Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla...

64
1 Dispensa di diritto penale

Transcript of Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla...

Page 1: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

1

Dispensa di diritto penale

Page 2: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

2

Le condizioni obiettive di punibilità. L’omissione penalmente rilevante.

Page 3: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

3

Indice

L’ART. 131 BIS C.P.

SULLA POSSIBILITÀ DI REVOCARE PER SOPRAVVENUTA ABOLITIO CRIMINIS LE

SENTENZE DI PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO

PASSATE IN GIUDICATO: Tribunale di Enna, 22 giugno 2016

SULL’APPLICABILITÀ DELL’ART. 131 BIS C.P. AI REATI CHE APPARTENGONO

ALLA COMPETENZA DEL GIUDICE DI PACE:

Corte di Cassazione, sez. IV, 29 settembre 2016, n. 40699

Corte di Cassazione, sez. V, 2 novembre 2016, n. 45996

SULL’APPLICABILITÀ DELL’ART. 131 BIS C.P. ALLE FATTISPECIE CONTINUATE:

Corte di cassazione, 13 luglio 2015, n. 29897

LE CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITÀ

Cass. pen., sez. V, 9 gennaio 2015, n. 19548

Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012 (dep. 6 dicembre 2012), n. 47502 ( Corvetta)

OMISSIONE PENALMENTE RILEVANTE

1. L’AMBITO DELLA CLAUSOLA DI EQUIVALENZA.

1.a) I REATI SENZA EVENTO. IL CASO DEL FAVOREGGIAMENTO PERSONALE:

Cass., sez. un., 5 giugno 2007, n. 21832

1.b) I REATI A CONDOTTA VINCOLATO. IL CASO DELLA TRUFFA PER SILENTIUM:

Cass. pen., sez. fer., 27 novembre 2012, n. 46034

2. L’OMISSIONE NEL CONCORSO DI PERSONE.

2.a) CONNIVENZA NON PUNIBILE E CONCORSO NEL REATO: Cass. pen., sez. I, 21

gennaio 2015, n. 7845

2.b) RESPONSABILITÀ PENALE DEGLI AMMINISTRATORI SOCIETARI SENZA

DELEGHE PER REATI COMMESSI DAI DELEGATI: Cass. pen., sez. V, 25 maggio 2009, n.

21581

2.c) RESPONSABILITÀ DELL’OPERATORE DELLA RETE PER I REATI COMMESSI

DALL’UTILIZZATORE DEI SERVIZI:

IL CASO GOOGLE: Cass. pen., sez. III, 3 febbraio 2014, n. 5107.

Page 4: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

4

LA CAUSALITÀ

2.a). I CRITERI DI ACCERTAMENTO: Cass. sez. un., 11 settembre 2002, Franzese

2.b.) LE CONCAUSE

2.B).1. L’ERRORE DEL MEDICO: Cass. pen., sez. IV, 4 aprile 2013, n. 15685.

2.B).2. LA RILEVANZA DEL COMPORTAMENTO COLPOSO DEL LAVORATORE: Cass.

pen., sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21587

2.c.) CAUSALITÀ ED ESPOSIZIONE AD AMIANTO:

Cass. pen., sez. IV, 21 novembre 2014 (dep. 16 marzo 2015), n. 11128.

Trib. Milano, Sez. V, sent. 30 aprile 2015 (dep. 15 luglio 2015), Giud. Cannavale, imp. Conti e altri

Trib. Mantova, 14 ottobre 2014 (dep. 12 gennaio 2015), giud. Grimaldi

Page 5: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

5

Selezione giurisprudenziale

L’ART. 131 BIS C.P.

SULLA POSSIBILITÀ DI REVOCARE PER SOPRAVVENUTA ABOLITIO CRIMINIS LE

SENTENZE DI PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO

PASSATE IN GIUDICATO: Tribunale di Enna, 22 giugno 2016

Poiché il proscioglimento per particolare tenuità del fatto consente di affermare che una condotta

"particolarmente tenue" è comunque idonea ad integrare un fatto tipico in tutte le sue dimensioni e

componenti, per il principio del favor rei, deve ritenersi meritevole di accoglimento la richiesta di revoca della

sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, nel caso in cui venga successivamente abrogata la

norma incriminatrice alla base della decisione, attraverso l'applicazione analogica dello stesso art. 673 c.p.p.,

ammissibile senza incorrere nel divieto di cui all'art. 14 delle preleggi trattandosi di analogia in bonam

partem.

Con la sentenza n. 683/15 emessa dal Tribunale di Erma il 3 giungo 2015, irrevocabile il 16 ottobre 2015, è stato

assolto dal reato di cui agli artt. 81 cpv c.p. e 2 comma 1 bis Legge n. 638/1983, per avere omesso il versamento

di euro 94,94 in quanto «.non punibile per la particolare tenuità del fatto ai sensi dell 'art. 131 bis c.p. ».

Con il presente incidente di esecuzione, la difesa dell'istante ha chiesto la revoca della suddetta sentenza avendo il

D.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8 trasformato in illecito amministrativo l'omesso versamento di ritenute previdenziali

ed assistenziali di importo inferiore ai 10.000,00 euro annui.

L'istanza è fondata e deve essere accolta.

Deve chiarirsi, anzitutto, che il D.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8 ha operato una parziale abrogazione del reato di cui

all'art. 2 comma 1 bis Legge n. 638/1983 avendo ristretto le condotte omissive penalmente rilevanti a quelle per

importi superiori ai 10.000,00 euro annui.

Le condanne passate in giudicato, per importi inferiori alla nuova soglia di punibilità, pertanto, andrebbero

certamente revocate ai sensi dell'art. 673 c.p.p. perché il fatto non è [più] previsto dalla legge come reato (come

chiarito, con disposizione invero superflua, dall'art. 8 comma 2 del medesimo decreto legislativo).

Nel caso di specie, deve chiarirsi se l'istituto di cui all'art. 673 c.p.p. possa applicarsi anche alle sentenze

di proscioglimento per particolare tenuità del fatto.

Per rispondere adeguatamente al quesito occorre evidenziare che l'articolo 673 c.p.p., quale diretta

esplicazione del principio nulhim crimen, nulla poena sine lege di cui agli articoli 7 CED U e 25

comma 2 Cost. ha sancito il superamento del dogma dell'intangibilità della res indicata, consentendo la

sua risoluzione (totale o parziale) ogniqualvolta appaia necessaria a tutela della credibilità e della

coerenza dell'ordinamento. Sul piano logico, invero, una volta eliminata la premessa maggiore (la norma

incriminatrice) è doveroso rimuovere anche la conclusione del sillogismo giuridico basato su quella premessa

(sentenza di condanna).

Si tratta di istituto che, unitamente alla disciplina della continuazione in executìvis, attraverso l'attribuzione al

giudice dell'esecuzione di un complesso di poteri diretti ad adeguare l'originario comando ad esigenze di giustizia

sopravvenute alla sua irrevocabilità, completa funzionalmente il sistema, consentendo di intervenire sul

giudicato in tutte quelle situazione in cui risulti manifesta l'iniquità del titolo esecutivo, ex se o quoad

poenam.

L'ambito di applicazione dell'istituto è esteso, non solo alle sentenze di condanna – ai sensi dell'art. 533

c.p.p. - ma anche a quelle di proscioglimento nei casi di estinzione del reato (ad esempio per

prescrizione) o per mancanza di imputabilità (art. 673 c. 2 c.p.p.), poiché anche in questi casi possono

residuare effetti pregiudizievoli per il soggetto.

Page 6: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

6

In questi termini, ad esempio, la Cassazione ha ritenuto applicabile lo strumento dell'articolo 673 c.p.p. alla

sentenza di applicazione pena su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.p., con riguardo ad un fatto successivamente

depenalizzato, anche quando sia precedentemente maturata la fattispecie estintiva di cui al secondo comma

dell'art. 445 c.p.p. In questo caso, infatti, per il combinato disposto degli artt. 686 e 689 c.p.p. residua la iscrizione

della sentenza di patteggiamento nel certificato del casellario giudiziale non rilasciato a richiesta di privati quale

effetto penale della condanna (cfr. Cass. pen. Sez. Ili, 15.01.2002, n. 7088).

Fatte queste premesse di carattere generale, occorre verificare se l'istituto di cui all'art. 673 c.p.p. possa

trovare applicazione anche per la sentenza di proscioglimento per un reato «non punìbile per la

particolare tenuità del fatto ai sensi dell 'art. 131 bis c.p. ».

Ebbene, l'art. 131 bis c.p., introdotto con il D.lgs. 16 marzo 2015 n. 28 introduce nel sistema una nuova causa di

non punibilità per la «particolare tenuità del fatto».

Nelle intenzioni del legislatore, il nuovo istituto trova fondamento nei principi di sussidiarietà del diritto penale e

di proporzione della sanzione penale rispetto ad un fatto tipico ma particolarmente tenue in punto di offesa al

bene giuridico protetto. La norma, inoltre, risponde a chiare esigenze di economia processuale e di

alleggerimento del carico giudiziario.

Proprio la natura di causa di non punibilità consente di affermare che una condotta "particolarmente tenue" è

comunque idonea ad integrare un fatto tipico in tutte le sue dimensioni e componenti: oggettive, soggettive e di

(modesta) lesività. La sussistenza dei presupposti per l'applicazione della norma in esame, in altre parole, esclude

l'assoggettabilità dell'autore di un fatto-reato alla pena che dovrebbe conseguirne, ma non l'antigiuridicità del

fatto-reato medesimo. Conclusione questa che trova un preciso riscontro normativo nell'art. 651 bis c.p.p.

(anch'esso introdotto dal D.lgs. 16 marzo 2015 n. 28), il quale stabilisce che la sentenza di proscioglimento per

particolare tenuità del fatto «ha efficacia di giudicato quanto ali 'accertamento della sussistenza del fatto, della sua

illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso» in sede civile o amministrativa.

Sul punto si è recentemente espressa anche la Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che la declaratoria di

estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui

all'art. 131-bis c.p. «perchè il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l'illecito penale

nella sua materialità storica e giuridica» (cfr. Cass., Sez. 3, n. 27055 del 26.05.2015).

Come dimostrano tali rilievi, le sentenze emesse ai sensi dell'art. 131 bis c.p., sottendono un giudizio di

colpevolezza dal quale, pur non scaturendo l'applicazione della pena, discendono effetti pregiudizievoli

per l'imputato, quali quelli indicati dal già richiamato art. 651 bis c.p., come anche l'iscrizione del fatto

accertato all'interno del casellario giudiziale, come previsto dal riformato art. 3 comma 1 lett. f) del

D.P.R. N . 313 del 2002 (iscrizione necessaria per fondare, unitamente ad altro precedente specifico, il giudizio

di abitualità del comportamento ai fini dell'esclusione prò futuro della stessa causa di non punibilità).

Per queste ragioni deve ritenersi meritevole di accoglimento la richiesta di revoca della sentenza di

proscioglimento per particolare tenuità del fatto, nel caso in cui venga successivamente abrogata la

norma incriminatrice alla base della decisione.

Accoglimento che appare, inoltre, costituzionalmente imposto dal principio di uguaglianza. (omissis)

Ritiene questo giudice che il mancato inserimento delle sentenze di proscioglimento per particolare tenuità del

fatto tra i provvedimenti revocabili ai sensi dell'art. 673 c.p.p. possa essere superato, senza investire della

questione la Corte Costituzionale, attraverso l'applicazione analogica dello stesso art. 673 c.p.p.,

ammissibile senza incorrere nel divieto di cui all'art. 14 delle preleggi trattandosi di analogia in bonam

partem.

Nel caso di specie, invero, ricorrono tutti i presupposti del procedimento analogico.

Sussiste, anzitutto, una lacuna normativa giacché l'art. 673 c.p.p. non contempla le sentenze di proscioglimento ai

sensi dell'art. 131 bis c.p. tra quelle suscettibili di revoca in caso di abrogazione della norma incriminatrice. Né tali

sentenze possono farsi rientrare, attraverso interpretazione estensiva, nelle tipologie di provvedimenti indicati

nell'art. 673 c.p.p. (sentenze di condanna, sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione

del reato o per mancanza di imputabilità).

Page 7: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

7

La revoca delle sentenze di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, inoltre, trova la medesima ratio legis

delle ipotesi espressamente contemplate dall'art. 673 c.p.p. Come visto, infatti, anche in questo caso l'abrogazione

della norma incriminatrice - sulla quale si fonda il riconoscimento di un fatto tipico, per quanto tenute – rende

necessaria la rimozione di una decisione dalla quale derivano effetti comunque pregiudizievoli per il soggetto, alla

stessa stregua delle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità.

L'art. 673 c.p.p., inoltre, non può considerarsi norma eccezionale, in quanto applicazione in sede esecutiva del

principio millum crimen sine lege davanti al quale anche il principio dell'intangibilità del giudicato deve arretrare.

La revoca della sentenza in oggetto, inoltre, comporta la cancellazione dell'iscrizione della stessa nel casellario

giudiziale ai sensi dell'art. 5 comma 2 lett. a) del D.P.R. 313/2002.

P.Q.M.

visto l'art. 673 c.p.p.

revoca la sentenza di assoluzione per particolare tenuità del fatto emessa nei confronti di (omissis)

SULL’APPLICABILITÀ DELL’ART. 131 BIS C.P. AI REATI CHE APPARTENGONO

ALLA COMPETENZA DEL GIUDICE DI PACE:

Corte di Cassazione, sez. IV, 29 settembre 2016, n. 40699

L’art. 131 bis c.p. è applicabile anche ai reati di competenza del giudice di pace. Tale

conclusione poggia sull’assenza di indicazioni normative a favore della tesi negativa e sulle

differenze tra l’istituto di cui all’art. 131 bis c.p. e quello di cui all’art. 34 d.lgs. 274 del 2000.

Si afferma altresì che sarebbe altamente irrazionale e contrario ai principi generali che la

disciplina sulla tenuità del fatto che trova la sua ispirazione proprio nel procedimento penale

avanti al giudice di pace, sia inapplicabile per i reati attribuiti alla competenza di quel giudice,

ove invece dovrebbe farsi unicamente riferimento a quella specifica e più stringente di cui

all'art. 34 citato.

(omissis)

3. Va dapprima esaminato il quarto motivo di ricorso (con cui il ricorrente invoca la declaratoria di non punibilità

per lieve entità del fatto) che propone una questione pregiudiziale (cfr. SS.UU. n. 13681 del 2016) della causa di

esclusione della punibilità introdotta dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, art. 1, che ha inserito nel codice penale

l'art. 131 bis c.p.. Il testo della norma dispone quanto segue: (omissis). Alla luce di tali previsioni normative deve

ritenersi l'applicabilità dell'istituto alla fattispecie in esame, trattandosi di reato punito con pena detentiva

inferiore nel massimo a cinque anni, oltre alla pena pecuniaria; il comportamento addebitato all'imputato non

risulta inoltre abituale, mentre la minima offensività del fatto è stata sostanzialmente ritenuta dal giudice di primo

grado, che ha applicato la sola pena pecuniaria nella misura di 500,00 Euro. La norma è peraltro applicabile ai

processi non definiti con sentenza passata in giudicato in quanto più favorevole al reo, in base al principio di

legalità penale enunciato dall'art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (CEDU), così come

interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo, nella prospettiva della più completa tutela dei diritti fondamentali

della persona e così come affermato dalle SS.UU. (cfr. già citata sentenza n. 13681 del 25/02/2016, Rv. 266593),

secondo cui l'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall'art. 131-bis c.p., avendo

natura sostanziale, è applicabile, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28,

anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione e per solo questi ultimi la relativa questione,in

applicazione dell'art. 2 c.p., comma 4, e art. 129 c.p.p., è deducibile e rilevabile d'ufficio ex art. 609 c.p.p., comma

2, anche nel caso di ricorso inammissibile.

In alcuni precedenti di questa Corte (cfr. in particolare la sentenza n. 31920 del 2015) si è ritenuto invero

inapplicabile il nuovo istituto in caso si discuta - come nella specie - di un reato di competenza del

Page 8: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

8

giudice di pace in quanto nel relativo procedimento avrebbe potuto trovare applicazione solo il diverso

istituto di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34. Nel processo davanti al giudice di pace, come è noto, viene

attribuito al giudice il potere-dovere di chiudere il procedimento, sia prima che dopo l'esercizio dell'azione

penale, quando il fatto incriminato risulti di particolare tenuità, rispetto all'interesse tutelato, e tale per l'effetto da

non giustificare l'esercizio o la prosecuzione dell'azione penale. L'apprezzamento della particolare tenuità deve

essere operato avendo riguardo "congiuntamente" all'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato per

l'interesse tutelato dalla norma, all'"occasionalità" della condotta incriminata ed al grado della colpevolezza,

dovendosi comunque considerare la posizione della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato, sotto il

profilo del possibile pregiudizio che dall'ulteriore corso del procedimento gliene può derivare, con specifico

riguardo alle sue esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute. La decisione citata richiama in particolare la

circostanza che nel testo del parere approvato sullo schema di decreto legislativo il 3 febbraio 2015, dalla

Commissione Giustizia, si invitava il Governo a valutare "l'opportunità di coordinare la disciplina della

particolare tenuità del fatto prevista dal D.Lgs. 28 ottobre 2000, n. 274, art. 34, in riferimento ai reati del giudice

di pace, con la disciplina prevista dal provvedimento in esame". Sollecitazione, tuttavia, respinta. Va a riguardo

osservato che tale determinazione fu tuttavia adottata per il solo fatto che fu ritenuta estranea alle indicazioni

della legge delega, donde la necessità che la possibile interferenza tra diverse disposizioni deve essere risolta

dall'interprete. Va a riguardo in primo luogo precisato che la sentenza n. 31920 del 2015 è intervenuta prima della

pronuncia delle SS.UU. già più volte richiamata che pur non affrontando ex professo tale problematica ha

comunque sottolineato il carattere assolutamente generale dell'istituto. Nessuna indicazione normativa

conforta peraltro la tesi negativa e proprio le differenze fra i due istituti (e la disciplina sostanzialmente di

maggior favore prevista dall'art. 131 bis c.p.), inducono a ritenere che quest'ultima sia applicabile - nel

rispetto dei soli limiti espressamente indicati dalla norma - a tutti i reati ivi compresi quelli di

competenza del giudice di pace. Del resto sarebbe altamente irrazionale e contrario ai principi generali

che la disciplina sulla tenuità del fatto che trova la sua ispirazione proprio nel procedimento penale

avanti al giudice di pace, sia inapplicabile per i reati attribuiti alla competenza di quel giudice, ove

invece dovrebbe farsi unicamente riferimento a quella specifica e più stringente di cui all'art. 34 citato.

4. Conclusivamente la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perchè il fatto non è

punibile ai sensi dell'art. 131 bis c.p..

Corte di Cassazione, sez. V, 2 novembre 2016, n. 45996

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45996 del 2 novembre

2016, ha affermato, in contrapposizione con un precedente orientamento giurisprudenziale, la

non applicabilità ai procedimenti dinanzi al Giudice di Pace della previsione prevista dall’art.

131 bis c.p. relativa alla non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Secondo la Suprema

Corte tale soluzione poggerebbe su due argomenti principali. Il primo va ravvisato nella norma

regolatrice dei rapporti tra codice penale e le altre leggi penali dettata dall’art. 16 del Codice

Penale; il secondo valorizza il favor per la conciliazione tra le parti che ispira la giurisdizione

del giudice penale.

3. Il secondo motivo non e’ fondato. La giurisprudenza di questa Corte ha gia’ avuto modo di affermare che nel

procedimento dinanzi al giudice di pace non trova applicazione la causa di non punibilita’ della

particolare tenuita’ del fatto di cui all’articolo 131 bis c.p., prevista esclusivamente per il procedimento

davanti al giudice ordinario (Sez. 4, n. 31920 del 14/07/2015 – dep. 21/07/2015, Marzola, Rv. 264420; conf.:

Sez. F, n. 38876 del 20/08/2015 – dep. 24/09/2015, Morreale, Rv. 264700; Sez. 7, n. 1510 del 04/12/2015 –

dep. 15/01/2016, Bellomo, Rv. 265491). L’orientamento appena richiamato e’ condiviso dal Collegio, per le

ragioni di seguito esposte.

Page 9: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

9

3.1. Per un compiuto esame della questione rimessa alla cognizione di questa Corte, mette conto richiamare, in

estrema sintesi, i molteplici profili che differenziano le due fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 274

del 2000, articolo 34 e all’articolo 131 bis c.p..

Da un primo punto di vista, la delimitazione dell’area dei reati suscettibili di declaratoria di improcedibilita’

per la particolare tenuita’ del fatto ex articolo 34 cit. non conosce – a differenza della causa di non punibilita’ di

cui all’articolo 131 bis cit. (applicabile ai reati per i quali e’ prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a

cinque anni) – alcuna limitazione quoad poenam.

Significative, anche se parziali, sono poi le divergenze tra i due istituti sul piano della definizione normativa

dei relativi presupposti applicativi. Se nell’uno e nell’altro caso, punto di riferimento dell’accertamento

giudiziale e’ la fattispecie concreta (cosi’, per l’articolo 34 cit., ex plurimis, Sez. 5, n. 29831 del 13/03/2015 – dep.

10/07/2015, La Greca, Rv. 265143 e, per l’articolo 131 bis c.p., Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 – dep.

06/04/2016, Tushaj), la declaratoria di improcedibilita’ per la particolare tenuita’ del fatto nel procedimento

davanti al giudice di pace implica la valutazione congiunta degli indici normativamente indicati, ossia l’esiguita’

del danno o del pericolo, il grado di colpevolezza e l’occasionalita’ del fatto (Sez. 5, n. 34227 del 07/05/2009 –

dep. 04/09/2009, Scalzo, Rv. 244910): valutazione, questa, alla quale deve associarsi la considerazione del

pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento puo’ recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di

salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato, ossia la considerazione di interessi individuali ―in

conflitto‖ con l’istanza punitiva. D’altra parte, la causa di non punibilita’ introdotta con l’articolo 131 bis c.p. fa

leva su un giudizio di particolare tenuita’ del fatto e di non abitualita’ della condotta ancorato ad ―una valutazione

complessa che ha ad oggetto le modalita’ della condotta e l’esiguita’ del danno o del pericolo valutate ai sensi

dell’articolo 133 c.p., comma 1‖ (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 – dep. 06/04/2016, Tushaj); la novella del

2015 ha poi delineato una serie di parametri di definizione negativa della ―particolare tenuita’‖ del fatto (articolo

131 bis c.p., comma 2) e di definizione positiva dell’abitualita’ del comportamento (articolo 131 bis c.p., comma

3): nell’una e nell’altra direzione, detti parametri si riferiscono ad elementi ostativi alla configurabilita’ della causa

di non punibilita’.

Netta e’ poi la divaricazione tra i due istituti in punto definizione del ruolo della persona offesa nel

perfezionamento delle fattispecie. La disciplina di cui all’articolo 34 cit. attribuisce alla persona offesa una

―facolta’ inibitoria‖ ricollegabile alla ―valutazione del legislatore circa la natura eminentemente ―conciliativa‖ della

giurisdizione di pace, che da’ risalto peculiare alla posizione dell’offeso del reato‖ (Sez. U, n. 43264 del

16/07/2015 – dep. 27/10/2015, Steger); al contrario, l’istituto previsto dall’articolo 131 bis c.p. non prevede

(salvo che per la particolare ipotesi di cui all’articolo 469 c.p.p.) ―alcun vincolo procedurale conseguente al

dissenso delle parti‖ (Sez. 4, n. 31920 del 14/07/2015, Marzola, cit.). Il diverso ruolo riconosciuto alla persona

offesa nella definizione normativa dei presupposti applicativi della causa di non punibilita’ codicistica e di quelli

della causa di improcedibilita’ ex articolo 34 cit. rinviene il proprio fondamento giustificativo, come rilevato dalla

sentenza Steger, nella finalita’ conciliativa, che rappresenta un tratto fondamentale del sistema delineato dal

Decreto Legislativo n. 274 del 2000: infatti, come ha piu’ volte sottolineato la giurisprudenza costituzionale, la

―finalita’ conciliativa‖ ―costituisce il principale obiettivo della giurisdizione penale del giudice di pace‖ (Corte

Cost., ord. n. 349 del 2004; conf. ord. n. 231 del 2003; ordd. nn. 10, 11, 55, 56, 57 e 201 del 2004), sicche’ al

giudice di pace ―e’ istituzionalmente assegnato il compito di ―favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le

parti‖ (Corte Cost., ord. n. 27 del 2007; ord. n. 11 del 2004; ord. n. 231 del 2003); al quadro normativo che

riconosce un particolare favor alla conciliazione tra le parti (Corte Cost., ord. n. 228 del 2005) sono ricollegabili

anche i tratti di semplificazione e snellezza del procedimento, tratti che, appunto, ne esaltano la funzione

conciliativa (Corte Cost., ord. n. 64 del 2009). In linea con la ricostruzione offerta dal giudice delle leggi e’ la

giurisprudenza di questa Corte, che sottolinea come al giudice di pace il legislatore affidi ―una funzione

conciliativa che connota l’intero rito regolato‖ dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000 (Cass., Sez. 5. n. 16494 del

20/04/2006, Catanzaro, rv. 234459; conf. ex plurimis, Cass., Sez. 5. n. 14070 del 24/03/2005, PM in proc. Dal

Testa, rv. 231777).

3.2. Le divergenze nella disciplina dei due istituti con riguardo alla definizione normativa dei relativi

presupposti applicativi, da un lato, e la riconducibilita’ di esse principalmente alla “finalita’

Page 10: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

10

conciliativa” propria della giurisdizione penale del giudice di pace, dall’altro, rendono ragione

dell’inapplicabilita’ della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131 bis c.p. ai reati attribuiti alla

competenza del giudice di pace. I connotati di specialita’ rinvenibili, soprattutto sotto il profilo del ruolo della

persona offesa, nella disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 34 escludono senz’altro

che detta norma sia stata tacitamente abrogata dalla novella del 2015, non sussistendo il presupposto

dell’incompatibilita’ tra le due diverse discipline, come confermato dai lavori preparatori della novella del 2015

(cfr. Sez. F, n. 38876 del 20/08/2015, Morreale, cit.). I medesimi connotati conducono ad escludere che per

i reati di competenza del giudice di pace possa trovare applicazione la causa di non punibilita’ della

particolare tenuita’ del fatto di cui all’articolo 131 bis c.p., soluzione, questa, imposta dalla disciplina

dettata dall’articolo 16 c.p. e destinata appunto a regolare i rapporti tra il codice penale e le altre leggi

penali (Sez. 3, n. 739 del 10/12/1980 – dep. 04/02/1981, Lauringer, Rv. 147510); espressione del principio di

specialita’ (Sez. 3, n. 1511 del 07/12/1970 – dep. 08/04/1971, De Biase, Rv. 117558), l’articolo 16 c.p.

conferma la conclusione secondo cui nei rapporti fra il codice penale, come legge generale, e le leggi

speciali, le disposizioni del primo si applicano anche alle materie regolate dalle seconde in quanto non

sia da queste diversamente stabilito (Sez. 1, n. 1807 del 19/11/1965 – dep. 03/01/1966, Stadio, Rv. 100030):

ricorre quest’ultima ipotesi nel caso in esame alla luce dei profili di specialita’ propri della disciplina ad

hoc delineata dall’articolo 34 cit. passati in rassegna. Prima ancora che sul terreno processuale (e, dunque,

sulla base della disciplina Decreto Legislativo n. 274 del 2000, ex articolo 2, comma 1), l’articolo 16 c.p. esclude,

sul terreno sostanziale, l’applicabilita’ della norma codicistica ai reati di competenza del giudice di pace.

Soluzione, questa, che, oltre ad essere imposta dalla norma regolatrice dei rapporti tra il codice penale e le altre

leggi penali dettata dall’articolo 16 c.p., e’ coerente con l’interpretazione sistematica orientata a valorizzare il favor

per la conciliazione tra le parti che ispira la giurisdizione penale del giudice penale: e’ di tutta evidenza, infatti, che

la ―finalita’ conciliativa‖ propria di tale giurisdizione verrebbe, inevitabilmente, compromessa dall’applicabilita’

della causa di non punibilita’ codicistica svincolata dai peculiari profili della disciplina di cui all’articolo 34 cit.

messi in luce.

(omissis)

SULL’APPLICABILITÀ DELL’ART. 131 BIS C.P. ALLE FATTISPECIE CONTINUATE:

Corte di cassazione, sez. III, 13 luglio 2015, n. 29897

La esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod.

pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, e

giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato continuato una ipotesi di

"comportamento abituale", ostativa al riconoscimento del beneficio.

(omissis)

12. Ciò posto, rileva il Collegio che, nella fattispecie, si rilevano plurimi elementi ostativi ad un giudizio di astratta

applicabilità dell'articolo 131 bis.

In primo luogo, difetta il requisito della non abitualità del comportamento.

Secondo la relazione illustrativa del Decreto Legislativo n. 28 del 2015, il ricorso all'espressione "non abitualità

del comportamento" per definire tale indice-criterio è il risultato della scrupolosa osservanza della legge delega da

parte del legislatore delegato e si pone su un piano diverso rispetto alla "occasionante" utilizzata dal Decreto del

Presidente della Repubblica n. 448 del 1988 e dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000, cosicchè, pur lasciando

all'interprete il compito di meglio delinearne i contenuti, si è ipotizzato che esso faccia sì "che la presenza di un

precedente giudiziario non sia di per sè sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in

presenza ovviamente degli altri presupposti".

Il riferimento al "comportamento" che deve risultare "non abituale" va poi posto o in relazione con quanto poi

Page 11: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

11

indicato nell'articolo 131 bis, comma 3, il quale prende in considerazione alcune situazioni, che indica,

premettendo l'espressione "il comportamento è abituale nel caso in cui.....".

Sempre secondo la relazione, tale comma, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della Commissione

giustizia della Camera dei deputati, descriverebbe soltanto alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere

considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di "abitualità", entro il quale potranno collocarsi altre

condotte ostative alla declaratoria di non punibilità.

In effetti, nel parere della Commissione giustizia risulta chiaro l'intento di prevedere una sorta di "presunzione di

non abitualità" laddove, escludendo un contrasto con la legge delega, auspica l'inserimento di una disposizione la

quale specifichi "che il comportamento è considerato non abituale nel caso in cui..." e, successivamente,

nell'esprimere parere favorevole, indica nelle condizioni il testo del comma da inserire, il quale inizia con la frase

"il comportamento risulta abituale nel caso in cui......".

Sempre con riferimento all'articolo 131 bis, comma 3, va posto in evidenza che esso, per come è strutturato,

sembra fare riferimento a tre distinte situazioni ("Il comportamento è abituale nel caso in cui (...) ovvero (...)

(omissis)

Inoltre, il riferimento all'ipotesi del soggetto che sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per

tendenza, come chiaramente emerge dal tenore letterale della disposizione, si riferisce a condizioni specifiche di

pericolosità criminale che presuppongono un accertamento da parte del giudice (come, del resto, in caso di

recidiva - reiterata o specifica - anch'essa ostativa, diversamente da quella semplice, presupponendo la

commissione di più reati o di altro reato della stessa indole), mentre altrettanto non può dirsi per ciò che

concerne le ulteriori ipotesi, riferite al soggetto che abbia "commesso più reati della stessa indole, anche se

ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonchè nel caso in cui si tratti di reati che

abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate".

