata dell’umanitarismo generico – spesso nasconde tratti di razzismo, di implicite gerarchie simboliche, di desideri egemonici, di superati sessismi e quant’altro.

Questo aspetto dell’antropologia che va sul campo a fare ricerca si chiama etnografia. Ed è la parte più bella e affascinante della disciplina. Stare sul campo significa non più solo andare in un’isola deserta tra quelli che una volta erano chiamati “primitivi” e che ora invece si denomina col termine più neutrale di “nativi”. La ricerca etnografica si può svolgere in un quartiere della propria città, osservando la pubblicità in televisione o per strada, interpretando i videoclip, facendo un documentario con il video o meglio ancora producendo un ipertesto, che permette la moltiplicazione dei linguaggi: filmati, saggistici, musicali, poetici, iconici, artistici, biografici ecc. Sapere guardare un film e non essere guardati da “lui”. Questa è l’antropologia visuale. E la cultura contemporanea è in gran parte basata sulla comunicazione visuale. La ricerca è interpretare, ma anche fare.

Certo:l l’etnografia è sempre anche andare in contesti estranei, dove la sfida è maggiore, perché si tratta di trasformare ciò che è estraneo in familiare; mentre se si fa ricerca nella propria cultura di appartenenza bisogna fare il processo inverso: vedere le cose familiari come se fossero estranee, se le vedessimo la prima volta, estraniando la nostra percezione. Attenzione: quelle stesse culture che una volta erano chiamate senza scritture, selvagge, primitive, mentre ora si usa il termine nativo (come detto), più preciso, spingono verso un ulteriore passo. Queste popolazioni stanno con le loro caratteristiche – tra loro diverse – dentro il processo che si definisce di globalizzazione. E allora osservare gli intrecci di globale e locale è compito di attente capacità etnografiche, contro generalizzazioni e pregiudizi. Insomma la differenze tra le culture possono produrre sempre maggiori ibridizzazioni, sincretismi, collage, cut-up, miscele di codici che sono il frutto fascinoso e spesso anche conflittuale del presente, contro i troppi fondamentalismi. Saper sentire tutto questo a volte significa anticipare e sviluppare il proprio modo di dare un senso alla vita. Antropologia.

L’Università non deve essere il luogo della riproduzione del sapere, ma lo spazio dell’innovazione dei saperi

Il mio punto di partenza è che sulla didattica si fa poca “ricerca”, e che questo è un limite, poiché è generalmente condivisa la tesi secondo cui la didattica è buona se è buona la ricerca. E di conseguenza viene considerata più o meno buona quell’Università a seconda che favorisca o meno una didattica basata sulla ricerca. Il rapporto tra ricerca e didattica non solo è fondante, ma – almeno per me – dovrebbe affermare sempre la priorità della prima sulla seconda.

Da una ricerca sperimentale, inoltre, dovrebbe discendere una didattica altrettanto sperimentale. Sono convinto che molte delle mie sperimentazioni didattiche nascano proprio dalla mia ricerca. Infatti, già la scelta stessa della ricerca etnografica e in generale delle scienze sociali e della comunicazione – il fieldwork – non è neutrale, ma contiene al suo interno stretti collegamenti, e anche condizionamenti, rispetto ai metodi che saranno a essa applicati, ai paradigmi del ricercatore, all’ordine dei suoi sistemi concettuali. In breve, nella scelta del fieldwork si scelgono anche isomorfismi tra epistemologie e metodologie, tra forme della rappresentazione e della didattica.

La decisione circa l’ambito verso il quale indirizzare la propria ricerca acquista un valore determinante ed è pieno di significati che trascinano con sé una serie di conseguenze che arrivano fin dentro l’aula dove si svolge la didattica. La scelta della ricerca contiene al suo interno molti dei paradigmi consolidati da parte del singolo ricercatore e anche quelli che devono essere “scoperti”. Anche i suoi risultati e la scelta dei modi per la sua rappresentazione finale (saggistica, diaristica, visuale, musicale, ecc.) saranno costitutivi per la didattica. La catena logica è la seguente:

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ricerca – paradigmi – fieldwork – metodi – rappresentazione – didattica.Ovvero: la ricerca – attraverso i paradigmi del ricercatore e la scelta del campo – costruisce il

suo metodo, spinge verso forme particolari della rappresentazione e persino verso i moduli costitutivi della lezione.

Naturalmente, la didattica ha anche una sua relativa autonomia, tuttavia essa è in gran parte preformata e condizionata dalla scelta – decisiva – sul dove e come fare ricerca sul campo, perché la ricerca etnografica esprime un’ansia che non è soddisfatta dalle condizioni date nella produzione/riproduzione del sapere. Essa esige un mutamento non subalterno ai processi determinati dal potere dato, ma che al contrario esplori situazioni liberate cui dare un senso altrettanto “altro”. Scegliere il contesto della ricerca non può che soddisfare quest’ansia di “alterazioni” dell’esistente.

La mia ipotesi è che la didattica praticata normalmente sia basata su un’impostazione ormai in gran parte superata, proprio in quanto si selezionano contesti legati a una tradizione forte e legittimata per poi riprodurli nella didattica. E questo vale almeno per un’antropologia connessa alla comunicazione che seleziona sempre più i nuovi media e in particolare il mix dei media come ambito di ricerca. E’ quindi necessario ripensare le forme della didattica, per esplorarne le nuove multiple possibilità, nella sua meta-connessione con le scelte dei nuovi territori che coinvolgono la ricerca e i paradigmi ad essa connessi.

Come affermato programmaticamente all’inizio, l’Università non deve essere il luogo della riproduzione del sapere; l’Università è – o dovrebbe essere – lo spazio dell’innovazione dei saperi. In questo senso, il primo che deve sperimentarsi è il docente.

Dal luogo allo spazio. L’Università, cioè, dovrebbe transitare da luogo fortemente identitario, omogeneo, compatto (euclideo), al singolare, tradizionale, universale e che trasmette una gerarchia anche architettonica solida; a spazio fluido che sta dentro e fuori i suoi tradizionali luoghi architettonici, uno spazio teso (EXTESO) che esprime configurazioni diasporiche, mobili e dislocanti che già diversi architetti hanno iniziato a produrre.

Dalla riproduzione all’innovazione. L’Università non deve riprodurre conoscenze ormai obsolete, che appartengono agli anni di formazione del docente, ma dovrebbe spingere verso quelle innovazioni che si stanno sperimentando qui e ora. Prospettive, metodologie, paradigmi, concetti segnati da significati plurali, decentrati e dislocanti. Significati, soggetti e codici sono diasporici come i docenti.

Dal sapere ai saperi. L’università dovrebbe essere lo spazio che innova anche attraverso un linguaggio e una logica che si esprime in forme pluralizzate, mettendo in discussione anche linguistica ogni sapere singolarizzato e diffondendo saperi basati non più solo su “la” cultura, “la” storia”, “la” arte ecc., ma inserendo le forme differenziate e altre che hanno prodotto e producono culture, storie, arti ecc.

MALINOWSKI- il primo a praticare l’etnografia. Ricerca sul campo. - Oltre missionari-funzionari coloniali – viaggiatori:- osservazione partecipante- relativismo culturale- imparare la lingua- vivere nel villaggio- diario di campo- macchina fotografica- cogliere il punto di vista nativo

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- la critica a Freud: il complesso edipico- la critica a Marx: la non centralità economica

Il FUNZIONALISMO: le parti e il tuttoOLISMO

Voglio essere il Conrad dell’antropologiaCuore di tenebraThe Diary

2. Gregory BatesonGregory Bateson è stato un antropologo neo-animista e neo-feticista. Ma ancor di più è stato,

con la sua ecologia della mente, uno sperimentatore sincretico. Infatti, proprio il filo comunicativo dell'ecologia mentale costituisce una radicale affermazione degli intrecci avviluppanti - non solo in doppi vincoli - di soggetti di natura diversa, quali anemoni di mare, foreste di sequoie e singoli individui. Questa espansione della mente al di fuori dei confini della pelle dilata una ecologia sincretica. Un sincretismo vivente anche quando sembra coinvolgersi nell'inorganico. Un sincretismo comunicazionale.

Da questa angolazione, non è stata la sua “ecologia mentale” a dettare diffidenze, bensì il suo disordine. Lo stigma o le approssimazioni con cui le discipline etno-antropologiche hanno circondato l’opera di Gregory Bateson (specie in Italia) hanno matrici diverse e anche opposte, ma tutte convergono verso un punto: eliminare ogni possibile affermazione di un’antropologia sperimentale.

Quando, a partire dalla metà degli anni ’80, una spinta innovativa e radicale proveniente da alcuni settori dell’antropologia statunitense ha provocato un terremoto sulle acque stagnanti del dibattito e della ricerca, la parte più sensibile dell’antropologia si è indirizzata verso nuove metodologie e nuove forme della rappresentazione.

