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Progettazione Univer C.1 Le tecniche attive. Ins C.2 Imparare simulando l C.2.1 Il role playing per m C.2.2 La simulata su copi C.2.3 Approfondimento. C.3 Imparare provando in C.3.1 La dimostrazione p C.3.2 L’esercitazione per C.3.3 Costruire un tutori C.4 Imparare agendo in s C.4.1 L’Action Learning n C.4.2 L’outdoor learning C.4.3 Approfondimento. C.4.4 Il Service-Learning. C.5 Imparare analizzando C.5.1 Le tecniche di anal C.5.2 Le tecniche per sce C.5.3 Gli autocasi C.6 Imparare stimolando C.6.1 Un brainstorming s C.6.2 L’immaginazione in C.7 Imparare producendo C.7.1 Introduzione al coo C.7.2 Cinque elementi es C.7.3 Formare i gruppi C.7.4 Approfondimento. C.7.5 Approfondimento. C.7.6 Approfondimento. C.7.7 Approfondimento. C.7.8 Approfondimento. e didattica, Metodologia, V Fiorino Tessaro [email protected] rsità Ca’ Foscari Venezia – Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali Venezia, 2015 segnare e apprendere per competenze le competenze mettersi nei panni degli altri ione Consigli per la gestione delle simulazioni n situazione: dimostrazioni ed esercitazioni per mostrare l’esecuzione di una procedura r consolidare le procedure in situazione ial: quando gli allievi preparano la dimostrazione. situazione. La formazione delle competenze nella formazione professionale g. L’apprendimento oltre l’aula Un esempio scolastico di outdoor learning: le Expedi . L'apprendimento attraverso il servizio alla comunità o le situazioni lisi per capire le situazioni reali: lo studio di caso egliere e decidere in situazione: l’ incident la creatività del gruppo. Il brainstorming strutturato: Sei cappelli per pensare n cattedra o conoscenza insieme. Il Cooperative Learning operative learning ssenziali Cooperative Learning: se ne parla in rete The Flipped classroom ovvero la Classe capovolta JIGSAW : una tecnica di cooperative learning L’integrazione delle tecniche: A suon di parole – Il gio La Comunità di Pratica Valutazione itionary Learning Schools à oco del contradditorio

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Progettazione didattica, Metodologia, Valutazione

Università Ca’ Foscari Venezia

C.1 Le tecniche attive. Insegnare e apprendere per competenze

C.2 Imparare simulando le competenzeC.2.1 Il role playing per mettersi nei panni degli altriC.2.2 La simulata su copioneC.2.3 Approfondimento.

C.3 Imparare provando in situazione: dimostrazioni ed esercitazioniC.3.1 La dimostrazione per mostrare l’esecuzione di una proceduraC.3.2 L’esercitazione per consolidare le procedure in situazioneC.3.3 Costruire un tutorial: quando gli

C.4 Imparare agendo in situazione. La formazione delle competenzeC.4.1 L’Action Learning nella formazione professionaleC.4.2 L’outdoor learning. L’apprendimento oltre l’aulaC.4.3 Approfondimento. Un esempC.4.4 Il Service-Learning. L'apprendimento attraverso il servizio alla comunità

C.5 Imparare analizzando le situazioniC.5.1 Le tecniche di analisiC.5.2 Le tecniche per scegliere e decidere in situazione: l’ incidentC.5.3 Gli autocasi

C.6 Imparare stimolando la creatività del gruppo. Il C.6.1 Un brainstorming strutturato: C.6.2 L’immaginazione in cattedra

C.7 Imparare producendo conoscenza insieme. Il Cooperative LearningC.7.1 Introduzione al cooperative learningC.7.2 Cinque elementi essenzialiC.7.3 Formare i gruppi C.7.4 Approfondimento. Cooperative Learning: se ne parla in reteC.7.5 Approfondimento.C.7.6 Approfondimento.C.7.7 Approfondimento.C.7.8 Approfondimento.

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Fiorino Tessaro

[email protected]

Università Ca’ Foscari Venezia – Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali Venezia, 2015

Le tecniche attive. Insegnare e apprendere per competenze

Imparare simulando le competenze

r mettersi nei panni degli altri La simulata su copione

Consigli per la gestione delle simulazioni

in situazione: dimostrazioni ed esercitazioni La dimostrazione per mostrare l’esecuzione di una procedura L’esercitazione per consolidare le procedure in situazione Costruire un tutorial: quando gli allievi preparano la dimostrazione.

Imparare agendo in situazione. La formazione delle competenze

L’Action Learning nella formazione professionale L’outdoor learning. L’apprendimento oltre l’aula

. Un esempio scolastico di outdoor learning: le Expeditionary Learning SchoolsLearning. L'apprendimento attraverso il servizio alla comunità

Imparare analizzando le situazioni Le tecniche di analisi per capire le situazioni reali: lo studio di caso Le tecniche per scegliere e decidere in situazione: l’ incident

Imparare stimolando la creatività del gruppo. Il brainstorming

Un brainstorming strutturato: Sei cappelli per pensare L’immaginazione in cattedra

Imparare producendo conoscenza insieme. Il Cooperative Learning

Introduzione al cooperative learning Cinque elementi essenziali

. Cooperative Learning: se ne parla in rete The Flipped classroom ovvero la Classe capovolta JIGSAW : una tecnica di cooperative learning L’integrazione delle tecniche: A suon di parole – Il gioco del contradditorio La Comunità di Pratica

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Expeditionary Learning Schools Learning. L'apprendimento attraverso il servizio alla comunità

Il gioco del contradditorio

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C.1 LE TECNICHE ATTIVE. INSEGNARE E APPRENDERE PER COMPETENZE

Le tecniche attive sono un insieme di azioni concrete e di procedimenti didattici che l'insegnante predispone e impiega, con e per gli studenti, e che comportano la partecipazione sentita e consapevole dello studente.

Le tecniche attive respingono il ruolo passivo, dipendente e sostanzialmente ricettivo dell’allievo. Sviluppano, invece, la personalizzazione dell'apprendimento, promuovono la formazione di competenze, coinvolgendo lo studente in termini di autonomia e di responsabilità. Le tecniche attive contestualizzano le situazioni di apprendimento in ambienti reali analoghi a quelli …

− che l’allievo ha esperito nel passato (attualizzazione dell’esperienza),

− che vive attualmente (integrazione qui e ora della pluralità dei contesti) o

− che vivrà in futuro (previsione e virtualità).

Le tecniche che prenderemo in esame si caratterizzano per:

− la partecipazione "vissuta" degli studenti (coinvolgono tutta la personalità dell'allievo),

− la valutazione costante e ricorsiva (feed-back) del proprio apprendimento, con modalità co- e auto-valutative,

− la formazione di competenze in situazione,

− la formazione in relazione con gli altri per uno scopo condiviso.

Affronteremo cinque gruppi di tecniche attive:

a) tecniche simulative, in cui troviamo il role playing per l’interpretazione e l’analisi dei comportamenti e dei ruoli sociali nelle relazioni interpersonali o la simulata su un copione precedentemente stabilito;

b) tecniche operative con le dimostrazioni e le esercitazioni, che puntano ad affinare le abilità tecniche e operative mediante la riproduzione di una procedura. Sono complementari e richiedono la scomposizione della procedura in operazioni e in fasi da porre in successione e da verificare ad ogni passaggio;

c) tecniche di apprendimento nell'azione, mediante l’action learning e l’outdoor learning, in cui l’agire è funzionale allo sviluppo del pensiero e la competenza si forma in situazioni reali (extrascolastiche), e il service learning, in cui si promuovono le competenze di cittadinanza in attività al servizio della comunità;

d) tecniche di analisi della situazione, con lo studio di caso in cui si analizzano situazioni comuni e frequenti, o con l'incident in cui si affrontano eventi critici e/o situazioni di emergenza. Con lo studio di caso si sviluppano le capacità analitiche, le competenze diagnostiche e le modalità di approccio ad una situazione, nell’incident, si aggiungono le competenze di ricerca e scelta delle informazioni, le capacità decisionali e previsionali;

e) tecniche di apprendimento in relazione, tra cui possiamo annoverare la tecnica del brainstorming, per l’elaborazione di idee creative in gruppo, e il metodo del cooperative

learning, per lo sviluppo integrato di competenze cognitive, operative e relazionali.

Le tecniche attive definiscono il rapporto tra il soggetto che apprende e la situazione d’apprendimento; rispettivamente, l'allievo impara a) simulando immerso nelle situazioni; b) esercitandosi applicando le regole in situazioni astratte; c) affrontando le situazioni e trovando soluzioni

ai problemi reali, quotidiani, personali/sociali o professionali; d) analizzando casi significativi che emergono dalla realtà o individuando strategie per far fronte a possibili/probabili criticità; e) confrontandosi con gli altri o lavorando con loro per costruire soluzioni condivise o per produrre nuove idee insieme.

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Quali situazioni?

Ecco alcuni esempi (di prodotti e attività in situazione) proposti da Piergiuseppe Ellerani:

Naturalmente è variabile anche il coinvolgimento emotivo degli studenti: è profondo nelle tecniche

simulative, con l'immersione nella realtà e con l'assunzione di ruoli specifici, più distaccato nelle analisi delle situazioni e nelle riproduzioni operative.

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C.2 IMPARARE SIMULANDO LE COMPETENZE Un esempio: in classe alcuni studenti (gli attori) interpreteranno dei personaggi in una situazione di

vita quotidiana o scolastica, altri (gli spettatori) osserveranno la loro azione; benché con ruoli diversi entrambi saranno tenuti ad “osservare ciò che succede” ed elaborare l’osservazione allo scopo di comprendere il sistema di relazioni e interazioni.

Il processo che si svilupperà in questo gioco di ruolo è formativo e non terapeutico come nello psicodramma.

Ai partecipanti che fungeranno da “attori” saranno assegnate delle “parti” di ruolo in una situazione che si vuole ricreare; a tutti sarà prefigurato uno scenario che rappresenta il contesto nel quale l’azione si sviluppa. È essenziale che ogni “attore” studi la sua “parte” in modo autonomo e indipendente rispetto agli altri: non si tratta di mettere in scena una pièce coerente, quanto di far interagire delle personalità. Le “parti” conterranno anche alcune indicazioni su come iniziare il play e come condurne alcuni aspetti, ovvero sulle caratteristiche e sulle modalità comportamentali del ruolo assunto; però la maggiore del lavoro sarà lasciata all’improvvisazione.

Gli “attori” dovranno agire (parlare) non tanto secondo le proprie inclinazioni, quanto secondo il carattere dei personaggi che sarà descritto nelle singole “parti”. Vanno evitati atteggiamenti troppo “recitati”: stiamo tentando di vedere cosa succede quando interagiamo con gli altri, non di strappare applausi; così come occorre che gli “attori” possano esprimersi senza rischiare di essere messi in condizione di stress emotivo da parte del pubblico.

Mentre gli “attori” studieranno le “parti”, gli altri partecipanti (gli osservatori) con l’insegnante formuleranno ipotesi su ciò che è opportuno osservare e perché; possono anche essere somministrate dalle griglie, o degli schemi. Conclusa la fase del play si passa in plenaria a riportare le osservazioni e a discuterne: è importante che tutti comunichino le loro osservazioni, e che anche gli “attori” riportino le loro impressioni, emozioni, scelte di “recitazione”, ecc.1

C.2.1 Il role playing per mettersi nei panni degli altri

(2) Il role playing (gioco o interpretazione dei ruoli) consiste nella simulazione dei comportamenti e degli atteggiamenti adottati generalmente nella vita reale; i ruoli sono assunti da due o più studenti davanti al gruppo dei compagni (osservatori). Gli studenti devono assumere i ruoli assegnati dall'insegnante e comportarsi come pensano che si comporterebbero realmente nella situazione data. Questa tecnica ha, pertanto, l'obiettivo di far acquisire la capacità di impersonare un ruolo e di comprendere in profondità ciò che il ruolo richiede. È pertanto prevalentemente indirizzata allo sviluppo di competenze socio-relazionali, e quindi direttamente utilizzata negli insegnamenti umanistici in cui ci si focalizza nei processi di interazione tra le persone. È, comunque, una tecnica estremamente valida in tutte le discipline, anche perché in tutte le discipline ci sono persone (scienziati, studiosi, ricercatori, artisti, letterati, esploratori, filosofi) che custodiscono il pensiero e l’orientamento della loro disciplina, e gli allievi possono essere chiamati a simulare il loro ruolo o il loro pensiero. Così, in storia si può simulare un avvenimento del passato con la specifica “che cosa sarebbe successo se …”, oppure si può simulare l’azione dello storico, in fisica si può simulare un dibattito tra due scuole di pensiero differenti, e così via.

1 Dal nostro sito www.univirtual.it, con esempi di role playing con partecipanti adulti:

http://www.univirtual.it/tirocinio/pasqualetto/role%20play/coordinamento%20di%20lettere/Role%20play%20riunione%20per%20materie%20master.doc.

2 Questo paragrafo è tratto da http://www.irre.toscana.it/obbligo_formativo/lepri/tecniche/role_playing.pdf.

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Il role-playing3, come tutte le tecniche di simulazione cerca di riprodurre in aula, quindi in una situazione protetta e di laboratorio, problemi e accadimenti simili a quelli della vita reale. La differenza che intercorre con la psicoterapia è, che mentre in quest’ultima si recitano aspetti personali, nel role-playing si mettono in atto ruoli organizzativi o sociali in genere.

Per questa ragione, si potrebbe affermare che, l’oggetto reale del role-playing come esercitazione di apprendimento è la drammatizzazione, hic et hunc, di comportamenti di ruolo. Ciò, naturalmente, non significa minore intensità e coinvolgimento.

Definizione e fasi di svolgimento

Il role-playing è la rappresentazione scenica di un interazione personale che comporta l’assunzione

di comportamenti caratteristici di uno specifico ruolo in una situazione immaginaria. Sinteticamente, consiste nel richiedere ad alcuni allievi di svolgere, per un tempo limitato, il ruolo di “attori”, di rappresentare cioè alcuni ruoli, in interazione tra loro, mentre altri partecipanti della classe fungono da “osservatori” dei contenuti e dei processi che la rappresentazione manifesta. Ciò consente una successiva analisi dei vissuti, delle dinamiche interpersonali, delle modalità di esercizio di specifici ruoli, e più in generale dei processi di comunicazione agiti nel contesto rappresentato.

La tecnica si svolge nelle seguenti fasi:

a. il trainer introduce il problema con pochi cenni di carattere generale:

b. i partecipanti interpretano la parte loro assegnata (ad esempio capo e dipendente; venditore e cliente od altro) sull’indicazione di materiale loro fornito e atto a descrivere i ruoli ed il contesto nel quale il problema va inserito;

c. terminata l’interpretazione delle parti, avviene una discussione generale con la partecipazione, oltre che di coloro che hanno agito, anche di tutto il gruppo. Vengono analizzati i problemi selettivi, i rapporti umani messi in luce, e si identificano i principi generali emersi nella discussione. Analogamente a quanto avviene con il metodo dei casi non occorre giungere a soluzioni uniformi.

Vi è inoltre una suddivisione interna fra i role-playing che vede due tipologie:

1) Role-playing strutturati (esistono delle regole precise circa i ruoli, i contenuti e lo svolgimento delle discussioni. Il problema è fortemente indirizzato da vincoli precisi ed inoltre, facilita una valutazione critica dei comportamenti individuali attraverso il raffronto tra ruolo dato, ruolo recitato ed i risultati del gioco)

2) Role-playing non strutturati - o liberi (si sposta l’attenzione del processo analitico alla scoperta di nuovi modelli d’azione, alla spontaneità, al feedback. Si tralascia un’attenta preparazione in anticipo dei materiali; il gruppo sceglie direttamente gli argomenti che percepisce come importanti; inoltre l’individuo può impersonificare qualsiasi ruolo, ad esempio, se stesso, personaggi esistenti o immaginari; la situazione rappresentata può essere immaginaria o realmente accaduta).

Per rendere la tecnica più ricca esistono numerose varianti, di cui ricordiamo soltanto le più importanti:

1. Inversione dei ruoli: utilizzata spesso nei role-playing non strutturati, quando esiste notevole divergenza di vedute tra due persone. Essa consiste nella semplice inversione delle parti degli attori, ciò facilita molto la comprensione dei punti di vista altrui. I risultati di questo procedimento permettono di

3 Il role playing, così come le tecniche del brain storming e del cooperative learning (e di tutte le tecniche attive che si svolgono

nell’ambiente scolastico), si può presentare in molteplici versioni e, a seconda dello scopo formativo, potranno evidenziarsi differenze: in tal caso è opportuno discuterne in classe/gruppo on-line. Per approfondire la tecnica del role play: 1) Giusti E., Ornelli C., Role play: teoria e pratica nella clinica e nella formazione, Sovera Multimedia, Roma, 1999. 2) Capranico S., Role playing, manuale a uso di formatori e insegnanti, Raffaello Cortina, Milano, 1997. Per ampliare l’analisi ai giochi di simulazione nella didattica: http://www.istitutoveneto.it/venezia/documenti/altri_elaborati/corso_ssis_didattica/capitolo_7.pdf

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rafforzare la flessibilità e la spontaneità dei comportamenti, di aumentare la capacità di guardarsi dentro e la sensibilità verso gli altri;

2. Monologo: uno studente-attore è chiamato a pensare ad alta voce, parlando a se stesso come se non ci fossero persone che ascoltano, esternando pensieri, sentimenti e impressioni ancora non chiaramente espressi. Il monologo promuove i processi riflessivi e metacognitivi, poiché facilita il riconoscimento e la rappresentazione di ciò che il soggetto sente, prova e vorrebbe. Quando più attori sono chiamati ad esprimersi in tal senso, i diversi monologhi permettono la raccolta dei singoli punti di vista sul medesimo argomento;

3. Tecnica dello specchio: uno dei partecipanti (A) interpreta la parte di un altro membro (B) del gruppo piuttosto esitante a svolgere il suo ruolo. In pratica A cerca di recitare come reciterebbe B. La persona (B) di cui si vuole incoraggiare la partecipazione vede così se stesso riflesso come in uno specchio e ricava un utile feedback per il suo comportamento;

4. Role-playing multiplo: il gruppo viene suddiviso in sotto gruppi ciascuno dei quali sperimenta separatamente i ruoli assegnati. Poi si analizza, in seduta comune, il comportamento di ogni gruppo e ciò risulta particolarmente utile per la discussione;

5. Rotazione dei ruoli: è particolarmente efficace quando si vogliono sottoporre tutti i partecipanti ad un determinato ruolo, uno dopo l'altro. Si raccoglie, così, al termine una vasta serie di comportamenti come risposta ad uno stimolo identico, con evidenti vantaggi ai fini formativi.