In tali ipotesi, infatti, non vi è, nel testo, alcun indizio che consenta di ritenere, considerati i termini utilizzati, che

l'indicazione di abitualità presupponga un pregresso accertamento in sede giudiziaria ed, anzi, sembra proprio che

possa pervenirsi alla soluzione diametralmente opposta, con la conseguenza che possono essere oggetto di

valutazione anche condotte prese in considerazione nell'ambito del medesimo procedimento, il che amplia

ulteriormente il numero di casi in cui il comportamento può ritenersi abituale, considerata anche la ridondanza

dell'ulteriore richiamo alle "condotte plurime, abituali e reiterate".

Ciò consente, pertanto, di considerare operante lo sbarramento del terzo comma anche nel caso di reati

avvinti dal vincolo della continuazione, quali quelli contestati nel caso in esame, trattandosi di due

violazioni di sigilli commesse in tempi diversi, il (OMISSIS).

Parimenti rilevante risulta, inoltre, la valutazione della condotta operata nel provvedimento impugnato, che la

Corte territoriale ha considerato tale da non consentire il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche

nella loro massima estensione, commentando criticamente anche il giudizio di equivalenza operato dal primo

giudice, dovendosi quindi escludere a priori ogni successiva valutazione in termini di particolare tenuità

dell'offesa.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

LE CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITÀ

Cass. pen., sez. V, 9 gennaio 2015, n. 19548

Interpreta la bancarotta prefallimentare come reato di pericolo concreto, pur escludendo che

la dichiarazione di fallimento ne integri l’evento naturalistico (ciò in continuità con

l’orientamento tradizionale ed in controtendenza alla nota sentenza “Corvetta” del 2012).

Page 12: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

12

Il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non richiede, come sostenuto dal ricorrente

in questa sede, l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il dissesto

dell'impresa, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, detti fatti

assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando

l'impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza

Omissis.. 1. Errata è la tesi sostenuta dal ricorrente con il primo motivo. La giurisprudenza di questa Corte si è da tempo orientata nell'affermare che nel reato di bancarotta fraudolenta "i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, sicchè nè la previsione dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, nè la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell'atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell'antigiuridicità penale della condotta". Si è rilevato che "quando il legislatore ha ritenuto necessaria l'esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell'ambito della L.Fall., all'art. 223, distinguendo le condotte previste dall'art. 216 (L.Fall. art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società (L.Fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento" (Sez. 5^, n. 39546 del 15/07/2008, Bonaldo). Ancor più analiticamente, gli stessi principi risultano ribaditi quando si è rilevato che "il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo, ed è pertanto irrilevante che al momento della consumazione l'agente non avesse consapevolezza dello stato d'insolvenza dell'impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato". Si è segnalato che "il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non richiede il dolo specifico, ma si perfeziona con il dolo generico, ossia con la consapevolezza di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte", precisandosi che non può intendersi rilevante la circostanza che all'epoca della distrazione non si fosse ancora manifestato uno stato d'insolvenza: "infatti, ad integrare il reato non è richiesta la conoscenza dello stato d'insolvenza dell'impresa, in quanto ogni atto distrattivo viene ad assumere rilevanza ai sensi della L.Fall., art. 216, in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest'ultimo. Qualora, poi, la deduzione debba intendersi rapportata alla asserita insussistenza del dissesto all'epoca dei fatti, così implicitamente evocandosi la teoria c.d. della "zona di rischio penale" ..., ugualmente deve essere disattesa in quanto, per la speciale configurazione del precetto, la protezione penale degli interessi creditori è assicurata mediante la sua connotazione di reato di pericolo. L'offesa penalmente rilevante è conseguente anche all'esposizione dell'interesse protetto alla probabilità di lesione, onde la penale responsabilità sussiste non soltanto in presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella situazione di messa in pericolo dei loro interessi. Conseguentemente, il delitto di bancarotta non impone contestualità tra l'azione antidoverosa ed il pregiudizio derivante dalla stessa, ma ammette anche uno sfasamento temporale, se esso non elide il portato dannoso dell'azione: sicchè la tutela penale dispiega la sua efficacia retroattivamente, risalendo a ritroso, a far data dalla dichiarazione di fallimento, ricapitolando ogni passaggio della gestione dell'impresa fallita nel pregiudizio che viene accertato al momento della dichiarazione di insolvenza con la verifica delle passività gravanti sulla stessa" (Sez. 5^, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv 251214). L'orientamento ora illustrato risulta contraddetto da altra pronuncia di questa stessa Sezione, richiamata anche nel ricorso in esame, secondo cui "nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che da luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente e deve essere, altresì, sorretto all'elemento soggettivo del dolo" (Sez. 5^, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv 253493). L'impianto motivazionale di questa sentenza muove dal presupposto che "non può da un lato ritenersi che qualsiasi atto distrattivo sia di per sè reato, dall'altro che la punibilità sia condizionata ad un evento" (la dichiarazione di fallimento, di cui viene diffusamente discussa la natura all'interno della struttura della fattispecie incriminatrice), "che può sfuggire totalmente al controllo dell'agente, e dunque ritorcersi a suo danno senza una compartecipazione di natura soggettiva e, ancor peggio, senza che sia necessaria una qualche forma di collegamento eziologico tra la condotta e il verificarsi del dissesto"; l'analisi viene peraltro parametrata sulle

Page 13: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

13

peculiarità del caso allora sub judice, dove - a differenza delle varie fattispecie concrete di cui alla precedente giurisprudenza, nelle quali "si trattava di episodi distrattivi compiuti nel periodo immediatamente antecedente alla dichiarazione di fallimento, che avevano impoverito l'impresa al punto da provocarne od aggravarne in modo irreversibile la crisi" - a quegli imputati era riferibile una amministrazione "priva di contiguità con il fallimento, essendo stata seguita da altre gestioni totalmente estranee", con tanto di amministrazione giudiziale ex art. 2409 c.c., medio tempore conclusasi "senza alcun rilievo dell'amministratore su eventuali situazioni di insolvenza ed addirittura con una vendita della società a terzi dietro corrispettivo". Nella sentenza si evidenzia quindi che se il fallimento è "il risultato di un'azione dell'imprenditore, da cui la legge (o, meglio, la giurisprudenza conforme) fa dipendere l'esistenza stessa del delitto", lo stesso fallimento, "o meglio il suo presupposto di fatto, cioè lo stato di insolvenza, deve essere dall'agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Il soggetto, cioè, deve prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà verosimilmente al dissesto (il cui risvolto è la lesione del diritto di credito, che costituisce l'interesse principale protetto dalla norma penale) ed accettare tale rischio. Ogni diversa soluzione in punto dolo costituisce una violazione dei principi generali di cui agli artt. 42 e 43 c.p., che costituiscono l'ossatura della responsabilità penale personale del nostro ordinamento". Ne deriverebbe l'opzione interpretativa secondo cui la bancarotta è un reato di evento e tale evento consiste nella insolvenza della società, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento. Questa è la unica ricostruzione strutturale del reato coerente con le premesse; il fallimento è elemento costitutivo dell'illecito in qualità di evento e si pone quale conseguenza (esclusiva o concorrente) della condotta distrattiva dell'imprenditore. Con la richiamata pronuncia si avverte peraltro che "la tesi "secca" della non necessarietà del rapporto di causalità tra la condotta dell'imprenditore e il fallimento (che si accompagna alla ritenuta non necessarietà del dolo a copertura dell'insolvenza), porterebbe a conseguenze assurde; da un lato non sarebbe punibile l'imprenditore che drena risorse enormi da una società dotata di un patrimonio attivo considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento, dall'altra sarebbe invece punito con la pesante sanzione di cui alla L.Fall., art. 216, un imprenditore o un amministratore della società che moltissimi anni prima del fallimento abbia prelevato indebitamente una modestissima somma di denaro (anche se l'impresa ha poi operato in attivo e pagato regolarmente i propri creditori e sia poi caduta in dissesto esclusivamente per le condotte spoliative di successivi amministratori) .... Sarebbe esente da responsabilità quell'imprenditore che, pur avendo causato il dissesto della sua impresa con gravi atti di spoliazione, riuscisse ad ottenere il consenso dei creditori ad una procedura di soluzione negoziale della crisi (salvo il concordato, per l'imprenditore collettivo), mentre sarebbe penalmente sanzionato l'imprenditore che compie un atto di distrazione di modesta entità e molto risalente nel tempo, se non incontra il favore dei creditori. E ciò anche se il dissesto dell'impresa dipende esclusivamente da fattori esterni alla sua condotta, e cioè, per esempio, da una congiuntura economica negativa o da circostanze comunque imprevedibili o ancor più da condotte successive di altre persone". La giurisprudenza di questa Sezione, successiva alla citata sentenza n. 47502 del 24/09/2012, ha aderito all'orientamento precedente, ritenendo che "ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento" (Sez. 5^, n. 7545 del 25/10/2012, Lanciotti, Rv 254634; v. anche Sez. 5^, n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi). In una quasi coeva decisione, identicamente massimata (Rv 254061) questa Sezione ha precisato che "anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non si richiede l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento .... Al riguardo vale la pena di rimarcare che il rapporto eziologico fra la condotta vietata e il dissesto della società è richiesto dalla L.Fall., art. 223, comma 2, n. 1, nel testo novellato, con esclusivo riferimento alle ipotesi di bancarotta "da reato societario", il cui elemento oggettivo - nel modello descrittivo recato dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c., richiamati dalla norma incriminatrice - è del tutto diverso da quello che caratterizza le condotte vietate dall'art. 216 della stessa legge, richiamato invece dal citato art. 223, comma 1" (Sez. 5^, n. 232 del 09/10/2012, Sistro). Questo collegio ritiene di condividere e ribadire la consolidata e "tradizionale" giurisprudenza, anche in ragione delle indicazioni delle Sezioni Unite di questa Corte che, nell'analisi del reato di bancarotta, hanno avallato "l'abbandono definitivo della concezione del fallimento come evento" (Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy). Uno degli elementi fondamentali, per orientare la decisione nel senso indicato, si rinviene in effetti nelle già ricordate divergenze strutturali tra la fattispecie disegnata dall'art. 216, L.Fall., e quella risultante dalle varie ipotesi previste dal successivo art. 223, comma 2: solo in queste ultime, infatti, il legislatore ha inteso conferire immediato rilievo a condotte che cagionino il fallimento, ovvero cagionino o concorrano a cagionare il dissesto della società.

Page 14: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

14

Non sembra pertanto che i pur pregevoli sforzi argomentativi contenuti nella sentenza Corvetta riescano a superare il dato letterale: laddove il legislatore ha inteso individuare la necessità di un nesso causale, prima ancora di una riferibilità psicologica, fra il comportamento del soggetto attivo del reato ed il successivo dissesto, od il fallimento che ne sia derivato, ciò è espressamente prescritto. Nè pare possibile interpretare l'art. 223, comma 2, L.Fall., come una sorta di norma di chiusura, con funzioni interpretative dell'intero sistema sanzionatorio: da un lato, si tratta di una previsione recentemente modificata (nel 2002), e se si fosse avvertita l'esigenza di uniformare le varie previsioni incriminatrici in tema di bancarotta (volendo intendere, come si sostiene nella richiamata sentenza, che "i fatti di bancarotta di tipo patrimoniale in tanto rilevano in quanto abbiano in qualche modo rilevanza nella produzione del dissesto") il legislatore ben avrebbe potuto porre mano anche al precedente art. 216; dall'altro, se è vero che la lettura delle plurime ipotesi di rilievo penale di cui alla legge fallimentare rende palesi alcuni difetti di coordinamento, è ancor più evidente che non vi sarebbe necessità di reprimere la condotta di chi abbia "cagionato con dolo il fallimento della società" (art. 223, comma 2, n. 2) se già l'art. 223, comma 1, venisse a sanzionare per le società commerciali condotte di distrazione ex art. 216, di cui possa affermarsi la rilevanza penale soltanto qualora siano fattore causale del fallimento medesimo. Deve perciò ritenersi che, tornando ad esaminare il precetto normativo, la condotta sanzionata dall'art. 216 L.Fall., - e, per le società, dall'art. 223, comma 1 - non sia quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensì - assai prima - quella di depauperamento dell'impresa, consistente nell'averne destinato le risorse ad impieghi estranei all'attività dell'impresa medesima. La rappresentazione e la volontà dell'agente debbono perciò inerire alla deminutio patrimonii (semmai, occorre la consapevolezza che quell'impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio dell'attività imprenditoriale): tanto basta per giungere all'affermazione del rilievo penale della condotta, per sanzionare la quale è sì necessario il successivo fallimento, ma non già che questo sia oggetto di rappresentazione e volontà - sia pure in termini di semplice accettazione del rischio di una sua verificazione - da parte dell'autore. Come efficacemente segnalato in una sentenza di questa Corte, "ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell'art. 216 L.Fall.. In caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest'ultimo, il quale non costituisce l'evento del reato che, invece, coincide con la lesione dell'interesse patrimoniale della massa, posto che se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori ciò non significa che essa non possa ricavarsi da diversi fattori, quali la natura fittizia o l'entità dell'operazione che incide negativamente sul patrimonio della società" (Sez. 5^, n. 16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv 246879). E' del resto innegabile che ci si trovi dinanzi ad una fattispecie disegnata come reato di pericolo; fattispecie in relazione alla quale il giudice delle leggi ebbe da tempo a rilevare che "il legislatore avrebbe potuto considerare la dichiarazione di fallimento come semplice condizione di procedibilità o di punibilità, ma ha invece voluto ... richiedere l'emissione della sentenza per l'esistenza stessa del reato. E ciò perchè, intervenendo la sentenza dichiarativa di fallimento, la messa in pericolo di lesione al bene protetto si presenta come effettiva e reale" (Corte Cost., sentenza n. 146 del 27/06/1982). La bancarotta fraudolenta patrimoniale è dunque, più propriamente, reato di pericolo concreto, dove la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva soltanto nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento, condizione peraltro neppure indispensabile per l'esercizio dell'azione penale o per l'adozione di provvedimenti de libertate, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 e 238 L.Fall.. Ed è per questo che rimane esente da pena il soggetto che impoverisca una società di risorse enormi, quando questa può comunque continuare a disporne di ben più rilevanti, idonee a fornire garanzia per le possibili pretese creditorie: perchè in quel caso, a differenza dell'ipotesi dell'imprenditore che si renda responsabile di una distrazione modesta (ma a fronte di un patrimonio suscettibile di risentirne significativamente), il pericolo di un pregiudizio per i creditori non avrà assunto la concretezza richiesta dal dato normativo. Anche le indicazioni della giurisprudenza di legittimità in tema di ed. "bancarotta riparata" avvalorano la conclusione appena illustrata; vero è che in quegli interventi si è ritenuto che "non integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il finanziamento concesso al socio e da questi restituito in epoca anteriore al fallimento, in quanto la distrazione costitutiva del delitto di bancarotta si ha solo quando la diminuzione della consistenza patrimoniale comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre concretamente in pericolo l'interesse protetto e cioè le ragioni della massa dei creditori", ma si è al contempo precisato che il momento cui fare riferimento per verificare la consumazione dell'offesa è pur sempre "quello della dichiarazione giudiziale di fallimento e non già quello in cui sia stato commesso l'atto, in ipotesi, antidoveroso" (Sez. 5^, n. 39043 del 21/09/2007, Spitoni, Rv 238212; si veda anche Sez. 5^, n. 8402 del 03/02/2011, Cannavale).

Page 15: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

15

In sostanza, l'imprenditore deve considerarsi sempre tenuto ad evitare l'assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in sè margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell'impresa. Può quindi conclusivamente affermarsi che il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non richiede, come sostenuto dal ricorrente in questa sede, l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il dissesto dell'impresa, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, detti fatti assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l'impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza (ex multis e tra le più recenti, Sez. 5^, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683; Sez. 5^, n. 27993 del 12 febbraio 2013, Di Grandi e altri, Rv. 255567). 2. (omissis)

Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012 (dep. 6 dicembre 2012), n. 47502

In contrasto con l’orientamento consolidato della Cassazione, secondo cui non sarebbe

necessaria la prova del nesso causale e del dolo rispetto alla dichiarazione di fallimento, la

quinta sezione della Corte di Cassazione afferma che nel reato di bancarotta fraudolenta

patrimoniale per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce

elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in

rapporto causale con la condotta dell'agente, e deve altresì essere soggetto dall'elemento

soggettivo del dolo.

1. Le questioni in diritto su cui è chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione assumono notevole importanza,

trattandosi di valutare la natura giuridica dei vari elementi che compongono il reato di cui all'articolo 216

della legge fallimentare. 2. (omissis) 5. Occorre a questo punto esaminare il secondo profilo di diritto censurato

e cioè valutare quale sia il ruolo svolto dalla dichiarazione di fallimento nell'ambito del reato di

bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione: elemento costitutivo oppure condizione oggettiva

di punibilità? 6. La seconda soluzione appare prima facie maggiormente rispondente alla formulazione lessicale

della norma, dal momento che la locuzione "..se è dichiarato fallito" costituisce una protasi, in cui il "se" assume

valore condizionale del periodo che precede ("E' punito.."); pur tuttavia, ritiene questa Corte di non discostarsi

dall'indirizzo assunto dalle sezioni unite con la sentenza n. 2 del 25.01.1958 e poi consolidatosi nel tempo (…),

che considera il fallimento come elemento costitutivo del reato di bancarotta.

7. Oltre ai motivi indicati dalla predetta sentenza delle sezioni unite e da quelle che ad essa si sono

successivamente uniformate (ed alle quali per brevità si rimanda), assume un peso notevole nell'attività

interpretativa la considerazione, che trova spazio anche nel ricorso di Corvetta Daniele, sulla dubbia

compatibilità costituzionale - nel caso in esame - di una condizione di punibilità di natura oggettiva.

8. Il Giudice delle leggi ha percepito più volte questa potenziale distonia con riferimento al principio di

personalità della pena, consacrato nell'art. 27, comma 1, della Costituzione, il quale richiede che tutti gli elementi

che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente e siano

quindi investiti del 13 dolo o della colpa e siano allo stesso tempo rimproverabili all'agente (cfr. Corte cost., n.

1085 del 13 dicembre 1988, Ferracuti).

9. Mentre in alcuni casi la condizione di punibilità è esterna alla fattispecie di reato e rientra comunque nell'area

di controllo e di volontà del soggetto (si pensi alle contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro, ove

costituisce condizione di punibilità l'inottemperanza da parte del contravventore alle prescrizioni di

regolarizzazione impartite dall'organo di vigilanza a norma del d.Ig. 19 dicembre 1994 n. 758; sul punto v. Sez. 3,

n. 8372 del 11/01/2008, Pirovano, Rv. 239279), nel caso in esame il fallimento (e cioè l'accertamento

giudiziale dello stato di insolvenza dell'imprenditore) compartecipa intrinsecamente della fattispecie

incriminatrice, conferendo disvalore ad una condotta - quella di disposizione dei beni per finalità

Page 16: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

16

estranee a quelle proprie dell'impresa - che sarebbe altrimenti penalmente irrilevante. Ove, infatti,

manchi il pregiudizio per i creditori, per essere l'impresa sana ed in grado quindi di sopportare il suo parziale

impoverimento, il tutto si riduce - in mancanza di integrazione di altre specifiche figure di reato - ad una

questione che può avere rilievo eventualmente in campo civile ed amministrativo.

10. Se è corretta questa ricostruzione della fattispecie di bancarotta per distrazione, allora non può da un lato

ritenersi che qualsiasi atto distrattivo sia di per sé reato, dall'altro che la punibilità sia condizionata ad un evento

che può sfuggire totalmente al controllo dell'agente, e dunque ritorcersi a suo danno senza una

compartecipazione di natura soggettiva e, ancor peggio, senza che sia necessaria una qualche forma di

collegamento eziologico tra la condotta e il verificarsi del dissesto. 11. La disposizione di cui all'art. 44, in

definitiva, costituisce una eccezione ai principi ordinamentali del nostro diritto criminale contenuti

negli articoli da 40 a 43 del codice (che sono diretta attuazione del principio costituzionale contenuto nel

primo comma dell'articolo 127), e come tale va utilizzata con moderazione, limitatamente a quei reati nei

quali la punibilità dipende dal verificarsi di un avvenimento che sta al di fuori del processo esecutivo

del reato e si differenzia nettamente dall'evento criminoso (Cfr. Lav. prep. al codice penale); mal si attaglia,

invece, tale disposizione a quelle fattispecie in cui l'evento, cui è collegata la rilevanza penale della condotta, sia

intrinsecamente legato all'interesse protetto ed al disvalore complessivo della fattispecie.

12. Fatta questa premessa sul ruolo del fallimento nel reato di bancarotta e ribadito che lo stesso entra a

pieno titolo nella fattispecie, quale elemento costitutivo, occorre ora approfondire le relazioni che

devono sussistere tra la condotta dell'agente e l'evento di dissesto, proprio alla luce di quei principi

generali in tema di elemento soggettivo ed attribuibilità causale già invocati in precedenza. Tale

indagine si rivela necessaria perché fino ad oggi questa Corte, pur affermando che il fallimento è elemento

costitutivo del reato di bancarotta, ha però sostanzialmente ritenuto che non sia configurabile quale

evento del reato o che configuri un evento sui generis, che non necessita di copertura né da parte

dell'elemento soggettivo, né con riferimento al nesso causale con la condotta dell'imprenditore.

13. Si vedano, ad esempio, sez. V, n. 13.588 del 12/03/2010, Riccio: "... Quanto al rapporto tra i comportamenti

addebitati all'imputato e il fallimento, non v'è alcuna esigenza di provarne la natura causale, posto che si discute

qui di bancarotta propria per distrazione. Secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte, "nessuna

rilevanza in ordine alla configurabilità dei fatti di bancarotta fraudolenta di cui alla L. Fall., art. 216, n. 1 può

derivare dal fatto che la declaratoria di fallimento sia avvenuta a distanza di oltre due anni dalla commissione

delle distrazioni fraudolente, in quanto gli atti di disposizione dei propri beni di per sè non delittuosi, una volta

intervenuto il fallimento, assumono il carattere di illeciti penali in qualunque tempo siano stati commessi, e

quindi anche in epoca non prossima al fallimento, a prescindere dai collegamenti eziologici e psicologici fra tali

fatti di bancarotta e il fallimento stesso che, pur essendo il momento consumativo del reato di bancarotta non ne

costituisce l'evento; ... (Cass., sez. 5^, 27 novembre 1985, Benedetti, m. 171578, Cass., sez. 5^, 27 settembre

2006, Corsatto, m. 235481).; Sez. 5, Sentenza n. 36088 del 27/09/2006, Corsatto: In tema di reati fallimentari, la

dichiarazione di fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta, con la conseguenza che è del tutto

irrilevante il nesso eziologico tra la condotta realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo - che incide sulla

consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale - ed il fallimento (..); Sez. 5, Sentenza n. 8327 del

22/04/1998, Bagnasco: Il fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta sicché sarebbe arbitrario

pretendere un nesso eziologico tra la condotta, realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo che incide sulla

consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, e il fallimento: di conseguenza, ne' la previsione

dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, ne' la percezione della sua

stessa preesistenza nel momento del compimento dell'atto possono essere condizioni essenziali ai fini

dell'antigiuridicità penale della condotta.

14. Tale orientamento, che questo collegio intende sottoporre a revisione critica, si è formato per gemmazione

dalle vecchie pronunce e non è più stato approfondito in tempi recenti; la maggior parte delle pronunce

richiamate si limita ad affermazioni di tipo assertivo, che sono più che legittime ai fini della motivazione della

decisione in quanto richiamano i precedenti specifici, ma che non consentono di rilevare il ragionamento

giuridico che si pone alla radice di tali assunti. 15. Orbene, ritiene questo collegio che la questione richieda e

Page 17: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

17

meriti un nuovo esame ed un approfondimento; occorre rilevare che nella maggior parte dei casi sottoposti al

Giudice di legittimità si trattava di episodi distrattivi compiuti nel periodo immediatamente antecedente alla

dichiarazione di fallimento, che avevano impoverito l'impresa al punto da provocarne od aggravarne in modo

irreversibile la crisi.

16. Il caso odierno, invece, presenta peculiarità che impongono una rivisitazione critica dell'impianto causale e

soggettivo dei reati fallimentari; ed invero l'amministrazione della famiglia Corvetta risulta priva di contiguità con

il fallimento, essendo stata seguita da altre gestioni totalmente estranee. Ma ciò che più conta è il fatto che dopo

la gestione Corvetta e prima dell'ultima gestione "privatistica" della società vi è stata una fase di amministrazione

giudiziale ex art. 2409 cod. civ., che si è conclusa senza alcun rilievo dell'amministratore su eventuali situazioni di

insolvenza ed addirittura con una vendita della società a terzi dietro corrispettivo. E' evidente, dunque, che se si

accede alla tesi per cui è necessario che il fallimento sia in collegamento causale con la condotta distrattiva, allora

assume un notevole rilievo l'accertamento in ordine alla eventuale interruzione del nesso eziologico (esame del

tutto pretermesso dalla Corte territoriale).

17. Orbene, la tesi secondo cui la dichiarazione di fallimento si inserisce nella fattispecie di reato quale

elemento essenziale comporta quale inevitabile conseguenza l'applicabilità dei principi già più volte

richiamati, di cui agli articoli 40, 41, 42, 43 cod. pen.; trattasi di principi generali del nostro diritto

penale che non possono essere obliterati sulla semplice ed invero non giustificata affermazione che il

fallimento non è evento del reato di bancarotta fraudolenta. Quando un elemento è essenziale per

l'esistenza stessa del reato, non c'è alcun bisogno che la norma ci ricordi che deve essere coperto dal

dolo e, se si tratta di evento, che sia anche in collegamento causale con la condotta.

18. A questo punto occorre però fare una distinzione tra elemento soggettivo e nesso causale; per quanto

riguarda il primo, basta richiamare il primo comma dell'art. 43 cod. pen., secondo cui il delitto :è doloso, o

secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la

legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione

od omissione (art. 43 c.p.). La norma si attaglia perfettamente alla bancarotta; il fallimento non è forse il risultato

di un'azione dell'imprenditore, da cui la legge (o, meglio, la giurisprudenza conforme) fa dipendere l'esistenza

stessa del delitto? Diversamente sarebbe condizione oggettiva di punibilità, ma, come si è detto, si è scelto di

scartare tale soluzione interpretativa. Allora, il fallimento - o meglio il suo presupposto di fatto, cioè lo stato di

insolvenza - deve essere dall'agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Il soggetto, cioè,

deve prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà verosimilmente al dissesto (il cui risvolto è la

lesione del diritto di credito, che costituisce l'interesse principale protetto dalla norma penale) ed accettare tale

rischio. Ogni diversa soluzione in punto dolo costituisce una violazione dei principi generali di cui agli articoli 42

e 43 cod. pen., che costituiscono l'ossatura della responsabilità penale personale del nostro ordinamento.

19. Ebbene, sul punto si riscontrano plurime aperture della Cassazione; alcune pronunce non si accontentano

della volontà di compimento dell'atto, ma richiedono una componente soggettiva ulteriore e cioè la

consapevolezza di sottrarre beni alla esecuzione concorsuale (cfr. sez. 5, n. 14905 del 25/02/1977, Rv. 137341

Marzollo). Ma se l'imprenditore deve essere consapevole di sottrarre beni all'esecuzione concorsuale (cioè al

fallimento), è giocoforza ritenere che tale procedura concorsuale deve essere quantomeno prevista come

potenziale conseguenza della sua condotta. Per tale motivo la pronuncia in questione ha ritenuto che «L.]

assumono rilevanza i fatti posti in essere in previsione dell'insolvenza e della probabile dichiarazione di

fallimento». In altra pronuncia (Sez. 5, n. 7178 del 10/05/1983, Calzolari, Rv. 160107), la Cassazione ha ritenuto

che l'imprenditore che distacchi un bene dal suo patrimonio debba avere la consapevolezza di 17 aggravare il

proprio stato di dissesto, sottraendo il bene alla garanzia dei creditori. L'interesse tutelato dall'art 216 legge

fallimentare è quello dei creditori alla conservazione della garanzia dei loro diritti; sicche l'agente deve

rappresentarsi che dalla distrazione dei beni derivi o possa derivare danno alle ragioni dei creditori. (Sez. 5, n.

5919 del 13/03/1980 - deo. 12/05/1980, Ruisi, Rv. 145258). Ed ancora, più di recente, la Cassazione (Sez. 5, n.

16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv. 246879), resasi conto degli effetti aberranti di una costruzione dommatica che

lega l'elemento soggettivo esclusivamente alla condotta distrattiva, ha ribadito la necessarietà della

consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni della classe creditoria. E

Page 18: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

18

tale danno si verifica solamente nel momento in cui, non essendo più possibile far fronte alle proprie

obbligazioni, l'imprenditore diventa insolvente e fallisce. 20. Fatta questa premessa, si deve osservare che il

Giudice di merito conserva ampia autonomia nell'indagine circa la sussistenza dell'elemento soggettivo; la prova,

ovviamente, sarà diversamente connotata a seconda che il soggetto abbia distratto ingenti quantità di denaro a

fini di profitto personale ed in prossimità del fallimento, ovvero abbia compiuto atti non rientranti nell'attività

d'impresa, ma formalmente regolari ed in tempi risalenti.

21. Nel caso per cui è processo assai diversa si presentava l'indagine per le diverse fasi gestionali, avendo i giudici

di merito rilevato che la famiglia Corvetta, pur avendo disposto di somme di denaro molto elevate, ne aveva

effettuato una corretta contabilizzazione ed aveva svolto operazioni con corrispettivo (con l'unico limite di essere

estranee all'oggetto sociale); al contrario, gli amministratori della terza fase, immediatamente precedente al

fallimento, avevano agito per finalità di arricchimento personale, compiendo operazioni prive di corrispettivo.

22. Ciò premesso, si può rilevare come la Corte d'appello di Bologna, pur aderendo formalmente all'indirizzo

interpretativo più rigoroso, secondo cui il dolo deve accompagnare esclusivamente la condotta, abbia di fatto

ampliato l'indagine sull'elemento soggettivo, ritenendo che gli imputati avessero la consapevolezza - quando

hanno posto in essere gli atti distrattivi - delle probabili conseguenze della loro condotta, accettando il rischio di

produzione dell'insolvenza. (omissis)

23. Si esamini ora il delicato profilo del nesso causale; innanzitutto si deve rilevare che per il nostro

ordinamento non esiste un elemento costitutivo del reato, successivo alla condotta, che non richieda un

legame eziologico con questa. Ancora una volta, solo la condizione oggettiva di punibilità può ritenersi

causalmente svincolata dalla condotta del reo, ma, come si è detto, questa Corte da oltre cinquant'anni

esclude che la dichiarazione di fallimento costituisca una condizione oggettiva di punibilità del reato di

bancarotta. Il codice penale, peraltro, contempla sì la possibilità che un evento sia posto a carico

dell'agente pur in mancanza di dolo o colpa (art. 42), ma non prevede invece eccezioni al rapporto di

causalità.