Non è casuale, quindi, che tra gli autori più innovativi della “svolta post-geertziana” (James Clifford, Michael Taussig, George Marcus) vi siano proprio quelli che hanno saputo reinterpretare nel modo più libero e costruzionista Gregory Bateson. La conclusione di questa prima affermazione è chiara: la sfida radicale che la nuova antropologia sta portando all’establishment accademico assume Bateson come sua pietra miliare. All’opposto, occludendo Bateson, si favorisce l’irrigidimento cadaverico e tutto-istituzionale dell’antropologia. Per cui Bateson contiene una parzialità attraverso cui poter riconoscere l’indurimento della ripetizione o la liberazione della sperimentazione.

Nel 1984 si riunisce a Santa Fe (New Mexico) un gruppo di più o meno giovani antropologi e storici della disciplina per un seminario che costituirà una svolta per le scienze sociali e umane.

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L’argomento discusso verte sulla crisi di autorità che investe i resoconti antropologici, la dissoluzione dell’oggettività etnografica, il collasso della scrittura monologica, la perdita di legittimazione autoriale. Queste alcune delle loro premesse:“Their preoccupation is both theoretical and practical : they see the writing of cultural accounts as a crucial form of knowledge - the troubled, experimental knowledge of a self in jeopardy among others”.

Si focalizzano e difendono le parzialità dei punti di vista contro gli universalismi dominanti, si discute problematicamente sul postmoderno, ci si schiera a favore del postcolonialismo e del postfemminismo, si prospettano punti di visti ibridi, sincretici, polifonici : “Writing Cultures argues that ethnography is the midst of a political and epistemological crisis  : Western writers no longer portray non-Western peoples with unchallenged authority (...). They challenge all writers in the humanities and social sciences to rethink the poetics and politics of cultural invention”.

Non è un caso che tra i pochi autori citati come precursori poetico- politici dell’invenzione culturale vi sia Gregory Bateson.“The cuts and sutures of the research process ate left visible ; there is no smoothing over or blending of the work’s raw data into a homogeneous representation. To write ethnografies on the model of collage would be to avoid the portrayal of cultures as organic wholes or as unified, realistic worlds subject to a continuous explanatory discourse” (Clifford, 1988 :146).

E’ questa riflessione che conduce Clifford, come rappresentante della svolta critica e sperimentale, verso il giovane Bateson. Infatti, mentre Malinowski – considerato il padre della ricerca sul campo – svolge una catastrofica stroncatura di Naven, questa stessa ricerca etnografica diventa per Clifford un testo anticipatore: “an early and, in the genre, unclassifiable example of what I am suggesting here” (147). Naven è la trascrizione di un rituale di inversione sessuale tra gli Iatmul della Nuova Guinea, di cui Bateson avverte già negli anni ’30 l’enorme difficoltà di spostare su un testo scritto per la sua complessità. Da qui il suo rifiuto delle semplificazione funzionaliste e gli sviluppi di un sistema scritturale ad anelli concentrici, ciascuno dei quali ritorna con punti di vista diversi nello stesso fuoco della ricerca. Questa ricerca - unico suo scritto compiuto prima di indirizzarsi verso approcci discorsivi come metaloghi e conferenze – diventa un esempio di scelta culturale schierata contro ogni metodologia ordinante che riporti il tutto (la ricerca e la scrittura) all’interno di un quadro fisso unitario e omogeneo.

Il senso del metodo - e dei relativi significati che esso implica - si frammenta e pluralizza nei modi in cui sono assemblate le sue parti. Il metodo è il montaggio.

I nuovi scenari della rappresentazione si aprono nel collocare lateralmente i tanti significati possibili, in questo tendere al limite i concetti, nel distorcere il quadro unitario dei punti di vista. In Bateson, le suture del metodo non annullano le cicatrici della ricerca, ma costruiscono proprio attraverso cicatrici percorsi semiotici corrugati; è il modo di cucire di tessuti-patchwork tra loro disomogenei che apre i contesti e i sensi per la rappresentazione multivocale.

Per Clifford il testo giovanile dell'antropologo (Naven) è affine alle esplorazioni che surrealisti e etnografi stavano praticando in Francia proprio nella stessa epoca.“The ethnography as collage would leave manifest the constructivist procedures of ethnographic knowledge : it would be an assemblage containing voices other than the ethnographer’s, as well as examples of ‘found’ evidence, data not fully integrated within the work’s governing interpretation” (1988 :147).

Un altro rappresentante della nuova critica è George Marcus. In alcuni brevi ma densi saggi - uno tradotto come postfazione all’edizione italiana di Naven, l’altro come recensione al libro

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biografico su Bateson di Lipset - Marcus rovescia la lettura dominante su Bateson in quanto scienziato-naturalista o saggista oracolare; per cui Naven diventa “uno tra i primi esperimenti dell’etnografia moderna” (Marcus, 1988 :291). Così lo stesso scrive in Writing Culture, in relazione all'etnografia modernista: “one common idea of text construction is to string togheter a set of separate essays dealing with different themes or interpretations of the same subject” (1986 :192).

Marcus e Fischer - dopo aver ripreso sempre Naven come uno “striking example of a text that exposes its concern with alternative modes of representation” - affermano che solo recentemente queste impostazioni hanno sviluppato “a pervasive and highly self-conscious interest”. Per cui, “Bateson’s experimental ethnography, which worries over several alternative analysises of a single ritual of a New Guinea tribe, is remarkable precisely because it was exceptional and unassimilated in the anthropological literature for such a long time, but now is an inspirational text in the current trend of experimentation (Marcus-Fischer, 1986 :40-41).

- Cuts and suturesMontare insieme saggi (scritture, metaloghi, fotografie) che affrontano - con differenti

prospettive, linguaggi, metodologie - lo stesso soggetto. Questo multi-prospettivismo - decentrato, parziale e ibrido - connette Bateson alle avanguardie della sua epoca e alle sperimentazioni contemporanee. Cuts and sutures. L’inquietudine metodologica di Gregory si sposta costantemente nell'impossibilità di trovare “il” metodo - unico - attraverso cui rappresentare oggettivamente la ricerca empirica. Da qui la sua attrazione per il poetico, cioè per esplorazioni linguistiche che non si esauriscano nell’estrarre “cristalli puri di significato”, ma che costantemente ritornino su questa testualità mobile per moltiplicare le narrazioni possibili. Bateson scopre che non sarà mai possibile replicare oggettivamente un fatto sociale (pur avendo tentato questa strada con cinepresa e fotografia in Balinese Character (cfr. Canevacci, 1996) o semplicemente un’esperienza vissuta come il malessere di uno schizofrenico. Il problema è che un libro o una foto non saranno mai “la cosa”, ma solo una parziale rappresentazione. E che “la cosa” (un rituale di inversione sessuale o una transe balinese) ha una tale sfaccettatura multipla di senso e di livelli logici che non sarà mai circoscrivibile (nè rappresentabile) con un linguaggio unitario o sintetico.

Per questo la rappresentazione etnografica, anzichè seguire gli scaltri ripetitori di tipo realista, dovrà farsi incomprensibile. Dovrà spezzare il cerchio identitario della logica formale occidentale che si basa sul comprendere : un prendere-con, un circondare e rinchiudere la “cosa” attraverso il potere del concetto. La rappresentazione è incomprensibile perchè apre il cerchio fisso del concetto basato sulla sola logica dell’identità, si fa incontenibile e, in quanto tale, ricerca una evocativa affinità (mai coincidente) al suo soggetto di ricerca.

Il suo caratteristico neo-animismo ha l’origine in questo passaggio. Non esiste “oggetto” etnografico - così come non esiste una “oggettività” nella ricerca - proprio in quanto per Bateson ogni apparente “oggetto” è in realtà animato, ha al suo interno uno spirito che muove e lo trasforma in soggetto. Il senso profondo delle sue visioni neo-animiste e neo-feticiste si collocano in questo orizzonte comunicativo. L’ecologia della mente significa non solo una estensione fuori dei confini dell’io (la pelle come limite apparente dell’io) ma riconoscere l’io anche alle “cose”. O meglio : non ci sono sostanziali confini comunicativi (o ecologico-mentali) dell'io tra la pelle di un essere umano, le squame di una lucertola, lo strato levigato e assolato di una roccia, la scorza rugosa di un albero.

Questi apparenti limiti esterni - pelli-squame-scorze-strati - sono canali dove viaggia l'informazione. Lì si colloca la mente, nei punti più sensibili attraverso cui l’interno si connette con l’esterno. Pelle-squame-scorza-strato non sono più confini che chiudono a doppio mandata un determinato essere, bensì zone sconfinate, zone di passaggio, trame della comunicazione, moltiplicazioni del proprio sè e delle proprie percezioni. L’antropologia di Bateson è un’antropologia del sentire. In questo senso nella trama vi è il sacro: non perchè vincola come la religione (con istituzioni, canoni, precetti, dogmi, gerarchie, liturgie) ma, al contrario, perchè il sacro svincola, spezza le trappole comunicative del doppio vincolo.

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Il sacro è un principio anti-metafisico. Riconoscere la pervasività animista e feticista dei molti io (gli “ii”) non è patrimonio cartesiano, zen o francescano, in quanto essa fluttua lungo il mutamento di un diverso sentire, vedere, comunicare. Trascrivere.

