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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA L’EUTANASIA NEL DIRITTO PENALE Relatore Prof. Ferrando Mantovani Tesi di laurea Federica Salton ANNO ACCADEMICO 2005/2006

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE

FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA

L’EUTANASIA NEL DIRITTO PENALE

Relatore Prof. Ferrando Mantovani

Tesi di laurea Federica Salton

ANNO ACCADEMICO 2005/2006

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Ai miei genitori

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- INDICE -

PREMESSA............................................................................................................. 1 CAPITOLO I

CENNI STORICI E DI DIRITTO COMPARATO §1. L' EUTANASIA NELLE DIVERSE RELIGIONI...........................................................5 §2. L’ EUTANASIA NELLA STORIA.......................................................................... 17 §3. L’EUTANASIA NEGLI ORDINAMENTI GIURIDICI STRANIERI................................. 31

CAPITOLO II LA DISPONIBILITÀ DEL CORPO UMANO

§4. IL PRINCIPIO UTILITARISTICO DELL’UOMO....................................................... 48 §5. IL PRINCIPIO PERSONALISTICO DELL’UOMO. .................................................... 51 §6. L’EUTANASIA COLLETTIVISTICA E L’EUTANASIA INDIVIDUALISTICA................... 59

CAPITOLO III LE FORME EUTANASICHE E IL DIRITTO PENALE

§7. L’EUTANASIA PURA: UN “AIUTO NEL MORIRE”. ................................................ 66 §8. L’EUTANASIA ATTIVA: UN AIUTO “A MORIRE”.................................................. 73 §9. L’EUTANASIA PASSIVA CONSENSUALE.............................................................. 80 §10. L’EUTANASIA PASSIVA NON CONSENSUALE. ................................................... 91 §11. IL TRATTAMENTO PENALE DELL’EUTANASIA DE IURE CONDITO..................... 108

CAPITOLO IV CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE E DE IURE CONDENDO

§12. PROPOSTE DE IURE CONDENDO. ................................................................. 118 §13. CONCLUSIONI............................................................................................ 126

BIBLIOGRAFIA................................................................................................... 132

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“Attristandomi io ascolto; e per più volte io sono quasi innamorato della benigna Morte

e l’ho chiamata con soavi nomi in tante ripensate rime, ché portasse ne l’aria il mio respiro queto;

ora più che mai parmi ricco il morire, finire ne l’ora della mezzanotte senza duolo”

John Keats

“I polmoni sono le nostre ali interne. Con il cuore nel mezzo esse ci sollevano. Quando i loro piumati respiri sono feriti il nostro volo precipita. Oh aiutateci voi,

che foste iniziati ai pericoli che ci minacciano, a mantenerci in volo ancora un po’”

Olof Lagercrantz

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PREMESSA

Il dibattito sull’eutanasia ha coinvolto ampi settori di indagine, da quello giuridico, a quello filosofico, da quello teologico a quello medico, fino a comprendere sempre più ampi settori dell’opinione pubblica, assumendo i connotati di una questione che né riesce a trovare una soluzione, né è capace di trovare un accordo unanime sul significato, sulla portata e sui sotto-problemi che tale pratica porta con sé. La solidarietà, l’autonomia e la stessa dignità umana depongono sia a favore che contro l’eutanasia: così, ad esempio, l’angelo della morte che aiuta a morire i malati terminali può apparire come un benefattore o come uno spietato criminale; il senso di solidarietà può giustificare sia le richieste di morte che andare contro di esse, configurando un dovere di intervento ad oltranza in ragione della tutela della vita umana. Il principio di dignità viene preso a fondamento sia da chi tende a legittimare le pratiche eutanasiche sia, nella situazione opposta, da chi afferma che la dignità si manifesta nell’accettazione della morte come fatto naturale. La ragione di questo paradosso dipende dall’essere, la problematica dell’eutanasia, eccezionale, in quanto ogni situazione eutanasica è tipicamente situazione non ordinaria ma di eccezione, in quanto ciascuna è dotata di un profilo individuale, non analogabile a nessun altro profilo1. Il dibattito sull’eutanasia si è fortemente incentivato in epoche recenti a seguito di numerosi fatti controversi che non hanno lasciato insensibile l’opinione pubblica; per citare qualche esempio che viene riportato dalla stampa, possiamo ricordare il “Dottore Morte”, il Dr. Jack Kevorkian, che ha ideato e messo a punto una macchina che consente all’aspirante suicida di 1 V. D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 28.

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iniettarsi nel circolo venoso dell’anestetico e, successivamente, una sostanza venefica o un’overdose di oppiacei. O pensiamo ai giudizi della Corte Suprema degli Usa a proposito della sospensione dei trattamenti di sostegno vitale a pazienti in stato vegetativo persistente (mi riferisco al recente caso di Terri Schiavo); all’approvazione in Olanda della legge che depenalizza l’eutanasia, così come era accaduto anche nel Territorio del Nord in Australia. Scopo di questo lavoro è quello di delineare una panoramica della situazione attuale in merito a questo problema, senza tacere che il tema si presenta lacerante per la sensibilità di molti per la difficoltà di accettare la fine di una vita. In questa analisi prenderemo le mosse, innanzitutto, dall’analisi del significato della vita, della morte e della sofferenza nelle più importanti religioni; con uno sguardo più attento alla religione cattolica per la innegabile influenza che questo pensiero svolge nella nostra visione dell’esistenza, e alla posizione delle Chiese Riformate d’Olanda, che hanno costituito la base ideologica dell’attuale disciplina eutanasica in Olanda, alla quale verrà dedicata un’attenta analisi, tenendo conto anche dei movimenti che negli anni precedenti la hanno, in qualche modo, auspicata. Passeremo ad analizzare e a definire il termine di origine ellenica ευτανασια nelle varie fasi storiche, dal suo significato originario di dolce morte fino all’elaborazioni e costruzioni giuridiche del Ferri sull’omicidio-suicidio, del codice Zanardelli e del nostro attuale codice. Il secondo capitolo sarà dedicato alla tematica degli atti dispositivi del proprio corpo: la questione riguarda la collocazione giuridica di questi atti, e in particolare la valutazione di quelli che appaiono contrastare con l’istinto di conservazione di se stessi, perché autolesionisti, cioè svantaggiosi nei confronti dello stesso disponente. La legge penale prevede la possibilità che una persona, nel caso in cui non sia più in grado di disporre autonomamente della propria

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vita, possa disporne tramite altri, senza che ciò interferisca con il divieto di uccidere? Il terzo capitolo riguarderà l’analisi dettagliata della pratica eutanasica, da quella indiretta a quella attiva a quella passiva; avremo modo di verificare come il contesto medico sia diventato l’ambito privilegiato per l’applicazione della definizione e della pratica dell’eutanasia, in particolare avuto riguardo alla possibilità di attivare o sospendere trattamenti clinici o addirittura intervenire attivamente per concludere una vita. Tutto ciò alla luce dei progressi raggiunti dalle tecnologie mediche e dell’importanza data al concetto di autonomia dell’individuo: infatti, da una parte si è realizzata la possibilità di salvare vite umane; ma dall’altra si assiste all’insorgere di casi limite in cui individui, collegati a macchine per la rianimazione, continuano a vivere per mezzo e grazie tale supporto artificiale, spesso senza poter mai riacquistare lo stato di coscienza o la possibilità di una vita di relazione, e ovviamente senza poter esprimere una volontà di rifiuto o accettazione dei trattamenti. Il ricorso a mezzi invasivi ha suscitato polemiche e dubbi circa la sua liceità: queste situazioni sconvolgono le categorie tradizionali del diritto e dell’etica, mettendo in moto istanze di positivizzazione legislativa e soprattutto affidando alla giurisprudenza il compito di individuare soluzioni tra l’attuale rigidità legislativa e il caso specifico e principi in ordine ai comportamenti professionali e scelte personali. Casi clinici spinosi, come quello di Eluano Englaro, assegnano un forte impegno al giurista in ordine alle questioni di vita o di morte; sospenderle l’alimentazione e l’idratazione artificiale, trovandosi in una condizione di stato vegetativo persistente, equivale a consentire che possa morire. Ma ciò equivale, anche, all’astenersi dal proseguire un normale standard di assistenza, che non è lecito interrompere, soprattutto quando manchi una espressa volontà in proposito.

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La presa di posizione della Cassazione dimostra come, anche in Italia, la tematica si affacci anche nella prassi giurisprudenziale italiana, uscendo fuori dalle sole discussioni teoriche e accademiche. Attualmente il tema dell’eutanasia è al centro di un acceso dibattito e oggetto di numerose iniziative parlamentari: dal progetto di legge Fortuna del 1984 a cui è seguito nel 1992 il disegno di legge sulla delega legislativa al Governo per l’emanazione del nuovo codice penale del 1991, che prevede l’introduzione di una circostanza attenuante applicabile sia all’omicidio comune che all’omicidio del consenziente nei casi in cui la vittima si trovi in una condizione di malattia irreversibile. E ancora il disegno di legge in tema di consenso informato del paziente e di direttive anticipate, presentato al Senato il 29 giugno 2000, che vuole riconoscere dignità alle “direttive anticipate”del paziente. Infine, vedremo le varie proposte de iure condendo, tra le quali quella di chi avanza la possibilità di una legalizzazione dell’eutanasia attiva consensuale, tenendo presente, tuttavia, che le aree di chi è favorevole e di chi è contrario al cambiamento delle norme esistenti in materia non coincidono con l’area di chi valuta moralmente lecita l’eutanasia e di chi la ritiene immorale. In conclusione cercherò di dare una risposta: esistono alternative praticabili oppure si è costretti a discutere ancora su un tema, le cui possibili attuali soluzioni non soddisfano nessuna delle parti in causa?

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CAPITOLO I

CENNI STORICI E DI DIRITTO COMPARATO Sommario: 1. L’eutanasia nelle diverse religioni. – 2. L’eutanasia nella storia. – 3. L’eutanasia negli ordinamenti giuridici stranieri.

§1. L' EUTANASIA NELLE DIVERSE RELIGIONI. Il problema dell'eutanasia, particolarmente sentito negli ultimi anni, stenta ad imporsi come questione essenzialmente giuridica. È, infatti, la dimensione etica e religiosa a farla da padrona, ad impedire che si giunga ad una legge nazionale condivisa dai più. In particolare, l'apporto religioso costituisce un dato pregiuridico di notevole rilevanza in materia di eutanasia1. Sono per lo più i convincimenti religiosi, in materie come questa in cui l'opinione pubblica è particolarmente coinvolta, a costituire i parametri in cui affondano le loro radici le posizioni giuridiche. Possiamo subito rilevare come ci sia una tendenziale concordanza tra ebraismo, islamismo e religione cattolica in ordine alla considerazione del bene della vita come bene supremo e come bene garantito nella sua assoluta indisponibilità. Così l'Halakah, cioè la tradizione giuridica ebraica, è contraria all'eutanasia; l'ebraismo fonda la sua cultura sull'Antico Testamento (la Bibbia ebraica, che è anche il testo sacro dal quale attinge la sua fede il cristianesimo) e sulla tradizione dell'insegnamento dei rabbini, maestri interpreti della scrittura. Per quanto riguarda i problemi etici nuovi, come l'eutanasia, la loro soluzione spetta ai rabbini, i quali, sviluppando il principio biblico assoluto che prescrive di non uccidere e che impone a chiunque il rispetto della vita umana, affermano che la vita è affidata da Dio all'uomo, il quale non può liberamente 1 “Al giurista viene riservato uno spazio residuo, di cristallizzazione normativa di opzioni assunte sul diverso piano dei valori, alla cui fedele traduzione in formule giuridiche egli dovrebbe dedicare tutte le sue energie”, F. D'Agostino, L' eutanasia come problema giuridico, in Arch. giur., 1987, 27.

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decidere non solo della vita altrui, ma neppure della propria2. Quindi, la vita e la morte sono nelle mani di Dio3; ma ciò non significa che l'ebraismo sia insensibile alla sofferenza. I farmaci antidolorifici sono permessi, anche se possono affrettare la morte, purché non siano dati proprio a tale scopo. Il medico ha il diritto e il dovere di curare, ma curare non significa prolungare le sofferenze perché come è proibito accelerare la morte di un uomo, così è proibito ritardarla con mezzi artificiali4. Il medico, se è convinto che il suo paziente sia goses, che cioè sia nella fase finale dell'agonia per cui la morte può sopravvenire entro tre giorni, può sospendere le cure rianimatorie. Per quanto riguarda la religione islamica, che come l'ebraismo non ha un'autorità centrale che possa esprimere pareri su temi che non sono discussi nei testi sacri e quindi imporre una soluzione unitaria, si deve anzitutto considerare come la problematica relativa all'eutanasia non sia ancora entrata a far parte del dibattito etico, giuridico, religioso.

2 Secondo il rabbino R. Di Segni non esistono indicazioni chiare e specifiche sull'eutanasia nella Bibbia, ma episodi da cui si può trarre insegnamento. Un caso è quello della morte del re Saul in una battaglia contro i filistei. Saul accerchiato dai nemici, nel terrore di essere catturato e di dover sopportare atroci sofferenze, chiede al suo scudiero di ucciderlo. Lo scudiero si rifiuta, e Saul si trafigge da sé con la sua spada, ma senza riuscire nell'intento suicida. Allora chiede ad un giovane amalecita di ucciderlo, e questo lo esaudisce. L'amalecita va a raccontarlo al re David, e il re lo condanna. Da questo episodio emergono delle linee tendenziali: il tentato suicidio commesso da Saul è comprensibile e giustificabile. Ma non è consentito aderire alla richiesta suicida del re, e, infatti, l'amalecita che lo fa viene punito. V. U. Veronesi, Il diritto di morire; la libertà del laico di fronte alla sofferenza, Mondadori, 2005, 33. 3 “Solo il Creatore, che concede il dono della vita, può toglierla all'uomo, anche quando essa diventa un peso anziché una benedizione”, A. M. Rabello, Diritto ebraico, in Encicl. Giur., XI, Roma, Treccani, 1995, 17. 4 Il rabbino Elio Toaff, intervenuto nella prima giornata di un convegno nazionale organizzato dall'Ordine degli avvocati e dall'Associazione Magistrati di Rieti, che si è tenuto a Rieti nelle giornate 23-26 ottobre 1986, afferma che “è proibita qualsiasi azione tendente ad affrettare la fine di un moribondo, anche se è in preda a forti sofferenze, e anche se egli stesso chiede di morire. Così “è proibito prolungare artificialmente la vita”; v. più ampiamente E. Toaff, Ebraismo religione di vita, in Atti del Convegno giuridico, Vivere, un diritto o un dovere? Problematiche dell’eutanasia, Rieti 23-26 ottobre 1986, Rieti, 1987, 39.

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Tuttavia la Sharia, cioè la legge religiosa dell'Islam, ritiene illecita l'eutanasia in quanto contraria ai precetti del Corano5. L'omicidio per misericordia, pur essendo questa uno dei fondamenti della religione islamica, non rientra in tale cultura. Anche per l'islamismo l'uomo non può disporre della propria vita, poiché solo Dio ha il potere di accordala e di toglierla6. La vita umana in sé è un valore; il concetto di vita senza valore o non degna di essere vissuta è alieno all'Islam. Nel 1985 la prima Conferenza internazionale di medicina islamica, che si svolse a Kuwait City, stilò un Codice islamico di etica medica in cui si affermava, in tema di eutanasia, che questa si fonda su una visione atea della vita, una visione che ritiene che dopo la vita segua il nulla; pertanto l'Islam rifiuta di uccidere un essere umano per dispensarlo dal patire atroci sofferenze, in quanto, oggi, non esiste dolore umano che non possa essere alleviato dalla medicina palliativa o dalla neurochirurgia. Come per il cristianesimo, anche per la religione islamica la sofferenza ha un valore positivo7; anzi, alcune correnti minoritarie e conservatrici includono gli antidolorifici, come la morfina o addirittura gli antidepressivi, nel numero delle sostanze che, alterando l'intelletto, sono proibite dall'Islam, alla pari dell'alcool e delle droghe. Del resto gli islamici affermano che nella loro società nessuno viene abbandonato; la comunità dei credenti ha il dovere di rendere dignitosa e umanamente accettabile l'ultima fase della vita tramite il conforto e il calore umano. E, qualora il medico accerti che le funzioni vitali non possano essere 5 Il Corano proclama la santità della vita umana. La Sura 6: 151, infatti, afferma: “[...] E, tranne che per giustizia, non uccidete nessuno di coloro che Allah ha reso sacri [...]”. E “[...]Chiunque uccida un uomo [...] sarà come avesse ucciso l'umanità intera”, Sura 5: 32. 6 Corano, Sura 3: 145 “Nessuno muore se non con il permesso di Allah”. Nella Sura 31: 156 “[...] E' Allah che dà la vita e la morte [...]”. 7 Corano, Sura 31: 17 “ [...] E sopporta con pazienza quello che ti succede [...]”. Nell'Islam è prioritario cercare il trattamento medico della malattia dal momento che il Profeta ha affermato che per ogni malattia Dio ha creato la cura.

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restaurate, è inutile mantenere il paziente in uno stato vegetativo tramite l’impiego di macchinari. Ma le due confessioni che hanno affrontato in modo organico, seppur antitetico, il problema dell'eutanasia, sono rappresentate dal cattolicesimo e dalla Chiesa Valdese italiana. La Chiesa cattolica, custode della legge divina scritta da Dio, ha da sempre dichiarato l'immoralità radicale dell'eutanasia, in quanto è una violazione della legge divina “non uccidere”8. Tale condanna è stata ribadita, con una chiara presa di posizione da parte della Chiesa cattolica, nel documento Dichiarazione sull'eutanasia, elaborata dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, firmato dall'allora cardinale Joseph Ratzinger il 5 maggio 1980, e approvato dal Papa Giovanni Paolo II. Tale testo intende dare delle risposte, in materia di eutanasia, alle numerose domande provenienti da vescovi e sacerdoti, da medici e da membri del personale ospedaliero, soprattutto avuto riguardo al fatto che, con i progressi della medicina, sono stati messi in luce aspetti nuovi dell'eutanasia. Lo sviluppo tecnologico in ambito medico, infatti, ha portato con sé un notevole aumento delle possibilità di guarigione e di prolungamento della vita, ma che talvolta sollevano problemi di carattere etico. Ecco dunque che questo atto tenta di indicare delle linee guida per orientare i fedeli a proposito di questo problema. Si ribadisce il carattere sacro della vita, della quale non si può disporre e anzi, in quanto dono dell'amore di Dio, l'uomo è chiamato a conservarla e a farla fruttificare. La vita umana è sacra dal suo inizio al suo epilogo.

8 “Qualunque siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile. Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto di Dio [...]”, v. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1992, § 2277.

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Dio solo è padrone della vita umana, non l'uomo né rispetto alla propria vita, né rispetto alla vita degli altri9. Il suicidio al pari dell'omicidio è inaccettabile10. L'uomo, infatti, deve conformare la propria vita al disegno misterioso e divino che Dio ha in mente per ciascuno di noi; intervenendo autonomamente nel processo vitale, l'uomo attenta al disegno di Dio. Ma qual è il significato cristiano della morte? La morte cristiana è il momento dell'unione definitiva con Cristo, poiché essa segna solo la fine dell'esistenza della condizione corporale11, si muore per vivere la vita eterna. Con la morte l'uomo scopre il suo nulla dinanzi al Creatore, il suo essere figlio e servo di Dio e guarda alla morte come un evento di salvezza in vista dell'eternità dell'anima; il cristiano può morire la sola morte che il Signore ha voluto per lui. Quindi la Dichiarazione, dopo aver definito l'eutanasia come un'azione o un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, al fine di eliminare ogni dolore, ribadisce che in nessun caso può essere autorizzata l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione, bambino o adulto,

9 L'uomo, secondo la morale naturale e cristiana, è solo usufruttuario del suo corpo e della sua esistenza; in tal senso v. Pio XII, Discorso ai partecipanti all’IX Congresso della Società italiana di Anestesiologia, 24 febbraio 1957, in “AAS”, 49. Mentre se si ammette che l'uomo è l'indiscusso padrone della vita umana, non si comprende perché l'uomo non possa disporne col suicidio; non si comprende perché la società non possa eliminare con la “dolce morte” la vita umana inutile. Ma affermando che solo Dio è padrone della vita umana, questa è intoccabile quali che siano le sue condizioni, la sua forma; in questo senso v. Sorge, Eutanasia e diritto di morire con dignità, in La Civiltà Cattolica, IV, 1983, 313. 10 “Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario [...] sono cose veramente vergognose” , Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, 27. Anche il Papa Paolo IV, nella lettera che il cardinale Segretario di Stato a Suo nome ha inviato il 3 ottobre 1970 al segretario generale della Federazione Internazionale delle Associazioni mediche Cattoliche riunite a Washington per un congresso su “la protezione della vita”, ha affermato che “ogni vita umana deve essere assolutamente rispettata: come l'aborto, così l'eutanasia è un omicidio”, in Civiltà Cattolica, IV, 1970, 275. 11 La Dichiarazione enuncia le parole di San Paolo “Sia che viviamo, viviamo per il Signore; sia che moriamo, moriamo per il Signore. Quindi, sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore”, in Rom., 14, 8.

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vecchio, ammalato, incurabile o agonizzante, in quanto si tratta di un'offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita. I sostenitori dell'eutanasia negano questo dominio assoluto di Dio sulla vita umana, in quanto è l'uomo che decide, in piena autonomia, della propria morte. Nella visione laica l'uomo non è figlio, ma diventa padre di se stesso, e spetta a lui costruirsi una scala di valori etici che deve rispettare; la vita umana è sacra in sé in quanto ogni persona è unica e irripetibile12. In questa visione rientra anche il concetto di libera disponibilità della propria vita13. La diffusione dell'atteggiamento a favore dell'eutanasia risiede proprio nella diffusione di quelle concezioni materialistiche della vita che negano l'esistenza ultraterrena. La vita in tale ottica può essere vissuta solo in quanto ricca di soddisfazioni e priva di dolore e sofferenza, altrimenti non vale la pena di

12 Secondo Bobbio, in AA.VV., Manifesto laico, a cura di Marzo E.-Corrado O., ed. Laterza, Roma-Bari, 1999, 127, lo spirito laico non è una nuova cultura ma è una condizione per la convivenza di tutte le possibili culture. In ciò, il termite “laicità” può distinguersi da “laicismo” quale “atteggiamento d’intransigente difesa dei pretesi valori laici contrapposti a quelli religiosi e di intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose. […] Il laicismo rischia di diventare una Chiesa contrapposta alle altre Chiese. […] Quando la cultura laica si trasforma in laicismo, viene meno la sua ispirazione fondamentale, che è quella della non chiusura in un sistema di idee e di principi definiti una volta per sempre”. La laicità esprime un metodo non un contenuto. Ciò che distingue, sostiene sempre Bobbio, un’etica religiosa da un’etica laica non sono i precetti, ma il modo stesso di giustificarli, ovvero la “meta-etica”. Prendiamo il divieto di uccidere: esso è un principio comune ma che secondo l’etica religiosa è giustificato in quanto comandamento divino, mentre secondo l’etica laica la giustificazione sta nella ragione. La laicità è la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede. Ocone, in AA.VV., Manifesto laico, cit., 114, riporta il ragionamento per cui il rapporto fra laico e cattolico non è un rapporto di opposizione: laico è “colui che a tutti dà la possibilità di esprimersi (anche a chi crede nella verità rivelata) , ma solo nella misura in cui ad altri non venga tolto questo diritto”. Per concludere “il rispetto laico della ragione non è garantito a priori né dalla fede né dal suo rifiuto” 13 Così U. Veronesi, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Mondadori, 2005, 80: “Il principio assoluto di non disponibilità della propria vita da parte degli esseri umani è, secondo me, un principio crudele che sequestra la libertà individuale [...]. Diceva I. Montanelli -Non capisco come sia legittimo per un uomo pianificare o decidere della propria vita, ma non sia legittimo decidere della propria morte!-”.

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essere vissuta. Infatti, il principio su cui si fonda l'eutanasia è quello per cui è preferibile morire che soffrire14. Ma secondo l'insegnamento cristiano il dolore e la sofferenza non sono mai inutili, anzi hanno un significato importantissimo in quanto rendono partecipe l'uomo della passione di Cristo. La sofferenza ha un particolare valore salvifico per il fatto che nell'uomo agonizzante rivive il mistero di Cristo che soffre per la redenzione dei peccati dell'umanità15. Ciò nonostante, la Chiesa non pretende un eroico atteggiamento del malato nel dover affrontare la sofferenza16, ma ammette l'uso di medicinali in grado di lenire o sopprimere il dolore, anche se da questo uso possa derivarne quale effetto secondario torpore o minore lucidità; e per quanto riguarda coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà presumere il loro desiderio di prendere tali calmanti. E l'uso dei narcotici è lecito anche quando ha, come effetto secondario, quello della abbreviazione della vita, purché come ricordò il Papa Pio XII, si tratti di un effetto non voluto17.

14 Nel 1974 quaranta personalità della cultura e della scienza, tra le quali i premi Nobel J. Modot, L. Pauling e G. Thompson, elaborarono il Manifesto a favore dell’eutanasia, pubblicato sulla rivista The Humanist nel luglio 1974 in cui, tra l'altro, si afferma che “la sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civilizzate. Poiché ogni individuo ha il diritto di vivere con dignità, ha anche il diritto di morire con dignità”. Il 9 dicembre 2000 la Pontificia Accademia per la vita pubblicava il documento Il rispetto della dignità del morente, in Oss. Rom., 11-12 dicembre 2000, nel quale si afferma che la giustificazione dell'eutanasia è costituita da due idee di fondo; l'una è data dal principio di autonomia del soggetto, il quale avrebbe pertanto il diritto di disporre in modo assoluto della propria vita; l'altra è data dall'insopportabilità e inutilità del dolore che talvolta accompagna la morte. Ma, afferma il documento, il dolore è oggi un dolore sopportabile grazie ai progressi della medicina e soprattutto grazie all'assistenza umana e spirituale. V. De Rosa, Eutanasia anche in Italia?, in Civiltà Cattolica, I, 2001, 299: “[...] a coloro che sono cristiani dobbiamo ricordare che la sofferenza, per quanto grave possa essere, non è mai inutile e senza senso: [...] essa diventa strumento di redenzione e di salvezza [...] ”. 15 San Paolo dice: “adimpleo ea quae desunt passionem Christi in carne mea” (trad. It. “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo”), in Col. 1, 24. 16 Il Vangelo ci dice, infatti, che “Gesù insegnava nelle loro sinagoghe […] guarendo fra il popolo ogni malattia e infermità. […] così si condussero a lui malati di ogni genere: sofferenti d’infermità e dolori vari, indemoniati e paralitici, ed egli li guarì”, Matteo 4, 23. 17 Papa Pio XII ad un gruppo di medici che gli chiedevano se “la soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici [...] è permessa dalla religione e dalla morale, al medico e al

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Infine la Chiesa cattolica si è pronunciata anche riguardo ai fondamentali problemi sollevati dal progresso delle tecniche rianimatorie, ritenendo lecito sia accontentarsi dei normali mezzi che la medicina offre, sia, con il consenso del paziente, ricorrere ai mezzi di terapia più avanzati. In merito la Dichiarazione ritiene che, in ragione dei continui sviluppi tecnologici che mutano mezzi considerati straordinari in mezzi divenuti ordinari e quindi obbligatori, sia preferibile sostituire al distinguo tra mezzi ordinari e mezzi straordinari18, la distinzione tra “mezzi proporzionati” e “mezzi sproporzionati”. Con questa nuova contrapposizione, introducendo un elemento discrezionale volto a consentire la possibilità di astenersi dall'esecuzione di interventi sproporzionati, si ha riguardo al risultato terapeutico derivante dalla tecnica medico-chirurgica utilizzata e non ad una sua qualificazione ex ante. In ogni caso tali mezzi devono essere valutati mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e il rischio che essa comporta, le spese necessarie, le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell'ammalato e delle sue forze fisiche e morali. Dopo l'affermazione che, comunque, nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati è lecito rinunciare a trattamenti che prolungherebbero la vita in modo tale da renderla penosa e precaria senza tuttavia interrompere le cure normali, si ribadisce che la morte è un evento naturale che deve essere accettato con serenità e dignità umana e cristiana; i medici devono prestare le cure necessarie al sofferente.

paziente, anche all'avvicinarsi della morte e se si prevede che l'uso dei narcotici abbrevierà la vita”, rispose “se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì”. V. Pio XII, Discorso del 24 febbraio 1957, cit., 147. 18 Distinzione operata da Pio XII già nel 1957 il quale vi individuava il limite al dovere del medico di fare sempre e comunque tutto quanto in suo potere per prolungare la vita (c.d. vitalismo medico). V. Pio XII, Discorso del 24 febbraio 1957, cit., 49.

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Ma l'ammalato prima che paziente è un uomo, che deve essere confortato, accudito, accompagnato amorevolmente in quella che è un'esperienza unica e irripetibile per ogni essere umano. Coloro che chiedono di morire, il più delle volte, sono coloro che vengono abbandonati in un letto d'ospedale, oppressi dall'idea di costituire un peso per la famiglia e impauriti dall'ignoto verso cui si accingono ad andare incontro. Quello di cui gli anziani, i malati terminali, le persone sofferenti hanno realmente bisogno per non essere costretti a chiedere l'eutanasia è di vivere in un clima di serenità, di avere comprensione, affetto, cura19. In conclusione, l'opposizione dei cattolici a una possibile legalizzazione dell'eutanasia si fonda su principi non soltanto di carattere religioso, ma anche di carattere naturale e civile, attinenti al rispetto della vita e della dignità dell'uomo che lo Stato deve tutelare e non distruggere; la sacralità della vita è una verità fondamentale, ma non perché derivante esclusivamente da un principio divino, ma in quanto derivante da una visione che pone al centro l'uomo e i suoi diritti, aventi una portata non solo cattolica, ma universale. Differente la soluzione che viene data al problema dell'eutanasia dalla Chiesa Valdese e Metodista20. Queste hanno un'unica autorità centrale, il Sinodo, rappresentativo delle chiese locali, che ha autorità ecclesiastica in materia di dottrina, giurisdizione 19 Prestare un tale servizio agli uomini è un servizio prestato al Signore stesso, il quale ha detto: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”, Mt, 25, 40. 20 Queste Chiese, che costituiscono oggi l'unico movimento di riforma religiosa inserito nel quadro dell'odierno cristianesimo, si dicono valdesi da Valdo (XII-XIII sec. d.C.) mercante di Lione che vendette i suoi beni e si dedicò alla predicazione del Vangelo, collaborando alla rinnovazione della Chiesa. La testimonianza del movimento si incentrava su due aspetti del cristianesimo: la fedeltà al Vangelo (per questo vengono definite anche “evangeliche”), che deve essere preso alla lettera rinunciando al potere politico, all'uso della forza e alle alleanze con le potenze del mondo, e la povertà della Chiesa. Come tutti i movimenti ereticali fu oggetto di repressione da parte del potere civile e religioso. Quando sorse in Europa la riforma protestante i valdesi vi aderirono nel 1532 organizzandosi in una comunità alternativa a quella di Roma, con predicatori locali per il culto e la celebrazione dei sacramenti. V. più ampiamente www.chiesavaldese.org. Ult. visita: 1 giugno 2006.

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ed emanazione delle leggi interne. L'amministrazione della Chiesa è posta nelle mani della Tavola Valdese, organo collegiale di nomina sinodale. La presenza di questo culto in Italia ha costretto spesso le autorità statali e le gerarchie ecclesiastiche ad effettuare un confronto dialettico su specifici problemi di notevole rilevanza sul piano dell'opinione pubblica21. Sullo specifico problema dell'eutanasia e della bioetica, la Chiesa Valdese Italiana si è espressa con più documenti approvati da un apposito Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza, istituito nel 1992, composto da teologi, scienziati e operatori sanitari e nominato dalla Tavola Valdese. In particolare è del 1998 il documento che affronta specificatamente le problematiche relative alla liceità o meno delle pratiche eutanasiche22. La Chiesa Valdese non nega il valore cristiano della vita come dono di Dio, ma è possibilista verso l'uomo; una vita ridotta allo stato larvale non ha più i caratteri del dono divino, ma è frutto del maligno perché Dio fa solo doni buoni ai suoi figli. In questo contesto l'eutanasia non è la negazione di Dio, non è violazione della legge divina, come invece vuole la tradizione cattolica, ma una lotta contro il male che non deriva dal dono che Dio ci ha dato con la vita23.

21 “Le Chiese non pretendono di imporre una propria visione scientifica e tuttavia rivendicano la possibilità di intervenire nella discussione pubblica dei problemi a partire dagli interessi e dai bisogni delle persone coinvolte. L'intenzione è quella di fare chiarezza sui problemi, promuovere l'informazione e di conseguenza far crescere la consapevolezza e diffondere il senso di responsabilità nella società tenendo conto sia delle acquisizioni scientifiche sia della salvaguardia dei diritti delle persone più vulnerabili”, v. I problemi etici posti dalla scienza, in Protestantesimo, 55, 2000, 315. 22 Documento Eutanasia e suicidio assistito, in Protestantesimo, 53, 1998, 49. 23 “[...] Non ci sono forse momenti o situazioni in cui la vita umana diventa sub-umana così da essere irriconoscibile come dono di Dio? No, questa non è più la vita che Dio ci ha dato perché Dio fa doni buoni ai suoi figli, ma questo non è un dono buono, non viene da Lui, ma dalle fibre del male e della distruzione.[...] Ma allora dire sì all'eutanasia non significa dire no a Dio, ma semplicemente no al furore devastante e cieco e assurdo del male”, v. P. Ricca, Vivere: un diritto o un dovere? Problematiche dell’eutanasia, in La legge olandese e commenti, Torino, 2002, 41.

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Invero, come afferma il documento del 1998, è necessario operare una distinzione tra vita biologica, rappresentata dall'insieme delle funzioni biochimiche cellulari, dalla riproduzione cellulare, dal funzionamento dei vari organi, e vita biografica, rappresentata invece dall’insieme delle esperienze, delle relazioni con altre persone, delle gioie, dei dolori e delle sofferenze, degli sforzi per rendere degna e umana la vita. Quando cessa la vita biografica, perché in presenza di uno stato vegetativo permanente o di una malattia terminale, ecco che allora deve essere presa in considerazione l'eventualità di porre fine anche alla vita biologica, purché sia rispettato il diritto del malato di scegliere di non soffrire più, quando la terapia non è più in grado di alleviare le sofferenze, dal momento che la sofferenza non ha quel valore salvifico e di redenzione proprio della morale cattolica, ma viene visto e valutato come un qualcosa di intrinsecamente personale, secondo una visione antropocentrica, propria di Max Weber e che pervade l'etica protestante, per cui l'uomo domina la vita, ma domina anche la morte24. L'eutanasia e il suicidio assistito, pertanto, sono leciti, in quanto espressione di libertà dell'individuo, il quale solo è responsabile della propria vita. Naturalmente queste pratiche eutanasiche devono avvenire in un contesto di regole precise e di validi controlli, in presenza dei quali il medico non commette un crimine, non viola alcuna legge divina ma compie un gesto umano e di rispetto. Il documento del 1998 tra l'altro sottolinea come in presenza di uno stato vegetativo persistente la sospensione delle terapie, ritenuta eticamente accettabile in molte sentenze specie dei paesi anglosassoni, molto spesso non porta immediatamente la morte, specie quando la terapia che viene interrotta riguarda la nutrizione e l' idratazione. In tal caso la morte avviene in modo 24 Questo principio di libertà di scelta del malato dinanzi ad una sofferenza ritenuta dal malato stesso inutile e disumana, oltre che nel documento base del 1998, viene ribadito nel documento I problemi etici posti dalla scienza cit..