24. L'articolo 40 del codice penale afferma che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge

come reato se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua

azione od omissione. Non si può non notare una perfetta adattabilità all'ipotesi della bancarotta, così come

ricostruita dalla giurisprudenza di questa Corte; il fallimento costituisce indubbiamente un evento di danno da

cui, secondo la giurisprudenza consolidata degli ultimi 50 anni, dipende l'esistenza del reato.

25. Una più approfondita indagine sul nesso causale presuppone comunque l'individuazione dell'interesse

protetto dalla norma, al fine di valutare la struttura oggettiva del reato. Sotto tale profilo possono darsi

sostanzialmente tre diverse ipotesi: a. la bancarotta è un reato di condotta, per cui è sufficiente che l'imprenditore

compia un atto distrattivo, per far sì che sia integrato il reato in tutti i suoi elementi. Trattasi di soluzione non

coerente con le premesse, secondo cui la dichiarazione di fallimento è elemento costitutivo. Solo considerando la

dichiarazione di fallimento come condizione oggettiva di punibilità è possibile ritenere che la bancarotta sia un

reato di condotta, che si consuma con il compimento volontario e consapevole dell'atto di distrazione; il

fallimento, circostanza esterna al reato, rimuove gli ostacoli alla punibilità del reato, di per sé già perfetto. b. La

bancarotta è un reato ad evento astratto, rappresentato dal pericolo di danno per i creditori. Trattasi della

soluzione che spesso emerge dalle motivazioni delle sentenze di legittimità; la soluzione è compatibile con

l'affermazione che la dichiarazione di fallimento non rappresenta l'evento del reato, ma non è compatibile con

l'affermazione principale, secondo cui il fallimento deve comunque considerarsi elemento costitutivo ed

essenziale del reato; non solo non è dato comprendere come possa esistere un reato in cui un elemento

essenziale sia successivo alla condotta ed all'evento, ma vi sarebbe altresì irragionevolezza con riferimento alla

individuazione dell'interesse protetto dalla norma. Infatti, se la norma sanziona la semplice messa in pericolo dei

diritti creditori, non è dato sapere quale ruolo svolga il fallimento. L'interesse dei creditori, infatti, può essere

messo in pericolo mediante atti depauperativi anche se successivamente la società non fallisce; in questo caso,

però, non vi è attivazione della norma penale in esame. Ciò significa, dunque, che la norma tutela non solo la

messa in pericolo dell'interesse creditorio, ma la consistente e definitiva lesione dello stesso, che si verifica solo a

seguito della verificazione di una crisi irreversibile. c. La bancarotta è un reato di evento e tale evento consiste

Page 19: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

19

nella insolvenza della società, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di

fallimento. Questa è la unica ricostruzione strutturale del reato coerente con le premesse; il fallimento è

elemento costitutivo dell'illecito in qualità di evento e si pone quale conseguenza (esclusiva o

concorrente) della condotta distrattiva dell'imprenditore. L'interesse protetto dalla norma, dunque, non

è solo il potenziale pregiudizio del ceto creditorio, ma la lesione definitiva dei diritti di credito che si

determina con il fallimento; tanto è vero che, occorre ribadirlo, per quanto siano consistenti e ripetuti

gli atti di spoliazione del patrimonio dell'impresa, l'imprenditore non è punito se non viene

successivamente dichiarato il fallimento. Va poi rilevato che i creditori vedono pregiudicate le loro ragioni

anche se la crisi sfocia in un concordato (che può prevedere le stesse percentuali di soddisfacimento), ma in

questo caso la distrazione non viene punita (in questo caso si può ritenere che nell'ottica legislativa sia l'elemento

negoziale a privare di rilevanza penale la fattispecie, anche se le modifiche al concordato susseguitesi dal 2005 in

poi hanno mutato notevolmente il quadro di riferimento).

26. Si potrebbe a questo punto sostenere che l'evento del reato può essere attribuito all'agente anche in difetto di

correlazione causale, ma tale soluzione confligge con il principio generale di causalità contemplato negli articoli

40 e 41 del codice penale e non trova deroga espressa nella legge fallimentare. Unica possibilità di scollegare

l'insolvenza dalla condotta dell'agente, occorre ribadirlo, sarebbe considerare il fallimento quale condizione

oggettiva di punibilità; in tal modo il reato sarebbe integrato con la semplice condotta di distrazione, supportata

dal relativo elemento soggettivo, ma solo con la verificazione di una condizione ulteriore ed esterna alla struttura

del reato lo stato procederebbe alla punizione del colpevole. La soluzione, tra l'altro, consentirebbe di uniformare

la struttura di tutti i reati di bancarotta, mentre, come si vedrà, per la bancarotta documentale non è sostenibile la

tesi del fallimento come evento del reato, quale conseguenza della condotta dell'imprenditore.

27. Una parte della dottrina ha sostenuto l'esistenza di una presunzione iuris et de jure di rapporto causale tra la

condotta dolosa dell'imprenditore ed il fallimento.; questa tesi non può essere condivisa poiché o si attribuisce

efficacia oggettiva all'evento, ed allora questo diventa una condizione di punibilità, ovvero se il fallimento entra

nella struttura causale del reato, il nesso di causalità deve essere oggetto di indagine in concreto. Al più, si

potrebbe parlare di presunzione semplice, da sottoporre a revisione nei casi in cui sia quanto meno dubbio che

non sussista un legame eziologico tra la condotta e l'evento.

28. Nel caso in esame tale dubbio sussiste, essendo gli atti distrattivi contestati alla famiglia Corvetta di molto

antecedenti alla dichiarazione di fallimento e seguiti da una procedura di amministrazione giudiziale che, anche

per i risultati raggiunti, può ipoteticamente ritenersi interruttiva del rapporto causale.

29. In ogni caso, la tesi "secca" della non necessarietà del rapporto di causalità tra la condotta dell'imprenditore e

il fallimento (che si accompagna alla ritenuta non necessarietà del dolo a copertura dell'insolvenza), porterebbe a

conseguenze assurde; da un lato non sarebbe punibile l'imprenditore che drena risorse enormi da una società

dotata di un patrimonio attivo considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento, dall'altra sarebbe invece

punito con la pesante sanzione di cui all'articolo 216 della legge fallimentare un imprenditore o un

amministratore della società che moltissimi anni prima del fallimento abbia prelevato indebitamente una

modestissima somma di denaro (anche se l'impresa ha poi operato in attivo e pagato regolarmente i propri

creditori e sia poi caduta in dissesto esclusivamente per le condotte spoliative di successivi amministratori).

30. Non si deve poi dimenticare che con la riforma della legge fallimentare, iniziata nel 2005, sono stati

fortemente incrementati i poteri dei creditori nella ricerca di sbocchi negoziali alle crisi dell'impresa, mentre è

stato eliminato il potere del tribunale di attivarsi d'ufficio per la dichiarazione di fallimento; può ben dirsi,

dunque, che oggi il fallimento rappresenta una delle tante soluzioni in cui può sfociare la crisi dell'impresa e che

tale conclusione dipende in gran parte dalla volontà dei creditori.

31. Ma questo non fa che accrescere la irragionevolezza di una interpretazione che esclude la dichiarazione di

fallimento, quale accertamento formale dello stato di insolvenza, dalla copertura dell'elemento soggettivo e del

rapporto causale con la condotta distrattiva dell'imprenditore. Tornando ad un esempio pratico, sarebbe esente

da responsabilità quell'imprenditore che, pur avendo causato il dissesto della sua impresa con gravi atti di

spoliazione, riuscisse ad ottenere il consenso dei creditori ad una procedura di soluzione negoziale della crisi

(salvo il concordato, per l'imprenditore collettivo), mentre sarebbe penalmente sanzionato l'imprenditore che

Page 20: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

20

compie un atto di distrazione di modesta entità e molto risalente nel tempo, se non incontra il favore dei

creditori. E ciò anche se il dissesto dell'impresa dipende esclusivamente da fattori esterni alla sua condotta, e cioè,

per esempio, da una congiuntura economica negativa o da circostanze comunque imprevedibili o ancor più da

condotte successive di altre persone (in realtà, ad essere precisi, le considerazioni che precedono dovrebbero

indurci a ritenere che l'elemento costitutivo, quale evento del reato, sia l'insolvenza, mentre la dichiarazione di

fallimento che, come si è testè detto, può dipendere anche da fattori totalmente "esterni", rappresenta una

condizione di punibilità dell'imprenditore che con la sua condotta distrattiva abbia consapevolmente cagionato il

dissesto. Tanto è vero che laddove non si fa luogo a dichiarazione di fallimento, è la stessa insolvenza a rilevare

per la sussistenza del reato; cfr. art. 237 I. fa Il.). 32. Dunque, secondo la interpretazione criticata - soprattutto

oggi alla luce della riforma iniziata nel 2005 - la responsabilità penale per il reato di bancarotta non dipenderebbe

da una condotta dell'imprenditore volontariamente realizzata con la consapevolezza di poter cagionare il dissesto

dell'impresa, bensì semplicemente dalla commissione di un fatto qualificabile come distrazione, di qualsiasi entità

ed in qualsiasi tempo realizzato, purché seguito dal fallimento. E poiché la scelta tra questa procedura ed una

soluzione negoziale alternativa dipende oggi in gran parte dall'atteggiamento dei creditori, sarebbero di fatto

questi ultimi a incidere pesantemente sulla responsabilità penale dell'imprenditore, anche se teoricamente - ai

sensi dell'art. 236, comma 2, I. fall. - per le società vi è reato di bancarotta pure in caso di concordato preventivo

(ma è noto che raramente l'azione penale viene esperita nel concordato). Anche sotto questo profilo, dunque,

sarebbe non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa, con

riferimento alla possibile violazione dell'articolo 27 Cost.: l'imprenditore potrebbe essere assoggettato ad una

grave pena detentiva per un evento non preveduto, non voluto, non causalmente connesso ad una sua azione e

dipendente, in ultima analisi, da una determinazione di volontà di terzi (tale ricostruzione del reato - lo si ricorda

ancora una volta - sarebbe compatibile con il nostro ordinamento penale solo considerando il fallimento come

condizione oggettiva di punibilità, ma ciò non risolverebbe i dubbi di costituzionalità). 33. Si pone, a questo

punto, una questione di compatibilità della tesi che vede il fallimento quale evento del reato di bancarotta

fraudolenta patrimoniale con la diversa fattispecie della bancarotta documentale, ma poiché si tratta di due reati

distinti, nulla impedisce che il fallimento svolga nei due casi una funzione diversa.

34. Quanto ai rapporti con le fattispecie di cui al secondo comma dell'articolo 223 della legge fallimentare, una

parte della dottrina ha rilevato come la stessa formulazione normativa sia indice del fatto che ove il legislatore ha

voluto porre il fallimento in rapporto di causalità con la condotta dell'agente, lo ha detto espressamente. In realtà,

il secondo comma dell'articolo 223, che peraltro si applica solo alle Imprese collettive e non a quelle individuali, è

norma di chiusura che prevede la punibilità anche di altre condotte che siano state determinanti nella causazione

del fallimento, pur non rientrando nell'elenco di cui all'articolo 216. Anche qui la differente formula letterale

utilizzata nel primo e nel secondo comma sembra suggerire diverse opzioni interpretative, ma non si deve

perdere di vista la ratio legis e la necessità di interpretare le norme in maniera sistematica, di modo da conferire

alla disciplina penale del fallimento una sua coerenza logica complessiva; né si deve dimenticare che anche le

norme penali della legge fall. sono state nel tempo rimaneggiate (il n. 1 del secondo comma è stato riscritto nel

2002) e in parte fanno riferimento a discipline (quale, ad esempio, quella societaria) che sono mutate nel tempo.

La dottrina, poi, non ha mai smesso di evidenziare la difficoltà interpretativa delle norme in esame, le cui

differenze lessicali appaiono spesso ingiustificate.

35. Tornando all'art. 223, si deve rilevare che la nuova formulazione del n.1 del comma 2 contempla ora in modo

inequivocabile la necessità del nesso causale tra la condotta dell'amministratore e l'evento di dissesto; tale

modifica non deve essere letta come volontà di delimitare l'area di responsabilità per il caso di commissione di

reati societari, cui consegua il fallimento, quanto piuttosto di chiarire che i fatti di bancarotta di tipo patrimoniale

in tanto rilevano in quanto abbiano una qualche rilevanza nella produzione del dissesto. Né sarebbe possibile

differenziare i reati di cui al n.1 del comma 2 con le ipotesi di cui al primo comma (che richiamano l'articolo 216),

posto che alcune fattispecie rientrano in entrambe le previsioni normative. Si pensi alla distribuzione ai soci di

utili non conseguiti, che configura senza dubbio atto di natura distrattiva, in quanto comporta la fuoriuscita dal

patrimonio sociale di denaro senza valida giustificazione (essendo la ragione dell'attribuzione solo simulata), con

potenziale corrispettivo danno per i creditori. Tale atto sarebbe punibile ai sensi del primo comma per il solo

Page 21: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

21

fatto che alla condotta segua il fallimento, senza alcuna indagine soggettiva o causale (secondo la tesi

giurisprudenziale antecedente), oppure ai sensi del n. 1 del secondo comma, ma solo se il fallimento è stato

determinato dalla distribuzione dell'utile fittizio e se l'agente era consapevole delle conseguenze pregiudizievoli

dell'atto. Orbene, nulla vieta al legislatore di individuare diverse tipologie di reato, con riferimento al contributo

causale e soggettivo di una medesima condotta, ma sembra del tutto irragionevole che i due reati, che per i motivi

suddetti non possono non rivestire un diverso disvalore, siano sanzionati in modo identico [il reato di cui al

secondo comma, n. 1, dell'art. 223 sarebbe caratterizzato dall'evento di danno, mentre secondo la prospettazione

"classica" il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva sarebbe reato di condotta; ebbene, se si pensa che la

verificazione di un evento di danno costituisce normalmente un'ipotesi aggravata (si veda ad esempio il

nuovissimo art. 236-bis I. fall.) - e dovrebbe quindi esserlo ancora di più quando l'evento entra nella struttura

soggettiva e causale del reato - si rende evidente come alla differenza di struttura dei due reati dovrebbe

necessariamente conseguire un differente trattamento sanzionatorio].

36. Se ne deve inferire, dunque, che le due norme incriminatrici (primo e secondo comma dell'art. 223 I. fall.)

hanno aree di perfetta sovrapponibilità e dunque si muovono in uno stesso ambito di operatività, richiedendo

entrambe sia il collegamento eziologico con la condotta, sia la copertura soggettiva in punto dissesto. La

funzione del secondo comma dell'articolo 223 è quella di estendere (ma solo in caso di impresa societaria) l'area

penale dell'illecito a tutte le operazioni dolose che abbiano prodotto il fallimento (nel n. 2 la norma esprime un

concetto generale, nel n.1 vi è elencazione tassativa di alcuni casi specifici di operazioni "dolose"), nonché di

rendere evidente, quanto al n.1, che opera il principio di assorbimento di cui all'art. 84 cod. pen. tra reato

fallimentare e reato societario.

37. Dunque, in conclusione:

> le norme sulla bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione sembrano, dal punto di vista

letterale, considerare il fallimento quale condizione oggettiva di punibilità (tale Interpretazione

consentirebbe di unificare la struttura dei vari reati di bancarotta);

> la giurisprudenza consolidata degli ultimi cinquant'anni di questa Corte ha sempre escluso che il

fallimento sia condizione di punibilità di un illecito di condotta;

> la condizione oggettiva di punibilità nei reati fallimentari suscita perplessità di natura costituzionale;

>l'interprete, posto di fronte a più significati alternativi delle norme, deve privilegiare, ove possibile,

quello conforme a costituzione;

> considerare il fallimento quale elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale

per distrazione è consentito dalle norme della legge fallimentare, tanto da essere interpretazione

affermata dalle sezioni unite della Corte di cassazione, poi consolidatasi nel corso di alcuni decenni;

> considerare il fallimento quale elemento essenziale del reato in oggetto ne comporta la soggezione ai

principi generali dell'ordinamento in materia di responsabilità penale personale, di cui agli articoli 27

della costituzione e 40 e seguenti del codice penale;

> ne consegue che la situazione di dissesto che dà luogo al fallimento deve essere rappresentata e

voluta (o quanto meno accettata come rischio concreto della propria azione) dall'imprenditore e deve

porsi in rapporto di causalità con la condotta di distrazione patrimoniale. 38. (omissis)

OMISSIONE PENALMENTE RILEVANTE

1. L’AMBITO DELLA CLAUSOLA DI EQUIVALENZA.

1.a) I REATI SENZA EVENTO. IL CASO DEL FAVOREGGIAMENTO PERSONALE:

Cass., sez. un., 5 giugno 2007, n. 21832

Page 22: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

22

L’acquirente di modiche quantità di sostanza stupefacente – qualora non siano emersi elementi

indicativi di uso non personale – deve essere sentito nel corso delle indagini preliminari come

persona informata sui fatti.

E' configurabile il delitto di favoreggiamento nel caso in cui l’acquirente di modiche quantità

di sostanza stupefacente per uso personale, sentito come persona informata sui fatti, si rifiuta

di fornire alla P.G. informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la droga; in tale ipotesi è

applicabile l’esimente di cui all’art. 384, co. 1, C.P. se in concreto le informazioni richieste

possono determinare un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore, anche se

determinato dall’applicazione delle misure previste dall’art. 75 D.P.R. 9.10.1990 n. 309.

In sostanza, le Sezioni unite sono chiamate a rispondere alle seguenti questioni:

a) Se l’acquirente di modici quantitativi di sostanza stupefacente debba essere sentito dalla P.G. o dal P.M., nel

corso delle indagini, come persona informata sui fatti o come ―indagato‖;

b) Se, nel caso in cui l’acquirente di modiche quantità di sostanza stupefacente, sentito come persona informata

sui fatti, si rifiuti di fornire alla P.G. informazioni sulle persone dalle quali ha ricevuto la droga, sia configurabile il

delitto di favoreggiamento e se, in tale ipotesi, sia applicabile l’esimente di cui all’art. 384 C.P..

(omissis)

Passando all’esame dell’altra questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite, va anzitutto affermato che la

condotta di chi, nella detta veste e situazione, si rifiuti di fornire alla P.G. le informazioni legittimamente

richiestegli integra gli estremi del reato di favoreggiamento personale (in termini, Cass., Sez. VI, 9.4/12.6.2003,

Alberti; cfr., per analoga affermazione a proposito di false dichiarazioni rese da soggetto prosciolto ai sensi

dell’art. 80 nel vigore della L. n. 685/1975, Cass., Sez. I, 3.6/19.10.1985, Bartolini). E’ noto che la condotta di

favoreggiamento incriminata dall’art. 378 C.P. consiste nell’aiuto consapevolmente prestato – quando non vi sia

stato concorso - all’autore di un reato precedentemente commesso per eludere le investigazioni dell’autorità.

Rimane perciò esclusa – secondo la dottrina ripresa da alcune massime giurisprudenziali (in particolare, Cass.,

Sez. VI, 14.12.1992/3.3.1993, P.M. in proc. Lacchè) - la configurabilità del reato nelle ipotesi di

―autofavoreggiamento‖, cioè quando il soggetto agisca per proteggere sé stesso dal rischio di incriminazione,

sicchè l’azione a favore del terzo è necessitata e soggettivamente assorbita nell’intento di autoprotezione.

D’altra parte, secondo consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, sostenuto anche da autorevole

dottrina, il reato di cui all’art. 378 C.P., a forma libera, ben può essere realizzato con ogni condotta,

anche omissiva come il silenzio, la reticenza, il rifiuto di fornire notizie richieste dalla polizia

giudiziaria, che consapevolmente si traduca in un aiuto al terzo per sottrarsi agli accertamenti degli

inquirenti (v., ad es., Cass., Sez. VI, 18.5/16.7.2004, Tuberoso).

Al reato in questione si applica, per espressa previsione normativa, l’esimente di cui all’art. 384, co. 1, C.P., ove

ricorra la situazione ivi contemplata (necessità di salvarsi ―da grave e inevitabile nocumento nella libertà o

nell’onore‖). Va condivisa l’opinione, pressochè unanime in giurisprudenza, che siffatto ―nocumento‖ può

derivare anche dall’applicazione di sanzioni amministrative come quelle previste dall’art. 75 D.P.R. n. 309/1990,

che comportano l’incapacità temporanea di ottenere autorizzazioni amministrative o la loro sospensione, se già

conseguite, incidendo sulla libertà personale e, potenzialmente, sull’onorabilità del soggetto (Cass., Sez. VI,

23.1/27.2.2002, Degrassi ed altri; 14.5/26.9.2003, Venneri; 19.11.2003/24.1.2004, Perre, in motivazione;

7.2/20.5.2005, Massafra; 7.2/28.3.2006, Strada ed altro). Va tuttavia precisato che in tal caso l’applicazione

dell’esimente non è automatica, ma subordinata alle condizioni previste dall’art. 384 C.P., ed in particolare alla

gravità del pregiudizio, che deve essere verificata in concreto, alla stregua delle risultanze acquisite e di eventuali

allegazioni dell’interessato, non comportando di per sé una breve sospensione dell’accesso ad autorizzazioni

amministrative il carattere della ―gravità‖ se non quando venga ad incidere in maniera rilevante sul lavoro, le

attività o la vita di relazione del soggetto. Con specifico riferimento al pregiudizio per la reputazione è stato

correttamente affermato – riprendendo un risalente indirizzo giurisprudenziale – che la necessità di evitare il

pericolo del grave nocumento nell’onore deve essere valutata dal giudice in modo non assoluto ma relativo,

Page 23: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

23

avendo riguardo, cioè, alla personalità dell’autore dell’illecito in relazione all’ambiente in cui egli vive ed alla

considerazione che riscuote nella comunità (Cass., Sez. VI, 7.2/11.3.2003, Salvo).

Quanto poi al contrastante orientamento giurisprudenziale che esclude in radice l’altro requisito dell’inevitabilità

del pregiudizio ―essendo prevista dalla legge la sospensione del procedimento‖ amministrativo ―ove l’interessato

richieda di sottoporsi al programma terapeutico e socio riabilitativo previsto dall’art. 122‖ (del D.P.R. n.

309/1990) ―e la sua successiva archiviazione ove risulti che l’interessato abbia attuato il programma,

ottemperando alle relative prescrizioni‖ (Cass., Sez. VI, 9.12.2004/31.1.2005, Lucci), basterà rilevare che

l’ammissione al programma costituiva facoltà discrezionale del Prefetto e che lo stesso programma comporta

limitazioni della libertà e potenziale pregiudizio per la reputazione del soggetto, onde anche in tal caso deve

essere valutata in concreto la ―gravità‖ dell’incidenza degli alternativi esiti del procedimento amministrativo. La

questione appare comunque superata dalla nuova disciplina introdotta dal D.L. n. 272/2005, secondo la quale il

programma terapeutico non comporta più la sospensione del procedimento sanzionatorio, ma la revoca, in caso

di esito positivo, delle sanzioni adottate.

Alla stregua di tali considerazioni, sulla seconda questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite va affermato il

principio che è configurabile il delitto di favoreggiamento nel caso in cui l’acquirente di modiche quantità di

sostanza stupefacente per uso personale, sentito come persona informata sui fatti, si rifiuta di fornire alla P.G.

informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la droga; in tale ipotesi è applicabile l’esimente di cui all’art. 384, co.

1, C.P. se in concreto le informazioni richieste possono determinare un grave e inevitabile nocumento nella

libertà o nell’onore, anche se determinato dall’applicazione delle misure previste dall’art. 75 D.P.R. 9.10.1990 n.

309.

(omissis)

1.b) I REATI A CONDOTTA VINCOLATO. IL CASO DELLA TRUFFA PER SILENTIUM:

Cass. pen., sez. fer., 27 novembre 2012, n. 46034

(omissis) 5. Dalla motivazione dell'impugnata pronuncia, la cui lettura va pertanto combinata con quella resa dal

Giudice di prime cure, emerge con chiarezza come la Corte territoriale abbia, con congrua e lineare esposizione

logicoargomentativa, fornito piena risposta ai rilievi difensivi, giustificando la valutazione di responsabilità

dell'imputato e fondandola sulle risultanze di prove testimoniali e documentali, dalle quali è emerso che la

persona offesa manifestò il consenso all'acquisto del veicolo, corrispondendone il prezzo, in quanto vi fu indotta

dalla falsa rappresentazione della realtà operata dall'imputato, che si presentò come effettivo proprietario

dell'autovettura, ancorchè la stessa risultasse intestata ad altra persona, impegnandosi, tra l'altro, a consegnare

successivamente al ---- i documenti originali, necessari per effettuare in suo favore la formale intestazione del

bene, consegna che, tuttavia, non ebbe luogo nonostante le rassicurazioni in tal senso offerte dall'imputato. Al

riguardo, pertanto, l'impugnata pronuncia si è fedelmente adeguata al consolidato insegnamento

giurisprudenziale di questa Suprema Corte, secondo cui gli artifizi o i raggiri richiesti per la sussistenza del

reato di truffa contrattuale possono consistere anche nel silenzio maliziosamente serbato su alcune

circostanze da parte di chi abbia il dovere di farle conoscere, indipendentemente dal fatto che dette

circostanze siano conoscibili dalla controparte con ordinaria diligenza (Sez. 2, n. 41717 del 14/10/2009,

dep. 30/10/2009, Rv. 244952; Sez. 2, n. 39905 del 11/10/2005, dep. 02/11/2005, Rv. 232666; v., inoltre, in

relazione ad una fattispecie analoga, Sez. 2, n. 6188 del 19/06/1972, dep. 04/10/1972, Rv. 121996). Parimenti

destituito di fondamento deve ritenersi il secondo motivo di doglianza, avendo i Giudici di merito già risposto

sul punto, spiegando, con congruo ed esaustivo apparato motivazionale - dal ricorrente, peraltro, solo

genericamente contestato, senza sviluppare un puntuale esame critico dei relativi passaggi argomentativi - che la

sussistenza del danno è connaturale all'esborso pecuniario del prezzo del veicolo da parte della persona offesa, la

quale, a fronte di un acquisto esposto all'azione di evizione da parte del legittimo proprietario, non può disporre

dell'autovettura in favore di alcuno, né provvedere all'intestazione a proprio favore, in mancanza della necessaria

Page 24: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

24

documentazione. 6. Nel caso in esame, pertanto, la Corte di merito ha preso in esame tutte le deduzioni

difensive, pervenendo alla decisione impugnata attraverso un esame completo ed approfondito delle risultanze

processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica. Al rigetto del

ricorso consegue, conclusivamente, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese

processuali.

2. L’OMISSIONE NEL CONCORSO DI PERSONE.

2.a) CONNIVENZA NON PUNIBILE E CONCORSO NEL REATO: Cass. pen., sez. I, 21

gennaio 2015, n. 7845

(omissis)

6. — Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello merita accoglimento.

6.1 — La sentenza è, innanzi tutto, inficiata dal vizio della motivazione. Per vero la Corte territoriale, ritenuta

accertata la fisica presenza in loco criminis — e nella flagranza del fatto di sangue — del ---, ha omesso di

valutare lo specifico addebito, contenuto nella imputazione, di aver contribuito alla materiale esecuzione della

concorsuale azione omicida, offrendo copertura ai sicari, impegnati nella azione di fuoco. La contestazione reca,

infatti, la enunciazione della specifica condotta di avere --- eseguito l'appostamento (anche) al concorrente «fine

di trovarsi in posizione tale da intervenire prontamente in caso di necessità». 6.2 — Sotto altro, ulteriore, profilo

la Corte territoriale è incorsa nella erronea applicazione della legge penale. Costituisce vero e proprio errore di

diritto — impregiudicata restando, beninteso, ogni questione circa il presupposto accertamento, in punto di

fatto, della condotta del giudicabile —la qualificazione in termini di mera connivenza (non punibile) della

presenza fisica del compartecipe di una associazione di tipo mafioso, in loco criminis e nella flagranza

di un delitto fine, che si iscriva nel conflitto del gruppo criminale con quello antagonista, là dove detta

presenza — salvo il caso che la stessa sia meramente accidentale e non correlata alla perpetrazione del

concomitante reato — risulti, invece, affatto intenzionale, motivata dalla scienza della deliberazione

delittuosa e dalla previsione della imminente commissione del reato. Infatti, per effetto della solidarietà

criminale, insita nel vincolo associativo, e del nesso finalistico tra il reato associativo e quello fine, la

percezione della presenza del sodale sulla scena del delitto comporta necessariamente il rafforzamento

della volontà degli esecutori e il potenziamento della capacità di intimidazione della concorsuale

condotta delittuosa. (omissis)

2.b) RESPONSABILITÀ PENALE DEGLI AMMINISTRATORI SOCIETARI SENZA

DELEGHE PER REATI COMMESSI DAI DELEGATI: Cass. pen., sez. V, 25 maggio 2009, n.

21581

(omissis)

E' infine da considerare, in relazione alla figura della "testa di legno" evocata dal PM impugnante, che la

giurisprudenza di questa Corte è nel senso che, per quanto la previsione di cui all'art. 2381 c.c. - introdotta

con il D.Lgs. n. 6 del 2003 che ha modificato l'art. 2392 c.c. - riduca gli oneri e le responsabilità degli

amministratori privi di delega, tuttavia, l'amministratore (con o senza delega) è penalmente

responsabile, ex art. 40 c.p., comma 2, per la commissione dell'evento che viene a conoscere (anche al di

Page 25: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

25

fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvede ad impedire, posto che a tal

riguardo l'art. 2932 c.c., nei limiti della nuova disciplina dell'art. 2381 c.c., risulta immutato. Ne deriva,

altresì, che detta responsabilità richiede la dimostrazione, da parte dell'accusa, della presenza (e della

percezione da parte degli imputati) di segnali perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito nonché

l'accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta ma per l'amministratore

privo di delega, onere che qualora non sia assolto dal ricorrente, nel silenzio della sentenza impugnata, si

converte nella richiesta di una ricostruzione storica del fatto, improponibile in sede di legittimità (Rv. 237251).

Ciò posto, l'impugnazione del PM appare fondata nella parte in cui deduce, conformemente al disposto dell'art.