Dobbiamo sottolineare, che la tecnica si può opportunamente avvalere di strumenti audio-video, oggi alla portata di tutti (perciò è necessario che le registrazioni siano gestite e accuratamente controllate dal docente). La registrazione permette di operare una efficace rilettura e di verificare l’azione sia da parte degli osservatori, sia da parte degli stessi attori. Consente ai partecipanti di verificarsi ex post nell’oggettività dell’azione sostenuta, e questo annulla le eventuali distorsioni soggettive dell’osservazione esterna durante il farsi della recita.

Il gioco dei ruoli possiede una grande forza catalizzatrice che coinvolge emotivamente sia i partecipanti sia gli osservatori4. A volte si tratta di esperienze difficili da vivere. Il docente è tenuto a rispettare questa presa di coscienza senza giudicare se ciò è giusto o pertinente. Come ogni tecnica di sensibilizzazione utilizzata a scopi formativi, anche il role playing dev'essere utilizzato come tale (a scopi formativi), deve avere delle sequenze strutturate e deve concludersi con una verifica degli apprendimenti consolidati.

C.2.2 La simulata su copione

Quando il role playing è talmente strutturato da svolgersi su sceneggiatura e testo precostruiti, si parla di simulata su copione. Essa consiste nel rappresentare situazioni particolari con un copione

stabilito dai membri del gruppo. A differenza del role play, in cui il copione è libero per ogni attore, con la simulata il gruppo prima costruisce il copione, poi effettua la rappresentazione.

Per realizzare le simulata può essere utile riferirsi a situazioni realmente accadute che vengono riproposte per evidenziare alternative e stimolare il coinvolgimento.

È compito della simulazione ricostruire sotto forma di gioco, in piccole parti e in tempi limitati il sentimento di realtà, perché questo sia vivibile in situazioni sempre più ampie.

Il ruolo della simulazione è fondamentale nella funzione di gioco-allenamento alla vita; pensiamo all’importanza del gioco nell’apprendimento infantile, poiché consente di passare dal senso di irrealtà al senso di realtà. La simulazione non sostituisce la realtà ma permette ai partecipanti di riflettere su come porsi nella realtà.

4 Gli insegnanti “debbono ricordare sempre di non confondere il role playing (a valenza pedagogica) con lo psicodramma (a valenza

psicoterapeutica)” (D. Demetrio, 1988, p. 146).

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C.2.3 Approfondimento. Consigli per la gestione delle simulazioni

I consigli che vengono dati di seguito valgono soprattutto per la situazione in cui il docente ha il controllo di ciò che accade. In caso di recitazione in sottogruppi, invece, il docente dovrà dettare le regole del gioco prima che l’esercitazione cominci. In questo paragrafo vengono proposti due tipi di consigli: le regole del gioco “normali” e alcuni casi particolari.

Iniziamo dalle regole del gioco:

• l’aula deve essere organizzata in maniera che osservatori e attori siano nettamente separati (come in un acquario, ci deve essere una sorta di vetro);

• gli osservatori devono stare perfettamente zitti;

• gli attori non devono per nessuna ragione uscire dalla loro parte, rivolgendosi direttamente agli osservatori o al docente (a meno che questa possibilità non sia stata esplicitamente prevista);

• la durata massima della simulazione deve essere stata definita in anticipi e deve essere conosciuta sia dagli attori, sia dagli osservatori.

Vediamo ora alcune situazione particolari:

• se un attore non sa più come continuare, è imbarazzato e non trova più le parole, il docente interrompe la recitazione e dà un po’ di tempo all’attore in difficoltà per rimettersi in sesto;

• se un attore, durante la simulazione, inventa una notizia che lo mette in una condizione di netto vantaggio, ma che non era stata preventivamente concordata, il docente interrompe la simulazione, “cancella” la notizia e fa ricominciare la simulazione dal punto precedente. Se non facesse così, infatti, il risultato sarebbe gravemente falsato e la successiva discussione rischierebbe di concentrarsi più su questo fatto che non sulla simulazione in sé.

Decisioni sulle modalità di osservazione

Una volta scelta la modalità di recitazione, bisogna ancora decidere che cosa osservare e come farlo fare. Il più delle volte, i punti su cui concentrare l’attenzione sono molto chiari, perché sono stati oggetto di una precedente attività didattica: in questi casi, è consigliabile lasciare libera l’osservazione, perché qualsiasi griglia ha il notevole difetto di imbrigliare e irrigidire la discussione. Se però si ritiene necessario far concentrare l’attenzione su alcuni aspetti, conviene distribuire un foglio con alcune domande, o con una lista delle cose da osservare.

Se ci si aspetta che le osservazioni siano particolarmente ricche, oppure se la simulazione è complessa (per durata o numero dei partecipanti), è possibile suddividere i partecipanti in sottogruppi, chiedendo di prestare attenzione ad aspetti diversi: alcuni partecipanti osservano alcuni fenomeni, oppure un determinato attore; altri partecipanti osservano altri fenomeni, oppure altri attori. Questa modalità rende molto più ricca e interessante la successiva discussione in plenaria; infatti non si assiste ad un rituale ripetersi delle stesse osservazioni, ma ogni partecipante ha qualcosa di nuovo da dire, perché aveva qualcosa di particolare da osservare.

Ovviamente, ciò richiede più tempo in fase di lancio, perché occorre suddividere i partecipanti in sottogruppo e dare istruzioni separate.

Le scelte in sintesi sono due: 1. con o senza griglia di osservazione; 2. tutti osservano tutti, oppure osservazione specializzata (solo alcuni fenomeni) o selettiva (solo un attore).

Entrambe le scelte influenzano pesantemente la fase successiva, quella del commento, che è anche la fase didatticamente più importante, perché è quella in cui si traggono le conseguenze e si trasmette il messaggio didattico: di fatto, quindi, le modalità di osservazione determinano le modalità di commento di una simulazione.

Il commento o feedback

Il commento è la fase più importante. Normalmente occupa circa la metà del tempo complessivo dedicato alla simulazione, ma in alcuni casi, quando l’evento sia stato particolarmente interessante, può essere ancora più lungo. Ne deriva l’importanza di gestirlo bene, seguendo una procedura che valorizzi al massimo quello che è accaduto, senza d’altra parte sprecare tempo nel cercare dettagli che non c’erano.

Il ruolo degli osservatori in fase di feedback

Gli osservatori, dall’esterno, commentano ciò che è accaduto. È spesso consigliabile, quindi, farli parlare per primi. In questo modo gli attori ricevono le impressioni a caldo sulla loro prestazione.

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Se l’osservazione è stata effettuata senza griglia, il docente chiederà ai partecipanti di fare a turno le loro osservazioni, concentrandosi sia sugli aspetti positivi sia su quelli negativi. È consigliabile limitare il numero delle osservazione per partecipante, perché altrimenti, dopo mezzo giro di tavolo, può succedere che non ci sia più niente da dire: il docente può prescrivere, ad esempio, di fare una sola osservazione positiva e una sola osservazione negativa, rimandando alla fine per eventuali osservazioni aggiuntive.

Se l’osservazione è stata organizzata da una griglia, conviene invece seguire l’ordine delle domande della griglia: si faranno quindi tanti veloci giri di tavolo, quanti erano i punti trattati dalla griglia. La discussione, in questo caso, può risultare lunga e ripetitiva; occorre dare dunque un’andatura veloce, e per far questo al docente è richiesto un comportamento direttivo, quasi da presentatore televisivo.

Se l’osservazione era specializzata o selettiva, si procede ovviamente per ordine. Questa discussione risulta più veloce della precedente, perché su ogni argomento ha diritto a intervenire solo un numero limitato di osservatori.

In tutti i casi può essere utile far annotare ai partecipanti le loro osservazioni prima di iniziare la discussione ed il confronto: si diminuisce il conformismo e si aumenta la gamma dei pareri espressi.

Il ruolo degli attori in fase di feedback

Sul ruolo degli attori durante la discussione di una simulazione esistono diverse scuole: 1. farli parlare per primi; 2. farli parlare per ultimi; 3. non farli parlare affatto.

La scelta della soluzione dipende, oltre che dalle preferenze del docente, dalla tipologia di soggetto recitato. Quanto più il soggetto recitato è probabile, quanto meno è utile l’intervento degli attori (con una sola eccezione: l’autocaso). Analizziamo dunque le motivazioni delle tre scelte.

Se si chiede agli attori di parlare per primi, si deve fare loro una domanda decisamente diversa da quella che viene fatta agli osservatori: ad esempio, si chiederà loro come si sono sentiti nel recitare quella parte. Questa domanda è importante tutte le volte che si chiede a qualcuno di recitare un ruolo molto lontano dal proprio, oppure un ruolo “sgradevole”, che non condivideva. Non è invece altrettanto importante se all’attore era stato chiesto di recitare se stesso.

La scelta di far parlare gli attori per ultimi è invece motivata della loro esigenza, molto comprensibile peraltro, di dare una risposta alle osservazioni dei partecipanti, oppure di aggiungerne delle proprie. Il docente dovrà comunque invitare gli attori ad evitare il più possibile di “difendersi”: nessuno, infatti, li ha attaccati.

La scelta di non far parlare affatto gli attori si basa sulla considerazione fatta in precedenza: data l’inevitabile tendenza degli attori a difendersi, è inutile dar loro la parola. Secondo questa scuola, la difesa infatti è solo un modo per respingere i feedback ricevuti, rendendosi “impermeabili”. Molto meglio tenerseli dentro e ruminarli.

Personalmente ritengo quest’ultima soluzione drastica: a volte è un vero tormento, per l’attore, dover stare zitto ad ascoltare tutti i commenti, senza poter dare una risposta. A titolo informativo, riferiamo, tuttavia, che nel mondo della formazione esistono dei casi in cui è giustificata.

Il ruolo del docente in fase di feedback

Il docente coordina la discussione, evitando, per quanto gli è possibile, di commentare quello che gli osservatori dicono man mano che raccoglie i commenti. Parlerà per ultimo, aggiungendo le sue osservazioni a quelle dei partecipanti.

C.3 IMPARARE PROVANDO IN SITUAZIONE: DIMOSTRAZIONI ED ESERCITAZIONI

Se le tecniche simulative si sono affacciate in tempi recenti nel panorama scolastico (e talvolta sono ancora dietro le quinte), ben diverso è il discorso sulle dimostrazioni e sulle esercitazioni che da sempre rappresentano il modo più usuale di imparare. Questo discorso può essere sintetizzato con il motto

"guarda come faccio e poi prova tu"

Il "guarda come faccio" è la dimostrazione, il "poi prova tu" è l'esercitazione. L'obiettivo delle dimostrazioni e delle esercitazioni è quello di sviluppare abilità operative procedurali, e nel contempo a

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promuovere la nascita delle competenze, in cui si intrecciano pensiero e azione. Vedremo successivamente che i primi stadi di sviluppo della competenza riguardano l’imitazione consapevole e l’adattamento al contesto).

Dimostrazioni ed esercitazioni sono usuali nella scuola; ciò lascia supporre una tecnica facile da progettare: in realtà il loro successo dipende da un accurato lavoro preparatorio.

Dimostrazioni ed esercitazioni sono attività formative complementari: la dimostrazione senza esercitazione non produce apprendimento (non si impara a scrivere osservando uno scrittore), l'esercitazione senza dimostrazione si risolve in una serie di tentativi maldestri (come il montaggio di un'apparecchiatura senza le istruzioni per l'uso).

C.3.1 La dimostrazione per mostrare l’esecuzione di una procedura

Il tipo più inutile di dimostrazione è quello in cui il docente non dimostra nient'altro che la sua bravura. È dato per scontato che il docente sappia eseguire una procedura, ma il fatto di limitarsi a svolgere un'attività non significa saperla dimostrare. Con la dimostrazione non si insegna a fare qualcosa, che invece si apprenderà con l'esercizio, ma come fare qualcosa.

Gli obiettivi di una dimostrazione sono quelli di far acquisire conoscenze procedurali di tipo operativo, ed in particolare:

- le fasi di una procedura,

- la successione delle fasi,

- i criteri di verifica per ciascuna fase.

Le regole per progettare una dimostrazione

[1] Individuare la procedura da dimostrare, significativa per la disciplina affrontata.

[2] Analizzare la struttura operativa della procedura.

[3] Suddividere la procedura in fasi e indicare l'ordine di esecuzione.

[4] Individuare i punti critici ovvero le fasi che usualmente si omettono perché date per scontate.

[5] Indicare la sequenza migliore, o le migliori, quelle che conducono al successo dell'esecuzione.

[7] Predisporre un elenco dei problemi possibili cui potrebbero andare incontro gli allievi.

[8] Controllare l'esistenza e il funzionamento corretto delle apparecchiature e del materiale necessario alla dimostrazione.

[9] Assicurarsi che tutti gli studenti possano vedere ed ascoltare adeguatamente le fasi della dimostrazione (eventualmente preparare un elenco per sottogruppi e prevederne la rotazione).

[10] Provare la dimostrazione prima di presentarla agli allievi, studiarne le pause opportune fra le singole fasi.

Se la dimostrazione è stata progettata con cura ed eseguita in modo didatticamente corretto (con l'assicurazione che ogni fase è stata acquisita) e coerente con le modalità richieste nella professione, l'attività immediatamente successiva non può che essere l'esercitazione, altrimenti la dimostrazione perderà in brevissimo tempo la propria efficacia formativa.

C.3.2 L’esercitazione per consolidare le procedure in situazione

L'obiettivo dell'esercitazione è quello di far sì che gli allievi siano capaci di eseguire correttamente e completamente operazioni e procedure uguali per difficoltà a quelle che incontreranno sul lavoro.

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Quando l’esercitazione si svolge in situazioni, reali o simulate, ma protette e controllate, (es: laboratorio professionale interno alla scuola) ed è utilizzata a fini valutativi si parla di compiti autentici di prestazione.

Qualcuno equipara l'esercitazione all'addestramento. In realtà l'addestramento comporta l'acquisizione meccanica di procedure, tecniche, gesti e comportamenti, mentre l'esercitazione è un provare in situazione le procedure già acquisite. L'esercitazione si configura, quindi, come un training on the job, come apprendimento "intelligente" di procedure in situazioni “di lavoro o di studio”.

Una buona esercitazione è quella che viene formulata attraverso una serie di esercizi, da svolgersi in situazione a complessità crescente, accuratamente programmati, con difficoltà commisurate al livello

di apprendimento dell'allievo. È efficace l'esercizio che la maggior parte degli allievi eseguirà correttamente al momento prestabilito. Un buon esercizio sarà, quindi, breve, semplice e chiaro.

L'esercitazione deve essere preceduta o accompagnata dall'aiuto del docente. Si sviluppa in condizioni ambientali per quanto possibile simili a quelle della situazione reali.

Le regole per progettare una esercitazione. Nel progettare le esercitazioni il docente dovrà:

[1] Individuare gli esercizi più significativi.

[2] Adeguarli alle caratteristiche degli studenti.

[3] Dosarli per difficoltà e complessità crescenti,

[4] Predisporne in numero sufficiente per un apprendimento duraturo.

[5] Verificare la loro progressione in modo da sviluppare sistematicamente le diverse competenze dello studente.

[6] Fissare i criteri di correttezza e di completezza di ogni esercizio

[7] Predisporre una guida per lo studente (tipo "istruzioni per l'uso").

C.3.3 Costruire un tutorial: quando gli allievi preparano la dimostrazione.

Approfondimento: Otto punti per scrivere un tutorial veramente utile (di Riccardo Esposito)

Quando scrivi un tutorial, l’obiettivo è quello di creare una guida completa sull’argomento che hai preso in esame,

conquistare nuovi lettori, creare traffico di qualità e discussioni. E, ovviamente, ricevere qualche buon link.