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sicuramente doloroso; ma allora, si chiedono i valdesi, non sarebbe forse più umano accelerare la morte con un'iniezione di farmaci mortali, piuttosto che lasciar morire una persona tra stenti e dolore? Con l’affermazione di una qualche forma di liceità dell’eutanasia e del suicidio assistito, la dichiarazione si occupa anche di smontare uno degli argomenti spesso addotti dagli oppositori delle pratiche eutanasiche per frenare l’avanzata dei possibilisti, vale a dire quello del “pendio scivoloso” (slippery slope), in pratica lo scivolamento verso altre forme di accelerazione della morte anche in presenza di persone inconsapevoli e non consenzienti. A sostegno di questa teoria viene riportata l’esperienza del nazismo, considerata la prova dello scivolamento dall’eutanasia volontaria a quella involontaria. Ma addurre questo argomento per opporsi all’eutanasia è poco fondato storicamente trattandosi di due fenomeni diversi in quanto lo sterminio dei deboli, vecchi e in generale degli individui non adatti alla società ariana è avvenuto al di fuori di ogni legalità, violando il codice penale tedesco. Infatti, nella Germania hitleriana non si hanno testimonianze di casi di eutanasia volontaria richiesta da malati terminali. E infine, un'ultima eccezione nell'ambito della tradizione cristiana in materia di eutanasia e di sacralità della vita è rappresentata dalla posizione delle Chiese Riformate d'Olanda25. Sulla base di una dichiarazione del novembre 1999, le chiese chiedono al governo olandese una disciplina relativa agli interventi per interrompere la vita, riaffermando che la vita è un dono di Dio e proprio per questo sorge la

25 Per “riformate” si intendono le chiese “hervormd”, “gereformeerd” e “luterana”, come specifica la Dichiarazione delle chiese riformate olandesi sull’eutanasia, in Eutanasia. La legge olandese e commenti, cit., 71.

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necessità di proteggere la vita, di ridurre e combattere la sofferenza al fine di garantire a ognuno un avvenire degno26. Il documento ammette la liceità morale dell’eutanasia, ma afferma l’opportunità di una legislazione che fissi dei criteri soggettivi e oggettivi ben definiti in presenza dei quali è possibile chiedere l’eutanasia, al fine di evitare che si arrivi a una prassi sempre più disposta a ricorrere a questo mezzo. Queste ultime posizioni hanno costituito la base dell’attuale legislazione olandese in materia di eutanasia.

§2. L’ EUTANASIA NELLA STORIA. Il problema dell’eutanasia è assai complesso in quanto pone in relazione tra loro una molteplicità di saperi, come la filosofia, la religione, la medicina, la scienza giuridica. Si prospetta pertanto necessario l’impiego di una terminologia comune attorno al vocabolo di origine ellenica “ευϑανασια”27, composto da ευ (buona, dolce) e da ϑανατοσ (morte), dal momento che, attorno al significato di questo termine, sono venuti raggruppandosi fenomeni diversi od opposti, sia per finalità obbiettive, sia per i moventi soggettivi. Attraverso un excursus delle epoche passate è possibile verificare come questo termine sia stato utilizzato e sia mutato secondo i diversi contesti storici, religiosi28 e filosofici in cui è stato impiegato. 26 Si dice nella dichiarazione “proprio perché consideriamo la vita un dono poniamo degli interrogativi su interventi per interrompere la vita o per evitare la nascita”, in Dichiarazione delle chiese riformate olandesi sull’eutanasia, cit., 72. 27 Va tenuto presente che anche gli autori latini facevano uso del termine greco per la mancanza del corrispondente latino. Nella lingua latina, tra l’altro è assente anche un termine per indicare il suicidio; gli scrittori si servivano di perifrasi, scegliendole in base all’accezione cui intendevano dare risalto. 28 Ricordiamo che nella cultura cristiana il concetto di “buona morte” corrisponde a quello di “morte santa”, riferendosi al modo in cui ciascuno ha vissuto il suo rapporto con Dio nella vita terrena e si accinge a viverlo nella vita eterna; a dimostrazione di ciò possiamo rilevare che la

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Nell’antichità classica si ha un uso quanto mai eterogeneo del termine eutanasia, venendo utilizzato ora per indicare una morte eroica sul campo di battaglia29, ora una morte rapida e priva di dolore fisico, ora una morte dolce e tranquilla30. Nelle sue prime apparizioni, dunque, l’eutanasia non aveva nulla a che vedere con l’idea di morte volontariamente procurata, anche da parte del medico. Platone, che non ha mai utilizzato la parola “ευϑανασια”, è stato considerato il più antico teorizzatore del concetto di eutanasia; nel libro III della Πολιτεια, affermava che, nell’ottica della costruzione dello Stato ideale, gli individui fisicamente e psichicamente deboli (come i vecchi, i deformi, i malati cronici) dovevano essere lasciati morire, abbandonati a se stessi, al fine utilitaristico di migliorare la specie e di liberare la società dal peso del loro mantenimento e della loro assistenza. Quindi si ha l’affermazione di quella particolare forma di eutanasia, insieme eugenica ed economica, consistente nell’eliminazione indolore degli individui deformi o tarati, fisicamente o psicologicamente, per migliorare la specie e garantire la purezza e salute della razza, e dei malati inguaribili, degli invalidi,

festa di quanti vengono dichiarati santi si celebra per l’appunto nel giorno della loro morte, in quanto dies natalis della vita eterna. 29 Nell’Iliade le parole pronunciate da Ettore prima di affrontare Achille nel combattimento finale e decisivo “Non fuggo più, figlio di Pèleo, da te io che finora tre volte ho girato la rocca immensa di Priamo fuggendo l’assalto. Ora sento che devo affrontarti sia che vincere io possa o vinto cadere”, sottolineano la solennità e la nobiltà del gesto estremo di accettare una fine inevitabile, ma eroica; in Iliade, XXII, vv. 137-141. 30 Svetonio (I sec. d.C.) è il primo a conferire alla locuzione “dolce morte” una connotazione intimistica; infatti, nel descrivere la morte di Augusto, sottolinea come questa sia avvenuta, proprio com’era nel desiderio di Augusto, in modo non violento, ma naturale, sereno, confortata dall’affetto dei propri cari. Qui non è solo la mancanza di dolore e sofferenza a rendere buona la morte, ma anche il fatto che il morente si trovi nella propria casa, circondato dalla presenza delle persone amate. È una concezione del “morire bene” che si avvicina al pensiero moderno e che fornirà lo spunto alla creazione della concettualizzazione baconiana. V. più approfonditamente Luchetti, Masini, Mattioli, Spunti per un’indagine sull’eutanasia nel mondo antico, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline (a cura di Canestrari, Cimbalo, Pappalardo), Torino, 2003, 29.

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dei vecchi, per alleggerire la società dal peso dei soggetti economicamente inutili. Per Platone, questo modo di agire, sarebbe ammissibile non sulla base della sofferenza del morente o su una sua volontà, ma soltanto sulla base di motivazioni utilitaristiche. Tuttavia, per evitare similitudini con le pratiche eutanasiche naziste, che hanno cercato una giustificazione al loro operato nel pensiero platonico, è utile precisare che la forma di eutanasia ipotizzata da Platone non si sostanzia in un intervento attivo sull’inadatto a vivere, ma semplicemente in un abbandonare l’individuo a se stesso, in un lasciar morire. Del resto nel mondo antico era presente comunque, anche al di fuori del pensiero platonico, l’idea del lasciar morire e dell’uccidere per finalità economiche e eugeniche; pensiamo alla particolare usanza, attestata dalle fonti romane (Varrone e Cicerone), della Roma arcaica consistente nell’uccisione per depontazione degli ultrasessagenari (anche se forse più leggenda che realtà)31. Ippocrate, quasi coevo a Platone (V sec. a.C.), nel suo famoso giuramento, enuncia regole generali che il medico deve seguire nei confronti dei suoi pazienti. Tra le norme che devono essere rispettate dal medico nel suo rapporto con il malato c’è quella che riguarda il divieto di somministrare o consigliare l’uso di veleni32. Tale divieto si pone in contrasto con la morale e la prassi comuni; infatti, dal giuramento di Ippocrate traspare in modo chiaro e assoluto 31 Presso le popolazioni egiziane, greche e romane era in uso anche l’esposizione dei neonati deformi; anzi, secondo Plutarco, Licurgo avrebbe, con una legge, disposto l’esposizione obbligatoria dei neonati deformi. Una disposizione più mite si ebbe a Tebe dove i genitori che volevano disfarsi dei neonati deformi dovevano consegnarli alle autorità che li vendevano; in proposito v. Volterra, Esposizione dei nati. Diritto greco e romano, in Noviss. Dig. It., VI, !957, 878. 32 “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”; e ancora “ in qualunque casa andrò io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi”, in Luchetti, Masini, Mattioli, Spunti per un’indagine sull’eutanasia nel mondo antico, cit., 32.

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l’affermazione della dignità e del valore umano, laddove invece nel pensiero platonico si privilegia il ruolo della comunità nella quale l’individuo vive, in quanto l’individuo è funzionale alla società stessa. In epoca più risalente (I sec. d.C.), il grande filosofo stoico Seneca, convinto assertore del diritto dell’uomo di scegliere la morte e forse il massimo fautore del suicidio nell’antichità, afferma che ognuno è libero di preferire di concludere la propria vita quando lo ritenga opportuno, tuttavia non sulla base di motivazioni egoistiche, ma solo se dal rimanere in vita non deriva alcuna utilità per la società; il destino indica all’uomo saggio, per il quale la vita e la morte sono indifferenti, che è giunto il momento di morire, dando all’uomo stesso la possibilità di allontanarsi dalla vita con dignità. Quindi, il parametro di scelta tra la vita e la morte (a differenza che per Platone) è soggettivo, è frutto di una precisa volontà razionale, è una libertà fondamentale, centrale all’esistenza umana. La libertà di fare scelte nella vita, secondo Seneca, consiste almeno nella libertà di decidere quando e come uscire dalla vita. Per gli stoici, per i quali l’ars vivendi non riguardava solo il giusto modo di vivere, ma anche la libertà di scegliere la morte per proteggere tale modo di vivere, la scelta di morire è da condannare solo se è compiuta per motivi irrazionali, come la paura di morire o la stanchezza della vita. In conclusione, nell’antichità classica greco-romana, l’eutanasia è stata giustificata perché in questa realtà storica erano le esigenze e i diritti della πολισ ad avere il primato su quelle dei singoli cives, per cui la vita dei singoli aveva un significato soltanto se funzionale alla vita della società stessa. Il concetto di morte con finalità altruistiche è relativamente moderno; cominciò ad affermarsi quanto si riconobbe il valore della vita umana33.

33 Così nell’India antica era in uso la pratica di annegare nel sacro Gange gli inguaribili per troncarne le sofferenze e propiziarne le anime ad una vita migliore.

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Fu in età medievale34 che venne affermato il valore della vita umana e il suo carattere sacro, soprattutto per il confermarsi della cultura ebraico-cristiana. Senza soffermarmi sulla posizione cristiana in tema di eutanasia della quale ho già parlato precedentemente, mi limito ad accennare all’interpretazione estensiva che S. Agostino, la cui influenza sul pensiero cristiano medievale è stata di notevole portata, attribuisce al quinto comandamento “non uccidere”; tale ordine, non specifica di non uccidere il prossimo, ed è proprio per questa portata generale che, per Agostino, questo precetto può estendersi anche alla forma “non uccidere te stesso”. Così anche Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae, ponendosi sulle linee tracciate da Agostino, condanna in modo duro il suicidio35. Nel Rinascimento l’influsso della Chiesa cattolica è ancora forte nel condannare ogni forma di anticipazione della morte; tuttavia è proprio da questo momento che inizia a proporsi il tema dell’eutanasia nella sua accezione moderna. Tommaso Moro, filosofo anglosassone del XVI secolo, nell’ipotizzare la sua società ideale nell’isola di Utopia, sembra ammettere sia l’eutanasia pietosa, nel suo significato di morte procurata ad un ammalato inguaribile per liberarlo dalla sofferenza, sia l’eutanasia nel suo significato eugenico ed economico, quando il malato senza più speranze diviene un peso per gli altri36.

34 Nel medioevo il pugnale in uso per dare il colpo di grazia al cavaliere ferito non a caso si chiamava “misericordia”. 35 L’Aquinate afferma che il suicidio è illecito, sia dal punto di vista della legge morale naturale, sia da quello della legge divina positiva, per tre motivi: “primo, perché per natura ogni essere ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per quanto possibile a quanto potrebbe distruggerci. […] Secondo, perché la parte è essenzialmente qualche cosa del tutto. Ora, ciascun uomo è parte della società; e quindi è essenzialmente della collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla società. Terzo, la vita è un dono divino, che rimane in potere di Colui il quale “fa vivere e fa morire”. Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio”, in Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 64, art. 5. 36 “I malati vengono curati con ogni premura […]. Ed anche agli incurabili si crea sollievo mediante un’assistenza assidua, confortandoli con la conversazione e con ogni altro mezzo. Se però il male non è solo inguaribile, ma reca sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati,

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Tuttavia, pur avendo questo pensatore posto per la prima volta il problema morale dell’eutanasia, non ha mai utilizzato questo termine. È con il filosofo inglese Francesco Bacone (XVII) che viene coniato per la prima volta il termine eutanasia in relazione all’assistenza sanitaria, ai fini altruistici e all’uso dei mezzi indolore. Bacone attribuisce all’espressione “buona morte”, non più solo un significato di morte senza sofferenza pur se naturale, ma quello di morte procurata a chi sia affetto da malattia incurabile e dolorosa e quindi prossimo alla fine; purché però tale gesto sia compiuto per compassione (per finalità altruistiche) e si sostanzi in un’attività terapeutica indolore unicamente di competenza dei medici; il filosofo inglese per la prima volta collega la parola eutanasia con l’attività del medico, laddove, in particolare, nel suo De Digitate et eugmentis scientiarum (1561-1626), nel distinguere tra eutanasia exterior (terminare la vita senza dolori) e eutanasia interior (intesa come educazione e preparazione spirituale alla morte) ritiene che sia proprio uno dei compiti specifici del medico, quando la malattia risulta inguaribile, preoccuparsi della eutanasia exterior37. Ma Bacone omette di indicare quali sono gli atti che il medico può lecitamente porre in essere. Ed è proprio su questo punto che ruoteranno i dibattiti del XVIII-XIX secolo. considerata la condizione d’inutilità del paziente, il peso che rappresenta per gli altri e la pena per se stesso, costretto a sopravvivere in pratica alla sua stessa morte, lo esortano a non prolungare oltre i suoi tormenti e ad accettare la fine. Anzi, a liberarsi fiduciosamente da solo di quella vita divenuta penosa come galera o supplizio, oppure a farsene liberare volontariamente dagli altri. Darebbe in tal modo una prova di saggezza, visto che la morte verrebbe a por fine non a una condizione di benessere ma di tormento, ed anche a una dimostrazione d’animo pio e religioso, poiché si atterrebbe ai consigli dei sacerdoti, interpreti del volere divino”, in T. Moro, Utopia, Bari, 1982, 97. 37 “Il compito del medico non è solo quello di ristabilire la salute, ma anche quello di calmare i dolori e le sofferenze legati alle malattie; e di poter procurare al malato, quando non c’è più speranza, una morte dolce e tranquilla, questa eutanasia è una parte non trascurabile della felicità. […] Ora questa ricerca la chiamiamo eutanasia esteriore, che distinguiamo da quell’altra eutanasia che si riferisce alla preparazione dell’anima”, in Veronesi, Il diritto di morire, cit., 29.

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Questi precedenti contengono quegli elementi che qualificheranno il contenuto dell’espressione, caratterizzandosi, nell’epoca moderna come una modalità in cui si realizza un trattamento medico nel momento in cui si ha il convincimento dell’inadeguatezza delle cure; l’eutanasia, nel nuovo contesto, riguarda soggetti prossimi alla morte, affetti da una patologia di cui è diagnosticata l’inguaribilità, e trattamenti caratterizzati per l’uso di mezzi indolori, connotati dalle finalità di porre fine ad un’inutile e tormentosa agonia. Alla fine del 1800 s’inizierà a parlare di volontà del paziente, di scelta di vivere, del desiderio del paziente di anteporre al bene indisponibile della vita la liberazione dalla sofferenza38. In Italia, nel 1883, Enrico Ferri, in una monografia sull’omicidio-suicidio, ha sviluppato una elaborata teoria sul “diritto a morire”, anticipando gli attuali dibattiti sull’eutanasia e mettendo in discussione il brocardo cattolico dell’indisponibilità della vita39. I lavori preparatori del codice Zanardelli sono in fermento ed emerge la tendenza a non punire il suicidio, né nella forma consumata né in quella tentata, ma a prevedere la punibilità a titolo di speciale reato dell’istigazione o aiuto al suicidio e di lasciare alla disciplina dell’omicidio l’uccisione del consenziente40.

38 Secondo quanto afferma M.B. Magro, il passo definitivo verso il concetto attuale di eutanasia è stato compiuto dal giornalista Lionel Tollemache che ha associato il termine a situazioni di malattia inguaribile e dolorosa in cui sarebbe permesso ai medici, con il consenso del moribondo, somministrare un anestetico tale da provocare la morte. Cfr. M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 96. 39 Egli scriveva: “Pare a me, che il diritto alla vita sia rinunciabile o abdicabile, per parte di colui che ne è il soggetto, e che l’uomo, cioè, come ha diritto di vivere così abbia il diritto di morire. […] Che il suicidio sia un’azione immorale od un atto irreligioso è questione che non tocca la sociologia giuridica, la quale studia i fatti umani nel solo aspetto giuridico e sociale. Ed allora, io ripeto che l’uomo ha diritto di disporre della sua vita”, in E. Ferri, L’omicidio-suicidio, Torino, IV ed., 1895, 19. 40 Le leggi passate sono sempre state piuttosto dure con i suicidi; le costituzioni piemontesi del 1770 e quelle modenesi del 1771 imponevano che il corpo del suicida venisse appeso alla forca.

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Il Ferri, con la sua teoria sul “diritto a morire”, interviene su questa (per lui) inadeguata regolamentazione. L’illustre positivista si propone di dimostrare da un lato la sussistenza di un diritto a morire41 e quindi se sussiste un diritto dell’uomo di disporre della propria vita, dall’altro se il consenso del paziente alla propria uccisione abbia efficacia scriminante. Riguardo al primo punto l’autore elabora innanzitutto una “teoria sui diritti sulla propria persona”; la vita, dichiara, è un insieme di fatti che implicano la messa a disposizione del proprio corpo, così nella scelta di un mestiere pericoloso (es. domatore di belve), o in imprese dettate da spirito d’avventura.

Altre sanzioni potevano consistere nella privazione della sepoltura ecclesiastica. Quanto al suicidio tentato, molti giureconsulti lo consideravano come omicidio tentato. Con l’Illuminismo il suicidio, tentato o consumato, viene escluso dal novero dei delitti; Beccaria giustifica l’esclusione, non in base al riconoscimento del diritto di morire, ma in base alla ragione, utilitaristica, della impossibilità di una efficace repressione. Nel codice francese del 1810, seguito in toto dai codici preunitari napoletano (1819) e parmense (1820), non si puniva il suicidio, e neppure era prevista l’uccisione del consenziente (punita pertanto come un vero omicidio) e l’aiuto al suicidio. Tuttavia residui di repressione sopravvivono nel codice albertino del 1839 che prevedeva, in caso di suicidio consumato, l’invalidità del testamento e la privazione degli onori funebri e in caso di suicidio rimasto allo stato di tentativo la misura specialpreventiva della custodia del suicida mancato. Il codice toscano del 1853 non puniva il suicidio, tentato o consumato, ma si occupava della partecipazione al suicidio, punendola con la casa di forza da tre a sette anni (art. 314). Il più autorevole criminalista esponente della scuola classica, Carrara, riteneva che la vita non rientrasse tra i beni disponibili dell’individuo; mentre, il criminalista italiano Pessina, notevole sostenitore del “dovere di vivere”, affermava che il tentato suicidio, pur in assenza di una qualsiasi disposizione legislativa (dato che il codice sardo del 1859 non disponeva più nulla in materia), dovesse considerarsi come vero e proprio tentato omicidio. Anche nella letteratura il suicidio è stato oggetto di visione negativa: Dante, nel settimo cerchio dell’Inferno, colloca coloro che hanno avuto “in sé man violenta”: “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”. E per loro, Dante prevede una grossa pena: il giorno del Giudizio i suicidi andranno a prendere i loro corpi, ma non se ne rivestiranno perché da essi si sono separati volontariamente. Li trascineranno nella selva e li appenderanno ciascuno al proprio albero: “Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie”. 41 Ferri fa riferimento al “suicidio indiretto” nelle due forme principali dell’uccisione del consenziente e della partecipazione al suicidio; “il caso di suicidio indiretto su cui verte la questione assume alla sua volta due forme principali: 1° di uccisione del consenziente; 2° di partecipazione al suicidio; ciascuna delle quali ha poi diverse manifestazioni psicologiche”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, Torino, V ed., 1925, 458

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Questi atti sono indubbiamente leciti tanto dal punto di vista giuridico che morale, e dipendono dal potere che ciascuno di noi ha sul proprio corpo. Ammessi questi diritti sulla propria persona (jura in se ipsum), che sono una conquista storica42, è necessario risolvere il problema giuridico della responsabilità penale di chi compie un atto di omicidio-suicidio. L’illustre positivista ritiene, quindi, di dover risolvere il problema riguardo alla alienabilità o rinunziabilità dei diritti sulla propria persona, partendo dalla distinzione tradizionale avanzata dai criminalisti fra diritti alienabili e non alienabili, derivata dall’altra fra diritti innati (che sarebbero intangibili e inalienabili, e tra questi ci sarebbe il diritto alla vita) e diritti acquisiti. Ma per l’autore non esistono diritti solo innati o solo acquisiti, essendo tutto legato al divenire storico e all’evoluzione della società; così i diritti acquisiti possono avere la loro radice nella natura stessa dell’uomo, così i diritti innati possono aver vita quando la società, in un dato tempo e luogo, li riconosce43. E questo vale anche per il diritto alla vita, il quale, seppur venga garantito prima di ogni altro diritto, tuttavia non esiste in alcuni stadi più infimi dell’evoluzione umana44, e ciò dimostra, pertanto, che la distinzione tra diritti innati e diritti acquisiti è relativa e pertanto tra essi non sussiste alcuna 42 Il Ferri afferma “Questa realtà di vita moderna è, naturalmente, il risultato di una precedente evoluzione sociale, per cui i diritti sulla propria persona sono una conquista storica, da quando, nel regime giuridico della schiavitù, il corpo dello schiavo e quindi il potere di disporre di esso non spettava ad esso, ma al suo padrone. Ma ciò non toglie che, nella civiltà moderna, l’evoluzione giuridica e sociale ha conferito ad ogni uomo sul proprio corpo una serie di poteri, di disponibilità, di facoltà, di diritti, che possono riassumersi ed esprimersi nel concetto ampio di indipendenza e di libertà personale”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 460-461. 43 Viene riportato nella monografia di Ferri l’esempio del diritto di libertà personale che è innato negli uomini e come tale esistente anche nella schiavitù; ma questo “non infirma il fatto che anche i diritti innati non sono diritti se non quando l’individuo, giunto ad una data fase di evoluzione, abbia la forza di farli valere e quando, in conseguenza la società li riconosca e li sancisca”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 479. 44 “Siccome, come nota Darwin, la necessità della lotta per l’esistenza impone ad ogni tribù di indebolirsi il meno possibile di fronte alle tribù nemiche, così è che l’omicidio diviene presto un reato, quando sia commesso contro un membro della propria tribù, mentre non lo è, ed è anzi azione meritoria, se commesso, anche in tempo di pace, contro un membro di un’altra tribù”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 479.

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differenza assoluta per quel che riguarda i loro caratteri di intangibilità e di inalienabilità. Per concludere, ogni diritto è, in un senso intangibile e inalienabile, ed in un altro senso è tangibile e alienabile; salvo, tuttavia, il limite della necessità dell’esistenza sociale. Il Ferri, poi, critica le due principali obiezioni che vengono mosse contro la disponibilità della vita. La prima obiezione si fonda sull’idea che ogni uomo ha un fine supremo da raggiungere che gli viene imposto dalla legge morale e la vita costituisce lo strumento tramite il quale raggiungere, appunto, questo fine. Pertanto, gli uomini hanno l’obbligo di rispettare questo diritto di vita altrui, e hanno l’obbligo di conservare il proprio. Ma secondo Ferri questo rilievo può valere solo da un punto di vista religioso e non da un punto di vista giuridico. La seconda obiezione si basa sul rilievo che non solo il titolare del bene della vita ha diritto alla sua stessa vita, ma anche i membri della sua famiglia e lo Stato, importando, pertanto, un “dovere di vivere”45; Ferri replica considerando che l’individuo e la società non sono in rapporto si soggezione, ma in un rapporto di necessaria coesistenza. Pertanto l’individuo ha dei doveri verso la società in cui vive soltanto finché è in vita, ma quando rinuncia a questa, recide ogni legame con la società stessa, in quanto l’uomo, per il solo fatto di vivere in società, acquista dei diritti e dei doveri; al contrario, per il solo fatto di non vivere più in società non ha più diritti né doveri. E la società non può imporgli di rimanere, perché se permette l’emigrazione (riferendosi a un argomento del Beccaria tramite il quale parificava la condizione giuridica del

45 Su questo punto il Ferri richiama quanto, a favore della teoria del dovere di vivere, afferma il Carrara in Programma. Parte Speciale, IX ed., vol. V, Firenze, 1911, § 2886, 610, a proposito del duello.

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suicida con quella dell’emigrante), vuol dire che i membri della società sono liberi di andarsene46. Quindi, e per concludere, sulla questione relativa al riconoscimento di un diritto di morire, Ferri dichiara che il diritto alla vita è rinunciabile da parte di chi ne è soggetto e che l’uomo come ha diritto di vivere così ha diritto di morire; anche perché, argomenta, se il diritto alla vita è annullabile, in certe circostanze, sia da parte dello Stato (pena capitale), che da parte del privato (legittima difesa, stato di necessità), allora non si capirebbe per quale ragione il soggetto stesso non possa rinunciare a questo diritto. Passiamo al secondo punto da esaminare, e cioè se il consenso alla propria uccisione abbia efficacia scriminante. Il Ferri ammette che, una volta dimostrata la disponibilità del bene della vita, allora il consenso, secondo la pura logica, dovrebbe scriminare; tuttavia, la scuola positiva afferma che il delitto è innanzitutto un fatto umano e sociale, pertanto per conoscere il delitto è necessario prima studiare il delitto nell’uomo delinquente e nell’ambiente sociale in cui esso vive e opera, e poi definire il delitto anche giuridicamente, ma mai come “entità giuridica” scollegata dal suo autore47. Applicando questo metodo, si potrà risolvere il problema del consenso alla propria uccisione, analizzando l’autore di un fatto consentito da altri; in altre

46 Il positivista Grispigni si pone in una linea critica riguardo al riconoscimento del diritto a morire così come ricostruito dal Ferri. L’uomo, infatti, non sarebbe libero di uscire dalla società quando vuole, anche perché quando l’uomo si uccide vive ancora in società e dunque non si sarebbe privato di quei doveri. Ma, anche da questo autore, l’irrinunciabilità alla vita non viene riconosciuta come un principio assoluto: “come in un momento storico può essere ritenuta indifferente […] la conservazione della vita dei cittadini, così in un altro momento storico […] può essere ritenuta necessaria per lo Stato la conservazione della vita dei cittadini”, in Grispigni, Il consenso dell’offeso, Roma, 1924, 681. 47 L’autore traccia una differenza, su questo punto, tra la scuola classica e la scuola positiva: “mentre per la scuola classica il delinquente resta sempre in seconda linea, nella penombra […], per la scuola positiva il delinquente, invece, sta sempre in prima linea”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 502.

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parole, non si deve porre l’attenzione su chi presta il proprio consenso, ma soltanto su colui che ha ucciso o ha aiutato a morire. Il consenso del richiedente non è sufficiente, in quanto è necessario guardare i motivi che hanno determinato colui che ha ucciso o aiutato il suicida48. Date queste premesse l’autore conclude che l’uomo ha la disponibilità della propria vita, quindi può consentire alla propria uccisione; chi uccide altri dietro suo consenso non è giuridicamente responsabile solo se oltre che dal consenso della vittima è determinato all’azione da un motivo morale, legittimo, sociale, mentre è giuridicamente responsabile se questo motivo è immorale, antigiuridico, antisociale49. Se chi agisce dietro consenso o richiesta del suicida è determinato da motivi illegittimi, allora commetterà un “omicidio fraudolento”, e pertanto sarà punibile a norma dell’art. 370 del codice penale Zanardelli50. Se, invece, è mosso da motivi legittimi (pietà, affetto, solidarietà umana), allora l’autore dell’atto non incorrerà in nessuna responsabilità penale per la presenza dei due requisiti del consenso e dei motivi51. 48 “[…] E questi motivi – cioè il carattere di pericolosità o non pericolosità nell’uomo che ha compiuto quell’azione – non cambiano di valore morale e penale a seconda che il consenso alla propria uccisione si ritenga giuridicamente valido oppure no”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 504. 49 Per i criminalisti della scuola classica invece il problema si risolve in questo modo: “o il paziente non può dare un consenso valido, perché, ad esempio, esso sia in istato di minorità o di demenza, oppure sia coatto o tratto in errore e allora il consenso è nullo giuridicamente e quindi l’atto è un vero omicidio; oppure il paziente poteva pur dare e diede un consenso che aveva i requisiti del consenso valido nei soli contratti, ed allora subentra la ragione della non rinunciabilità del diritto alla vita e l’atto è ancora un vero omicidio”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 508. 50 Nella stesura del codice Zanardelli la scuola classica ebbe il sopravvento; infatti, nel codice del 1889 non fu previsto l’omicidio del consenziente, che pertanto restava punibile come omicidio comune, mentre venne disciplinato l’aiuto al suicidio. L’art. 370 disponeva: “Chiunque determina altri al suicidio o gli presta aiuto è punito, ove il suicidio sia avvenuto, con la reclusione da tre a nove anni”, v. A. Cadoppi, Una polemica FIN DE SIÈCLE sul “dovere di vivere”: Enrico Ferri e la teoria dell’”omicidio-suicidio”, in AA.VV., Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di Luigi Stortoni, Trento, 1992, 134. 51 Il Ferri passa poi ad analizzare nel suo lavoro alcuni casi: tra questi il caso del conte F. arrestato per omicidio, il quale, successivamente, in carcere si uccise dopo che la moglie, a seguito di un colloquio, gli aveva lasciato un anello contenente acido prussico, suggerendogli di

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Le critiche a questa teorizzazione del diritto a morire non mancarono né da parte dei classici, né da parte degli stessi positivisti, tuttavia tutta questa costruzione apre una breccia nel pensiero della penalistica italiana del tempo; soprattutto la giurisprudenza venne in sostanza a dar ragione al Ferri nelle sue interpretazioni del codice del 1889. Alle soglie del codice Rocco anche il positivista Grispigni, che pur aveva criticato parte della teoria ferriana, elabora de jure condendo una nuova versione dell’art. 370 del codice Zanardelli prevedendo anche la disciplina dell’omicidio del consenziente52.

uccidersi per evitare a sé e ai figli l’ignominia del pubblico dibattimento e della condanna. Ebbene, per l’autore, contro tale donna non si sarebbe dovuto procedere penalmente perché aveva agito per motivi legittimi, di pietà e di onore familiare. V. Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 528 ss. 52 Così, per il Grispigni, dovrebbe essere la nuova versione dell’art. 370: “ Chiunque determina altri al suicidio o gli presta aiuto, ovvero ne cagiona la morte dietro espressa ed insistente richiesta, è punito, ove la morte avvenga, con la reclusione da tre a nove anni. Se l’agente sia stato indotto al fatto dalla pietà che a lui ispiravano le condizioni fisiche o morali della persona la pena sarà ridotta alla metà e sostituita la detenzione alla reclusione.; ed in casi particolarmente meritevoli d’indulgenza il giudice potrà esentare da ogni pena”, in Grispigni, Il consenso dell’offeso, cit., 689. L’A. auspicò la differenziazione dell’omicidio del consenziente dall’omicidio comune, l’introduzione di una fattispecie unica in cui omicidio del consenziente e istigazione al suicidio trovano spazio e di una specifica fattispecie sull’eutanasia che affida al giudice il compito di autorizzarla. Infatti, proponeva di considerare lecita la condotta eutanasica in presenza: 1) della domanda al tribunale civile da parte malato, 2) la nomina fatta dal tribunale di tre medici che portassero a termine una perizia positiva accertante l’inguaribilità del soggetto, 3) di una decisione motivata del tribunale, con l’intervento del pubblico ministero, nella quale si tenesse conto del danno che avrebbe potuto arrecare alla famiglia la morte del malato. Proponeva di evitare di applicare la pena nelle ipotesi in cui si fosse verificata una sorta di stato di necessità a favore dell’agente derivante dalla pressione psicologica e di conflitto interiore, tale da individuare nella morte l’unico rimedio ad un’agonia ormai inevitabile. Lo stesso per Del Vecchio, L’eutanasia e l’uccisione del consenziente, in La scuola positiva, I, 1926, 165 ss, che affermava che gli elementi costitutivi del “diritto di uccidere” dovevano ridursi a 1) invito, perché “senza di esso si potrebbe facilmente sopprimere tutti gli incurabili degenti in case di pena, di salute, in manicomi o nosocomi”; 2) prova “per testi o per iscritto a seconda della contingenza in cui viene a trovarsi il malato”; 3) referto medico “sia orale che scritto che giustifichi l’atto posto in essere dall’agente”. La tesi fu osteggiata da coloro che rilevavano la sproporzione del danno arrecato rispetto al danno minacciato, in situazioni in cui si elimina il dolore uccidendo il sofferente. Negava il valore psicologico e giuridico del consenso e del motivo di pietà Morselli, L’uccisione pietosa, Torino, 1923.