606 c.p.p., lett. e), e alla doverosità di un giudizio che deve essere di natura eminentemente prognostica, il vizio di

motivazione sui limiti di riferibilità delle condotte sub B e C alla figura del Presidente della spa TC, quale

concorrente con gli amministratori, essendo manifestamente illogico e carente l'argomento con il quale è stata

esclusa la responsabilità in capo a tale soggetto sulla base eminentemente del rilievo della attività svolta dai titolari

delle deleghe e del dato meramente cronologico della cessazione della carica di presidente. In secondo luogo va

evidenziata la assenza di motivazione su emergenze processuali, che il PM assume di avere indicato nella richiesta

di rinvio a giudizio, e aventi un carattere rilevante ai fini della valutazione che il Gup doveva effettuare. In

particolare, in riferimento alle contestazioni sub B) e C), il Gup cita, senza ripercorrerne quantomeno per cenni la

rilevanza, le dichiarazioni di taluni testi a sostegno della tesi dell'essere, il M., rimasto un tecnico con funzioni

meramente nominali di Presidente della società. Per contro non esamina quelle che secondo la prospettazione del

PM sarebbero le dichiarazioni essenziali ossia le deposizioni dei funzionari Telecom Ib. e D. i quali avrebbero

collocato proprio nel periodo di Presidenza del M. il picco di traffico telefonico rivenduto dalla TC senza pagare

il dovuto al fornitore e senza che il ricavato trovasse una lecita collocazione. Si tratta 1i una emergenza che

configge in apparenza con quella valorizzata dal Gup circa la non coincidenza delle esposizioni debitorie col

periodo di Presidenza del M., emergenza della quale dunque si imponeva una valutazione critica per rendere la

motivazione completa e congruente rispetto a dati decisivi: e ciò, oltretutto, come già detto, nella prospettiva ed

alla luce della figura dell'amministratore senza delega e solo formale che il Gup ha ritenuto di evocare ed

utilizzare e che, invece, va considerata secondo il principio di diritto sopra formulato. Per quanto concerne le

imputazioni sub L e M, poi, analogo rilievo vale per la omessa valutazione delle dichiarazioni di I. W. rese il 23

marzo 2007, valutazione da effettuarsi ovviamente non in modo parcellizzato ma ricucendo assieme i diversi

profili di compromissione del M. in attività societarie omologhe e illecite. Ebbene le dichiarazioni dello I.

afferirebbero a aspetti rilevanti, riguardando il contributo assicurato dal M. alla attività intrinsecamente ed

estrinsecamente illecita di rivendita del traffico telefonico, con indicatori di probabile consapevolezza in capo

all'imputato, che avrebbero richiesto una specifica disamina da parte del Gup, libero ovviamente di giungere alla

conclusione che riterrà conforme alle risultanze. La necessità di nuova valutazione delle emergenze fin qui

ricordate impone la riconsiderazione anche dell'intero quadro valorizzato e valorizzabile per la configurazione del

reato associativo, costruito, nella specie, sulla base della addebitabilità dei reati fine.

2.c) RESPONSABILITÀ DELL’OPERATORE DELLA RETE PER I REATI COMMESSI

DALL’UTILIZZATORE DEI SERVIZI:

IL CASO GOOGLE: Cass. pen., sez. III, 3 febbraio 2014, n. 5107.

(omissis)

6. - La complessità e la novità delle questioni trattate impongono una sintetica ricostruzione del quadro

normativo interno di riferimento.

6.1. - Il comma 1 dell'art. 4 del Codice Privacy reca le seguenti definizioni: «a) "trattamento", qualunque

operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la

raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la

Page 26: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

26

selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la

cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati; b) "dato personale", qualunque

informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a

qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale; [...] d) "dati sensibili", i dati

personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le

opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico,

politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale; [...] f) "titolare", la

persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo

cui competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento

di dati personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza; g) "responsabile", la persona

fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo preposti

dal titolare al trattamento di dati personali; [...] i) "interessato", la persona fisica, cui si riferiscono i dati personali;

l) "comunicazione", il dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato,

dal rappresentante del titolare nel territorio dello Stato, dal responsabile e dagli incaricati, in qualunque forma,

anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione; m) "diffusione", il dare conoscenza dei dati

personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o

consultazione».

6.2. - L'art. 13 del Codice Privacy prevede, al comma 1, che: «L'interessato o la persona presso la quale sono

raccolti i dati personali sono previamente informati oralmente o per iscritto circa: a) le finalità e le modalità del

trattamento cui sono destinati i dati; b) la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati; c) le

conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere; d) i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati personali

possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di responsabili o incaricati, e l'ambito

di diffusione dei dati medesimi; e) i diritti di cui all'articolo 7; f) gli estremi identificativi del titolare e, se designati,

del rappresentante nel territorio dello Stato ai sensi dell'articolo 5 e del responsabile. Quando il titolare ha

designato più responsabili è indicato almeno uno di essi, indicando il sito della rete di comunicazione o le

modalità attraverso le quali è conoscibile in modo agevole l'elenco aggiornato dei responsabili. Quando è stato

designato un responsabile per il riscontro all'interessato in caso di esercizio dei diritti di cui all'articolo 7, è

indicato tale responsabile». Prevede inoltre, al comma 4, che, «Se i dati personali non sono raccolti presso

l'interessato, l'informativa di cui al comma 1, comprensiva delle categorie di dati trattati, è data al medesimo

interessato all'atto della registrazione dei dati o, quando è prevista la loro comunicazione, non oltre la prima

comunicazione».

La violazione delle disposizioni dell'art. 13 è punita dal successivo art. 161 del Codice Privacy con la sanzione

amministrativa del pagamento di una somma di denaro.

(omissi)

6.4. - L'art. 23 dispone - per quanto qui rileva - che il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti

pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato e che tale consenso è manifestato in

forma scritta quando il trattamento riguarda dati sensibili.

6.5. - Il successivo art. 26, dopo avere affermato, al comma 1, che «i dati sensibili possono essere oggetto di

trattamento solo con il consenso scritto dell'interessato e previa autorizzazione del Garante, nell'osservanza dei

presupposti e dei limiti stabiliti dal presente codice, nonché dalla legge e dai regolamenti», prevede, al comma 5,

che «i dati idonei a rivelare lo stato di salute non possono essere diffusi».

6.6. - La violazione di tali ultime disposizioni è sanzionata dall'art. 167, a norma del quale, «1. Salvo che il fatto

costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno,

procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130,

ovvero in applicazione dell'articolo 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a

diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi.

2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad

altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21,

22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni».

Page 27: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

27

6.7. - A tale disciplina si affianca quella contenuta nel d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 (Attuazione della direttiva

2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con

particolare riferimento al commercio elettronico), che all'art. 1, comma 2, alinea e lettera b), dispone che «Non

rientrano nel campo di applicazione del presente decreto: [...] b) le questioni relative al diritto alla riservatezza,

con riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle telecomunicazioni di cui alla legge 31 dicembre

1996, n. 675, e al decreto legislativo 13 maggio 1998, n. 171, e successive modificazioni.

6.8. - Quanto alla responsabilità nell'attività di memorizzazione di informazioni (hosting), il successivo art. 16 del

medesimo d.lgs. n. 70 del 2003 prevede che, «1. Nella prestazione di un servizio della società dell'informazione,

consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è

responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto

prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto

attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità

dell'attività o dell'informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità

competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso. 2. Le disposizioni

di cui al comma 1 non si applicano se il destinatario del servizio agisce sotto l'autorità o il controllo del

prestatore. 3. L'autorità giudiziaria o quella amministrativa competente può esigere, anche in via d'urgenza, che il

prestatore, nell'esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse».

6.9. - Infine, a norma del successivo art. 17 (Assenza dell'obbligo generale di sorveglianza), «1. Nella prestazione

dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza

sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o

circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. Fatte salve le disposizioni di cui agli articoli 14, 15 e 16,

il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o quella amministrativa

avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un

suo destinatario del servizio della società dell'informazione; b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità

competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l'identificazione del destinatario dei suoi servizi con

cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è

civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall'autorità giudiziaria o

amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto,

ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un

servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad informarne l'autorità competente».

7. - Dall'esame complessivo delle disposizioni riportate emerge che nessuna di esse prevede che vi sia

in capo al provider, sia esso anche un hosting provider, un obbligo generale di sorveglianza dei dati

immessi da terzi sul sito da lui gestito. Né sussiste in capo al provider alcun obbligo sanzionato

penalmente di informare il soggetto che ha immesso i dati dell'esistenza e della necessità di fare

applicazione della normativa relativa al trattamento dei dati stessi.

7.1. - A tali conclusioni si giunge muovendo dall'analisi delle definizioni di "trattamento" e "titolare del

trattamento" fornite dal richiamato art. 4 del Codice Privacy. Infatti, se non vi è dubbio che il concetto di

"trattamento" sia assai ampio, perché comprensivo di ogni operazione che abbia ad oggetto dati personali,

indipendentemente dai mezzi e dalle tecniche utilizzati, il concetto di "titolare" è, invece, assai più specifico,

perché si incentra sull'esistenza di un potere decisionale in ordine alle finalità, alle modalità del

trattamento di dati personali e agli strumenti utilizzati. Dalla definizione legislativa si desume, in altri

termini, che titolare del trattamento non è chiunque materialmente svolga il trattamento stesso, ma solo

il soggetto che possa determinarne gli scopi, i modi, i mezzi.

Dal complesso dei precetti fissati dagli artt. 13, 17, 23, 26 del Codice Privacy, interpretati in combinato disposto

con le norme sanzionatorie degli artt. 161 167 dello stesso Codice emerge, poi, che essi sono tutti diretti al

titolare del trattamento, eventualmente nella persona del "responsabile", ovvero del soggetto preposto al

trattamento stesso dal titolare, ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera g). Tali disposizioni presuppongono,

infatti, l'esistenza di un effettivo potere decisionale circa: a) le finalità e le modalità del trattamento cui sono

destinati i dati e la comunicazione eventuale dei dati stessi ad altri soggetti, anche attraverso la designazione dei

Page 28: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

28

responsabili (art. 13); b) la gestione dei rischi specifici «per i diritti e le libertà fondamentali, nonché per la dignità

dell'interessato, in relazione alla natura dei dati o alle modalità del trattamento» (art. 17); c) la ricezione del

consenso degli interessati, nel rispetto dei divieti legge (artt. 23 e 26).

Ne deriva, più in particolare, che i reati di cui all'art. 167 del Codice Privacy - per i quali qui si procede -

devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di

obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro

soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi

poteri decisionali.

7.2. - Tali conclusioni trovano applicazione anche con riguardo alla figura dell'Internet hosting provider,

perché esso è definito dall'art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003 come colui che si limita a prestare un «servizio

consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio». Da tale definizione,

interpretata nel contesto complessivo dello stesso art. 16, emerge, infatti, che il gestore del servizio di

hosting non ha alcun controllo sui dati memorizzati, né contribuisce in alcun modo alla loro scelta, alla

loro ricerca o alla formazione del file che li contiene, essendo tali dati interamente ascrivibili all'utente

destinatario del servizio che li carica sulla piattaforma messa a sua disposizione. A tale proposito, risulta

significativo che, secondo l'espressa previsione dello stesso art. 16, lo hosting provider non sia responsabile delle

informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio. E ciò, alla duplice condizione: che il

provider non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto

attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità

dell'attività o dell'informazione; che, non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità

competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso. Così disponendo,

in conformità della direttiva 2000/31/CE, il legislatore ha inteso porre quali presupposti della responsabilità

del provider proprio la sua effettiva conoscenza dei dati immessi dall'utente e l'eventuale inerzia nella

rimozione delle informazioni da lui conosciute come illecite. Se ne desume, ai fini della ricostruzione

interpretativa della figura del titolare del trattamento dei dati, che il legislatore ha inteso far coincidere il potere

decisionale sul trattamento con la capacità di concretamente incidere su tali dati, che non può prescindere dalla

conoscenza dei dati stessi. In altri termini, finché il dato illecito è sconosciuto al service provider, questo

non può essere considerato quale titolare del trattamento, perché privo di qualsivoglia potere

decisionale sul dato stesso; quando, invece, il provider sia a conoscenza del dato illecito e non si attivi

per la sua immediata rimozione o per renderlo comunque inaccessibile esso assume a pieno titolo la

qualifica di titolare del trattamento ed è, dunque, destinatario dei precetti e delle sanzioni penali del

Codice Privacy. In via generale, sono, dunque gli utenti ad essere titolari del trattamento dei dati

personali di terzi ospitati nei servizi di hosting e non i gestori che si limitano a fornire tali servizi.

7.3. - L'interpretazione appena delineata risulta ulteriormente confermata dal tenore letterale del successivo art.

17 - applicabile a tutte le categorie di provider disciplinate dagli articoli precedenti, ivi compreso lo hosting

service provider - che esclude la configurabilità di un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni

trasmesse o memorizzate e di un obbligo generale di ricercare attivamente eventuali illeciti. La stessa

disposizione individua il punto di equilibrio fra la libertà del provider e la tutela dei soggetti eventualmente

danneggiati nella fissazione di obblighi di informazione alle autorità, a carico dello stesso provider, relativamente

a presunte attività o informazioni illecite dei quali sia venuto a conoscenza, anche al fine di consentire

l'individuazione dei responsabili.

Né a tale conclusione può obiettarsi - come fa il Procuratore generale con il secondo motivo di ricorso - che l'art.

1, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 70 del 2003 prevede espressamente che non rientrano nel campo di

applicazione della normativa sul commercio elettronico le questioni relative al diritto alla riservatezza, con

riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle telecomunicazioni.

La richiamata disciplina sul commercio elettronico viene infatti in rilievo - come visto - non in via diretta ma solo

in via interpretativa, al fine di chiarire ulteriormente e confermare la portata che la disciplina in materia di privacy

ha già di per sé. In questo quadro, la definizione di Internet hosting provider contenuta nell'art. 16 del richiamato

d.lgs. n. 70 del 2003 deve essere intesa come meramente ripetitiva della nozione comune di Internet hosting

Page 29: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

29

provider già desumibile dal linguaggio utilizzato dagli operatori informatici. Si tratta, peraltro, di una nozione che

si pone in linea con l'orientamento del Gruppo di lavoro istituito dall'art. 29 della direttiva 95/46/CE e

composto dai rappresentanti delle autorità garanti in materia di privacy dei singoli Stati membri; organo

consultivo indipendente avente il compito di esaminare le questioni attinenti all'applicazione delle norme

nazionali di attuazione di detta direttiva. Nei suoi pareri (v., in particolare, il n. 5 del 2009 e il n. 1 del 2010, in

ec.europa.eu/justice/policies/docs) si evidenzia, in particolare, che i titolari del trattamento dei dati caricati in siti

di hosting sono i singoli utenti che li hanno caricati e che l'essere titolare del trattamento deriva dal fatto concreto

che un soggetto abbia scelto di trattare dati personali per propri fini; con la conseguenza che la persona che può

essere chiamata a rispondere delle violazioni delle norme sulla protezione dei dati è sempre il titolare del

trattamento e non il mero hosting provider. Analoghe considerazioni vengono svolte, a proposito del fornitore di

servizi di motore di ricerca su Internet, ai punti 84 e seguenti delle conclusioni dell'Avvocato generale presentate

il 25 giugno 2013 di fronte alla Corte di Giustizia nella causa C-131/12 (Google Spain SL e Google Inc. contro

Agencia Espanola de Protección de Datos e Mario Costeja Gonzàlez), laddove si precisa, in particolare, che tale

fornitore è riconducibile alla categoria dei titolari del trattamento di dati solo laddove incida direttamente sulla

struttura degli indici di ricerca, ad esempio favorendo o rendendo più difficile il reperimento di un determinato

sito.

7.4. - A tali considerazioni deve aggiungersi, infine, che la clausola di cui all'art. 1, comma 5, lettera b), della

direttiva sul commercio elettronico, ripresa da quella contenuta nell'articolo 1, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 70

del 2003 non ha di per sé la funzione di rendere inoperanti comunque in ogni fattispecie che riguardi la materia

della protezione dei dati personali le norme in materia di commercio elettronico. Più semplicemente, detta

clausola ha la funzione di chiarire che la tutela dei dati personali è disciplinata da un corpus normativo diverso da

quello sul commercio elettronico; corpus normativo che rimane applicabile in ambito telematico anche in seguito

all'emanazione della normativa sul commercio elettronico. Da ciò discende l'ovvia conseguenza che

l'applicazione delle norme in materia di commercio elettronico deve avvenire in armonia con le norme in materia

di tutela dei dati personali; armonia perfettamente riscontrabile - come appena visto - nel caso della

determinazione dell'ambito di responsabilità penale dell'Internet hosting provider relativamente ai dati sensibili

caricati dagli utenti sulla sua piattaforma. Tale interpretazione trova piena conferma, inoltre, nella Prima relazione

della Commissione in merito all'applicazione della direttiva 2000/31/CE, del 21 novembre 2003, in cui si legge,

al paragrafo 4.6, che le limitazioni della responsabilità giuridica stabilite dalla direttiva sul commercio elettronico

hanno carattere generale e coprono tanto la responsabilità civile quanto quella penale, per tutti i tipi di attività

illegali intraprese da terzi. Un'ulteriore conferma è data, poi, dalla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione

Europea 23 marzo 2010, nei procedimenti da C-236/08 a C-238/08 (punto 120), nella quale si afferma che l'art.

14 della Direttiva sul commercio elettronico (corrispondente all'art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003) deve essere

interpretato nel senso che si applica al prestatore di un servizio di posizionamento su Internet qualora detto

prestatore non abbia svolto un ruolo attivo a conferire la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. Se non

ha svolto un tale ruolo, il provider non può essere ritenuto responsabile per i dati che ha memorizzato, salvo che,

essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati, abbia omesso di prontamente rimuoverli o di

disabilitare l'accesso agli stessi.

8. - I principi appena enunciati trovano applicazione anche nel caso in esame, nel quale, in estrema sintesi: a) il

video raffigurante un soggetto affetto da sindrome di Down ingiuriato e preso in giro dai suoi compagni proprio

in relazione alla sua particolare sindrome era stato caricato su Google video, servizio di Internet hosting,

all'insaputa di tale soggetto; b) nei giorni 5 e 6 novembre 2006 alcuni utenti avevano segnalato la presenza del

video sul sito e ne avevano chiesto la rimozione; c) la rimozione era stata chiesta dalla Polizia postale il 7

novembre 2006; d) in quello stesso giorno il video era stato rimosso dal provider.

La posizione di Google Italia S.r.l. e dei suoi responsabili, imputati nel presente procedimento, è infatti

quella di mero Internet host provider, soggetto che si limita a fornire una piattaforma sulla quale gli

utenti possono liberamente caricare i loro video; video del cui contenuto restano gli esclusivi

responsabili. Ne consegue che gli imputati non sono titolari di alcun trattamento e che gli unici titolari

del trattamento dei dati sensibili eventualmente contenuti nei video caricati sul sito sono gli stessi

Page 30: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

30

utenti che li hanno caricati, ai quali soli possono essere applicate le sanzioni, amministrative e penali,

previste per il titolare del trattamento dal Codice Privacy.

(omissis)

LA CAUSALITÀ

2.a). I CRITERI DI ACCERTAMENTO: Cass. sez. un., 11 settembre 2002, Franzese

In tema di reato colposo omissivo improprio, con particolare riguardo alla materia della responsabilità

professionale del medico chirurgo, il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio

controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica -

universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa

impeditiva dell'evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca

significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la

conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la

validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del

ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e

processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria

dell'evento lesivo con 'alto o elevato grado di credibilità razionale' o 'probabilità logica'.

L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale,

quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta

omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la

neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio.

1.- Il problema centrale del processo, sollevato sia dal ricorrente che dalla Sezione remittente, ha per oggetto

l'esistenza del rapporto causale fra la condotta (prevalentemente omissiva) addebitata all'imputato e

l'evento morte del paziente e, di conseguenza, la correttezza logico-giuridica della soluzione ad esso data dai

giudici di merito.

E' stata sottoposta all'esame delle Sezioni Unite la controversa questione se "in tema di reato colposo

omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, con

particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medicochirurgo, debba essere

ricondotta all'accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l'evento sarebbe stato

impedito con elevato grado di probabilità 'vicino alla certezza', e cioè in una percentuale di casi 'quasi

prossima a cento', ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto 'serie ed apprezzabili probabilità di

successo' della condotta che avrebbe potuto impedire l'evento".

Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all'interno della Quarta Sezione della Corte di Cassazione: al

primo orientamento, tradizionale e maggioritario, che ritiene sufficienti 'serie ed apprezzabili probabilità di

successo' per l'azione impeditiva dell'evento, anche se limitate e con ridotti coefficienti di probabilità,

talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l'altro, più recente, per il quale é richiesta la

prova che il comportamento alternativo dell'agente avrebbe impedito l'evento lesivo con un elevato

grado di probabilità 'prossimo alla certezza', e cioè in una percentuale di casi 'quasi prossima a cento'.

Ritiene il Collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via

prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo alla

categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell'attività medico-chirurgica.

Page 31: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

31

2.- Nell'ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l'interpretazione che, nella

lettura degli artt. 40 e 41 del codice penale sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva sulla 'teoria

condizionalistica' o della 'equivalenza delle cause' (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento,

speculare e in negativo, alla 'causalità umana' quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da

sole sufficienti a determinare l'evento: art. 41 comma 2).

E' dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto

settore della responsabilità civile, a differenza. di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la

condotta umana, attiva o omissiva che si pone come condizione 'necessaria' - conditio sine qua non - nella catena

degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l'evento da cui dipende l'esistenza del

reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al 'giudizio controfattuale',

articolato sul condizionale congiuntivo 'se ... allora ...' (nella forma di un periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui il

fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale

'doppia formula', nel senso che: a) la condotta umana `è' condizione necessaria dell'evento se, eliminata

mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana

'non è' condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l'evento

si sarebbe egualmente verificato.

Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo

strumento logico dell'astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della

giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e

l'incertezza delle ipotesi esplicative dell'evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. N,

6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27.5.1993, Rech, rv. 196425; Sez.

IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata

l'eliminazione mentale dell'antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe

comunque prodotto, in quanto si sappia, 'già da prima', che da una determinata condotta scaturisca, o non, un

determinato evento.

E la spiegazione causale dell'evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata

dall'esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non

alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali, bensì) al modello

generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e

ripetibili, sotto 'leggi scientifiche' esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può essere configurato

come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare

conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica - 'legge di

copertura' -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi 'del tipo' di

quello verificatosi in concreto.

Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi `universali' (invero assai rare), che

asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi `statistiche'

che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una

certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest'ultime (ampiamente diffuse

nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di 'alto grado di

credibilità razionale' o 'probabilità logica', quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente

elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente

controllabili.

Si avverte infine che, per accertare l'esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione

sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili

dell'accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di 'assunzioni tacite' e presupporre come

presenti determinate 'condizioni iniziali', non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, 'ceteris

paribus', mantiene validità l'impiego della legge stessa.

3.- La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti acquisizioni

giurisprudenziali (Sez. fer., 1.9.1998, Casaccio, rv. 211526; Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, cit.; 29.9.2000, Musto,

Page 32: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

32

cit.; 25.9.2001, Covili, cit.; 25.9.2001, Sgarbi, cit.; 20.11.2001, Turco; 28.11.2000, Di Cintio, cit.; 8.1.2002, Trunfio;

23.1.2002, Orlando), le quali, nel recepire l'enunciata struttura logica della spiegazione causale, ne hanno

efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di reato e la funzione di criterio di

imputazione dell'evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi

scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in ossequio alle garanzie costituzionali di

legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27,

comma 1), e dall'altro, nell'ambito delle fattispecie causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte

rilevanti e per ciò delimitativa dell'area dell'illecito penale.

(omissis)Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale,

altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di

esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali

dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici.

E non è privo di significato che dalla quasi generalità dei sistemi giuridici penali europei ('conditio sine qua non')

e dei paesi anglosassoni ('causa but for') siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di

reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell'evento garantisce, in considerazione della funzione

ascrittiva dell'imputazione causale.

4.- Nel prendere atto che nel caso in esame si verte in una fattispecie di causalità (prevalentemente) omissiva

attinente all'attività medico-chirurgica, è da porre in evidenza innanzi tutto l'essenza normativa del concetto di

`omissione', che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e imposto

dall'ordinamento.

Il 'reato omissivo improprio' o 'commissivo mediante omissione', che è realizzato da chi viola gli speciali doveri

collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell'evento, presenta una spiccata autonomia

dogmatica, scaturendo esso dall'innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita dall'art. 40,

comma 2, cod. pen. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato commissivo

orientate verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi

omissive: autonomia che, per l'effetto estensivo dell'area della punibilità, pone indubbi problemi di legalità e

determinatezza della fattispecie criminosa.

Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all'equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte,

nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza

fonda la colpa dell'agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all'ordinaria sequenza

che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico.

Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle

alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall'erosione del paradigma causale nell'omissione, asseritamente

motivata con l'incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a fronte della pluralità

e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della 'imputazione oggettiva dell'evento'. Questa é

caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del fenomeno offerta dalla mera 'possibilità' o

anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del comportamento doveroso, espressa in termini di

'aumento - o mancata diminuzione - del rischio' di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di

salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e

rilevante. Pure in assenza, cioè, dell'accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell'agente la

condotta doverosa e diligente (ad esempio, in materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata

e intervento tempestivo), il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato,

ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha reagito a questa riduttiva lettura della causalità

omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa - che le Sezioni Unite condividono -, soprattutto nel

settore dell'attività medico-chirurgica (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Trunfio,

Orlando), delle malattie professionali (Sez. IV, Covili) e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, Sgarbi), convenendo

che anche per i reati omissivi impropri resta valido il descritto paradigma unitario di imputazione dell'evento.

Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell'omissione (è tuttora controversa la natura reale o

Page 33: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

33

meramente normativa dell'efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si

osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del 'condizionale

controfattuale', la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato

compimento dell'azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico

corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et

nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo `coperto' dal sapere

scientifico del tempo.

Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato indirizzo

interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della condizionalità necessaria

dell'omissione pretenderebbe un grado di `certezza' meno rigoroso rispetto ai comuni canoni richiesti per la

condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che l'affievolimento della nozione di causa penalmente

rilevante finisce per l'accentuare nei reati omissivi impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-

base di reati di danno, il disvalore della condotta, rispetto alla quale l'evento degrada a mera condizione obiettiva

di punibilità e il reato di danno a reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e

tipicità della fattispecie criminosa e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27,

comma 1), per essere attribuito all'agente come fatto proprio un evento `forse', non `certamente', cagionato dal

suo comportamento.

5.- Superato quell'orientamento che si sostanzia in pratica nella `volatilizzazione' del nesso eziologico, il contrasto

giurisprudenziale segnalato dalla Sezione remittente verte, a ben vedere, sui criteri di determinazione e di

apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, domandandosi, con particolare

riferimento ai delitti omissivi impropri nell'esercizio dell'attività medico-churgica, quale sia il grado di probabilità

richiesto quanto all'efficacia impeditiva e salvifica del comportamento alternativo, omesso ma supposto come

realizzato, rispetto al singolo evento lesivo.

Non é messo dunque in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta

verificabilità processuale: ciò in quanto i confini della 'elevata o alta credibilità razionale' del condizionamento

necessario, postulata dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, non sono affatto definiti dalla medesima

legge di copertura.

Dalle prassi giurisprudenziali nel settore indicato emerge che il giudice impiega largamente, spesso tacitamente,

generalizzazioni del senso comune, massime d'esperienza, enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche

di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico.

Di talché, secondo un primo indirizzo interpretativo, le accentuate difficoltà probatorie, il valore meramente

probabilistico della spiegazione e il paventato deficit di efficacia esplicativa del classico paradigma, quando si

tratti di verificare profili omissivi e strettamente ipotetici del decorso causale, legittimerebbero un affievolimento

dell'obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità. In considerazione del valore

primario del bene giuridico protetto in materia di trattamenti terapeutici e chirurgici, dovrebbe pertanto

riconoscersi appagante valenza persuasiva a 'serie ed apprezzabili probabilità di successo' (anche se `limitate' e

con ridotti coefficienti, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%) dell'ipotetico comportamento

doveroso, omesso ma supposto mentalmente come realizzato, sull'assunto che 'quando è in gioco la vita umana

anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l'interverto del medico'.

Le Sezioni Unite non condividono questa. soluzione, pure rappresentativa del tradizionale, ormai ventennale e

prevalente orientamento della Sezione Quarta (cfr. ex plurimis, almeno a partire da Sez. IV, 7.1.1983, Melis, le

citate sentenze Ziliotto, Prinzivalli, Pasolini, D'Erme, Oria, Silvestri, De Donato, De Giovanni, Presta) poiché,

com'è stato sottolineato dall'opposto, più recente e menzionato indirizzo giurisprudenziale (Sez. fer., Casaccio;

Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Covili, Sgarbi, Turco, Trunfio, Orlando), con la tralaticia formula delle

'serie ed apprezzabili probabilità di successo' dell'ipotetico intervento salvifico del medico si finisce per

esprimere coefficienti di `probabilità' indeterminati, mutevoli, manipolabili dall'interprete, talora

attestati su standard davvero esigui: così sovrapponendosi aspetti deontologici e di colpa professionale

per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione degli scopi

della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinto, dell'accertamento degli elementi

Page 34: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

34

costitutivi della fattispecie criminosa tipica.

Né va sottaciuto che dall'esame della giurisprudenza di settore emerge che in non pochi casi, sebbene qualificati

in termini di causalità omissiva per mancato impedimento dell'evento, non si è tuttavia in presenza di effettive,

radicali, omissioni da parte del medico. Infatti, talora si verte in tema di condotte commissive colpose, connotate

da gravi errori di diagnosi e terapia, produttive di per sé dell'evento lesivo, che è per ciò sicuramente attribuibile

al soggetto come fatto proprio; altre volte trattasi di condotte eterogenee e interagenti, in parte attive e in parte

omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive. Ipotesi queste per le quali, nella

ricostruzione del fatto lesivo e nell'indagine controfattuale sull'evitabilità dell'evento, la giurisprudenza spesso

confonde la componente omissiva dell'inosservanza delle regole cautelari, attinente ai profili di `colpa' del

garante, rispetto all'ambito - invero prioritario della spiegazione e dell'imputazione causale.

6.- E' stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un potenziale

dominio sulle categorie del diritto sostantivo e che la laboriosità del procedimento di ricostruzione probatoria

della tipicità dell'elemento oggettivo del reato coinvolge la tenuta sostanziale dell'istituto, oggetto della prova,

scardinandone le caratteristiche dogmatiche e insidiando la tipicità della fattispecie criminosa.

Ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare un'attenuazione del

rigore nell'accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione `debole' della causalità

che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale; dell' 'aumento del rischio',

finirebbe per comportare un'abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell'evento, in

violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio.

Deve tuttavia riconoscersi che la definizione del concetto di causa penalmente rilevante si rivela

significativamente debitrice nei confronti del momento di accertamento processuale, il quale resta decisivo per la

decodificazione, nei termini effettuali, dei decorsi causali rispetto al singolo evento, soprattutto in presenza dei

complessi fenomeni di 'causazione multipla' legati al moderno sviluppo delle attività.

Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, appare invero

sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo che partono dal fatto

storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e dalla formulazione della più probabile

ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativo dell' 'abduzione'), rispetto ai quali i dati informativi

e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza

dell'argomento `deduttivo', da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse stesse.