Come puoi ben immaginare non è facile scrivere un tutorial di grande qualità, capace di diventare un punto di

riferimento per il popolo del web. Hai bisogno di volontà, una buona dose di dedizione e qualche piccolo

suggerimento. Io ne ho scelti 8:

1. Individuare un bisogno reale

Ecco la base solida di ogni tutorial che si rispetti! Se non risponde a un bisogno reale, anche la miglior guida di

questo mondo resterà un semplice articoletto nell’archivio del tuo blog. Prima di lanciarti a rotta di collo in questa

grande avventura, spulcia tra i forum e i siti di Q/A, metti sotto torchio Google per trovare nuove idee, chiedi aiuto

ai tuoi fan di Facebook o Twitter. Insomma, trova una domanda a cui dare risposta.

2. Conoscere l’argomento del tutorial

Stai scrivendo un articolo dove ogni lettore si aspetta di trovare la soluzione ai suoi problemi, e se la troverà sarà

ben felice di condividere la tua risorsa con i suoi amici. Per questo devi conoscere ogni dettaglio dell’argomento e

concentrarti su un unico obiettivo: creare un contenuto di grande qualità, completo, capace di svelare ogni

risposta. Questo, ovviamente, sarebbe l’idealtipo del tutorial perfetto, ma devi provare ad avvicinarti il più

possibile.

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3. Trovare e citare le fonti

La tua esperienza personale è importante ma non puoi basare un’opera così importante solo su conoscenze

individuali, perché è proprio salendo sulle spalle dei giganti (Isaac Newton) che si raggiungono gli obiettivi più alti.

E poi, da un punto di vista squisitamente etico, non è giusto utilizzare riflessioni di altri autori e spacciarle come

frutto del proprio ingegno!

Trovare le fonti adatte è un lavoro duro, ma ti posso assicurare che ti permetterà di avanzare con la tranquillità di

chi sta usando le conoscenze adatte ai propri obiettivi. Ovviamente non rinunciare alle fonti cartacee e ricordati di

compilare (se necessario) una piccola bibliografia/webgrafia alla fine dell’articolo.

4. Organizzare i contenuti

Eccoci al nocciolo del problema: come organizzare la mole di contenuti di un grande tutorial? Indispensabile la

classica divisione in paragrafi con un buon uso degli header e un’organizzazione delle informazione che si sviluppa

dal generale al particolare.

Cioè dalle introduzioni di ampio respiro a quelli che possono essere i problemi specifici, ma senza dilungarti su

dettagli inutili: potresti iniziare a scrivere un articolo e ritrovarti con un ebook! Aspetta… e come faccio a capire

quali sono i dettagli inutili?

5. Ottimizzazione SEO

Un’ottima guida è anche un guida cha sa farsi trovare nella selva di Google. Questo significa che devi fare

attenzione a ogni aspetto dell’articolo, anche a quello della SEO. Ma come si ottimizza un tutorial per i motori di

ricerca?

Semplicemente rispettando le regole base che dovresti già seguire per ogni straccio di post e fare qualche ricerca

più approfondita (magari con i tool Google) per individuare le long tail utilizzate dagli utenti per cercare

informazioni sull’argomento.

6. L’importanza delle immagini

Quasi inutile ricordarti che in un buon tutorial ci devono essere (ovviamente se disponibili e/o necessarie) delle

immagini di qualità che aiutino il lettore a capire quali sono i passaggi fondamentali. Non essere avaro di

schermate e se temi di appesantire troppo usa gli strumenti per comprimere le immagini: così risparmierai Kb

preziosi senza rinunciare alla qualità della spiegazione.

Se vuoi raccogliere molte foto, grafici o schermate puoi pensare anche a un album Flickr o a una presentazione

Slideshare da embeddare nell’articolo.

7. Video, video, video

Le immagini sono importanti, ma se vuoi dare veramente una marcia in più alla tua guida puoi pensare alla strada

del video tutorial. Un video tutorial che ha bisogno di un’applicazione perregistrare lo schermo, un buon microfono

per la spiegazione e, soprattutto, le idee molto chiare su quello che vuoi spiegare.

Anche in questo caso ti conviene organizzare bene i tuoi argomenti, e magari concentrarti proprio su quelli più

difficili da spiegare con le immagini o le informazioni scritte. E se non hai tempo/possibilità di creare un video

tutorial puoi sempre cercare su Youtube e affidarti a chi lo ha già fatto!

8. Esempi concreti

Dopo il testo, le immagini e i video, l’unica cosa che ancora ti manca per essere un campione di chiarezza sono

gli esempi che mostrano concretamente quello che stai spiegando. E che, ovviamente, possono arrivare da chi ha

già fatto tutto ciò che hai appena spiegato.

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La parte finale di un tutorial può essere dedicata agli esempi, ma anche alle di liste di approfondimento e

alle risorse commerciali che permettono di ottenere ottimi risultati con una spesa in più. Ad esempio, per

concludere questo metatutorial (un tutorial sui tutorial direi…) consiglio di dare uno sguardo a queste ottime guide

per prendere spunto:

• Designing A Facebook Fan Page: Showcases, Tutorials, Resources

• A Complete Guide To Tumblr

• Guide to Competitive Backlink Analysis

• How To Build A Facebook Landing Page With iFrames

Ora non mi resta che augurarti buon lavoro! E se hai qualche buon consiglio su come scrivere un tutorial lascialo

pure nei commenti!

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C.4 IMPARARE AGENDO IN SITUAZIONE. LA FORMAZIONE DELLE COMPETENZE L’apprendimento non è un unico processo, ma un insieme di processi multiformi (cognitivi,

metacognitivi, socio-relazionali, motivazionali, esperienziali, trasformativi), intrecciati in reti prive di gerarchie ideologiche e di egemonie culturali, che si incarna nel pensiero-azione in situazione, che si sostanzia nella costruzione di competenze.

Oggi, molta parte dell'attività didattica, della progettazione e della valutazione, è indirizzata all'apprendimento per competenze. La competenza non equivale al "saper fare" e nemmeno getta i nostri studenti nell'arena della competizione; è, molto più semplicemente il pensiero in azione, l’agire riflessivo che si fonda sui saperi e sulle conoscenze che l’allievo non solo ha appreso, ma di cui ne ha fatto esperienza reale, concreta, vissuta. Così, l’allievo riconosce e affina lo scopo del suo agire, costruisce il senso del suo essere nel mondo.

Apprendere per competenze è un processo integrato, che coniuga l’esperienza e l'azione con le conoscenze, con i processi cognitivi ed epistemologici (saperi essenziali, nuclei fondanti), con le abilità e le procedure (saper applicare, saper fare), con il pensiero finalizzato, autonomo, critico, rielaborativo, responsabile.

Tra le tecniche didattiche che incarnano questa filosofia formativa troviamo l’action learning, per lo sviluppo di competenze nella formazione professionale, l’outdoor learning per lo sviluppo di competenze oltre l’aula, e il service learning, per lo sviluppo in generale delle competenze di cittadinanza, e in particolare per quelle sociali, relazionali, interattive.

C.4.1 L’Action Learning nella formazione professionale

L’Action Learning (apprendimento all’azione) è una metodologia di sviluppo delle persone, dei gruppi e delle organizzazioni professionali che utilizza un compito reale come veicolo di apprendimento, basandosi sulla premessa che non esiste apprendimento senza azione reale, né azione intenzionale senza apprendimento. In questo approccio, “apprendere” significa per un manager apprendere ed agire efficacemente e questo è possibile solo sperimentandosi nell’azione reale.

Si tratta di un’interazione complessa, un vero e proprio progetto, che si addice ad interventi formativi ampi e protratti nel tempo, in cui si deve raggiungere contemporaneamente obiettivi diversi. Secondo Quaglino (1985), la vera finalità dell’action learning “consiste nell’acquisire la capacità di porsi

interrogativi nuovi per affrontare situazioni nuove, anziché nell’acquisire conoscenze già definite e

consolidate: nel ricercare e ritrovare le domande, anziché le risposte giuste.”

I partecipanti ad un programma di Action Learning lavorano in piccoli gruppi, alla presenza di un facilitatore, per progettare un’azione reale e per apprendere dall’azione intrapresa, all’interno di un processo clinico di azione reale, analisi e riflessione sull’azione, progettazione dell’azione successiva o alternativa e - di nuovo - azione sulla base delle conclusioni raggiunte.

All’interno dei gruppi si produce una riflessione guidata sulle esperienze proprie e altrui, che divengono entrambe fonti di apprendimento, con l’aiuto dei propri colleghi di gruppo e del facilitatore.

I gruppi possono inoltre avere accesso discrezionale a risorse rilevanti per la soluzione dei loro problemi, quali formazione, consulenza esperta, strumenti o materiali.

Il risultato è molteplice: azioni reali intraprese per la soluzione di problemi concreti, apprendimento di competenze rilevanti per il compito/ruolo e di una metodologia di apprendimento autonomo dall’esperienza (apprendere ad apprendere)

I programmi di Action Learning consentono il raggiungimento contemporaneo di diversi obiettivi:

− soluzione di problemi organizzativi e implementazione di soluzioni,

− sviluppo di competenze manageriali e gestionali,

− sviluppo di capacità riflessiva di apprendimento dall’esperienza, di problem setting e reframing (=l'azione d'inquadrare qualcosa in una nuova cornice),

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− sviluppo personale.

I principi dell’Action Learning:

− l’apprendimento significativo e duraturo si costruisce solo a partire dall’esperienza personale e pratica e richiede dunque di essere basato sul circolo virtuoso di pensiero-azione-riflessione,

− l’apprendimento che conta produce cambiamenti a livello individuale e collettivo e coinvolge non solo il livello cognitivo ma anche quello emotivo ed etico,

− lo sviluppo organizzativo richiede la presenza di altri che operino sia come supporto che come specchio critico,

− la riflessione e l’apprendimento richiedono tempi e luoghi legittimati.

La struttura delle attività di Action Learning è di volta in volta progettata su misura sulla base delle caratteristiche degli obiettivi, del compito, del contesto e degli eventuali vincoli. L’intensità dell’impegno e l’arco temporale di realizzazione sono estremamente flessibili, dal lavoro intensivo di tre giorni all’appuntamento con periodicità mensile per dodici mesi.

Approfondimento: Si rimanda all’articolo “Action Learning: una metodologia didattica basata sull’esperienza” di Roberto Orazi - in web: http://qtimes.it/flv/Orazi_QTimes_2_2014.pdf.

C.4.2 L’outdoor learning. L’apprendimento oltre l’aula

L'outdoor learning (apprendimento all'aperto) è un’espressione ampia che nelle diverse età comprende: giochi all'aperto, attività nei cortili e nei giardini delle scuole, educazione ambientale, attività ricreative e di avventura, programmi di sviluppo personale e sociale, esplorazioni, team building, formazione alla leadership, sviluppo manageriale, educazione alla sostenibilità, avventura, terapia ... e molto altro ancora.

L'outdoor learning non ha confini chiaramente definiti ma ha un nucleo comune in tutte le varie forme: il valore dell’apprendimento outdoor sta nell’esperienza diretta.

Imparare all’esterno procura un contrasto notevole5 rispetto al lavoro in aula. L'esperienza diretta all'aperto è più motivante, ha più impatto ed è più credibile. Le esperienze esterne, con la mediazione, l’interpretazione o la facilitazione di un insegnante esperto, diventano una fonte stimolante di crescita personale, di sviluppo e innovazione nell'apprendimento.

5 Quando il contrasto dà luogo a dissonanza cognitiva sviluppa nuovi apprendimenti (L. Festinger, Gestalt Theorie).

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L'apprendimento all'aperto è apprendimento attivo in mezzo alla natura.

I partecipanti apprendono attraverso ciò che fanno, attraverso ciò che incontrano e attraverso ciò che scoprono. Imparano a conoscere la vita all'aria aperta, se stessi e gli altri, ma apprendono anche le competenze necessarie nella vita oltre l’aula. L’apprendimento attivo incrementa con più facilità le capacità di indagine, di sperimentazione, di feedback, così come la riflessione, la revisione e la cooperazione.

L'apprendimento all'aperto è apprendimento reale.

L’apprendimento all'aperto non è reale solo perché si svolge in ambienti naturali in cui i partecipanti possono vedere, sentire, toccare e annusare, ma anche perché si attua in luoghi in cui le azioni hanno risultati e conseguenze reali. L'outdoor learning può rivitalizzare molte materie scolastiche fornendo energia esperienziale al curricolo "per consentire agli alunni di rispondere positivamente alle opportunità, alle sfide e alle responsabilità, di gestire il rischio e di affrontare i cambiamenti e le avversità"6.

L'outdoor learning allarga gli orizzonti e stimola nuovi interessi.

Gli ambienti e le attività outdoor non pongono limiti alle esperienze e alle curiosità che possono suscitare. I partecipanti scoprono talenti, abilità e interessi che non immaginavano di possedere. I codici di sicurezza (l’apprendimento outdoor si situa in un setting protetto) delimitano chiaramente le azioni permesse nella direzione degli obiettivi di apprendimento, ma l'apprendimento all'aperto, in ogni caso, ispira oltre i confini didattici e immagina nuovi scenari.

La formazione outdoor è sempre più integrata.

Molte forme di outdoor learning attraversano le attività formative tradizionali. L’attenzione allo sviluppo personale e sociale si intreccia con l’interesse per l'ambiente e la sostenibilità. Le esperienze dei partecipanti sono fonte di nuovi apprendimenti e non soltanto sfondi su cui applicare vecchi modelli.

Le qualità di un corso outdoor includono:

1. La percezione dell’avventura, dell’imprevedibilità, del dramma, della suspense. Questa percezione può nascere dalla situazione (esplorare una scogliera o dei bassifondi, essere su una canoa) oppure dall’insegnante che si impegna a inserire tutte queste sensazioni nell’apprendimento tramite dei racconti, delle osservazioni e perfino con il suo senso dell’umorismo.

2. L’alto livello delle aspettative (realizzabili): gli allievi devono essere convinti che non tutti sarebbero stati capaci di svolgere quelle attività e che al docente importi davvero che loro raggiungano il risultato.

3. L’orientamento verso il successo in cui è supportata e incoraggiata la crescita e in cui si dà risalto alla positività. L’incoraggiamento è uno degli ingredienti cruciali per risolvere il conflitto tra aspettative alte e la necessità di riuscire a fare una esperienza di successo.

4. L’atmosfera di supporto reciproco in cui la cooperazione, l’incoraggiamento e l’attenzione ai rapporti interpersonali sono sempre presenti.

5. Il senso di divertimento e piacere nell’opportunità di poter ridere delle situazioni, degli altri e di sé stessi.

6. L’approccio all’apprendimento che utilizza problemi da risolvere in gruppo, che tiene conto dei vari contributi personali e che sottopone ai partecipanti dei problemi che non possono ordinariamente essere risolti individualmente. Viene premiato lo sforzo del gruppo più che la competizione o il successo individuale.

6 DfES & QCA, The National Curriculum, 'Aims for the School Curriculum' 1999.

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7. La creazione di laboratori di apprendimento che sono più complessi, più coinvolgenti, meno prevedibili e meno simili alla lezione in aula.

8. Il confluire dello sviluppo intellettuale, sociale, psichico ed emozionale.

9. Il forte lavoro cognitivo sui concetti astratti e le domande sviluppate in aula, prima o dopo l’evento formativo esterno.

10. La combinazione equilibrata di momenti di coinvolgimento attivo e momenti di riflessione e valutazione personale e di gruppo. La consapevolezza che i momenti in cui si impara o si insegna sono ingredienti fondamentali.

11. La chiara organizzazione e strutturazione che definisce i limiti dell’esperienza e le aspettative, all’interno delle quali però ogni partecipante è libero di prendere decisioni, di fare delle scelte ed anche degli errori.

12. La logica economica e strutturale che consente al corso di essere effettivamente realizzabile tenendo conto delle effettive (e spesso limitate) risorse disponibili.

C.4.3 Approfondimento. Un esempio scolastico di outdoor learning: le Expeditionary Learning Schools

Il modello di scuola che maggiormente ha adottato le situazioni di realtà come principio cardine dell'apprendimento è rappresentato dalle Expeditionary Learning Schools, ovvero dalle scuole pubbliche statunitensi di tipo Outward Bound. Le Expeditionary Learning Schools si rifanno direttamente alle concezioni di Kurt Hahn, precursore dell’outdoor training, un educatore progressista della prima metà del secolo scorso, il cui interesse era prevalentemente orientato all'educazione degli adolescenti. Per Hahn l’istruzione e l'insegnamento si effettuano nell'attività, nell'esperienza e nell'avventura: “ogni allievo è capace di una grande passione, di una passione creativa e il nostro dovere più nobile è di scoprirla e soddisfarla” (Hahn, 1930: 151).

Le Expeditionary Learning Schools si caratterizzano per a) l’apprendimento in situazione, complesso ed esistenziale, dove anche le materie fondamentali si imparano uscendo dalla scuola, nelle “spedizioni” in città, in campagna, in mare, in montagna; un apprendimento completamente diverso da quello parcellizzato in sequenze di argomenti astratti proposto in aula, b) la promozione dello sviluppo integrato dell'allievo, intellettuale, morale e fisico, e c) la modifica delle modalità e dei processi di apprendimento, ma anche delle metodologie didattiche, dei processi organizzativi e della cultura scolastica.

Le Expeditionary Learning Schools si fondano su dieci principi:

I. Il primato della scoperta di sé. L'apprendimento avviene in modo migliore attraverso le emozioni, le sfide e il supporto necessario. Le persone scoprono le loro abilità, i valori, le passioni e le responsabilità in situazioni in cui è presente l'avventura e l'imprevisto. Gli studenti svolgono compiti che richiedono perseveranza, forza fisica, padronanza, immaginazione, autodisciplina e risultati significativi. Il compito principale dell'insegnante è quello di aiutare i propri studenti a superare le paure e a scoprire che possono realizzare più di quanto essi pensino.