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Nei lavori preparatori del codice Rocco si ha l’assoluta negazione di ogni jus in se ipsum53; l’impunità dell’eutanasia fu sempre esclusa, essendo venuto in discussione solo il motivo di pietà come ragione per considerare meno grave l’omicidio. Tuttavia, la proposta che l’omicidio per pietà dovesse essere punito più lievemente dell’omicidio comune, anche indipendentemente dal consenso del sofferente, fu respinta54. Il Progetto ha seguito una linea di equilibrio, nel senso che non ha voluto disciplinare una causa di esclusione del reato per il caso dell’eutanasia, ma ha riconosciuto l’autonoma ipotesi di reato di omicidio del consenziente e ha mantenuto la figura dell’istigazione o aiuto al suicidio sulla falsariga dell’art. 370 del codice Zanardelli55, riconoscendo per la prima volta la differenza strutturale tra le due ipotesi e la differenziazione tra atti di disposizione manu propriae e manu alius e dimostrando come il legislatore, da un lato, abbia voluto tener fermi i dogmi della scuola classica, e, dall’altro, abbia tenuto conto delle proposte dei positivisti. Ma della disciplina contenuta nel codice Rocco parlerò in seguito. 53 Nella Relazione Ministeriale sul Progetto del codice penale si legge: “Il principio dell’indisponibilità del bene della vita non può far disconoscere l’influenza, veramente notevole, che il consenso della vittima esercita nell’apprezzamento del dolo in genere e della personalità del colpevole”, volendo intendere con ciò che, nonostante il rifiuto delle prese di posizione di Grispigni e di Del Vecchio, si riconobbe spazio al valore autonomo del consenso della vittima. 54 La Relazione Ministeriale sul progetto del codice penale, II, pag. 374, “Io non credo che possa accedersi ai voti di coloro che vorrebbero riconoscere la legittimità della morte cagionata per troncare un’agonia, ancorché atroce e certamente mortale, non potendo al fallace giudizio degli uomini essere attribuita la facoltà di distruggere, con la vita, l’ultima speranza che permane fintanto che vi sia un debole segno di esistenza”; v. Manzini, Trattato di diritto penale, VIII, 105. 55 Ma con un ambito di applicazione più ampio; infatti, accanto alle due tipologie previste dal previdente art. 370, viene prevista anche la condotta tendente a “rafforzare l’altrui proposito di suicidio”. E ancora, se il codice Zanardelli richiedeva come requisito indefettibile che il suicidio fosse avvenuto, l’art. 580 pone come sufficiente che dal tentativo di suicidio sia derivata una lesione personale grave o gravissima.

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§3. L’EUTANASIA NEGLI ORDINAMENTI GIURIDICI STRANIERI. L’Olanda per quanto riguarda il problema dell’eutanasia56 rappresenta un caso di notevole interesse, innanzitutto, perché è il primo paese al mondo ad aver legalizzato tale fenomeno con una legge del 2001, ma ancor più perché ha, nel corso dell’ultimo trentennio, prodotto una pratica assai diffusa di atti eutanasici e suicidi medicalmente assistiti sui quali la giurisprudenza è intervenuta formando importanti precedenti giurisprudenziali57. La pratica eutanasica, infatti, in Olanda, ha da sempre incontrato numerosi consensi sia nell’opinione pubblica (oggi decisamente schierata a favore della possibilità di sopprimere i pazienti che chiedono di essere liberati dalle sofferenze o di essere assistiti al suicidio), sia negli ambienti medici, tanto da indurre la giurisprudenza a decisioni clementi nei confronti del medico autore dell’anticipazione della vita. Fra il 1852 e il 1988 i casi decisi e di cui si dà notizia in letteratura sono ventuno; ma il primo caso storico in tema di eutanasia attiva volontaria nei Paesi Bassi è stato il caso Postma58, al quale si fa convenzionalmente risalire l’inizio del dibattito sull’eutanasia in Olanda. 56 La riflessione sull’Olanda riguarda le fattispecie di eutanasia attiva consensuale e suicidio assistito, non presentando problemi l’eutanasia passiva consensuale. Infatti, all’art. 2 della Costituzione olandese è espresso, accanto all’inviolabilità del corpo umano, il principio che il trattamento medico può essere avviato solo con il consenso del paziente, riconoscendo pertanto la eutanasia passiva. 57 Secondo il codice penale olandese, è reato togliere la vita a una persona anche se la stessa ne ha fatto esplicita richiesta; infatti ai sensi dell’art. 293 c.p., sotto cui ricadono i casi di eutanasia attiva, si afferma che “Chiunque cagioni la morte di un uomo su sua esplicita e seria richiesta è punito con la reclusione della durata massima di 12 anni o un’ammenda di quinta categoria”. Così com’è reato aiutare in qualsiasi modo una persona a procurarsi il suicidio; ai sensi dell’art. 294 c.p. infatti si afferma che “Chiunque determini intenzionalmente altri al suicidio, o ne agevoli l’esecuzione o gliene fornisca gli strumenti è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione della durata massima di 3 anni o con un’ammenda di quinta categoria”. 58 È il caso della dottoressa Gertrude Postma, la quale nel 1971 con un’iniezione mortale di morfina aveva procurato la morte della madre settantottenne, che in seguito ad un’emorragia cerebrale era divenuta parzialmente paralitica, sorda, nell’impossibilità di parlare correttamente e che in più occasioni aveva chiesto alla figlia di porre fine alla sua vita. Nel 1973 il Tribunale di Leeuwaarden ritenne la dottoressa responsabile di omicidio del

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In questa stessa sentenza la Corte, nell’affrontare la questione, enunciò per la prima volta i requisiti di liceità dell’eutanasia, ritenendo che deve trattarsi di malato incurabile per malattia o infortunio, che patisce sofferenze insopportabili secondo una sua valutazione soggettiva e chiede esplicitamente l’eutanasia, la quale deve essere praticata da un medico. In presenza di queste condizioni, affermò la Corte, la dolce morte può considerarsi ammissibile in quanto il medico agisce in uno stato di forza maggiore59; infatti, quando il medico si trova di fronte a un dolore insopportabile e irrimediabile, al quale può porre termine solo con l’eutanasia o con l’aiuto al suicidio, sorge per lui un conflitto di doveri tra preservare la vita e ridurre al minimo la sofferenza. Quindi, se il medico ha come unica e ultima possibilità per porre termine al dolore del suo paziente l’eutanasia, se la pratica, non è punibile. Nel 1982 venne istituita dal governo olandese una Commissione sull’eutanasia composta da quindici membri che si pronunciò a favore della liberalizzazione dell’eutanasia; influenzata, infatti, da un sentenza del 1984 (il caso Alkmaar60), nel 1985 propose di introdurre nel codice penale una specifica ipotesi di non

consenziente ai sensi dell’art. 293 c.p., respingendo la tesi che il medico avesse agito sotto l’impulso di forza maggiore intesa come “stato di necessità psichico”, cioè come caso di coscienza. Nonostante ciò la condanna fu irrisoria, concretandosi in una settimana di reclusione con la condizionale; questo caso è riportato da V. Vinciguerra-Ricci Ascoli, Il diritto giurisprudenziale olandese in tema di eutanasia attiva e di suicidio assistito, in Sistema penale in transizione e ruolo del diritto giurisprudenziale, a cura di Fiandaca, Padova, 1997, 88-89. 59 Il principio è contenuto nell’art. 40 c.p.: “Ogni persona che è stata costretta da forza maggiore a commettere un reato non ne è penalmente responsabile”. Questo articolo ha avuto una grande rilevanza, in quanto le corti hanno fatto riferimento a questo per motivare le lievi pene erogate ai medici che agivano violando gli articoli 293 e 294. 60 Una signora novantacinquenne, in gravi condizioni, aveva espresso in un living will (c.d. testamento biologico) la sua richiesta di anticipazione della morte. Il medico curante, consultato un altro medico, aveva praticato l’eutanasia. La Corte suprema affermò che il comportamento del medico era giustificato alla luce dell’art. 40 c.p., cioè dallo stato di necessità e pertanto lo proscioglieva dall’accusa di cui all’art. 293.

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punibilità per il reato di eutanasia, quando questo fosse compiuto da un medico e in presenza delle condizioni indicate precedentemente61. Ma, contrasti all’interno del parlamento olandese non permisero alcuna modifica del codice. Nel 1990 fu istituita una nuova commissione, composta da tre giuristi e tre medici (Commissione Remmelink, dal nome del presidente della commissione ministeriale che l’aveva promossa) investita del compito di avviare un’indagine sociologica senza precedenti sulle c.d. MDEL (Medical decisions concerning the End of Life); scopo della ricerca era, infatti, sia quello di individuare i casi di eutanasia, sia e soprattutto quello di documentare con quale frequenza venivano assunte, nella pratica clinica, decisioni mediche di eutanasia attiva, di suicidio assistito e di eutanasia involontaria62. Nel 1995, a seguito della legge del 1994 che ha istituzionalizzato la pratica eutanasica, fu promossa un’indagine simile alla prima che condusse al rapporto van der Mass; scopo era quello di rilevare un’eventuale variazione nella frequenza delle pratiche eutanasiche63. Un dato, che traspare dai due rapporti e che suscitò scalpore, fu quello riguardante l’interruzione della vita senza esplicita richiesta del paziente; in 61 I punti salienti del rapporto di questa Commissione, così come riportati da M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese, Giuffrè Editore, Milano, 2003, 28, sono: “a) si consiglia di regolare la materia per legge, evitando che sia la giurisdizione a dare orientamenti in materia; b) si consiglia di non punire i medici che aderendo alle ultime volontà dei loro pazienti li hanno aiutati a morire, se ciò è avvenuto nel rispetto di alcune regole prestabilite”. 62 Circa quattrocento medici scelti a caso sono stati intervistati a proposito della loro attività sui malati terminali. Le conclusioni del rapporto rendevano evidente che sono i medici di famiglia che ricevono il maggior numero di richieste. I casi di eutanasia attiva volontaria incidevano con una percentuale dell’1,7-1,9 sul totale delle morti. Più raro era il suicidio medicalmente assistito, causa solo dello 0,2% dei decessi. Scalpore destò la percentuale abbastanza elevata, intorno allo 0,7, della interruzione della vita senza esplicita richiesta del paziente; per dati più approfonditi v. M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese, cit., 29. 63 Questa inchiesta ha dimostrato che delle 135.546 morti registrate in un anno, il 2,4% è costituito dai casi di eutanasia attiva volontaria, 0,4% dai casi di assistenza al suicidio, 0,7% da quelli in cui si è posto fine alla vita del paziente senza sua esplicita richiesta.

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questo si vennero a concretizzare i timori di coloro che, contrari all’eutanasia, sostenevano che con la legalizzazione dell’eutanasia volontaria si sarebbe potuti incorrere nel pericolo di uno slippery slope64; ma tale ipotesi di eutanasia è stata giustificata dal fatto che la sofferenza dei pazienti può divenire talmente insopportabile da indurre ogni buon dottore a salvare il suo paziente anche quando non vi è esplicita richiesta65. Nel 1993 il parlamento olandese approvava una legge66 (che ha modificato la legge mortuaria) che esplicitamente prevedeva la non punibilità dei medici che avessero praticato l’eutanasia alla presenza dei seguenti criteri: a) il paziente ha avanzato la richiesta di eutanasia volontaria, ponderata, persistente, esplicita; b) il medico ha con il paziente una relazione sufficientemente stretta da permettergli di valutare se la richiesta è volontaria e ponderata; c) secondo la prevalente opinione medica, la sofferenza del paziente è insopportabile e senza prospettive di miglioramento; d) il medico e il paziente hanno discusso le alternative all’eutanasia; e) il medico ha consultato almeno un altro medico con

64 Per A. Ronzia, questo pericolo appare, almeno per il momento, scongiurato nella realtà olandese, perché, se da una parte è stata in ogni modo registrata una tendenza forse eccessiva nel riconoscere la sussistenza di insopportabili sofferenze, dall’altra è possibile affermare che il sistema sanitario olandese non sembra influenzato da considerazioni economiche; la presenza di un forte sistema welfare, infatti, scongiurerebbe l’ipotesi che in Olanda si possa chiedere l’eutanasia per preoccupazioni di tipo economico, anche se rimane sempre il rischio di manipolazioni esterne e alla volontà del paziente. In questo senso v. A. Ronzia, Olanda: la scelta della legalizzazione, in Il diritto di morire bene, a cura di S. Semplici, Società editrice il Mulino, Bologna, 2002, 118. 65 In questo senso v. H.M. Kuitert, L’eutanasia in Olanda: una pratica e la sua giustificazione, in Bioetica, 1993, 317-325, il quale, tra l’altro, afferma che “il dottore ippocratico è colui che invece che concentrarsi sul benessere del paziente vivo, si concentra su quello del paziente che sta morendo. Il buon dottore salva il suo paziente da una brutta fine”. 66 La legge fu approvata il 30 novembre 1993 dalla Camera Alta ed entrò in vigore il primo giugno 1994 con 37 voti a favore e 34 contrari, mentre il voto precedente della Camera Bassa aveva registrato una forte maggioranza a favore. Questa legge fu anticipata da un accordo che nel 1990 la KNMG (Royal Dutch Medical Association) stipulò con il Ministero della Giustizia, con il quale già si stabiliva una procedura per la pratica dell’eutanasia e del suicidio assistito; in seguito a questo accordo era improbabile che un medico che avesse ottemperato alle condizioni previste venisse perseguito penalmente, in quanto le linee guida erano quelle stabilite dai tribunali per poter invocare lo stato di necessità.

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un punto di vista indipendente; f) l’eutanasia è stata eseguita in accordo con la buona pratica medica. Questa riforma non legalizzava l’eutanasia, lasciando immutato il codice penale, ma predisponeva la base giuridica per una procedura amministrativa di azione e di autodenuncia da parte del medico curante che, se rispettata, poteva consentire che non si procedesse penalmente nei suoi confronti. Infatti, l’art. 10 della Legge sulla sepoltura e sulla Cremazione (modificato dalla legge del 1993) prevedeva che il medico che aveva interrotto la vita di un paziente o prestato assistenza al suicidio dovesse immediatamente notificarlo al coroner locale (cioè all’ufficiale di polizia che svolge indagini sui casi di morte violenta), dopo aver compilato un questionario preconfezionato allegato alla legge. A seguito di ciò, il coroner, dopo aver compiuto indagini circa la sussistenza dei requisiti richiesti e fatta a sua volta una relazione, doveva inoltrare questo rapporto e quello del medico al pubblico ministero (Procuratore della Regina) per la valutazione e la decisione di aprire o meno un procedimento penale a carico del medico67. In conclusione, la legge di depenalizzazione ha lasciato l’illegalità dell’eutanasia, ma ha tollerato legalmente la sua pratica, supportata dalla dottrina giuridica olandese che ha consentito che alcune pratiche, anche se non avallate dal diritto scritto, vengano tollerate dai magistrati68. Il 1° aprile 2002 entra in vigore la legge intitolata “Procedure di controllo dell’interruzione della vita su richiesta e dell’aiuto al suicidio e modifica del

67 È da tener presente, infatti, che in Olanda, a differenza di quanto è previsto nel nostro paese, vige non il criterio dell’obbligatorietà dell’azione penale, bensì quello della opportunità dell’azione penale, per cui il PM, per ragioni di interesse pubblico, può rinunciare a perseguire penalmente il reato. 68 “In tal modo la pratica prende corpo e si sviluppa proprio grazie al diffuso atteggiamento di tolleranza. Quando si è formato un consenso intorno a una certa pratica, si approva una legge che disciplini quest’ultima nei termini nei quali si è sviluppata. Esattamente questo è stato l’itinerario seguito in materia di eutanasia”, in M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico della nuova legge olandese, cit., 38.

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Codice Penale e della Legge sulla sepoltura e sulla cremazione”69; questa legge pone fine a un percorso iniziato nel 1993 con la “sperimentazione”70, prevedendo espressamente la non punibilità del medico che ha agito in conformità alla legge stessa attraverso, questa volta, una modifica delle norme del codice penale71; resta, tuttavia, reato l’aver compiuto le medesime azioni (interruzione della vita su richiesta e suicidio assistito) senza il rispetto delle prescrizioni legislative o da parte di persona che non sia il medico curante di fiducia del paziente72. Le motivazioni della legge sono di varia natura: una prima, di ordine generale, consiste nel desiderio di combattere il dolore. Infatti, secondo l’opinione che prevale in Olanda, il dolore e il desiderio di una morte dignitosa sono i motivi principali di coloro che chiedono l’eutanasia. Una seconda ragione, di ordine giuridico-sociale, consiste nell’assicurare ai medici che praticano l’eutanasia e il suicidio assistito la non punibilità, dato che tali pratiche vengono effettuate e sono ormai divenute una prassi consolidata e condivisa dalla popolazione olandese e dalla classe medica. Per tale motivo il problema vero non è mai stato se introdurre l’eutanasia, ma se e come la perseguibilità dell’eutanasia dovesse essere limitata. 69 Testo approvato dalla Camera del Parlamento olandese con 104 voti favorevoli e 40 contrari il 18 novembre 2000 e dal Senato con 46 voti favorevoli e 18 contrari il 10 aprile 2001. Tra le reazioni istituzionali vanno segnalate quella dell’Unione Europea e la condanna del Vaticano. 70 In questo senso v. G. Cimbalo, Eutanasia nella recente legislazione di Danimarca, Olanda, Belgio, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a cura di S. Canestrari, G. Cimbalo, G. Pappalardo, G. Giappichelli Editore-Torino, 2003, 150. 71 L’art. 20 della legge che legalizza l’eutanasia modifica sia l’art. 293 c.p. che sancisce che “L’azione penale di cui al primo paragrafo (omicidio su richiesta) non costituisce reato se è compiuta dal medico” che rispetti le norme prescritte dalla legge stessa; sia l’art. 294 c.p. che puniva congiuntamente istigazione e aiuto al suicidio, scindendolo adesso di modo che il primo comma continua a punire in modo invariato l’istigazione al suicidio, mentre il secondo comma, che punisce l’aiuto al suicidio, si chiude ora con la clausola per cui “si applica il secondo comma dell’art. 293 mutatis mutandis”. 72 Importante principio, infatti, è quello per cui il medico che pratica l’eutanasia deve essere legato al paziente da un rapporto di fiducia; in definitiva, dunque, deve essere il medico curante, cioè colui che meglio di altri può conoscere la ponderatezza e la libertà della richiesta di morte del suo assistito; ciò anche al fine di evitare il cosiddetto “turismo eutanasico”, cioè quei viaggi finalizzati ad ottenere pratiche eutanasiche.

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Questa legge in sostanza dichiara non punibile il medico che si è attenuto ai criteri di accuratezza previsti dall’art. 2 della legge stessa73 e che ha comunicato il decesso e le sue “cause non naturali” al necroscopo comunale; il medico necroscopo redige un referto in cui effettua un primo controllo circa la sussistenza dei requisiti e invia la propria e la relazione del medico a una delle cinque Commissioni regionali di Controllo74. Queste hanno il compito di esprimere un giudizio sul caso, controllandone gli aspetti giuridici, medici, etici. Se la Commissione ritiene che l’estinzione della vita del paziente abbia soddisfatto i criteri di diligenza posti a carico del medico, il caso viene immediatamente archiviato, senza che venga coinvolto il PM75. Se, invece, la Commissione valuta negativamente il comportamento del medico, poiché questi non si è attenuto ai parametri di diligenza richiesti dalla legge, il rapporto viene inviato al PM che avvia l’azione penale. In tal caso sarà compito del giudice, poi, di valutare se nel caso specifico sussistano gli estremi della forza maggiore (art. 40 c.p.76).

73 Ai sensi dell’art. 2 comma 1 della nuova legge, perché il medico non sia punibile, deve: “a) aver accertato che la richiesta del paziente sia spontanea e attentamente ponderata; b) aver accertato che il paziente patisca sofferenze insopportabili e senza speranza di miglioramento per il paziente; c) abbia informato il paziente della situazione in cui si trova e delle prospettive che ne derivano; d) abbia maturato, insieme al paziente, la convinzione che non esiste alcun’altra soluzione ragionevole per la situazione in cui il paziente medesimo si era venuto a trovare; e) abbia consultato almeno un altro medico indipendente che abbia a sua volta visitato il paziente e abbia espresso un parere per iscritto circa il rispetto dei criteri di diligenza, prudenza e perizia di cui alle precedenti lettere da a) a d); f) abbia praticato l’interruzione della vita o dato assistenza al suicidio secondo le regole di una buona pratica clinica”. 74 Nel 1998 furono istituite cinque Commissioni regionali di Controllo composte da un medico, un giurista, che la presiede e un esperto di questioni etiche nominati congiuntamente dal Ministro della Giustizia e dal Ministro della Sanità. 75 Ciò non significa che le Commissioni abbiano preso la funzione del PM. Infatti, il PM può comunque intraprendere l’azione penale d’ufficio nel caso in cui sospetti che si siano verificate delle irregolarità, ma dovrà consultare il Ministro di Giustizia. 76 Giova precisare che, a seguito della modifica dell’art. 293 e 294, l’art. 40 probabilmente continuerà ad essere invocato in casi particolari, quali le eutanasie praticate su soggetti che non ne hanno fatto richiesta.

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Dunque il PM non è più investito di ogni caso di eutanasia, ma sono portati alla sua attenzione e al suo giudizio solo i casi nei quali la Commissione, preliminarmente, abbia ritenuto di accertare il mancato rispetto dei criteri di diligenza prescritti dalla legge da parte del medico. La situazione olandese è dunque abbastanza paradossale, poiché il codice penale continua a punire l’omicidio comune, l’omicidio del consenziente e la partecipazione al suicidio, ma assicura la non punibilità qualora siano rispettati i criteri indicati dall’associazione medica olandese. La nuova legge non modifica le condizioni in base alle quali l’estinzione della vita su richiesta e il suicidio assistito da parte del medico erano già tollerati precedentemente, infatti i requisiti sono gli stessi; la novità consiste nell’ampiezza della loro formulazione e nel riconoscimento di un valore vincolante al controllo amministrativo da parte del medico e delle Commissioni. La legge non fa propria un’opzione, disponibilità/indisponibilità della vita, a scapito di un’altra; la disciplina legislativa si limita a porre le condizioni di legalità della pratica, a prescindere da un’indagine circa le intenzioni del medico, dirette ad uccidere o meno; non è rilevante neppure che la volontà del medico sia quella di rispettare l’autonomia del paziente o che la sua motivazione sia quello di liberarlo da insopportabili sofferenze. Quello che conta è che sia rispettato il procedimento che garantisce che l’intervento avvenga solo a seguito di una decisione autonoma del paziente, senza entrare nel merito di questa decisione né nelle sue motivazioni77. 77 In questo senso M.B. Magro, che afferma tra l’altro che “questa soluzione ricalca la struttura della esimente fatta propria dalla legge sull’interruzione della gravidanza […]. Il modello affida nelle mani di due soggetti la decisione circa la valutazione e il bilanciamento degli interessi in gioco: il paziente, direttamente coinvolto ed il medico (sottoposto al controllo della Commissione regionale), in qualità di soggetto estraneo dotato di qualità tecniche. Entrambi nel rispetto delle procedure, e non il diritto, individuano quale sia l’interesse prevalente”, in M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 252-253. E’ questo, secondo l’autrice, il cosiddetto “modello di giustificazione procedurale”, in cui, cioè, manca una diretta valutazione

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Assunto il principio di autonomia personale come fondamento etico dell’eutanasia, segue che il consenso del paziente è un elemento determinante per la realizzazione della figura di eutanasia78: tale consenso si evince dalla richiesta “volontaria e ben ponderata” (art. 2, 1.a), deve essere “informato” (art. 2, 1.c), esprimere la convinzione del paziente che l’eutanasia sia l’unica soluzione adeguata alla propria condizione (art. 2, 1.d). Ma, sul consenso, che dovrebbe essere l’elemento centrale dell’intera disciplina, non si dice altro; parte della dottrina ritiene che sarebbe stato necessario introdurre una qualche forma pubblica di raccolta del consenso, in modo da dare qualche garanzia in relazione alle eutanasie non volontarie che comunque si praticano; mentre con la nuova legge il consenso è affidato esclusivamente alla comunicazione con il medico, con la conseguenza di affidare a lui solo anche il peso della valutazione della validità del consenso79. Il potere del medico risulta pertanto notevolmente ampliato, anche se i medici non hanno l’obbligo di accogliere le richieste di eutanasia: il principio giuridico che fonda questo non obbligo deriva dal fatto che la legge, introducendo una fattispecie propria, deroga soltanto alla norma del codice penale (art. 293) e non attribuisce al paziente il diritto all’eutanasia. Tornando alla richiesta del paziente, la legge olandese disciplina anche l’ipotesi in cui questa provenga da minori: i pazienti tra i 12 ei 16 anni possono fare da parte del legislatore circa il bilanciamento degli interessi in gioco, ma vengono definiti gli ambiti oggettivi entro i quali l’individuo può esplicare la propria autonomia decisionale. L’ordinamento giuridico accetta la decisione responsabile dei soggetti direttamente coinvolti senza chiedersi quali siano le ragioni, verificando solo il rispetto della procedura. 78 La legge, tra l’altro, non richiede che il paziente richiedente sia giunto ad una sicura fase terminale. 79 Secondo Henk Ten Have “questa è la ragione per cui chiamiamo ideologico il consenso esistente oggi in Olanda, in quanto si usa la prima considerazione (l’autonomia del paziente) per nascondere la seconda (sollievo dalle sofferenze). Dal punto di vista medico, la considerazione che sembra essere più importante è la seconda: questa è il motivo principale per effettuare l’eutanasia in pazienti incompetenti che a giudizio del medico soffrono in maniera insopportabile. Conseguenza paradossale del dibattito sull’eutanasia è che alla fine i medici hanno il controllo finale sulla giustificazione morale dell’eutanasia attiva”, v. H.T. Have, L’eutanasia in Olanda: critiche e riserve, in Bioetica, 1993, 326-327.

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richiesta di eutanasia, ma è richiesto il consenso dei genitori o del tutore. I pazienti tra i 16 e i 18 anni possono decidere, in linea di principio, autonomamente, ma i genitori devono pure essere coinvolti nel processo decisionale. Anche in questi casi deve trattarsi di sofferenze insopportabili e senza prospettive di miglioramento80. È necessario precisare che il concetto di sofferenze insopportabili comprende anche quello di sofferenze psichiche; pertanto anche quando la richiesta proviene da pazienti affetti da tali forme di malattia, il medico può intervenire. Ma è difficile giudicare obiettivamente se una richiesta di eutanasia sia ponderata e libera quando il paziente ha una malattia psichica e le sofferenze non sono provocate primariamente da un’affezione fisica. In tal caso il medico deve interpellare due esperti indipendenti, di cui almeno uno psichiatra, che devono esaminare personalmente il paziente81. Se a legittimare l’eutanasia in Olanda sono anche queste sofferenze di natura non fisica, ma piuttosto esistenziale, si comprende perché nel 2001 il Ministro della sanità Helse Borse si dichiarò favorevole alla somministrazione di “pillole del suicidio”. Giustamente, a mio avviso, parte della dottrina rileva come colui che è intenzionato a uccidersi non ha bisogno di trovare in commercio pillole per suicidarsi; dietro al fenomeno del suicidio ci sono dinamiche psicologiche

80 La mancanza di prospettive di miglioramento viene accertata in base alle vigenti conoscenze mediche. Difficile, invece, è determinare oggettivamente, l’insopportabilità. 81 Nel 1994 uno psichiatra, il dottor Chabot, appartenente all’associazione per l’eutanasia volontaria, accolse la richiesta di un paziente che non si trovava in uno stato di malattia terminale o in una grave patologia fisica, ma in una grave forma di depressione, e prescrisse dei farmaci mortali. Lo psichiatra fece appello alla forza maggiore, trovandosi in una situazione di conflitto tra il dovere di proteggere la vita e quello di lenire le sofferenze. La Corte accolse tale richiamo nel caso specifico di assistenza al suicidio, affermando che in tali casi è necessaria una particolare cautela nella diagnosi di incurabilità del medico curante. Il caso giunse alla Suprema Corte che ritenne rilevante l’inosservanza della condizione che richiede la consultazione di un altro medico esterno. La sentenza fu dunque di colpevolezza per aiuto al suicidio, anche se la pena non venne eseguita per altre cause.

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complesse per cui chi chiede di morire semplicemente chiede di vivere, chiede di essere aiutato a vivere diversamente82. Se la richiesta, poi, proviene da pazienti affetti da demenza (la cui causa più frequente è il morbo di Alzheimer) si dovrà vedere caso per caso il decorso della malattia per determinare se, secondo parere medico, si è in presenza di sofferenze insopportabili e senza prospettive di miglioramento; infatti, secondo la legge, la demenza e altre malattie, non sono ragione sufficiente per l’interruzione della vita su richiesta o assistenza al suicidio. Tuttavia per alcune persone la prospettiva di perdere la personalità e le condizioni umane di vita, sono una ragione determinante per farne menzione nella dichiarazione di volontà. Un’ultima, importante, precisazione riguarda le dichiarazioni di volontà: infatti, la legge (art. 2, 2) riconosce, oltre alla dichiarazione di volontà orale, anche quella scritta (cd. “direttive anticipate”). Il riconoscimento della dichiarazione scritta è importante soprattutto in caso di decisione del medico per l’eutanasia quando il paziente non può più esprimere oralmente la sua richiesta. Il medico deve prendere in seria considerazione tale dichiarazione, a meno che ritenga il paziente incapace di intendere e di volere al momento della stesura; in tal ultimo caso la dichiarazione non è valida. Ritengo opportuno esprimere alcune considerazioni conclusive sulla scelta di legalizzare l’eutanasia in Olanda e sugli effetti che possono derivarne. Innanzitutto, parte della dottrina ritiene che questa scelta di decriminalizzare l’attività eutanasica, da un punto di vista culturale generale, può considerarsi il riflesso della “secolarizzazione” delle società occidentali, la quale sta cancellando la concezione trascendente-religiosa della vita; gli ordinamenti

82 Così D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in il diritto di morire bene, Bologna, 2002, 35, il quale conclude dicendo che “vendere in farmacia pillole letali è un modo subdolo per invitare gli anziani a non gravare, col peso di tutte le loro necessità, sulla famiglia o sull’assistenza pubblica”.

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giuridici tendevano a rinforzare con proprie sanzioni questi divieti che la religione imprimeva. Ma la secolarizzazione della nostra cultura toglie forza ad essi e il diritto si sta lentamente adeguando ai nuovi modi di sentire e di pensare. Da un punto di vista costituzionale-giuridico, la legge olandese, può considerarsi una manifestazione delle frequenti ipotesi di “ritirata” dello Stato dal suo antico ruolo: quello di difensore dei valori morali. Lo Stato si ritrae, in questo come in altri casi, su posizioni di “neutralità etica”, lasciando ai singoli di decidere in libertà quali siano i valori morali da perseguire nelle loro azioni; in particolare, rispetto al campo della vita intima dell’individuo, ha di certo influito il declino della fede religiosa tradizionale83. Le conseguenze pratiche che possono derivare dalla legalizzazione dell’eutanasia sono: primariamente l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza; secondariamente, ancor più grave ed esteso è l’effetto per cui una volta introdotta la possibilità dell’interruzione anticipata della vita si possa avere una sorta di inversione dell’onere della prova della dignità e del valore della vita umana. Infatti, il paziente dovrebbe giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia; e chiedere a qualcuno di giustificare il suo desiderio di vivere costituisce violazione della dignità umana84. Ma il maggior pericolo connesso alla legalizzazione dell’eutanasia è costituito dalla conseguenza di aprire una breccia al divieto di uccidere, da cui, pertanto, si scivolerebbe in un allargamento delle situazioni ammissibili così da farne 83 Per queste considerazioni v. G. Bagnetti, La legge olandese su eutanasia e suicidio assistito, in Corriere Giuridico, 2001, 705. Contra M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese, cit., 84, il quale, invece, sostiene che “i sostenitori della neutralità etica della legge ritengono che il rispetto dell’autonomia individuale (per cui ciascuno è giudice della propria dignità e decide circa il momento della propria morte) sia la sola soluzione ammissibile in uno Stato pluralista e laico. In realtà le cose stanno diversamente, in quanto con l’inserimento dell’eutanasia nell’ordinamento giuridico, il legislatore ha avallato la contestabile e contestata nozione di “qualità della vita” e la impone a tutti”. 84 V. in questo senso M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova a legge olandese, cit., 83.

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una pratica generalizzata. Si tratta del pericolo del “pendio scivoloso”, quindi di un’evoluzione o uno slittamento dall’insistenza sul principio del rispetto dell’autonoma decisione del paziente al dovere di eliminare un gravissimo stato di sofferenza85. La pratica in Olanda, quindi, si troverebbe già su quel “pendio scivoloso” che dalle eutanasie volontarie porta necessariamente a quella senza richiesta. Storicamente, però, il primo atto con cui un ordinamento giuridico ha, esplicitamente, legalizzato l’eutanasia attiva volontaria e l’aiuto al suicidio è il Rights of the Terminally Ill Act (conosciuto anche come Roti) approvato nello stato australiano del Territorio del Nord86. Si tratta di un intervento inaspettato poiché non ha riscosso la stessa notorietà con cui un simile problema è stato accolto in Olanda; tuttavia è stata proprio l’esperienza olandese del 1993 a fornire lo spunto per l’elaborazione, nel Territorio del Nord australiano, di una proposta di legge che superasse, nelle intenzioni dei proponenti, le lacune della disciplina olandese. Si intendeva intervenire, con norme certe e precise, per regolamentare un fenomeno, quale quello dell’eutanasia attiva, di fatto già praticato. Il disegno di legge, proposto dall’allora Primo Ministro Marshall Perron, viene approvato il 16 giugno 1995 con 13 voti a favore e 12 contrari e entra in vigore il 1° luglio 1996. Si tratta di un documento che ha una vita breve; alla sua entrata in vigore scoppia la reazione degli oppositori87 e dei capi aborigeni, che vi leggono una 85 In questo senso M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, cit., 232; ma anche M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese, cit., 90 , per il quale “[…] difficile composizione tra principio di autonomia personale, che dovrebbe essere il cardine della legge, e potere discrezionale dei medici. Tale potere medico, sembra essere così penetrante da mettere in discussione lo stesso principio di autonomia”. 86 Il Territorio del Nord è un’area vasta ma poco popolata dell’Australia del Nord, che occupa un sesto del continente, ma con una popolazione che non supera le 200.000 persone. 87 La società australiana vede una forte e significativa presenza delle confessioni religiose, dotate di una forte capacità di penetrazione negli ambienti politici. La religione dominante è quella protestante, seguita da quella cattolica.