D'altra parte, lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche sottintende il distacco da

una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un'impossibile conoscenza di tutti gli

antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti da parte del giudice, il quale

ricorre invece, nella premessa minore del ragionamento, ad una serie di 'assunzioni tacite', presupponendo come

presenti determinate 'condizioni iniziali' e 'di contorno', spazialmente contigue e temporalmente continue, non

conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, 'ceteris paribus', mantiene validità l' impiego della legge

stessa. E, poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo

effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l'ipotesi ricostruttiva formulata

in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata

soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed

alternativo decorso causale.

Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell'accertamento in giudizio e si pretendesse

comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica

'certezza assoluta', si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in

settori nevralgici per la tutela di beni primari.

Tutto ciò significa che il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali

e sulla base dell'intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell'agente 'è' (non 'può essere')

condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell'operazione ermeneutica alla stregua dei comuni

canoni di 'certezza processuale', conducenti conclusivamente, all'esito del ragionamento probatorio di tipo

largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da 'alto grado di credibilità razionale' o

Page 35: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

35

'conferma' dell'ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in

termini di 'elevata probabilità logica' o 'probabilità prossima alla - confinante con la certezza'.

7.- Orbene, il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità

omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l'explanans è portatore, ma non è sostenibile

che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle

statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico 'prossimo ad 1', cioè alla 'certezza', quanto all'efficacia

impeditiva della prestazione doverosa e omessa. rispetto al singolo evento.

Soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione

parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s'innesta

la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-patogenetica dei

fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo

nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità.

E' indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità cal. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla

legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche),

impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità

nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch'essi, se corroborati dal positivo riscontro

probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa

la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere

utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento.

Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere

universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi

rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne

accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l' irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse,

controllandone quindi 1'`attendibilità' in riferimento al singolo evento e all'evidenza disponibile.

8.- In definitiva, con il termine 'alta o elevata credibilità razionale' dell'accertamento giudiziale, non

s'intende fare riferimento al parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione,

indicante una mera relazione quantitativa entro generi di eventi ripetibili e inerente come tale alla

struttura interna del rapporto di causalità, bensì ai profili inferenziali della verifica probatoria di quel

nesso rispetto all'evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto: non essendo consentito

dedurre automaticamente - e proporzionalmente - dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la

conferma dell'ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità.

La moderna dottrina che ha approfondito la teoria della prova dei fatti giuridici ha infatti precisato che; mentre la

'probabilità statistica' attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli

eventi (strumento utile e talora decisivo ai fini dell'indagine causale), la 'probabilità logica', seguendo l'incedere

induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell'ipotesi formulata in ordine allo

specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell'intera evidenza disponibile,

dell'attendibilità dell'impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità

dell'accertamento giudiziale (in tal senso, cfr. anche Cass., Sez. IV, 5.10.1999, Hariolf, rv. 216219; 30.3.2000,

Camposano, rv. 219426; 15.11.2001, Puddu; 23.1.2002, Orlando, cit.). Si osserva in proposito che, se nelle

scienze naturali la spiegazione statistica presenta spesso un carattere quantitativo, per le scienze sociali come il

diritto - ove il relatum è costituito da un comportamento umano - appare, per contro, inadeguato esprimere il

grado di corroborazione dell'explanandum e il risultato della stima probabilistica mediante cristallizzati

coefficienti numerici, piuttosto che enunciare gli stessi in termini qualitativi.

(omissis)

9.- In ordine al problema dell'accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo alla categoria dei

reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell'attività medico-chirurgica, devono essere pertanto enunciati,

ai sensi dell'art. 173.3 n. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto.

a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una

generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi

Page 36: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

36

come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell'evento hic et nunc, questo non si sarebbe

verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

b) Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la

conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la

validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del

ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e

processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria

dell'evento lesivo con 'alto o elevato grado di credibilità razionale' o 'probabilità logica'.

c) L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale,

quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta

omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la

neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio.

Va infine ribadito che alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare

retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative - la cd. giustificazione esterna - della

decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate

in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto

giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di

conferma dell'ipotesi sullo specifico fatto da provare.

(omissis)

2.b.) LE CONCAUSE

2.B).1. L’ERRORE DEL MEDICO: Cass. pen., sez. IV, 4 aprile 2013, n. 15685.

Nel caso di lesioni personali seguite dal decesso della vittima dell’azione delittuosa, l’eventuale

negligenza o imperizia dei medici non elide il nesso di causalità tra la condotta lesiva

dell'agente e l'evento morte. La colpa dei medici, infatti, anche se grave, non può ritenersi

causa autonoma e indipendente rispetto al comportamento, dell’agente che, provocando il fatto

lesivo, ha reso necessario l’intervento dei sanitari. Tale intervento nei confronti dl una persona

lesa costituisce un fatto tipico e prevedibile, e si inserisce perfettamente nella serie causale

originata dall’azione offensiva, rispetto alla quale costituisce momento di normale evoluzione.

3. Il ricorso - che peraltro reitera le stesse doglianze formulate in sede di appello e a cui la Corte territoriale ha

dato congrua e condivisibile risposta - è manifestamente infondato. Sostiene il ricorrente - il quale non contesta

le sue responsabilità in ordine alla causazione del sinistro - che tuttavia il decesso dell’A. sarebbe imputabile

esclusivamente alle negligenze dei sanitari del presidio ospedaliero di Noto ove questi fu ricoverato dopo il

sinistro.

Osserva la Corte: la causa sopravvenuta capace di interrompere il nesso di causalità, è quella idonea a

cagionare l’evento anche in assenza della condotta dell’agente ed a questa non è legata da un rapporto

di dipendenza. Le cause sopravvenute sufficienti da sole a cagionare l’evento sono solo quelle del tutto

indipendenti dal fatto del reo, avulse dalla condotta ed operanti con assoluta autonomia, in modo da

sfuggire al di lui controllo ed alla di lui prevedibilità (Cass., 29 aprile 1988, Parasacco) . Resta, invece,

ferma la rilevanza causale della condotta preesistente con la quale la causa sopravvenuta risulti in

relazione di interdipendenza, sì che, disgiunta da essa ed isolatamente considerata, non si rivela capace

di realizzare l’evento, stante il collegamento derivativo con la serie causale antecedente, di cui quella

Page 37: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

37

sopravvenuta appare uno sviluppo evolutivo (v. ex pluribus, cass. 3 giugno 1988, Claveri). Tale conclusione,

poi, non può mai essere posta in discussione quando la colpa medica di natura omissiva, come nella

specie, poiché solo quando essa è commissiva la condotta dei sanitari può assumere i caratteri di

atipicità. L’errore per omissione non prescinde mai dall’evento che ha fatto sorgere l’obbligo delle

prestazioni sanitarie (Cass. 1 novembre 1997, Van Custem).

Ne deriva (cfr. Sezione I, ottobre 1995, La Paglia RV 202686) che nel caso di lesioni personali seguite dal

decesso della vittima dell’azione delittuosa, l’eventuale negligenza o imperizia dei medici non elide il

nesso di causalità tra la condotta lesiva dell'agente e l'evento morte. La colpa dei medici, infatti, anche

se grave, non può ritenersi causa autonoma e indipendente rispetto al comportamento, dell’agente che,

provocando il fatto lesivo, ha reso necessario l’intervento dei sanitari. Tale intervento nei confronti dl

una persona lesa costituisce un fatto tipico e prevedibile, e si inserisce perfettamente nella serie causale

originata dall’azione offensiva, rispetto alla quale costituisce momento di normale evoluzione. Le

modalità con le quali i sanitari operano, pur connotate da colpa grave, non realizzano quella situazione

di sufficienza della causa intervenuta a determinare l’evento, dalla quale il leglslatore fa dipendere

l’esclusione del rapporto di causalità.

(omissis)

2.B).2. LA RILEVANZA DEL COMPORTAMENTO COLPOSO DEL LAVORATORE: Cass.

pen., sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21587

La condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo

quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento

lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa

esclusiva dell'evento.

(omissis)

È invece fondato il secondo motivo di ricorso. La Corte territoriale ha evidenziato che il sinistro è stato

determinato per un verso dal comportamento incongruo di un lavoratore, che ha ribaltato la tavola alla quale si

stava lavorando prima che l'operazione fosse conclusa, determinando il sollevamento della cuffia di protezione

della lama della sega rotante azionata dalla vittima; e per l'altro dal fatto che la stessa cuffia non era stata fissata

dalla vittima, stringendo l'apposito dado, in un contesto lavorativo in cui l'operaio non aveva ricevuto istruzione

sul modo corretto di utilizzare l'apparato. In tale quadro fattuale, si rileva che il comportamento intempestivo del

lavoratore che reggeva la tavola non può esser posto in concorso causale con la condotta omissiva del datore di

lavoro, poiché la norma cautelare violata ha la specifica funzione di prevenire proprio le disattenzioni e le

negligenze dei lavoratori nell'esecuzione delle incombenze loro affidate.

Per vero il P. nei motivi d'appello aveva sollevato la questione del concorso di colpa sia con riferimento alla

condotta dell'altro lavoratore che a quello della vittima. La Corte distrettuale ha invece esaminato la questione

con riguardo alla sola condotta imprudente del dipendente M. che mosse la tavola oggetto della lavorazione in

modo incongruo. Essa ha comunque espresso il principio di diritto dell'ontologica irrilevanza delle condotte

colpose dei lavoratori, che è idoneo a rispondere ad ambedue le prospettazioni difensive. Esso è tuttavia errato.

La questione divide la giurisprudenza di questa Corte sia in ambito civile che in quello penale.

In alcune sentenze si afferma che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese

ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli

incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed

imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio

occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti

e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo

attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per

Page 38: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

38

violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la

condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo

quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento

lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa

esclusiva dell'evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti tali caratteri estremi

sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell'infortunio, e in tal caso la responsabilità del datore di

lavoro può essere proporzionalmente ridotta. (Cass. sez. L, 17 aprile 2004, Rv. 572139; nello stesso senso Cass.

sez. L, 11 aprile 2006, Rv. 590921).

Di segno contrario altra parte della giurisprudenza civile. Si afferma, infatti, che il datore di lavoro, nel caso in

cui sia accertata la violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, non può

invocare il concorso di colpa del lavoratore non solo con riferimento all'incidente a lui occorso -avendo il

dovere- di proteggere l'incolumità di quest'ultimo, nonostante la sua eventuale imprudenza o negligenza, la quale

viene ad assumere solo l'efficacia di mera occasione o modalità dell'iter produttivo dell'evento - ma neanche

con riferimento all'incidente occorso ad altro lavoratore che sia intervenuto in operazioni di soccorso

del primo, nella concitazione delle quali, poi, nemmeno una eventuale imprudenza od imperizia del

soccorritore vale a configurare una responsabilità dello stesso, né esclusiva, né concorrente, nella

produzione del danno che costui si sia procurato (Cass. sez. L 22 luglio 2002, Rv. 556075).

Nello stesso senso si è affermato che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela

dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può

invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo

nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore

dipendente - in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente preposto

che ne faccia le veci) - finisca per configurarsi nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter

produttivo del danno, tale condotta, proprio perché "imposta" in ragione della situazione di subordinazione in

cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella

violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire

incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso.(Cass. sez. L, 8

aprile 2002, Rv. 553588).

Pure la giurisprudenza penale è divisa.

Da una parte si afferma che in tema di infortunistica sul lavoro, le norme per la prevenzione degli

infortuni sono rivolte alla tutela della incolumità fisica del lavoratore, anche in considerazione delle

conseguenze di eventuali errori nei quali egli possa incorrere nell'espletamento della sua opera onde,

nei limiti della prevedibilità e, quindi, della prevenibilità, di simili errori non sussiste colpa concorrente

dell'infortunato. (Cass. sez. 4ª, 23/6/1988, n. 7614, Rv. 181391).

Di segno contrario altre sentenze. Si afferma che, in tema di omicidio colposo sul lavoro, concorre nel

delitto per violazione della norma di prudenza e diligenza e di prevenzione degli infortuni il lavoratore

dipendente che - alla guida di un autocarro in retromarcia, privo di idoneo posto di manovra e senza la

presenza di incaricati alle segnalazioni (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 182), in condizioni precaria

visibilità all'interno di una galleria e, quindi, di estrema pericolosità (art. 101 C.d.S.) - investe una

persona operante dietro il veicolo. Il lavoratore dipendente, pur non potendo ingerirsi nell'organizzazione

aziendale, ha l'Obbligo di rifiutarsi di operare in simili condizioni di estremo rischio per la sicurezza collettiva

(D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 6 lett. A) (Cass. sez. 4ª, 5/7/1990 n. 14429 Rv. 185672).

Di analogo segno altra sentenza in cui si afferma che in tema di misure antinfortunistiche, le opere provvisionali,

così come le altre cautele previste dalla legge, sono finalizzate a proteggere i lavoratori anche per il caso di

imprudenza, imperizia, inosservanza di disposizioni interne e, perciò, per l'ipotesi di comportamento colposo del

lavoratore, il quale comportamento, pertanto, non esclude la responsabilità del datore di lavoro (o di chi per lui

tenuto secondo legge) quando emerga che le opere provvisionali apprestate siano risultate insufficienti o

inefficienti o realizzate in violazione alla specifica normativa regolante la materia; fermo restando, ove ricorra,

l'accertabilità di concorso di colpa dell'infortunato. Solo nel caso di comportamento doloso, ovvero di tanto

Page 39: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

39

evidente quanto macroscopica imprudenza, da parte del dipendente, sarà ipotizzabile la interruzione del nesso di

causalità, psicologica secondo la formula di cui all'art. 41 c.p., comma 2, (Cass. Sez. 4ª, 3/10/1988, n. 10598, Rv.

179585).

Il tema è affrontato pure in altra sentenza focalizzata sui profili civilistici. Qualora un operaio infortunatosi sul

lavoro si costituisca parte civile nel procedimento penale relativo alle lesioni riportate e sia ravvisato dai giudici

del merito il suo concorso di colpa nella misura di un terzo, restando i rimanenti due terzi a carico degli imputati,

non può la parte civile sostenere che, avendo ella tenuto il comportamento imprudente insieme con altri due

operai, il suo concorso di colpa nella produzione dell'evento lesivo debba essere limitato ad un nono, essendo i

restanti due noni riconducibili agli altri due operai, la cui responsabilità concorrente era stata dai Giudici

riconosciuta. Ed infatti, la parte civile in sede penale, ha dinanzi a sé solo due danneggianti, gli imputati, che non

possono rispondere oltre il loro concorso di colpa, valutato nella misura di due terzi, mentre il residuo terzo non

può che gravare su di lui sino all'accertamento della corresponsabilità degli altri due operai. Trattasi, per

l'appunto, di questione di solidarietà passiva tra tutti gli autori del danno ivi compresi gli altri due operai, che va

risolto, nella competente sede e nel contraddittorio anche con questi ultimi (Cass. Sez. 4ª, del 21/12/1995 n.

3483, Rv. 204975).

L'orientamento prevalente nella giurisprudenza penale che, come si è visto, ammette la rilevanza del concorso di

colpa del lavoratore che ha subito l'infortunio nonché di altri lavoratori, deve essere condiviso e riaffermato. Il

tema ha peraltro diverse implicazioni che occorre chiarire.

L'art. 133 c.p., richiede che ai fini della determinazione della pena sia valutata la gravità del reato; ed individua tra

i fattori rilevanti il grado della colpa. La graduabilità della colpa si desume altresì dagli artt. 43 e 61 n. 3, che

configurano la colpa cosciente come un grado particolare e non come una figura autonoma di colpa. Si individua

così un'esigenza di graduazione immanente alla personalizzazione del rimprovero che può essere mosso

all'agente, e quindi alla colpevolezza.

Molteplici sono i fattori che tradizionalmente rilevano in tale ambito: la gravità della violazione della regola

cautelare; la misura della prevedibilità ed evitabilità dell'evento; la condizione personale dell'agente; il possesso di

qualità personali utili a fronteggiare la situazione pericolosa; la motivazione della condotta. Spesso, peraltro,

coesistono fattori differenti e di segno contrario. In tale caso il giudice è chiamato alla ponderazione comparativa

di tali fattori.

L'analisi comparativa diviene particolarmente complessa quando si presenti il concorso di colpa di più agenti o

della stessa vittima. In tali casi si pone l'esigenza d'integrare la valutazione delle singole posizioni soggettive con

una valutazione comparativa.

Nella giurisprudenza di questa Corte non si rinvengono indicazioni analitiche circa i fattori di graduazione della

colpa; anche se non mancano riferimenti impliciti o accennati alla distanza tra la condotta tenuta e quella pretesa,

alla misura della prevedibilità dell'evento (Cass. 29 aprile 1980, Riggi, CED Cass. n. 145891) nonché ai livelli di

prudenza diligenza e perizia esigibili in relazione alle qualità personali e professionali. Così, ad esempio, è stata

rilevata l'esistenza di un grave errore diagnostico, da valutare con particolare rigore, nel caso di condotta posta in

esser da un medico specialista ginecologo (Cass. 17 febbraio 1981, Faragiana, Rv. n.149215) Il tema della

ponderazione comparativa si pone soprattutto a proposito del concorso di colpe. In più occasioni si è affermato

che in caso di concorso di colpe non rilevano tanto il numero dei fattori attribuibili a ciascun agente, quanto la

loro natura e l'efficienza sul processo di causazione dell'evento. In alcune pronunzie, tuttavia, è stata meglio

sottolineata la distinzione tra l'apporto di distinte condotte colpose alla causazione dell'evento e la graduazione

comparativa delle colpe sotto il profilo della rimproverabilità personale. Così, è stato posto in luce che il

concorso di condotte colpose ha riguardo all'entità del rapporto causale ed ha quindi un contenuto oggettivo;

mentre il grado della colpa è un connotato soggettivo che va dalla generica prevedibilità dell'evento fino alla sua

concreta previsione. Tali elementi non sono sempre coincidenti, poiché una colpa lieve può avere una incidenza

causale preponderante, mentre una colpa grave può avere una incidenza eziologica minima. (Cass. 24 aprile 1980,

Giust. pen., 1981, 2ª, 102, 114; Cass. 19 novembre 1981, Sergnese, CED Cass. 152027; Cass. 16 febbraio 1982,

Arrigo, ivi, 1983, 2ª, 581; Cass. 14 ottobre 1991, Corrao, Giur. ifc. 1996, 12; Giust. pen. 1996, 202; Cass. 4 luglio

1983, Leonori, CED Cass. n. 164092).

Page 40: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

40

Da tale distinzione emerge che la cosiddetta graduazione delle colpe concorrenti è rilevante in diversi ambiti. Da

un lato essa riguarda l'apporto causale delle condotte colpose. Tale giudizio ha senza dubbio rilievo ai fini delle

statuizioni sugli interessi civili; ma a ben vedere non è privo di rilievo ai fini della stessa determinazione della

pena, posto che l'art. 133 c.p., n. 2, richiede la ponderazione della gravità del danno e quindi, in una prospettiva

comparativa, la considerazione del concreto ruolo avuto da ciascuna delle diverse condotte illecite nell'incedere

del processo causale. La ponderazione delle diverse condotte colpose ha, o può avere, altresì rilievo ai fini della

graduazione della colpa in senso proprio; ai fini cioè del giudizio in ordine alla rimproverabilità della condotta di

ciascuno.

Tale articolata influenza è stata evidenziata in diverse pronunzie. Si è infatti affermato che in tema di reati colposi

inerenti alla circolazione stradale, il Giudice del merito ha il dovere di quantificare l'apporto causale alla

verificazione dell'evento attribuibile alla parte lesa e quello addebitabile al prevenuto. Ciò sia ai fini della

determinazione della giusta (al caso di specie adeguata) pena, dato che, ai sensi di quanto dispone l'art. 133 c.p.,

nn. 2 e 3, nell'esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice dall'art. 132 c.p., hanno influenza la gravità

del danno cagionato e il grado della colpa, sia al fine di soddisfare le legittime aspettative della parte civile, se

presente, la quale ha diritto di sentire quantificare, ancorché sotto il solo profilo dell'an debeatur, la misura del

risarcimento del danno spettantele. (Cass. 6 ottobre 1988, Ballanza, Rv. n. 179738). In termini sostanzialmente

coincidenti si è affermato che esiste sempre l'obbligo del giudice di accertare la colpa concorrente della persona

offesa o del terzo, in quanto sussiste sempre l'interesse dell'imputato all'accertamento dell'eventuale concorso alla

produzione dell'evento, considerati i riflessi negativi che il mancato accertamento potrebbe avere sia sotto

l'aspetto dell'entità del risarcimento sia sotto quello della misura della pena da irrogare in relazione ai principi

fissati dall'art. 133. c.p. (Cass. 1 luglio 1980, Aquilano, CED Cass. n. 146290; Cass. 20 gennaio 1987, Barretta,

CED Cass. n. 175636).

A fronte di una così cruciale rilevanza del tema del concorso delle colpe, ivi compresa quella della vittima,

occorre in conclusione chiedersi se esistano ragioni che consentano di escludere rilievo al comportamento

colposo del lavoratore. La risposta appare senz'altro negativa. Già il D.P.R. n. 547 del 1995, all'art. 5, individuava

doveri dei lavoratori. Essi sono stati confermati e specificati dalD.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5, che ha enunciato il

generale dovere del lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza nonché delle altre persone

presenti sul luogo di lavoro, sulle quali possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni. Tali doveri sono

inoltre penalmente sanzionati dal successivo art. 93. Dunque, è ben possibile che nella dinamica dell'evento

illecito s'inseriscano, con rilievo eziologico, comportamenti del lavoratore che costituiscano violazione di precisi

doveri afferenti alla sicurezza o alla salute.

Né è possibile eludere la rilevanza delle condotte colpose del lavoratore argomentando dal fatto che il datore di

lavoro ha il dovere di proteggere l'incolumità del lavoratore, nonostante la sua eventuale imprudenza o

negligenza. Questa Corte, in effetti, ha in numerose occasioni affermato il principio che le norme per la

prevenzione degli infortuni sul lavoro hanno la funzione primaria di evitare che si verifichino eventi lesivi

dell'incolumità fisica del lavoratore, anche in ordine ad incidenti derivati da negligenza imprudenza od imperizia

di questi. Anche in riferimento a tali possibili comportamenti incongrui occorre adottare adeguate cautele. La

condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre

l'evento, rilevante ai sensi dell'art. 41 cpv. c.p., quando sia comunque riconducibile all'area di rischio propria della

lavorazione svolta. Il datore di lavoro è esonerato da responsabilità per esclusione dell'imputazione oggettiva

dell'evento solo quando il comportamento del lavoratore e le conseguenze che ne discendono presentino i

caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive

organizzative ricevute. (Tra le altre Cass. 10 novembre 1999, Addesso, Rv. 183633; Cass. 25 settembre 1995, Dal

Pont, in Cass. pen. 1997; Cass. 8 novembre 1989, Dell'oro, Rv. 183199; Cass. 11 febbraio 1991, Lapi, Rv.

188202; Cass. 18 marzo 1986, Amadori, Rv. 174222; Cass. 14 giugno 1996, Ieritano, Rv. 206012; Cass. 13

novembre 1984, Accettura, Rv. 172160; Cass. 3 giugno 1999, Grande, Rv. 214997).

In tali situazioni estreme, in effetti, si è completamente al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in

corso; e quindi oltre la pur estesa sfera di responsabilità del datore di lavoro.

Al contrario, quando si è comunque all'interno dell'area di rischio nella quale si colloca l'obbligo del datore di

Page 41: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

41

lavoro di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati

del lavoratore, non è possibile ipotizzare l'esonero da responsabilità. Tuttavia, l'esigenza di assicurare la

personalizzazione e la compiuta definizione della sfera di responsabilità dei soggetti coinvolti impone

di analizzare e definire il ruolo di ciascuno, sia sotto il profilo dell'apporto alla causazione dell'evento,

sia per ciò che attiene alla ponderazione del rimprovero personale e quindi della colpa.

Si tratta, infatti, come si è sopra esposto, di questioni che hanno rilevanza ai fini della ricostruzione dei fattori che

interagiscono sinergicamente nell'iter causale; e che rilevano nell'ambito della graduazione della colpa. Tali

questioni, come pure si è esposto, influiscono sia sulla determinazione della pena che sulle statuizioni civili. Una

diversa soluzione rischierebbe d'intaccare i principi di fattualità e di colpevolezza; sottraendo alla sfera di giudizio

una parte del fatto, rilevante ai fini della analitica comprensione del ruolo e del peso avuto negli accadimenti

dall'imputato.

(omissis)

2.c.) CAUSALITÀ ED ESPOSIZIONE AD AMIANTO: Cass. pen., sez. IV, 21 novembre 2014

(dep. 16 marzo 2015), n. 11128.

(omissis)

Orbene, i motivi di ricorso ruotano, in ultima analisi, intorno a tre capisaldi tematici, per trarne precise

conseguenze sotto il profilo dell'insussistenza del nesso di causalità: 1) i protocolli scientifici a fondamento

delle diagnosi; 2) i meccanismi patogenetici del mesotelionna, dell'asbestosi e del carcinoma polmonare e la

sensibilità della patologia in essere alle ulteriori esposizioni; 3) la rilevanza di fattori di rischio alternativi, per

quanto concerne il carcinoma- il fumo da sigarette tra tutti.

Due sono stati gli assunti difensivi di partenza: 1) l'omessa adozione di corretti protocolli diagnostici avrebbe

erroneamente indotto il giudice a ritenere la natura professionale delle patologie; 2) una volta impiantata la prima

cellula patogena, le esposizioni successive non influirebbero sullo sviluppo della malattia (teoria della "trigger

dose") con la conseguente impossibilità di stabilire l'esatto momento d'insorgenza della malattia e quindi di

attribuire con certezza ad uno o all'altro degli imputati la responsabilità dell'evento lesivo attesa l'irrilevanza

causale delle condotte tenute in epoca successiva.

11 (omissis) E' stato così ribadito che l'unica ed esclusiva causa dell'asbestosi polmonare è costituita da un'intensa

e prolungata esposizione all'amianto e rappresenta una malattia prettamente professionale; inoltre si è fornita

adeguata risposta alle censure formulate con l'atto di appello contestando la tesi della scissione degli aspetti

relativi alla diagnosi da asbesto e quelli relativi alla correlabilità della malattia all'esposizione all'amianto. (omissis)

Infatti, in un caso analogo già questa Corte ha condivisibilmente ritenuto la diagnosi di morte per mesotelionna,

pur in mancanza degli esami clinici istologico ed autoptico, riconoscendo che la sussistenza del nesso di causalità

può essere affermata, oltre che sulla base di dati empirici o documentali di immediata evidenza, anche con

ragionamento di deduzione logica purché fondato su elementi di innegabile spessore correttamente esaminati

secondo le "leges artis"" (Cass. pen. Sez. IV, n. 5037 del 30.3.2000, Rv. 219426, già richiamata nella sentenza

impugnata, e successive conformi). (omissis)E a tal riguardo la Corte territoriale si è così espressa, richiamando la

giurisprudenza di legittimità (pagg. 73-74),: "il processo di formazione della patologia cancerogena (ossia, sia del

carcinoma polmonare, che del mesotelioma), viene descritto come un'evoluzione a più "stadi", la cui

progressione è determinata dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno con la conseguenza che l'aumento

della dose di amianto inalata è in grado di accorciare la latenza della malattia e di aggravare gli effetti della stessa.

Pertanto, secondo tale teoria, le patologie tumorali (sia il carcinoma polmonare che il mesotelioma) devono

considerarsi dose-correlate, nel senso che il loro sviluppo, in termini di rapidità e gravità, appare condizionato

dalla quantità di sostanza cancerogena inalata dal soggetto (circostanza, quest'ultima, sostanzialmente condivisa

nell'atto di appello e richiamata in ricorso a pag. 170). Ne consegue che, a prescindere dall'individuazione della

dose-innescante, le esposizioni successive e, quindi, le ulteriori dosi aggiuntive devono essere considerate

concausa dell'evento proprio perchè esse abbreviano la latenza ed anticipano di conseguenza l'insorgenza della

Page 42: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

42

malattia, accorciano la latenza, aggravano la patologia e, nei casi estremi, anticipano la morte. E' noto, infatti, che

la 15 degenerazione delle cellule possiede uno sviluppo estremamente lento, tanto che si parla ordinariamente di

tempi di latenza. Deve, quindi, affermarsi che in tutte le patologie per cui è processo, il rischio aumenta

all'aumentare della dose e che indubbia rilevanza causale posseggono gli effetti cumulativi delle esposizioni

successive rispetto a quella iniziale. Il che significa, conseguentemente, che sussiste un rapporto esponenziale

della dose di cancerogeno assorbita in termini di risposta tumorale, per cui l'aumento della detta dose di

cancerogeno assorbito non potrà che comportare evidentemente un accrescimento della frequenza con cui il

tumore tende a manifestarsi e che, "a contrario", un'eventuale riduzione dell'intensità o durata dell'esposizione

lavorativa all'amianto avrebbe causato una riduzione del rischio di contrarre le patologie per cui oggi e processo.

Sulla base di tali principi, non può che condividersi la conclusione cui è pervenuto il primo giudice

(argomentando sulla base delle conclusioni dei periti che hanno, infatti evidenziato che, la molteplicità di

alterazioni innescate dall'inalazione delle fibre tossiche necessita del prolungarsi dell'esposizione e dal detto

prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitive della vita) tutte le esposizioni alle sostanze nocive,

cui pacificamente sono stati sottoposti i lavoratori deceduti, e quelli nei cui confronti è stata accertata la

sussistenza di una patologia amianto correlata, hanno svolto un ruolo concausale, quantomeno nell'anticipare la

data di insorgenza della malattia e/o della morte, con la conseguenza che, qualora gli odierni imputati avessero

adottato le cautele previste dalla legge, ciò sarebbe servito a ridurre la dose di esposizione alle sostanze

cancerogene e, pertanto, a posticipare l'insorgenza della malattia e ad allungare la vita dei soggetti deceduti'.

Quindi, le tesi sposate dalla sentenza impugnata sul punto si collocano nell'alveo segnato dalla prevalente

giurisprudenza di legittimità (tra tutte, Cass. pen. Sez. IV, n. 988 del 11.7.2002, Rv. 227000, Macola) che ha

ritenuto corretta, anche per il mesotelioma, la teoria scientifica di un processo patologico che mette in crisi la

teoria della "dose killer o dosi trigger -teoria della dose 'trigger', che viene squalificata come frutto di artificio.

Nonchè in linea con il principio secondo cui la responsabilità per gli eventi dannosi legati all'inalazione di polveri

di amianto, pur in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della patologia, va attribuita causalmente alla

condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale, anche se per una parte soltanto del periodo

di tempo di esposizione delle persone offese, in quanto tale condotta, con riguardo alle patologie già insorte, ha

ridotto i tempi di latenza della malattia, ovvero, con riguardo alle affezioni insorte successivamente, ha accelerato

i tempi di insorgenza (cfr. Cass. pen. Sez. IV, n. 38991 del 10.6.2010, Quaglierini e altri, Rv. 248847).