II. Sviluppare idee con la meraviglia. Nutrire la curiosità verso la realtà creando situazioni di apprendimento che forniscano qualcosa di importante a cui pensare, tempo per sperimentare e tempo per attribuire senso a ciò che si osserva. Promuovere una comunità in cui siano rispettate le idee degli studenti e degli adulti.

III. La responsabilità dell’apprendimento. L'apprendimento è sia un processo di scoperta personale che un'attività sociale. Ciascuno apprende sia individualmente sia come parte di un gruppo. La scuola deve incoraggiare giovani ed adulti a divenire sempre più responsabili nell'orientare il loro personale apprendimento ed anche quello comunitario.

IV. Empatia e cura. L'apprendimento è facilitato nelle comunità in cui le idee di tutti sono rispettate e dove c'è fiducia reciproca. Le scuole e i gruppi di apprendimento devono essere di piccole dimensioni. Gli studenti più anziani fungono da mentori di quelli più giovani e tutti si sentono fisicamente e psicologicamente al sicuro.

V. Successo e fallimento. Tutti gli studenti hanno bisogno di sperimentare il successo, devono sostenere la capacità di assumersi dei rischi ed andare incontro a sfide crescenti. Ma è altrettanto importante che imparino dai loro fallimenti, a prevalere sulle avversità e a trasformare le difficoltà in opportunità.

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VI. Collaborazione e competizione. L'insegnamento deve promuovere in modo integrato lo sviluppo individuale e di gruppo, così da rendere chiari il valore dell'amicizia, della fiducia e dell'azione di gruppo. Gli studenti sono incoraggiati a non competere gli uni contro gli altri ma con se stessi e con rigorosi standard di eccellenza.

VII. Diversità e inclusione. Sia la diversità che l'inclusione aumentano la ricchezza delle idee, l'energia creativa, le capacità di risolvere problemi e l'accettazione degli altri. Gli studenti esplorano e valorizzano le loro differenti storie, talenti e risorse così come quelli delle altre comunità e culture. I gruppi di apprendimento sono strutturati in modo eterogeneo.

VIII. Il mondo naturale. Il rapporto diretto e responsabile con la natura nutre lo spirito umano e ricorda gli importanti principi dei cicli ricorrenti e di causa-effetto. Gli studenti apprendono a diventare custodi e ‘amministratori’ della Terra e delle future generazioni.

IX. Solitudine e riflessione. La solitudine, la riflessione e il silenzio danno energia e aprono le nostre menti. Gli studenti hanno bisogno di passare del tempo da soli per esplorare i loro pensieri, fare i loro collegamenti e creare le loro idee. Essi hanno anche bisogno di condividere e scambiare le riflessioni tra loro e con gli adulti.

X. Aiuto e compassione. Nella scuola tutti, insegnanti e allievi, sono equipaggio e non passeggeri. Studenti ed insegnanti rafforzano se stessi attraverso azioni di aiuto reciproco. Una delle funzioni primarie della scuola è quella di preparare gli studenti a sviluppare attitudini e capacità di imparare dagli altri ed essere al servizio degli altri.

C.4.4 Il Service-Learning. L'apprendimento attraverso il servizio alla comunità

Il Service Learning Community è un modello di apprendimento esperienziale che combina l'apprendimento in classe e l’impegno sociale (volontario) per raggiungere gli obiettivi di una comunità, e promuovere negli studenti un senso di impegno civico. Il Service-Learning è un metodo didattico che unisce due elementi:

− il Service, ovvero l’essere al servizio della comunità/società, operare volontariamente per il bene comune, e

− il Learning, ovvero l’apprendimento/acquisizione/costruzione di competenze sociali, metodologiche, e professionali.

Service – impegno sociale per la cittadinanza. Per il buon funzionamento della società civile, è fondamentale che i suoi membri si assumano in modo autonomo compiti e responsabilità. I progetti del Service-Learning devono sensibilizzare a queste esigenze e mettere in risalto il valore e l’utilità del lavoro sociale. Chi si impegna per la comunità impara a conoscere altri ambienti e altre realtà di vita, riconosce i problemi sociali, sviluppa il senso di responsabilità e impara ad agire democraticamente.

Learning – apprendimento autentico di competenze. I progetti Service-Learning si attivano in situazioni didattiche autentiche, in cui gli allievi possono sviluppare le loro competenze, metodologiche e sociali. In una Unità di Apprendimento, con compiti autentici, basati su questioni «reali», gli allievi si scoprono attivi e competenti. I progetti di Service-Learning rafforzano l’autostima dei partecipanti. Inoltre favoriscono la coesione della classe facilitando il clima di apprendimento.

Che cosa non è il Service-Learning? Non tutti i progetti in cui una classe o una scuola si impegna in attività di servizio sociale sono progetti di Service-Learning. Per esempio non sono attività di Service-Learning:

− l’impegno sociale non legato all’apprendimento,

− l’insegnamento/apprendimento senza impegno sociale

− il praticantato, il tirocinio o lo stage svolti per un servizio di utilità pubblica

− Il servizio di utilità pubblica imposto per compensare un comportamento illecito (es: infrazione stradale).

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Il Service-Learning e l’apprendimento per competenze7

Il metodo didattico del Service Learning si è sviluppato nel Nord America dal 1990, fondandosi sulla convinzione che l’impegno sociale e il lavoro volontario nella comunità sono indispensabili per lo sviluppo della società.

Oggi, in vari Stati del Canada, la collaborazione a un progetto di Service-Learning è una condizione per ottenere l’attestato di fine ciclo scolastico (rif.: Canadian Alliance for Community Service-Learning). Negli Stati Uniti, una scuola elementare pubblica su tre, e una su due delle scuole di specializzazione, prevedono il Service-Learning nel loro curricolo (rif.: National Service-Learning Clearinghouse).

Negli ultimi anni sono avviati con successo progetti di Service Learning anche in Europa, in particolare in Germania (rif.: Fondazione Freudenberg, Netzwerk Service-Learning) e in Svizzera (rif.: Schweizer Zentrum Service-Learning, Centro svizzero Service-Learning).

Le impostazioni teoriche di fondo non possono che risalire a Dewey (1938). L’opzione metodologica si rifà alle concezioni di K. Hahn, precursore delle attuali Expeditionary Learning Schools (in Knoll, 1998). Tale opzione, nella formazione professionale, è stata ampiamente sviluppata da D. Kolb (1984) negli stadi dell’experiential learning e da J. Mezirow (2003) con l’esperienza riflessiva, da J. Lave e E. Wenger (1991) con il situated learning nei sistemi formativi organizzati in comunità di pratica, da R. Revans (1980) nelle forme dell’Action Learning e da L. Rohlin con l’Action Reflection Learning (Boshyk, Dilworth, 2010; Marquardt, Ceriani, 2009).

− Conseguentemente, la pratica didattica ci porta all’apprendimento per competenze mediante compiti autentici, mediante attività formative basate sull'utilizzo della conoscenza e delle abilità concettuali e/o operative in situazioni reali, che hanno un collegamento attivo e generativo nella definizione e nella soluzione dei problemi, e che sono radicate nell’esistenza e nei valori dell'allievo.

− Il Service learning coniuga e integra i fattori che promuovono la competenza (riflessione e azione) all'interno dei paradigmi di autonomia e responsabilità, in situazioni operative e professionali, con metodologie motivanti e coinvolgenti.

− In recenti studi, Erik De Corte (2009, 2012) ha indicato la natura dell’apprendimento, i caratteri specifici che esso deve possedere per promuovere la competenza adattiva, cioè quella capacità di utilizzare in una varietà di contesti, in modo sensato, creativo e flessibile, la conoscenza e le abilità apprese. È l’apprendimento CSSC, ovvero Constructive, Self-regulated, Situated and Collaborative.

− La metodologia che permea i progetti Service learning ottempera pienamente ai canoni dell'apprendimento CSSC: è costruttivo (poiché gli studenti sono chiamati a fare, a produrre anche imitando, a costruire qualcosa che ha valore professionale e non meramente esercitativo); è situato (l'apprendimento si incarna in situazioni vive, non astratte e neppure semplicemente simulate); è collaborativo (poiché molta parte dell'agire, del fare e del riflettere su ciò che si sta facendo si sviluppa nell’ambito delle comunità di pratiche, in cooperative learning), è auto-regolato (poiché il gruppo degli allievi è chiamato a svolgere il monitoraggio continuo del proprio lavoro).

− In più il Service Learning promuove un apprendimento etico. Carrington e Saggers (2008) propongono cinque principi etici per il Service learning: la collaborazione e il lavoro di squadra; lo

7 In questa sede esaminiamo l’impostazione di service learning più vicina all’apprendimento per competenze, ovvero a quella

nordamericana ed europea, rinviando ad altri approfondimenti quella sudamericana e spagnola (aprendizaje-servicio) il cui riferimento teorico è connesso alla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire. Riferimenti bibliografici: CONSEGNATI S., GUARDIANI M., Il Service–Learning, teorie e prassi, in “Scuola Italiana Moderna”, n. 15, anno 119, giugno 2012. FURCO A., Service Learning and the Engagement and motivation of High School Students, Berkeley Service-learning Research and Development Center, School of Education, University of California at Berkeley, 2003. FURCO A., Impacto de los proyectos de aprendizaje servicio, in EDUSOL, 2005B, pp 19-26. MARSHALL T., Aprendizaje – servicio y calidad educativa, in EDUSOL, 2004, pp 94-98. PUIG, J.M., BATLLE R., BOSCH C., PALOS J., Aprendizaje servicio. Educar para la ciudadanía. Barcelona, Editoria Octaedro, 2007. TAPIA, M.N., Educazione e solidarietà, la pedagogia dell’apprendimento servizio, Città Nuova, Roma, 2006.

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sviluppo di una cultura inclusiva; il valore del rispetto; lo sviluppo di partnership; la formazione fondata sull’esperienza e sull’empatia con gli studenti.

Come svolgere un progetto di Service-Learning

I progetti Service-Learning partono da una reale esigenza che gli allievi individuano nel loro ambiente sociale circostante, come risultato di una ricerca, oppure nell'ambito di una disciplina scolastica.

I progetti sono realizzati al di fuori dell’ambiente scolastico e in cooperazione con partner esterni. I progetti sono però obbligatoriamente legati ad alcune discipline e sono integrati nel curricolo scolastico. Le fasi del progetto sono pianificate e ponderate costantemente.

Per garantire l’autonomia e la responsabilità degli allievi, il personale insegnante accompagna, dirige e consiglia ma resta possibilmente in ombra. Il livello di autonomia procedurale dipende dalla classe e dalla sua struttura.

Durante l’intero progetto gli allievi discutono del loro lavoro e dei risultati (intermedi) man mano che avanzano. Documentano l’evoluzione e presentano i risultati al termine del progetto.

Un altro punto importante del progetto di Service-Learning riguarda la «cultura del riconoscimento»: gli sforzi di tutti i partecipanti devono essere riconosciuti pubblicamente (p.es. lode pubblica, lettera di ringraziamento, festeggiamento finale, pubblicazione del progetto).

Per principio, i progetti di Service-Learning possono essere realizzati a ogni livello scolastico.

Come trovare l’idea giusta per il progetto? E una volta concluso il progetto, come offrire un riconoscimento alla classe? Per facilitare la realizzazione il Centro svizzero Service-Learning8 ha messo a punto degli strumenti di lavoro per lo sviluppo dell’idea del progetto e per la valutazione del progetto, nonché filmati di presentazione per insegnanti e per gli allievi).

Standard di qualità del Service-Learning

Nel 2008, la National Youth Leadership Council degli USA ha individuato otto standard di qualità.

K-12 Service-Learning Standards for Quality Practice

Meaningful Service

Service-learning actively

engages participants in

meaningful and personally

relevant service activities.

Link to Curriculum

Service-learning is

intentionally used as an

instructional strategy to

meet learning goals

and/or content

standards.

Reflection

Service-learning incorporates

multiple challenging reflection activities

that are ongoing and that prompt deep

thinking and analysis about oneself and

one’s relationship to society.

Diversity

Service-learning

promotes understanding

of diversity and mutual

respect among all

participants.

Youth Voice

Service-learning provides

youth with a strong voice in

planning, implementing, and

evaluating service-learning

experiences with guidance

from adults.

Partnerships

Service-learning

partnerships are

collaborative, mutually

beneficial, and address

community needs.

Progress Monitoring

Service-learning engages participants

in an ongoing process to assess the

quality of implementation and progress

toward meeting specified goals, and uses

results for improvement and

sustainability.

Duration and

Intensity

Service-learning has

sufficient duration and

intensity to address

community needs and

meet specified outcomes.

Secondo il modello svizzero, lo sviluppo di un progetto di Service-Learning si basa su cinque standard di

qualità fondamentali:

8 si raccomanda la visione del sito http://www.servicelearning.ch/it/aggiornamenti/, e dei filmati (in particolare del video “Service-

Learning: Introduzione per insegnanti” in http://www.servicelearning.ch/it/strumenti_pratici/filmati/ )o https://www.youtube.com/watch?v=sVK0yGlWVxw#t=14

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1. Reale necessità. L’impegno sociale degli allievi reagisce a un reale bisogno o a un reale problema presente nel loro ambiente, nella loro città o nel loro comune, oppure in relazione a un tema trattato nelle lezioni. Gli allievi cercano bisogni o sfide nel loro ambiente e focalizzano i problemi «autentici». Da questi risultati si sviluppano le idee per un progetto.

2. Partecipazione degli allievi. Gli allievi scelgono e pianificano l’intervento e per quanto possibile lo realizzano autonomamente. Per loro significa farsi carico di un compito utile, e prendersene la responsabilità. Il personale insegnante deve considerarsi «collaboratore», offre sostegno e aiuto a seconda delle necessità della classe.

3. Integrazione nelle attività disciplinari. Il progetto è parte integrante del curricolo scolastico, ed è inserito nel percorso didattico di una o più discipline.

4. Riflessione. Le allieve e gli allievi riflettono sulle loro esperienze e i loro progressi di apprendimento in modo regolare e pianificato. Le esperienze sono costantemente riesaminate e valutate. Gli errori fanno parte del lato produttivo del processo di apprendimento.

5. Cooperazione extrascolastica. Il progetto si svolge per lo più al di fuori dell’ambiente scolastico e promuove nuove interazioni tra gli allievi e la comunità e il territorio. Nel progetto sono coinvolti collaboratrici e collaboratori esterni alla scuola, p.es. esperte/i, rappresentanti del comune, del quartiere, di istituzioni e organizzazioni.

C.5 IMPARARE ANALIZZANDO LE SITUAZIONI Dopo le tecniche simulative e dimostrative, ecco ora le tecniche attive che promuovono nell’allievo

una fondamentale competenza per l’apprendimento: l’analisi. Analizzare significa discernere, distinguere, approfondire. Come fare per coinvolgere lo studente in un’attività di analisi? Immergendolo in situazioni, che egli dovrà com-prendere (= prendere dentro), differenziare, modellizzare, astrarre, formalizzare.

Prenderemo in considerazione il metodo dello studio di caso, secondo diverse tecniche, in cui il soggetto o il gruppo9 analizza (dall’esterno) ambienti, relazioni e realtà in cui si trova ad operare.

Le tecniche di analisi si rivelano utili per comprendere situazioni reali: ponendo l’allievo in una situazione problematica, egli si trova nella necessità di attivare gli schemi mentali che possiede, di prendere coscienza delle proprie concezioni in rapporto alla realtà che lo circonda; nel confronto con gli altri, il gruppo dei pari, egli ha l’opportunità di confrontare e valutare le proprie idee e rendersi conto se queste hanno dei limiti; può dunque rendersi conto dell’inadeguatezza dei propri strumenti mentali e quindi della necessità di dover modificare le proprie concezioni.

Con l’analisi si assiste ad una trasformazione della struttura concettuale del soggetto che apprende, che deve smontare quella che possiede, per poi ricostruirla e riconfigurarla in un’altra che risponda alle domande che si pone. Il processo è continuo e porta ad un progressivo arricchimento delle potenzialità cognitive e quindi della possibilità di apprendere.

In questo modello di apprendimento, l’errore non ha il significato di “sbaglio”, ma va considerato come un passaggio essenziale per il progresso del processo di apprendimento, per l’arricchimento della conoscenza. Assumiamo, quindi, la differenza convenzionale tra errore e sbaglio: benché entrambi siano risultati mancati, il primo, l’errore, può essere inteso come inefficacia nel giungere ad un incremento di conoscenza, comunque conseguente ad un’inventio, ad un atto creativo, nel secondo, lo sbaglio,

9 L'allievo potrà lavorare da solo o in gruppo, a seconda della funzione e dello scopo formativo. Il lavoro in gruppo (v. la tecnica

degli "orientati" utilizzata in pedagogia speciale) sviluppa l'analisi e approfondisce un argomento mediante confronto, e discussione. Come suggerisce la piramide nel frontespizio, il lavoro insieme assicura una elevata memorizzazione dell'appreso. Concretamente, nella fase iniziale il formatore guida i lavori, che poi proseguono in forma auto-gestita dai sottogruppi. Questi si occuperanno di tutte le fasi di raccolta della documentazione, organizzazione della stessa e la rielaborazione. I sottogruppi devono anche stendere per la riunione plenaria una relazione sintetica del lavoro svolto.