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violazione al tradizionale diritto aborigeno88, l’opinione pubblica si mobilita89. Il 24 marzo 1997 il Parlamento Federale australiano ha abrogato la legge e ha approvato l’Euthanasia Bill of Laws, in base al quale l’atto è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo poiché non fa parte della competenza dei parlamenti statali legiferare in materia di diritti fondamentali dell’individuo90 e ha ripristinato la disciplina previgente, tornando a punire, pertanto, il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia attiva volontaria, proibendo, così, ai medici di porre fine alla vita dei pazienti in qualunque maniera. Le ragioni che hanno indotto il Parlamento Federale ad abrogare la legge del Territorio del Nord sono state innanzitutto il pericolo di slippery slope, e quindi il rischio di scivolare verso l’eutanasia non volontaria o addirittura verso quella involontaria, che configura omicidio. Inoltre, questa legge non prevede vincoli di residenza locale, cioè non era diretta ai soli cittadini del territorio, ma poteva essere utilizzata da tutti gli australiani91; il Parlamento del Territorio del Nord aveva approvato una legge generale riguardante tutti i cittadini australiani, andando ben al di là dei suoi poteri. 88 Molte sono state le resistenze e le paure che la popolazione aborigena ha manifestato contro il provvedimento; gli aborigeni, infatti, affetti da gravi malattie (le più diffuse: diabete, asma, disturbi cardiaci) sono spesso considerati malati terminali e ciò, con il nuovo atto, avrebbe potuto indurre i sanitari a ricorrere con più facilità a cure che avrebbero portato alla morte. Inoltre per gli aborigeni, aiutare una persona a morire contrasta con le loro credenze culturali e religiose che attribuiscono un ruolo centrale al rispetto della natura e dei suoi ritmi; la sopportazione del dolore rappresenta in alcuni casi e cerimonie un mezzo per dimostrare forza e virilità, pertanto non è ammessa nessuna fuga dal dolore se esso è voluta dalla natura. 89 Ci sono le associazioni a sfavore che sostengono gruppi religiosi, e SAVES, un’associazione dell’Australia Meridionale che sostiene, invece, il suicidio medicalmente assistito. 90 Il Territorio del Nord, infatti, non è uno Stato a pieno titolo, è appunto un “Territorio” non dotato dunque di piena autonomia legislativa e la vigenza delle sue leggi è, per previsione costituzionale, passibile di abrogazione da parte del Parlamento Federale. 91 A differenza di quanto avviene in Olanda, che si preoccupa di escludere dall’accesso alle pratiche eutanasiche gli stranieri per evitare il “turismo della morte”, la legge del Territorio del Nord ammette alla procedura eutanasica anche lo straniero, a condizione che questo possieda almeno il domicilio e che la sua volontà di morire sia raccolta e confermata da interpreti qualificati; questo perché la legge in esame considerava l’eutanasia come un trattamento medico, curativo e quindi disponibile per tutti.

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Il Parlamento Federale ha, infine, motivato la sua decisione affermando che la legge era contraria agli interessi degli aborigeni. Ad avviso di molti la legge offendeva i diritti umani, pertanto, abrogandola, il Parlamento avrebbe dato l’esempio agli altri Stati, dal momento che dopo il provvedimento abrogativo nessun territorio avrebbe avuto il potere di legalizzare l’eutanasia. Passando ad analizzare il contenuto di questo documento diciamo, per prima cosa, che viene a legalizzare sia il suicidio medicalmente assistito che l’eutanasia volontaria attiva per i malati terminali capaci di intendere e di volere. Condizione imprescindibile è l’inefficacia della medicina palliativa, in altre parole il malato doveva aver preso in considerazione tutte le possibilità offerte dai servizi di cure palliative. I pazienti dovevano avere un’età superiore ai 18 anni, essere sani di mente, soffrire di una malattia incurabile e dolorosa, essere avvisati di tutti i trattamenti sanitari disponibili, avere formulato la richiesta (che deve essere libera, volontaria e ponderata e che può essere validamente espressa solo dopo essere stato informato circa la natura della malattia, il suo decorso e i trattamenti medici disponibili, incluse le cure palliative, il trattamento psichiatrico e le misure straordinarie atte a tenere in vita un paziente) al proprio medico curante, ad un secondo medico qualificato nei trattamenti ai malati terminali, e ad uno psichiatra che confermasse lo stato di salute mentale, la piena capacità di giudizio e l’immunità da depressione, clinicamente trattabile, dovuta alla malattia92. 92 Più precisamente, l’art. 4 del Roti dispone che “un paziente, che nel corso di una malattia terminale, prova dolore, sofferenza e/o angoscia in misura per lui inaccettabile, può richiedere al proprio medico curante di assisterlo per porre fine alla propria vita”; a proposito si è obbiettato che non era espressamente previsto che il motivo per richiedere la morte dovesse essere la malattia terminale. Pertanto un paziente affetto da una malattia terminale, il cui dolore, sofferenza e/o angoscia fossero derivati da una causa completamente diversa (es. un divorzio, un lutto) sarebbe rientrato nella fattispecie. Così, ancora, un paziente poteva rientrare nella disciplina del suicidio assistito e dell’eutanasia attiva, nel caso in cui lo psichiatra avesse ritenuto che la depressione fosse non trattabile o che fosse originata da una causa non correlata alla malattia (es. un divorzio). Inoltre la legge non richiedeva che lo psichiatra accertasse che il

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Il paziente, quindi, formulava la sua richiesta nel “certificato di richiesta” (vale a dire un certificato, riportato nella Modulistica allegata alla legge, completato, firmato e autenticato da testimoni). Il medico poteva ottemperare alla richiesta o rifiutarla quando la sua coscienza gli imponesse di agire in modo difforme dalla richiesta avanzata dal malato; veniva così assicurata l’obiezione di coscienza del medico. La richiesta poteva essere revocata in qualsiasi momento e in qualsiasi modo dal paziente e il medico doveva distruggere il certificato di richiesta. Da ultimo la legge afferma che il comportamento del medico tenuto conformemente alle norme in essa contenute è considerato un trattamento sanitario e, pertanto, non costituisce reato né tentativo o cospirazione al reato, né concorso, istigazione, concorso morale o favoreggiamento del reato (art. 16 del Roti). E quindi nessuno potrà essere oggetto di azione civile o penale o disciplinare per quanto eseguito in buona fede e senza negligenza, né per aver presenziato al momento nel quale il paziente assume la sostanza prescrittagli o fornitagli come risultato dell’assistenza prestata per portare a termine la propria vita. (art. 20 del Roti). In totale, durante la vigenza della legge, quattro pazienti sono stati assistiti, e uno dopo l’abrogazione93. In conclusione, a seguito dell’abrogazione della legge, l’eutanasia attiva è considerata reato; il medico che la pratica può essere perseguito per omicidio o per assassinio, in applicazione delle norme contenute nei differenti codici penali in vigore negli Stati e nei Territori. paziente non fosse affetto da una malattia mentale diversa dalla depressione. V. F. Botti, Una legge contestata: l’eutanasia in Australia, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a cura di S. Canestrari, G. Cimbalo, G. Pappalardo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2003, 193. 93 Il dottore che lega il suo nome alle prime morti assistite legali è Philip Nitschke che mette a punto la prima macchina capace di dare la dolce morte su richiesta del paziente. Il processo mortale è attivato da un computer che chiede tre volte al paziente se è intenzionato a morire. In caso affermativo, cento millilitri di Nembutal liquido vengono iniettati tramite un ago nel braccio del paziente che cade nel sonno e muore nel giro di cinque minuti.

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Il suicidio e il tentativo di suicidio non costituiscono più dei crimini in Australia, ma tutti i codici penali in vigore condannano l’aiuto al suicidio94. Complessivamente i parlamenti australiani hanno, negli ultimi anni, presentato diversi progetti di legge nessuno dei quali ha, tuttavia, riscosso successo; come ad esempio nell’Australia Occidentale o nella Tasmania, dove, nel 1996 una commissione di cinque parlamentari ha sondato il terreno per una possibile legalizzazione dell’eutanasia. Nel 1998 il presidente di questa commissione ha rilasciato l’unanime resoconto finale contro le legalizzazione, commentando: “Sarebbe impossibile elaborare una legge che includesse tutte le possibili forme di tutela nei confronti dei vulnerabili, dei deboli e disabili […]. Introdurre una legge apposita per autorizzare l’eutanasia significherebbe travalicare i confini morali di una società”.

94 L’art. 26 del codice penale del Territorio del Nord afferma che “una persona non può permettere né autorizzare un’altra persona a ucciderla”. E ancora “una persona che procura ad un’altra la possibilità di uccidersi, che la consiglia sul modo di uccidersi, che l’incita a farlo o la aiuta ad uccidersi è colpevole di un crimine punibile con l’ergastolo”.

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CAPITOLO II

LA DISPONIBILITÀ DEL CORPO UMANO Sommario: 4. Il principio utilitaristico dell’uomo. – 5. Il principio personalistico dell’uomo. – 6. L’eutanasia collettivistica e l’eutanasia individualistica.

§4. IL PRINCIPIO UTILITARISTICO DELL’UOMO. Il problema della disponibilità del corpo umano può essere analizzato e risolto alla luce delle due contrapposte concezioni fondamentali dell’uomo: la concezione utilitaristica e la concezione personalistica, alle quali dobbiamo guardare come costanti. In particolare, la questione dell’eutanasia costituisce l’occasione per esporre i grandi principi giuridici a tutela della persona umana e i limiti di disponibilità della stessa, contro i crescenti pericoli, scientifici e non, dell’era moderna. Per la concezione utilitaristica, l’uomo è inteso come uomo-cosa, uomo-massa, uomo-mezzo e come tale strumentalizzabile per finalità extrapersonali, collettivistico-maggioritarie, individualistico-egoistiche. E ciò tanto che si tratti sia dell’utilitarismo statuale-collettivistico, proprio degli stati totalitari e della Ragion di Stato, per cui si ha un totale disconoscimento della personalità umana di fronte alla irrinunciabile prerogativa dello Stato di investire, in modo esclusivo ed assorbente, ogni aspetto dell’esistenza dei sudditi; sia dell’utilitarismo maggioritario, di tipo anglosassone-benthemiano1, della maggiore felicità per il maggior numero, anche a discapito di pochi: non c’è un totale assorbimento dell’individuo né un disconoscimento della persona umana, tuttavia si ammette che questa sia sacrificata per la maggior felicità dei 1 In base a questa dottrina, formulata da Bentham, non è possibile distinguere il bene ed il male in senso assoluto, poiché l’unico criterio è dato da ciò che piace alla maggior parte delle persone. Conseguenza è che diventa “giusto” ciò che decide la maggioranza delle persone. In base a questo pensiero filosofico, la coscienza, il senso morale, la giustizia, sono concetti fittizi; ciò che conta è quello che piace alla maggior parte delle persone in un determinato paese.

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più; sia dell’utilitarismo individualistico-edonistico della maggior felicità del singolo, proprio di un soggettivismo illimitato, che della volontà individuale fa la “somma norma”. Per il raggiungimento di questa felicità, tale concezione, ammette la strumentalizzazione dell’uomo da parte dell’uomo. Corollario di questa concezione utilitaristica è il principio della disponibilità dell’essere umano. Il limite logico di questo principio è costituito: secondo l’utilitarismo statuale-collettivistico, dall’utilità pubblica, collettiva o sociale, dell’uso strumentale dell’uomo. Ciò comporta, da un lato, la più ampia disponibilità pubblica dell’uomo, fino alla cosiddetta “nazionalizzazione” dell’essere umano2, dall’altro il dovere di curarsi per poter adempiere i propri doveri verso la collettività e lo Stato; secondo l’utilitarismo maggioritario, il limite è dato dalla maggior felicità per il maggior numero3. Infine, secondo l’utilitarismo individualistico-edonistico, il limite logico è costituito dal consenso del soggetto, in nome del quale viene legittimata la moderna politica della totale liberalizzazione: dell’aborto, della droga, della sterilizzazione anche irreversibile, del suicidio, del transessualismo, della locazione del grembo materno, dell’eutanasia pietosa, sia passiva che attiva4.

2 In nome di tale utilità pubblica è stata scriminata la delinquenza di Stato delle dittature della nostra epoca: si pensi ai delitti di oppressione politica, ai genocidi, alle sperimentazioni su larga scala, alla eutanasia eugenica ed economica, alla sterilizzazione coatta, all’aborto demografico, ecc., degradate a strumento della Ragion di Stato soprattutto nell’ultimo conflitto mondiale. Ma ancor prima, si pensi alle sperimentazioni umane, effettuate nell’antichità e nel Rinascimento. 3 In nome di questa maggior felicità sono state e vengono compiute sperimentazioni sui cosiddetti “soggetti predisposti”, cioè condannati a morte, detenuti, vecchi e malati di mente, pazienti non paganti, persone di colore. 4 Se è “bene” ciò che assicura il massimo di felicità individuale, ne deriva che l’unico criterio di distinzione tra bene e male è il consenso del singolo; basta che il soggetto consenta e questi ha la piena disponibilità del suo corpo.

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In tali prospettive utilitaristiche, viene invocato il cosiddetto “spazio libero dal diritto”5; il problema che ci si pone è, cioè, quello di stabilire se la scienza giuridica sia o meno legittimata ad occuparsi dell’eutanasia. Da più parti, infatti, viene invocato il dominio, su questa delicata materia, della religione e della filosofia, ritenendosi che solo queste due discipline possono portare ad affermare se la vita umana sia o non sia priva di valore o se valga o meno la pena di essere vissuta; e, in ogni caso, si tratterebbe di un problema di libertà, trattandosi di vicende private che, nei limiti in cui determinano un coinvolgimento del medico, possono sollevare esclusivamente delle questioni di etica professionale. L’eutanasia sarebbe un qualcosa di troppo importante perché se ne occupino i giuristi. Ma contro questo tentativo di espropriazione è stato obiettato6 che creare uno “spazio libero dal diritto” è assurdo, tanto nella motivazione, poiché l’idea che qualcuno, medico o filosofo che sia, possa liberamente decidere se e quando una vita sia degna di essere vissuta o se sia preferibile per il malato una morte immediata o sofferente, significa scuotere alla radice l’idea stessa del diritto, nel suo compito irrinunciabile di controllo delle azioni lesive di beni giuridici, comprese quelle dei medici e dei filosofi; quanto nei risultati, poiché dar vita ad uno “spazio libero dal diritto” per i malati che si trovano in certe situazioni,

5 La concezione che prospetta uno “spazio libero dal diritto” (la creazione di un Rechtsfreier Raum, come dicono i tedeschi) venne sviluppata proprio a proposito di questioni che pongono irrisolvibili questioni di coscienza, per le quali l’ordinamento giuridico non è in grado di stabilire in generale qual è la decisione giusta. L’incapacità del diritto a fornire una soluzione unica conduce ad un modello di giustificazione procedurale, in cui manca una diretta valutazione da parte del legislatore circa il bilanciamento degli interessi in gioco, ma vengono definiti gli ambiti oggettivi entro i quali l’individuo può esplicare la propria autonomia decisionale. Il modello di giustificazione procedurale è stato fatto proprio dalla recente esperienza pratica e legislativa olandese. V. più ampiamente Magro M.B., Eutanasia e diritto penale: pluralismo, tutela dell’autonomia individuale ed esigenze di controllo sociale, in Dignità nel morire, a cura di Manconi, Dameno, Milano, 2003, 73-74. 6 V. in questo senso F. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1009.

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significherebbe porre determinati gruppi di persone fuori dell’ordinamento giuridico, negando loro quella tutela che nei moderni ordinamenti spetta ad ogni uomo, in ragione di principi non religiosi, bensì laici. Si può aggiungere, ancora, che elevare la coscienza medica o filosofica a fonte del lecito e dell’illecito significa dimenticare l’inderogabile principio della riserva di legge in materia di diritti fondamentali della vita e della salute e l’esperienza storica degli arbitri e misfatti che vengono compiuti quando ci si allontana dalla fonte giuridica obiettiva; ciò non significa che debba sottrarsi al medico ogni scelta discrezionale, ma resta una sua discrezionalità tecnica, circoscritta, cioè, alle possibili scelte mediche fissate dalla migliore scienza ed esperienza del momento storico. Inoltre, fondamento dell’eutanasia, non può essere il diritto di libertà del soggetto sul proprio corpo, perché altrimenti coerenza vorrebbe che il diritto alla morte venisse affermato come diritto generale, prima ancora che dei malati terminali o dei sofferenti, di tutti gli uomini, compresi sani e giovani7.

§5. IL PRINCIPIO PERSONALISTICO DELL’UOMO. Per la concezione personalistica, invece, l’uomo è inteso come uomo-valore, uomo-persona, uomo-fine, e pertanto, come tale, non strumentalizzabile in funzione di alcun interesse extrapersonale, pubblico o privato. Viene affermato il primato dell’uomo come valore etico in sé, in quanto, questa concezione personalistica, costituisce il punto d’incontro di ogni umanesimo, metafisico e non metafisico, laico e religioso, che riconosce nell’uomo un’intrinseca dignità che ne fa un valore in sé8.

7 V. per queste ultime osservazioni F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, Padova , 2005, 72. 8 “Un umanesimo-comune punto d’incontro, che va riscoperto e valorizzato per rintracciare i comuni principi, anche legislativi, a tutela della persona umana contro certi incombenti

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Secondo questa visione “bene personale” e “bene comune” coincidono, poiché il rispetto e il sostegno della persona costituiscono il fine della società personalistica9. Corollario della concezione personalistica è il principio, opposto al precedente, dell’indisponibilità dell’essere umano, che comporta una distinzione, desumibile anche dagli art. 579 e 580 c.p.: da un lato la disponibilità del proprio corpo manu propria, giuridicamente lecita e tollerata10, dall’altro la disponibilità manu alius, cioè da parte di altri soggetti, pubblici o privati, che è giuridicamente illecita, sia senza il consenso, sia, in certi casi, anche col consenso del soggetto. Sulla base di tale distinzione viene giuridicamente consentito l’autosacrificio, cioè il sacrificio della propria vita per un fine non personale (es.: tentare di pericoli di dissolvimento dell’idea stessa di uomo”, v. Mantovani F., Aspetti giuridici dell’eutanasia, in RIDPP, 1988, 451. 9 “Il principio della persona umana come valore primario[…] implica il più ampio riconoscimento e tutela della persona umana nei suoi fondamentali diritti e libertà, primo fra tutti quello della vita, della integrità fisica e della libertà personale, e il conseguente divieto, per chiunque, di strumentalizzare la persona umana in funzione di finalità egoistiche o di utilità superiori o assorbenti”, v. Mantovani F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 35. 10 Nel nostro attuale ordinamento, il suicidio può ricondursi alla categoria del “giuridicamente tollerato”, in quanto costituisce sì un disvalore, ma tuttavia non viene punito; né nel caso di suicidio riuscito, per l’elementare principio della mors omnia solvit, ma neppure nel caso di suicidio mancato, sia per ragioni di opportunità, sia perché la vita non può essere imposta coattivamente, sia, infine, perché esso non importa una relatio ad alteros, in quanto gli effetti dell’atto suicidarlo si esauriscono nella sfera personale del suicida. In questo senso v. più dettagliatamente F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, cit., 117. Per la distinzione tra atti leciti, tollerati e illeciti v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, cit., 117 che afferma che gli atti tollerati sono espressione di un disvalore giuridico, non perseguibili, per ragioni di mera opportunità, solo se commessi di mano propria, mentre, dato il disvalore in essi insito, ne viene perseguita sia l’esecuzione per mano altrui, sia la partecipazione a essi, sia ogni attività volta a favorirli (un esempio di atto tollerato oltre al suicidio è la prostituzione). Contra Stortoni, Riflessioni in tema di eutanasia, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a cura di Canestrari, Cimbalo, Pappalardo, Torino, 2003, 89, per il quale deve ammettersi la liceità del suicidio; infatti, l’A. afferma che “[…] l’esistenza del diritto al suicidio debba essere affermata quale diritto inviolabile dell’uomo riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 2 della Carta Costituzionale e non da esso concesso”. Diversi ordinamenti del passato hanno conosciuto incriminazione del suicidio: ad esempio la Gran Bretagna è uno degli ultimi paesi d’Europa ad avere abolito l’incriminazione del suicidio tentato con il Suicide act del 1961.

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salvare altri dal fuoco, portare a termine una gravidanza rischiosa per la madre, uccidersi per non tradire sotto tortura i compagni, offrirsi per la fucilazione al posto di altri ostaggi)11. Mentre viene perseguito l’eterosacrificio, cioè il sacrificio operato per mano altrui (es.: sperimentazione su terzi). Non viene, neppure, imposto il dovere giuridico di curarsi, ma riconosciuto il cosiddetto “diritto di non curarsi”, di lasciarsi morire, indicando con ciò, non un diritto al suicidio, bensì il riconoscimento della incoercibilità del vivere. Infatti, negare questo diritto e affermare, al contrario, il dovere giuridico di curarsi rappresenterebbe un impossessamento ideologico e fisico dell’essere umano e porterebbe ad un sistema di imposizioni, di controlli, di divieti che possono coinvolgere fino a limiti estremi l’intero modo di vivere dei soggetti (alimentazione, abbigliamento, lavoro, fumo)12. Tale diritto è il correlato del principio del consenso, perché dire che il medico non può intervenire senza il consenso del paziente non è che riconoscere a questi il potere di rifiutare le cure13.

11 L’autosacrificio deve essere un atto libero (privo di vizi della volontà), spontaneo (non derivante da istigazione o sollecitazioni esterne, ma da motivazioni interne), consumato per mano propria (quindi né per mano né con l’aiuto di altri), ricorrendo, in caso contrario, i reati di cui agli artt. 579 e 580. Sono invece vietati quegli atti dispositivi manu propria ma di pregiudizio per gli altri interessi (es.: le procurate lesioni al fine di frodare l’assicurazione); v. più ampiamente Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, cit., 47. 12 Lo Stato non può tutelare come valore positivo la scelta del singolo di sopprimere se stesso; ma non può neanche privare il singolo della sua libertà di non curarsi o di lasciarsi morire. Abbiamo una situazione particolare, per cui il singolo gode di una libertà, ma al tempo stesso non può pretendere che la sua scelta di suicidarsi sia considerata come un valore. Il curarsi è giuridicamente non un dovere, semmai un onere al fine di beneficiare di certi benefici assistenziali, previdenziali, assicurativi. 13 Secondo il principio personalistico, infatti, vanno respinte le opposte pretese estremistiche: da un lato, quella soggettivistica del diritto di suicidarsi, la quale, “nel rifiuto dell’essenza dualistica (soggettiva-oggettiva, individuale-sociale, umana-divina) e nell’atto supremo dell’autoannientamento fisico, opera un vano tentativo di un’affermazione assoluta del soggettivo sull’oggettivo, dell’individuale sul sociale, dell’umano sul divino, che non ha davanti a sé nient’altro che il vuoto della morte”; dall’altro quella oggettivistica dell’obbligo di curarsi, di essere sano. V. Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di L. Stortoni, Trento, 1992, 43-44.

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La Costituzione italiana, elaborata nel 1947 dopo gli orrori di cui si erano rese responsabili le dottrine totalitarie dell’inizio del secolo, ha fatto una precisa scelta a favore della dottrina personalistica e della tutela dell’uomo. Infatti, tale principio della indisponibilità della persona umana manu alius ha come corollari quattro principi, che, a loro volta, costituiscono dei limiti alla liceità degli interventi sull’essere umano14: da un lato, ci sono i limiti oggettivi che comprendono il principio della salvaguardia della vita, integrità fisica e salute del soggetto (art. 32 Cost., art. 5 c.c.), il principio della salvaguardia della dignità della persona umana (artt. 3/1, 27/3, 32, 41 Cost.), il principio della eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani (art. 3 Cost.), dall’altro ci sono i limiti soggettivi che comprendono il principio del consenso informato del soggetto (art. 13 Cost., art. 1 l. n. 180/1978 e art. 33 l. n. 833/1978) e il diritto di trascurarsi, di non curarsi, di essere ammalati, di lasciarsi morire. Muovendo dal principio della salvaguardia della vita, integrità fisica e salute del soggetto, esso è desumibile dall’art. 32 Cost. e comunque dall’intero contesto della Costituzione, costituendo, tra l’altro, tali beni, il presupposto-base per l’esercizio di tutti gli altri diritti costituzionalmente riconosciuti. Questo principio impone l’imperativo che ogni intervento (medico, chirurgico, genetico) è lecito in quanto utile o non dannoso per gli anzidetti beni15. 14 La materia degli atti di disposizione del proprio corpo non si esaurisce nelle disposizioni del diritto penale poste a tutela della vita, ma coinvolge generali principi costituzionali e norme di diritto privato. Tuttavia la materia degli atti di disposizione del proprio corpo sembra essere dominato da una certa “relatività” dei principi e dei valori costituzionali, nel senso della mancanza di principi costituzionali chiari ed univoci, in assoluto validi per ogni ipotesi che riguarda gli atti di disposizione del proprio corpo; in questo senso v. Romboli, La libertà di disporre del proprio corpo, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, cit., 15; nello stesso senso Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 43. Per Tonini, Gli atti di disposizione del proprio corpo, in Nozioni di diritto penale, a cura di Flora-Tonini, Milano, 1997, 442 “le disposizioni vigenti non giungono a regolare tutti i possibili tipi di atti di disposizione del corpo umano; restano così alcuni “vuoti di tutela” che necessitano di un futuro intervento del legislatore”. 15 Art. 32 Cost. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non

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Per quanto riguarda il principio della salvaguardia della dignità umana questo si oppone a tutta una serie di atti dispositivi del corpo umano per mano altrui che, pur non comportando la perdita della vita o un danno consistente e irreparabile alla salute, tuttavia sono offensivi della dignità umana del soggetto. La dignità rappresenta un elemento che continua a sussistere anche quando il soggetto sia privo di coscienza, in quanto riguarda l’uomo nella sua totalità, poiché, appunto, uomo; il soggetto ha una dignità inviolabile in ogni momento della sua esistenza. Non è esplicitamente previsto nella Costituzione, ma è ricavabile da tutta una serie di disposizioni che in qualche modo riconoscono questo valore, sia nella carta costituzionale stessa, sia nella Convenzione di Oviedo (art. 1), sia nella Carta europea dei diritti (art. 1)16. Altro fondamentale principio è quello della uguaglianza giuridica e pari dignità delle persone; assunta la persona umana come valore in sé, nessuna discriminazione tra soggetti può essere consentita in ragione di particolari può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questo articolo conferma, dunque, che la scelta di sottoporsi alle cure altro non è che un diritto di libertà della persona. Da qui, l’impossibilità di praticare una cura contro la volontà espressa del paziente, anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte; tale disposizione da un lato prevede, come deroga, la possibilità di una imposizione legislativa di trattamenti sanitari obbligatori, ma dall’altro ribadisce, a contrario, il principio stesso del libero consenso. Art. 5 c.c. “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. Ciò importa pertanto la liceità di tutta una serie di atti dispositivi del corpo se compiuti entro limiti prefissati: come la sperimentazione terapeutica, in quanto sussista il tentativo di cura o migliore cura, l’attività terapeutica, se nel bilanciamento benefici-rischi i primi prevalgono sui secondi, la chirurgia estetica pura, scriminata nei limiti dell’art. 5 c.c., il prelievo da vivente a scopo di trapianto se ed in quanto non comporti una menomazione permanente, il prelievo da cadavere se ed in quanto il soggetto sia realmente morto, ecc.; v. più dettagliatamente Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 49 ss. 16 L’affermazione di tale principio comporta la illiceità di una serie di atti dispositivi concernenti ad esempio il trapianto di cervello, la conservazione in vita della testa isolata dal corpo, l’ibernazione, la gestazione extramaterna dell’embrione umano, cioè nell’utero di animali, nel corpo maschile, nell’incubatrice meccanica, la gestazione umana di embrione animale, la clonazione, la selezione genetica, la produzione di ibridi uomo-animale; v. Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umanano, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, cit., 50 ss; Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., 115 ss.

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qualifiche o condizioni personali o sociali17; tale principio è riconosciuto dalla Costituzione, dalla Convenzione di Oviedo (art. 1), dalla Carta europea (artt. 20, 21). E infine, ultimo corollario del principio della indisponibilità della persona umana, è il principio del consenso; esso è riconosciuto a livello costituzionale (artt. 13, 32/2 Cost.), della legge ordinaria (artt. 1 L. psichiatrica n. 480/78; 33 L. sanitaria n. 833/78; 3 L. sul prelievo di sangue n. 147/90; 5 L. sull’AIDS n. 135/90), sui documenti internazionali ( Convenzione di Oviedo, Carta europea dei diritti) e della Corte Costituzionale (nn. 242/2002) ed è espressione del più generale principio di libertà di decidere anche a proposito degli atti incidenti sul proprio corpo. Tutti questi limiti, oggettivi e soggettivi, sono ugualmente essenziali e fondamentali; infatti, senza il consenso, l’intervento sul corpo altrui è illecito, anche se operato nell’interesse dello stesso, con conseguenti responsabilità giuridiche del medico, anche penali (ricorrendone gli estremi, per i reati di violenza privata, sequestro di persona, procurata capacità di intendere e di volere)18. 17 Oltre che dall’art. 3 Cost., questo principio è desumibile dall’art. 2 Cost. per il quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, tra i quali rientrano primariamente i diritti alla vita e all’integrità fisica. Dato che questi diritti sono riconosciuti e garantiti come inviolabili nei confronti dell’uomo come tale, ogni discriminazione di riconoscimento e di tutela inciderebbe sulla loro inviolabilità e sarebbe, pertanto, costituzionalmente illegittima; in questo senso Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., 126. Tale principio si oppone agli atti dispositivi del corpo umano concernenti: le discriminazioni in materia di sperimentazioni e prelievi a scopo di trapianto a danno dei cosiddetti “soggetti esposti”, le discriminazioni nelle “scelte tragiche”, cioè nei confronti dei soggetti destinatari dei mezzi terapeutici quando la richiesta sia superiore alla disponibilità, le discriminazioni in materia di morte, con l’adozione, cioè, di concetti diversi di morte e di parametri di accertamento diversi a seconda della destinazione del cadavere (es. sepoltura, prelievo a scopo di trapianto), v. più dettagliatamente Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, cit., 54 ss. 18 “[…] Sicché contro l’utilitarismo collettivistico o maggioritario il principio del consenso sta a respingere il dovere di curarsi e a sancire il divieto degli interventi extraconsensuali”, v. Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, cit., 44.

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L’affermazione del principio del consenso sta ad esprimere una nuova ideologia, un significato etico-culturale, circa il rapporto medico-paziente, giacché ha determinato il passaggio dalla tradizionale e ippocratica concezione paternalistica dei doveri del medico, benefattore e onnidecidente, alla più moderna concezione personalistica dei diritti del paziente; il paziente si pone al centro del rapporto con il medico in quanto portatore e titolare di fondamentali diritti, primi fra tutti quello alla salute e all’autodeterminazione in ordine agli interventi sul proprio corpo, cosicché i poteri e i doveri di intervento sull’essere umano trovano il loro legittimo fondamento nel sottostante consenso del paziente19. Il principio del consenso agli interventi altrui sul proprio corpo è il naturale corollario del principio della libertà personale; la Costituzione italiana, garantendo all’art. 13 l’inviolabilità della libertà personale, nel suo duplice

19 Sulla rilevanza del consenso al trattamento medico-chirurgico, v. sentenza 13/90 della Corte d’Assise di I grado di Firenze nel processo a carico di Carlo Massimo in Il Foro Italiano, 1991, II, 236. Il caso era questo: nel corso di un intervento, un chirurgo di Firenze muta radicalmente il tipo di operazione, senza che vi sia alcuna nuova situazione di emergenza o di immediato pericolo. Il nuovo intervento è molto più invasivo dato che comporta l’amputazione perineoaddominale del retto e l’applicazione di un ano artificiale. Esso viene effettuato senza il consenso della paziente e anzi “contro la sua espressa volontà”. La donna aveva dato il consenso esclusivamente all’intervento di esportazione di polipi rettali, molto più lieve e non demolitivi. Dopo circa due mesi la paziente muore. I giudici della Corte d’Assise di Firenze, con una decisione che non ha precedenti, confermata poi fino in Cassazione, condannano il chirurgo per omicidio preterintenzionale. I giudici hanno considerato il paziente come un soggetto portatore di diritti fondamentali alla libertà personale e alla salute, arrivando ad affermare : “[…] nel diritto di ciascuno di disporre , lui e lui solo, della propria salute e integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che a ragione non può essere considerato il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto”; e in un altro passo si legge “doveva essere lasciato alla libera scelta della paziente se trascorrere i non moltissimi giorni di una vita ormai non lontana dalla fine in maniera fisicamente e psicologicamente dignitosa”. Questa decisione rappresenta un riconoscimento pieno del principio di autonomia e quindi di autodeterminazione nel rapporto medico-paziente. V. infra § 9.

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contenuto fisico e psichico, materiale e morale20, ha riconosciuto il duplice principio: della esclusività sul proprio essere fisico e psichico, col conseguente divieto di ogni attività di terzi sullo stesso contro o senza la volontà del soggetto, e della necessità del libero consenso del soggetto ad ogni attività che i terzi intendono effettuare sull’essere fisico e psichico del soggetto stesso. Inoltre, il principio del consenso esprime, anche, un significato giuridico e pratico-operativo, poiché sta ad indicare che il fondamento primario dei poteri-doveri del medico risiede nel consenso del soggetto; ma, nonostante il consenso, l’intervento resta comunque illecito quando viene a mancare il rispetto degli altri limiti oggettivi21. Il solo consenso, dunque, non è sufficiente, perché, oltre certi limiti, il valore della persona umana deve essere tutelato anche contro gli atti di disposizione del soggetto stesso. Uno dei pericoli della nostra epoca è proprio quello della “strumentalizzazione” del consenso per legittimare gravi attentati alla inviolabilità, fisica e morale, della persona e alla sua dignità22. Quindi, da una parte, esaltare il momento del consenso può diventare un alibi per un’ampia libertà d’azione sul soggetto e per scaricare sul soggetto stesso tutta la responsabilità dell’attività medica. Ma, dall’altra parte, va detto che non basta far leva sulla serietà degli interventi volti a proteggere la salute

20 Infatti, è pacifico ormai in dottrina che con tale affermazione si è voluto vietare tanto la coercizione fisica, tanto quella che tende ad annientare il pensiero e la volontà. 21 “[…] Sicché contro l’utilitarismo individualistico-edonistico liberalizzatore, che tende ad attribuire al consenso una tendenzialmente illimitata efficacia scriminante, il principio personalistico sta ad indicare che ogni intervento resta illecito quando super i limiti oggettivi della salvaguardia della vita, integrità fisica, salute, dignità, eguaglianza, del soggetto”, v. Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, cit., 45. 22 L’Accademia svizzera delle scienze mediche, preso atto dell’esistenza di un tale pericolo, nel 1970, nel fissare le direttive per la ricerca scientifica sull’uomo, ha rilevato che “Il consenso liberamente reso e giuridicamente valido, fondato sulla previa informazione, non diminuisce la responsabilità civile o penale del ricercatore”; v. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., 79.

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individuale e la vita per svalutare l’importanza del consenso liberamente prestato o per prescindere da esso. Il consenso deve essere vissuto, sia dal medico che dal paziente, come un momento dialogico, un perdurante dialogo che non si esaurisce in un unico e fugace incontro consensuale. In definitiva, è alla luce dei principi personalistici della tutela della vita, del consenso e della dignità umana che va risolto il problema giuridico dell’eutanasia.