Correttamente sono stati, dunque, esclusi i due assiomi scientifici intorno ai quali gravitano le censure della

difesa, e cioè il principio della latenza reale, il cui inizio si 16 fa coincidere con la formazione della prima cellula

cancerogena, quale criterio per la corretta determinazione del tempus commissi delicti e la detta teoria della

"trigger dose" o dose scatenante, da cui deriverebbe l'irrilevanza delle esposizioni successive all'insorgere del

meccanismo patogenetico. Non vi è stata, infatti, alcuna violazione degli artt. 40 e 41 c.p. e dei parametri tracciati

dalla sentenza "Franzese" (Cass. Pen. Sez. Un. n. 30328 del 10.7.2002) né omissione radicale del giudizio sulla

causalità specifica. Invero, come osservato dalla sentenza sopra richiamata n. 24997/2012, in tema di omicidio

colposo sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del datore di lavoro di idonee misure di

protezione ed il decesso del lavoratore in conseguenza della protratta esposizione alle polveri di amianto, quando,

pur non essendo possibile determinare l'esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi prevedibile

che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo tempo di latenza (Cass. pen.

Sez. IV, n. 22165 del 11.4.2008, Rv. 240517). Al riguardo, questa Corte in più occasioni (v. la richiamata Sez. Un.

n. 30328 del 10.7.2002, Franzese; e successive conformi), nel ripercorrere i fondamenti giuridici della

causalità omissiva, ha affermato che la spiegazione degli eventi attraverso il sapere scientifico non

significa fare uso solo di leggi universali che sono molto rare, ma anche di leggi statistiche, di

rilevazioni epidemiologiche, di generalizzazioni empiriche del senso comune. La causalità omissiva

presenta una complessità particolare perché si fonda non su fatti materiali empiricamente verificabili,

ma su di una ricostruzione logica, che, a differenza di quella commissiva, non può avere una verifica

fenomenica. Il rapporto che si istituisce tra una entità reale, vale a dire l'evento verificatosi, ed un'entità

immaginata, la condotta omessa ed il giudizio controfattuale ("contro i fatti": se l'intervento omesso fosse

stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell'evento?) serve a ricostruire la sequenza e a fondare la

Page 43: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

43

risposta. Tuttavia questa risposta che deve servirsi del sapere scientifico e quindi necessita di una

"legge di copertura" non va fondata solo su leggi assolute, ma anche su altre forme di sapere che

comportino la possibilità di affermare con logica certezza la riferibilità della condotta omessa

all'evento. Nel caso di specie la Corte territoriale, servendosi delle conclusioni e delle spiegazioni peritali, indica

le conoscenze scientifiche attraverso le quali giunge ad affermare che sussiste nesso di causalità tra condotta

ed evento anche quando non si può stabilire il momento preciso dell'insorgenza della malattia

tumorale, perché è sufficiente che la condotta abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne

abbia ridotto il periodo di latenza. La validità di siffatto ragionamento scientifico è stata sovente apprezzata

da questa Corte poiché la riduzione dei tempi di latenza dell'esplodere del tumore incide in modo significativo

sull'evento morte, riducendo la durata della vita. La Corte territoriale ha motivato sia in ordine alla gravità della

condotta omissiva, sia in ordine agli effetti dell'esposizione all'amianto e, con argomentazioni logiche, corrette e

condivisibili, ha supportato il proprio convincimento, relativo all'effetto utile per evitare il danno alla salute dei

lavoratori, del doveroso abbattimento delle polveri attraverso il rispetto delle norme antinfortunistiche che anche

all'epoca erano ben conosciute. 12. E' stata condivisa, motivatamente, la validità riconosciuta dal Tribunale al

metodo di analisi (indotto necessariamente dall'assenza di dati risalenti all'epoca) basato sulla misurazione ex post

con ricostruzione, anche in via deduttiva, della portata dell'esposizione all'amianto e la prevalente attendibilità

delle conclusioni del consulente dell'accusa rispetto a quelle del consulente della difesa (pag. 94 sent.) sulla scorta

di numerosi elementi documentali e testimoniali (pag. 95 e segg.). La Corte territoriale ha stigmatizzato (pag. 92

sent.), il raggiungimento della prova incontrovertibile della massiccia esposizione alle fibre di amianto dei

lavoratori dei Cantieri navali di Palermo (al pari della vicenda concernente lo stabilimento di Marghera della

Fincantieri Cantieri Navali Breda s.p.a., alla cui pronuncia n. 33311/2012 la sentenza impugnata fa espresso

riferimento alle pagg. 58 e ss.), essendo chiaramente emerso dalla compiuta istruttoria in primo grado "come

nello stabilimento si facesse un uso assolutamente indiscriminato di tale materiale con il quale la quasi totalità

delle maestranze entrava direttamente o indirettamente (a causa della promiscuità delle lavorazioni) in contatto,

senza che, nel corso degli anni fosse stata mai adottata alcuna reale seria misura precauzionale per prevenire il

rischio amianto". E' stata, infatti, operata un'approfondita ricostruzione, con richiamo a quella puntuale e

meticolosa operata dal Tribunale e del materiale probatorio (in particolare la consulenza d'accusa del dott.

Silvestri a preferenza di quella della difesa, Cottica, motivatamente disattesa, come da pagg. 81 e segg. della

sentenza di primo grado, e le testimonianze di vari lavoratori tra cui quella di Greco Francesco: pag. 111 e

Cipolla Pietro: pag. 115 della sentenza impugnata) riguardante le condizioni di lavoro esistenti nei Cantieri Navali

di Palermo e l'esposizione dei lavoratori all'inalazione di rilevanti quantità di fibre di amianto (pagg. 112 precc. e

segg.); per non dire della documentazione anche ministeriale a cui hanno attinto i periti e il consulente Silvestri

circa l'utilizzo dell'amianto sino ai primi anni '90 dell'amianto nei Cantieri navali di Palermo (pag. 118). 18 13.

Quanto alle censure sub 3.1.5.1.-3.1.6.3., non si rinviene alcun travisamento delle dichiarazioni della dr.ssa

Bellomo, che ha comunque indicato nel 1990 l'anno di fine dell'esposizione all'amianto "per i cantieri più

specializzati nelle riparazioni navali come quello palermitano". Invero, di esse la sentenza impugnata ha tenuto il

debito conto, ma alla luce di ulteriori circostanze indicate dal consulente Silvestri e di quelle contenute nella

perizia Menegozzo-Palumbo, ha motivatamente ritenuto che l'amianto sia stato ampiamente utilizzato nei

Cantieri navali di Palermo sino al 1991-1992 (pag. 118) Sono state smentite le tesi circa l'imprevedibilità

dell'evento attesa la piena consapevolezza della specifica pericolosità dell'assunzione per via aerea di microfibre di

amianto e della loro correlazione con processi cancerogeni, nota fin dal 1964 e la prevenibilità degli eventi

dannosi (pag. 125 e ss.) con richiamo alle sentenze di questa Corte. Gl'imputati, in quanto dirigenti, erano gravati

da una posizione di garanzia derivante dal disposto del D.P.R. n. 547 del 1956, art. 4, (in materia di infortuni sul

lavoro) ed D.P.R. n. 3030 del 1956, art. 4, (in materia di igiene sul lavoro), ove è previsto che i dirigenti

devono attuare le misure di sicurezza e di igiene e fornire ai lavoratori i mezzi necessari di protezione,

oltre che renderli edotti dei rischi specifici a cui sono esposti. Inoltre, in quanto presenti in

stabilimento, erano coloro che avevano maggiore prossimità con i beni giuridici da tutelare e garantire

(cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 12758/1980, Lorenzini; n. 7404/1981, Sestieri; n. 9234/1983, Diandra; Sez. Un. n.

6168/1989, lori; Sez. IV, n. 5835/1991, Invernicci). Ne consegue che, in quanto titolari di poteri di

Page 44: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

44

vigilanza ed attuazione delle misure di sicurezza ed igiene, nonché impeditivi anche a costo dì

interrompere l'attività produttiva (cfr. Cass. pen. Sez. IV, n. 38009 del 10.7.2008, Rv. 242118), avevano una

posizione normativa e funzionale di garanzia dell'incolumità dei lavoratori operanti nell'azienda.

Correttamente, quindi, è stata ritenuta l'inottemperanza degl'imputati, quali titolari della predetta posizione di

garanzia rispetto ai danni provocati ai propri dipendenti in quanto gestori dello stabilimento, all'onere di adottare

serie misure di prevenzione per l'eliminazione o riduzione della polverosità delle lavorazioni (già note all'epoca e

necessarie a captare ed eliminare le polveri di asbesto, quali mascherine con filtri speciali ed aspiratori), condotta

che avrebbe evitato o ritardato o alleviato le malattie non mortali e evitato o ritardato quelle mortali

(tutte dose dipendenti) o allungato la relativa durata, spostandone in avanti l'infausto esito. Del resto,

questa Corte ha affermato sul punto che, in tema di responsabilità colposa per violazione di norme

prevenzionali, la circostanza che la condotta antidoverosa, per effetto di nuove conoscenze tecniche e

scientifiche, risulti nel momento del giudizio produttiva di un evento lesivo, non conosciuto quale sua

possibile implicazione nel momento in cui è stata tenuta, non esclude la sussistenza del nesso causale e

dell'elemento soggettivo del reato sotto il profilo della prevedibilità, quando l'evento verificatosi offenda

lo stesso bene alla cui tutela avrebbe dovuto indirizzarsi il comportamento richiesto dalla norma, e

risulti che detto comportamento avrebbe evitato anche la lesione in concreto attuata (Sez. IV, n. 988 del

11.7.2002, Rv. 227000). Infatti, in caso di morti da amianto, il datore di lavoro ne risponde, anche quando,

pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non

abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di

contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro

(Sez. IV, n. 5117 del 22.11.2008, Rv. 238778, Biasotti ed altri).

(omissis)

Trib. Milano, Sez. V, sent. 30 aprile 2015 (dep. 15 luglio 2015), Giud. Cannavale, imp. Conti e altri

Commento da penalecontemporaneo.it

1. Dopo la recente sentenza sul caso dei lavoratori della centrale di Turbigo morti per patologie asbesto-

correlate[1], la quinta sezione penale del Tribunale di Milano torna nuovamente ad affrontare il tema

della responsabilità penale per eventi lesivi derivanti dall'esposizione ad amianto, questa volta nell'ambito

del processo a carico di otto ex dirigenti dell'industria meccanica-elettromeccanica Franco Tosi, accusati

di omicidio colposo in relazione alla morte di trentaquattro ex dipendenti, di cui trentatré deceduti

per mesotelioma pleuricoe uno per adenocarcinoma polmonare.

Con un ragionamento che ricalca perfettamente quello sviluppato nella sentenza Turbigo, il Tribunale di

Milano, dopo aver riconosciuto che sul tema dei meccanismi di sviluppo del mesotelioma persistono

tuttora molti interrogativi irrisolti dal punto di vista scientifico - in particolare, quello relativo

all'esistenza di un effetto acceleratore della patologia determinato dal prolungarsi dell'esposizione -, ha

assolto gli imputati dai reati loro ascritti, ritenendo non essere stata provata la sussistenza del nesso di

causa tra le esposizioni ad amianto subite dalle persone offese nei periodi di tempo in cui gli imputati

rivestivano la posizione di garanzia e i singoli eventi mortali di cui ai capi di imputazione.

Questi, in estrema sintesi, i principali passaggi in cui si articola la motivazione della sentenza.

2. In via del tutto preliminare, la sentenza esclude immediatamente qualsiasi profilo di responsabilità

penale in capo a sette degli otto imputati nel processo. Questi ultimi, infatti, risultavano aver ricoperto le

rispettive posizioni di garanzia solo per tempi molto brevi - tutti inferiori a un anno e dieci mesi -, tra il

Page 45: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

45

1988 e il 1992, e a distanza di venti o trent'anni da quando le persone offese avevano iniziato a lavorare

presso la società Franco Tosi (anni sessanta e settanta). Sulla base di questi elementi, lo stesso pubblico

ministero aveva chiesto l'assoluzione per questi sette imputati. Dello stesso avviso è il giudice, che ritiene

"assolutamente evidente come soggetti che hanno rivestito le posizioni apicali per periodi comunque

inferiori all'anno e dieci mesi ed intorno al 1990 non possano seriamente essere ipotizzati come

responsabili per decessi di lavoratori già esposti da anni" (pag. 40). Senza contare che agli inizi degli anni

novanta, grazie alle iniziative intraprese dalla società per eliminare la presenza dell'amianto, l'esposizione

dei lavoratori risultava molto più contenuta rispetto a quella subita nel corso dei decenni precedenti.

Peraltro, il Tribunale afferma che "le condotte dei legali rappresentanti possono essere ritenute idonee a

radicare il giudizio di responsabilità nel caso si siano protratte per periodi non inferiori ai due anni" (pag.

41), ritenendo che questo sia il tempo concretamente necessario a ciascun garante per intraprendere le

iniziative in tema di sicurezza sul lavoro; un tempo inferiore, viceversa, non consentirebbe ai legali

rappresentanti di una società di venire a conoscenza delle problematiche connesse all'attività lavorativa e

operare i dovuti approfondimenti tecnici.

3. Fatta tale premessa, il Tribunale si occupa, anzitutto, di ricostruire le condizioni di lavoro dei

dipendenti della società Franco Tosi nel periodo definito dal capo di imputazione, ricompreso tra il 1973

e il 1992. A tale riguardo, il giudice osserva che le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni

testimoniali, le consulenze tecniche e la copiosa documentazione reperita presso la società avrebbero

dimostrato l'uso massiccio di amianto, quantomeno fino al 1978. Successivamente, a partire dal 1980,

l'amianto sarebbe stato progressivamente rimosso, anche se la bonifica definitiva sarebbe poi avvenuta

solo nel 2002.

Per quanto concerne l'individuazione delle fonti di esposizione, la sentenza precisa che il contatto dei

lavoratori con l'amianto era dovuto "all'utilizzo di questo materiale quale protezione termica per

mantenere i pezzi in temperatura, isolante per consentire il raffreddamento graduale, isolante per

proteggere i lavoratori dalle temperature. Inoltre, l'esposizione era dovuta allo sviluppo ed alla

dispersione nell'ambiente di polveri e fibre, a causa dello sfaldamento tipico del materiale. Infine, non era

ovviata la dispersione dell'amianto negli ambienti né dall'uso di idonee forme di aspirazione, né dalla

separazione degli ambienti in cui le polveri si disperdevano rispetto agli altri locali" (pag. 46). Alla luce di

tali evidenze, il giudice conclude che "la presenza dell'amianto nella società indica in modo pacifico che i

lavoratori vi fossero esposti". "E ciò" - prosegue la sentenza - "sebbene l'intensità delle esposizioni dei

singoli al materiale variasse a seconda delle mansioni svolte [...] ed a seconda delle epoche dell'impiego in

società" (pag. 54).

4. Dimostrata così l'effettiva esposizione dei lavoratori all'agente cancerogeno, e rinviando all'analisi dei

singoli casi la verifica della correttezza delle diagnosi di mesotelioma, il Tribunale passa quindi a

esaminare la delicata questione dell'accertamento del nesso di causalità tra le condotte contestate a

ciascun imputato e i singoli decessi per mesotelioma pleurico delle persone offese.

Il Tribunale chiarisce che la verifica circa la sussistenza del nesso causale, in questo caso, non può

prescindere dalla risoluzione di due problemi fondamentali: (i) la quantificazione della durata del periodo

di induzione del mesotelioma; (ii) l'esistenza o meno di una legge scientificamente affidabile afferente

l'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e riduzione dei tempi di latenza.

5. Il primo punto cruciale, dunque, è rappresentato dalla definizione temporale della c.d. fase di

induzione del mesotelioma, la quale, secondo il modello multistadio di cancerogenesi ormai condiviso da

tutta la comunità scientifica, rappresenta il periodo che intercorre tra l'iniziazione della prima cellula

Page 46: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

46

tumorale (vale a dire il momento in cui avviene la prima mutazione cellulare per effetto del contatto con

l'agente cancerogeno) e il momento in cui, a seguito della replicazione delle cellule iniziate, il tumore

diventa autonomo e irreversibile. Il giudice osserva che è di fondamentale importanza chiarire quando

possa dirsi conclusa tale fase, in quanto "è comunemente accettato che le esposizioni successive al

completamento dell'induzione devono essere considerate irrilevanti nella storia del mesotelioma; dopo

questo momento se anche l'esposizione all'agente cancerogeno venisse sospesa, il tumore procederebbe

autonomamente" (pag. 63).

Stabilito che le esposizioni eziologicamente rilevanti per lo sviluppo della neoplasia sono solo quelle

subite fino a induzione completata, il giudice rileva quindi che, come ammesso dallo stesso consulente

dell'accusa e come condiviso dai consulenti tecnici delle difese, "il sapere scientifico non è in grado di

indicare con certezza quale sia la durata del periodo di induzione" (pag. 82). Il Tribunale, dunque,

conclude che "se non è noto quanto dura il periodo di induzione, è impossibile stabilire [...] quali

esposizioni debbano considerarsi anteriori e quali successive alla sua fine e, dunque, quali esposizioni

siano state effettivamente rilevanti nel determinare la malattia e la morte" (pag. 82).

6. Sulla scorta di questa prima conclusione, la sentenza passa quindi ad affrontare la seconda e più

complessa questione, riguardante l'esistenza o meno di una correlazione tra aumento dell'esposizione e

riduzione dei tempi di latenza. Ciò, sebbene lo stesso giudice rilevi come l'assenza di indicazioni circa la

durata del periodo di induzione sarebbe in ogni caso sufficiente a escludere la sussistenza del nesso

causale nel caso di specie: "non essendo possibile individuare, nel singolo caso, il momento della fine

dell'induzione, in relazione a nessuno dei decessi può dirsi sussistente la causalità individuale" (pag. 64).

Per rispondere comunque a tale interrogativo, il Tribunale, in conformità alle indicazioni fornite dalla

sentenza Cozzini[2], ritiene necessario verificare se esista o meno un'affidabile legge scientifica che

consenta di affermare l'esistenza di un "effetto acceleratore" del processo carcinogenetico determinato

dalla protrazione dell'esposizione all'agente nocivo. In altre parole, si tratta di accertare, sulla base delle

attuali conoscenze scientifiche, se la protrazione dell'esposizione possa accelerare il processo di

carcinogenesi, diminuendo i tempi di latenza e, quindi, anticipando l'evento mortale. Come evidenziato

dal giudice, solo la prova dell'esistenza di questo effetto acceleratore consentirebbe di attribuire rilievo

causale alle condotte degli imputati che hanno determinato la protrazione dell'esposizione all'agente

cancerogeno anche dopo l'iniziazione del mesotelioma.

Questo specifico tema è recentemente divenuto oggetto di un acceso dibattito in ambito scientifico, come

confermano le teorie diametralmente opposte presentate, sul punto, dai consulenti dell'accusa e della

difesa nel corso dell'istruttoria dibattimentale.

7. In particolare, il consulente dell'accusa ha dichiarato di condividere il punto di vista di alcuni autori,

secondo cui a un aumento della dose di esposizione all'agente cancerogeno conseguirebbe un

accorciamento del periodo di latenza. Secondo il parere da questi riferito, tale correlazione sarebbe

dimostrata a livello sia matematico, sia epidemiologico.

Dal punto di vista matematico, il consulente ha illustrato la formula matematica di J. Peto[3], elaborata

per analizzare l'incidenza della malattia - ossia il numero di casi che si verificano nel corso del tempo

nell'ambito di una determinata popolazione - al variare della dose. Come indicato da tutti i consulenti

sentiti nel processo, la suddetta formula consente certamente di concludere che l'incidenza della malattia

è funzione lineare della dose(all'aumentare della dose, aumenta nella stessa proporzione l'incidenza),

Page 47: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

47

e funzione esponenziale della latenza(se aumenta la latenza, l'incidenza aumenta in potenza). L'esperto

dell'accusa, però, va oltre, sostenendo che da tale formula potrebbe altresì ricavarsi la dimostrazione

dell'esistenza di un effetto acceleratore del decorso della malattia determinato dal protrarsi

dell'esposizione. Ragionando esclusivamente in termini matematici, se l'incidenza della malattia non è

altro che il prodotto della dose per la latenza, allora, data l'equazione "incidenza (I) = dose (D) x latenza

(L)" e fissato il valore di I a una determinata grandezza, se aumenta il fattore D (dose), l'unico modo

perché l'equazione non muti il valore di I (incidenza) è che il fattore L (latenza) diminuisca

proporzionalmente all'aumentare di D. Da qui, secondo il consulente, la dimostrazione dell'esistenza

dell'effetto acceleratore.

A livello epidemiologico, tali conclusioni troverebbero ulteriore conferma in uno studio condotto da

Berry, nel 2007, sul tumore al polmone ("Relative risk and acceleration in lung cancer"). In questo

studio, Berry sostiene l'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e accelerazione del

tumore polmonare che sarebbe dimostrata dai risultati ottenuti attraverso l'applicazione di un modello

matematico da lui stesso elaborato; modello che il consulente dell'accusa ritiene possa essere applicato

anche al mesotelioma pleurico.

I consulenti della difesa sottolineano, al contrario, come non vi siano, a oggi, prove scientifiche che

consentano di affermare che a un aumento della dose corrisponda un aggravamento della patologia e una

riduzione della sopravvivenza. Anzi, a loro avviso, il fenomeno non sarebbe mai stato osservato, né

sarebbe osservabile.

In primo luogo, sebbene il ragionamento matematico proposto dal consulente dell'accusa sia corretto, gli

esperti della difesa evidenziano come lo stesso Peto abbia affermato che lo scopo della formula è

esclusivamente quello di analizzare l'aumento dell'incidenza del tumore all'aumentare della dose nel corso

del tempo, e non quello di indagare come cambi la latenza al variare della dose. In secondo luogo,

l'affermazione secondo cui, aumentando la dose, l'incidenza rimarrebbe fissa mentre la latenza

diminuirebbe, sarebbe smentita da quanto dimostrano gli studi epidemiologici di settore, secondo i quali,

quando aumenta la dose (o la durata dell'esposizione), aumenta sempre anche l'incidenza.

Con riferimento, poi, alle conclusioni dello studio di Berry del 2007, i consulenti si limitano a sottolineare

come l'applicazione indiscriminata di questo modello al mesotelioma pleurico - una neoplasia dalle

caratteristiche molto diverse rispetto al tumore polmonare, oggetto dello studio - condurrebbe a risultati

inverosimili, non supportati da alcuna evidenza epidemiologica.

8. Cosi ricostruite le tesi esposte nel processo, il Tribunale riconosce come "non sia possibile [...] 'scegliere'

quali teorie siano da accogliere per fondarvi le basi della decisione, ma vada preso atto dell'inesistenza di

teorie universalmente condivise dalla scienza su alcuni aspetti" (pag. 64).

Anzitutto il giudice ritiene di condividere le osservazioni dei consulenti della difesa in ordine al tipo di

informazioni che si possono trarre dall'applicazione della formula di Peto. Del resto, osserva il Tribunale,

lo stesso Peto aveva dichiarato che "aumentare l'esposizione aumenta il rischio di sviluppare la malattia,

ma non incide sulla durata del periodo di induzione" (pag. 84). Per quanto riguarda lo studio di Berry, il

giudice, da un lato, ricorda che la sua applicabilità al mesotelioma è stata messa fortemente in

discussione in ambito scientifico; dall'altro lato, sottolinea che i risultati di uno studio di popolazione non

sono comunque sufficienti quando occorre accertare la causalità individuale: "Il passaggio

dall'epidemiologia all'analisi del singolo caso, che giuridicamente è il passaggio dalla causalità generale

Page 48: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

48

alla causalità individuale, non consente di ritenere provata la penale responsabilità di nessun imputato"

(pag. 85). La sentenza ricorda, peraltro, che lo stesso consulente dell'accusa ha riconosciuto che "non è

possibile verificare per un singolo soggetto quale sia l'anticipazione reale, rispetto all'evento

controfattuale di una non esposizione. L'anticipazione dell'evento (morte) nel singolo caso non è

misurabile" (pag. 66). A tal proposito, viene inoltre richiamato un recente studio epidemiologico

condotto da Frost, nel 2013, su una coorte di 98.912 lavoratori dell'asbesto della Gran Bretagna, seguiti

dal 1978 al 2005[4]. Secondo l'autrice, i risultati di questo studio evidenzierebbero l'assenza di prove

sufficienti per affermare che una maggior esposizione ad asbesto conduca a latenze più brevi. Peraltro,

queste conclusioni sono state ulteriormente confermate dalla stessa Frost in un articolo pubblicato nel

2014[5], in risposta alle critiche che alcuni autori italiani avevano rivolto allo studio del 2013.

In virtù di tali considerazioni, la sentenza dichiara che "l'istruttoria dibattimentale non ha fornito la

prova dell'esistenza di una legge scientifica dimostrativa dell'esistenza del c.d. effetto acceleratore della

protrazione dell'esposizione" (pag. 80). "Non è dunque possibile" - osserva il Tribunale - "affermare se, nei

singoli casi sottoposti all'esame, la protrazione dell'esposizione nel corso degli anni abbia determinato una

riduzione del periodo di induzione, accelerando l'evento-morte" (pag. 85). La sentenza, infatti, precisa

che, di fronte a un dibattito ancora aperto in ambito scientifico, "altro non può fare un giudice che non si

voglia arrogare compiti non propri che prendere atto della diatriba scientifica ancora aperta e fermarsi"

(pag. 80). Pertanto, conclude il Tribunale, "nei casi oggetto del presente processo [...] non può ritenersi

provato il collegamento causale tra le condotte degli imputati ed i decessi di cui alle imputazioni" (pag.

86).

9. Per quanto riguarda, invece, l'unico caso di decesso per adenocarcinoma polmonare, il Tribunale

evidenzia come questo tipo di neoplasia sia "policausale", potendo essere provocato, oltre che

dall'abitudine al fumo di sigaretta, anche dall'esposizione ad amianto. A tale riguardo, la sentenza precisa

che, come sostenuto in tutte le consulenze tecniche, "la comunità scientifica è ormai concorde nel ritenere

che questo tipo di patologia sia correlato a esposizioni ad amianto cumulative superiori a 25 fibre

/ml/anni, che è la stessa soglia minima richiesta per la riconducibilità causale all'esposizione all'amianto

per l'asbestosi" (pag. 75). Preso atto dell'impossibilità di quantificare in termini di fibre/anno

l'esposizione subita dal lavoratore - impossibilità confermata anche dal consulente del pubblico ministero

-, e non essendo noto se la persona offesa fosse fumatrice, il Tribunale non considera "raggiunta la prova

che l'esposizione alle polveri di amianto abbia avuto efficacia causale nell'insorgenza della malattia

tumorale che ha determinato il decesso della persona offesa. In altri termini, non è possibile

affermare [...] che la patologia si sia ingenerata a causa dell'esposizione per quel periodo alle polveri di

amianto inalate [...]." (pag. 75).

10. Sulla scorta di tali osservazioni, per ventotto casi di mesotelioma il Tribunale assolve tutti gli

imputati con la formula "per non aver commesso il fatto", mentre per cinque casi di mesotelioma, in

relazione ai quali non risultava confermata la diagnosi, e per l'unico caso di decesso per adenocarcinoma

polmonare, gli imputati vengono assolti "perché il fatto non sussiste".

11. Pur non essendo questa la sede per un commento approfondito della sentenza, a parere di chi scrive,

la pronuncia in esame si segnala quale esempio di corretta applicazione dei principi espressi dalla

sentenza Cozzini, che, proprio con riferimento al problema dell'effetto acceleratore, ha precisato in

termini rigorosi i criteri ai quali deve attenersi il giudice nella scelta della legge scientifica di copertura,

soprattutto in presenza di una pluralità di teorie esplicative tra loro contrastanti. Secondo l'ormai noto

insegnamento reso dalla Suprema Corte, il giudice, tra le diverse teorie prospettate dagli esperti, deve

prendere in considerazione, ove sia effettivamente possibile, solo quelle su cui si registra un

Page 49: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

49

preponderante e condiviso consenso in ambito scientifico, astenendosi dal ritenere apoditticamente

esistente una relazione causale in realtà scientificamente non dimostrata.

Come osservato dal Tribunale di Milano, le contrapposte teorie fornite dai consulenti di accusa e difesa

dimostrano come il dibattito sull'esistenza dell'effetto acceleratore sia tuttora aperto e non sia ancora

giunto a una conclusione comune. Appare dunque condivisibile quanto sostenuto dal Tribunale, laddove

chiarisce che l'assenza di una risposta univoca a tale interrogativo esclude, di per sé, l'esistenza di una

legge scientifica affidabile che consenta di affermare che il protrarsi dell'esposizione riduce i tempi di

latenza, anticipando l'evento morte.

Dobbiamo tuttavia segnalare che sul tema dell'effetto acceleratore l'incertezza non sembra riguardare

solamente l'ambito scientifico, ma anche - e in modo decisamente più preoccupante - quello

giurisprudenziale. È sufficiente dare un rapido sguardo alle pronunce dell'ultimo anno in tema di

amianto, per rendersi conto dell'esistenza di un contrasto su questo specifico tema, sia tra le sentenze di

legittimità, sia tra quelle di merito.

Da un lato, si registrano sentenze che escludono che vi sia un condiviso consenso da parte della comunità

scientifica in ordine all'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e riduzione dei tempi di

latenza. Come anticipato all'inizio di questa scheda, oltre al caso in esame, il Tribunale di Milano era

giunto alle medesime conclusioni anche in un'altra sentenza[6], nella quale, sulla base di argomenti del

tutto analoghi, era stata esclusa la sussistenza del nesso causale tra le condotte degli imputati e i decessi

per mesotelioma delle persone offese. Dall'altro lato, vi sono sentenze che, anche in ragione del modo con

cui alcune teorie vengono presentate nel processo da parte dei consulenti, sostengono invece la soluzione

opposta. Ad esempio, in un recente caso[7], la Corte di Cassazione, dopo aver riconosciuto la razionalità e

la logicità dell'itinerario argomentativo compiuto dalla Corte d'Appello, ha confermato la condanna degli

imputati, sostenendo che i giudici di merito avessero ben argomentato in ordine alla piena convergenza

di opinioni della comunità scientifica internazionale sul fatto che le esposizioni successive a quelle di

innesco della malattia abbreviano la latenza, anticipando la morte[8].

È interessante notare, peraltro, che tutte le pronunce sopra richiamate giungono a soluzioni

contrapposte, pur dichiarando, tutte, di porsi nel pieno rispetto dei principi espressi dalla sentenza

Cozzini.

Ora, a prescindere dalla fondatezza del primo o del secondo orientamento, la contraddittorietà che si

registra attualmente all'interno della giurisprudenza rende, di fatto, impossibile poter prevedere quale

possa essere l'esito dei processi in cui si discute della responsabilità penale per esposizione ad amianto.