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l’inefficacia è dovuta alla scorretta applicazione di una regola già esistente. Troppo spesso l’insegnante fa nascere negli allievi la paura di commettere errori e mostrare loro che non hanno capito, ma ciò contribuisce a inibire il pensiero riflessivo ed una comprensione autentica dei principi su cui si basa la conoscenza.10

C.5.1 Le tecniche di analisi per capire le situazioni reali: lo studio di caso

Il metodo dei casi in ambito scolastico/educativo è stato ripreso negli anni ’70 come alternativa agli approcci di tipo sistemico, che erano suggestivi e delineavano scenari stimolanti, ma generavano estraneità e lontananza. Si cercava di calare i soggetti in formazione in un contesto vicino al proprio vissuto, creando immedesimazione e coinvolgimento. Esponente di questa linea fu il CERI (Centre for Educational Research and Innovation) dell’OCDE.

L’uso in ambito educativo dello studio di caso prevede un approccio all’apprendimento che è quello del learning by doing, lo sviluppo di abilità comunicative e decisionali; l’obiettivo, quindi, non è quello di dare informazioni sul contenuto/argomento oggetto del caso, ma di innescare un processo di apprendimento e capacità di analisi che stimolino un approccio critico alla realtà e sviluppino abilità di ricerca e spirito di collaborazione.

Pertanto sollecita a:

− contestualizzare la situazione per comprenderne i punti cruciali e gli elementi in gioco;

− decontestualizzare la situazione per comprenderne gli elementi significativi o rivelatori di “scenari” generali (“schemi” di azione o di pensiero).

Con lo studio di caso si presenta agli studenti la descrizione di una situazione reale (e in quanto tale complessa), frequente o esemplare. La descrizione di un caso è un brano scritto al quale possono essere associati documenti, tabelle o schemi. Benché nella letteratura si prospettino descrizioni molto lunghe, si ritiene didatticamente opportuno non superare una o due pagine.

La situazione da esaminare può anche riguardare un caso problematico, ma bisogna non dimenticare che l’obiettivo di questa tecnica non è quello di risolvere un problema, bensì quello di imparare ad affrontare i problemi, ad individuarli e a posizionarli. (Tessaro, 2002)

Bochicchio (2000, 140) ci ricorda che il metodo dei casi da alcuni autori è definito anche lavoro di gruppo, perché richiama la particolare situazione di apprendimento tipica in cui il gruppo viene suddiviso in sottogruppi meno numerosi, operanti tra loro in autonomia, cui viene assegnato un compito da svolgere in un determinato tempo e da presentare successivamente in plenaria.

È una metodologia didattica che richiede di applicarsi a situazioni concrete della vita e del lavoro.

Secondo la tesi che vi sono anche più soluzioni ad un problema, la pratica del lavoro di gruppo dovrà accettare che le soluzioni possono variare non solo in funzione delle condizioni specifiche del problema, ma anche in relazione alla personalità dei soggetti che tenteranno di risolverlo.

Il vantaggio più importante dell’applicazione di tale metodica riguarda la sua incidenza sugli atteggiamenti dei partecipanti, che spesso si trasformano in cambiamenti spontanei e duraturi dei comportamenti nella pratica quotidiana.

Lo svantaggio, dal nostro punto di vista, riguarda le dinamiche: pur innescando un’interattività molto più intensa della lezione tradizionale, è ancora una tipologia a mediazione dell’insegnante, che conserva margini di intervento molto elevati. Sarà lui, inoltre, a dover restituire feedback significativi per

10 "Se un bambino scrive sul suo quaderno "l’ago di Garda" o si corregge l’errore con un segnaccio rosso o blu o si segue l’ardito

suggerimento e si scrive la storia e la geografia di questo ago importantissimo segnato anche sulla carta geografica d’Italia. La luna si specchierà sulla punta o sulla cruna? Si pungerà il naso?" (Rodari, 1973). L’indicazione di Rodari è meravigliosa, didatticamente ottima per i bambini della primaria … ma non è sempre valida per gli adolescenti della secondaria: l’ironia e il paradosso non sempre sono compresi e, nel fraintendimento, possono essere interpretati e vissuti come sarcasmo umiliante.

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trasformare in apprendimento le risposte concrete ai problemi offerte dagli studenti. La sua guida, al riguardo, deriverà evidentemente dalla verifica di consequenzialità o meno tra le interpretazioni elaborate e quelle che i casi indagati forniscono rispetto alla questione di fondo da cui è stata guidata la scelta.

Accanto allo sviluppo delle capacità analitiche, il metodo dei casi presenta anche altri importanti aspetti formativi, se utilizzato come tecnica di gruppo. L’interazione tra gli studenti, infatti:

− favorisce la conoscenza delle altre persone, scoraggiando dall’emettere semplicistici giudizi nei loro confronti;

− permette di capire come uno stesso problema possa essere valutato in modo diverso da persone diverse;

− consente di abbattere facili generalizzazioni, utili soltanto come difese individuali;

− sensibilizza e forma alla interazione e alla discussione creando condizioni che facilitano una reciproca migliore comprensione;

− mette in evidenza le difficoltà che presenta il pensare ad un problema reale e il giungere ad una eventuale soluzione di gruppo.

All’inizio delle esperienze con i casi, gli studenti sono ansiosi di conoscere le risposte ai vari interrogativi e le soluzioni adottate nella realtà. Dopo un po’, comunque, comprendono che è più importante imparare il processo di analisi per arrivare alla soluzione piuttosto che “indovinare” la soluzione in sé. (Tessaro, 2002). Con lo studio di caso lo studente impara a fare ricerca11, comprende che ogni situazione va studiata innanzitutto in sé e di per sé, solo successivamente andrà generalizzata, teorizzata. Lo studio di caso, per definizione, ha un carattere idiografico: si riferisce ad una situazione specifica e cerca di descriverne e comprenderne con rigore metodologico le caratteristiche principali, in relazione a un sistema di ipotesi e di dimensioni pertinenti. Il valore euristico di uno studio di caso si lega quindi direttamente alla significatività e alla esemplarità della situazione indagata. In nessun caso, di conseguenza, è lecito cercare di generalizzarne i risultati. I criteri di individuazione di una situazione

11 Da Invalsi: Il termine "studio di caso" può assumere diversi significati in relazione al contesto di ricerca in cui viene utilizzato, in

qualche modo è un termine "ombrello" che solitamente viene utilizzato per indicare un insieme di metodi di ricerca che hanno in comune la decisione di focalizzare l'indagine su una o più situazioni che il ricercatore considera esemplare o comunque indicative di un "insieme" più ampio (Adelman, Kemmis, Jenkins 1980). "Esemplare" appunto, ma non "rappresentativo" dell’intero insieme (Stenhouse 1979). È il ricercatore stesso che ‘crea’ il caso, individuandolo come tale e trasformando progressivamente, attraverso l'indagine, l'oggetto indagato in oggetto di comprensione (Kemmis 1980). È lo studio che definisce il "caso", che ne chiarisce le circostanze storiche e contestuali. Le conclusioni cui uno studio di caso arriva sono legate al contesto particolare, non sono di per sé generalizzabili, vanno piuttosto considerati come "verità provvisorie", senza pretese di definitività (Kemmis 1980).

In questo tipo di impostazione diventa di importanza centrale il fatto che il ricercatore-valutatore "espliciti" e "giustifichi" le proprie scelte metodologiche, argomenti le proprie interpretazioni, fornisca al lettore tutti gli elementi non soltanto per capire l’origine delle valutazioni espresse, ma soprattutto per poter mettere in discussione queste stesse valutazioni. Tutto ciò deve essere "comunicato" in modo comprensibile per chi legge il rapporto di uno studio di caso (Elliott 1989, Losito 1993).

In ambito educativo, gli studi di caso sono stati utilizzati in modo particolare per studiare programmi e iniziative di innovazione sul piano curricolare, rispetto ai quali è necessario tenere conto di situazioni complesse, determinate da molteplici fattori e fortemente dipendenti dal contesto specifico all’interno del quale si sviluppano.

L. Stenhouse individua quattro diverse tipologie di studio di caso nell'ambito della ricerca educativa (Stenhouse 1985):

- etnografico (studio di un singolo caso in profondità attraverso l'osservazione partecipante e non necessariamente con finalità di tipo pratico)

- valutativo (con lo scopo di fornire informazioni utili per giudicare della validità e della efficacia di programmi, politiche, innovazioni in campo educativo e scolastico)

- educativo (con lo scopo di documentare sistematicamente l'azione educativa)

- studio di caso nella ricerca azione (le informazioni guidano l'affinamento della azione dei "practitioners", che sono coinvolti in prima persona nella definizione del piano di ricerca e nella raccolta dei dati. Gli obiettivi che si perseguono sono eminentemente pratici).

Anche se una dimensione di tipo valutativo è implicita in ciascuno dei tipi di studio di caso individuati da Stenhouse, non tutti gli studi di caso sono "valutazioni". E' vero piuttosto il contrario. E cioè che tutte le "valutazioni" sono "studi di caso". Il programma, il progetto, la persona o la struttura che vengono valutate sono il "caso" (Stake 1995).

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significativa e esemplare sono differenti, sul piano logico e metodologico, rispetto a quelli impiegati per selezionare un campione rappresentativo, che consenta induzioni statisticamente valide sull’insieme dell’universo di riferimento.

Peraltro, le conclusioni cui è possibile pervenire attraverso uno studio di caso riguardano la forma e la configurazione dei fenomeni e le loro proprietà, senza alcuna pretesa di generalizzazione. I risultati di uno studio di caso trovano un uso proficuo qualora stimolino e corroborino la riflessione e la discussione o la formulazione di ulteriori ipotesi, eventualmente verificabili attraverso la realizzazione di nuove indagini.

Lo studio di caso può essere proposto in classe soltanto dopo che ci si è accertati che gli studenti hanno acquisito le conoscenze necessarie sugli argomenti introdotti dal caso: questo metodo, infatti, serve per apprendere i comportamenti da assumere in situazioni reali e come utilizzare adeguatamente le conoscenze in tali situazioni, non per insegnare nozioni.

Come scegliere un caso. Per la scelta di caso appropriato è necessario verificare:

− la coerenza del caso agli scopi del corso;

− la fedeltà ad una situazione reale;

− la capacità di stimolare la curiosità e l'interesse;

− la complessità della situazione presentata (da dimensionare alle reali capacità di analisi degli studenti);

− la difficoltà del linguaggio utilizzato nella descrizione (che può indurre ad errori di interpretazione);

− la lunghezza del caso in relazione al tempo disponibile per il suo studio e la discussione (indicativamente un'ora per lo studio a casa e altrettanto per la discussione in classe).

Per dare maggior realismo al caso proposto, accanto alla descrizione scritta, si può ricorrere a copie di documenti reali, all'uso di filmati, a testimonianze privilegiate oppure all'attuazione di visite guidate negli ambienti professionali o di ricerca.

Le regole per la progettazione di un caso

1. Scegliere una situazione realmente accaduta e possibilmente ambientata in realtà conosciute dagli allievi.

2. Raccogliere la maggior parte di notizie sulla situazione individuata mediante colloqui con gli operatori e osservazioni dirette.

3. Elaborare il materiale raccolto, ordinarlo logicamente e sequenzialmente.

4. Tracciare una bozza del caso facendo attenzione a:

- distinguere chiaramente le certezze dalle supposizioni;

- ripartire in più casi una situazione molto complessa;

- eliminare le informazioni che possono creare confusione;

- cercare fatti reali e coerenti, non interessanti o strani;

- mascherare i nomi delle persone o delle società coinvolte.

5. Individuare gli elementi e le informazioni mancanti per la comprensione completa del caso. Ricercare tali elementi.

6. Far esaminare il caso elaborato a qualche operatore o responsabile del sistema oggetto del caso, per apportare eventuali correzioni o integrazioni.

7. Redigere la descrizione del caso e allegare gli eventuali documenti di cui in essa si fa riferimento.

8. Preparare una traccia di note per la presentazione del caso e per la sua discussione.

M. Bellotto (1992) suddivide il metodo dei casi in diverse tipologie. Qui di seguito le presenteremo tutte a titolo informativo (benché ogni ambito prediliga proprie tipologie):

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− Decisione. Si giunge alla soluzione migliore attraverso informazioni fittizie, ma precise nei particolari, contenute in un testo preparato dal formatore. Allena la persona a prendere decisioni riguardanti il proprio lavoro e la propria vita.

− Studio di problemi. Vengono fornite informazioni in parte rilevanti e in parte irrilevanti, che il gruppo è tenuto a selezionare e scegliere in funzione della decisione da assumere. Talvolta è necessaria una negoziazione di informazioni con altri gruppi. Lo studio si rivela utile per sperimentare metodi di lavoro, confrontare punti di vista, ridurre le differenze di opinioni.

− Studio di casi. Si propone al gruppo un caso significativo tratto dalla realtà, avendo cura di descrivere i personaggi che l’hanno vissuto e i problemi che si sono verificati. Il gruppo proporrà una soluzione, che non risponde ad esiti prestabiliti.

− Identificazione di problemi. Al gruppo viene richiesto di esaminare una particolare situazione tratta dalla realtà, di identificare i problemi e trovare una soluzione.

− Esercitazioni di gruppo, in ambito economico, sociale, ecc., derivate dalla tattica militare consistenti nel prendere decisioni su informazioni iniziali e poi prenderne altre basate sulle precedenti. A volte l’esercizio si svolge con partecipanti volutamente sottoposti a stress.

Si pensi a quanto si senta valorizzato un ragazzo che sia messo in condizione di affrontare casi di vita realistici, interagendo con esperti che li affrontano, a loro volta, nella pratica quotidiana. Gli si offrirebbe così la possibilità concreta di sperimentare, nella stessa vita d’ogni giorno, le varie dimensioni operative, culturali e sociali:

− quella dei saperi;

− quella delle relazioni;

− quella dell’organizzazione;

− quella deontologica.

In questo modo, all’allievo si chiede molto: gli si domanda infatti di “appartenere all’insegnamento” fin dall’inizio, calandosi da subito nelle responsabilità e nei vincoli che questo comporta. (Margiotta, 2001)

La scienza cognitiva ci informa che, col metodo dei casi e con le tecniche da questo derivate, si apprende per ristrutturazione, la quale costituisce una delle tre modalità dell’apprendimento umano (insieme a accrescimento e sintonizzazione). L’apprendimento per ristrutturazione avviene creando uno o più schemi nuovi. Ciò accade quando gli schemi preesistenti si rivelano inadeguati o insufficienti ad incamerare le informazioni nuove in corso di elaborazione. Si differenzia radicalmente dall’apprendimento per accrescimento in quanto, mentre quest’ultimo aggiunge “casi” ad una “regola” già disponibile, il primo scopre una “regola” nuova, pertinente alla spiegazione di “casi” che il soggetto sta apprendendo. La sintonizzazione, invece, avviene adattando ed affinando uno o più schemi già presenti nella mente del soggetto.12

12 Ecco alcuni riferimenti bibliografici relativi allo studio di caso:

Adelman C., Kemmis S., Jenkins D. (1980), Rethinking Case Study: Notes From the Second Cambridge Conference in H.Simons (ed), Towards a Science of the Singular, Norwich, CARE

Kemmis S. (1980), The imagination of the case and the invention of the Study, in H. Simons (ed), Op.cit.

Losito B. (1993), Lo studio di casi nella ricerca educativa, in Idem Che cosa è la ricerca azione?, Fenestrelle, Regione Piemonte

Stake, Robert E. (1995), The Art of Case Study Research, Thousand Oaks - London - New Delhi, Sage Publications

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C.5.2 Le tecniche per scegliere e decidere in situazione: l’ incident

I cosiddetti incident sono una delle varianti del metodo dei casi, più utile al fine di sollecitare nei partecipanti maggior attenzione alla raccolta delle informazioni e alle modalità di riconoscimento delle soluzioni.

Anche la tecnica didattica varia un po’, visto che il testo scritto che precede la discussione di gruppo nell’incident è molto breve e richiede non più di qualche minuto di lettura poiché il materiale presentato agli studenti è volutamente mancante di molti elementi.

Un normale studio di caso di solito rappresenta sempre una situazione problematica. Esso può essere assunto nella sua completezza e complessità, e allora la formazione viene sostanzialmente centrata nella acquisizione o nel miglioramento delle abilità di problem solving, di raccolta e analisi delle informazioni sul caso e di decisione in situazione analoghe a quella del caso studiato.

Ma del caso si possono assumere soltanto i momenti critici, questi sono gli incident che rappresentano delle “rotture” o dei “ momenti di svolta” sia per la concettualizzazione della situazione relativa, sia per l’assunzione di quelle tecniche e metodologie di risoluzione dei problemi che sembra più opportuno possedere per comportarsi in situazioni che presentano alti tassi di ripetitività degli incidenti occorsi e studiati.

Le tecniche particolarmente usate per esaminare un incident (il momento critico, la situazione di emergenza) sono quelle della problem-analysis e quella della content-analysis. La problem-analysis consiste essenzialmente nello “squadernamento” del problema e nel guidare a fornire risposte a “perché è successo”, “come si sarebbe dovuto risolvere”; la content-analysis invece è più raffinata e consiste essenzialmente nell’analisi del contenuto, delle informazioni accoglibili in situazione problematica e del loro migliore trattamento allo scopo di ottimizzare tanto la risoluzione dei problemi che le decisioni conseguenti.