§6. L’EUTANASIA COLLETTIVISTICA E L’EUTANASIA INDIVIDUALISTICA. Attorno al significato etimologico di eutanasia si sono venuti a raggruppare fenomeni diversi od opposti per finalità obiettive e motivi soggettivi riconducibili alla summa divisio tra eutanasia collettivistica e eutanasia individualistica. L’eutanasia collettivistica, che trova la propria legittimazione sulla base del principio utilitaristico-collettivistico, è quella che viene posta in essere per un fine di utilità pubblico-collettiva, non consensualmente e su larga scala. Essa comprende, innanzitutto, l’eutanasia eugenica, consistente nella soppressione indolore degli individui deformi o tarati, fisicamente o psicologicamente, per migliorare la razza23. 23 Una variante dell’eutanasia eugenica è quella che D’Agostino chiama “eutanasia precoce”, cioè la soppressione di neonati gravemente deformi. A proposito è da ritenere l’illiceità di tale forma eutanasica; tuttavia, in molti casi i neonati deformi vengono mantenuti in vita solo grazie a particolari forme di accanimento terapeutico a volte di carattere strettamente sperimentale. In tali casi l’eutanasia passiva nei loro confronti potrebbe essere lecita. V. D’Agostino F., Diritto e eutanasia, in Bioetica, 1999, 102. Favorevoli all’eutanasia neonatale, che può essere definita anche “infanticidio selettivo”, sembrano essere alcuni medici: soprattutto più per ragioni di ordine professionale che etico. Infatti, per molti è inutile e dannoso curare e permettere la sopravvivenza di neonati affetti da gravi patologie (come la spina bifida) che difficilmente e raramente possono raggiungere l’età adulta. Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere. Diritto di morire, Padova, 1982., 66, rileva come l’eutanasia passiva neonatale sia relativamente diffusa in certi reparti pediatrici, tanto che ne è, appunto,

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L’esperienza del secolo XX ha segnato, proprio sotto questo nome, una delle pagine più tragiche della storia dell’umanità; è il caso della realizzazione da parte del governo nazista di un programma eutanasico (Euthanasieprogramm) che tra il 1939 e il 1941 condusse alla eliminazione, nelle camere a gas, di oltre 70.000 infermi di mente (tra cui 5000 bambini) su una popolazione di poco più di 70 milioni24; ma fra questi morti solo pochissimi erano persone malate che potremmo definire “spente”. Una sottospecie della eutanasia eugenica può essere considerata l’eutanasia economica, consistente nella eliminazione indolore dei malati incurabili, dei vecchi, degli invalidi per alleggerire la società dal peso dei soggetti economicamente inutili (le c.d. “bocche inutili da sfamare”)25. auspicata la legalizzazione. Contra Fletcher, cit. da Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere, diritto di morire, cit., 65, il quale, pur essendo favorevole all’aborto selettivo e all’eutanasia, ritiene che l’eutanasia neonatale debba essere disapprovata in quanto “il neonato è già capace di vita autonoma, la sua accettazione da parte dei genitori è già avvenuta, e infine perché esistono o esisteranno possibilità terapeutiche”. 24 Nessuna iniziativa di legge era mai stata presa in questo senso; persino il progetto nazista di codice penale del 1936 assunse in materia eutanasica una posizione nettamente negativa. Pertanto il programma hitleriano sulla eliminazione dei malati mentali rappresenta un vero e proprio novum nella storia del diritto tedesco. Un precedente non trascurabile è costituito dalla dichiarazione del ministro della giustizia di allora, Gunter, all’entrata in vigore del primo testo nazionale sulla legislazione eugenetica nel 1933, circa la possibilità di un’iniziativa dello Stato di eliminare, attraverso organi ufficiali, i malati mentali inguaribili. Ma, questo progetto non fu poi accompagnato da alcuna iniziativa legislativa. A dare inizio al processo di eutanasia (denominata, poi, Operazione T4) fu un ordine scritto e segreto di Adolf Hitler retro-datato al 1° settembre 1939. La procedura può essere riassunta in questi passaggi fondamentali: a tutti i responsabili di ospedali psichiatrici venivano inviati questionari miranti a censire la capacità lavorativa dei soggetti inabili; sulla base dell’analisi di tali questionari e senza visitare il malato una commissione di esperti decideva quali dovessero essere soppressi. Tali persone venivano poi prelevate dagli ospedali e trasportate con pullman dai finestrini oscurati nei centri di eliminazione, scelti in genere lontano dai luoghi di cura per depistare i parenti delle vittime, dove erano predisposte delle camere a gas mascherate da docce e si procedeva all’uccisione. Ai perenti veniva, poi, inviata una lettera standard che annunciava la morte per una causa qualsiasi. Si avvertiva che per ragioni sanitarie il cadavere era stato cremato. Tutte queste operazioni dovevano svolgersi nel più assoluto segreto. Nelle camere a gas dei centri di eutanasia sono state uccise molte persone in grado di lavorare e pienamente consapevoli della propria vita, accanto ad altre con disturbi mentali più o meno gravi. V. Porzio, Eutanasia, in Enc.dir., XVI, 1967, 110 e Ricciardi von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Firenze, 2000. 25 Tra i sostenitori dell’eutanasia si sono schierate anche persone d’alto valore intellettuale, come il Binding (seguito, poi, dalla tragica esperienza nazista), il quale brutalmente afferma

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Ancora, nell’ambito dell’eutanasia collettivistica si hanno: l’eutanasia criminale, consistente nell’indolore eliminazione dei soggetti socialmente pericolosi (es.: pena di morte per i delinquenti); l’eutanasia sperimentale, che consiste nel sacrificio della vita di alcuni soggetti per effettuare sperimentazioni per il progresso medico e scientifico; l’eutanasia profilattica, consistente nella soppressione indolore dei soggetti affetti da malattie epidemiche, l’eutanasia solidaristica, consistente nel sacrificio di soggetti favore della vita o salute di altri (es.: per prelevare organi a scopo di trapianto). L’eutanasia collettivistica non è un qualcosa di remoto e appartenente alla storia del nostro recente passato, ma fa parte anche di attuali mentalità utilitaristiche disposte ad ammettere sia l’eutanasia solidaristica, anticipando concettualmente il momento della morte alla mera decorticazione26 o subordinando l’accertamento della morte a parametri privi di certezza scientifica, al fine di favorire i trapianti da cadavere; sia l’eutanasia economica, al fine di liberare la comunità e i parenti dai gravosi oneri umani ed economici dei malati che, pur in condizioni disumane, combattono con la morte27. L’eutanasia individualistica (o pietosa), è l’uccisione indolore che “viene posta in essere per un sentimento di pietà nei confronti del particolare stato in cui versa la vittima”28. che in caso di errore nella pratica eutanasica il tutto si ridurrebbe ad “un uomo di meno”, la vita del quale sarebbe stata, comunque, senza valore qualora fosse sopravvissuto alla sua malattia. 26 La morte corticale (che è propria dei soggetti in stato vegetativo persistente) è quella limitata alle regioni cerebrali superiori che presiedono alla vita intellettiva e sensitiva, quindi di relazione, mentre rimangono spontaneamente le funzioni vegetative cardiocircolatorie, dipendenti dalle strutture del tronco encefalico ancora integre; v. più dettagliatamente Mantovani, Diritto penale, parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 36. 27 Ciò trova conferma nella proposta di legge n. 2405/1984, fondata su una fictio iuris di consenso e nella proposta di legge francese del 1988 relativa all’eutanasia attiva dei nati handicappati, dato il loro costo sociale e l’indegnità della loro vita; proposta sulla quale hanno decisamente reagito i genitori i figli handicappati. 28 La definizione è di Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, 37. Per Giusti G., L’eutanasia. Diritto di vivere. Diritto di morire, Padova, 1982, 13, la parola eutanasia, nel linguaggio comune, indica “la morte data a chi sia affetto da malattia inguaribile e dolorosa

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È il motivo di pietà che vale a distinguere questa forma di eutanasia da quella collettivistica. Se, infatti, le istanze eutanasiche collettivistiche si sono sempre caratterizzate per la loro ispirazione utilitaristica collettivo-statuale, per cui l’eutanasia ha un movente eteronomo al soggetto, dettato da una utilità pubblica alla quale il singolo è sacrificato, l’eutanasia pietosa si caratterizza per un movente altruistico rivolto al paziente; l’eutanasia come “delitto d’amore”. L’eutanasia pietosa ha carattere individuale e può essere consensuale e non consensuale a seconda che il soggetto abbia fatto o meno richiesta in merito. Essa comprende: a) l’eutanasia pietosa passiva (o paraeutanasia o per omissione o letting die della cultura anglosassone) con ciò intendendosi l’omissione o l’interruzione del trattamento terapeutico. Tratto distintivo rispetto alla ipotesi successiva è la natura omissiva del comportamento, che rende possibile qualificare come causa della morte direttamente la malattia, anziché la condotta umana29;

b) l’eutanasia pietosa attiva (o per commissione o mercy killing), consistente nel cagionare la morte del paziente mediante un comportamento attivo. Presupposti fattuali sono: la condizione dell’infermo – uno stato di sofferenza insopportabile, di solito incidente sulla fase terminale di una malattia mortale – e la motivazione della condotta, la pietà nei confronti della vittima. Sulla base di tale distinzione30, tra l’altro la più comune in dottrina, l’eutanasia può essere definita sia come un’uccisione indolore, sia come “la mancata prevenzione della morte da cause naturali nel corso di malattie terminali”31 . e prossimo alla fine, per abbreviarne le sofferenze: il movente sarebbe dunque ispirato al sentimento altruistico di compassione e di umana solidarietà, e ne resterebbero escluse tutte le altre forme, i cui moventi sono di altro genere”. 29 Giusti, L’eutanasia, diritto di vivere, diritto di morire, cit., 19, afferma che la prassi di dimettere i pazienti senza più speranza dall’ospedale per consentire loro di morire nella propria casa o per non peggiorare le statistiche dell’ospedale, rappresenterebbe un’applicazione concreta dell’eutanasia passiva, consensuale o non consensuale.

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È sul terreno della causalità che si coglie la caratterizzazione tra eutanasia attiva e eutanasia passiva; la differenziazione tra atti e omissioni evidenzia una diversa qualificazione morale e giuridica della condotta del medico, relativa al diverso apporto causale nella produzione dell’evento. Infatti, nella forma passiva l’omissione del medico si inserisce in un processo causale già messosi in atto autonomamente e che conduce alla morte, quindi la morte è la conseguenza di una malattia di cui il medico non ha impedito l’evolversi, mentre nella forma attiva la condotta medica è il fattore causale unico, o concorrente con altri, dell’evento mortale, e quindi la morte è conseguenza della sua azione32.

30 Su tale distinzione cfr. le Direttive concernenti l’eutanasia, approvate dall’Accademia svizzera delle Scienze Mediche il 5 novembre 1976, in RIML, 1981, 72. Inoltre, a questa ricostruzione delle ipotesi eutanasiche in relazione alla condotta posta in essere dal medico, corrisponde specularmene un’altra distinzione che prende in considerazione i possibili contenuti della volontà del paziente: al diritto di essere lasciati morire corrisponde una condotta omissiva, al diritto a morire corrisponde, in linea di massima, una condotta commissiva del medico. Critico nei confronti della tradizionale distinzione tra eutanasia attiva e passiva, Rachels, Uccidere. Lasciar morire e il valore della vita, in Bioetica, 1993, 271, che, oltre a negare questa distinzione, afferma che, se valutata sotto il profilo delle conseguenze per il paziente, è più umana l’eutanasia cagionata attivamente che quella causata per mezzo di una condotta omissiva. 31 In questo senso v. Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere. Diritto di morire, cit., 15 ss. 32 In particolare, nell’ambito dell’eutanasia attiva si dovrebbero ricondurre le situazioni in cui la morte del paziente è da ricollegare causalmente, in concorso con un processo patologico in atto, ad una condotta materiale del medico che si attiva a favore del suo paziente. Tali possibilità di intervento non escludono, in via di principio, una collaborazione da parte dello stesso paziente che, ad esempio, assume da sé il farmaco che potrà cagionare la morte (c.d. suicidio assistito). Nell’ambito dell’eutanasia passiva, invece, si riconduce la condotta puramente omissiva del medico, cioè non impeditiva di una catena causale in atto che autonomamente cagiona la morte, come ad esempio quando non venga intrapresa la cura di processi patologici insorgenti, permettendo che la malattia faccia il suo corso e porti alla morte, o qualora non siano attivate tutte le terapie di rianimazione e di sostentamento artificiale della vita. Invero, nell’ambito dell’eutanasia passiva si annoverano anche condotte che non sono omissive in senso naturalistico, ma vengono comunque assimilate ad esse: sono tali, ad esempio, l’azione commissiva del medico che interrompe una terapia, già intrapresa, di sostentamento artificiale della vita o che appare ormai sproporzionata ed assolutamente inadeguata a contribuire ad un miglioramento della salute. In tali casi si sarebbe indotti a ritenere che l’interruzione di un processo causale di salvataggio sia la condicio sine qua non della morte, se non si ricorresse all’espediente di assimilare l’azione all’omissione e di ricorrere ai criteri che limitano il dovere giuridico del medico di impedire l’evento, in modo da

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Il progresso tecnologico in ambito medico, infatti, specie quello relativo ai trattamenti di fine di vita, ha reso sempre più difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra l’agire e l’omettere: nella nostra attuale realtà, il medico ha sempre la possibilità di effettuare una prestazione sanitaria e anche il semplice astenersi dal fare richiede comunque un fare qualcosa (distaccare dai respiratori artificiali, togliere il sondino nasogastrico e l’alimentazione e idratazioni artificiali). A questa classificazione possiamo affiancare quella che prende in considerazione, accanto all’eutanasia attiva e passiva, l’eutanasia pura (o indiretta) che consiste nella morte naturale resa, tuttavia, indolore per effetto di sostanze antidolorifiche, che attenuano le sofferenze del morente senza, però, provocare o anticipare in modo rilevante la morte33. Altra parte della dottrina34, invece, distingue in due grandi categorie varie ipotesi eutanasiche: l’eutanasia impropria, comprendente sei ipotesi e l’eutanasia propria, comprendente una sola ipotesi. Prima ipotesi di eutanasia impropria è quella che deriva dal rifiuto, libero e consapevole, da parte del paziente di sottoporsi alle cure. Seconda ipotesi, affine alla precedente sotto alcuni profili ma radicalmente diversa sotto un altro profilo che è quello decisivo, è quella dell’eutanasia passiva propriamente detta, quella in cui si lascia morire un malato sospendendogli le cure necessarie alla sopravvivenza. Solitamente essa viene praticata nei confronti dei malati terminali che non sono in grado di pronunciarsi sul proseguimento della terapia. Come terza ipotesi di eutanasia impropria si ha quella particolare pratica consistente nella sospensione dell’accanimento terapeutico; quarta ipotesi è escludere la responsabilità penale del medico. V. Magro, Eutanasia e diritto penale, cit., 135. V. infra §.9. 33 V. Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, in Teoria del diritto e dello Stato, 2002, 2. 34 In particolare v. D’Agostino, Diritto e eutanasia, cit., 98 ss.

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quella dell’eutanasia lenitiva (o eutanasia indiretta o pura), causata dall’uso di farmaci somministrata per alleviare i dolori intollerabili dei malati terminali; quinta ipotesi che viene fatta rientrare, da questa dottrina, nell’ambito dell’eutanasia impropria è l’eutanasia eugenica. Come ultima forma di eutanasia impropria viene considerata l’eutanasia attiva su paziente non consenziente. L’unica ipotesi di eutanasia propria è costituita dall’eutanasia attiva su soggetto consenziente, sulla quale sola si incentra il vero dibattito attuale sulla eventuale legalizzazione della “buona morte”35.

35 “È come se, ponendo sul tappeto il tema dell’eutanasia “propria”, la società in cui viviamo si sia prefissa di rimuovere, dopo quello della sessualità, l’ultimo grande tabù collettivo, il tabù che grava su quella dimensione privatissima che è la morte. Nell’eutanasia propria entra in gioco la volontà di riappropriarsi della morte, prevedendola, gestendola razionalmente, organizzandola amministrativamente”, v. D’Agostino, Diritto e eutanasia, in Bioetica, 1999, 105. Per l’A., infatti, si può parlare di eutanasia “se e solo se un medico pone termine alla vita di un paziente terminale dietro sua richiesta”, v. D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 32.

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CAPITOLO III

LE FORME EUTANASICHE E IL DIRITTO PENALE Sommario: 7. L’eutanasia pura: un “aiuto nel morire”. – 8. L’eutanasia attiva: un “aiuto a morire”. – 9. L’eutanasia passiva consensuale. – 10. L’eutanasia passiva non consensuale. – 11. Il trattamento penale dell’eutanasia de iure condito.

§7. L’EUTANASIA PURA: UN “AIUTO NEL MORIRE”. Con il termine “eutanasia pura” o “eutanasia indiretta” si vuole indicare la sottoposizione del paziente a terapie destinate a lenire la sofferenza nei confronti di moribondi o di soggetti malati. La dottrina ritiene, in questi casi, che si tratti di azioni del tutto lecite e, anzi, considera questi casi come facenti parte dell’ambito della pratica medica. Pertanto, trattandosi di trattamenti aventi esclusiva finalità curativa, non presentano problemi in quanto, però, ci si limiti ad alleviare la sofferenza senza provocare la morte o abbreviare la vita. Più delicata è la problematica riguardante le terapie operate con l’uso di sostanze analgesiche con proprietà abbrevianti la vita (ed è in questi casi che più propriamente si parla di “eutanasia indiretta”). È questa una zona limite tra il lecito e l’illecito dai confini sfumati: una linea di demarcazione viene tracciata, dalla dottrina tedesca, contrapponendo l’attività di chi aiuta “nel” morire (Hilfe bei Sterben), ed è il caso in cui il medico pone in essere un’attività finalizzata primariamente ad alleviare le sofferenze del malato, nonostante sia a conoscenza anche del suo possibile effetto letale, a quella di chi aiuta “a” morire (Hilfe zum Sterben)1, quando l’azione del medico è tesa primariamente all’uccisione del paziente, anche se sostenuta da

1 Questa distinzione è condivisa da Porzio, Eutanasia, in Enciclopedia del diritto, XVI, 1967, 105; da Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 425; da D’Agostino, L’eutanasia come problema giuridico, in Arch. giur., 1987, 37.

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motivazioni pietistiche e altruistiche; questa ultima attività è chiaramente illecita e va fatta confluire nell’ipotesi dell’eutanasia attiva. Sulla base di tale distinzione ne consegue che l’uso di tutti gli analgesici è lecito tutte le volte in cui è diretto a rendere tollerabile e indolore la vita dell’uomo, mentre è illecito quando è direttamente diretto a farla cessare2. Si parla, a proposito dell’eutanasia indiretta, di “terapia del dolore” o “medicina palliativa” con ciò, appunto, intendendosi quegli interventi che, non potendo avere come fine la guarigione del paziente, cercano di aiutarlo a sopportare i dolori connessi alla sua patologia3. Tale approccio palliativo alla malattia si è sviluppato a partire dagli anni ’70 in Gran Bretagna e trova, oggi, nel nostro paese un riconoscimento tramite la l. 8 febbraio 2001, n. 12 “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore4. La nascita della medicina palliativa si deve all’Hospice Movement; la parola hospice è intraducibile in italiano e indica un reparto o addirittura una casa

2 Porzio, Eutanasia, in Enciclopedia del diritto, cit., 105, richiama la ricostruzione effettuata da Binding che affermava trattarsi in questi casi “di una pura sostituzione delle cause di morte dolorose – radicate nella malattia – con altre cause indolori” e la sua conclusione per cui “non dovrebbe mai parlarsi di omicidio ma di trattamento curativo, dal momento che lo spazio di tempo tra il trapasso quale conseguenza naturale della malattia, e la morte quale effetto dei mezzi sopravvenuti, non potrebbe essere preso in considerazione se non da parte di un limitato pedante”. 3Per Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, 520 “non è anticipando il momento in cui viene meno la tutela della vita che si rispetta la dignità umana, ma facendo tutto il possibile affinché la vita residua che si è in grado di assicurare possa essere vissuta in condizioni relativamente valide”. 4 Questa legge contiene specifiche disposizioni circa la prescrizione di oppioidi in relazione ai ricettari, all’approvvigionamento, al trasporto, alla conservazione di detti prodotti, in vista, soprattutto, anche dell’assistenza domiciliare di pazienti affetti da dolori insopportabili. Le statistiche circa il ricorso alla morfina nel nostro paese, nel trattamento dei terminali sofferenti, attestano la diffusione di radicati e ingiustificati preconcetti, presso la classe medica, in ordine all’uso di tale prodotto. Mentre all’estero viene riconosciuta piena dignità tecnico-scientifica alle cure palliative, in Italia il perseguimento di tale obiettivo ha incontrato sinora forti ostacoli; e ciò perché si è tralasciato di effettuare degli investimenti per l’allestimento di ospedali specializzati, sia perché, fino alla legge del 2001, si aveva un eccesso di intralci burocratici alla disciplina dell’uso degli oppiacei. V. più dettagliatamente Cendon, I malati terminali e i loro diritti, Milano, 2003, 78 ss.

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dove i malati terminali trovano le cure palliative e un ambiente completamente diverso da un ospedale, dove amici e parenti possono restare il tempo che vogliono, non ci sono orari di visita, costituisce, cioè, una struttura pensata per dare un ambiente premuroso in risposta ai bisogni fisici ed emotivi del malato terminale. L’assistenza in hospice è incentrata sul paziente e non sulla malattia, si prefigge di dare sollievo al dolore e conforto alla sofferenza, anziché curare la patologia e di far vivere bene l’ultimo momento della vita di un uomo; infatti, se il principale diritto dei morenti è il sollievo dalla sofferenza, è da tener presente anche che chi sta morendo ha diritto a assistenza e cura nell’ambiente desiderato5. La nascita degli hospices è stata il risultato di una ricerca finalizzata a scoprire un modo di morire alternativo e diverso dalla morte in ambienti “asettici” e lontano dalla famiglia come gli ospedali6. Tornando all’analisi delle problematiche connesse all’eutanasia indiretta, quando, quindi, la vita del paziente viene abbreviata, non intenzionalmente, da parte del medico tramite la somministrazione di forti analgesici, innanzitutto rileviamo che essa presuppone concettualmente la sua differenza con la forma diretta di eutanasia, identica sotto il profilo oggettivo, ma in cui l’acceleramento della morte è l’obiettivo principale perseguito.

5 In Gran Bretagna, portabandiera del movimento degli hospice, non vengono curati solo gli aspetti tecnici della malattia, ma anche gli aspetti emotivi, sociali, spirituali e psicologici del paziente. Si fa molto anche per i familiari; non vengono aiutati solo durante la malattia del loro caro, ma vengono sostenuti anche dopo la sua morte. Invece, in Italia intorno al morente c’è un grande vuoto organizzativo e assistenziale e solo da poco si sono cominciati ad aprire degli hospice. Il primo hospice, realizzato nel 1991, opera nell’area milanese; secondo gli ultimi dati della società italiana di cure palliative al 31 dicembre 2000 esistevano in Italia 43 hospice. Recente l’apertura presso l’ospedale Sacco di Milano del primo hospice italiano per l’assistenza ai malati di AIDS in fase terminale. 6 Il concetto per comprendere l’operato degli hospice è quello di total pain, espressione che indica non solo la sofferenza fisica, ma anche quella psicologica e spirituale. Il paziente, quindi, oltre a ricevere le usuali somministrazioni di antidolorifici, vive in un contesto in cui ogni membro dell’hospice (personale medico-sanitario, volontari, religiosi, assistenti sociali) svolge una funzione terapeutica e psico-terapeutica.

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La morte, nell’eutanasia diretta, non è un effetto secondario e collaterale della terapia del dolore, bensì è la finalità dell’agente per consentire un trapasso indolore. Nell’eutanasia indiretta lo scopo è, invece, quello di rimuovere la sofferenza, non di uccidere, anche se l’eliminazione del dolore può comportare, quale effetto secondario, ancorché previsto, la morte. Pertanto, ciò che differenzia le due forme è l’intenzione con la quale l’atto è compiuto: calmare la sofferenza, a rischio di indurre la morte; indurre la morte, per porre fine alla sofferenza7. Proprio per questo, questa forma pseudo-eutanasica, in cui la palliazione produce il duplice effetto di alleviare i dolori del paziente e in qualche modo di accelerarne il decesso, pur qualificata da molti come eutanasica, in realtà non lo sarebbe: l’effetto secondario, non intenzionale, del decesso è un effetto, eticamente lecito, di un atto altamente etico, quale quello di operare per il bene del malato8; è un effetto secondario, probabile o possibile, ma comunque non voluto. È stata applicata, in proposito, la cosiddetta “teoria del doppio effetto”; si tratta di un principio formulato in modo compiuto verso il XVII-XVIII secolo in relazione a problemi non direttamente connessi con la medicina. Il duplice effetto sta ad indicare che quando un’azione, definibile buona in relazione al suo oggetto, può raggiungere un effetto buono solo con il rischio di 7 “Questa sottile distinzione che prende in considerazione la connotazione psicologica dell’agire del medico, evidenzia come, nel caso di somministrazioni di dosi più massicce di analgesici, anche se il medico prevede che la vita del paziente potrà essere abbreviata, l’accettazione del rischio che la terapia possa comportare quell’effetto non implica, anzi se ne differenzia, l’accettazione della morte (eutanasia attiva diretta), come mezzo deliberato per porre fine alle sofferenze”, v. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 167. Nello stesso senso D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 31, per il quale il medico che pratica la palliazione “vuole intervenire sul paziente per placarne i dolori e quindi non ha alcuna finalità letale”, mentre il medico che pratica l’eutanasia “vuole raggiungere nella maniera più rapida la sedazione totale, cioè la morte del paziente”. 8 In questo senso D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, cit., 31.

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provocare un evento negativo secondario ma inevitabile, l’atto è lecito e può essere realizzato. Tale teoria si fonda sulla distinzione tra ciò che una persona intende conseguire con una azione e ciò che produce come effetto collaterale di un’azione intenzionale; tende a scandagliare la situazione psicologica dell’agente9. Sull’eutanasia indiretta si sono espressi in senso favorevole esponenti del pensiero religioso10 e del pensiero laico: i casi riconducibili a questa forma eutanasica vanno considerati penalmente irrilevanti tout court in quanto la condotta di somministrazione dei farmaci antidolorifici costituisce un dovere giuridico del sanitario, sussistendo l’obbligo per il medico di alleviare dolori insopportabili del paziente. Infatti, scopo della medicina non è solo quello di guarire o di procrastinare la morte, ma anche quello di alleviare le sofferenze del malato11; quindi la terapia del dolore è lecita sic et sempliciter in quanto conforme a tale dovere. 9 Tradizionalmente, v. Cendon, I malati terminali e i loro diritti, cit., 68, la teoria del doppio effetto si ritiene soddisfatta nel caso in cui ricorrano cinque requisiti. 1) l’atto è raccomandabile; 2) ci si propone solo il risultato positivo di sollevare dalle sofferenze, e non quello negativo di uccidere; 3) la finalità benefica non viene perseguita per mezzo di quella cattiva (non si riduce la sofferenza accelerando la morte del paziente); 4) mancano alternative per il raggiungimento del sollievo dalla sofferenza; 5) esiste una ragione proporzionalmente valida per correre il rischio del verificarsi dell’effetto negativo. Essa viene applicata anche nel caso del c.d. “aborto terapeutico”, laddove la morte del feto, non voluta anche se prevedibile, è dovuta a interventi o terapie effettuate per salvare la vita della gestante. 10 Lo stesso Pio XII riconosceva lecita la medicina palliativa; v. più ampiamente §2. 11 L’art. 37 del codice di deontologia medica (1998) afferma che “in caso di malattia a prognosi sicuramente infausta o pervenuta alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita”. La Raccomandazione relativa ai diritti dei malati e dei morenti, approvata dal Consiglio d’Europa, gennaio 1976 afferma che “[…] la professione medica è al servizio dell’uomo, per la protezione della salute, per il trattamento delle malattie e delle ferite, per l’alleviamento delle sofferenze, nel rispetto della vita umana e della persona umana e convinta che il prolungamento della vita non debba essere in sé lo scopo esclusivo della pratica medica, che deve mirare altrettanto ad alleviare le sofferenze. Considerando che il medico deve sforzarsi di placare le sofferenze e che non ha diritto, neppure nei casi che sembrano disperati, di affrettare intenzionalmente il processo naturale della morte […]”. E infine, la Guida europea di etica e comportamento professionale dei medici, approvata dalla Conferenza Internazionale degli Ordini dei Medici e degli organismi di attribuzioni similari della CEE, dicembre 1982, afferma che “[…] così il

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Manca il dolo tipico del delitto d’omicidio, poiché il medico, nonostante agisca con coscienza e volontà nella somministrazione degli analgesici, non vuole l’evento mortale, causalmente riconducibile all’azione del farmaco e quindi conseguenza della sua condotta, ma, nonostante ciò, tale evento rappresenta un rischio che il medico conosce e prende in considerazione. Quindi, se accompagnata dal consenso del paziente, non acquista alcuna rilevanza penale la condotta del medico, configurandosi, appunto, come un’attività doverosa, rientrando tra i suoi compiti e doveri anche quello di lenire le sofferenze, essendo esclusiva la finalità curativa di tale trattamento medico12. Parte della dottrina, tuttavia, ritiene che, considerando lecita la somministrazione di analgesici che importano un’anticipazione della morte, non si tiene conto che la nozione di dolo non si limita al dolo intenzionale (che nell’ipotesi dell’eutanasia indiretta deve essere escluso), ma si estende anche al dolo eventuale, per cui la volontà non si dirige direttamente verso l’evento mortale, ma tuttavia l’agente lo accetta come conseguenza accessoria, eventuale, della propria condotta, per cui andrebbero imputati al medico anche i risultati pur non voluti ma comunque previsti dallo stesso13; il medico informato circa gli effetti della terapia e che comunque la somministra, accettando il rischio di morte, agisce con dolo eventuale.

medico non può procedere all’eutanasia. Deve sforzarsi di placare le sofferenze del suo malato, ma non ha il diritto di provocarne deliberatamente la morte […]”. 12 Per Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, in Teoria dir. e Stato, 2002, 3, 374, soddisfatti i requisiti di proporzione tra mezzo e gravità del dolore e malattia e necessità dei palliativi, non rileva il livello di probabilità dell’effetto secondario letale, la terapia è lecita anche se la morte è sicura; nessun valore assume l’intenzione di alleviare il dolore e non di procurare la morte, dato che si tratta di attività lecita già sul piano oggettivo. 13 Infatti contra la liceità dell’eutanasia indiretta Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1015, per il quale “il comportamento del medico, volto a lenire il dolore, è un comportamento che certamente sfocia in una forma di effettiva eutanasia attiva, nel c.d. colpo di grazia al malato, essendo fuori discussione sia il rapporto di causalità che il dolo (eventuale)”.

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Sulla base di tali rilievi, dunque, è stata spostata l’attenzione su indici oggettivi sui quali fondare un accertamento della direzione della volontà, restringendo, così, la portata dell’elemento psicologico. Secondo questo orientamento della dottrina, infatti, sorge il problema circa la soluzione della questione relativa al conflitto tra dovere di lenire le sofferenze e dovere di non uccidere con un comportamento attivo. Un criterio di soluzione sembra potersi ravvisare facendo ricorso alla “teoria del rischio consentito”, per cui se il rischio si trasforma in un elevato grado di probabilità o nella certezza dell’accelerazione della morte, qualora da parte del medico vi sia tale consapevolezza, allora, la morte, qualora si verifichi, dovrebbe essere imputata a titolo di dolo14. Mentre, se il rischio di morte dovesse mantenersi al di sotto della soglia tollerabile, allora non ci sarebbe illiceità, dal momento che il medico agirebbe sulla base di un rischio considerato lecito dall’ordinamento. Per concludere, in materia di eutanasia indiretta, un cenno meritano altre due questioni: quella relativa al consenso e quella riguardante il caso in cui dalla terapia antidolorifica consegua l’annebbiamento delle facoltà mentali del malato. Quanto alla prima questione, secondo la dottrina maggioritaria, questa legittimazione della terapia del dolore fa sì che essa possa o debba essere praticata dal medico non solo in caso di consenso informato del paziente, dovendo questi essere messo a conoscenza dei rischi della terapia antidolorifica (annebbiamento delle facoltà mentali, accorciamento della vita), ma anche in assenza di suo esplicito dissenso e quindi anche quando il malato non è in 14 A questo proposito Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, cit., 1015, afferma l’opportunità, per esonerare il medico che agisce col consenso del paziente da conseguenze sanzionatorie, una norma specifica di esclusione della colpevolezza, pur mantenendo ferma l’antigiuridicità del fatto, “legata per l’appunto all’irrisolvibile conflitto tra il dovere di alleviare le più gravi sofferenze ed il dovere di non abbreviare la vita”.

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grado di manifestare la sua volontà; e ciò semplicemente per il fatto che la condotta, proprio perché conforme ai doveri giuridici propri della professione medica, va considerata normale15. Anche riguardo alla seconda questione la dottrina è divisa: una parte ritiene che la condotta medica sia lecita anche nel caso in cui la terapia del dolore produca l’annebbiamento delle facoltà mentali fino alla perdita della coscienza16; mentre un’altra afferma che è inaccettabile privare deliberatamente e definitivamente il malato delle facoltà mentali; secondo questo orientamento, togliere per sempre la coscienza è qualcosa che si avvicina all’eutanasia, mentre potrebbero ammettersi, in casi gravi, parentesi di incoscienza. La terapia del dolore dovrebbe, infatti, mirare a far sì che la percezione della sofferenza non esaurisca del tutto la consapevolezza del morente, relegandolo altrimenti in una disperata solitudine17. Tuttavia, possiamo dire che questo problema può risolversi sulla base del consenso: infatti, se c’è il consenso la condotta medica è comunque lecita, mentre se tale consenso non c’è la condotta è illecita perché il malato viene privato della possibilità di vivere coscientemente l’esperienza della propria morte.

§8. L’EUTANASIA ATTIVA: UN AIUTO “A MORIRE”. Se le terapie ad esclusivo fine antidolorifico, ancorché anticipatrici della morte, sono considerate sia dall’ordinamento giuridico che dal sentimento religioso 15 V. Stortoni, Riflessioni in tema di eutanasia, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a cura di Canestrari, Cimbalo, Pappalardo, Torino, 2003, 92 e Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, cit. Secondo Cornacchia, op. cit., in caso di dissenso del paziente al trattamento antidolorifico, la somministrazione di farmaci palliativi che comportano l’esito mortale configura non omicidio doloso, bensì violenza privata o lesione personale (ad es. quando viene praticata un’iniezione), fatta salva l’eventuale responsabilità – preterintenzionale (ex artt. 584 o 586 c.p.) – per l’evento morte. 16 Così Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, cit. 17 Così Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, cit.

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lecite, sono indubbiamente da considerarsi illeciti i trattamenti o comunque le azioni dirette ad estinguere la vita di un individuo. L’eutanasia attiva, cioè la morte provocata per mezzo di un comportamento attivo per eliminare le sofferenze di una persona colpita da un male incurabile ed insopportabile, è, dunque, quella forma di eutanasia che aiuta “a” morire.

A. L’eutanasia attiva non consensuale18, sia collettivistica, sia individualistico-pietosa, è illecita, poiché contrasta coi principi costituzionali della salvaguardia della vita, del consenso, della dignità umana. Tali principi sottendono il “diritto alla propria morte”, ovverosia il diritto di vivere e accettare l’ineluttabile momento, unico e irripetibile dell’esistenza umana, della morte19. Questa è la forma più grave di eutanasia e, come, tale, deve essere perseguita più severamente, anche se può avere, essa stessa, delle attenuanti psicologiche, umane e sociali. Gran parte degli episodi eutanasici, che si verificano nella realtà e di cui si occupa la stampa, sono riconducibili proprio a questa categoria e sono tali da riscuotere comprensione e solidarietà da parte dell’opinione pubblica giustificando, appunto, l’evento col motivo di pietà per le sofferenze della vittima. Ma è proprio questa forma di eutanasia che mostra una dimensione di violenza, di sopraffazione da parte di chi è più forte su chi è più debole, anche se filtrata dal movente della pietà20.