L’io - ogni io di ogni entità - è dilatato, molteplice, sconfinato, svincolato, incomprensibile, incontenibile.

Sentirsi io, quindi, non significa annettere queste visioni dentro tradizionali misticismi, ambientalismi museali, animalismi d’assalto, protezionismi immobili, anti-scientismi vari, ma esattamente il contrario : il sentire dell’io, l’io-sentire, il farsi dell’io è una prospettiva che accentua e sviluppa le infinite possibilità percettive del soggetto.

In questo senso non la conservazione, ma la alterazione persegue e rende inconprensibili e svincolate le trame di Bateson.

La sperimentazione dei linguaggi, delle trame narrative, di alterare corpi, pelli, carni. Alterare confini. Giustamente, quindi, il montaggio come metodo, il mettere insieme i dati contiene un metamessaggio che si colloca all’inizio e alla conclusione del Bateson etnografo in senso stretto; e allora il terreno della sperimentazione contemporanea non può rimanere fissato a tale contesto. Il surrealismo etnografico - dentro il quale viene inscritto Gregory - non può rimanere l’unico contesto sperimentale delle scienze sociali o comunicative in generale. Il compito attuale è di aprire questo paradigma surreale che, per quanto seduttivo sia stato, non è più scandaloso per nessuno e anzi da tempo è stato legittimato dalle istituzioni museali. Non si può congelare Bateson dentro il flusso seduttivo del surrealismo. Bisogna ricontestualizzare lo scenario sperimentale attuale e, di conseguenza, si devono attraversare contesti narrativi ben più duri, enigmatici, inquietanti della contemporaneità.

Allora Bateson vive in quanto si altera. E le alterazioni performative, linguistiche, narrative spaziano tra le dissoluzioni dei dualismi : in primo luogo - tema costante di tutta la sua ecologia neo-animista e neo-feticista - la dissoluzione del confine tra organico e inorganico e, di conseguenza, tra natura e cultura, bene e male, mente - corpo.

- Dalla sintesi alla differenza

La dimensione sperimentale di Bateson si anima sul concetto di differenza, in quanto concetto che attraversa diversi approcci che tessono una trama verso soluzioni altre - alterate - rispetto a quelle dominanti. Anzichè dissiparsi su posizioni universalistiche - ossessione del dominio occidentale - il suo pensiero esplora i territori della differenza. Spesso le sue premesse teoriche partono dalla riflessione sul rapporto tra mappa e territorio. “Noi sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa (...). Ora se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza” (1976 :465).

La differenza è “quel tipo di ‘cosa’ che viene trasferito dal territorio alla mappa” (469).Cartografare l’esperienza è una istanza che ha coinvolto autori tra i più innovativi. Qualsiasi

testo che descrive e/o intepreta un tratto culturale determinato non potrà mai coincidere con esso, ma sarà sempre una sua approssimativa rappresentazione costruita attraverso codici che sono storicamente condivisi che segnalano differenze. Una carta geografica 1:1 (in cui la mappa coincide col territrorio) è inutile. Non dà alcuna informazione perché non ci sono differenze. Il suo risultato caratterizza un io - scienziato, etnografo, cartografo - che mira a coincidere con l’oggetto della propria ricerca, assorbendolo dentro l'onnipotente dilatazione del proprio io. Questo non è un io sconfinato, ma un io onnipotente e monista che cerca di assorbire l’altro annullandolo e divorandolo. E' la negazione dell’alterità.

Nella volontà di "comprendere" l’oggetto attraverso la sua duplicazione o l'altro attraverso il suo assorbimento vi è la storia gnoseologica dell’Occidente basata sul principio d’identità, delirio di onnipotenza della ratio occidentale. Nella coincidenza mappa-territorio vi è l’angoscia di dio come metafisica. Qualsiasi trascrizione di un oggetto è una sua trasfigurazione simbolica. L’oggetto non

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sarà mai rappresentabile dall’oggetto stesso o da una sua copia (una mappa uguale al territorio è per l'appunto inutile), bensì da un passaggio di livello logico.

La scrittura non copia l’oggetto - libera il passaggio transitivo della sperimentazione. Il passaggio è transitivo perchè coinvolge e trasforma non solo l'oggetto-soggetto esterno

della ricerca, ma anche il soggetto interno del ricercatore: transita dall'uno all'altro. Si attiva una dialogica-in-transito e transitiva.

L’interpretazione non si adegua all’oggetto : l’invera. Il processo di inveramento si verifica quando la rappresentazione è polifonica, ibrida,

sincretica, multivocale, pluri-sensoriale. Per questo l’interpretazione che invera è una trasfigurazione : le figure transitano e mutano di codice dal testo-rito al testo-scrittura o testo-visuale, viaggiano verso una classe di concetti altri, alterati. Il passaggio dal territorio alla mappa è questo fluire della trasfigurazione. E’ un transitare che va decisamente contro le trascrizioni realistiche della vita riprodotta in modo unitario e totale. La discontinuità paradigmatica transita tra stili narrativi e rappresentativi diversi

Ed è qui che si presenta il passaggio più delicato e appassionato della sperimentazione trasfigurante: ogni mappa non può contenere solo quei codici storicamente condivisi e quindi riconoscibili. L’etnografo o il narratore post-batesoniano deve trasfigurare il suo oggetto-soggetto tra i codici già dati all'esperienza e quelli del tutto innnovativi. Egli deve accettare alcuni tratti codificati delle vecchie mappe e inventarne di nuovi. L'etnografo sperimentale diventa cartografo quanto riesce ad alternare comprensibilità e incomprensibilità, orientamento e disorientamento. Alla fine un viaggiatore (un lettore, uno spettatore) non dovrà tanto riconoscere il territorio su cui si sta muovendo grazie alla possibilità di scrutare la mappa, quanto e soprattutto smarrirsi in esso come lo vedesse per la prima volta. Anche secondo Deleuze, la filosofia è per Nietzsche pluralismo, in quanto ribadisce la silenziosa pluralità dei sensi. Un pluralismo anti-dialettico. “All’elemento speculativo della negazione, dell’opposizione o della contraddizione, Nietzsche sostituisce l’elemento pratico della differenza, oggetto di affermazione e di godimento”. Ed è proprio tale godimento della differenza un elemento concettuale che si oppone alla contraddizione dialettica. La contraddizione è storicista, dualista, evoluzionista; mentre la differenza è diasporica, alterata, sincretica.

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- Cinque proposizioni contro l’olismo Il dibattito iniziato verso la metà degli anni ‘80 sulla complessità e la sfida che essa

comporta da un punto di vista dei nuovi paradigmi ha avuto come asse portante l’attacco al riduzionismo scientifico e l’apologia delle visioni olistiche. L’antropologia culturale ha una storia di ricerche e di riflessioni su tali questioni che vale la pena di riassumere brevemente: quando Malinowski scrive i suoi celebri saggi, dopo la sua ricerca nelle isole Trobriand, elabora una “teoria scientifica della cultura” che ha al centro la questione metodologica del funzionalismo. Secondo questo punto di vista, ogni singola parte di una cultura è spiegabile solo nella sua interconnessione funzionale con tutte e altre.

La Scuola di Chicago, che svolge le prime celebri ricerche in quella città, rimane influenzata da due filoni di pensiero: da Simmel e per l’appunto da Malinowski. Seguendo quest’ultimo, la Scuola applica all’approccio micrologico (il ghetto metropolitano = l’isola etnografica) proprio quella prospettiva funzionalistica che, tradotta nei loro termini, presenta una visione olistica della città. Ovvero il ghetto è immediatamente la città che è immediatamente gli USA. Microcosmo e macrocosmo. Secondo tale prospettiva riformatrice delle scienze sociali, nulla si può spiegare o risolvere se non inserendo la parte nel tutto.

Ma l’essenza dell’olismo - contro il quale svolgeremo ora cinque proposizioni - non sta tanto nel truismo secondo cui ogni segmento della vita sociale deve essere inserito all’interno del contesto più generale. La pratica empirica e metafisica di ogni prospettiva olistica ha sempre significato il contrario senza alcun cedimento o rimorso: è sempre il tutto - ovvero la totalità in senso filosofico, antropologico, religioso - che spiega la parte. La parte senza il tutto è nulla. E’ sempre e solo la totalità che illumina di senso e di valore la parte. Come il simbolo. La dimensione etica si esplica e si plasma tra i fatti empirici - mondandoli dei loro peccati di materialità grezza e spezzettata - solo in quanto li assorbe al suo interno.

Il metodo assume proprio questo punto-strettoia: esso incanala i fatti empirici, li pre-forma per comprenderli. L’atto del comprendere si manifesta proprio nel circondare concettualmente i bruti fatti. Nel “prenderli” attraverso un loro “circondarli”.

I. Il metodo è la redenzione olistica dei fatti.

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Ma in quanto pre-forma che comprende, nel metodo è inscritto l’a-priori finalistico che illumina i fatti solo a patto che entrino all’interno della sua gabbia concettuale. Per questo “il” metodo trova le cose che già sapeva: quelle che da sempre si collocano nel suo orizzonte epistemico. La centralità del metodo sta nella sua costante auto-conferma, auto-referenzialità e auto-valorizzazione.