Per ciascuno studio di incident, il docente deve preoccuparsi di insegnare ad attivare tanto le strategie formali che quelle informali di trattamento delle informazione e di risoluzione dei problemi dal punto di vista dei loro contenuti.

È utile perciò esaminare attentamente la seguente tabella (Castagna, 1993), dove vengono sintetizzate per il formatore le sequenze strategiche principali per utilizzare l’incident in attività di formazione.

Le fasi dell’incident

A. Consegna del caso critico e delle informazioni di base, con la prima domanda didattica: Quali informazioni ulteriori vi servono e perché?

B. Lavoro di sottogruppo

C. Prima plenaria sulle informazioni necessarie per risolvere quel problema

D. Eventuali contributi teorici del docente

E. Consegna della seconda parte del caso, contenente informazioni uguali per tutti, con la seconda domanda didattica: Quale soluzione proponete e perché?

F. Lavoro di sottogruppo

G. Plenaria conclusiva

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C.5.3 Gli autocasi

Altra variante del metodo dei casi, ma fondata su un maggior livello di partecipazione dei soggetti interessati, poiché il caso reale che verrà analizzato sarà tratto proprio dall’esperienza viva di qualcuno dei protagonisti presenti in aula, che potrà utilizzare la forma narrativa13 per condividerlo con il resto del gruppo e fornire tutte le informazioni necessarie alla discussione.

Invece di riportare la propria analisi in plenaria, agendo prevalentemente sul livello cognitivo, i sottogruppi hanno il compito di far rivivere la situazione a tutti i partecipanti, in maniera che tutti possano contribuire ad analizzarla.

Ai presenti viene poi chiesto di ricostruire il caso, progettandolo tramite raccolta, ordinazione e sintesi dei dati. Il procedimento si sviluppa secondo le seguenti operazioni cronologiche:

Le fasi dell’Autocaso

1. Racconto dettagliato di uno o più casi da parte di altrettanti soggetti

2. Scelta del caso da analizzare e motivazione delle ragioni

3. Richiesta di ulteriori informazioni e chiarimenti sia da parte del formatore che dei componenti del gruppo

4. Classificazione delle informazioni, sintesi e schematizzazione

5. Discussione del caso

6. conclusione, tramite confronto con la diagnosi di partenza, e risposta agli interrogativi

7. Feedback conclusivo

Il partecipante che suggerisce il caso deve recitare la parte di se stesso e quella del suo interlocutore? A questa domanda vengono date spesso le due risposte opposte, ognuna con vantaggi ed inconvenienti. In generale si può dire che, se si vuole lavorare più sulle dimensioni emotive del partecipante, è consigliabile fargli giocare la parte di se stesso. Se invece si usa la situazione solo come possibile esempio di casi reali, conviene fargli interpretare la parte dell’interlocutore in modo da aumentare le sue capacità si porsi nei panni degli altri.

Il metodo dell’autocaso produce normalmente simulazioni con forte coinvolgimento personale, anche emotivo, nettamente più “vere” che in tutte le altre ipotesi; per lo stesso motivo, è però anche il più difficile da gestire.

13 Lo stile comunicativo narrativo è specifico della metodologia autobiografica. Può essere utilizzato anche nelle diverse tecniche

dei casi a supporto dell’analisi descrittiva. FT

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C.6 IMPARARE STIMOLANDO LA CREATIVITÀ DEL GRUPPO. IL BRAINSTORMING

Il brainstorming (letteralmente, tempesta del cervello)14 è una tecnica di lavoro di gruppo con cui ci si prefigge di ricercare il massimo di idee su un tema preciso e di individuare insieme soluzioni creative ad un problema. Ad un gruppo di studenti (ad una decina circa) viene affidato un compito insolito, un problema nuovo, un argomento originale e complesso, e, per venirne a capo, i partecipanti dovranno far ricorso all'immaginazione.

Ecco una serie di indicazioni raccolte.

“È una tecnica utilizzabile nelle discussioni di gruppo, particolarmente adatta a produrre idee nuove o strategie alternative nella soluzione di problemi.

Il termine brainstorming si riferisce all'opportunità che la tecnica offre di "parlare a ruota libera", di lasciar scorrere liberamente il flusso delle idee e dei pensieri, nel tentativo di trovare una soluzione adeguata al problema di partenza.

Un punto di forza del brainstorming è dato dalla possibilità di utilizzare i suggerimenti offerti da tutti i partecipanti al gruppo, in modo tale che l'idea proposta da un membro del gruppo possa suggerire a un altro un'idea nuova e magari più adeguata, fino al raggiungimento della soluzione considerata migliore. La produzione di molte idee nuove può, inoltre, favorire lo sviluppo di un atteggiamento creativo verso i

dati dell'esperienza e un modo nuovo di elaborarli.

Affinché la tecnica del brainstorming sia utilizzata con successo, è necessario seguire alcune indicazioni organizzative:

a) Una seduta di brainstorming non può durare meno di 30 minuti e più di 45 minuti.

b) È consigliabile che il gruppo sia formato da un minimo di 8 partecipanti e da un massimo di 12.

c) È opportuno definire nel modo più chiaro possibile l'obiettivo del brainstorming, prima di dare inizio alla fase di produzione delle idee.

Nella conduzione del gruppo, inoltre, l'insegnante deve esplicitare e far rispettare due regole base:

1) Idee, proposte ed emozioni devono essere verbalizzate con la massima libertà di ognuno, senza nessuna preoccupazione circa la loro qualità. In questa fase è la "quantità" che conta, piuttosto che la "qualità".

2) Nella fase di produzione delle idee nuove, è necessario che l'insegnante interrompa, in modo cordiale ma fermo, le possibili critiche mosse alle idee espresse dai partecipanti.”

Un’altra definizione riassume: “… affinché il brainstorming sia efficace deve esserci un buon clima di gruppo ed è necessario seguire alcune semplici regole:

− eliminare ogni giudizio o valutazione critica

− andare a ruota libera

− dare importanza alla quantità e non alla qualità delle idee

− associare la propria idea a quella degli altri combinandola insieme

− concentrare l'attenzione su un unico problema

− registrare tutte le idee”

E distingue la fase immaginativa da quella razionale… “A questa fase di "tempesta d'idee" della durata di …. minuti, segue quella "razionale" di almeno due ore dove le idee prodotte sono sottoposte a valutazione secondo determinati criteri di fattibilità.

14 Per l’approfondimento della tecnica del brainstorming si rimanda al “classico” di Osborn Alex F., Applied Imagination. Principles

and Procedures of Creative Thinking, Charles Scribner’s, Sons, New York 1953, nella trad. it. L’arte della creativity. Principi e procedure di creative problem-solving, Franco Angeli, Milano, 2003, settima edizione. Molto valida la recente proposta di Bezzi Claudio e Baldini Ilaria, Il brainstorming. Pratica e teoria, Franco Angeli, Milano 2006

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Un’ultima definizione si rifà ad Osborn: “Infatti secondo Osborn, che la ha ideata, per riuscire a produrre idee qualitativamente elevate per la soluzione dei problemi, bisogna incentivare la produzione in considerevole numero. Il brainstorming tende a sviluppare al massimo tale produzione senza preoccuparsi in prima istanza del loro valore e della loro capacità di portare a soluzione il problema.

Osborn propone quattro norme per condurre una riunione Brainstorming:

a) la critica è esclusa: il giudizio negativo sulle idee deve essere rimandato ad un secondo tempo;

b) la corsa “in folle” è ben accetta: più è audace l’idea meglio è; è più facile frenare che incoraggiare;

c) si cerca la quantità: quanto maggiore sarà il numero delle idee tanto più probabile sarà trovarne di utili e di qualità;

d) si cercano combinazioni e miglioramenti: oltre a contribuire con idee proprie, i partecipanti dovrebbero suggerire come le idee altrui possono essere trasformate in idee migliori o come due idee possono essere fuse in un’altra idea ancora”.

Come si conduce una seduta di brainstorming? Queste sono le azioni nella versione classica: A) La proposta del problema. B) La ripartizione in gruppi. C) I ruoli interni al gruppo (coordinatore e segretario-verbalizzatore). D) La successione degli interventi (sequenziale o libera). E) La verbalizzazione. F) Il punto della situazione. G) La sintesi aperta. H) Il confronto/discussione.

La tecnica è particolarmente utile per gli studenti con difficoltà comunicative (dovute, per esempio, a timidezza) o con povertà lessicale, poiché ciascuno può dire quello che vuole e come lo vuole, protetto dalla rigorosa regola dell'esclusione della critica. Per altro verso è utile anche agli studenti eccessivamente loquaci e prolissi che, costretti nei limiti di tempo a disposizione, sono invitati a sviluppare capacità di sintesi e a rispettare le regole della comunicazione sociale.

La presenza del docente dovrà essere discreta, stimolante e sicura: discreta affinché gli studenti siano centrati sul problema e non sull'insegnante; stimolante perché deve introdurre, se necessario, gli opportuni stimoli per incoraggiare e rinvigorire un gruppo; sicura perché ogni studente deve sentire che il docente garantisce erga omnes l'applicazione delle regole del brainstorming durante i lavori, e perciò le sue idee non sono esposte alla derisione altrui. Al termine dell'attività dei gruppi, il docente governerà la discussione conclusiva, valorizzando il lavoro di ogni gruppo e di ogni studente.

Quando utilizzare la tecnica del brainstorming con gli studenti? In generale, ogni qual volta a) sia necessario condividere i significati sui concetti fondamentali della disciplina15, b) riconoscere il valore delle loro idee, c) insegnare loro il rispetto delle idee altrui e le regole della comunicazione.

Non solo per gli studenti… La tecnica del brainstorming potrebbe essere efficacemente utilizzata anche per rendere più produttive le riunioni tra docenti, come i consigli di classe, le commissioni, ecc., in cui frequentemente regna la mancanza di regole comunicative e di obiettivi condivisi.

15 Pur nella diversità concettuale delle progettazioni didattiche, in tutte si può utilizzare la tecnica del brainstorming. Ma la

metodologia dei modelli esperti e la didattica per concetti hanno puntualizzato l’utilizzo della tecnica. Nella prima (progettazione per padronanze) il brainstorming si usa nelle condivisioni “cognitive”, in particolare nella fase iniziale dei saperi esperti, in quella di personalizzazione del transfer e in quella massimamente produttiva di generalizzazione. Nella seconda (progettazione per concetti), la condivisione dei saperi si svolge mediante la conversazione clinica: questa tecnica, alla stregua di una discussione guidata, si differenzia dal brainstorming a) per lo scopo (serve per approfondire e non per produrre nuove idee), b) per la tipologia di comunicazione (a raggiera, docente-allievo nella conversazione clinica; circolare, allievo-allievo nel brainstorming) e c) per la protezione delle idee personali (assicurata dalle regole nel brainstorming, dall’insegnante nella conversazione clinica).

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Dal web

https://www.youtube.com/watch?v=9K8W4ooygUU Brainstorming done right

https://www.youtube.com/watch?v=4OOCtUL29vk

Andrea Ustillani - Il brainstorming è una strategia utile per fare emergere idee e creatività su un qualsiasi argomento. Questa attività, realizzabile in gruppi grandi o piccoli, stimola negli studenti la capacità di concentrarsi e contribuisce al libero flusso delle idee.

https://www.youtube.com/watch?v=UY3dzTz_njE (dal branstormin alle mappe concettuali)

https://www.youtube.com/watch?v=yAidvTKX6xM

C.6.1 Un brainstorming strutturato: Sei cappelli per pensare

La discussione è usata tradizionalmente dagli occidentali per esplorare un argomento. Ma spesso le parti in causa sono interessate soltanto alla difesa delle proprie posizioni, privando così il metodo dialettico del potenziale creativo e della costruzione di nuove idee. Una tipologia strutturata di brainstorming è quella che aiuta a non affrontare contemporaneamente tutti gli aspetti di un argomento (informazioni, logica, impressioni, creatività, ostacoli, …) ma induce a separare i vari tipi di pensiero e svilupparli separatamente. “Indossare un cappello” quando si partecipa ad un gruppo di studio o di lavoro, o si affronta un problema, significa assumere un certo atteggiamento, che cambia a seconda del cappello che si indossa.

Edward de Bono ha teorizzato questa tecnica nel libro "Sei cappelli per pensare"16. In genere, quando ci poniamo di fronte ad un problema, conserviamo sempre lo stesso atteggiamento, pessimista, emotivo, distaccato. Quando indossiamo un cappello cambiamo atteggiamento. Si indossa il cappello

16 Di De Bono E., accanto a Sei cappelli per pensare, Rizzoli, Milano, 1993, si ricorda Il pensiero laterale, Rizzoli, Milano, 1969; Il

meccanismo della mente, Garzanti, Milano, 1972, Il pensiero pratico, Garzanti, Milano, 1975; I bambini di fronte ai problemi, Garzanti, Milano, 1974; Io ho ragione - Tu hai torto, Sperling & Kupfer, Milano, 1991.

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per uscire (e quindi si è diversi da come si era in casa) o per esercitare una funzione (come quella del vigile).

Cappello bianco

È l’analista. Esamina i fatti e raccoglie informazioni, precedenti, analogie ed elementi, senza giudicarli.

Va indossato nella fase di ricerca, raccolta, sistematizzazione delle informazioni e dei dati disponibili al momento. Abbiamo tutte le informazioni necessarie? Come facciamo a ottenerle? Sono attendibili? E così via: bisogna

diventare degli Sherlock Holmes.

Cappello rosso

È l’emozione costruttiva. Esprime di getto le proprie intuizioni, come suggerimenti o sfoghi liberatori. Vive i sentimenti.

Va indossato per liberare ed esternare pubblicamente le sensazioni, le emozioni e i sentimenti (spesso trattenuti) che possono nascere davanti ad un nuovo progetto. Senza vergognarsi di quello che si dice, senza pudori o censure

preventive (o autocensure).

Cappello nero

È l'avvocato del diavolo. Mette in evidenza gli ostacoli, gli impedimenti, le difficoltà; rileva gli aspetti negativi e le ragioni per cui la cosa non può andare.

Va indossato per giudicare se e perché un’idea non funziona. Non si tratta di generici non mi piace ma di dati di fatto o limiti reali che possono impedire lo sviluppo di un progetto. Serve per evitare cantonate o sbagli o frustranti

dispersioni di risorse.

Cappello giallo

È l’ottimista. Rileva gli aspetti positivi, i vantaggi, le opportunità. Infonde speranza.

Va indossato per esprimere i lati positivi di un’idea. I modi migliori per realizzarla su base logica. I vantaggi concreti che ne possono derivare. Senza trionfalismi o entusiasmi immotivati.

Cappello verde

È il creativo. Indica sbocchi innovativi, germogli di nuove idee, analisi e proposte migliorative, visioni insolite.

Va indossato per liberare la creatività. Per produrre nuove idee. Per muovere le acque stagnanti. Per cercare spunti in ogni direzione. Per far crescere e moltiplicare le alternative allargando gli orizzonti, outside the box.

Cappello blu

È il coordinatore. Stabilisce priorità, metodi, sequenze funzionali. Pianifica, organizza, stabilisce le regole del gioco. Conduce il gioco.

Va indossato per dare una guida al modo di pensare (nel gruppo). Creare una successione dotata di senso al fluire delle idee. Stabilire le priorità da seguire e gli obiettivi da raggiungere. Una funzione normativa per stabilire

un’agenda e un progress efficienti.

Si usano sei cappelli di colore diverso. I cappelli sono simbolici. Anche in classe si "possono indossare" con queste frasi: "mettiamoci il cappello blu" o "togliti il cappello nero" o "ora prova a dirmi che ne pensi con il cappello giallo" … e così via.

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L’insegnante propone il tema/problema e spiega il funzionamento dei cappelli (indossando il cappello blu). Invita i partecipanti ad indossare il cappello bianco e ad analizzare il tema. Controlla che tutti si comportino secondo il cappello indossato. Poi fa cambiare i cappelli. È opportuno, nel tempo, indossare più cappelli. L’incontro termina quando si arriva a risultati soddisfacenti. In genere, gli studenti continuano a "indossare i cappelli" anche dopo.

La tecnica dei sei cappelli è molto raccomandabile, in particolare con gli studenti più giovani, non solo per rendere i gruppi meno conflittuali e più produttivi, ma soprattutto per riconoscere la pluralità di angoli visuali presente in ogni persona.

C.6.2 L’immaginazione in cattedra

Talvolta gli insegnanti rifiutano le tecniche attive, ed in particolare le simulazioni e il brainstorming, adducendo:

a) motivi legati all’impegno professionale (ci vuole troppo tempo per preparare le attività),

b) motivi di tipo didattico (i ragazzi fanno confusione, ridono, ecc.),

c) motivi di tipo curricolare (nella mia materia non si può fare!).

Non è perciò superfluo richiamare alcuni punti di ordine pedagogico e didattico:

1. L’insegnamento è finalizzato all’apprendimento: il tempo dell’insegnamento va organizzato in funzione dell’apprendimento (e non in funzione del programma da completare). Non si può fare scuola usando sempre e comunque tecniche attive, ma non si può fare nemmeno sempre lezione in classe o esercitazioni in laboratorio! È vero che per preparare le attività da far svolgere ai ragazzi spesso ci vuole molto tempo: ma in un anno scolastico se ogni insegnante prepara un’attività e poi la mette in comune con i colleghi, alla fine ci si ritrova con una serie di progetti a disposizione, che si incrementa anno dopo anno.