18 Giuridicamente è non consenziente sia colui che nega il suo consenso, sia colui che non può prestarlo perché impossibilitato fisicamente ( per esempio poiché privo di coscienza). V. D’Agostino, Diritto e eutanasia, in Bioetica, 1999, 19, per il quale non è possibile presumere il consenso all’eutanasia di un malato terminale, dato che la volontà presumibile è quella di essere curato, non di essere ucciso. 19 L’eutanasia attiva è plurioffensiva in quanto viola il rispetto del vivere il proprio morire e priva della esperienza del proprio dolore e della propria irripetibile morte. V. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, Padova, 2005, 72. 20 Per queste osservazioni v. D’Agostino, L’eutanasia come problema giuridico, in Arch. giur., 1987, 39 ss., secondo il quale, tra l’altro, è probabilmente per tali ragioni che solo pochi codici penali – in sostanza solo quello norvegese e polacco – prevedono la pietà come attenuante dell’omicidio.

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B. L’eutanasia attiva consensuale rappresenta, in un certo senso, la forma “tipica” di eutanasia21, quella che D’Agostino qualifica come forma eutanasica “propria” e che pone in rilievo come, tramite di essa, venga a mutare nell’attuale realtà contemporanea il momento del vivere la morte. Non può certamente dubitarsi circa la sua illiceità, poiché contrasta col principio della tutela della vita e supera i limiti, già visti, della disponibilità del proprio corpo per mano altrui attraverso il consenso22. Né può essere presa in considerazione la circostanza che di lì a pochi giorni il paziente sarebbe comunque deceduto a seguito del processo patologico ormai inguaribile in quanto, per il diritto penale, ogni singolo istante della vita umana, anche dei soggetti prossimi alla morte, ha un valore infinito; in caso contrario, cioè accettare che si possa sopprimere una vita seppur nella sua fase ultima e ridotta ad uno stato di sofferenza, significherebbe individuare una categoria di “destinati alla morte”, collocando alcune tipologie di persone al di fuori dell’ordinamento giuridico23. A favore della liceità della eutanasia attiva vengono invocati:

a) la pietà verso il malato incurabile e sofferente o incapace di una vita sociale integrale;

b) l’autodeterminazione circa la propria vita; c) il diritto di libertà sul proprio corpo; un vero e proprio diritto al suicidio

manu propria o al suicidio assistito (manu aliena), per l’asserita identità con

21 Contra Porzio, Eutanasia, in Enciclopedia del diritto, XVI, 1967, 109: secondo l’A., infatti, ciò che caratterizza l’eutanasia non sarebbe tanto il consenso del paziente moribondo, quanto piuttosto e soprattutto il motivo di pietà che anima e muove l’agente; per cui, è sempre eutanasia la morte procurata anche in mancanza di una richiesta espressa del paziente, purché a fondamento dell’azione ci sia, senza dubbio, il movente di pietà. 22 V. §.5. 23 In questo senso Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, in Quaderni della giustizia, 1986, II, 69.

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questo di quello, e desumibile dal fatto che la nostra Costituzione tutela la vita umana come diritto e non come dovere24. Coloro che sostengono la illiceità dell’eutanasia attiva, fondano il loro convincimento, oltre che nella violazione dei principi sopraindicati, su tre tipologie di considerazioni25. Innanzitutto, considerazioni di principio (morali e giuridici), rappresentate dalla irrinunciabilità del principio della intangibilità umana: è lo stesso divieto generale di uccidere che uscirebbe scosso dal riconoscimento della liceità dell’eutanasia. Infrangere il tabù del non uccidere porterebbe alla sovversione dell’ordinamento giuridico stesso con conseguenze terribili per la comunità degli uomini, in cui troverebbero terreno fertile delitti analoghi a quelli perpetrati durante il regime nazista (talvolta, infatti, tale argomento viene chiamato argumentum ad Hitlerum). Poi, considerazioni di ordine pratico, rappresentate:

a) dalla eventuale incontenibilità dell’eutanasia pietosa una volta aperta una breccia al principio dell’intangibilità della vita. Ciò che deve far temere è

24 V. supra §.5. Qualora si ritenesse che il suicidio è un diritto ne deriverebbe: la liceità di tutte le attività istigatrici e ausiliatrici del suicidio; la liceità del suicidio per mano altrui, ossia l’omicidio del consenziente; la liceità dell’uccisione, da parte di medico e non medico, e sulla base del semplice consenso del soggetto, di un’infinità di persone, malate e sane, anziane e giovani, desiderose di porre fine alla propria vita, ma senza il coraggio o la possibilità di farlo personalmente; la vanificata esigenza pratica, in nome dell’affermazione del diritto alla morte, dell’accertamento della validità del consenso: difficile, se non impossibile, nella maggioranza dei casi date le condizioni psichiche in cui versano normalmente gli aspiranti al suicidio; l’inviolabilità e la garanzia costituzionale (art. 2 Cost.) di tale diritto, azionabile come pretesa verso lo Stato, obbligato ad apprestare gli strumenti – in nome del principio di eguaglianza – per l’uccisione di chi non è in grado di farlo di persona; la punibilità dell’intervento di salvataggio come violenza privata e l’applicabilità della legittima difesa, a favore dell’aspirante suicida che reagisce contro chi tenta di impedire il suicidio. Si vede, quindi, come il riconoscimento del suicidio come un diritto, porta ad una serie di conseguenze, ad una assoluta autodisponibilità della vita, che nessun ordinamento, non nichilista, potrebbe legittimare. Anche il diritto al suicidio, più che un’esigenza scaturente dal basso, è la teorizzazione ideologica di chi sta bene. Per queste osservazioni critiche al riconoscimento di un diritto al suicidio v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 119. 25 Per tale impostazione v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 73.

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che, attraverso il presupposto del motivo pietoso, si arrivi ad affermare la liceità penale di fattispecie precedentemente sanzionate, attraverso i cosiddetti “passi successivi”. A tal proposito bisogna ulteriormente distinguere: il caso in cui i passi successivi configurano qualcosa di totalmente nuovo, poiché in tale ipotesi il legislatore si troverebbe di fronte ad una valutazione del tutto nuova; dal caso in cui i passi successivi sono già compresi nel passo precedente, ossia nella fattispecie che si tratterebbe di legittimare26. È proprio questo secondo caso che si verifica nel caso in esame, poiché non è difficile passare dall’uccisione pietosa di malati terminali a quella di malati di mente, di deformi, del vecchio, dell’handicappato. E col rischio di rendere difficoltoso distinguere il comune omicidio dall’eutanasia;

b) dalla relatività delle diagnosi di incurabilità del male e della prognosi della morte imminente. Infatti, è necessario prendere in considerazione i continui progressi della medicina che, oggi, possono consentire di vincere malattie considerate prima mortali;

c) dalla possibile sopravvenienza di nuovi trattamenti medico-chirurgici che rendono curabili malattie prima incurabili o sopportabili malattie prima insopportabili. È qui che trova spazio la “terapia del dolore” oggi divenuta abbastanza efficace a seguito degli imponenti progressi della medicina. La richiesta di essere uccisi per motivi di pietà si avvia a diventare anacronistica;

d) dal soggettivismo del limite della insopportabilità del dolore27; 26 Per queste osservazioni v. Orrù, La tutela della dignità umana del morente, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di Stortoni, Trento, 1992, 100 e Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1013. 27 Fino a pochi anni fa, si riteneva che le sensazioni dolorose risultassero dalla trasmissione di messaggi di avvertimento, attraverso i nervi che collegano la pelle, i muscoli e gli organi interni al midollo spinale. Di lì tutto passava ad una regione del cervello che si pensava incarnasse le sede della sofferenza. Per lenire il dolore, pertanto, oltre a far ricorso alla morfina, si interrompevano i centri di trasmissione del dolore stesso, intervenendo ad esempio chirurgicamente sui nervi periferici. Con il tempo si è acquisita la consapevolezza che il dolore è un’esperienza soggettiva; la percezione del dolore e la sua intensità sono influenzate da

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e) dalla difficoltà di accertare la definitività o meno e la serietà della volontà di morire e la libertà e validità del consenso prestato. Infatti, dietro la richiesta di morire, può sempre nascondersi, per il principio di conservazione, una tenace volontà e voglia di vivere. Il malato che invoca la propria morte, ma non attua propositi suicidi, dimostra una mancanza di determinazione della propria volontà alla morte, e dunque non vuole la propria morte28. Chi è dotato di esprit fort, cioè di una volontà eutanasica attuale, certa, lucida e consapevole, tale da progettare la propria morte per mano altrui, dovrebbe, del pari, averla per progettarla di mano propria;

f) dalla difficoltà di distinguere tra il movente altruistico della pietà e invece un sottostante movente egoistico opportunistico29. E, infine, considerazioni di opportunità, collegate:

a) all’intorbidimento della identità e della credibilità professionale e morale del medico, al quale viene attribuito il tradizionale e principale dovere di curare il malato, in piena coerenza col principio di Ippocrate: primum non nocere. Infatti, l’eventuale possibilità per il medico di somministrare sostanze mortali che possano abbreviare la vita del malato, potrebbe provocare tra i

aspetti esterni alla patologia stessa. Oggi è ormai noto che non esistono vie e centri specifici del dolore; certe sofferenze, talvolta, non costituiscono neppure forme di reazione a stimoli interni o esterni, ma sopravvengono in modo spontaneo, senza altra causa che esse stesse. 28 Così Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, in Critica penale e medicina legale, 1962, 133. 29 Per Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 427, esistono a tal proposito “sospetti sulla autenticità di una così grande e improvvisa esplosione di umana pietà, che appare tra l’altro anacronistica in una umanità sempre più disumanizzata e monodimensionale, sensibile alla propria libertà più che al dovere e al servizio, al diritto proprio più che al diritto dell’altro, e che delega agli spersonalizzati servizi sociali quella solidarietà che è incapace di prestare in proprio”. Inoltre, secondo Manzini, Omicidio del consenziente, in Trattato di diritto penale italiano, VIII, 104, l’uccisione, seppur motivata dalla pietà, è “negazione della pietà”. Questa è, comunque, una falsa pietà, “tanto più che quando si ama veramente una persona malata, la speranza non viene mai a mancare del tutto”. E si può aggiungere: “Del resto, lo stesso prevalere del cosiddetto motivo di pietà sulla naturale avversione alla soppressione del proprio simile, sui legami di affetto verso il proprio congiunto, rivela una personalità sanguinaria o, perlomeno, proclive al delitto”, v. Id., Eutanasia, in Novissimo Digesto Italiano, XI, 1957, 884.

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pazienti una sfiducia di fondo, confondendo tra loro il dovere di curarli e la possibilità di ricorrere al “colpo di grazia”;

b) alla fuga dal pubblico ospedale dei malati, dal momento che, sulla base del consenso presunto, potrebbero essere attuate pratiche eutanasiche. Verrebbe, pertanto, a crearsi una situazione discriminatoria tra pazienti poveri, costretti ad usufruire delle strutture sanitarie pubbliche, e perciò eutanasiabili, e invece pazienti ricchi, non eutanasiabili in quanto in grado di potersi avvalere delle strutture di cura a carattere privato. Per concludere merita un cenno quanto D’Agostino30 afferma riguardo ad un altro motivo di illiceità dell’eutanasia propria: essa, infatti, altererebbe in modo inaccettabile la struttura relazionale del diritto. L’eutanasia comporta, infatti, il coinvolgimento di due soggetti, il paziente e l’agente/operatore, colui che dà e colui che riceve questo mandato. Ma qual è il valore da attribuire a questo mandato? Se esso fosse sindacabile da parte dell’operatore, allora il paziente potrebbe vedere disattese le sue richieste, se fosse insindacabile, allora l’agente dovrebbe intervenire anche quando ritiene che non sussistano quelle circostanze che avevano indotto il malato a chiedere l’eutanasia. Quindi, le decisioni dei due soggetti non necessariamente coincidono e allora delle due l’una: o il malato è dominus della coscienza dell’agente, o l’agente è dominus della vita del soggetto. È questa una situazione ontologicamente e moralmente inaccettabile poiché viene a spezzarsi la relazione inter-soggettiva. E, D’Agostino si chiede come possa una legge che legalizzi l’eutanasia riconoscere l’eutanasia come diritto e nello stesso tempo eliminare le ambiguità che si ricollegano al suo esercizio: a fronte del diritto all’eutanasia,

30 In realtà richiamando Cotta, Aborto ed eutanasia: un confronto tra discipline, in Rivista di filosofia, 1983, 22.

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l’ordinamento giuridico dovrebbe rendere altri soggetti destinatari di un corrispondente dovere di uccidere. Ma, qualunque cosa possa dirsi a proposito della liceità o meno dell’eutanasia, “resta come punto fermo per ogni futura legislazione – un punto veramente nevralgico – l’impossibilità di trasformare il “diritto alla propria morte” in “diritto all’omicidio”31.

§9. L’EUTANASIA PASSIVA CONSENSUALE. Nell’ambito dell’eutanasia passiva, una responsabilità del medico per aver omesso di praticare le cure o per non averle continuate, cure necessarie ad impedire o a posticipare la morte del paziente, potrà ravvisarsi nella misura in cui sussista in capo al medico un obbligo giuridico di praticare o continuare le cure, quindi un obbligo d’impedimento dell’evento, secondo il generale principio contenuto nell’art. 40, secondo comma, del codice penale (per cui non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico d’impedire equivale a cagionarlo)32. A questo proposito, è fondamentale il ruolo che svolge il consenso del paziente, dovendosi, anche qui distinguere l’eutanasia passiva nella sua forma consensuale o non consensuale. L’eutanasia passiva consensuale o volontaria, trattandosi, in realtà, di un “rifiuto delle cure” da parte del paziente, è, forse, l’ipotesi meno controversa essendole riconosciuta una certa autonoma rilevanza in vista della massima espansione del diritto all’autodeterminazione del paziente. 31 L’affermazione è di Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, cit., 1012. 32 Art. 40 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

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È in base al diritto del soggetto, costituzionalmente garantito (art. 32 com. 2 Cost.) di non curarsi e di lasciarsi morire che il rifiuto delle cure deve considerarsi lecito33. Infatti, in ragione del principio personalistico del consenso, ogni intervento sul soggetto deve fondarsi su questo e, appunto per questo, ne deriva che a) il dovere del medico di curare postula e trova fondamento sul preventivo consenso del soggetto; b) che il paziente può rifiutare le cure; c) che, in caso di rifiuto delle cure, cessa l’obbligo giuridico del medico di curare e sorge il dovere di rispettare la volontà del paziente; deve pertanto riconoscersi un diritto insopprimibile della persona alla libera determinazione nei confronti dell’aggressione medica a fini diagnostici e terapeutici34. Trattandosi di un rifiuto delle cure da parte del paziente, viene suggerito di abbandonare l’equivoca espressione di eutanasia passiva consensuale35. Un caso particolare è costituito dal rifiuto delle cure per motivazioni religiose, in particolare il rifiuto dei testimoni di Geova delle emotrasfusioni36.

33 La cronaca riporta il c.d. “caso della signora Maria”, avvenuto agli inizi del 2004 relativo al rifiuto da parte di un’anziana donna dell’intervento salvavita di amputazione di un arto. Il diritto al rifiuto delle cure fu avvalorato dal ministro della salute Sirchia. La donna morì qualche mese dopo a casa sua nel rispetto della sua decisione. V. Immacolato-Boccardo-Manconi-Ratti, Nello stato vegetativo permanente i trattamenti di sostegno vitale possono essere rifiutati? Un punto di vista medico-legale, in Bioetica, 2005, 107. 34 “Diversamente argomentando si degraderebbe la medicina al rango di potenziale e rischiosissimo strumento di sopraffazione dell’individuo, del suo atteggiarsi e del suo dissentire, in una parola della sua libertà”, v. Barni-Dell’Osso-Martini, Aspetti medico-legali e riflessi deontologici del diritto di morire, in RIML, 1981, 29. 35 Così Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 427 e D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 28, per il quale “un paziente che rifiuti di farsi curare, anche quando sa che il rifiuto delle cure lo porterà a morte, non può essere identificato come un paziente che chiede e ottiene l’eutanasia”. 36 Questo problema da parte di certa giurisprudenza è stato risolto nel senso dell’imposizione, ma rispetto al quale è necessario distinguere: se il soggetto dissenziente è capace, il suo rifiuto andrà rispettato, poiché non vi è alcuna norma legislativa che preveda l’obbligatorietà del trattamento e poiché vale il principio dell’autodeterminazione. Se, invece, il paziente è materialmente incapace di prestare il consenso perché incosciente, può farsi leva sul consenso presumibile; il dilemma per il medico sorge allorquando il soggetto porta con sé una dichiarazione scritta di rifiuto. In tal caso sembra prevalente il dovere del medico di intervenire (in dubio pro vita), anche perché il dissenso non è attuale e perché si può

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È stata, tuttavia, sollevata la questione circa una possibile affinità tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva tutte le volte in cui, questa ultima, si realizza materialmente con un agire attivo e non con un’omissione pura, e precisamente, con un’interruzione attiva delle cure cui segue l’evento mortale: infatti, che differenza c’è tra chi inietta un farmaco mortale e il comportamento di chi stacca dal malato il respiratore artificiale? Guardando al risultato non pare esserci differenza alcuna: sia l’iniezione sia l’interruzione della respirazione artificiale conducono alla morte. E, parimenti, guardando al comportamento, è indubbia una qualche similitudine: è attivo il comportamento di chi stacca il respiratore così come il comportamento di chi pratica l’iniezione. Sembrerebbe, pertanto, logico ammettere un’identica valutazione penale di entrambe le forme eutanasiche, quella attiva e quella passiva: in entrambi i casi si avrebbe un’attiva causazione della morte che dovrebbe indurre il legislatore ad un identico giudizio di illiceità. Ma, ammettendo questa ricostruzione, si dovrebbe anche sostenere l’inesistenza di limiti allo sforzo medico, all’uso di tecniche rianimatorie, neppure in presenza di un valido consenso informato del paziente alla interruzione delle terapie. La conclusione sarebbe costituita da una sorta di illimitato “accanimento terapeutico”, la cui violazione darebbe vita ad una vera e propria ipotesi di omicidio.

presumere che l’istinto di conservazione, nella media dei casi, tenda a prevalere di fronte all’incombenza della morte. Se il dissenso alla trasfusione proviene dal genitore (è l’ipotesi del minorenne che più di frequente interviene nella pratica), il problema diventa più complesso venendo a confronto il dovere giuridico del genitore di curare e far curare la salute dei figli e il dovere di educare anche nella religione da essi professata. La risposta è unanime: i genitori sono liberi di decidere per se stessi, ma non possono avere questa libertà rispetto ai figli, nei confronti dei quali prevale il dovere di mantenere prima ancora che di istruire ed educare, affinché possano diventare maturi e, quando tali, siano in grado di effettuare le loro scelte. V. più ampiamente Portigliatti-Barbos, Il diritto di rifiutare le cure, in Digesto delle discipline penalistiche, IV, 1990, 33 e Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, Padova, 2005, 65.

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Dunque, anche in questo caso, la soluzione va cercata sul terreno delle regole dell’omissione: bisogna, cioè, chiedersi se il medico abbia o non abbia omesso di praticare le cure che era tenuto a praticare. Innanzitutto, appare ragionevole sostenere l’opinione che ritiene riconducibili al concetto di omissione di cure mediche anche comportamenti che si concretano in un’azione attiva37 (es. l’interruzione della respirazione artificiale); quindi, se anche queste pratiche attive sono definibili come comportamenti medici omissivi, allora ben si comprende come siano in gioco le regole che disciplinano non le azioni attive, ma le omissioni. Ora, il nostro sistema non solo non vieta, ma riconosce il “diritto di non curarsi”, espressione del divieto di trattamenti sanitari obbligatori, come visto, sancito dall’art. 32, comma II, Costituzione. E, una volta acquisito che il paziente ha diritto di non curarsi e di lasciarsi morire, per il medico sorge il dovere di rispettarne la volontà, non sussistendo più l’obbligo giuridico di intervento, l’obbligo di cura, ma anzi sorgendo il dovere di rispettare la contraria volontà del paziente, e quindi l’obbligo di

37 Il problema dell’interruzione delle terapie si colloca nell’ambito del tema relativo all’interruzione di un processo causale di salvataggio, in cui il processo mortale deve essere attribuito all’interruzione di un’attività precedentemente iniziata. La produzione dell’evento mortale suole essere ricondotta nell’ambito della causalità omissiva poiché l’evento, appunto, si è prodotto senza aver innescato un processo attivo, ma a seguito di un autonomo processo patologico. Pertanto, sebbene sotto il profilo fattuale la condotta si configuri come un comportamento attivo, si è affermata l’idea che questa condotta, sul piano normativo assume il significato di un’omissione. È stata elaborata dalla letteratura giuridica tedesca, a proposito, la figura giuridica del reato omissivo mediante commissione. Punto centrale è che non c’è alcuna differenza tra l’interruzione di terapie già intraprese e rinuncia ab initio a somministrarle, giacché il medico in entrambi i casi non ha instaurato il processo causale che porta alla morte del paziente, ma subentra in un processo già messosi in moto autonomamente. Così Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 153, che aggiunge “è sul terreno della causalità che si coglie la caratterizzazione dell’eutanasia passiva: è tale la condotta di chi non impedisce l’evento morte, la cui causa non è costituita da una condotta umana, è un’omissione, anche quando la condotta è propriamente attiva. […] L’aspetto che assume rilievo è l’inesistenza degli obblighi di cura, in presenza del limite costituito da una diretta gestione e tutela del titolare del bene protetto, che rifiuta la cura”.

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omettere le cure38. Infatti, qualora il paziente, debitamente informato e capace di prestare un valido consenso (c.d. “competente”), abbia richiesto l’interruzione delle terapie di sopravvivenza, e pertanto accetta le conseguenze mortali della sua malattia, si ritiene che questa volontà costituisca un limite invalicabile oltre il quale lo sforzo medico deve fermarsi39. Trova applicazione, in questo caso, il principio “voluntas aegroti suprema lex” (che sostituisce l’altro del “salus aegroti suprema lex”); il desiderio del paziente di morire in pace deve apparire degno del massimo rispetto ed è tale da esonerare il terapeuta da ogni intervento e lo solleva da ogni responsabilità. Il medico, infatti non viene a porre in essere alcuna omissione giuridicamente rilevante e la morte non è imputabile alla sua omissione40. Di conseguenza, mentre la volontà del malato non esclude l’illiceità penale dell’eutanasia attiva, il rifiuto dell’intervento terapeutico da parte del paziente esclude una responsabilità omissiva del medico41. 38 Contra Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 696, secondo il quale di fronte alla richiesta del paziente circa l’interruzione delle terapie viene, sì, meno l’obbligo giuridico del medico e quindi la sua condotta diviene lecita, ma non sorge per il sanitario un obbligo di soddisfare il desiderio del paziente, non diventando l’interruzione doverosa; non sussisterebbe, infatti, per l’A. un diritto per il paziente, ma una mera libertà di lasciarsi morire, così come il medico resterebbe libero di seguire la sua coscienza. 39 Ciò trova conferma, anche, all’art. 31 del codice di deontologia medica (1998) “[…] In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo art. 33 [trattamento sanitario obbligatorio]”. 40 Contro questa ricostruzione, si ha un non trascurabile orientamento, più rigoristico, che interpreta diversamente l’art. 32, II comma Cost. e arriva ad affermare che il paziente non può rifiutare le cure vitali, tale rifiuto equivalendo ad una richiesta di morte non consentita dal diritto positivo; quindi la sospensione del trattamento o l’omissione delle cure costituirebbe un comportamento, pur omissivo, ma penalmente rilevante. V. Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, 525. 41 Per Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 75, la identificazione dei due casi viene invocata per affermare la liceità della eutanasia attiva. Ma la tesi non regge; infatti, la distinzione tra eutanasia attiva e eutanasia passiva non è messa in crisi dall’invocato dato dell’interruzione delle cure, su richiesta del malato, mediante un comportamento attivo (ad es.: distacco del respiratore), dal momento che questo: a) rientra, stante il principio dell’incoercibilità delle cure (art. 32/2 Cost.), nel rifiuto delle stesse, che

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Ammessa, quindi, la liceità del rifiuto delle cure, si presenta un ulteriore problema: la volontà di lasciarsi morire, come abbiamo detto, deve manifestarsi per mezzo di un consenso validamente prestato da parte di un soggetto competente; tuttavia, questo atto di volontà deve essere caratterizzato da una serie di requisiti che non sono facilmente riscontrabili in malati gravi e terminali. Sul piano pratico, pertanto, il rifiuto delle cure si presenta come un qualcosa di eccezionale. Tale consenso deve essere42:

a) personale, perché nessun soggetto può autorizzare l’altrui sacrificio; né il rappresentante legale, poiché questi ha titolo esclusivo per consentire agli interventi a favore e non a danno della salute del rappresentato, né i congiunti per la ragione che la legge non riconosce loro alcun potere di rappresentanza e che meri rapporti familiari o di parentela non garantiscono circa la miglior rappresentanza e tutela degli interessi del malato43;

b) reale, cioè espresso e non presunto; c) autentico, quindi non apparente ma consapevole, libero non solo dai

tradizionali vizi, ma da ogni forma di coartazione o suggestione del medico o dei terzi;

d) valido, cioè prestato da soggetto capace per età e per condizioni psichiche di esprimere validamente la propria volontà;

e) informato, cioè fondato sulla consapevolezza del proprio stato. Soprattutto al malato terminale la verità dovrebbe essere detta interamente abbraccia sia la prestazione di nuove cure sia la cessazione di quelle già in atto e converte l’obbligo di curare nell’obbligo di cessare le cure; b) resta, pertanto, lecito, nonostante l’attuale incriminazione dell’eutanasia attiva. 42 Per tale impostazione v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 75. 43 V. Corte d’Appello di Milano, Decreto 31 dicembre 1999 in Foro Italiano, 2000, I, 2021 ss, che dichiara non accoglibile il ricorso con cui il tutore e padre di un interdetto chiedeva l’autorizzazione ad interrompere le cure mediche che consentono di protrarre lo stato vegetativo, nonché l’alimentazione artificiale. Tra l’altro in questa sede la Corte d’Appello di Milano ha fatto propria la tesi secondo la quale la perdita irreversibile della coscienza costituisce il limite ad ogni trattamento medico, sollevando, tuttavia, la questione dell’incertezza dei criteri scientifici di definizione (v. infra).

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senza togliere, tuttavia, la speranza. Infatti, se il malato conosce la verità può collaborare con il medico sia al fine della guarigione sia, se questa non è più possibile, al fine di una serena residua sopravvivenza. “Fino a tempi recenti dire la verità è stato ritenuto nobile ma utopistico o impossibile dato il comando ippocratico non nocere”44. Peraltro, solitamente, il medico tace al moribondo la verità che gli appartiene, così come insegnavano la scuola ippocratica, le scuole mediche medievali e i grandi clinici del passato45. Anche la letteratura, con il “si voltò dall’altra parte” del tolstojano Ivan Ilijc di fronte alla menzogna che contornava il suo trapasso nella solitudine, pur se contornato dai parenti, è stata presaga di quella congiura del silenzio che è divenuta la dolorosa regola attuale;

f) attuale o persistente, non essendo sufficiente una qualsivoglia volontà espressa in un periodo precedente, data la mutabilità di pareri in merito e i seguenti dubbi del medico circa la fermezza della volontà precedentemente

44 Citazione da Toscani, Ancora sul dire la verità ai malati, in Bioetica, 2001, 510. 45 Il consenso, infatti, non può essere dato senza un’adeguata informazione. Il codice di deontologia medica (1998), che ha sostituito quello del 1989 che su questo punto lasciava al medico la facoltà di giudicare, nella nuova versione afferma che la verità deve essere detta; infatti, l’art. 29 dichiara che “il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia. […] Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione […]”. Sul punto, in particolare, v. Mantovani, Il consenso informato: pratiche consensuali, in RIML, 2000, 11, il quale sostiene che, in caso di prognosi grave o letale, tra il diritto del malato di sapere e il dovere del medico di tacere pietatis causa, prevarrebbe il diritto del malato di essere informato, qualora manifesti un’autentica volontà ferma, ribadita di conoscere la verità, avendo il diritto di programmare la propria residua vita e la propria morte. Mentre, si dovrebbe avere un’attenuazione del dovere di informare integralmente negli altri casi; il medico non deve illudere, ma, senza negare la serietà del male, dovrebbe, comunque, non privare il malato della speranza. Inoltre, anche la Raccomandazione n. 779/1976 dell’Assemblea del Consiglio d’Europa, relativa ai diritti dei malati e dei morenti, riconosce che i medici devono prima di tutto rispettare la volontà dell’interessato circa il trattamento da applicare; si riconosce, altresì, il diritto dei malati alla dignità e all’integrità, e il diritto all’informazione e alle cure appropriate, v. AA.VV., Il codice di deontologia medica, a cura di Introna-Colafigli-Tantalo, Milano, 1996, 318.

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espressa. In caso di dubbio, il medico deve praticare la cura: in dubio pro vita; se c’è anche una sola, esile, speranza, non è ammissibile interrompere le cure46. Un ruolo discusso, ma sempre più emergente, viene assegnato alla valutazione di eventuali dichiarazioni scritte, manifestazione della volontà di rinuncia alle terapie, rilasciate nel tempo in cui il soggetto era capace di decidere, per l’eventualità in cui fossero, nel tempo, sopraggiunte patologie gravi con perdita di coscienza. Il testamento biologico o di vita (o living will)47 nasce come risposta ai timori riguardo l’accanimento terapeutico soprattutto nei paesi anglosassoni48, ma 46 Il contrario argomento in dubio contra vitam afferma che un consenso presunto sarebbe richiesto per l’ammissibilità della continuazione del mantenimento in vita del paziente, mentre la sospensione dei trattamenti sarebbe lecita ogni volta che non vi siano ragioni di sperare in una ripresa. V. Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fine vita, in Teoria dir. e Stato, 2002, 3, 374, 47 Il testamento biologico rientra in quelle che prendono il nome di direttive anticipate, finalizzate ad esprimere in vita le proprie volontà riguardanti il proprio morire. Il movimento che ne ha auspicato la promozione ha avuto inizio negli Stati Uniti con la legge n. 3060 del 1976, nota come Natural Death Act (legge sulla morte naturale) che per primo riconobbe il diritto del paziente a disporre per iscritto in ordine alla somministrazione di terapie nel caso di sopraggiunta incapacità. Fa parte della categoria delle direttive anticipate anche la c.d. procura sanitaria che contiene la designazione di una o più persone che dovranno decidere dei trattamenti che il firmatario deve ricevere, nel caso in cui quest’ultimo non sia più in grado di esprimere la propria volontà. I documenti di questo tipo sono semplici in quanto l’interessato firma una delega in bianco in cui dichiara di fidarsi e accettare le decisioni del fiduciario. Nei paesi d’oltre oceano, addirittura, è previsto anche l’istituto del giudizio sostitutivo del terzo (substitute judgement) per i casi in cui una persona ormai incapace non ha compiuto una scelta mentre era capace. Come trovare una scelta dove non c’è? I tribunali hanno risposto sulla base di ciò che il paziente avrebbe scelto, cioè cosa questo paziente avrebbe scelto se fosse stato capace di valutare la propria situazione, tenendo conto degli interessi, delle preferenze, dello stile ed ideali di vita del paziente. Si tratta di ricostruire ipoteticamente il consenso del paziente, ovvero quale sarebbe stata la sua volontà avvalendosi di esternazioni fatte in stato di capacità sfornite tuttavia dei requisiti propri dei testamenti di vita. V. per tutti Kadish, Consenso a morire e pazienti incapaci, in Vivere: diritto o dovere. Riflessioni sull’eutanasia, a cura di Stortoni, Trento, 1992, 189 ss. 48 Nota è la pronuncia sul famoso caso statunitense Cruzan: il problema affrontato fu quello di chi e sulla base di quali criteri debba prendere le decisioni terapeutiche quando un paziente non è cosciente e non ci sono possibilità di recupero delle sue facoltà cognitive. Nancy Cruzan, nel 1983, rimase vittima di un incidente stradale a seguito del quale era precipitata in uno stato di coma dimostratosi, poi, uno stato vegetativo persistente. I suoi genitori, cinque anni dopo l’incidente, iniziarono la battaglia affinché alla ragazza venisse riconosciuto il diritto di morire. Di giudizio in giudizio il caso arrivò alla Corte Suprema degli Stati Uniti che nel giugno del 1990 approvò, con cinque voti a favore e quattro contro, una sentenza che ha precorso i tempi.

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ormai ha trovato spazio anche in tutti i paesi d’Europa, ed anche in Italia49. Presenta analogie con il testamento ordinario in diritto successorio, trattandosi nell’un caso di disporre della destinazione dei propri beni dopo la morte, nell’altro della sorte del proprio corpo infermo in caso di sopravvenuta incapacità. Ovviamente, non è sostenibile una vera analogia, dal momento che il testamento di vita non è finalizzato a regolare, post-mortem, una situazione patrimoniale, ma è un atto tra vivi, destinato a divenire operante, quando colui

Proprio sulla volontà della paziente si fondò la seconda parte della sentenza. I giudici, infatti, accordarono a tre amici di Nancy di testimoniare. I giovani ricordarono che la ragazza aveva espresso il desiderio, qualora si fosse trovata nelle condizioni in cui poi realmente venne a trovarsi, di morire. I giudici ammisero come convincente questa testimonianza. Nancy poteva morire. Il 15 dicembre 1990 furono rimossi i tubi che l’alimentavano e la idratavano e dopo pochi giorni la donna morì. 49 Il 22 febbraio 1999 è stata presentata alla Camera dei deputati italiana la proposta di legge 5673 contenente “Disposizioni in materia di consenso informato e dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”. Successivamente, il 29 giugno 2000, il medesimo testo è stato proposto al Senato, con il numero 4694. Attualmente, dal 23 maggio 2003, questa proposta giace al Senato come proposta di legge n. 2279. A giudizio dei proponenti, precondizione necessaria affinché una persona possa esercitare consapevolmente un atto di autodeterminazione, libero e consapevole, nei confronti di qualsiasi trattamento è che venga meno quell’atteggiamento paternalistico proprio della cultura medica italiana (v. supra §.5) e che “determina la frequente esclusione della persona stessa dalla possibilità di intervenire nei momenti decisionali cruciali” (relazione alla proposta di legge). Ma cuore normativo della proposta è costituito dall’art. 2, comma 1, che riconosce a ogni persona capace “il diritto di prestare o negare il proprio consenso in relazione ai trattamenti sanitari che stiano per essere eseguiti o che siano prevedibili nello sviluppo della patologia in atto. La dichiarazione di volontà può essere formulata e restare valida anche per il tempo successivo alla perdita della capacità naturale. Il rifiuto deve essere rispettato dai sanitari, anche qualora ne derivasse un pericolo per la salute e per la vita, e li rende esenti da ogni responsabilità”. Inoltre, all’art. 3, comma 2, è previsto l’istituto della procura sanitaria, che garantisce la facoltà del paziente di “indicare una persona di fiducia la quale, nel caso in cui sopravvenga uno stato di incapacità naturale valutato irreversibile allo stato delle conoscenze scientifiche, diviene titolare in sua vece dei diritti e delle facoltà di cui agli articoli 1 [consenso informato] e 2”. Il disegno di legge prevede, inoltre, quale onere di forma per il testamento di vita, la scrittura privata autenticata da pubblico ufficiale. Vinciguerra, Prospettive nella legislazione italiana, in Bioetica, 2, 2001, 88, ritiene, commentando questo disegno di legge, che occorre che questo tipo di dichiarazione venga circondato da serietà e cautela e, quindi, avere dei protocolli, così come avviene in Olanda (supra §3). Anche il Codice di deontologia medica del 1998 riconosce le direttive anticipate all’art. 34: “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”.