Posto che tale incertezza non può essere eliminata esclusivamente attraverso l'impiego dei criteri fissati

dalla sentenza Cozzini, i quali, come già osservato, sono costantemente richiamati e utilizzati da tutte le

pronunce successive al 2010, diviene allora imprescindibile fare il punto, una volta per tutte, su quale sia

lo stato delle attuali conoscenze scientifiche sui meccanismi di sviluppo del mesotelioma, e, soprattutto,

chiarire quali informazioni possono concretamente ricavarsi - in termini di certezza - dalla letteratura e

dagli studi scientifici condotti su questo tema.

Page 50: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

50

[1] Trib. Milano, 28 febbraio 2015, n. 2161, pubblicata su questa Rivista, in data 21 luglio 2015, con nota di V.

Jann "Esposizione ad amianto e mesotelioma pleurico: il Tribunale di Milano affronta il tema dell'accertamento del

nesso di causalità nel caso di esposizioni prolungate".

[2] Cass. pen., sez. IV, 17.9.2010, n. 43786, pubblicata su questa Rivista, in data 11 gennaio 2011, con nota di S.

Zirulia "Amianto e responsabilità penale: causalità ed evitabilità dell'evento in relazione alle morti derivate da

mesotelioma pleurico".

[3] I = K · F · [(t - t1)4 · (t - t2)4], in cui: I = incidenza; K = costante determinata dal tipo di fibra considerata; F =

è la dose (intensità dell'esposizione); t = età alla diagnosi; t1 = età all'inizio dell'esposizione; t2 = età alla fine

dell'esposizione; (t-t1) = latenza; (t-t2) = tempo trascorso tra la fine dell'esposizione e la diagnosi.

[4] G. Frost, "The latency period of mesothelioma among a cohort of British Asbestos Workers, 1978-2005",

pubblicato su British Journal of Cancer, 2013;

[5] G. Frost, "Response to comment on The latency period of mesothelioma among a cohort of British Asbestos

Workers, 1978-2005", pubblicato su British Journal of Cancer, 2014.

[6] Trib. Milano, 28 febbraio 2015, n. 2161;

[7] Cass. pen., sez. IV, 21 novembre 2014 (dep. 16 marzo 2015), n. 11128, pubblicata su questa Rivista, in data 13

aprile 2015, con nota di A. Bell "Le motivazioni della sentenza Fincantieri Palermo. La Cassazione torna a

occuparsi di amianto";

[8] In senso analogo, il Tribunale di Mantova ha recentemente condannato alcuni ex dirigenti Montedison in

relazione alla morte per patologie asbesto-correlate dei lavoratori del petrolchimico di Mantova, sostenendo, tra

l'altro, l'esistenza di un preponderante e condiviso consenso da parte della comunità scientifica in ordine

all'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e accelerazione dell'evento. La sentenza è pubblicata

su questa Rivista con nota di A. Bell, "Amianto e non solo: le motivazioni della sentenza di primo grado del maxi-

processo a carico degli ex dirigenti Montedison del petrolchimico di Mantova".

Page 51: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

51

Trib. Mantova, 14 ottobre 2014 (dep. 12 gennaio 2015), giud. Grimaldi

Commento da penalecontemporaneo.it

Con la sentenza che pubblichiamo, il Tribunale di Mantova ha condannato dieci ex dirigenti della

Montedison per il delitto di omicidio colposo plurimo in relazione alla morte di undici ex operai di uno

stabilimento petrolchimico sito sulle rive del fiume Mincio, gestito, fino alla fine degli anni ottanta, da

società del gruppo Montedison.

La decisione del giudice mantovano ha confermato solo in parte l'imponente impianto accusatorio che

era stato costruito dal pubblico ministero: agli imputati si contestava, infatti, la morte e la lesione di oltre

settanta ex dipendenti dello stabilimento, per diverse patologie tumorali, che nell'ottica accusatoria

sarebbero insorte a seguito della pluriennale esposizione dei lavoratori a svariate sostanze cancerogene,

lavorate o comunque presenti nell'ambiente di lavoro, in assenze delle doverose cautele

antinfortunistiche. Al vaglio dibattimentale, tuttavia, hanno retto quasi esclusivamente le contestazioni

relative alle morti per patologie asbesto correlate: degli undici omicidi colposi riconosciuti dal Tribunale,

ben dieci, infatti, sono mesoteliomi e carcinomi polmonari, che il giudice ha ricondotto alla prolungata

esposizione ad amianto.

Data la particolare complessità della vicenda giudiziaria, si ritiene opportuno anticipare subito al lettore

le principali conclusioni della sentenza, per poi procedere con un'analisi più analitica delle

argomentazioni svolte dal giudice mantovano.

1. Le principali conclusioni della sentenza: una breve sintesi

Come già anticipato, l'accusa mossa agli imputati era di aver cagionato la morte o la lesione di

settantaquattro lavoratori dello stabilimento mantovano, "mediante tutta una serie di condotte,

violative della normativa antinfortunistica all'epoca vigente [...] che avrebbero causato l'esposizione

elevata e prolungata dei lavoratori suddetti a sostanze cancerogene e pericolose per la salute dell'uomo",

come il benzene, lo stirene, l'acrilonitrile, il dicloroetano e l'amianto.

Più in particolare, nella prospettiva del pubblico ministero, l'esposizione a benzene avrebbe provocato,

tra gli ex dipendenti dello stabilimento, sedici decessi per tumore al sistema emolinfopoietico;

l'esposizione a stirene, dicloroetano e acrilonitrile sarebbe stata la causa di dieci decessi per tumore al

pancreas; mentre l'esposizione ad amianto avrebbe determinato dieci decessi per mesotelioma,

trentasette decessi per carcinoma polmonare e un caso di placche pleuriche.

Tre le ipotesi di reato contestate dall'accusa: omicidio e lesioni colpose, entrambi aggravati dalla

previsione dell'evento, e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, aggravata dalla verificazione

dell'infortunio.

Non tutti gli eventi lesivi, peraltro, hanno dato luogo ad autonome imputazioni di omicidio colposo. Per

quarantanove eventi mortali, infatti, la pubblica accusa ha ritenuto che la contestazione del delitto di cui

all'art. 589 c.p. risultasse preclusa dall'intervenuta prescrizione del reato, maturata prima dell'esercizio

dell'azione penale. In ragione di ciò, il capo di imputazione constava di ventotto imputazioni per

omicidio colposo, una per lesioni colpose e una per omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul

lavoro; tutti e settantaquattro gli eventi lesivi (sia i ventotto oggetto di autonoma contestazione ex art.

589 c.p., sia i restanti quarantanove considerati prescritti) erano infine addebitati agli imputati a titolo

di evento aggravatore del delitto di cui all'art. 437 c.p.

Page 52: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

52

Ebbene, all'esito del dibattimento, il Tribunale ha anzitutto escluso l'esistenza di una legge scientifica in

grado di corroborare l'ipotesi accusatoria di una correlazione tra esposizione a stirene, dicloroetano e

acrilonitrile e insorgenza del tumore al pancreas; del pari, il Tribunale ha ritenuto indimostrata, da parte

della pubblica accusa,anche l'attitudine del benzene a provocare nell'uomo tumori al sistema

emolinfopoietico diversi dalla leucemia mieloide acuta. Per le morti dovute a queste specifiche patologie

tumorali, contestate a titolo di omicidio colposo, il giudice mantovano ha quindi assolto tutti gli

imputati per assenza di nesso di causa.

Per quanto riguarda, invece, i decessi provocati da leucemia mieloide acuta, il Tribunale ha

viceversa ritenuto che questi eventi potessero effettivamente essere eziologicamente addebitati alle

esposizioni a benzene sofferte dalle persone offese presso il petrolchimico di Mantova; in dibattimento,

infatti, si sarebbe formata la prova che le persone offese hanno inalato benzene in quantità superiori alla

dose che la scienza reputa idonea a provocare questo particolare tumore del sistema emolinfopoietico, e

tanto è bastato a ritenere dimostrato il nesso causale.

A detta del giudice mantovano, poi, il dibattimento avrebbe dimostrato anche che la cancerogenicità del

benzene era nota almeno dalla fine degli anni settanta, e che, ciò nonostante, nulla si fece in quel periodo

presso lo stabilimento ex Montedison per contenere l'esposizione dei dipendenti entro soglie inoffensive per

la salute.

Sulla scorta di tali considerazioni, il Tribunale ha condannato sei imputati per il delitto di omicidio

colposo in relazione alla morte di un dipendente deceduto per leucemia mieloide acuta.

Quanto alle morti da carcinoma polmonare e mesotelioma, patologie entrambe asbesto-correlate,

l'attenzione del Tribunale si è prevalentemente focalizzata sull'annoso problema dell'accertamento del

nesso di causa a fronte di esposizioni ad amianto prolungatesi per lunghi lassi temporali, nel corso dei quali

più soggetti si sono succeduti nella titolarità della posizione di garanzia; problema che la sentenza ha

risolto aderendo alla tesi, proposta dai consulenti dell'accusa, secondo cui le esposizioni eziologicamente

rilevanti non sarebbero solo le prime che innescano il processo cancerogeno, ma anche quelle successive,

che avrebbero l'effetto di accelerare l'insorgenza della malattia, e che dunque determinerebbero

un'anticipazione dell'evento morte. Secondo il Tribunale - ed è senz'altro questo il punto più controverso

della sentenza -, poi, l'effetto acceleratore si verificherebbe sempre, e non solo in una determinata

percentuale di casi: motivo per cui i periodi di esposizione addebitati ai singoli imputati sono stati

considerati tutti causalmente rilevanti nella verificazione degli eventi fatali[1].

Sotto il profilo della colpa, invece, il Tribunale ha ritenuto, da un lato, che gli eventi mortali da

esposizione ad asbesto fossero prevedibili negli anni oggetto di contestazione, risalendo all'inizio degli

settanta l'epoca in cui si sarebbe consolidata, in seno alla comunità scientifica italiana, la consapevolezza

della capacità oncogena dell'amianto; dall'altro lato, che gli eventi si sarebbero potuti impedire se la

dirigenza dello stabilimento avesse adottato le migliorie impiantistiche necessarie ad abbattere le

concentrazioni di amianto negli ambienti di lavoro.

Per le imputazioni ex art. 589 c.p. relative alle morti per mesotelioma e carcinoma polmonare, il giudice

mantovano ha quindi condannato gli imputati che risultavano in carica negli anni in cui i lavoratori

deceduti per questi tumori sono stati esposti ad asbesto.

Tutti gli imputati sono stati infine assolti dall'accusa di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche per

mancata dimostrazione del dolo richiesto dall'art. 437 c.p.

Ripercorse rapidamente le principali statuizioni della sentenza, possiamo a questo punto guardare più da

vicino quale sia stato l'iter argomentativo seguito dal Tribunale di Mantova.

2. Le argomentazioni del giudice mantovano

2.1 Una verifica preliminare: gli accertamenti sulle esposizioni e le cause di morte

Page 53: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

53

Si è fatto cenno in premessa all'imponenza dell'impianto accusatorio, resa evidente non soltanto dal

numero delle persone offese (oltre settanta), ma anche dall'eterogeneità delle patologie tumorali e delle

sostanze evocate nel capo di imputazione.

La scelta del pubblico ministero è stata in particolare quella di imbastire un impianto accusatorio di

stampo tradizionale, che non prescindesse dalla contestazione di delitti contro la persona - come invece

accaduto nel noto processo Eternit, ove l'accusa aveva tentato di alleggerire l'onere probatorio

contestando esclusivamente delitti contro l'incolumità pubblica -; ciò ha inevitabilmente costretto il

Tribunale, anzitutto, a farsi carico del gravoso compito di verificare, per ciascuna delle parti offese, se

l'insorgenza della singola patologia potesse effettivamente considerarsi conseguenza dell'esposizione alle

sostanze presenti negli anni settanta e ottanta nello stabilimento ex Montedison.

Ed è proprio all'assolvimento di questo compito che sono dedicati gran parte degli sforzi argomentativi

del giudice di prime cure, che si è preoccupato in primo luogo di stabilire se all'esito dell'istruttoria

dibattimentale potessero dirsi dimostrate (i) l'effettiva esposizione delle persone offese alle sostanze

pericolose e (ii) la causa di morte così come indicata nel capo di imputazione. A tal fine, la sentenza offre

in prima battuta una panoramica generale di quanto emerso in dibattimento a proposito dei cicli

produttivi e delle sostanze utilizzate nelle lavorazioni del petrolchimico mantovano, per poi stringere il

fuoco sulle carriere lavorative e sulla documentazione sanitaria disponibile per ciascun dipendente.

Da questa prima ricognizione delle risultanze probatorie emerge che per quattro dei ventinove omicidi

colposi addebitati agli imputati (si tratta, in particolare, di tre decessi per carcinoma polmonare e di un

decesso per mesotelioma pleurico) non vi è prova certa dell'esposizione e/o della patologia tumorale

oggetto di contestazione: in ragione di ciò, per tali casi il giudice mantovano assolve tutti gli imputati con

la formula perché il fatto non sussiste.

Dubbi sull'esistenza dell'esposizione e sulla reale causa del decesso si appalesano anche in relazione a otto

degli eventi mortali contestati ai soli sensi del capoverso dell'art. 437 c.p., il che comporta un parziale

ridimensionamento dell'accusa anche sotto il profilo della "consistenza" dell'aggravante del delitto di

omissione dolosa di cautele.

2.2 Il problema della causalità. Una premessa metodologica

Identificato così l'esatto numero di eventi lesivi per i quali può dirsi certa l'esposizione alle sostanze

incriminate e la morte per una delle patologie indicate nel capo di imputazione, il Tribunale si preoccupa

quindi di verificare l'effettiva correlazione causale tra esposizione e decessi; il ragionamento del giudice

segue qui le cadenze tipiche del c.d. schema bifasico, tracciato a suo tempo dalle Sezioni Unite Franzese,

schema che, com'è noto, subordina l'accertamento del nesso eziologico alla duplice dimostrazione che la

condotta dell'imputato rientri nel novero degli antecedenti che, secondo una legge scientifica di

copertura, sono in grado di provocare eventi del tipo di quello verificatosi nel caso concreto (c.d.

causalità generale), e che l'evento concreto non sia addebitabile a decorsi causali alternativi rispetto a

quello ipotizzato dall'accusa (c.d. causalità individuale).

Spiega in particolare il Tribunale che, nel caso di specie, "dapprima dovrà verificarsi se nella comunità

scientifica, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, sia radicata una legge

scientifica di copertura che consenta di ricollegare eziologicamente l'esposizione alle sostanze benzene,

stirene, acrilonitrile, dicloroetano e amianto e l'insorgenza delle diverse patologie indicate

nell'imputazione"; nei casi in cui tale legge possa dirsi esistente, "dovrà specificarsi se si tratti di una

legge di copertura universale o solo statistica", vale a dire se si tratti di una legge in base alla quale è

possibile affermare che l'esposizione a una sostanza produce sempre e senza eccezioni un determinato

effetto, ovvero di una legge che riconosce alla sostanza la capacità di produrre quel determinato effetto

solo in un certo numero di casi; infine, "nell'ipotesi di legge di copertura solo statistica, dovrà verificarsi

Page 54: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

54

se essa abbia spiegato i propri effetti nel caso concreto, una volta esclusi i decorsi causali alternativi" (pp.

448-449).

2.3 Gli esiti degli studi epidemiologici condotti nel processo dalla pubblica accusa

Sulla scorta di questa premessa metodologica, l'attenzione del Tribunale si appunta dapprima sugli esiti

dell'istruttoria dibattimentale in tema di causalità generale; un tema che qui, come in tanti altri processi

analoghi, ha visto l'epidemiologia giocare un ruolo assolutamente decisivo, sia perché "il Pubblico

Ministero ha disposto un apposito studio epidemiologico di mortalità sui componenti della coorte del

petrolchimico di Mantova", sia perché "tutti i consulenti tecnici medici ed epidemiologi esaminati in

dibattimento hanno richiamato studi scientifici (che hanno confermato o escluso o definito come

'possibile' o 'probabile' un'associazione tra sostanze e patologie) che a loro volta si fondano su rilevazioni

epidemiologiche" (p. 450).

A proposito dello studio epidemiologico condotto dai consulenti dell'accusa, la sentenza spiega che si è

trattato di uno studio di coorte sui dipendenti dello stabilimento mantovano nel periodo 1957-1991, vale a

dire uno studio che si è occupato di confrontare il tasso di mortalità, sia generale sia con riferimento a

determinate patologie, all'interno della popolazione degli ex lavoratori dello stabilimento con il tasso di

mortalità nella popolazione di riferimento, nel caso di specie individuata nella popolazione della regione

Emilia Romagna.

Gli stessi consulenti, rileva ancora la sentenza, hanno poi effettuato un ulteriore approfondimento di

indagine, realizzando uno studio caso-controllo interno alla coorte dei lavoratori - ossia uno studio volto a

mettere a confronto soggetti che presentano una determinata patologia (i casi) con un gruppo di soggetti

(i controlli) che non ne sono affetti -, dedicato specificatamente ai casi di neoplasia del sistema

emolinfopoietico e di neoplasia al pancreas, al fine di verificare se l'insorgenza di tali patologie potesse

effettivamente ritenersi correlata all'esposizione professionale a benzene, stirene, acrilonitrile e

dicloroetano.

Quanto agli esiti di tali studi, il Tribunale afferma che lo studio di coorte avrebbe consentito di

evidenziare (i) "un numero di morti osservate [nella popolazione dei lavoratori] complessivamente

inferiore a quello atteso in base ai tassi di mortalità tra i residenti in Emilia Romagna nel corrispondente

periodo"; (ii) "un marcato deficit per tumori all'apparato emolinfopoietico rispetto all'atteso",

accompagnato, però, da "un aumento statisticamente significativo del numero di morti per leucemia" nel

periodo di follow up 1995-1999; (iii) "un lieve aumento del numero di decessi per tumore al pancreas

rispetto agli attesi"; (iv) "una lieve diminuzione del numero di decessi per tumore al polmone rispetto agli

attesi"; (v) "un notevole aumento del numero di decessi per tumore alla pleura rispetto agli attesi" (p.

457).

Lo studio caso-controllo, invece, non avrebbe fatto emergere alcun rischio statisticamente significativo

per i lavoratori esposti, né in relazione ai tumori del sistema emolinfopoietico né in relazione ai tumori al

pancreas.

A detta del Tribunale, peraltro, i risultati di un singolo studio epidemiologico non sarebbero stati in ogni

caso sufficienti né a escludere né a confermare con certezza l'esistenza di un'eventuale correlazione tra le

esposizioni e le patologie insorte nelle persone offese.

Da un lato, infatti, il fatto che un singolo studio epidemiologico non fornisca indicazioni di associazioni

positive tra esposizione e determinate patologie non comporterebbe necessariamente l'assenza di un nesso

di causalità nel caso concreto, dal momento che l'esito non confermativo di un'associazione ben potrebbe

"essere determinato dalla bassa potenza statistica dello studio, dall'effetto lavoratore sano[2], da una

bassa base campionaria utilizzata, trattandosi di studio isolato e non facilmente confrontabile" (p. 455).

Page 55: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

55

Così come, dall'altro lato, i risultati di uno studio epidemiologico, "ove rivelatori di un'associazione

positiva tra esposizione e patologia", non consentirebbero comunque "di individuare quale tra gli

individui del gruppo studiato si sia ammalato a causa dell'esposizione studiata e quale, invece, si sarebbe

ammalato comunque" (p. 455).

Al giudice mantovano non resta allora che verificare se, al di là dei risultati dello specifico studio

epidemiologico condotto dai consulenti dell'accusa, il dibattimento abbia o meno fornito la prova

dell'esistenza di leggi scientifiche in grado di correlare patologie tumorali del tipo di quelle che hanno

provocato il decesso ovvero la lesione delle persone offese all'esposizione alle sostanze indicate nel capo di

imputazione; e, in caso di risposta affermativa, se le singole patologie siano effettivamente riconducibili

alle esposizioni addebitabili ai singoli imputati, anziché a fattori causali alternativi (vale a dire a cause

diverse dall'esposizione ovvero a esposizioni verificatesi al di fuori dei periodi in cui gli imputati hanno

ricoperto le rispettive posizioni di garanzia).

2.4 Le osservazioni del Tribunale sulle singole patologie

2.4.1 Sui decessi per tumore al pancreas e per tumori a carico del sistema emolinfopoietico

diversi dalla leucemia mieloide acuta. Il Tribunale esclude la dimostrazione della causalità

generale

A finire sotto la lente d'ingrandimento della sentenza sono anzitutto i dieci decessi per tumore al

pancreas (tre dei quali contestati ai sensi dell'art. 589 c.p.), che, nella prospettiva accusatoria, sarebbero

la conseguenza dell'esposizione dei lavoratori ad acrilonitrile, stirene e dicloroetano.

Ebbene, il Tribunale ritiene che le risultanze dibattimentali sconfessino l'ipotesi accusatoria già sotto il

profilo della causalità generale, in quanto nessuna delle sostanze indicate dall'accusa come possibile causa

dell'insorgenza dei tumori al pancreas è stata indicata dai consulenti sentiti nel processo tra i fattori di

rischio noti per l'insorgenza di tale patologia oncologica.

Un'ulteriore conferma della mancanza di una legge scientifica di copertura dell'ipotesi prospettata dal

pubblico ministero si ricaverebbe, poi, dalle classificazioni fornite dalle agenzie regolatorie internazionali,

come l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), che nelle sue valutazioni più recenti ha

inserito tutte e tre le sostanze in gioco (acrilonitrile, stirene e dicloroetano) nella categoria 2B, categoria

che ricomprende le sostanze che, secondo la valutazione dell'Agenzia di Lione, devono essere considerate

come "possibilmente cancerogene per la specie umana": una definizione, questa, che riflette l'assenza, in

seno alla comunità scientifica, di un consenso sufficiente ad affermare con certezza la natura cancerogena

della sostanza.

Sulla base di tali considerazioni, la sentenza conclude quindi che "manca la prova della causalità generale

nell'insorgenza dei tumori al pancreas", e che, in ragione di ciò, "non può e non deve procedersi

all'indagine in ordine alla causalità individuale dei singoli casi a processo". Per i tre casi di tumore al

pancreas contestati a titolo di omicidio colposo, quindi, il Tribunale assolve gli imputati con la formula

perché il fatto non sussiste; è altresì esclusa l'aggravante contemplata dal secondo comma dell'art. 437 c.p.

per gli altri sette decessi provocati da questa specifica patologia tumorale.

Il tumore al pancreas non è l'unica patologia che risulta sprovvista, nell'ottica del Tribunale, di una legge

scientifica di copertura in grado di associarla alle sostanze presenti nello stabilimento Montedison: lo

stesso discorso, infatti, vale anche per tutte le neoplasie a carico del sistema emolinfopoietico diverse dalla

leucemia mieloide acuta. Si tratta, in particolare, della leucemia mieloide cronica, della leucemia linfatica

acuta, della leucemia linfatica cronica, dei linfomi di Hodgkin e non-Hodgkin e del mieloma multiplo,

patologie che hanno determinato il decesso di quattordici ex dipendenti dello stabilimento e che, a detta

del pubblico ministero, troverebbero la loro spiegazione causale nella perdurante esposizione a benzene.

Page 56: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

56

Al contrario, il Tribunale ritiene che, sebbene l'insorgenza di queste forme tumorali sia stata talora messa

in relazione con esposizioni a benzene, in seno alla comunità scientifica permarrebbe tuttavia una

sostanziale incertezza attorno alla fondatezza di questa ipotesi; tant'è che la IARC, in una recente

pubblicazione dedicata proprio al benzene, si limita a segnalare l'esistenza di taluni studi scientifici che

avrebbero "osservato un'associazione tra l'esposizione a benzene e la leucemia linfocitica acuta, la

leucemia linfatica cronica, il mieloma multiplo, e il linfoma non Hodgkin", senza esprimere alcuna

valutazione sulla consistenza di tali studi.

La mancanza di una legge scientifica di copertura comporta l'assoluzione degli imputati in relazione ai due

omicidi colposi associati a leucemia linfatica cronica e mieloma multiplo, e l'esclusione dell'aggravante di

cui al capoverso dell'art. 437 per gli altri dodici decessi per tumori al sistema emolinfopoietico diversi dalla

leucemia mieloide acuta.

2.4.2 Sui decessi per leucemia mieloide acuta. Il Tribunale riconosce l'esistenza di una

correlazione causale con le esposizioni professionali a benzene

Si è dunque visto che per una parte delle patologie contestate agli imputati il giudice mantovano esclude,

già sotto il profilo della causalità generale, l'esistenza di una loro correlazione con le sostanze lavorate

nello stabilimento Montedison nel ventennio 1970-1980.

Per tutte le altre malattie oggetto di imputazione, invece, il Tribunale giunge a conclusioni opposte, a

partire dalla già citata leucemia mieloide acuta, una rara forma tumorale del tessuto ematopoietico che,

stando a quanto emerso in dibattimento, sarebbe pacificamente riconducibile all'esposizione a benzene,

tanto che il dibattito tra i consulenti dell'accusa e della difesa nel corso del processo ha riguardato

esclusivamente il livello di esposizione a tale sostanza in grado di provocare l'insorgenza di questa specifica

patologia oncologica.

In particolare, mentre i consulenti dell'accusa hanno fissato in 10 ppm-anni l'esposizione dotata di

idoneità lesiva, i consulenti della difesa hanno invece sostenuto che nessun effetto lesivo si registrerebbe

al di sotto dei 40 ppm-anni. Come subito appresso vedremo, tale questione ha assunto un'importanza

decisiva nella valutazione del giudice mantovano, dal momento che l'unico omicidio colposo dovuto a

leucemia mieloide acuta, non ancora prescritto al momento del giudizio, riguardava un lavoratore esposto

a una dose cumulativa di benzene pari a circa 15 ppm-anni, una misura dunque che si poneva proprio a

metà strada tra la soglia di non effetto identificata dai consulenti dell'accusa e quella fissata dai consulenti

della difesa.

A fronte di tale contrasto, la sentenza ritiene di aderire alla tesi prospettata dai consulenti del pubblico

ministero e delle parti civili; nel giustificare tale conclusione, il Tribunale enfatizza in particolar modo i

risultati di uno studio scientifico condotto nel 2010, che rappresenterebbe "la valutazione più completa

degli studi esistenti sulla relazione esposizione-risposta tra benzene e leucemia, oggi disponibile" (p. 488),

e che, in linea con quanto sostenuto dalla pubblica accusa, afferma che esposizioni a benzene pari o

superiori a 10 ppm-anni sarebbero capaci di determinare l'insorgenza nell'uomo della leucemia mieloide

acuta.

Una volta identificata la legge scientifica di copertura, e dunque risolto positivamente il primo passaggio

dell'accertamento del nesso eziologico, la sentenza si preoccupa quindi di verificare se il singolo decesso

per leucemia mieloide acuta contestato dall'accusa ai sensi dell'art. 589 c.p.[3] possa effettivamente

addebitarsi alle esposizioni verificatesi negli anni in cui gli imputati ricoprivano le rispettive posizioni di

garanzia.

A venire in rilievo, dunque, è il tema della causalità individuale, che la sentenza affronta ponendosi

un duplice interrogativo: se l'esposizione sofferta dalla persona offesa rientri nel range di esposizioni

Page 57: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

57

ritenute potenzialmente lesive in base alla legge scientifica di copertura; se possa escludersi che

l'insorgenza della patologia sia addebitabile a decorsi causali alternativi all'esposizione a benzene.

La risposta è, in entrambi i casi, positiva. Secondo il Tribunale, infatti, le emergenze dibattimentali

dimostrerebbero che (i) la persona offesa, nel corso della sua attività lavorativa presso lo stabilimento

mantovano, è stata esposta tra il 1974 e il 1983 a circa 15 ppm-anni di benzene, una dose superiore alla

soglia di 10 ppm-anni fissata dalla legge scientifica di copertura, e che (ii) non sono stati riscontrati, nel

caso concreto, fattori di rischio alternativi all'esposizione professionale a benzene, dal momento che la

persona offesa non soffriva di anomalie cromosomiche del tipo di quelle correlate all'insorgenza di

leucemia mieloide acuta, non era portatrice di sindrome mielodisplastica, non è stata esposta ad agenti

chimici diversi dal benzene, non ha assunto farmaci noti per la loro capacità di provocare leucemie né è

mai stata colpita da virus in grado di provocare queste specifiche patologie, né, infine, è stata esposta a

benzene al di fuori dello stabilimento mantovano.

La sentenza afferma infine che tutte le esposizioni sofferte dalla persona offesa presso il petrolchimico

Montedison (protrattesi tra il 1974 e il 1983) sono da considerarsi causalmente rilevanti per l'insorgenza

della patologia, ciò "in quanto esse hanno concorso tutte al raggiungimento della dose cumulativa

necessaria a scatenare la malattia" (p. 574).

Conclude quindi il Tribunale che per gli imputati in carica nel periodo in cui la persona offesa ha lavorato

nello stabilimento di Mantova deve ritenersi provato l'elemento oggettivo del delitto di omicidio colposo.

2.4.3 (segue): La colpa degli imputati per le morti da leucemia mieloide acuta

A questo punto, lo sguardo del giudice si rivolge all'elemento psicologico del reato, per verificare se la

morte per leucemia mielosa acuta fosse un evento prevedibile nel periodo in cui si sono verificate le

condotte ascritte agli imputati (vale a dire le esposizioni a benzene verificatesi nei dieci anni di impiego

del lavoratore), e se gli imputati abbiano mancato di adottare cautele disponibili e doverose all'epoca

delle esposizioni, che, se adottate, avrebbero impedito il verificarsi dell'evento.

Sotto il primo profilo, la sentenza afferma che il dibattimento avrebbe dimostrato, al di là di ogni

dubbio, che "lo stato delle conoscenze in merito alla pericolosità e alla cancerogenicità del benzene, già alla

fine degli anni sessanta, era a un punto tale da consentire agli imputati di prevedere le conseguenze sulla

salute dell'uomo di un'esposizione prolungata a benzene" (pp. 575-576).

In particolare, "almeno tra la metà e la fine degli anni sessanta, la conoscenza delle potenzialità oncogene

del benzene sul sistema emolinfopoietico e, segnatamente, della sua capacità di provocare la leucemia,

era patrimonio della comunità scientifica internazionale, a cui gli imputati - dirigenti di una società di

importanza mondiale, qual era la Montedison, professionisti esperti e molto competenti nel settore -

avrebbero potuto e dovuto attingere, direttamente ovvero mediante conferimento di incarichi a persone

all'uopo delegate" (p. 579).

Può quindi ritenersi dimostrata la concreta prevedibilità della morte della persona offesa da leucemia

mielosa acuta, quale conseguenza della sua esposizione prolungata a benzene negli anni in cui essa ha

lavorato presso lo stabilimento mantovano gestito dalla Montedison.

Del pari, il Tribunale ritiene provata anche la mancata adozione da parte degli imputati di tutta una serie

di migliorie impiantistiche (pompe con doppia tenuta flussata, sistemi di prelievo del prodotto a circuito

chiuso o sotto cappa, sistemi di canalizzazione dei drenaggi delle acque contaminate da sostanze

organiche) e di cautele antinfortunistiche (per es. maschere respiratorie dotate di filtri), disponibili negli

anni oggetto di contestazione, che, se adottate o fornite ai dipendenti, avrebbero potuto abbattere

sensibilmente il livello dell'esposizione a benzene dei lavoratori, contenendola entro soglie inoffensive per la

salute dell'uomo.