II. Il metodo è lo strumento armato dell’olismo. Ogni visione totalizzante sulla vita, in particolare della politica, ogni visione autoritaria

sull’agire sociale, in particolare dell’etica, ogni visione globalistica sulla natura, in particolare della cultura, hanno la visione olistica come cornice di ferro che rinchiude le inquietudini dell’empiria.

Spesso gli autori della sfida della complessità si rifanno a Gregory Bateson e alla sua opera fondamentale sull’ecologia della mente e non senza ragione : “il costante impegno in favore di un pensiero olistico” era anche una cornice dell’unità del suo pensiero (Marcus, 1985 :308). Eppure questo è solo un lato del suo pensiero, forse quello più noto e naturalistico che, nell’assumerlo come quadro della sua opera, configura una lettura limitante. Troppo ortodosso, per così dire. Vi è anche un suo “pensiero liquido” : quella immersione tra metodi contrastanti e assemblati che può favorire altri tipi di lettura.

Torniamo a ciò che Marcus chiama il fraintendimento di Naven, che sta nell’aver “scoperto” l’ineluttabile fallimento di ogni trascrizione e di ogni epistemologia totalizzante. Per questo le forme narrative successive di Bateson si dirigeranno verso conferenze, articoli, metaloghi : discorsi parziali e frammentari, “oracolari” e “terapeutici”. E’ qui che il suo metodo si decentra, si pluralizza, si rende affine all’assemblaggio dei dati, una sorta di cut-up dell’empiria. Suture tra discorsi. Ed è noto come il suo ultimo grande convegno - promosso insieme alla figlia e alla Wenner-Gren Foundation - si diresse contro gli “effetti del finalismo” che distorcono i fatti. E il finalismo è il metodo in quanto gabbia di ferro.

III. Il finalismo è l’olismo.Bateson non è una sorta di oracolo che ha definito grandi verità, ma un ricercatore costante

che sperimentò il fallimento dei paradigmi tradizionali con Naven e, di conseguenza, iniziò a sperimentare nuove forme di rappresentazione.

A me sembra evidente che l’opposizione riduzionismo-olismo sia tutta interna allo stesso quadro teorico di riferimento. Quindi una trappola. E’ proprio del pensiero occidentale (la “dialettica dell’illuminismo”) distendersi sia sul fronte tecnico-scientifico, che riduce e seziona e affetta il tutto per meglio dominare; e sia sul dorso mistico-irrazionalistico-totalizzante che rende superflue le differenze perchè tutto è già compreso nel tutto.

Un pensiero altro (alterato) si può riscontrare sulle irriducibili parzialità e conflittualità dei processi cognitivi. Non solo parzialità del metodo, ma suo radicale decentramento, suo assemblarsi e suo pluralizzarsi. In tal modo “i” metodi entrano dentro, attraversano e fanno saltare il loro oggetto-soggetto.

IV. Ogni vera interpretazione è nello stesso tempo una distruzione. Contro ogni modello sintetico, è possibile sviluppare le pluralità sporche e diasporiche dei

sincretismi metodologici che transitano tra “pezzi” di culture, rifiutano l’omologazione e la museificazione, incrociano a piacere le parti di ogni cultura, senza cadere tra le suggestioni di totalità insofferenti, tra gli abissi funzionali o sezioni igienicamente isolate.

Contro ogni prospettiva monologica, che afferma l’autorità di una singola voce, è possibile dilatare le voci anche e direi soprattutto dissonanti al loro interno secondo assonanze parziali, sonorità incerte e inquiete, timbri inascoltati e inascoltabili. La multivocalità nel metodo è sfida alle forme tradizionali di rappresentazione, è innovazione e sperimentazione, favorisce aperture angolari e irregolari. Metodologie polifoniche, dunque, che moltiplicano i punti di vista e le forme espressive nel dare conto di un oggetto della ricerca che si tramuta sempre più distintamente in soggetto.

Un’interpretazione cerca la distruzione di ogni reificazione del soggetto insieme al quale si fa la ricerca (e non sul quale). E dei rapporti di potere che detta reificazione imprime.

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V. Elogio della parzialità di ogni verità e di ogni testualità.Anzichè cedere di fronte alle ansie armonicistiche, conciliatrici, compatibili, è più doloroso

ma felice azzardare radicali parzialità nei conflitti e moltiplicative sperimentazioni nei linguaggi. Su questo terreno scontroso, nuove e decentrate alleanze sono possibili - e forse anche necessarie - tra un’antropologia alterata che spezza-frantuma-assembla i processi comunicativi polifonici e altre discipline attraversate, contro gli onnipotenti progetti di totalità conciliative. Lì - oscillante tra fieldwork etnografici, testi assemblati, attraversamenti disciplinari, scorie metropolitane - si dovrebbe incontrare Gregory, l’eteroglosso meta-narratore . Grande totemista e grande animista.

3. Geertz: oltre le scritture

- Lo xavante e il video

Divino Tserewahu è uno xavante. Si è inquadrato dalla sua stessa videocamera digitale e commenta in portoghese quello che sta accadendo nel video da lui girato e montato tra i macuxi. L’esercito brasiliano in forze sta entrando dentro la loro riserva. Si muovono carri armati, camion carichi di soldati, ufficiali a cavallo, mentre in aria volteggiano elicotteri. L’invasione della riserva è commentata da Divino come una cosa che lo ha molto “estranhado”: è un fatto molto strano e estraniante. Nella sua aldeia, in Mato Grosso, ciò non potrebbe mai accadere e il video cerca di spiegare perché sta accadendo nel 2002 in piena Amazzonia. La voce e le immagini sono ora per una serie differenziata di macuxi: un cacique dalla chiara autorità, una donna particolarmente vivace vestita con i costumi tradizionale, poi affiancata un’altra vestita all’”occidentale”, sguardo in camera, fiero e implacabile nella sua requisitoria contro lo Stato. I macuxi sono anche brasiliani, ma non solo brasiliani: sono una nazione indigena o come la si voglia chiamare, che ha una sovranità “statuale” sopra le proprie terre, che sono tali perché “riservate a loro” e non perché loro sono rinchiusi – “riservati” – lì dentro. Si alternano scene di danza e canti rituali con performance, in cui giovani mettono in ridicolo garimpeiros e fazendeiros, cercano di smascherare soprattutto i politici che da quelle parti in particolare sono spesso dei coronel, uomini duri dal potere assoluto. Un canto corale di giovani donne intonato contro l’alcol e chi lo beve, uomini che diventano aggressivi con loro e sottomessi con i “bianchi”. Ogni tanto Divino - con discrezione ma con un chiaro significato comunicazionale - è ripreso mentre riprende: è lui il soggetto che interpreta sia nel momento etnografico sul campo e sia in quello antropologico durante il montaggio. La sua cinepresa si insinua come un’arma –un’arma piena di conflitti visuali che si aggiungono a quelli etnografici e politici - tra le pieghe di una tenda per riprendere la discussione reciprocamente ferma tra un ufficiale dell’esercito e il cacique appoggiato da donne risolute. Punta l’ufficiale alla luce del giorno, riprendendone gesti e parole: lì vicino c’è il confine con il Venezuela e la costruzione dell’avamposto con una caserma con alloggiamenti, depositi ecc servirebbe a controllare i movimenti del paese confinante. Primo piano di una donna: questo è illegale, dovete andar via. Tutti il villaggio è mobilitato. Scorrono i titoli di testa: lo xavante ha come aiuto regista un giovane macuxi e la produzione è Video nas Aldeia.

- l’etnografo e la scrittura

Il tema dell’autorappresentazione da qualche anno sta diventando centrale per una svolta radicale dell’antropologia. Esso cerca di portare al suo culmine la svolta interpretativa nata con Geertz per lasciarla alle sue spalle. Quello che era il soggetto che interpretava la sua propria cultura e che, in una relazione dialogica con l’antropologo, favoriva la nota interpretazione di interpretazioni, ora produce la tendenziale inessenzialità o marginalità proprio di quest’ultimo. Vorrei partire nella mia

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riflessione su Clifford Geertz da questo punto per me essenziale. Alla base della sua teoria intepretativa vi è una riflessione e anche una ricerca empirica sulla scrittura.

“Che cosa fa l’etnografo? – scrive” (Geertz, 1998:29). Questa celebre frase è accompagnata da una nota che dice: “O ancora più esattamente ‘inscrive. In effetti la maggior parte dell’etnografia si trova nei libri e negli articoli piuttosto che in film, dischi, esposizione dei musei o altro. L’auto-consapevolezza degli antropologi circa le modalità di rappresentazione (per non parlare degli esperimenti su di esse) è stata finora molto carente” (ibidem).