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che lo ha redatto è ancora vivo, anche se non più capace di formulare validamente la sua volontà50. Con tali testamenti biologici, si fornisce al medico un documento tramite il quale il sanitario può ricostruire la volontà del paziente, in modo che l’eventuale sospensione o prosecuzione dei trattamenti risulti fondata da un consenso dello stesso. Per quanto riguarda la forma con cui questo atto di volontà può essere manifestato è varia, potendosi avere anche testi standardizzati. Ma, il nodo centrale di tutta la problematica che ruota intorno ai testamenti di vita è costituito dalla loro vincolatività, generalmente non riconosciuta, sotto un duplice profilo: per il medico curante, che può anche disattendere la volontà del suo paziente, e per l’ordinamento giuridico, che non tiene conto di tali disposizioni ai fini dell’esenzione della responsabilità del sanitario che vi si sia adeguato. Molte sono le ragioni di perplessità e di diffidenza che la dottrina giuridica e medico-legale maggioritaria avanzano riguardo ai testamenti di vita e alla loro introduzione nell’ordinamento giuridico italiano51. Il valore non imperativo per il medico curante trova la sua ragion d’essere nella non attualità della volontà di colui che redige il testamento nel momento in cui deve essergli data esecuzione, e nella mutabilità dei pareri in merito52; infatti, una cosa è una scelta fatta mentre il soggetto si trovava in una situazione di benessere “quando la non incombenza dell’evento morboso consentiva una

50 V. Portigliatti-Barbos, Diritto di morire, in Digesto delle discipline penalistiche, cit., 9. 51 In Europa, hanno dato riconoscimento giuridico al testamento di vita la Danimarca, la Germania, l’Olanda e il Belgio. 52 Così Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 75; Portigliatti-Barbos, Diritto a morire, in Digesto delle discipline penalistiche, cit.,10; Barni, Sull’alterna” fortuna” della nozione di eutanasia, in RIML, 1985, 425; Cassano, Un concetto giuridicamente complesso, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna 2002, 101.

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valutazione astratta, distaccata dalle reali angosce di una vita che fugge”53, altra cosa, invece, è una decisione presa da chi prende conoscenza delle sue condizioni disperate. Quindi, ciò che conta è l’espressione immediata o la conferma inequivoca di una libera e responsabile volontà del paziente; in caso contrario non può che prevalere la potestà del medico. Un ulteriore rilievo, spesso avanzato nel dibattito sulle dichiarazioni anticipate, è il loro linguaggio; può essere difficile per un soggetto definire in modo esatto le situazioni patologiche in relazione alle quali intende fornire la sua volontà anticipata e questa sua incompetenza medica potrebbe essere motivo di ambiguità e quindi di dubbi nel momento della sua interpretazione da parte del medico. In senso favorevole ad un intervento legislativo finalizzato a dare attuazione alla Convenzione di Oviedo in materia di testamento di vita54 si è espresso anche il Comitato Nazionale per la Bioetica, Dichiarazioni anticipative di trattamento, attraverso un parere datato 18 dicembre 2003 finalizzato a stimolare e orientare l’attività del legislatore italiano in materia55. 53 Cito Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 75. Nello stesso senso la riflessione di Vinciguerra, Prospettive nella legislazione italiana, cit., 89: “L’esperienza dimostra che l’uomo nel corso degli anni cambia e spesso cambia profondamente. Talora cambia anche nelle convinzioni radicali. Ha senso che una dichiarazione rilasciata con la visione della vita che si ha a 25 anni, possa poi essere applicata a quel soggetto quando ne ha sessanta?”. 54 Ad introdurre un elemento evolutivo nel sistema normativo italiano, pur del tutto generico, è stata la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, approvata dal Consiglio d’Europa il 4 aprile 1997 e ratificata dall’Italia con legge n. 145 del 28 marzo 2001. Il capitolo II della convenzione, dedicato al consenso informato nei trattamenti sanitari, introduce due principi: l’art. 5 ribadisce il principio del consenso informato, l’art. 9 rimanda al tema del testamento di vita, introducendo, se non il principio del suo pieno valore vincolante, quello della sua rilevanza. Art. 9 “Saranno prese in considerazione le volontà espresse precedentemente in relazione all’intervento medico dal paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimerle”; si tratta di un’affermazione poco impegnativa e pacata, ma rappresenta un dato su cui il nostro ordinamento dovrà inevitabilmente confrontarsi. 55 Nel dettaglio, il Comitato, che si è preoccupato di individuare delle forme per garantirne l’attendibilità, ritiene opportuno: a) che il legislatore intervenga esplicitamente in materia; b)

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§10. L’EUTANASIA PASSIVA NON CONSENSUALE.

Alla luce del principio personalistico, è illecita. Infatti, in caso di mancanza di una precisa ed espressa determinazione del paziente, sia in senso negativo che positivo, in ordine alla prosecuzione o interruzione delle cure, rimane a carico del medico un obbligo giuridico di prosecuzione nel trattamento, anche se la malattia è incurabile, la morte imminente e il trattamento può procrastinare la vita solo per un breve periodo. In tal caso, l’interruzione o l’omissione delle cure da luogo ad un’omissione penalmente rilevante, e quindi (per giurisprudenza costante) ad una responsabilità a titolo di omicidio ai sensi dell’art. 40, comma II, in quanto l’obbligo di garanzia del medico ricomprende, in via primaria, il dovere di guarire, e in via subordinata, il dovere di mantenere in vita il paziente il più possibile. Un problema che si pone in relazione all’eutanasia passiva, è quello della inutilità della cura, che viene spesso invocato, a favore dell’eutanasia, come limite al dovere giuridico di curare: cioè l’omissione o l’interruzione della terapia nelle ipotesi di malattia irreversibile o di morte imminente sarebbe penalmente irrilevante perché l’inutilità della cura farebbe venir meno l’obbligo del medico56. Tuttavia dobbiamo fare una distinzione: infatti, come visto in precedenza, quando è cosciente, solo il malato, seppur incurabile e comunque prossimo alla che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, escludendone espressamente il carattere vincolante, ma imponendogli, sia che le attui, sia che non le attui, di esplicitare le ragioni della sua decisione; c) che le dichiarazioni anticipate possano eventualmente indicare i nominativi di uno o più soggetti fiduciari, da coinvolgere obbligatoriamente, da parte dei medici, nei processi decisionali a carico dei pazienti divenuti incapaci di intendere e di volere. 56 V. Barni-Dell’Osso-Martini, Aspetti medico-legali e riflessi deontologici sul diritto di morire, in RIML, 1981, 53: “L’omissione del medico non è delittuosa allorché sussiste il rifiuto del paziente ovvero il dovere giuridico di curare trova il proprio limite logico ed umano nella stessa inutilità della cura”.

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morte, può consentire o meno alla interruzione o alla prosecuzione delle terapie, solo il malato competente può decidere se la procrastinazione, seppur brevissima, della sua vita, gli offra una possibilità di realizzare se stesso57 . Gli aspetti più problematici relativi all’omissione o all’interruzione delle cure, in caso di inutilità delle stesse, si presentano in relazione alle ipotesi in cui il paziente non sia capace di decidere autonomamente perché in stato di incoscienza (o perché infermo di mente)58 e non esista più alcuna speranza di guarigione59. Si apre, qui, la strada alla tematica dell’esigenza del rifiuto dell’accanimento terapeutico (termine introdotto nel linguaggio medico francese agli inizi degli anni cinquanta, acharnement thérapeutique), invocato a favore dell’eutanasia passiva60. 57 V. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1019. 58 Del resto, per Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 428, si tratterebbe di un falso problema, in quanto o è dire cosa ovvia che il medico non è più tenuto alla cura, in presenza di un malato moribondo, giacché già incombe su di lui una morte certa per cui la terapia non servirebbe a prolungare in modo apprezzabile la sua vita. In tal caso è sufficiente richiamarsi alla normale deontologia medica per cui in tutti i casi in cui l’omissione o l’interruzione della cura non è giuridicamente causa o concausa della morte o di una sua apprezzabile anticipazione verseremmo al di fuori di una ipotesi di eutanasia passiva, mancando il fatto stesso dell’uccisione. O si tratterebbe di una affermazione pericolosa se il concetto di inutilità della cura venisse inteso in senso ampio “tale da giustificare un’apprezzabile anticipazione della morte e, quindi, da comportare il passaggio alla eutanasia passiva”. 59 È con riferimento a queste ipotesi, che sono le più frequenti nella pratica, che i medici hanno reclamato uno “spazio libero dal diritto”, con la possibilità di decidere secondo il proprio giudizio discrezionale e la propria coscienza. 60 Il concetto di accanimento terapeutico non ha dei contorni concettuali precisi né di tipo clinico, né etico, né giuridico. L’espressione è contestata, addirittura, da parte medica in quanto si ritiene sia espressiva di un giudizio di forte disvalore: infatti, pare sottolineare l’aspetto dell’aggressione nei confronti della vittima indifesa, escludendo il carattere di impegno curativo. L’accanimento è espressione di un’ostinazione fine a se stessa. Gli anglosassoni hanno coniato per questa ipotesi il termine “futilità medica”. D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 29, definisce l’accanimento terapeutico come “tutte quelle pratiche mediche estreme e di carattere eccezionale, non proporzionate alla situazione sanitaria reale del paziente, che vengono poste in essere più per una finalità di carattere narcisisticamente tecnologico che per rispondere ad un bisogno autentico del paziente stesso”. Secondo l’A., ovviamente, rinunciando all’accanimento terapeutico, si ha un processo di accelerazione nelle dinamiche che portano alla morte, come, invece e al contrario, la pratica dello stesso, può garantire un prolungamento

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Tale concetto si è affermato a seguito dell’avvento delle tecniche di rianimazione che ha portato con sé un’accentuazione della gradualità del passaggio dalla vita alla morte (la morte non più evento ma processo), avendo reso possibile una dissociazione, anche se in modo artificioso, dell’indissolubile tripode dell’attività nervosa, respiratoria, cardiocircolatoria, con la seguente sottoposizione di malati a tali tecniche per lunghi periodi e senza esito e in relazione a queste ipotesi si è, appunto, affermato il concetto di accanimento terapeutico. Il termine di accanimento terapeutico dovrebbe esprimere un limite nella pratica clinica che dia conto delle ragioni per le quali dei trattamenti in astratto somministrabili, non vengono nel caso concreto praticati perché ritenuti inaccettabili in sé o per il risultato che producono. In proposito, va affermandosi in parte della dottrina, l’idea che il medico possa interrompere il trattamento e assumere direttamente una decisione medica di fine vita già prima della morte encefalica61, pur in assenza di disposizioni da

della sopravvivenza “materiale” del moribondo. Ma è presente un consenso pressoché unanime sul fatto che l’accanimento terapeutico “non solo non sia doveroso, ma da condannare eticamente”. Almeno sotto il profilo deontologico e morale è un illecito, soprattutto quando vi sia la precisa opposizione del paziente in ordine alla prosecuzione delle cure. Aggiunge l’A. “il punto fermo è che, quando il paziente viene sottratto all’accanimento terapeutico e muore, nessuno è legittimato a dire che gli è stata praticata l’eutanasia”. Per Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità, in Indice penale, 1998, 478, l’accanimento terapeutico si verifica quando “vi è sproporzione tra la rilevanza dei mezzi usati e il carattere provvisorio e limitato del risultato medico previsto: un conto è tentare quando esiste una speranza ragionevole di guarigione, altro è invece strafare”. Il documento del Comitato Nazionale di Bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, del 14 luglio 1995, in www.palazzochigi.it/bioetica/pareri.html, definisce l’accanimento terapeutico “un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di rischio elevato e una particolare gravità per il paziente con ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi risulti sproporzionata rispetto agli obiettivi”. 61 Ormai, nella realtà medica-scientifica, etica, giuridica è un dato acquisito, che la morte si verifica con la decerebrazione (morte cerebrale), ovverosia con la cessazione irreversibile e totale delle funzioni del sistema nervoso centrale (quindi non soltanto del cervello, che è solo una parte del sistema nervoso centrale, ma anche del tronco encefalico e del cervelletto. In altre parole è la cessazione irreversibile sia delle funzioni che presiedono alla coscienza e al pensiero, sia di quelle che coordinano l’organismo nella sua interezza). La morte cerebrale, descritta per la prima volta nel 1959 da Mollaret e Goulon nel testo “Le coma dèpassé”,

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parte del paziente, dovendosi astenere da una condotta di ostinazione o accanimento terapeutico. Il problema è individuare quale possa essere il criterio in base al quale giustificare la decisione medica al fine di limitarne l’autonomia62. definisce la distruzione completa e irreversibile di tutto il contenuto della cavità cranica fino al segmento cervicale; è la totale necrosi del cervello che segna il passaggio “dall’essere uomo vivente” alla morte. Il soggetto decerebrato è morto a tutti gli effetti; non c’è più possibilità di autonoma vita di relazione, ma neppure di autonoma vita vegetativa, al livello delle attività respiratorie e circolatorie, che possono essere mantenute a sopravvivere in modo artificiale con l’impiego di macchinari, “in lui il cuore che vive non è più il cuore di un vivo”, v. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 380. E’ alla luce del principio personalistico, che informa il nostro ordinamento, che deve essere accolta questa nozione di morte, contro qualunque pretesa utilitaristica connessa all’idea di morte corticale (supra §6 nota 27) avanzata da operatori di trapianti, che affermano l’inutilità del decorticato, giacché, incapace di vita di relazione, di significato sociale, diventa appunto socialmente inutile e passibile di essere utilizzato, in quanto cadavere, per finalità di trapianto. Terza concezione, minoritaria, è quella di morte cardiaca, che si ha quando sono irreversibilmente cessate sia le funzioni cerebrali che circolatorie e respiratorie. Sulla base di questo indirizzo, il soggetto, il cui cuore continua a pulsare, anche se per effetto dell’impiego di macchinari, è ancora vivo. Con l’avvento delle tecniche rianimatorie, si sono potuti realizzare tre possibili risultati: a) della reviviscenza integrale dell’individuo a seguito del ripristino della triplice funzione vitale (cerebrale, respiratoria, circolatoria), b) del fallimento completo della riviviscenza a livello cerebrale e vegetativo (respiratorio e circolatorio), c) della reviviscenza artificiale, limitata alla sola funzione vegetativa in modo dipendente dalla macchina, permanendo i danni a livello del sistema nervoso centrale. È questo il caso che va sotto il nome di coma dèpassé (=superato), di soggetti decerebrati, “uomini-pianta”, “sempreverdi”, “cadaveri viventi”. Due ultime, importanti considerazioni: innanzitutto la morte deve essere unica a prescindere dalla diversa destinazione del cadavere (sepoltura, tavolo anatomico, prelievi a fine di trapianto). Inoltre, deve essere certa, in quanto la morte è una diagnosi e non una prognosi. Per tutte queste osservazioni e più ampiamente v. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., 351; Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, Padova, 2005, 32; Mantovani, Morte, in Enc. Dir., XXVII, 82; v. Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere, diritto di morire, Padova, 1982, 69 relativamente al momento della morte; Rimedio A., Problemi etici in merito all’accertamento della morte cerebrale, in Bioetica, 2006, 66. V. Comitato Nazionale per la Bioetica, Definizione e accertamento della morte nell’uomo, 15 febbraio 1991, in www.palazzochigi.it/bioetica/pareri.html, il quale afferma la non necessità di parlare di morte clinica, biologica, cardiaca, cerebrale, tronco-encefalica, corticale, perché tutti questi aggettivi potrebbero far pensare che esistono molte morti e modi diversi di morire. Al contrario “il momento della morte è uno solo ed è segnato dalla perdita totale ed irreversibile dell’unitarietà funzionale dell’organismo”. 62 V. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, cit., 1021, “non si può proprio aderire ad un giudizio totalmente discrezionale del medico, di una volontà del medico come unica volontà responsabile e non discutibile, perché ciò significherebbe attribuire al medico il potere di disporre senza limiti di una persona umana. Compito del diritto è quello di tracciare dei criteri vincolanti, che possano guidare il giudizio

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La soluzione alla quale più di frequente si ricorre è quella della volontà ipotetica o presunta del paziente: ma anche in questo caso avremmo l’insindacabile apprezzamento del medico, chiamato ad interpretare decisioni personalissime senza neppure il vincolo di qualche canone di interpretazione. È necessario, pertanto, fare riferimento a dei criteri oggettivi che prescindano del tutto dal criterio fondato sulla volontà. Secondo la teologia moralista classica sarebbe necessario distinguere tra mezzi ordinari (la cui applicazione è obbligatoria) e mezzi straordinari di cura63; quindi quando l’utilizzazione della pratica terapeutica viene considerata straordinaria, allora sarebbe giustificabile l’astensione terapeutica. Tuttavia questo criterio si è dimostrato eccessivamente subordinato allo stato di evoluzione della medicina, se pensiamo, ad esempio, che veniva considerata ordinaria la somministrazione dell’alimentazione artificiale e straordinaria la respirazione artificiale. Nel tempo, questa relazione mezzi ordinari-mezzi straordinari è stata sostituita da quella mezzi di cura proporzionati e mezzi di cura sproporzionati, che fonda il giudizio di proporzione in rapporto alla situazione concreta in cui si trova il paziente64. Ma anche questi criteri, che rappresentano il tentativo di stemperare l’assolutezza del dovere di preservazione della vita umana, introducono valutazioni sulla qualità delle condizioni di vita del moribondo, coerenti, tra

del medico, nel rispetto della ineliminabile discrezionalità tecnica”. Nello stesso senso Stortoni, Riflessioni in tema di eutanasia, in AA.VV., Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, Torino, 2003, 94, 2, “ […] le incertezze che permangono sul punto e che sono fonte di notevoli disagi per gli operatori sanitari, rendono quanto mai auspicabile una chiara presa di posizione normativa”. 63 V. §1. 64 I mezzi proporzionati sono quelli che offrono una speranza di beneficio senza che ne derivi disagio per il paziente e sono moralmente obbligatori per il medico; i mezzi sproporzionati sono quelli che procurano solo un prolungamento penoso e precario della vita, senza che portino speranze di beneficio e sono moralmente elettivi per il medico. V. Magro, Diritto penale e eutanasia, Torino, 2001, 163.

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l’altro, alle teorie utilitaristiche, giacché nascondono un giudizio di valore sulla vita; non sono i mezzi e la loro qualità, ma il loro uso nel caso specifico a risultare ordinario o meno, proporzionato o meno, qualunque sia il trattamento in questione. Infatti, la distinzione tra mezzi proporzionati e non deve essere adattata al caso concreto e quindi privilegiare parametri soggettivi legati alle condizioni del paziente; il mezzo impiegato diviene straordinario in quanto straordinarie sono le condizioni del paziente65. La soluzione maggiormente affermata66, in questo senso, è quella che fa riferimento alla perdita irreversibile dello stato di coscienza, ovvero della perdita totale della capacità di comunicare con il mondo esterno. Quando non c’è più speranza di recuperare la coscienza spirituale, il dovere del medico si arresta, facendo venire meno i presupposti dell’intervento punitivo, anche indipendentemente da un preventivo consenso del paziente, non sussistendo più un interesse al prolungamento di una vita irrimediabilmente compromessa. La vita artificiale è, sì, equiparata a quella naturale, e pertanto tutelata nello stesso modo, purché, però, il sostegno artificiale costituisca il mezzo terapeutico per il ritorno alla vita cosciente, di reazione psichica, di comunicazione. Tale equiparazione viene meno quando, secondo la miglior scienza ed esperienza, la coscienza è irreversibile.

65 Nell’ambito dei modelli di tipo utilitaristico si annovera anche il criterio del “senso della vita”. Così Magro, Eutanasia e diritto penale, cit., 165, “ non essendo più possibile interpellare lo stesso individuo circa il significato che egli ancora riconosce alla sua vita futura, tale criterio rinvia all’individuazione di un’istanza esterna, competente a decidere sulla vita e sulla morte secondo propri parametri di giudizio. 66 In Italia v. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, cit., 1022; l’A. riporta un’osservazione di uno dei più autorevoli esponenti della dottrina tedesca, A. Eser, “invece di servirci di finzioni che celano la vera sostanza del problema, dovremmo porci con tutta franchezza la domanda se e fino a che punto la prassi, seguita dai medici, di rinunciare, nei momenti appena precedenti la morte cerebrale, ad ulteriori interventi di prolungamento dello stadio fra la vita e la morte, possa essere ritenuta giuridicamente corretta allorché non sia con sicurezza discernibile il consenso dell’interessato”. V. anche Falzea, Diritto alla vita, diritto alla morte, in AA.VV., I diritti dell’uomo nell’ambito della medicina legale, Milano, 131.

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L’obbligo di mantenimento in vita permarrebbe integro, invece, quando il paziente abbia anche una sola speranza di realizzare la sua personalità, non essendo divenuta la perdita di coscienza irreversibile. In tal caso l’omissione degli sforzi diretti a prolungare la vita diventa rilevante per il diritto penale, alla stregua delle stesse regole che disciplinano l’omesso impedimento dell’evento lesivo. Tale ricostruzione, peraltro, lascia un quesito aperto connesso al giudizio di irreversibilità della perdita di coscienza. La risposta è nelle mani della scienza medica: sarebbe questa, infatti, a doverci dire se già prima della morte cerebrale possano esiste criteri sicuri per stabilire se la perdita di coscienza sia o meno reversibile. Pregio di tutta questa impostazione è di prescindere da ogni valutazione circa la dignità di un seppur breve spazio di vita67. A tutte queste considerazioni, altra parte della dottrina68, tuttavia, replica, e a mio modo di vedere giustamente, che facendo riferimento al criterio della coscienza si escluderebbe che le funzioni vegetative vitali siano umane; la coscienza è, certamente, un qualcosa che caratterizza la vita dell’uomo, ma non è, altrettanto certamente, l’unico, sicché permane l’obbligo di attivarsi69. 67 “Non si tratta di decidere se annientare la vita di una persona, per liberarla dalla “zavorra” di una esistenza giudicata inutile e piena di sofferenza, ma di assicurare il rispetto della dignità umana […] che risulterebbe indiscutibilmente vulnerata se, sopraggiunta l’irreparabile perdita di coscienza, l’artificiale mantenimento della vita fisica diventasse fine a se stesso, una mera manipolazione tecnica, espressione esclusiva dell’abilità medica”, così Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, cit., 1023. 68 V. Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico e eutanasia, in Arch. pen., 1985, 508 ss., Mantovani, I trapianti e la sperimentazione nel diritto italiano e straniero, cit., 351 ss., Mantovani, Eutanasia, in Digesto, cit., 428, Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 32. 69 “[…] I confini tra l’ancora e il non più recuperabile sono così ristretti, che in pratica possono essere riconosciuti solo retrospettivamente. Sarebbe disastroso voler da ciò derivare la legittimazione del potere di rinunciare nel caso di simili pazienti all’utilizzazione di terapie intensive”, così Menzel, in qualità di medico anestesiologo cit. da Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico e eutanasia, cit., 511. Inoltre, soggetti in coma da lesione organica cerebrale, sottoposti a terapia, si possono stabilizzare in una condizione neurologica (es. di stato vegetativo persistente) caratterizzata da assenza di contatti psicologicamente validi con

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Con tutto ciò si vuole evitare di incorrere nella tentazione di chi intende risolvere i problemi della eutanasia passiva tramite una trasformazione del concetto di morte (anticipandola) che assimila taluni irreversibili danni cerebrali con la morte encefalica e evitare che, con la configurazione della coscienza quale segno distintivo dell’essere umano, possa prospettarsi la soppressione di cerebrolesi o di handicappati mentali gravi o soggetti in stato di coma irreversibile (che consiste in una prognosi di irrecuperabilità delle funzioni psichiche, con possibilità di vita vegetativa autonoma; pertanto è da tenere nettamente distinto dalla condizione di morte cerebrale) senza nemmeno più considerarla un’uccisione, dal momento che la perdita, seppur irreversibile, della coscienza non fa venire meno nell’uomo la condizione umana. Accogliere il criterio per cui il limite all’attività medica è dato dalla impossibilità di recupero della coscienza spirituale del paziente comporta, inoltre, una scissione nel concetto stesso di uomo, tra essere umano e persona, secondo quanto è stato anche sostenuto da alcune correnti del pensiero filosofico utilitarista che suppongono la possibilità di differenziazione di tutela giuridica in relazione al fatto che non tutti gli esseri umani hanno lo status di persone dotate di autonomia. Rispondente all’idea dell’unità ontologica dell’uomo, che rende insostenibili pretesi dualismi tra vita psichico-intellettiva e vita sensoriale-vegetativa, è, invece, il criterio della morte encefalica introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 1 della l. 29 dicembre 1993, n. 578 (“Norme per l’accertamento e la certificazione della morte”) che ha recepito le conclusioni del Comitato Nazionale di Bioetica del 1991 e ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte

l’ambiente. E tali soggetti, specialmente se giovani, hanno, almeno nei primi anni, qualche possibilità di recupero di una coscienza elementare.

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Costituzionale (con sent. N. 414 del 1995 sulla legittimità costituzionale dell’art. 589 c.p.)70. Per morte encefalica si intende a) la totalità della cessazione delle funzioni encefaliche, dai centri superiori a quelli via via inferiori, che presiedono rispettivamente la vita intellettiva, di relazione, la vita sensitiva e istintiva e la vita vegetativa della circolazione e della respirazione; b) la irreversibilità della cessazione, dovendo esistere la certezza scientifica che queste funzioni non possono più essere in alcun modo ripristinabili, con alcun mezzo conosciuto dalla scienza ed esperienza del momento storico; c) e infine, l’impossibilità della prosecuzione autonoma dell’attività respiratoria e circolatoria. È sulla base del concetto normativo di morte, stabilendo, quindi, se il paziente è vivo e morto, che è dato risolvere i problemi circa la liceità o meno della omissione o interruzione del trattamento medico. Allora sulla base di questa ultima affermazione e sulla base del concetto di morte encefalica, appare legittimo non iniziare il trattamento rianimatorio nei casi in cui già ab initio (es. in caso di decapitazione) possa essere esclusa una reviviscenza del soggetto, a prescindere dal fatto che artificialmente possano essere ripristinate le funzioni meramente vegetative. Lo stesso può dirsi in ordine alla interruzione del trattamento rianimatorio: infatti, se la morte encefalica non è stata ancora accertata, e quindi sussiste ancora una possibilità di reviviscenza del soggetto, l’obbligo del medico di continuare nel trattamento rianimatorio permane e in tal caso non vi è alcuna forma di accanimento terapeutico.

70 V. anche art. 36 del codice di deontologia medica: “In caso di morte cerebrale il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la morte nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge. È ammessa la possibilità di prosecuzione del sostegno vitale anche oltre la morte accertata secondo le modalità di legge, solo al fine di mantenere in attività organi destinati a trapianto e per il tempo strettamente necessario”.

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Così, allora, non può parlarsi di accanimento terapeutico nei confronti dei soggetti decorticati, c.d. stato vegetativo persistente, cioè con perdita completa della coscienza (la sua prima descrizione clinica risale al 1972). Il soggetto decorticato è vivo, in quanto non decerebrato, e come tale è un uomo, è una persona malata, ma non una persona morta, “è cioè lo stesso essere umano di prima, ma egli è ostacolato nell’esprimere visibilmente e socialmente la sua persistente dignità a causa di una malattia”71. 71 Così Cattorini, La proporzionalità delle cure mediche per i pazienti in stato vegetativo permanente, in RIML, 24-1, 2002, 273. Non è dimostrabile in loro, infatti, un’assenza di sensazioni e di coscienza di sé e dell’ambiente (hanno infatti risposta mimica al dolore, possono occasionalmente sorridere, voltare il capo e gli occhi verso suoni o oggetti in movimento, emettere alcuni gemiti e addirittura versare lacrime). Le funzioni cardiocircolatorie e respiratorie sono conservate e il paziente non necessita di sostegni strumentali. Non sono in grado di nutrirsi da soli, ma vengono alimentati e idratati per via artificiale (NIA) attività che deve essere loro garantita non costituendo trattamento terapeutico, (finalità di arrecare beneficio al paziente – obiettiva idoneità terapeutica del trattamento sulla base della previa conoscenza dei prevedibili benefici e rischi del trattamento, e del rapporto di proporzione tra essi – collegamento funzionale con una malattia e soggettivo con un soggetto malato. V. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., 13), ma standard minimo di assistenza, sono atti dovuti eticamente, indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere e, perciò, la NIA non costituisce accanimento terapeutico. Le persone in SVP non necessitano di norma di tecnologie sofisticate: ma hanno soprattutto bisogno, per vivere, di essere accudite; esse richiedono un’assistenza ad alto contenuto umano, ma a minimo contenuto tecnologico. Non è dimostrabile una certa irreversibilità essendosi verificati, infatti, casi di soggetti in tale stato che hanno recuperato, anche se parzialmente, una vita di relazione. Identificare la morte dell’uomo con la morte corticale, si obietta, è foriera di imprecisioni e arbitrii giacché “la sfera interna di un soggetto comprende una gamma di manifestazioni, dalle forme più alte dell’autocoscienza a quelle più sommesse, quali le emozioni, sensazioni riflesse (fame, sete, ecc.), sentimenti, che non sono altresì adeguatamente accessibili ad un’osservazione esterna (come comprovano casi clinici di soggetti ritenuti privi di coscienza, ma in realtà solo incapaci di reazioni percepibili dagli altri)”, v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 36. V. anche il discorso di Giovanni Paolo II ai membri della FIAMC (Federazione Internazionale dei Medici Cattolici), riportato da Defanti C., Stato vegetativo permanente: a proposito del documento della FIAMC, in Bioetica, 2005, 79. Contra Veronesi, Il diritto di morire, Mondadori, 2005, 7, “il beneficiato [cioè il soggetto in SVP che viene nutrito e idratato] non solo non può apprezzare il preparato e i suoi effetti, ma soprattutto non può, e non potrà mai più, rendersi conto del fatto di essere alimentato. […] Le persone in SVP, così come non avvertono di essere idratate e alimentate, così non avvertono di non esserlo più. Qualunque cosa possa sembrarci, la realtà è che non soffrono, perché non sono più capaci nemmeno di soffrire”. V. anche in questo ultimo senso Gruppo di lavoro su nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza, in Bioetica, 2001, 303, nominato dall’allora ministro della sanità Veronesi il 20 ottobre del 2000 con proprio decreto: “[…] allo stato attuale della legislazione siano possibili decisioni, in ordine all’idratazione e nutrizione

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Proprio perché il paziente in stato vegetativo persistente non è morto, l’eventuale sospensione di trattamenti medici, dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, costituisce tecnica eutanasica passiva72. Al contrario, se la morte encefalica, nel suo connotato di irreversibilità, viene diagnosticata come certa, allora viene meno l’obbligo di continuare il trattamento, che risulta essere, pertanto, inutile. Quindi, non soltanto è lecito, ma anche doveroso interrompere il trattamento73. Ciò almeno per una duplice ratio: innanzitutto per una ragione giuridica, in quanto, trovandosi dinanzi a persona morta e quindi a un cadavere, sorge l’obbligo penalmente sanzionato di sepoltura, pena l’applicazione degli artt. 410-413 c.p. (vilipendio di cadavere, distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere, occultamento di cadavere, uso illegittimo di cadavere). E poi, per una ragione di principio del rispetto della dignità della personalità umana contro la degradazione dell’essere umano artificiali degli individui in stato vegetativo permanente, che portino alla legittima interruzione di tali trattamenti medici […]”. V. Comitato Nazionale per la Bioetica, L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, in Bioetica, 2005, 108 che qualifica la NIA come sostentamento ordinario di base, ma la sua sospensione è da considerare eticamente e giuridicamente lecita quando si realizzi l’ipotesi di accanimento terapeutico, e cioè, specifica, quando nell’imminenza della morte “l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile del dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo […] o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’alimentazione”. 72 Così D’Agostino, Eutanasia per i soggetti in stato vegetativo persistente, in Bioetica, 2001, 284. Tra l’altro nella pratica si distingue lo stato vegetativo in permanente, ed è la condizione giudicata irreversibile (quindi comprensiva di prognosi e diagnosi) e in persistente, che è invece una diagnosi che non implica irreversibilità. Il documento della Multi society task-force on PVS (un gruppo di studiosi delegato da diverse società scientifiche americane), che ha proposto dei criteri di irreversibilità, afferma che trascorsi 12 mesi la probabilità di ripresa delle funzioni superiori è insignificante e pertanto è possibile dichiarare la stato vegetativo permanente. D’Agostino, op.ult.cit., obietta che oltre a parlare di “probabilità”, che non implica certezza, il documento usa l’aggettivo “insignificante” che, per l’appunto, non vuol dire assenza. Schiavone, Riflessioni bioetiche sullo stato vegetativo permanente, in Bioetica, 2001, 288, ribatte che la probabilità è vicina all’impossibilità. Per i problemi legati alla prognosi dell’irreversibilità nello stato vegetativo permanente v. Consulta di Bioetica, Sullo prognosi nello stato vegetativo permanente, in Bioetica, 2002, 319, la quale sostiene che la diagnosi di stato vegetativo permanente (cioè la prognosi di irreversibilità) può essere formulata e può costituire la base per prendere le necessarie decisioni. 73 A meno che, in questi casi, tali pratiche non siano comunque necessarie per la sopravvivenza del feto nel grembo materno o si debba procedere a prelievi a fine di trapianto.

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a uomo-pianta. Di conseguenza, neppure in questo caso può parlarsi di accanimento terapeutico74. In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, il problema non è tanto quello di intervenire mediante una legislazione (non necessaria) dell’eutanasia passiva, ma piuttosto quello di individuare dei metodi diagnostici precoci al fine di accertare come certa la irreversibilità della morte encefalica75.