2. L’insegnamento è governo della situazione formativa: se i ragazzi fanno confusione si possono individuare modi e strumenti (lavori di gruppo, assunzioni di responsabilità17, compiti specifici, ecc.) per coinvolgerli. Se i ragazzi ridono di fronte ad una simulazione sarà sufficiente “accogliere” (e non respingere) quella risata e ragionarci su insieme (perché ci viene da ridere se…, che sensazioni prova

17 Si veda il successivo paragrafo sul Cooperative learning.

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colui che viene deriso, dove sta la dissonanza…). Le emozioni insegnano e consolidano

l’apprendimento.

3. I metodi e le tecniche di insegnamento di una disciplina sono molteplici: ma non c’è insegnamento in cui si possa dire “nella mia materia questa tecnica non si può fare”. Va da sé che alcune discipline prediligono certe tecniche, talvolta derivate dai propri metodi scientifici, ma per lo più date dalla consuetudine scolastica. In tutte le discipline si può simulare l’azione e il pensiero dell’esperto, dello scienziato, dello studioso, dell’artista o dell’artigiano. Si può simulare, sviluppare idee e discutere anche in educazione fisica, o in matematica, o in musica, o in storia, o in tecnologia: non esistono forse anche in queste discipline concezioni e modelli diversi di interpretare e di costruire la propria conoscenza. Ebbene, facciamo provare ai ragazzi che cosa significa essere e pensare e comunicare come un ginnasta o un matematico o un musicista o uno storico o un tecnico.

Dal punto di vista didattico è necessario mettere l’immaginazione in cattedra: quale immaginazione?

a) l’immaginazione dell’insegnante, derivata dalla sua esperienza, sia professionale che esistenziale,

b) l’immaginazione della disciplina: una disciplina scientifica cresce anche attraverso l’immaginazione, ed in particolare dei nuovi paradigmi dei neofiti, di coloro che ancora “non-strutturati” sono aperti all’impensabile,

c) l’immaginazione degli studenti, che in quanto ad immaginazione ne hanno a volontà, se la scuola non gliel’ha inibita.

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C.7 IMPARARE PRODUCENDO CONOSCENZA INSIEME. IL COOPERATIVE LEARNING Nel periodo adolescenziale il gruppo è determinante per la costruzione della personalità dei soggetti,

per la loro maturazione, non solo psichica e sociale, ma anche per quella cognitiva e intellettiva. Per l’adolescente il gruppo è il nuovo punto di riferimento, surroga l'autorità dell'adulto, e la relazione tra l'adolescente e l'insegnante si trasforma notevolmente. Non più solo l'insegnante, quindi, ma soprattutto il gruppo, alla stregua di un contesto organizzato, facilita e promuove l'apprendimento (così come talvolta può negarlo o contrastarlo)18.

Già le tecniche proposte (simulazioni, dimostrazioni / esercitazioni, studi di caso, action learning, il brainstorming, ecc.), e ancor più il cooperative learning, si caratterizzano per la valorizzazione di competenze multiple19 e di stili diversi nella produzione di idee e di soluzioni condivise. Gli allievi sono chiamati ad affrontare un problema o un compito comune: ciascuno di essi proporrà le proprie idee, le proprie esperienze, le proprie modalità intellettive. Il raccordo tra gli studenti dovrà svolgersi sul piano della cooperazione, e non semplicemente su quello della collaborazione. I termini sono talvolta impropriamente considerati sinonimi e in opposizione alla competizione. È opportuno, pertanto, richiamare la distinzione tra i concetti fondanti l’apprendimento in gruppo.

Ecco un semplice esempio. Assegno agli studenti il compito di rappresentare e disegnare la carta politica d’Italia.

A) Situazione competitiva: ogni studente è individualmente chiamato a disegnare la carta politica d’Italia. Lo studente deve aver compreso le regole, ovvero i criteri di successo (es: devono essere correttamente rappresentate tutte le regioni, i capoluoghi di regione, ecc.). Su tali criteri l’insegnante poi valuterà i lavori degli studenti determinando una “classifica” finale. Questo è un punto molto importante: il risultato conclusivo di una competizione è sempre una classifica / graduatoria.

B) Situazione collaborativa: si invita la classe a formare gruppetti, guidati o spontanei, e ad ogni gruppo si assegna il compito di disegnare una parte dell’Italia nel miglior modo possibile: non si danno regole, poiché il principale criterio di successo, benché implicito, è l’imparare a lavorare insieme; il criterio esplicito è il risultato d’insieme del lavoro del gruppo.

C) Situazione cooperativa: ogni allievo ha il compito di disegnare una regione e tutti insieme devono assemblare la carta politica d’Italia: prima di iniziare devono accordarsi sulle regole-criteri (es.: uniformità di scala, simboli, colori, caratteristiche tipografiche, ecc.). Il successo individuale è condizione necessaria ma non sufficiente per il successo collettivo; e l’insuccesso individuale è causa certa dell’insuccesso collettivo (perciò tutti sono chiamati a supportare il singolo in difficoltà).

La competizione va distinta in interna (tra i membri di un gruppo) ed esterna (tra un gruppo e l’altro): il gruppo difficilmente tollera la competizione al proprio interno, ma soltanto nei confronti di gruppi esterni. La competizione interna deve essere attentamente analizzata: può risultare utile per spronare i soggetti a dare il meglio di sé, ma se eccessiva può distruggere la motivazione personale. Le regole della competizione devono essere approvate e condivise prima di avviare il lavoro; la responsabilità dei risultati è sempre individuale.

La collaborazione promuove lo sviluppo di competenze relazionali connesse a spiccate motivazioni di ordine personale e a fattori affettivi. Il gruppo collaborativo generalmente non si dà regole precise prima di avviare il lavoro, ma durante il suo farsi (anche se spesso non se le dà affatto); la responsabilità dei risultati è del gruppo intero indifferenziato.

Con la cooperazione il gruppo promuove, integrandole, le competenze personali e sociali. Le regole della cooperazione devono essere approvate e condivise prima di avviare il lavoro; ogni partecipante è

18 Non esiste l'apprendimento di gruppo, ma in gruppo. L'apprendimento può essere condiviso e partecipato, ma rimane sempre

un processo individuale e personale, anche in presenza di una comunità in apprendimento. 19 È immediato il riferimento alla teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner e agli studi sugli stili cognitivi (Sternberg,

Pask, Cornoldi, ecc.) considerati in altre nostre lezioni e in altri moduli di Area trasversale.

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responsabile di un settore o di una parte del compito e contemporaneamente è responsabile del processo di produzione e del risultato complessivo finale.

C.7.1 Introduzione al cooperative learning

(20) Il cooperative learning, è una modalità di apprendimento che si realizza attraverso la cooperazione con altri compagni di classe, che non esclude momenti di lavoro sia individuali che competitivi. “È una modalità di apprendimento in gruppo caratterizzata da una forte interdipendenza positiva fra i membri. Questa condizione non si raggiunge né riunendo semplicemente i membri, né limitandosi a stimolarli alla cooperazione, né richiedendo loro di produrre insieme un qualche prodotto finale. Essa, invece, è frutto della capacità di strutturare in maniera adeguata il compito da assegnare al gruppo, di allestire i materiali necessari per l'apprendimento e di predisporre le attività per educare i membri ai comportamenti sociali richiesti per un’efficace cooperazione” (M. Comoglio, 1996, p. 6).

La proposta di qualcosa di nuovo spesso provoca resistenze che derivano da abitudini consolidate, da pericoli immaginati, da opinioni contrarie che si sono stratificate nel tempo.

Prima di affrontare il compito di acquisire conoscenze ed abilità per apprendere in gruppo, può essere utile verificare le nostre personali resistenze o preferenze nei confronti di questa modalità di lavoro.

Il metodo di insegnamento/apprendimento del Cooperative Learning si contrappone a una conduzione della classe in genere definita come “tradizionale” o “rivolta a tutta la classe” . Il metodo a gruppo cooperativo viene anche indicato come uno dei metodi “a mediazione sociale”, contrapposto ad altri “a mediazione dell’insegnante”. Le differenze tra i due orientamenti sono di non poco conto perché i due punti di vista tendono a differenziare profondamente la professionalità dell’insegnante e la conduzione della classe. La diversa accentuazione conferita nell’insegnamento alla mediazione dell’insegnante o della classe stessa determina delle contrapposizioni nette a livello di luogo e fonti delle conoscenze e risorse (l’insegnante o gli allievi), obiettivi e compiti (di gruppo o individuali), disciplina e modalità di partecipazione (impegno individuale o aiuto reciproco), valutazione e responsabilità individuale (valutazione individuale o valutazione individuale e/o di gruppo Nelle modalità di insegnamento “con mediazione dell’insegnante”, questi è la principale fonte della conoscenza e del sapere, stabilisce e valuta che cosa deve essere conosciuto, fissa il ritmo dell’apprendimento, suscita la motivazione o la recupera, facilita e individualizza l’apprendimento. Nelle modalità “con mediazione sociale” le risorse e l’origine dell’apprendimento sono soprattutto gli allievi. Gli studenti si aiutano reciprocamente e sono corresponsabili del loro apprendimento, stabiliscono il ritmo del loro lavoro, si correggono e si valutano, sviluppano e migliorano le relazioni sociali per favorire l’apprendimento. L’insegnante è soprattutto un facilitatore e un organizzatore dell’attività di apprendimento.

Conclusione: l’insegnante non è l’unica né la principale risorsa. Tra insegnanti e studenti vi è un coinvolgimento di risorse che arricchiscono le possibilità e la personalizzazione dell’apprendimento

Cosa rende efficace la cooperazione. Per strutturare le lezioni in modo che gli studenti lavorino in maniera veramente cooperativa è necessario conoscere gli elementi base che rendono efficace la cooperazione. Questi elementi marcano la differenza tra il cooperative learning e il lavoro di gruppo tradizionale.

20 I paragrafi C.6.1 e C.6.2 possono essere sostituiti dallo studio della lezione pubblicata on-line, relativa al cooperative learning, in

Pedagogia speciale, Didattica dei BES.

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C.7.2 Cinque elementi essenziali

I cinque elementi essenziali dell’apprendimento cooperativo sono forniti dai fratelli Johnson e dal loro modello: il learning together che è l’impalcatura per l’applicazione dell’apprendimento cooperativo in qualsiasi area e a qualsiasi livello. Sono:

− L’interdipendenza positiva, per cui gli studenti si impegnano per migliorare il rendimento di ciascun membro del gruppo, non essendo possibile il successo individuale senza il successo collettivo;

− La responsabilità individuale e di gruppo: il gruppo è responsabile del raggiungimento dei suoi obiettivi ed ogni membro è responsabile del suo contributo;

− L’interazione costruttiva: gli studenti devono relazionarsi in maniera diretta per lavorare, promuovendo e sostenendo gli sforzi di ciascuno e lodandosi a vicenda per i successi ottenuti;

− L’attuazione di abilità sociali specifiche e necessarie nei rapporti interpersonali all’interno del piccolo gruppo: gli studenti si impegnano nei vari ruoli richiesti dal lavoro e nella creazione di un clima di collaborazione e fiducia reciproca. Particolare importanza rivestono le competenze di gestione dei conflitti, più in generale si parlerà di competenze sociali, che devono essere oggetto di insegnamento specifico;

− La valutazione di gruppo: il gruppo valuta i propri risultati e il proprio modo di lavorare e si pone degli obiettivi di miglioramento21.

Per l’approfondimento si rimanda all’analisi sinottica per una visione completa di come vengano adottati e adattati i cinque elementi dai diversi autori di apprendimento cooperativo (Sharan, Slavin, Kagan e Cohen).

Il primo e più importante elemento è l’INTERDIPENDENZA POSITIVA: si devono assegnare compiti chiari e un obiettivo comune in modo che gli studenti capiscano che è una questione di “uno per tutti, tutti per uno”.

Strutture di interdipendenza

Vi è un’interdipendenza positiva di scopo quando i membri di un gruppo lavorano insieme per raggiungere un risultato comune. Avere lo stesso scopo porta i membri ad aiutarsi reciprocamente perché da soli non sarebbero in grado di conseguirlo.

Si parla di interdipendenza di compito quando i membri, pur avendo uno scopo unico, si suddividono parti del compito da svolgere individualmente ma finalizzato allo stesso obiettivo comune. Ad esempio, dovendo fare una relazione, uno di essi preparerà i lucidi, un altro un testo scritto e impaginato al computer, un altro ancora la presentazione orale. Oppure, dovendo affrontare un tema di storia, uno esaminerà gli eventi artistici del tempi, un altro ancora la cultura sociale e filosofica, un altro la planimetria della città.

Un gruppo può realizzare anche altri livelli di interdipendenza positiva, come quello di risorse. Ci si trova in questo tipo di interdipendenza quando i membri di un gruppo, nel conseguire il loro scopo, dipendono da competenze e abilità differenziate o di materiali (parti conseguenti e interdipendenti ad ognuno o unico).

Si ha interdipendenza di valutazione quando, al termine di un lavoro, il gruppo riceve una valutazione che è ponderata sulla base dei risultati ottenuti da ciascuno dei membri.

Il secondo elemento essenziale è la RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE E DI GRUPPO. Il gruppo deve essere responsabile del raggiungimento dei suoi obiettivi e ogni membro lo deve essere nel contribuire con la sua parte di lavoro (cosa che impedisce lo sfruttamento del lavoro altrui).

21 Pavan–Ellerani, in http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm.

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Il gruppo deve definire in modo chiaro gli obiettivi che vuole raggiungere e deve essere in grado di misurare sia i progressi compiuti verso di essi sia gli sforzi individuali di ogni suo componente. Lo scopo dei gruppi di apprendimento cooperativo è anche quello di rafforzare la competenza individuale di ogni membro del gruppo: gli studenti imparano insieme per potere in seguito fornire prestazioni migliori singolarmente.

Il terzo componente essenziale dell’apprendimento cooperativo è l’INTERAZIONE COSTRUTTIVA, preferibilmente diretta (interazione promozionale faccia a faccia). Gli studenti devono lavorare realmente insieme e promuovere reciprocamente la loro riuscita condividendo le risorse, aiutandosi, sostenendosi, incoraggiandosi e lodandosi a vicenda per gli sforzi che compiono. L’interazione promozionale si realizza attraverso: il cooperative learning informale e le tecniche di creazione del clima (da fare per il mantenimento del clima collaborativo). I gruppi di apprendimento cooperativo fungono da sistema sia di sostegno scolastico (ogni studente ha qualcuno che lo aiuta a imparare) sia di sostegno personale (ogni studente ha qualcuno lo aiuta come persona).

Il quarto elemento essenziale dell’apprendimento cooperativo consiste nell’insegnare agli studenti le abilità necessarie nei rapporti interpersonali all’interno del piccolo gruppo. Nei gruppi di apprendimento cooperativo gli studenti devono imparare sia i contenuti delle materie scolastiche sia le abilità interpersonali e di piccolo gruppo. Queste ABILITÀ SOCIALI devono essere insegnate con la stessa consapevolezza e cura con cui si insegnano le abilità scolastiche.

Il quinto componente essenziale dell’apprendimento cooperativo è la REVISIONE di gruppo e la VALUTAZIONE del singolo e del gruppo. Nella revisione di gruppo i membri verificano e discutono i progressi compiuti verso il raggiungimento degli obiettivi e l’efficacia dei rapporti di lavoro.

Quando i gruppi lavorano su compiti in cui è difficile identificare il contributo fornito dai singoli partecipanti, quando c’è una mancanza di coesione nel gruppo, quando vi è una scarsa responsabilità per il risultato finale, il livello di partecipazione e di coinvolgimento di alcuni membri potrà ridursi al minimo. Se, al contrario, c’è un’alta responsabilità individuale ed è chiara l’entità dell’impegno che ciascuno deve fornire, se sono evitati sforzi ridondanti, se ogni membro “si sente” responsabile del risultato finale e se il gruppo è coeso, allora il disimpegno nel gruppo (SOCIAL LOAFTING) svanisce. Quanto più piccolo è il gruppo, tanto più elevata potrà essere la responsabilità individuale.

C.7.3 Formare i gruppi

Prima di formare gruppi di cooperative occorre creare all’interno della classe l’interazione promozionale faccia a faccia.

GRUPPI PICCOLI da 2 o da 4 (evitare il 3). Però :

− Maggiori sono le dimensioni del gruppo e maggiori sono le capacità, conoscenze e abilità e il numero delle menti disponibili per l’acquisizione e l’elaborazione delle informazioni.

− Minore è il tempo disponibile e più piccolo dovrebbe essere il gruppo.

− Più il gruppo è piccolo e più è difficile che gli studenti si “imboschino” e non contribuiscano attivamente.

− Più il gruppo è grande e maggiori devono essere le abilità dei suoi membri per gestire tutti. Un tipico errore commesso da molti insegnanti è quello di far lavorare gli studenti in gruppi di 4 o 5 o 6 persone, prima che abbiano acquisito le abilità per farlo in maniera competente (in una coppia si gestiscono 2 interazioni; in un gruppo da tre 6 interazioni; in un gruppo di quattro 12 interazioni).