Il nesso interpretazione – scrittura ha come base la dialogica. Geertz non esplicita metodologicamente tale concetto, come in generale alcuni suoi concetti di base non sono spiegati ma solo presentati in modo allusivo. Si potrebbe sostenere che tutto il primo celebre capitolo – verso una teoria interpretativa della cultura – si basa su allusioni. Concetti fondamentali – come semiotica, simbolo, segno, significato, codice – non sono definiti come ci si aspetterebbe. Mentre altri (descrizione, scrittura, interpretazione) sono chiarissimi e presentati nella sua scrittura raffinata. L’impressione è come se gli assi portanti della “casa” interpretativa siano solidi, mentre i mattoni (segni,simboli, dialogica) trasparenti .

La dialogica è concetto e metodo interpretativo fondamentale. Di più: esso esprime anche una concezione del mondo e dei soggetti che lo vivono e lo costruiscono. Due sono gli autori che hanno contribuito a diffonderne l’importanza nelle scienze antropologiche: Michail Bachtin e Dennis Tedlock. Quest’ultimo appartiene a pieno titolo a quello che si può definire il rinnovamento dell’antropologia. Purtroppo non è stato mai tradotto, ma il suo testo – su cui tornerò nel paragrafo successivo – anticipa alcune delle critiche divulgate in modo a volte approssimative sullo stesso Geertz.

Bachtin, invece, risulta il grande assente in Geertz e cercherò di individuare e chiarire il perché.

“Noi cerchiamo di dialogare (nel senso esteso del termine che abbraccia molto più del parlare) con loro” (1998:22). Certo: dialogare per Geertz significa che ci sono due soggettività sul campo, non più un unico soggetto col suo monocolo strutturalista o le sue segrete parzialità funzionaliste. La novità dell’antropologia interpretativa è che si esplica intersoggettivamente, prospettiva che , pur tuttavia, nessun etnografo classico si sognerebbe mai di negare. Tutte le grandi costruzioni unificate (la struttura dei miti bororo o delle maschere kwakiutl, il carattere balinese, la funzione del kula trobriandese) si basano sul principio di “cogliere il punto di vista nativo”; solo che successivamentenon possono che arrivare all’opposizione binaria natura/cultura che ha il tabù dell’incesto come passaggio universale e decisivo che coinvolge l’intera umanità e la separa da tutto il resto – oppure alla schizofrenia da allattamento (e da finanziamento per Bateson/Mead, cfr. Canevacci 2002).

Per Geertz, dialogare è, quindi, un allusivo strumento essenziale per evitare ogni generalizzazione, perché gli individui come le culture sono differenti, per abbandonare l’antropologia come scienza alla ricerca di leggi universali e affermarla come scienza alla ricerca del significato. L’antropologia come scienza delle differenze applica la semiotica nel contesto micrologico del fieldwork. Questo è Geertz e non è poco, anzi è una svolta forte che coinvolge non solo l’antropologia ma anche la filosofia e altre scienze sociali. In Italia, invece, Geertz non riesce a penetrare con la stessa forza dello strutturalismo (e a causa di esso). Direi di più: lo strutturalismo compie tabula rasa sugli interessi di altre discipline verso l’antropologia. Dopo di esso, dopo lo strutturalismo, le altre discipline andranno verso altre sezioni disciplinari o si chiuderanno. Di certo, non più verso l’antropologia., almeno mai più con la stessa forza con cui Lévi-Strauss aveva scosso la tradizionale ripartizione scientifica. Questo è significativo. Secondo me, le posizioni che non si basano sul pensiero binario non producono politica né si possono applicare alla politica come scienza del governo e del conflitto. La politica nasce con la dialettica e la dialettica urta le opposizioni binarie per produrre mutamento e trasformazione. Superamento. Il crudo e il cotto, così,

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sono diventati ben presto metafore – attraverso il passaggio oppositivo natura/cultura - di come il male bestiale è divorato dal bene civile. Nell’etica e nella politica.

Posizioni che affermano che l’anti-relativismo è peggiore di qualsiasi relativismo, al contrario, hanno stentato a trovare successo anche per questa repulsione per qualiasi generalismo dualista. Per cui l’antropologia geetziana, che si colloca al fianco dell’anti-anti-relativismo, rimane percepita come élitistica o come un camuffamento (diffusissimo pregiudizio specie in Italia) del solito vecchio relativismo per cui non si può né parlare né giudicare nessuno e non ci rimane che aprire le porte a tagliatori di teste e a escissori di clitoridi.

Ma i limiti di Geertz sono altri: la riconsiderazione sul suo pensiero mi spinge a partire da Bachtin (1988). In quest’ultimo, infatti, la dialogica – e quindi non il solo dialogare – esprime nel romanzo di Dostojewskj qualcosa di ben diverso e mutante che una semplice critica letteraria di tendenza.

La rivoluzione dialogica di Bachtin per il romanzo di Dostojewskij accende l’immaginazione dialogica per la nuova antropologia.

Secondo il primo, infatti, nel romanzo tradizionale la centralità monologica dell’autore e della sua autorità si basava nella proiezione che la scrittura costruiva l’intera galleria dei personaggi avendo come centro quella dell’eroe e nella periferia i personaggi vari costruiti tutti secondo la stessa logica linguistica e narrativa. Questo monologismo – cioè l’unica voce legittima è quella dell’autore che si proietta nel personaggio principale e che su tale paradigma narrativo costruisce tutti gli altri – è sfidato per la prima volta proprio da Dostojewskij. La dialogica e la polifonia sono quegli strumenti narrativi sulla base dei quali l’autore che costruisce i suoi personaggi – non solo l’eroe ma anche tutti gli altri, fino a quello più marginale – sulla base di uno stile che si decentra e emerge dalla stessa composizione di ogni specifico personaggio, il cui ordine logico e semiotico è interno a ciascun personaggio e non proiezione dell’autore-eroe.

Il decentramento dialogico e l’affermazione polifonica moltiplicano le soggettività presenti nel testo.

Ogni lettore che abbia seguito il ragionamento fin qui esposto può ben capire le conseguenze eccezionali che tale posizioni critico-letterarie possano aver avuto per l’antropologia: un’antropologia che – prima di riprendere il suo essere ricerca sul campo - è attenta alle forme retoriche e testuali della narrazione nei classici. E così anche un testo (Tristi tropici o Gli argonauti) diventa fieldwork. Perché il potere di questa scienza della costruzione dell’altro e, nello stesso tempo, dell’affermazione del proprio sé occidentale è anche linguistico. Solo che qui non c’è più la linguistica di matrice oggettivistico-scientista che dalla scuola di Praga arriva a Lévi-Strauss e domina come strutturalista. Ora si afferma una semiotica leggera, intersoggettiva, basata sulle prospettive del discorso e del suo potere che Geertz collega a Schultz e Ricoeur, mentre i suoi critici alle varie scuole post-strutturaliste (Foucault in primis).

Si scopre una singolare affinità testuale tra il romanzo moderno tradizionale e i resoconti antropologici a partire da Malinowski. Questa la rivoluzione semiotica che Geertz ha il merito di mettere in moto e poi, per motivi singolari, di bloccare. Ovvero, Malinowski non è l’inizatore della moderna antropologia basata sull’etnografia, cioè sulla ricerca sul campo di proma mano secondo la sua celebre premessa agli “Argonauti”. Da un punto di vista empirico e metodologico, naturalmente, lo è; ma dal punto di vista testuale egli continua a scrivere come i romanzieri di viaggi, i funzionari coloniali, i missionari. (cfr. Geertz, 1990).

Ogni testo antropologico è pieno della soggettività esplicita e implicita dell’autore, che ordina e costruisce tutti gli altri personaggi, i quali – specie i “nativi” – non hanno voce. Né soggettività. Sono, per così dire, usando il linguaggio del cinema, doppiati. E la voce che dà senso e significato a l’intera costruzione dell’opera è sempre e solo quella dell’antropologo che “è stato là”.

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Ora: alcune di queste critiche sono state messe in moto proprio da Geertz per primo. Lo svincolamento della linguistica dall’oggettivismo universalistico e la produzione di testualità semiotiche basate sull’intersoggettivismo e sul dialogo, la decostruzione del testo etnografico. E’ doveroso riconoscerlo. Ma se c’è il dialogo in Geertz – non nel senso banale per cui antropologo e informatore parlano del combattimento dei galli alla Crapanzano – manca la dialogica: cioè la moltiplicazione di soggettività nella costruzione di senso che si afferma non solo nelle scelte retoriche (anche), quanto principalmente nello stile compositivo della narrazione.

Dennis Tedlock è stato il primo a cogliere alcuni limiti di Geertz, solo che li ha usati, come dire?, in senso della proprietà inventiva della dialogica. O meglio, li ha espressi a partire da una sua scelta espositiva in cui il testo deve avere la voce dell’altro e la trascrizione è parte costitutiva dell’interpretazione. Qui Tedlock ha una grande ragione: la traduzione delle parole native in inglese o nelle altre lingue occidentali non può non contenere tradimenti. Trascrivere, quindi cercando di rispettare il senso fonetico e logico dell’altro è un primo e decisivo passo per costruire dialogicamente un testo etnografico.

“Turning to Clifford Geertz’s first-person account of a Balinese cockfight, we find once again that the native have very little to say, and on the one occasion when they speak thieir own tongue, they do so collectively. That is when the authorities arrive and everybody shouts (pardon my Balinese), pulisi, pulisi” (1984:326).