Page 58: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

58

Per tutte queste ragioni, il Tribunale condanna gli imputati in carica tra il 1974 e il 1983 per il delitto di

omicidio colposo in relazione alla morte dell'ex dipendente deceduto per leucemia mielosa acuta.

2.4.4 Sui decessi per le patologie asbesto-correlate

Veniamo così alle morti provocate dalle c.d. patologie "asbesto-correlate", espressione con la quale si è

soliti identificare quelle malattie per le quali l'esposizione ad amianto costituisce un fattore di rischio

conclamato. Nello specifico, vengono in rilievo il mesotelioma e il carcinoma polmonare, le due principali

cause dei decessi contestati dalla pubblica accusa agli ex dirigenti del petrolchimico mantovano.

Vediamo allora come la sentenza ha affrontato le imputazioni relative ai decessi per queste due

patologie, ripercorrendo anzitutto le considerazioni del Tribunale sull'eziologia del mesotelioma.

2.4.4.1 L'accertamento del nesso di causa per le morti da mesotelioma. Il Tribunale afferma la

rilevanza causale di tutte le esposizioni ad amianto sofferte dalle singole persone offese

Ora, la generica attitudine dell'amianto a provocare l'insorgenza di questa patologia tumorale è un dato

ormai da tempo acquisito e condiviso dall'intera comunità scientifica. Sotto questo specifico profilo,

dunque, l'accertamento del nesso di causa non poneva particolari problemi.

Il problema, semmai, era quello di verificare se, a fronte di lavoratori ammalatisi e poi deceduti a seguito

di esposizioni ad amianto prolungatesi per lunghi periodi di tempo, e di imputati che avevano invece

ricoperto le rispettive posizioni di garanzia per periodi più brevi, e ai quali poteva dunque essere

addebitata solo una quota dell'esposizione complessivamente sofferta dal lavoratore, potesse riconoscersi

una correlazione causale tra il singolo decesso e la quota di esposizione addebitabile al singolo imputato.

Il Tribunale era insomma chiamato a confrontarsi con l'annosa questione scientifica relativa

all'individuazione delle dosi di amianto eziologicamente rilevanti nell'insorgenza e nello sviluppo del

mesotelioma.

A tal proposito, la sentenza osserva anzitutto come uno degli "asserti condivisi nella comunità scientifica

nell'attuale momento storico" sia "quello per cui anche una dose minima (anche bassissima) di amianto

inalato è in grado di innescare il processo neoplastico irreversibile". Dato questo assunto iniziale, deve

allora "verificarsi quale rilevanza possano assumere le esposizioni successivi a quella iniziale; ossia se

queste possano o meno incidere sul processo patogeno, nel senso di agevolarne in qualche modo lo

sviluppo, riducendo conseguentemente il periodo di latenza intercorrente tra la prima esposizione e

l'evidenza clinica della malattia, abbreviando così la durata della vita del soggetto" (p. 508). In altre

parole, "occorre accertare se il mesotelioma possa o meno essere ritenuto (in base alle attuali conoscenze

scientifiche) un tumore dose-dipendente, rispetto al quale, cioè, le esposizioni a fibre di asbesto successive

e ulteriori a quella iniziale siano in grado di incidere sull'insorgenza stessa della malattia, o comunque di

accelerarne il decorso, anticipando il momento del decesso; ovvero se tale patologia sia dose-

indipendente, nel senso che, una volta assunta la dose scatenante (c.d. trigger dose o dose-grilletto), le

ulteriori esposizioni al medesimo cancerogeno debbono considerarsi sostanzialmente ininfluenti,

sviluppandosi il processo di cancerogenesi indipendentemente dalla dose cumulativa inalata" (ibidem).

Osserva il Tribunale come la risposta a tale quesito rivesta una rilevanza decisiva ai fini della decisione,

"sia con riferimento all'individuazione di un nesso di causalità generale, sia in relazione all'individuazione

di un nesso di causalità individuale tra le condotte tenute dai singoli imputati e gli eventi di morte o

lesioni a essi contestate".

In particolare, ove si ritenesse il mesotelioma una patologia dose-indipendente, "poiché [...] l'amianto era

ampiamente diffuso e utilizzato al tempo dei fatti anche in contesti extralavorativi", tanto che "ogni

individuo, ivi compresi i lavoratori persone offese in questo processo deceduti per mesotelioma, potrebbe

astrattamente aver inalato la dose letale in qualsiasi momento della sua vita e in qualsiasi contesto

Page 59: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

59

(anche al di fuori dello stabilimento)", "non potendo in alcun modo individuarsi quando è avvenuta

l'esposizione scatenante, si dovrebbe concludere nel senso dell'impossibilità di dimostrazione dell'efficacia

causale dell'inalazione di fibre di amianto all'interno del contesto lavorativo, con conseguente esito

assolutorio del processo". Senza contare che, nel caso di specie, "non si potrebbe neppure individuare con

certezza se l'inalazione della dose-killer sia avvenuta allorquando i prevenuti avevano già assunto le

rispettive cariche da cui discende l'addebito di responsabilità" (p. 509).

Al contrario, se si ritenesse il mesotelioma una patologia dose-dipendente, risulterebbe "del tutto

indifferente e ininfluente la verifica in ordine al momento esatto in cui è avvenuta la prima esposizione (o

comunque la presunta esposizione scatenante), poiché tutte le esposizioni successive e ulteriori sarebbero

causalmente rilevanti nel senso dell'anticipazione dell'insorgenza della malattia o, comunque, della sua

accelerazione; in tal senso, assumerebbero rilevanza causale rispetto ai decessi hic et nunc verificatisi,

tutte quelle attività e iniziative da adottare in ambito lavorativo al fine di ridurre la diffusione di polveri

nell'ambiente e, quindi, la dose cumulativamente inalata dal lavoratore". Secondo i fautori della tesi

della dose-dipendenza del mesotelioma, infatti, "soltanto le dosi inalate dopo l'innesco del processo

neoplastico irreversibile (ossia quelle assunte [...] in periodo antecedente di circa 10 anni al riscontro

diagnostico della malattia) non avrebbero rilevanza causale rispetto alla malattia, mentre tutte le dosi

inalate nel periodo antecedente (ossia durante la fase dell'induzione, a sua volta distinta nelle due

sottofasi della iniziazione e della promozione[4]) assumerebbero chiara efficacia causale rispetto

all'insorgenza stessa della malattia o comunque rispetto alla riduzione del tempo di latenza". Il che

comporterebbe che "tutte le esposizioni ad amianto, sia lavorative che extralavorative [...] avvenute

nella fase di induzione avrebbero concorso alla formazione della c.d. dose cumulativa che ha comportato

la morte dell'individuo in quel determinato giorno, sicché ciascuna di dette esposizioni assumerebbe

rilevanza quantomeno concausale rispetto all'evento hic et nunc verificatosi" (p. 510).

Di talché, secondo il giudice mantovano, una volta "riconosciuta la rilevanza causale (nel senso di

un'anticipazione dell'insorgenza della malattia o di una riduzione della latenza) sul processo patogeno

delle esposizioni successive", quand'anche risultasse che le persone offese sono state esposte a dosi di

amianto potenzialmente idonee a innescare la patologia in contesti extralavorativi ovvero presso lo

stabilimento ma in epoche diverse da quelle in cui i singoli imputati sono stati garanti, "si dovrebbe

comunque concludere che la riduzione dell'esposizione in ambito lavorativo per effetto dell'attivazione

delle misure di prevenzione che si assumono essere state omesse dai titolari delle posizioni di garanzia,

riducendo il carico di fibre complessivamente inalato (c.d. dose cumulativa), avrebbero quantomeno

inciso sulla durata della latenza, determinando la morte dei lavoratori in momento posteriore nel tempo;

del pari, ogni ulteriore esposizione addebitabile ai singoli imputati sarebbe causalmente rilevante" (p.

509).

Ebbene, il Tribunale afferma che il dibattimento, pur nell'accesa dialettica tra consulenti dell'accusa e

consulenti della difesa, avrebbe in ogni caso evidenziato "un preponderante e condiviso consenso della

comunità scientifica in ordine alla validità della teoria della dose-dipendenza" (pp. 509-510).

A sostegno di tale conclusione, a detta del Tribunale, militerebbero anzitutto i "diversi e numerosi studi"

epidemiologici citati dai consulenti dell'accusa, alcuni dei quali avrebbero osservato direttamente "una

latenza[5] inferiore per i casi [di mesotelioma] con esposizione più elevata" (p. 511); altri studi avrebbero

invece evidenziato come, in una medesima coorte, dato un tasso X di mortalità per mesotelioma, i gruppi

dei più esposti ad amianto raggiungerebbero quel determinato tasso molto più velocemente rispetto ai

meno esposti, e avrebbero riconosciuto in questo dato un'ulteriore dimostrazione dell'effetto dell'aumento

dell'esposizione sulla durata della latenza; altri studi ancora (si fa riferimento, in particolare, a un noto

studio di Berry del 2007 sul tumore al polmone, che secondo i consulenti dell'accusa sarebbe applicabile

anche al mesotelioma), infine, avrebbero poi fornito "una dimostrazione pratica dell'equivalenza tra

Page 60: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

60

aumento del rischio e anticipazione del tempo di comparsa della malattia (come fenomeni inscindibili)",

arrivando addirittura a definire un algoritmo in grado di calcolare il tempo medio di anticipazione della

malattia a fronte di determinati aumenti di esposizione (p. 513).

L'adesione della comunità scientifica alla "teoria della dose-dipendenza" troverebbe, poi, ulteriore

conferma nel fatto che "numerosi organismi nazionali e internazionali danno ormai per assodata una

relazione tra dose/durata dell'esposizione e latenza, che viene indicata in numerosi documenti ufficiali di

consenso, linee guida, articoli scientifici" (p. 520); senza dimenticare, da ultimo, che "la tesi in questione

risulta ormai accolta in maniera definitiva anche dalla Corte di Cassazione la quale, occupandosi di

questioni identiche a quelle del presente processo, con particolare riferimento al meccanismo di causalità

generale tra esposizione ad amianto e insorgenza del mesotelioma, ha osservato più volte e di recente che

nella comunità scientifica è ben radicato il convincimento che il processo carcinogenetico debba

considerarsi-dose dipendente" (p. 521).

Al contrario, secondo il Tribunale, la "tesi della dose-indipendenza", sostenuta dalla difesa degli imputati,

poggerebbe su studi inaffidabili, anzitutto perché caratterizzati da insuperabili limiti metodologici.

È il caso, per esempio, dell'indagine condotta nel 2013 da una scienziata inglese su una coorte di quasi

centomila lavoratori esposti ad asbesto tra il 1978 e il 2005: un'indagine che, operando un confronto tra le

latenze osservate in 614 casi di mesotelioma, avrebbe fatto emergere "la rilevanza delle prime esposizioni

e l'irrilevanza delle successive", e che dunque smentirebbe "l'esistenza di un rapporto dose-risposta tra

esposizione ad amianto e mesotelioma", ma la cui metodologia è stata oggetto di aspre critiche da parte

di alcuni epidemiologi italiani, con due lettere pubblicate tra il 2013 e il 2014 sulla rivista British Journal

of Cancer. E, a detta del Tribunale, "indipendentemente dall'eventuale replica dell'autore dello studio e

dalla fondatezza scientifica dei rilievi", l'esistenza stessa di tali voci critiche dimostrerebbe "come quello

studio non abbia sortito consenso condiviso tra gli esperti del settore" (p. 526).

In altri casi, poi, l'inaffidabilità degli studi portati nel processo dai consulenti della difesa sarebbe data

dall'esiguità dei casi in essi esaminati, e dunque dalla loro bassa potenza statistica, ovvero dalla non

indipendenza degli scienziati che li hanno svolti. Alcuni di questi studi, infatti, sono stati condotti da

"studiosi personalmente coinvolti in processi per malattie-asbesto correlate" (p. 527), che in taluni casi

avrebbero manifestato "l'interesse e la tendenza a sostenere determinate tesi favorevoli agli imputati" (p.

528), arrivando finanche ad affermare di aver ricevuto finanziamenti da parte della IARC in realtà mai

verificatisi. Circostanze, queste, che connoterebbero negativamente il comportamento dello scienziato,

finendo per pregiudicarne irrimediabilmente la credibilità.

Data questa lettura delle risultanze dibattimentali, il Tribunale conclude quindi che, in seno alla

comunità scientifica, si registrerebbe un "preponderante e condiviso consenso" attorno alla duplice

ipotesi che (i) il mesotelioma "aumenta la sua probabilità di insorgenza con l'aumento della dose

cumulativa", e che (ii) "la prolungata esposizione e l'aumento della dose cumulativa riducono i tempi di

latenza del mesotelioma nel singolo caso, ne provocano un'accelerata e anticipata insorgenza e, in caso di

malattia già insorta, ne accelerano il decorso, contribuendo a ridurre i tempi di sopravvivenza

dell'ammalato" (p. 530).

Nella prospettiva del giudice mantovano, "esiste, dunque, una legge di copertura che [...] consente di

collegare l'aumento dell'esposizione ad asbesto all'accelerazione e all'aggravamento del mesotelioma" (p.

531).

L'argomentazione della sentenza in tema di causalità generale non si esaurisce qui. Secondo il Tribunale,

infatti,la complessa istruttoria dibattimentale avrebbe altresì dimostrato che "tale legge di copertura non è

meramente statistica, come talora sostenuto, ma universale". Quest'ulteriore affermazione troverebbe il

suo fondamento, in particolare, nel fatto che dalle evidenze scientifiche disponibili "non emerge in alcun

Page 61: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

61

modo che l'effetto dose-risposta si verifichi solo in una determinata percentuale di casi interessati dalla

malattia" (ibidem).

Da tale circostanza discenderebbe quindi che "la legge di copertura è statistica quanto all'insorgenza del

mesotelioma, nel senso che solo in una determinata percentuale di casi di esposti ad amianto la malattia

si sviluppa; essa, invece, non lo è in relazione al meccanismo dose-risposta, atteso che, una volta che la

patologia è insorta, le ulteriori esposizioni debbono considerarsi influenti" (ibidem).

Quest'ultimo passaggio costituisce uno snodo essenziale e decisivo del percorso argomentativo della

sentenza in tema di nesso di causa, in quanto consente al giudice di risolvere, già sul piano della causalità

generale, anche tutti i problemi attinenti alla spiegazione eziologica dei decessi delle singole persone offese.

Una volta attribuito valore universale alla generalizzazione espressa dalla legge scientifica di copertura

dell'ipotesi di una correlazione tra aumento dell'esposizione e accelerazione dell'evento-morte, infatti, il

giudice ha buon gioco nel sostenere che tutte le esposizioni ad amianto sofferte dai lavoratori presso lo

stabilimento di Mantova hanno senz'altro ricoperto un ruolo causale nella verificazione dei decessi per

mesotelioma, per avere esse contribuito, se non a far insorgere, quanto meno ad accelerare il successivo

sviluppo della patologia tumorale.

2.4.4.2 (segue): La colpa degli imputati per le morti da mesotelioma

Risolto in questi termini il problema del nesso eziologico, rimane da stabilire se le morti per mesotelioma

degli ex dipendenti del petrolchimico siano rimproverabili agli imputati a titolo di colpa.

A tal proposito, la sentenza rileva anzitutto che le esposizioni ad asbesto verificatesi negli anni oggetto di

contestazione sono la conseguenza di gravi negligenze da parte della dirigenza dello stabilimento, avendo il

dibattimento fornito la prova, tra gli altri, (i) della "mancata realizzazione di interventi di conservazione

e manutenzione degli elementi degli impianti soggetti a deterioramento contenenti amianto"; (ii) del

"mancato controllo in ordine all'utilizzo da parte dei lavoratori dei dispositivi di protezione individuale";

(iii) della "mancata informazione e mancata formazione in ordine al potere tossi-cancerogeno

dell'amianto"; (iv) che "gli interventi su linee e apparecchiature coibentate con materiali e finiture

contenenti amianto [erano] svolti nella più assoluta mancanza degli elementari accorgimenti (ad es.

l'inumidimento del materiale o l'aspirazione nei punti di intervento), nella più assoluta promiscuità tra le

attività di scoibentazione e le altre lavorazioni che proseguivano, senza interruzioni"; (v) che "i residui e i

detriti derivanti dalle opere di scoibentazione [rimanevano] all'interno degli stessi reparti, in contenitori

ivi lasciati per diverso tempo, scoperti e privi del benché minimo controllo"; (vi) che "i lavoratori

[procedevano] direttamente alla manipolazione di manufatti di amianto (pannelli) che venivano

spezzati, tagliati e riutilizzati secondo le necessità del caso, con liberazione di polveri"; (vii) che "i

lavoratori [facevano] largo uso di guanti e coperte di amianto, molte volte ammalorate" (pp. 596-597).

Quanto al giudizio di prevedibilità, il Tribunale afferma invece che in dibattimento sarebbe emerso che

"almeno tra la metà e la fine degli anni sessanta (e quindi ben prima del periodo considerato

nell'imputazione: 1970 - 1989), la conoscenza delle potenzialità oncogene dell'amianto, sia in relazione al

tumore polmonare che al mesotelioma, era patrimonio condiviso della comunità scientifica internazionale

e che, a partire dagli anni '70, ciò era ben noto anche a quella italiana" (p. 607). Gli imputati, dunque,

"quand'anche non fossero stati a conoscenza del reale pericolo connesso alle esposizioni ad amianto,

avrebbero potuto agevolmente accedere al patrimonio di conoscenze disponibile a livello internazionale e

nazionale in quegli anni, direttamente (in considerazione della particolare competenza di cui erano

dotati) o indirettamente, mediante incarichi a medici del lavoro o igienisti industriali all'uopo delegati"

(p. 604).

Per le sette imputazioni ex art. 589 c.p. relative alle morti per mesotelioma, il giudice mantovano ritiene

quindi provato anche l'elemento soggettivo del reato; in ragione di ciò, gli imputati in carica negli anni in

Page 62: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

62

cui i lavoratori deceduti per tale patologia sono stati esposti ad asbesto sono riconosciuti colpevoli del

delitto di omicidio colposo.

2.4.4.3 L'accertamento del nesso di causa per le morti da carcinoma polmonare. Il Tribunale

estende anche a questa patologia il principio della rilevanza causale di tutte le esposizioni ad

amianto

Come già anticipato, l'altra patologia asbesto-correlata interessata dalle imputazioni formulate dalla

pubblica accusa è il carcinoma polmonare[6].

Ora, sotto il profilo eziologico, l'accertamento che il Tribunale era qui chiamato a svolgere, al fine di

verificare l'esistenza di una correlazione causale tra le esposizioni ad asbesto e le morti per questa

specifica patologia tumorale, si profilava, se possibile, ancora più complicato di quello resosi necessario in

relazione alle morti per mesotelioma. Il carcinoma polmonare, infatti, oltre a riproporre la complicata

questione della rilevanza causale delle esposizioni successive alle prime che hanno innescato il processo

cancerogenetico, solleva anche l'ulteriore problema dell'esclusione dei fattori causali alternativi

all'amianto: un problema, questo, che di regola non si pone per il mesotelioma, vista la natura

sostanzialmente monofattoriale di questa patologia, e che al contrario interessa da vicino il carcinoma

polmonare, tumore che com'è noto conosce una pluralità di fattori di rischio, alcuni dei quali molto diffusi

nella popolazione.

Nel capitolo dedicato alla causalità generale, la sentenza liquida rapidamente la prima questione,

affermando che "il modello più diffusamente accettato nella comunità scientifica è quello dose-risposta di

tipo lineare senza soglia; dunque, non vi è dubbio in ordine al rapporto dose-dipendenza tra esposizione

ad asbesto e insorgenza e accelerazione del carcinoma polmonare (Berry, 2007, cit. - pagg. 23 e 24 della

memoria tecnica P.M. 12 maggio 2014)" (p. 537).

L'argomentazione è molto più succinta, ma le conclusioni sono le stesse già viste per il mesotelioma:

secondo il Tribunale, anche per il carcinoma polmonare varrebbe il principio della rilevanza causale di

tutte le esposizioni ad amianto, visto l'asserito generale consenso della comunità scientifica attorno

all'ipotesi che l'aumento dell'esposizione è in grado di accelerare il processo di sviluppo della patologia.

La sentenza, inoltre, esclude l'esistenza di livelli di esposizione sicuri: sebbene alcuni studiosi abbiano

sostenuto che "il rischio di tumore polmonare aumenterebbe esclusivamente in presenza di esposizioni

elevate" (p. 538), e che nessun rischio si verificherebbe in presenza di esposizioni inferiori a 25 fibre/ml

anni[7], il giudice ritiene, infatti, che studi più recenti avrebbero definitivamente "evidenziato il ruolo

delle esposizioni ad amianto di bassa intensità nell'insorgenza dei carcinomi polmonari" (p. 539).

Ancora in tema di causalità generale, la sentenza si occupa da ultimo della questione relativa

all'interazione tra fumo e amianto nella patogenesi del cancro al polmone, affermando che "la comunità

scientifica è ormai concorde nel ritenere l'effetto di tale interazione 'sinergico', secondo un modello

moltiplicativo o, comunque, più che additivo e meno che moltiplicativo".

Più in particolare, "l'esposizione contemporanea a fumo di tabacco e amianto può portare a

un'amplificazione delle mutazioni genetiche indotte dai cancerogeni presenti nel fumo di tabacco e

all'amplificazione della proliferazione cellulare per risposta ai danni tissutali, col conseguente possibile

aggravarsi della malattia; l'effetto sinergico comporta altresì interferenza tra fumo con la rimozione

fisiologica dell'amianto dal polmone, la facilitazione della penetrazione delle fibre di amianto nelle pareti

bronchiali, assorbimento di cancerogeni contenuti nel fumo da parte delle fibre di amianto, trasferimento

del ferro dalle fibre alle membrane cellulari con aumento della sensibilità degli ossidanti".

2.4.4.4 (segue): L'accertamento della causalità individuale per le morti da carcinoma

polmonare

Page 63: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

63

Sulla scorta di tali assunti generali, la sentenza procede quindi con l'esame dei singoli omicidi colposi

relativi a carcinomi polmonari; al netto della prescrizione e dei casi nei quali è mancata la prova

dell'esposizione del singolo lavoratore ad amianto, al Tribunale rimangono da esaminare, in particolare,

quattro casi[8].

In un caso, la sentenza esclude che in dibattimento si sia formata la prova della causalità individuale,

trattandosi di un lavoratore per il quale erano stati riconosciuti una pluralità di fattori di rischio

alternativi all'amianto, e segnatamente (i) il fumo, (ii) la familiarità ("materna per neoplasia polmonare e

paterna per neoplasia intestinale"), e (iii) la BCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva, patologia

"tipica dei tabagismi, in grado di scatenare di per sé il meccanismo carcinogenetico polmonare - anche

per effetto dell'infiammazione cronica persistente - e di determinare autonomamente il decesso

dell'individuo che ne sia affetto").

La causalità individuale risulterebbe viceversa accertata in relazione agli altri tre casi esaminati dal

Tribunale, per due dei quali la concorrente sussistenza del fumo, quale fattore causale alternativo, non

viene ritenuta dal giudice mantovano di alcun ostacolo alla dimostrazione del nesso eziologico, vista

l'accertata relazione sinergica tra fumo e asbesto nella patogenesi del cancro al polmone.

Con riferimento a questi tre casi, la sentenza ritiene altresì dimostrata la sussistenza della colpa in capo a

tutti gli imputati che hanno ricoperto le rispettive posizioni di garanzia allorché i lavoratori sono stati

esposti ad asbesto (sul punto, il Tribunale rinvia alle considerazioni già svolte nei capitoli dedicati

all'esame dei decessi per mesotelioma), imputati che vengono pertanto riconosciuti colpevoli del

delitto ex art. 589 c.p.

2.4.5 Sul delitto di omissione dolosa di cautele. Il Tribunale assolve gli imputati per assenza di

dolo

L'ultimo capitolo del lungo e articolato impianto motivazionale della sentenza in commento è dedicato

al delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, che il Tribunale, in linea con la dogmatica

prevalente, inquadra come tipico reato plurioffensivo, in quanto posto a presidio "non solo [della]

pubblica incolumità sui luoghi di lavoro" e della "sicurezza sul lavoro di una comunità ristretta di

lavoratori o di singoli lavoratori", ma anche di "quei beni individuali (salute, vita, integrità fisica) facenti

capo ai singoli lavoratori, che vengono posti in pericolo (437, comma 1) o vengono lesi (437, comma 2)

dalle condotte di omissione, rimozione o danneggiamento" (p. 677).

La sentenza spende alcune osservazioni preliminari anche in ordine alla qualificazione giuridica del

capoverso dell'art. 437 c.p., dichiarando di aderire alla tesi di chi sostiene che "l'art. 437, comma 2, c.p.

configura una circostanza aggravante" (p. 679), anziché un'ipotesi autonoma di reato.

A detta del Tribunale, "già sotto il profilo strutturale e della descrizione del precetto, non può sfuggire

come la fattispecie di cui al 2° comma presenti i medesimi elementi costitutivi della fattispecie del 1°

comma, con l'aggiunta di un elemento specializzante: la verificazione dell'infortunio (o del disastro) alla

cui prevenzione sono destinate le cautele omesse" (p. 679). Inoltre, "nella stessa direzione depongono

anche gli altri criteri utilizzati dalla giurisprudenza di legittimità per distinguere una fattispecie

autonoma di reato da una fattispecie aggravata" (p. 680), vale a dire: "il criterio topografico (entrambe le

fattispecie del 1° e del 2° comma sono contenute nel medesimo articolo)", "il criterio della descrizione

della fattispecie di cui al 2° comma, con mero rinvio al 'fatto' di cui al 1° comma" e "il criterio teleologico"

(medesimo bene giuridico tutelato).

Nonostante detta qualificazione, il Tribunale ritiene comunque che "tutte le volte in cui si verifichi

l'infortunio alla cui prevenzione le cautele omesse erano destinate (o vi sia contestazione in tal senso), i

termini di prescrizione di tale reato non decorrano dalla cessazione della condotta omissiva, di rimozione o

di danneggiamento, come vorrebbero i difensori", ma dal momento in cui si verifica l'infortunio, "atteso

Page 64: Dispensa di diritto penale - corsolexfor.it. Penale.pdf · 3 indice l’art. 131 bis c.p. sulla possibilitÀ di revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento

64

che solo in quel momento potrà ritenersi che il reato abbia prodotto l'offesa massima a tutti i beni

giuridici tutelati, e che quindi il delitto sia stato consumato" (p. 680).

Per le medesime ragioni, la sentenza sostiene inoltre che "in caso di più infortuni derivanti dalle medesime

condotte rilevanti ex art. 437 c.p., la prescrizione decorrerà dall'ultimo degli infortuni: e ciò non perché si

tratti di un unico marco-infortunio, ma perché solo con la verificazione dell'ultimo infortunio potrà

ritenersi che l'offesa correlata alle condotte di cui all'art. 437 c.p. abbia raggiunto il suo massimo grado di

sviluppo". Senza contare, poi, che "nel caso di malattie-infortuni (in cui l'aggravante si verifica a

distanza di parecchi anni dalle condotte, ben oltre il termine di prescrizione previsto dall'art. 437, commi

1 e 2, c.p.) i reati sarebbero sistematicamente prescritti, con intuibili tensioni col principio di effettività

della tutela dei diritti delle persone offese, rilevante a livello costituzionale e sovranazionale" (p. 681).

Passando al merito delle contestazioni formulate a carico degli imputati, la sentenza ritiene che

l'istruttoria dibattimentale avrebbe fornito la dimostrazione della materialità del delitto in parola (il

giudice fa qui rinvio alle osservazioni già formulate a proposito delle omissioni di cautele finalizzate a

prevenire la leucemia mieloide acuta e le patologie-asbesto correlate), ma sarebbe rimasta "del tutto

muta" in ordine al dolo richiesto dall'art. 437 c.p.

In particolare, secondo il Tribunale, la pubblica accusa avrebbe mancato di fornire la prova che gli

imputati abbiano omesso di adottare le doverose cautele con la consapevolezza "della tossicità e della

cancerogenicità delle sostanze presenti in stabilimento e, in particolare, della loro capacità di causare

malattie-infortunio nei lavoratori a esse esposti" (p. 684). Manca, infatti, la dimostrazione della

"consapevolezza in capo ai prevenuti, nel periodo 1970-1989, del potere cancerogeno del benzene e

dell'amianto: nulla è stato offerto in proposito dall'accusa, che si è limitata a rilevare più volte come,

nelle loro condizioni, gli imputati 'non potessero non essere a conoscenza' di tali caratteristiche delle

sostanze, evocando una sorta di dolus in re ipsa" (ibidem).

Il Tribunale, quindi, assolve tutti gli imputati dall'accusa di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche.

[1] Il problema della individuazione delle esposizioni ad amianto eziologicamente rilevanti nell'insorgenza delle patologie

asbesto-correlate è stato oggetto anche di due recenti pronunce del Tribunale di Milano, entrambe giunte a

conclusioni diametralmente opposte rispetto a quella fatta propria dal giudice mantovano (Trib. Milano, 28 febbraio

2015, n. 2161, Giud. Secchi, in questa Rivista, 21 luglio 2015, con nota di Jann, Esposizione ad amianto e mesotelioma pleurico: il

Tribunale di Milano affronta il tema dell'accertamento del nesso di causalità nel caso di esposizioni prolungate; Trib. Milano, 30 aprile 2015,

n. 4988, Giud. Cannavale, in questa Rivista, con nota di Jann, Il processo agli ex dirigenti dell'industria Franco Tosi. Il Tribunale di

Milano si confronta ancora una volta conb i problemi connessi all'esposizione ad amianto). Mentre il Tribunale di Mantova ha sostenuto

l'esistenza di una legge scientifica in grado di attribuire rilevanza causale a tutte le dosi di amianto inalate dal soggetto poi

ammalatosi di mesotelioma, i giudici milanesi hanno affermato, viceversa, che i dati scientifici attualmente disponibili

non consentirebbero né di identificare le prime dosi che hanno innescato il processo cancerogenetico, né di

attribuire alle dosi successive alle prime la capacità di incidere sul già avviato decorso causale della malattia.

Contrariamente alla sentenza in commento, dunque, le due pronunce del Tribunale di Milano ritengono che la scienza,

oggi, non sarebbe ancora in grado di fornire alcuna risposta certa alla domanda su quali siano le esposizioni che

contribuiscono all'insorgenza e allo sviluppo dei tumori correlati all'amianto.

[2] Con l'espressione "effetto lavoratore sano" si fa riferimento al fatto che i lavoratori sono di regola più sani rispetto alla

popolazione generale, in quanto l'avvio al lavoro è spesso precluso a soggetti disabili o affetti da particolari patologie; sotto il

profilo epidemiologico, tale circostanza costituisce un potenziale effetto distorsivo dello studio osservazionale, che rischia di

sottostimare gli effetti nocivi