− Evitare di creare le condizioni perché nel gruppo vi sia un leader. Nel cooperative la leadership è distribuita.

− Il Sociogramma è utile solo per individuare gli esclusi.

− Presentazione dei ruoli. Un modo per introdurre il concetto dei ruoli alla vostra classe è quello di usare l’analogia con lo sport di squadra. Fa una lista dei vari ruoli in una squadra. (chi è e che cosa fa

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il mediano, il terzino ecc..) Poi spiegate che state per organizzare la classe in gruppi di apprendimento cooperativo in cui ogni membro rivestirà un ruolo chiave.

− Decidere quali ruoli includere in una lezione. Nel programmare la lezione pensate bene a quali sono le azioni necessarie per massimizzare l’apprendimento dello studente. I ruoli definiscono ciò che gli altri membri del gruppo si aspettano da uno studente e ciò che quella persona ha il diritto di aspettarsi dai compagni. Nei gruppi cooperativi i ruoli corrispondono spesso a funzioni che favoriscano la gestione e il funzionamento del gruppo, che lo stimolino e che promuovano l’apprendimento degli studenti.

Occorre iniziare da ruoli semplici (funzionamento e gestione del gruppo) Es: controllare i toni di voce, controllare i rumori, controllare i turni di parola, spiegare idee e procedure, registrare, incoraggiare la partecipazione, osservare i comportamenti, ecc. Ogni funzione viene supportata da una scheda di annotazione/osservazione.

Ruoli fondamentali nei quali preparare gli studenti (Kagan)

1. Incoraggiatore: colui che incoraggia

2. Praiser: colui che dimostra apprezzamento

3. Cheerleader: colui che muove tutti gli studenti a fare e dimostrare apprezzamenti

4. Gatekeeper: colui che controlla che nel gruppo ci sia un’uguale partecipazione di tutti

5. Facilitatore: colui che segue e aiuta nell’apprendimento dei contenuti

6. Question domander (intervistatore): colui che le domande e gli interrogativi di qualcuno siano espressi

7. Checker: colui che controlla l’apprendimento

8. Taskmaster: colui che controlla che tutti i membri del gruppo no si distraggano e rimangano concentrati

9. Recorder: colui che memorizza le decisioni del gruppo

10. Reflector: colui che sta attento a riassumere ogni tanto il punto in cui si è o richiama i membri all’uso della competenza della settimana

11. Quiet captain: colui che controlla il tono di voce dei membri del gruppo

C.7.4 Approfondimento. Cooperative Learning: se ne parla in rete22

Cooperative Learning 1 (2’:06”)

https://www.youtube.com/watch?v=bOyYgx3HelA&src_vid=qI2jj8U33Z4&feature=iv&annotation_id=annotation_159429 - con la seguente mappa concettuale:

22 Poiché lo studio della tecnica del cooperative learning non può esaurirsi in poche note, si rinvia alla copiosa letteratura in merito,

e ai materiali reperibili in rete. È interessante la serie di ScuolaInterattiva su youtube.

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Cooperative Learning 2 (15’:13”) - le caratteristiche fondamentali

https://www.youtube.com/watch?v=qI2jj8U33Z4

Cooperative Learning 3 (4’:54”) - L'interdipendenza positiva

https://www.youtube.com/watch?v=P6Px0mD2H5M

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C.7.5 Approfondimento. The Flipped classroom ovvero la Classe capovolta

L’idea-base della «flipped classroom» è che la lezione diventa compito a casa mentre il tempo in classe è usato per attività collaborative, esperienze, dibattiti e laboratori. In questo contesto, il docente non assume il ruolo di attore protagonista, diventa piuttosto una sorta di “mentor”, il regista dell’azione pedagogica. Nel tempo a casa viene fatto largo uso di video e altre risorse e-learning come contenuti da studiare, mentre in classe gli studenti sperimentano, collaborano, svolgono attività laboratoriali. A tutti gli effetti il «flipping» non è tanto un approccio pedagogico, quanto una filosofia da usare in modo fluido e flessibile, a prescindere dalla disciplina o dal tipo di classe. È importante che il tempo ‘guadagnato’ in classe grazie al flipping venga usato in maniera ottimale e che le risorse utilizzate dallo studente nel tempo a casa siano di qualità elevata, oltre ad essere calibrate sul livello di conoscenza fino a quel momento raggiunto dall'allievo. Una libreria di contenuti integrata con video online vagliati in base a qualità e accessibilità è il miglior punto di partenza per ottenere un buon risultato finale. FLIPPED CLASSROOM (la classe capovolta) Insegnamento capovolto – http://it.wikipedia.org/wiki/Insegnamento_capovolto The Flipped classroom ovvero la Classe capovolta http://cristianaziraldo.altervista.org/the-flipped-classroom-ovvero-classe-capovolta/ Maurizio Maglioni, Fabio Biscaro, La classe capovolta, Erickson, Trento 2014.

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C.7.6 Approfondimento. JIGSAW : una tecnica di cooperative learning

(da: http://digilander.libero.it/scuolaacolori/faq/intercultura/jigsaw.htm)

Il Jigsaw (letteralmente gioco ad incastro, puzzle) è una tecnica utilizzata dall'insegnamento cooperativo (o cooperative learning) e ideata negli anni '70 in America dal dott. Elliot Aronson e i suoi collaboratori.

L'idea base che muove gli autori è molto semplice: gli studenti in classe spesso vivono una situazione di insofferenza e di rifiuto perché non si sentono protagonisti e responsabilizzati.

Come intervenire allora? con un gioco ad incastro ad ogni allievo viene assegnato un compito che è essenziale al gruppo, senza il quale il gruppo intero ne soffre e viene penalizzato, quindi ogni allievo si sente responsabilizzato a partecipare attivamente all'attività didattica.

Fasi dell' intervento:

PRIMA FASE: la classe viene divisa in gruppi (eterogenei per competenze, genere, nazionalità...) di 4 o 5 allievi. Questi gruppi li chiameremo "gruppi base".

Esempio: studio dei paesi del Sud America. Classe di 25 allievi, divisi in 5 gruppi. Ogni gruppo studierà un Paese.

Ad ogni alunno del "gruppo base", viene affidato una competenza specifica.

Nel nostro esempio all'allievo A di ogni gruppo viene affidato il compito di creare una tabella con i dati significativi del Paese, all'allievo B studiare la morfologia del terreno e i climi; all'allievo C gli aspetti storici; all'allievo D gli aspetti sociali; all'allievo E gli aspetti culturali.

SECONDA FASE: Tutti i ragazzi A si incontrano tra di loro per individuare procedure univoche e contenuti da considerare. Chiamiamo questo gruppo "gruppo tecnico". In questa fase ogni alunno diventerà competente di quello specifico ambito perché nella fase successiva dovrà relazionare al gruppo-base.

Nell'esempio i ragazzi del gruppo A stabiliscono quante righe e colonne dovrà avere la tabella e quali le voci da considerare. Ciascuno dovrà imparare i termini relativi al Paese da studiare. Avremo quindi 5 "gruppi di base" e 5 "gruppi tecnici"

TERZA FASE: Si ritrovano i "gruppi base", in cui adesso ciascun allievo è "esperto" di una fase del lavoro e di questa sua conoscenza deve rendere partecipi i compagni che ne sono del tutto privi. Viene svolto il lavoro dato in consegna

Vantaggi. Questa tecnica permette all'allievo di responsabilizzarsi, sia verso l'insegnante che verso il gruppo base, imparando nel contempo a lavorare in modo cooperativo al fine di raggiungere un obiettivo comune.

Gli studenti diventano di volta in volta gli esperti del gruppo (assumono il ruolo di insegnanti) e devono verbalizzare efficacemente, individuando modalità creative per spiegare al gruppo (e poi alla classe) il loro argomento.

Modalità di intervento. I tempi delle tre fasi variano a seconda del lavoro distribuito. E' meglio cominciare con qualcosa di semplice e verificarne l'esito.

Come per tutte le attività di insegnamento cooperativo è possibile assegnare dei ruoli intercambiabili all'interno dei gruppi-base (il cronometrista, il responsabile, il portavoce...), anche questo permette agli alunni di sperimentare specifiche abilità sociali.

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Il Jigsaw si apprende più facilmente nelle elementari, ma è stato sperimentato efficacemente anche alle medie e alle superiori. Lo studente con ritmi lenti di apprendimento può essere abbinato nella seconda fase con un compagno che appare più efficace nel rapporto interpersonale e per loro questa fase può durare più a lungo.

L'insegnante forma i gruppi, segue le varie fasi, può assegnare delle domande di comprensione nelle varie fasi, verifica i livelli di conoscenza globali del gruppo-base e dà una valutazione individuale e collettiva.

Cooperative learning con metodo Jigsaw (uno spunto di una insegnante di materie scientifiche)23

Materiale necessario: libri in adozione; eventuale approfondimenti su siti web, soprattutto per la ricerca di immagini.

Prima parte: 1 ora - Presentazione dell'argomento

Suddivisione degli alunni in 6 gruppi da 4 persone. Ad ogni gruppo viene assegnato lo studio dell'argomento, articolato in 4 micro-argomenti diversi, uno per ogni componente il gruppo. Ogni membro sarà l'esperto per conto del gruppo relativamente alla parte assegnata.

Seconda parte: 4 ore

I membri dei gruppi che hanno lo stesso argomento (esperti), si ritrovano insieme per discutere i loro argomenti, confrontare le opinioni, operare degli approfondimenti su quanto letto. In questa fase devono organizzare delle modalità attraverso le quali accertare la loro comprensione. Ultimata questa fase, i membri esperti ritornano nel loro gruppo originario.

Terza parte: 5 ore

Ciascun esperto spiega il proprio argomento ai compagni. È prevista anche una valutazione critica del lavoro svolto da ciascuno studente da parte degli altri membri del gruppo. Ogni gruppo dovrà, infine, predisporre e realizzare una dispensa/un cartellone/un video (io ho scelto una piccola dispensa di 15/20 pagine) ed una presentazione orale dell'argomento.

Quarta parte: 3 ore (ovvero 30 minuti per ogni gruppo)

Presentazione orale del lavoro svolto.

Ogni studente viene valutato per:

• l’elaborato realizzato con il gruppo;

• la presentazione orale dell’elaborato realizzata insieme ai membri del gruppo;

• la capacità di:

o pianificare il lavoro, avanzare proposte e fornire informazioni;

o ascoltare e rispettare i ruoli di ciascuno.

Comunico loro sempre sia i criteri sia le modalità di valutazione. Dedico una lezione alla presentazione del progetto, qualunque esso sia; è importante che i ragazzi diano la loro opinione e soprattutto capiscano cosa stiamo facendo, con quali obiettivi e per quale motivo. Magari contestano qualche aspetto, ma certamente ti seguono meglio.

23 Da http://www.metadidattica.com/2014/02/22/cooperative-learning-con-metodo-jigsaw-uno-spunto-della-prof-ssa-tania-

tanfoglio/

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C.7.7 Approfondimento. L’integrazione delle tecniche: A suon di parole – Il gioco del contradditorio

“Il progetto si può definire come un torneo dibattito. Gli studenti si affrontano con lo scopo di vincere delle gare

basate sulla capacità di argomentare e contro argomentare attorno a tematiche di carattere civico e sociale. Detto

con altre parole gli studenti si sfidano “A suon di parole”.

A suon di parole va certamente inquadrato nel filone relativo alla formazione delle competenze chiave europee. In

particolare l’attività è finalizzata allo sviluppo delle competenze sociali e civiche, logico-argomentativo, spirito

d’iniziativa e intraprendenza.

La rilevanza formativa del progetto può essere inquadrata nell’ambito:

• della Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle competenze chiave

• dei Regolamenti nazionali per il riordino del Secondo ciclo di istruzione

• dei Piani Provinciali di Studio del Trentino

Letteratura

• Quinn S., Debating in the World School’s Style: A Guide , Paperback –2009

• Snider A., Sparking the Debate. How to Create a Debate Program, I.D.E.A., New York, 2014

• Sommaggio P., Contraddittorio Giudizio Mediazione. La danza del demone mediano, Milano: Franco Angeli,

2012

• Cattani A. e De Conti M. (a cura di), Didattica, dibattito, didattica, fallacie e altri campi dell’argomentazione,

Loffredo – University Press, collana “Suadela” n. 5, Napoli 2012

• Tamanini, C. (2014). Il torneo argomentativo a “Suon di Parole”. Firenze: Indire

Articoli online:

• Claudia Cristoforetti, Da gioco del contraddittorio a percorso formativo

• Michele Dossi, L’esperienza in prima persona della controversia

• Laura Simeon, La verifica di una sperimentazione a scuola

• Chiara Tamanini, Il Torneo argomentativo “A Suon di Parole”

(video: http://www.jus.unitn.it/services/arc/2013/0607/home.html ) Le classi quarta Scientifico E Liceo “A. Maffei” di Riva del Garda e quarta Scientifico E Liceo “L. da Vinci” di Trento si sfidano sul tema “L’uscita dalla crisi implica una decrescita/non implica una decrescita”

C.7.8 Approfondimento. La Comunità di Pratica

L’apprendimento non “avviene” solo in rapporto all’insegnamento, ma è un processo collegato ad una comunità, ad un contesto.

Rifacendosi direttamente alla teoria dell'apprendimento sociale della conoscenza di Vygotskij (1931), Lave e Wenger (1991) hanno messo a punto il concetto di situated learning: a loro avviso l’apprendimento avviene nel contesto stesso in cui il soggetto agisce, all'interno di una “comunità di pratica”. Il processo di apprendimento non può essere considerato semplicemente come acquisizione di conoscenze astratte e decontestualizzate, ma come un processo sociale in cui la conoscenza è co-costruita, in situazioni specifiche, ed è integrato all'interno di un particolare ambiente sociale e fisico.

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Anche la classe scolastica può trasformarsi in una comunità di pratica. “ Gli studenti comprendono e assimilano in misura maggiore quando hanno a che fare con situazioni reali rispetto a quanto devono apprendere in situazioni decontestualizzate.” (Comoglio, 2002: 96).

Molto utile per la formazione adulta, professionale, anche per i docenti.

La Comunità di Pratica riunisce un gruppo di persone che, all’interno di una struttura organizzata, svolgono attività affini ed interagiscono tra di loro, anche in maniera informale. La comunanza di interessi ed obiettivi e la necessità di risolvere problemi comuni creano una forte coesione tra queste persone: l’interazione sociale consente di scambiare vissuti, esperienze e pratiche lavorative, generando un patrimonio di conoscenze comuni. Lo studioso Etienne Wenger sostiene che le Comunità di Pratica sono caratterizzate da:

• impegno in una qualsiasi attività;

• coesione sociale tra i membri della comunità;

• condivisione di una cultura professionale specifica.

Le Comunità di Pratica sono le vere detentrici della conoscenza tacita condivisa, cioè del know how e del sapere operativo che nasce dall’esperienza comune di chi presidia i processi e che è più difficile da socializzare e tradurre in conoscenza codificata. In quanto fenomeno spontaneo ed adattivo, la Comunità di Pratica rappresenta uno dei fenomeni organizzativi più rilevanti per lo sviluppo della conoscenza.

Alla base della capacità di apprendimento e creazione di conoscenza di una Comunità di Pratica ci sono quattro condizioni:

• un senso di identità e di mission;

• la possibilità di contribuire alla capacità del sistema di adattarsi e mantenersi di fronte ai cambiamenti interni ed esterni;

• la capacità di percepire e valutare la realtà;

• la capacità di fare integrazione interna ed allineamento tra i sottosistemi che costituiscono il sistema nella sua interezza.

Il ruolo del formatore. Le comunità sono moderate dal formatore, ma i protagonisti del gruppo sono i partecipanti. Nella fase di avviamento della comunità il formatore può svolgere attività di coaching con incontri in presenza, incontri periodici di monitoraggio. Nel caso in cui le comunità siano chiamate a svolgere lavori on line, il formatore può assumere anche il ruolo di e-tutor assicurando interazione, assistenza tecnica, supporto metodologico, scaffolding cognitivo ed emotivo, animazione delle attività. A cosa serve? La creazione di Comunità di Pratica risponde alle seguenti finalità:

• divenire luogo di valorizzazione dei saperi e delle esperienze, maturati nei contesti di esperienza e di lavoro dei membri di ciascuna comunità;

• divenire luogo di attivazione di un sistema di apprendimento e di creazione e scambio di conoscenze, che divenga strumento di miglioramento continuo per tutta l’organizzazione.

La collaborazione tra pari nell’apprendimento aiuta inoltre a sviluppare abilità e strategie legate al problem solving, attraverso l’interiorizzazione di quei processi cognitivi impliciti nella relazione.

Quando è utile? Le Comunità di Pratica e di apprendimento rappresentano una leva strategica fondamentale per l’organizzazione. Il presupposto alla base di questa metodologia di formazione è che l’apprendimento non si basa unicamente su elementi teorici, ma anche sul bagaglio di conoscenza personale e di esperienza di ogni singolo membro della comunità. Le potenzialità legate alle Comunità di Pratiche si rivelano anche nelle situazioni d’azione complesse, in cui agli attori è richiesta, con urgenza, la capacità di ristrutturare il proprio campo di intervento. Il modello di comunità infine, oltre a rispondere alla domanda di flessibilità della formazione, si sta proponendo sempre più nel contesto della formazione a distanza come evoluzione dell’apprendimento in rete.