L’altro, dice Tedlock, è sempre narrato collettivamente, non ha individualità, biografia, accenti, personalità. Allo stesso medo in cui sono costruiti i musei antropologici, il nativo non ha nome e cognome (o il proprio sistema di nominazione), bensì è “balinese”, “maya”, “xavante”. Per di più nell’esempio di Geertz così come in non pochi altri (tutti affrontati criticamente da Tedlock) le parole dette dai nativi sono esotiche. Cioè hanno una matrice euro-americana. Questo monologismo è, quindi, paradigmatico dell’antropologia moderna, che è affine alla costruzione testuale del romanzo ottocentesco pre-Dostojewskij. E’ parte della stessa logica discorsiva.

Invece, sostiene sempre Tedlock, “a dialogical anthropology would be a talking across, or alternately, which is something we all do in the field if we are not purely natural scientists” (323). E tale critica dell’oggettività (che coincide con la soggettività dell’osservatore, cioè dello scienziato, antropologo) dovrebbe affermare questa conseguenza: “there is no reason this dialog must stop when we leave the field” (ibidem) ovvero nella pubblicazione della ricerca. La quale, invece, è prodotta secondo quella che lui chiama una “analogical anthropology”: “the replacement of one discourse with another” (324).

L’antropologia deve transitare dal discorso analogico (parlare sopra a, al posto di) a quello dialogica (parlare attraverso a).

- We leave the field

Come è ampiamente noto, queste osservazioni sono state riprese e banalizzate ferocemente da Vincent Crapanzano, provocando una risposta altrettanto feroce da parte di Geertz e un’ulteriore eco anche in Italia (Sobrero). Scopo del presente saggio è riprendere il senso del discorso alla luce dell’emergere di qualcosa (qualcuno) profondamente estraniante quanto sorprendente.

Chi sono, infatti, questi “noi” che lasciano il campo? A me pare che tutti questi “noi”, compreso quello di Tedlock, non hanno mai lasciato il campo. Nel senso che il campo – cioè il fieldwork etnografico – appartiene ancora di diritto esclusivo a questi “noi” dell’accademia occidentale, che se lo trascina via fino alla pubblicazione finale (insieme agli appunti, registrazioni, nastri, video, foto ecc.). Certamente e purtroppo in questo “noi” Tedlock non include la voce del nativo e tantomeno il suo corpo. Che questo benedetto nativo – cui ho tolto le virgolette educate - è sempre e solo nativo: cioè l’altro che - sia pur basato sulla corretta trascrizione del suo linguaggio -

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è un soggetto “nato là”, per l’appunto, più vicino alla natalità e quindi alla natura biologicamente intesa del “noi” che possiamo prendere l’aereo e andare nelle terre dove non si è nativi.

Le uniche terre dove nessuno è nativo sono quelle della metropoli.

Tedlock non è un “native American” in quanto nato a Philadelphia o a Boston. L’uso di nativo come più educato, politicamente o antropologicamente corretto al posto di primitivo-selvaggio-semplice-senza scrittura è l’ultima aggressione classificatoria dell’ordine linguistico dell’Occidente. E non certo per questo meno dominante o più rispettosa della soggettività. Tale rispetto che indubbiamente Tedlock ha per Andrew Peynetsa, di cui ci offre la traduzione con l’aiuto di Joseph, non esime l’autore ad essere tale e a mantenere un ordine discorsivo e linguistico che è sempre quello dominante e che continua a rafforzare questo dominio “coloniale” anche nelle trascrizioni e nelle classificazioni addotte dal più dialogico degli antropologi.

Perché?

- Perché il “noi” può uscire dal campo mentre il “tu” non può che rimanere sempre là.

- Perché il recinto della riserva etnografica si chiude intorno alla individualità dialogicamente costruita dell’altro.

- Perché questo altro, questo “tu”, anche se non è più un “loro”, è pur sempre un tu-nativo.

- Perché il “noi” ha il compito storico di produrre testi e il “tu” al massimo ha l’oralità. – Perché, come dice Victor Turner, “loro” hanno solo la liminalità e il liminoide apparterrebbe solo alle società industriali. A “noi”.

E allora, se sono evidenti le differenze tra un dialogo alla Geertz in cui l’altro è assente e una dialogica alla Tedlock in cui la trascrizione orale dell’altro è presente, rimangono alcuni nodi irrisolti per entrambi gli antropologi che ora appaiono molto più affini di quanto all’epoca si fosse disposti a riconoscere.

La disgiunzione che è tale sia verso Geertz (dialogo ristretto) che verso Tedlock (dialogica trascritta) avviene quando la letteratura post-coloniale pone alcune delle questioni cui né il dialogo né la dialogica sapevano rispondere se non in termini di democratica riproduzione del discorso dominante un po’ aggiustato qua e là. Il pregiudizio di Tedlock e di molta della scuola etno-storica che si basa sulla nozione di oralità, unico medium di proprietà del per l’appunto nativo, che per l’appunto è sempre più tale proprio in quanto la sua forma comunicativa è ancora e sempre quella dell’oralità, che è “ascoltata” e registrata e trascritta dai più democraticisti degli antropologi sul e fuori del campo solo in quanto è più “autentica”. L’oralità sarebbe più naturale o spontanea, in quanto proprietà della bocca del suo emittente.

E se si passa ad un altro medium?

Ciò non è semplicemente previsto, da parte di questi dialogici dell’oralità, perché il video e in generale la comunicazione mediatica non appartiene loro; o se appartiene al “noi- antropologico” non può appartenere al “tu-nativo”. Questo unisce in modo singolare i critici e/o i superanti del “maestro” Geertz che i loro critici. L’etnografia produce scrittura. Solo e sempre. Oralità e scrittura.

Ma la disgiunzione vera, profonda, quella frattura che sta collassando le scienze sociali da qualche tempo, non è più l’altro e nemmeno il nativo: bensì lo xavante, meglio, Divino Tserewahu che filma l’invasione della riserva macuxi da parte dell’esercito brasiliano. Non solo: produce il video, lo filma e ne attua il montaggio e,infine, lo commenta pure! Divino che protesta contro questa continua e per lui strana forma di continuare ad usare come una colonia di proprietàd dello Stato i territori dove vivono “loro”. La terra dei nativi. La terra nativa, abitata prima di Colombo e di Cabral, che ha “accolto” quelli venuti dai territori “metropolitani”.

Nativi e metropolitani.

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Questo il dualismo che le scienze sociali – non ne parliamo di quelle filosofiche o mediadiche – continuano a ripodurre, conservando e affinando tutto il potere euro-urbano contro quelli che pensano essere i buoni nativi, sempre vicini ai rituali della terra, ormai anche loro ecologici, iscritti ai vari partiti verdi, che vivono solo di tradizione e di danze e canti, con gli sciamani che sono diventati un bene di esportazione per ogni controcultura sempre metropolitana e che sprovveduti e irresponsabili antropologi continuano a rafforzare. Tribù, sciamani, transe: ormai sono tutte terminologie che servono a individuare comportamenti metropolitani di presunti frikkettoni, punkabbestia, rastoni, techno-ravers ecc.… Lapassade, Maffesoli e quanti altri nella lista … Delete …

- Thick description - thin conclusion

Vi è uno scambio profondo - e vorrei dire anche privilegiato - tra studi culturali e antropologia: l'antropologia culturale, infatti, si configura come disciplina solo in quanto fa etnografia. Il fare etnografia è cioè l'elemento distintivo, caratterizzante e anche differenziante questa disciplina. Etnografia come ricerca micrologica sul campo, dentro la quale e nella quale non hanno diritto metodi oggettivistici, questionari quantitativistici, rappresentazioni esterne - quasi rubate - di un qualcosa che sarà per sempre un "oggetto" di ricerca per l'unica soggettività ammessa: quella del ricercatore e della sua obsoleta autorità.

Le nuove caratteristiche della ricerca etnografica si sono affermate a partire dalla critica culturale riaffiorata nella metà degli anni '80.

Estrema intersoggettività: ciò vuol dire che l'interprete di un determinato tratto culturale singolo o anche di visioni generali è in primo luogo il soggetto che vive dentro il suo ambiente culturale. Non solo: vuol dire anche che non solo il ricercatore - etnografo o altro - interpreta il suo informatore, ma che anche quest'ultimo - l'informatore - interpreta il suo interprete. Lo scambio è quindi duplice. Il significato è un risultato parziale e conflittuale - e quindi non solo contrattato - dato dalla tensione intersoggettiva tra due soggetti che, insieme, lo producono e lo trasformano. Lo muovono.

Strappare il significato dalla sola scrittura dell'osservatore: questo un compito decisivo della nuova antropologia. Questo approccio va contro e oltre due caratteristiche della antropologia interpretativa di impostazione geertziana (1988):

a) contro la contrattazione dei significati. Le diverse narrazioni non sono solo il risultato di una "umanistica" interazione tra due soggetti paritari (l'etnografo e l'informatore); esse si possono anche tra loro contrapporre senza trovare soluzioni ordinate e tautologiche (i balinesi costretti a interpretare per sempre se stessi tramite l'interpretazione dell'antropologo). Si può e si deve rappresentare il conflitto irriducibile tra punti di vista diversi che sta dentro il disordine polifonico delle nuove etnografie grazie all’auto-rappresentazione.

b) contro il significato pubblico. Che la cultura sia pubblica perchè è pubblico il significato è un'altra affermazione obsoleta. Il significato non può essere stabile, solido, identitario condiviso. In una pluralità differenziata di significati, alcuni sono pubblici e condivisi, altri comprensibili solo per alcuni frammenti o gruppi più o meno estesi, altri amcora possono fare tendenza, cioè essere codici comprensibili in quel momento da un piccolo gruppo e poi i significati si possono estendere ma mai generalizzare nel senso che la parola pubblico dava una volta a questo termine. La contemporaneità è conflitto tra parzialità, faziosità, irriducibilità di codici significanti. Al contrario, i significati sono liquidi, mobili, plurali. I codici che nascono e si muovono tra culture non più unificate non possono essere pubblici nè riconoscibili, ma costantemente estranianti, innovativi, decodificabili solo tra alcune interzone linguistiche per essere subito dopo modificate nel segno.

La de-classificazione è il tratto caratteristico della danza dei codici visuali.

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In questo modo, le nuove sensibilità cognitive vanno oltre la pura osservazione partecipante. L'osservazione non appartiene più solo all'osservatore (antropologo o chi sia). L'osservazione dell'altro - di quello che una volta era considerato un oggetto di ricerca e che ora sempre più si è affermato come soggetto che è parte costruttiva della ricerca - è anche l'altro-che-osserva: questi deve essere inserito all'interno del frame costitutivo della intrepretazione. Inoltre, l'osservatore si osserva nel corso della ricerca: l'osservatore è anche riflessivo, è un "farsi sensibilità visiva " che si osserva mentre osserva.

Dissolvere il monologismo è, quindi, un altro scopo esplicito di questo approccio, in cui la polifonia tende verso e favorisce l’auto-rappresentazione da parte dei soggetti tradizionalmente studiati.

In questa direzione va Renato Rosaldo, secondo cui, “social analysis should look beyond the dichotomy of order versus chaos toward the less explored real of ‘nonorder’(...). A focus on nonorder directs attention to how people’s actions alter the conditions of their existence, often in ways they neither intend nor foresee" (1989:102).

E' uno spostamento decisivo dei punti di osservazione, per uscire fuori dalle trappole dicotomiche e fluidificarle. L'elaborazione del concetto liquido di non-ordine contribuisce a considerare l'esistenza individuale non come un destino ascritto, bensì da scrivere e riscrivere; esso serve ad alterare l'esistenza e non a riprodurla. Le conseguenze fluidificano il metodo:

“Social analysis must attend to impovvisation, muddling through, and contringent events. Furthermore, from a processaual perspective, change rather than structure becomes society’s enduring state" (ibidem).

E' condizione stabile il mutamento piuttosto che la struttura: una vera e propria rivoluzione, perché in tal modo l'improvvisazione e la spontaneità - viste sempre come dannose, superficiali e irrequiete dalle scienze sociali solide - divengono aspetti mobili e decisivi che si innestano e sconvolgono nel corso stesso della ricerca o della sua rielaborazione.

Il metodo non sta più nel paradigma unificato e nei suoi "domatori": il metodo sta anche nell'improvvisazione, come tanta arte contemporanea sperimentale. Ogni interpretazione, per Rosaldo, non è diretta a oggettivare l'altro, elaborare regole spaziali, leggi universali, modelli culturali ecc.: essa non assume un unico punto di vista, bensì "involve the irreducible perceptions of both analysts and their subjects".

In particolare il rapporto tra Renato Rosaldo e Clifford Geertz – come con Victor Turner, con entrambi i quali ha svolto un seminario dopo il suo dottorato - è significativo quanto sottile:

“Sebbene Geertz e Turner abbiano affrettato il processo di erosione delle norme classiche della descrizione sociale, le loro prime opere costituiscono un’ottima illustrazione del modo in cui un paradigma in declino tende spesso a perdere la propria presa lentamente e in misura diseguale, dissolvendosi completamente e con maggiore rapidità in alcuni punti ma non in altri” (150). Per cui “alcuni requisiti essenziali delle norme classiche hanno continuato a persistere persino nell’opera di chi più si è prodigato ad accelerare il declino”. Tale giudizio è totalmente da me condivisibile, tanto più che si articola in un’analisi dettagliata sulla “disparity between thick description and thin conclusion” (94) che caratterizza entrambi gli autori ma, per un uso di queste terminologie, in particolare Geertz.

La conclusione di Rosaldo sta nella matrice di formazione di entrambi, in particolare quella di Geertz che – se per il concetto di cultura come rete-di-significati ha come riferimento Max Weber – per il controllo sociale da lui visto come qualcosa di inamovibile ha come modello il nesso tra Hobbes – Durkheim. Per Hobbes, il popolo privo di norme cade in preda di una patologia violenta; e per Durkheim, che si pone su questo filone, bisogna imporre l’ordine sociale, frenare

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gli egoismi e soprattutto combattere l’anomia. Le regole sono per l’ordine e il caos va eliminato. Alternative non ce ne sono …

Le differenze generazionali tra Geertz e Rosaldo non sono tanto legate all’età, quanto alla partecipazione dei movimenti alternativi e anti-autoritari, la ricerca di una via altra a ogni pensiero dicotomico (da qui l’elogio del nonorder), i nuovi nessi tra esperienze soggettive, posizionamento del soggetto, critica di ogni prospettiva di controllo sociale ad opera della cultura, sperimentazioni di identità multiple e dell’ibridizzazione delle culture, attacco ad ogni nostalgia imperialista.

- 4. Cherokee

“La falsa terminologia usata contro di noi è così pervasiva che tutti i vocaboli richiamano la (falsa) idea dell’indianità. La parola ‘tribù’ viene dalle tre persone che hanno fondato Roma (‘Tribunale’, basato sul numero tre, viene dalla stessa radice). Non è una parola descrittiva, né scientifica. Il suo uso in antropologia è stato completamente screditato, viene dal concetto europeo di progresso umano alla cui sommità ci sono le capitali europee. ‘Tribù’, ‘Capo’ e simili non descrivono una parte della realtà di nessuno; sono descrittive all’interno di un discorso di chiusura e di conciliazione con il proposito di mostrare l’essere primitivi” (Durhan, 2002:74).

L’autore di queste riflessioni è Jimmie Durhan, artista contemporaneo d’avanguardia che è anche militante irregolare delle popolazioni native degli Stati Uniti a partire dalla rivolta di Wounded Knee. Durham è, infatti, un cherokee. Come non pochi “nativi”, anziché inserirsi nella cornice dello stereotipo dell’indiano tribale – rinchiuso nella sua riserva per essere fotografato da turisti amanti dell’ ”esotico” - lavora proprio per distruggere questo sistema ancora coloniale di classificazione attraverso le sue opere d’arte. In esse, egli interpreta se stesso come un occidentale si aspetta che debba essere un cherokee.

La rappresentazione stupita dello stereotipo ha come scopo la distruzione dello stereotipo stesso.

Un procedimento eversivo analogo a quello di Genius o delle Fucking Barbies e persino di Toretta. Entrare nel codice del dominio, far credere di assimilarsi ad esso e così intaccarne il potere concettualmente “scientifico”, svelandone tutte le incrostazioni che il potere del linguaggio vi ha collocato sopra.

Smontare gli stereotipi facendosi stereotipo.

Jimmie Durham vive anche a Berlino e ha realizzato una serie di operazioni artistiche multi-linguistiche che destabilizzano ogni ingenua categoria etnografica ed estetica. Dissoluzione dell’esotico e dell’erotico: Self-portrait (1987) è una sua opera in cui rappresenta se stesso come una specie di manichino, dal sesso enorme (come lo vuole per l’appunto lo stereotipo dell’”indiano selvaggio”): un essere che avanza come una specie di Frankenstein tribale, il cuore aperto e una serie di scritte sul corpo che danno ironiche indicazioni sul suo sé problematicamente “nativo”.Così smonta le risorgenti classificazioni sui cosiddetti “Indiani d’America” da parte di istituzioni, media e senso comune. E di non pochi reduci contro-culturali alleati con noti sociologi tribalisti (Maffesoli!).

“Negli Stati Uniti le persone strutturano le loro domande sugli ‘indiani’ al passato, non solo con me o con altri singoli ‘indiani’ ma anche quando si rivolgono ai gruppi. Non è inusuale per noi rispondere al passato. Una volta in Sud Dakota un uomo bianco ha domandato ‘Cosa mangiavano gli indiani?’ Uno dei nostri anziani ha risposto senza ironia, ‘Mangiavano granturco, fagioli e zucca’ (tipica risposta che c’è sui libri di scuola degli Stati Uniti)” (Durham, 2002:70).

La sua rappresentazione di “animali totemici” – teschi di cavalli, alci, bisonti, vacche - trasforma quelli che dovevano essere simboli linguistici di appartenenza ancestrale in arte vibrante che

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intacca ogni tradizione, inserendo e colorando con i suoi codici più vari e destabilizzanti quello che era un teschio-totem e che ora è arte cherokee fluida che attraversa i teschi e li libera da una loro collocazione “tribale”. Qualcosa di affine a skullpture di Orozco (cfr. p. 174 vecchia edizione): skullpainting …

Chiamare un cherokee ( o un lakota o una xavante) indiano e definirlo tribale, significa incasellarlo come primitivo. Cioè come una sopravvivenza di una immaginaria umanità arcaica. La catena semiotica e logica diventa una catena di ferro che continua a imbrigliare ogni soggettività “altra”

Cherokee – indiano – tribale – primitivo – arcaico.

Per cui, nel senso comune – continuando a far funzionare questa logica – un giovane cherokee attuale è un campione di un’umanità arcaica. E, mentre questo arcaicismo – o “tribalismo” – funzionava per ghettizzare gli “altri” (o “nativi”), ora accanto a questa sistematizzazione di tipo evoluzionista-coloniale il termine tribale a volte assume un valore positivo: tribale come sinonimo di popolo di natura, che ha un contatto immediato col mondo reale, ecologico, autentico, puro, con il corpo pieno di radici e di rispetto massimo per piante e animali. Ebbene: proprio questo presunto valore positivo è ancora peggiore e più discriminativo dell’altro ingenuamente razzistico. Si cambia solo di sengo a ciò che sarebbe a contatto stretto con simboli naturali. Finalmente un giovane cherokee o un giovane xavante smascherano questo trucco altrettanto rozzo.

E allora sugli ‘indiani’ (termine che Durham usa sempre tra virgolette perché è uno dei classici esempi di errore dell’Occidente – l’India! – costitutivo della modernità che continua a fissare in termini coloniali le popolazioni pre-colombiane) si assumono queste diverse posizioni tutte “imperiali”: gli “indiani” sono tutti morti, sfortunatamente, per colpa degli yankee - gli ‘indiani’ oggi sono felici della situazione e vivono nel rispetto del loro mondo naturale – non ci sono più veri ‘indiani’.

Il termine “indiano” sopravvive all’errore che Colombo ha trasmesso dall’era moderna ai giorni nostri. Forse è ora di pensionarlo.

Alcune riflessioni di Durham sono di una graffiante quanto eXtrema criticità: “Gli africani possono essere chiamati africani. Gli ‘indiani d’America’ non possono essere chiamati ‘americani’; noi cioè non possiamo essere considerati politicamente. Dobbiamo essere raccontati in maniera mitica – gli ‘Indiani d’America’ – o antropologica – i ‘nativi americani’. Siamo rimossi dall’arena politica. Invece dei diritti umani abbiamo i più esoterici ‘diritti degli indigeni’”.

Da qui la raffigurazione come stereotipo del nativo americano iscritto dentro una visione della natura tutta-buona e tutta-ciclica:

“Nel 1980 i bianchi insegnavano già sciamanesimo ‘indiano’ nelle università. Gli studenti bianchi partecipavano alle danze del sole e alle cerimonie del peyote. Ogni centro commerciale della nazione aveva un emporio che vendeva cristalli magici dei Cherokee, ed ogni aeroporto aveva una boutique che vendeva abiti ‘indiani’ e artefatti insieme ad equipaggiamenti per cowboy. Come uno spot televisivo di Ralph Lauren, ‘lo spirito del West che oggi è dovunque’”.

Pubblicità del genere “etnico” che gira in Italia: primo piano di lui, uomo civilizzato con in faccia i segni che dovrebbero designarlo come “pellerossa”. Di fianco il fuoristrada Cherokee. Sopra: The wild side of life. Il nome Cherokee ha una potente attrazione semiotica: trascina il viso esotizzato dentro il logo e lo trasforma in un indiano/ fuoristrada. Viso-cherokee-cavallo-fuoristrada. La catena semiotica è pronta, basta identificarla e acquistarla. La pubblicità è ingenua e ironica, eppure riproduce alcuni codici che – inesorabili – continuano a schiacciare nello stereotipo l’altro secondo una logica narrativa ancora dominante in gran parte dell’Occidente. Dietro un’apparente mitizzazione dell’ ”indianità” - se compri la jeep diventi un Cherokee – assorbi anche le caselle dentro le quali continuare a rinchiudere questo Cherokee: un “indiano” fiero, nomade, ecologico e, nello stesso tempo, esotizzato, erotizzato, senza-storia.

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Da qualche tempo è politicamente corretto chiamare gli “indiani” nativi. Nella parola “nativo”, infatti, si afferma una vicinanza con l’essere-nato, nato-lì, cioé precedente al cittadino “civile” e quindi più autentico perché più-nato. Eppure tutti noi siamo nati in qualche “lì” e questo non dà diritto ad alcuna precedenza o purezza. Solo l’ “indiano” è nativo, campione di amore-natura-animali, iper-sex e pre-tech, shamano alterato dal fumo ben ritualizzato. A tale immagine di nativo, qualche presunto “nativo” non ci sta più. Perché l’ “altro” si è de-nativizzato.

Jimmie Durham – cherokee – si è de-nativizzato.

Lo stesso termine “tribù” non è ancora screditato come merita tra tutti gli antropologi, in pochissimi sociologi, in nessun giornalista o comunicatore nei mass media. Anzi, è sempre più frequente il suo uso per classificare secondo chiare e rigide metafore nativiste da parte di le culture giovanili “alternative” che applicano loro l’etichetta “nativista” che proprio i “nativi” rifiutano. È singolare questo passaggio/migrazione linguistica. E’ stato L.H.Morgan – antropologo statunitense che studiò gli irochesi nella seconda metà dell’800 – ad usare per primo il termine tribù riprendendo il termine dall’età antica per individuare un’organizzazione sociale fondata su legami di parentela dentro uno schema evoluzionista (barbarie civiltà). In questo senso, società tribali e società primitive sono usate come sinonimi. La tribù segue la banda e precede lo Stato: unità politica acefala, uguale accesso alle risorse comuni per gruppi di discendenza omogenei, integrazione sociale interna, potere coercitivo quasi nullo, redistribuzione delle ricchezze ecc. Spesso le divisioni tribali (specie in Africa) sono state create a fini di dominio dalle amministrazioni coloniali. In conclusione, il concetto di tribù - caratterizzato in senso coloniale per individuare una unità omogenea dal punto di vista etnico, linguistico e culturale – è una riduzionistica semplificazione di una rete di relazioni socio-culturali che congela identità molteplici in un sistema unico e fisso. Il concetto di tribù è una finzione antropologica che - per quanto ora rifiutata – è mantenuta in vita da sociologi, giornalisti e molto senso comune; il bisogno di classificazione etnica è traccia di un dominio coloniale che si mantiene nell’era post-coloniale.

Un sociologo come Maffesoli usa il termine tribù per classificare le culture giovanili contemporanee; quotidiani e magazine lo usano per fermare ad ogni ciclo del tempo editoriale il c.d. universo giovanile; nella versione inglese anni ’90, la tribe – sempre assimilata a gruppo “puro” e “nativo” che rifiuta lo stile di vita dominante - transita come traveller per l’Europa alternativa. Eppure questi tre diversi stili stanno tutti – pur nelle loro differenze e grazie ad esse – dentro un sistema linguistico che riproduce il dominio

A nulla vale che si sta affermando da tempo una produzione artistica i cui giovani soggetti cherokee o xavante (non più “nativi” né “tribali”) mettono in discussione questo modo di categorizzare. Artisti, sociologi, giornalisti appaiono immobilizzati nella riproduzione di stereotipi e incapaci di guardare ciò che emerge perché distrugge il comodo pregiudizio per cui loro – gli “altri” – stanno fuori della Storia. Perchè “la” storia –singolare-universale – appartiene solo al “noi” occidentale: e non riesce ad affermarsi la multi-prospettiva verso “le” storie, storie plurali, irriducibili a una storia unificata. Un nuovo nesso arte-etnicità problematizza entrambi i termini e afferma il concetto emergente di auto-rappresentazione che sta facendo la differenza. Una nuova antropologia non confligge contro le vecchie tassonomie per decostruirle, quanto per affermare libere visioni costruzioniste.

E’ necessario dichiarare decaduto l’uso antropologico del termine “nativo”, “tribale”, “indiano” per indicare le popolazioni prima definite “selvagge” o “primitive”. L’alternativa è semplice: sollecitare l’uso dei termini da loro stessi adottati: cherokee, xavante, textal. Impegnarsi a lottare contro l’uso di queste tassonomie che riproducono linguisticamente (e non solo) il dominio coloniale.

E intanto, la più povera sezione del Bronx ha una stazione della polizia chiamata ‘Fort-Apache’ e i bambini americani si comportano come ‘indiani selvaggi’.

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Jimmie Durham:

“Don’t worry – I’m a good Indian. I’m from the West, love nature, and have a special, intimate connection with the environment…I can speak with my animal cousind, and believe it or not I’m appropriately spiritual. (Even smoke the Pipe)…I hope I am authentic enough” .