74 La cronaca riporta casi che hanno generato nell’opinione pubblica e nell’ambiente giuridico dilemmi non facilmente risolvibili; è di grande attualità la vicenda di Eluana Englaro in ragione delle somiglianze col caso di Terri Schiavo, che ha fatto sì che tutto il mondo si mobilitasse interrogandosi sulla liceità della richiesta della sospensione della nutrizione e idratazione artificiali in soggetti in SVP. Entrambe le giovani donne, che per anni si sono trovate in questa condizione, hanno manifestato la volontà, per mezzo dei loro tutori (genitori in un caso, marito nell’altro), di sospensione della NIA. In entrambi i casi si è scatenata una dura battaglia legale tra i tutori, che chiedono che sia rispettata la volontà delle loro assistite di sospensione della NIA e chi ritiene che prevalga il dovere dello Stato di tutela della vita su ogni altro diritto individuale. Questi sono i punti in comune; le vicende seguono poi percorsi diversi. Nel caso americano, nonostante la battaglia tra gli attori del caso – marito/tutore, famiglia di Terri, giudici, avvocati, il pressante intervento mediatico e l’intervento del Presidente Bush, che ha tentato di imporre per legge la supremazia del principio della “sacralità della vita” su quelli della “qualità della vita” e del “diritto all’autodeterminazione” – il 16 marzo la Corte d’Appello della Florida ha rifiutato di fermare la rimozione del tubo per l’alimentazione e l’idratazione. La rimozione venne effettuata il 18 marzo; Terri muore il 31 marzo. Nel caso italiano di Eluana Englaro, l’ennesima sentenza, questa volta della Cassazione (Cassazione – Sezione prima civile – ordinanza 3 marzo-20 aprile 2005 n. 8291) ha rigettato l’ultimo ricorso del padre/tutore che da dieci anni sta portando avanti la sua battaglia per far riconoscere il diritto al rifiuto delle cure espresso dalla figlia prima dell’incidente. La Cassazione ha affermato che “solo quando sarà consolidata nell’ambito medico la tesi del trattamento terapeutico per le somministrazioni di alimenti con sonda naso-gastrica si potranno trarre le dovute conseguenze giuridiche”. V. più dettagliatamente Immacolato-Boccardo-Manconi-Ratti, Nello stato vegetativo permanente i trattamenti di sostegno vitale possono essere rifiutati? Un punto di vista medico-legale, in Bioetica, 2005, 93. In un’intervista Veronesi affermò che quello di Eluana è “un problema etico che si dibatte da molto tempo […] è un problema che deve essere risolto per legge. […] Il tema dell’eutanasia ricorre molto frequentemente. Io non ho mai avuto occasioni personali, però capisco che in molti casi l’eutanasia possa essere quasi un atto di carità”. Sempre a proposito del caso Englaro, mons. Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, su il Giornale (16 giugno 2000) affermò: “la ragazza non è attaccata a una macchina che la tiene in vita. Respira da sola, il funzionamento cardiocircolatorio è normale. Non siamo di fronte a un caso di accanimento terapeutico […] la ragazza non è tenuta in vita artificialmente, vive da sola e non è sottoposta a terapie che le procurino sofferenza”. Per queste ultime osservazioni, v. De Rosa, Eutanasia anche in Italia?, in Civiltà Cattolica, 2001, 1, 302. 75 Per l’accertamento della morte, v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 38; Comitato Nazionale per la Bioetica, Definizione e accertamento della morte, 15 febbraio 1991, cit.

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Sulla base di quanto finora osservato, emergono le ambiguità e pericolosità della proposta di legge n. 2405 presentata alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 1984 dall’onorevole Loris Fortuna, contenente una disciplina specifica scriminante l’eutanasia passiva76 e intitolata “Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina della eutanasia passiva”77. Per quanto riguarda la dichiarazione di intenti contenuta nella relazione al progetto, si afferma apertamente la proibizione dell’accanimento terapeutico e conseguentemente la legittimazione dell’eutanasia passiva78. Viene, inoltre, riconosciuta la piena legittimità giuridica dell’eutanasia attiva indiretta. Ma il punto sostanziale della normativa è costituito dalla presunzione del consenso del paziente alla rinuncia terapeutica79 e quindi una presunzione di rifiuto ad essere assoggettati a accanimento terapeutico, quando si tratta: a) di terapie di sostentamento vitale, consistenti ex art. 3 in “ogni mezzo o intervento medico che utilizzi tecniche meramente rianimative nonché apparecchiature meccaniche o artificiali per sostenere, riattivare o sostituire una naturale funzione vitale”; b) di persone in condizioni terminali, intendendosi per condizioni terminali ex art. 2 “l’incurabile stato patologico, 76 Essa si ispira al noto “Natural Death Act” emanato nel 1976 dallo Stato federato americano della California. Questa legge riconosce il diritto dei maggiorenni di poter decidere che non vengano impiegati o che vengano interrotte le terapie di sostentamento vitale nel caso in cui si trovino all’estremo della condizione esistenziale, in quanto tale prolungamento potrebbe mortificare la dignità umana. La legge, in tali ipotesi, esclude ogni responsabilità giuridica del medico. 77 Per tutto v. Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 464. nello stesso senso Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, cit., 536. Contra Romboli, Commento all’art. 5, in Scialoja-Branca, Commentario del codice civile, Delle persone fisiche, Bologna-Roma, 1988, 309. 78 “[…] Il divieto di accanimento terapeutico costituisce l’ultima salvaguardia che l’ordinamento giuridico appresta ai soggetti che gli appartengono. […] Le ragioni di un siffatto accanimento raramente possono attribuirsi alla volontà dell’infermo, più spesso sono dovute ad eccessivi scrupoli professionali o familiari a ad una sorta di sfida prometeica della medicina alla morte”, v. Relazione alla Proposta di legge n. 2405, in RIML, 1985, 395. 79 L’art. 1 del progetto di legge afferma “I medici sono dispensati dal sottoporre a terapie di sostentamento vitale qualsiasi persona che versi in condizioni terminali, salvo che la stessa vi abbia comunque personalmente e consapevolmente consentito”.

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cagionato da lesione o da malattia e dal quale, secondo le cognizioni della scienza medica, consegue la inevitabilità della morte, il cui momento sarebbe soltanto ritardato ove si facesse ricorso a terapie di sostentamento vitale”. Il fatto che questa proposta non sia mai stata approvata dal Parlamento, non può non significare che non ha trovato nessun punto d’incontro tra le varie forze politiche. Infatti, attenti studiosi criticano la proposta per la sua ambiguità, affermando la sua inutilità o inaccettabilità. È inutile, per la ragione che abbiamo visto sopra, e cioè se per malato in condizioni terminali si intendono le persone irrimediabilmente decerebrate, nei confronti delle quali la rianimazione serve solo a mantenere l’artificio di un respiro e di una circolazione sanguigna non spontanee su un soggetto già morto. È inaccettabile nel caso in cui per malati terminali si intendono soggetti sottoposti a terapia rianimatoria, ma nei confronti dei quali ancora non sia stata accertata come certa la irreversibilità della morte, come lascia pensare, del resto, la stessa presentazione di questa proposta (altrimenti, appunto, inutile). Infatti, essa comporta, innanzitutto, il rischio che si arrechi la morte a persone che possono riprendersi integralmente, come è comprovato da casi di riviviscenza anche dopo un lungo periodo di tempo. Inoltre, fondandosi su una presunzione di consenso all’eutanasia passiva, si incorre nel pericolo di cadere in una fictio juris, priva sia di fondamento reale, dal momento che, basandosi la presunzione sull’id quod plerumque accidit, non tiene conto della realtà concreta che dimostra che la maggioranza dei malati, in forza anche del principio di conservazione, non vuole essere abbandonata, ma curata fino al limite dello sforzo terapeutico; sia di fondamento etico-giuridico, perché, qualora venisse dimostrato che solo un malato non vuole morire contro la maggioranza portatrice di questo desiderio, rispetto a questa unica voce la presunzione di volontà di morire non potrebbe

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mai valere, perché tutto ciò che riguarda la vita e la morte costituisce un diritto inalienabile della persona. La proposta di legge prevede, ancora, che a seguito dell’accertamento delle condizioni terminali80, il medico comunichi a una cerchia di soggetti (conviventi, parenti, ministri di culto, ex art. 6) i risultati dell’accertamento affinché questi possano opporsi all’interruzione della terapia (art. 5). Tutto ciò importa una antinomia legislativa perché, per prima cosa, si presume il consenso del paziente che non abbia espressamente dissentito, e secondariamente, si ammette l’opposizione di parenti che viene, così, a contrastare con la presunta volontà del morente a non essere curato. Si tratterebbe di una finzione di rispetto della volontà, innanzitutto, del paziente, giacché egli non può dissentire soprattutto perché, dovendo il dissenso essere informato, si presuppone che il medico renda consapevole il moribondo della sua situazione senza speranza. Ciò può risultare cosa difficilmente fattibile tenuto conto del fatto che la maggior parte dei soggetti non ama conoscere la verità e perché il medico dovrebbe informare il paziente della situazione terminale solo quando questa è insorta e cioè quando questo non è più in grado di essere informato e di dissentire. E, in secondo luogo, si tratterebbe di una finzione di volontà rispetto agli altri oppositori in quanto è prevista una faticosa burocrazia della morte: infatti, la decisione ultima circa la interruzione o meno delle tecniche rianimatorie viene fatta gravare sul presidente del tribunale della circoscrizione del luogo di degenza dell’infermo (art. 7), con ciò palesando, anche, una finzione di garanzia giurisdizionale,

80 Art. 4 “L’accertamento delle condizioni terminali viene effettuato da un medico competente nelle tecniche di rianimazione designato dalla unità sanitaria locale del luogo di degenza dell’infermo, su concorde parere del primario anestesiologo della stessa unità, direttamente o su richiesta di altro medico, ove questi abbia in cura l’infermo. L’accertamento delle condizioni terminali non dispensa il medico che l’abbia in cura dal dovere di assistere l’infermo”.

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facendo gravare su tale organo un problema di vita o di morte che prescinde dalla giurisdizione81. Ma che dire, poi, della scelta fatta a proposito dell’attribuzione della rappresentanza legale di interessi personalissimi e inderogabili dell’individuo a una cerchia determinata di soggetti82 con ciò contrastando il principio giuridico che a tali soggetti non può essere assegnata alcuna competenza legale, anche perché essi non possono essere per ciò solo i migliori tutori degli interessi del rappresentato. Tra l’altro, tra i soggetti legittimati a proporre opposizione, colpisce il riferimento ai ministri del culto cui appartiene presumibilmente l’infermo83. Infine, questo progetto, importa un onere per il moribondo di precostituirsi una difesa (es. mediante un atto scritto) contro le possibili future aggressioni del medico. Concludo l’analisi di questo progetto di legge con due riflessioni: in primo luogo, viene invertita la tradizionale e radicata presunzione di doverosità 81 Innanzitutto gli oppositori devono essere informati solo se “agevolmente reperibili” (art. 5) e inoltre possono proporre opposizione alla sospensione non oltre dodici ore dalla comunicazione al presidente del tribunale della circoscrizione del luogo di degenza dell’infermo, dandone notizia anche al medico dell’unità sanitaria locale. Nel caso in cui al medico dell’unità sanitaria locale non risulti alcuna opposizione, decorse le dodici ore dalla comunicazione dispone per iscritto l’interruzione della terapia (art. 7). 82 Questi soggetti ai sensi dell’art. 6 vengono individuati nei “[…] conviventi di età non inferiore a sedici anni, ovvero, in mancanza di essi, un ministro di culto cui appartiene, anche presumibilmente, l’infermo. Sono altresì legittimati gli ascendenti ed i discendenti in linea diretta ed i parenti collaterali, entro il secondo grado, dell’infermo, che siano di età non inferiore a sedici anni”. 83 Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., 467, lo definisce come una “trovata con finalità scopertamente accattivante, priva di ogni fondamento razionale e giuridico”. La relazione al progetto spiega che questo riferimento è stato fatto “in previsione della non rara ipotesi di terapia su persona che viva o sia sola. E poiché non è sempre possibile stabilire il culto di appartenenza (si pensi ad un pedone privo di documenti che sia stato investito o versi in fin di vita) si è fatto ricorso ad un presunzione di appartenenza” e aggiunge “si è tenuto conto delle ipotesi, non rare, di persone vittime di incidenti stradali o abbandonate ferite davanti agli ospedali e sprovviste di documenti: la ricerca di parenti sarebbe stata disagevole, se non addirittura impossibile, e quindi incompatibile con una decisione da prendere con estrema sollecitudine. D’altra parte, il più facile reperimento di un ministro del culto, assicura sufficienti condizioni di affidamento”, v. Relazione alla proposta di legge n. 2405, in RIML, cit., 396.

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dell’opera del medico. Il sanitario non ha più il dovere di apprestare le sue cure fino all’ultimo; è il paziente o, in sua vece, i conviventi a essere gravato dall’onere di esternare una volontà contraria a quella di morire. La formula con cui nel progetto si riconosce al paziente il rispetto alla sua scelta di volere sopravvivere per mezzo delle terapie di sostentamento sembrerebbe quella di una gentile concessione, affermando che “la volontà dell’individuo di sopravvivere mediante terapie di sostentamento, anche se non coincide con l’ampia visione della legge, rientra nella sfera della sua disponibilità e, come tale, non va ostacolata”84. Tutto questo stravolge la portata del principio naturale dell’in dubio pro vita, in nome dell’altro, nichilistico, dell’in dubio pro morte e attraverso l’espediente della presunzione del consenso si ha la “nazionalizzazione” dei malati ritenuti incurabili, così come la legge sui trapianti del 1975 ha “nazionalizzato” il cadavere85. In secondo luogo, questa proposta di legge converte l’eutanasia individualistica pietosa del caso singolo in una collettivistica eutanasia passiva di massa, che non ha più niente a che vedere né col diritto di non curarsi e di lasciarsi morire, né con la pietà del singolo caso, ma solo con l’utilità per la collettività e i congiunti. Si realizza, sotto la copertura dell’eutanasia passiva pietosa, l’eutanasia utilitaristica, economica e edonistica, dal momento che le sue reali finalità sono costituite dall’alleggerimento degli ospedali da persone economicamente inutili e dalla liberazione dei consociati dal peso dei congiunti ammalati86. 84 V. Relazione alla proposta di legge n.2405, cit., 395. 85 “Un nichilismo che appare affondare le radici ultime in una concezione torbida del mondo o, forse, in quell’inconscio senso collettivo di morte, di prevalenza del Thanatos sull’Eros, che sembra pervadere la nostra civiltà”, in Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., 468. 86 L’anno precedente alla proposizione della legge, in un sondaggio della M.A.C.N.O. di Milano, su un campione di 1000 persone, il 56,8% si era dichiarato favorevole all’eutanasia, il 34,5% contrario, l’8,7% incerto. A seguito della proposta, fu effettuato un altro sondaggio a cura dell’istituto di studi politici (I.S.P.E.S.) su un campione di 2000 adulti abitanti in 118

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Ciononostante, per alcuni, questa proposta di legge ha il merito di aver aperto la strada per una discussione e riflessione sull’eutanasia in sede parlamentare, avviando un processo che potrebbe portare ad un’iniziativa di riforma della legislazione87.

§11. IL TRATTAMENTO PENALE DELL’EUTANASIA DE IURE CONDITO. Nell’ordinamento italiano manca una disciplina specifica dell’eutanasia88, anche se la fattispecie dell’omicidio del consenziente – che incrimina gli atti di

comuni equamente distribuiti su tutto il territorio italiano. Il risultato fu che il 48% si dichiarò contrario in modo assoluto; il 24% favorevole; il 19,5% favorevole solo in presenza di casi disperati; l’8% non rispose. Da una lettura di questi dati possiamo dire che la proposta Fortuna spaventò gli italiani, riducendo i consensi nei confronti dell’eutanasia. 87 Così Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, in Quaderni della giustizia, 1986, II, 71. 88 Ciò a differenza dell’ordinamento spagnolo che, a seguito della riforma del nuovo codice penale nel 1995, ha previsto una regolamentazione specifica in materia di eutanasia. Infatti, la nuova disciplina, modificata, dell’aiuto e istigazione al suicidio contiene alcuni riferimenti espliciti al fenomeno dell’eutanasia, in particolare all’eutanasia attiva consensuale, prevista come ipotesi attenuata di cooperazione al suicidio. La norma di riferimento è l’art. 143 comma 4 che dice “Colui che determina o coopera attivamente con atti necessari e diretti alla morte di un altro soggetto, su richiesta espressa, seria ed inequivoca di questo, nel caso in cui la vittima soffra di una infermità grave che condurrà necessariamente alla morte, o che produca gravi patimenti permanenti e difficili da sopportare, sarà punito con la pena diminuita di uno o due gradi rispetto a quella prevista nei numeri 2 e 3 del presente articolo [aiuto e istigazione al suicidio]” con l’introduzione di questo comma per la prima volta si è riconosciuta rilevanza legislativa al fatto che la volontà di morire di una persona sia motivata dal desiderio di porre fine alle proprie sofferenze, dando risposta, così, a tutti coloro che sostenevano come ingiusta l’equiparazione che la precedente disciplina poneva tra condotte di aiuto al suicidio avvenute in un contesto eutanasico e quelle avvenute in assenza, invece, di infermità e sofferenza. La scelta legislativa, tuttavia, non è andata nel senso di attribuire un’assoluta rilevanza alle circostanze della sofferenza e dell’infermità in modo da poter escludere la responsabilità del partecipe, quanto nella direzione di prevedere una riduzione della pena rispetto alle condotte di cooperazione al suicidio non eutanasiche. Infine, il comma 4 dell’art. 143 regola la sola ipotesi eutanasia attiva (chiedendo infatti che gli atti eutanasici siano attivi e diretti alla produzione della morte, con seguente esclusione della tipicità delle condotte di eutanasia attiva indiretta e di eutanasia passiva) e consensuale (giacché viene considerato elemento essenziale della fattispecie una richiesta espressa, seria ed inequivoca, della vittima, escludendo, pertanto, dall’ambito di applicazione della norma l’eutanasia non consentita). V. in particolare Cagli, La regolamentazione giuridica dell’eutanasia in Spagna ed in Germania, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, Torino, 2003, 96.

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disposizione della propria vita manu aliena89 – assume un significato paradigmatico90. Infatti, affermata l’illiceità giuridica dell’eutanasia, sia attiva che passiva (ad eccezione dell’ipotesi dell’eutanasia passiva consensuale che si risolve in un rifiuto delle cure e perciò lecita), essa non può che assumere una rilevanza penale ed essere prevista come un delitto di omicidio. Questo, tuttavia, non toglie che l’eutanasia possa essere oggetto di una valutazione e di un trattamento penale differenziato e più benevolo rispetto all’omicidio comune; ciò, però, solo in presenza dell’ipotesi di eutanasia autenticamente pietosa (come delitto di pietà) che deve essere caratterizzata dall’esistenza, accertata, di specifici requisiti: a) soggettivi, e cioè il movente determinante, altruistico e non egoistico, della pietà; b) oggettivi, e cioè, in primis, l’insopportabilità o tormentosità del dolore fisico, per l’inefficacia dei mezzi antidolorifici; l’imminenza della morte; e, ovviamente, il consenso informato, espresso91 e valido. L’uccisione contro o in assenza di questo non è atto di pietà, ma atto di crudeltà e di comodità; c) di carattere esecutivo,

89 L’esecutore è da considerarsi come un semplice strumento materiale della volontà della vittima, e, pertanto, l’omicidio del consenziente, può essere assimilato, da un punto di vista sostanziale, al suicidio. In proposito, Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, Padova, 2005, afferma che si tratta nella sostanza di un suicidio per mano altrui, perché “la volontà, anche se non necessariamente l’iniziativa, del fatto materiale risale alla stessa vittima e perché il consenso deve essere fattore determinante della condotta dell’agente, in quanto senza di esso l’uccisione non si sarebbe verificata. Altrimenti si ricade nell’omicidio comune”. 90 Per quanto il termine eutanasia non ricorra nell’ambito dell’art. 579, “non deve tuttavia credersi che l’argomento sia stato dimenticato dal legislatore, il quale ha in realtà semplicemente ritenuto che non fosse necessaria alcuna norma particolare per tale ipotesi”, così Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, in Arch. pen., 1950, 382. L’A. riporta la Relazione Ministeriale al codice che, infatti, dice: “Quanto all’eutanasia, non c’è motivo di distinguere. Se il giudice ritiene che l’infermità, che affliggeva il sofferente, non ha determinato in lui deficienza psichica (art. 579, n. 2) tale da doversi ritenere invalido il suo consenso all’uccisione, sarà applicabile, nel concorso delle altre condizioni, la norma speciale sull’omicidio del consenziente; altrimenti l’uccisore dovrà punirsi come un omicida comune”. 91 Si ammette, in dottrina, l’efficacia anche del consenso tacito, purché inequivoco. Per quanto riguarda il consenso presunto per la dottrina maggioritaria, e come abbiamo più volte visto, esso è inammissibile.

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dovendo utilizzare, nell’atto eutanasico, mezzi idonei a rendere il passaggio dalla vita alla morte indolore, sereno, rapido, poiché una morte dolorosa, violenta, lenta, contrasta col motivo pietoso. In mancanza di questi requisiti ricadiamo nell’ambito di un delitto di comodità, caratterizzato da motivazioni utilitaristiche-egoistiche, di odio, di aggressività. Modi di esplicazione dell’atto eutanasico, quindi, sono: l’omicidio comune (senza richiesta o consenso del soggetto); l’omicidio del consenziente; l’aiuto al suicidio. Il trattamento penale dell’eutanasia pietosa consensuale, dunque, è particolarmente rigoroso, in quanto viene punita o come omicidio comune (art. 575 c.p.) o come omicidio del consenziente (art. 579 c.p.92). Infatti, la formulazione testuale dell’art. 579 pone notevoli problemi applicativi: innanzitutto si deve prendere atto del silenzio del legislatore sugli eventuali motivi di pietà della causazione della morte e sulla condizione di sofferenza del paziente. Inoltre, un ostacolo, difficile da superare, è costituito dalla validità del consenso sul quale, appunto, si fonda la fattispecie prevista dall’art. 579. Infatti, il terzo comma della disposizione in questione, disconosce espressamente la validità del consenso quando questo proviene da persona infradiciottenne, da persona inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica. Com’è evidente, queste sono condizioni che normalmente si riscontrano nei malati terminali che richiedono la morte, dato che in loro si ravvisa un grave deterioramento psicofisico determinato dai dolori insopportabili o dalla somministrazione di farmaci antidolorifici anestetizzanti. 92 Art. 579 c.p. “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’art. 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.

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Di conseguenza, in tali casi, le ipotesi di eutanasia attiva, integrano gli estremi dell’omicidio comune doloso93. Alcuni autori, senza dare rilievo alle reali condizioni della vittima partono da una presunzione: “è da presumersi che chi consente alla propria uccisione sia per ciò solo alterata di mente, e quindi incapace di un normale consenso, giacché il fatto di superare la forza inibitoria del più forte degli istinti, quello della propria conservazione, fa arguire un grave squilibrio psichico”94. Altri sostengono che il consenso prestato alla propria uccisione debba considerarsi per forza di cose invalido e ciò non tanto e non solo a causa delle condizioni di infermità in cui si trova, ma soprattutto per l’insidiosa opera istigatrice e persuasiva attuata dall’uccisore per indebolire le resistenze della vittima ed estorcere il suo consenso95. Per tutti questi autori, pertanto, “l’uccisione del consenziente non solo non appare razionalmente meno grave di qualsiasi altro omicidio doloso, ma talora 93 Caso famoso, in cui la giurisprudenza fu costretta a forzare il dato normativo, è stato quello di uno zio che, con un colpo di arma da fuoco, uccise per pietà il nipote, che gli era affidato, affetto da insufficienza mentale grave da idrocefalia congenita. La vicenda descrive un rapporto di grande affetto e di forti legami affettivi: il nipote era stato abbandonato dalla madre e l’imputato aveva sacrificato anche il proprio lavoro per dedicarsi al malato. Il giovane chiedeva di morire espressamente o comunque esprimeva questa grande disperazione. Nonostante le risultanze di una perizia secondo cui la vittima dell’omicidio era affetta da grave insufficienza mentale, la Corte affermò la validità di quel consenso, implicito, o tacito, prestato dalla vittima, in quanto dotata di una capacità intellettiva elementare. Trovò applicazione l’art. 579 c.p. V. Corte D’Assise di Roma, 10 febbraio 1983, in FI, 1985, II, 489. 94 La citazione è di Manzini, riportata da Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, in Critica penale e medicina legale, 1962, 132, il quale aggiunge “man mano che il malato perde la speranza di guarigione, comincia a vedere nella morte la liberazione delle sue pene. Il malato allora, in uno stato di vera e propria esaltazione mentale causata dalla sua infermità pronuncia frasi con le quali si augura di morire o anche esorta altri ad ucciderlo (- voglio morire – fatemi morire – non posso più resistere!). Ma in quelle frasi può ravvisarsi quel consenso inequivocabile e perfettamente valido, richiesto dal legislatore?”. 95 Così Cassiano, L’eutanasia, in Riv. pen., II, 1952, 362, “va pertanto esaminato con approfondita indagine il comportamento della vittima in ordine alla manifestazione del suo consenso, affinché questa non sia il risultato di un’accorta attività istigatrice dell’uccisore”. In merito si è pronunciata la Corte di Cassazione, 24 novembre 1947, in Giustizia penale, II, 1948, 15, per cui “è esclusa l’ipotesi preveduta dall’art. 579 c.p. quando il consenso si vorrebbe desumere dalle grida di aiuto e di invocazione della morte di chi si trovi in stato di estrema debolezza per lesioni precedentemente riportare”.

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si presenta anzi come particolarmente odiosa e criminosa, perché l’uccisore approfitta, quanto meno, della debolezza della vittima”96. Tuttavia, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, verificando essenzialmente la condizione concreta in cui si trova il malato, affermano che coloro che sono prostrati da gravi sofferenze fisiche, possono – non necessariamente devono – presentare delle situazioni psichiche tali per cui il consenso eventualmente prestato sarà invalido97. Per quanto riguarda gli eventuali motivi di pietà abbiamo rilevato come non siano stati presi in considerazione dal legislatore98. Questi potranno essere valutati ai fini dell’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, del c.p.99, ovverosia l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale100, 96 Così Manzini cit. da Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, cit., 132. 97 In giurisprudenza v. Corte Di Assise di Trieste, 2 maggio 1988, in FI, 1989, II, 184: “Non integra gli estremi del reato di omicidio comune aggravato, bensì del reato di omicidio del consenziente, l’uccisione della propria madre colpita da affezione morbosa inguaribile […] quando risulti accertato che l’infermità non ha determinato nella vittima una deficienza psichica tale da renderne invalido il consenso”. La sentenza della Corte di Cassazione, 18 novembre 1954, in Arch. pen., II, 1955, 123, si caratterizza per una posizione di accesa condanna verso l’eutanasia e per una netta affermazione della vita umana come valore che trascende la sfera individuale per assumere una dimensione collettiva, ma si conclude per una trattamento più mite per l’imputato affermando “perché ricorra il reato di cui all’art. 579 è necessario […] la prova rigorosa che l’infermità del sofferente non abbia determinato in lui una deficienza psichica tale da rendere invalido il consenso”. 98 Esempi di legislazioni che hanno preso esplicitamente in considerazione il motivo di pietà fino a farne una circostanza attenuante per l’omicidio volontario sono: il codice norvegese, che nel §235 comma 2 prevede che, oltre i casi di omicidio del consenziente, la pena prevista per l’omicidio doloso può essere attenuata se “l’autore per pietà ha privato o ha collaborato a privare della vita un malato senza speranze”; e il codice polacco che all’art. 227 si limita a considerare come circostanza attenuante il motivo di pietà senza ulteriori considerazioni. V. Porzio, Eutanasia, in Enc. Dir., XVI, 1967, 109. 99 “Gli eventuali motivi di pietà, da accertarsi sempre con la massima circospezione e da valutarsi con una intelligente diffidenza, potranno essere apprezzati all’effetto dell’applicazione della attenuante generale di cui all’art. 62 com. 1”; così la Relazione del Guardasigilli al codice Rocco riportata da Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, cit., 382. Secondo Virotta, I mostri, gli incurabili e il diritto alla vita, in Arch. pen., 1963, I, 214 “l’attenuante competerà per esempio al padre naturale, al fratello, all’ascendente, ecc., mentre sarebbe eccessivo riconoscere a chiunque la diminuente. […] Non riteniamo che l’attenuante competa al medico, il quale in ogni caso ha il dovere di prolungare la vita salvo l’esistenza di particolari legami col paziente che giustifichino l’omicidio per amore”. 100 Il motivo di particolare valore morale è quello meritevole di particolare approvazione secondo la coscienza etica umana (es. amore materno); mentre il motivo di particolare valore

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e all’art. 62 bis (attenuanti generiche)101. Pertanto, se il motivo di pietà porta ad uccidere chi non ha efficacemente consentito, non può sussistere il titolo dell’art. 579 c.p., per mancanza del suo presupposto, ma si applica quello dell’omicidio doloso comune sia pure con l’attenuante ex art. 62 c.p. Tuttavia, il richiamo a questa attenuante non mitiga il rigore di questa disciplina se pensiamo che, da un lato, la giurisprudenza della Cassazione si è costantemente orientata nel senso di ritenere che ai fini della sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p. l’azione deve essere determinata da motivi di spiccata nobiltà ed elevatezza, tali da superare la media dei sentimenti umani102; dall’altro la stessa attenuante può risultare soccombente, nel giudizio di bilanciamento, rispetto a quelle aggravanti, che in questi casi

sociale è quello che viene valutato favorevolmente secondo le concezioni e le finalità della comunità organizzata e che, quindi, è più condizionato dalle contingenze storiche (es. patriottismo). V. Mantovani, Diritto penale, Padova, 2001, 428. 101 La Cassazione ha affermato che il motivo di pietà, con cui si suole giustificare l’eutanasia, potrà essere dal giudice apprezzato “soltanto agli effetti della concessione delle attenuanti generiche e di quella di aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale, trattandosi di un fatto meritevole indubbiamente di speciale considerazione”. Ma aggiunge che “non potrà mai avere efficacia discriminante sotto il profilo che l’agente non abbia avuto coscienza dell’antigiuridicità del fatto, spinto dalla volontà di far del bene”. In tal modo la Cassazione ha preso posizione rispetto al perenne problema del dolo, e cioè se esso abbracci anche la consapevolezza del disvalore del fatto. E quindi, contro coloro che, fra gli argomenti difensivi in tema di eutanasia, prospettano il fatto che in tale ipotesi mancherebbe il dolo per mancanza di coscienza dell’antigiuridicità del fatto, viene obiettato che questa è estranea al concetto di dolo, concepito dal codice penale esclusivamente in termini di previsione e volontà dell’evento (art. 43 c.p.). Così Cassazione, 18 novembre 1954, cit.,123; in dottrina v. Cassiano, L’eutanasia, cit., 363. 102 Infatti, in senso contrario all’applicazione della circostanza attenuante dell’art. 62 si è espressa la Cass. Pen., Sez. I, 7 aprile 1989, in RIML, 1992, 719, che ha sostenuto che l’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale “non può essere concessa in tema di eutanasia mancando ancora nei confronti di questa quel generale apprezzamento positivo dal punto di vista etico-morale da parte della società attuale, necessario per la qualificazione del motivo come di ‘particolare valore morale o sociale’”. Nello stesso senso Corte D’Assise di Catania, 24 ottobre 1977, in Giurisprudenza di merito, 1978, II, 1210 ss., “per la ricorrenza dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale non basta che il movente dell’azione sia suscettibile di una valutazione etica positiva, ma è necessario che l’agente abbia operato per realizzare lo scopo spiccatamente altruistico e nobile, conforme alla morale ed ai costumi del tempo e del luogo del reato commesso, sicché non può dar luogo all’attenuante in questione la necessità di curare una persona della propria famiglia, e quindi, l’esigenza di lenire le sue sofferenze”.

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possono consistere nella premeditazione, nei rapporti di parentela, nell’uso, come strumento di morte, di sostanze venefiche, tutte punibili con l’ergastolo. Quindi, astrattamente, l’omicidio aggravato potrebbe essere punito con l’ergastolo. Non manca, nondimeno, chi ritiene che la pietà agisca in senso opposto nel senso che il motivo di pietà, col prevalere sulla naturale e originaria avversione dell’uomo alla soppressione del proprio simile, rivela una personalità sanguinaria103. Non è mancato, tuttavia, chi, nel cercare di risolvere il problema alla stregua degli ordinamenti ordinari offerti dal sistema penale, ha prospettato la possibilità di applicare la scriminante dello stato di necessità al caso dell’eutanasia; tale scriminante ricorre quando l’agente si trovi costretto ad agire dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona104. La tendenza della dottrina maggioritaria105 è, ciò nondimeno, orientata in senso negativo; il fatto, pur venendo commesso per salvare altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, non può essere scriminato per

103 Così Manzini, Trattato di diritto penale, VIII, 90 e Cassiano, L’eutanasia, in Riv. pen., II, 1952, 358. 104 Art. 54 c.p. “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. 105 V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., 106; Virotta, I mostri, gli incurabili e il diritto alla vita, 211; Id, L’eutanasia, in Noviss. Dig. It., XI, 1957, 883; Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 240 ss. che afferma l’assoluta estraneità di tale causa di giustificazione al campo dell’attività medico-chirurgica. In giurisprudenza, Corte D’Assise di Catania, 24 ottobre 1977, cit., “l’eutanasia infrange il nesso di proporzione […] in quanto pone a confronto due opposte esigenze, entrambe apprezzabili, quella di lenire le sofferenze altrui e quella di rispettare la vita umana, postulando un giudizio di valore che, secondo la morale e il costume, non può che dare la prevalenza al rispetto della vita umana”.

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mancanza dell’altro requisito, cioè quello della proporzione tra il fatto stesso e il male minacciato, perché non si può salvare una persona uccidendola106. Alcuni autori, infine, hanno ritenuto quale unica via praticabile de iure condito il ricorso all’istituto della grazia (cioè un mezzo di estinzione, riduzione o commutazione della pena individuale, ex art. 174 c.p.) da concedere all’omicida per pietà dopo la condanna. Per i sostenitori di questa tesi, questa rappresenterebbe l’unica soluzione giuridica in grado di compendiare sia le esigenze degli ordinamenti positivi, mantenendo il giudizio di disvalore sul fatto (la grazia come momento dell’idea di individualizzazione del giudizio), sia quelle della coscienza dei singoli per un atto di comprensione verso il soggetto omicida per pietà107. La critica mossa all’uso della grazia in materia di eutanasia è che, a parte l’an e il quando della sua concessione, rischierebbe di determinare, proprio per la sua natura di provvedimento individuale, inaccettabili discriminazioni soggettive e, pur costituendo un espediente di opportunità nell’attuale realtà legislativa, eviterebbe il problema, senza affrontarlo e risolverlo108. Quindi, e per concludere, allo stato attuale, l’eutanasia pietosa costituisce sempre un delitto di omicidio. Se essa è consensuale sarà applicabile l’art. 579. Se, invece, il malato non ha manifestato alcuna volontà o se il suo consenso

106 Per quanto riguarda il ricorso alla scriminante dell’adempimento del dovere (art. 51 c.p.) da parte del medico che pratichi l’eutanasia, anch’essa è da escludere in quanto dovere del medico è di curare, non di uccidere. 107 Per tutti v. Porzio, Eutanasia, cit., 113 che afferma “non potendo transigere, anche davanti a situazioni eccezionali come quelle dell’eutanasia, sui principi, il diritto ha, proprio con l’istituto della grazia, la possibilità di intervenire senza sacrificare quei principi e senza tradire la sua funzione che è quella di essere presente, di guardare a tutti i limiti cui la condizione dell’esistenza umana può spingere l’uomo”. 108 Così Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, 12; Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia; l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1014 per il quale “pensare di risolvere il problema dell’eutanasia ricorrendo all’istituto della grazia significa, con tutta evidenza, chiedere troppo a un istituto destinato a scopi ben più modesti”.

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risulta invalido, l’eutanasia costituisce omicidio comune, eventualmente attenuato a norma dell’art. 62, comma 1. Breve attenzione, infine, vorrei rivolgere ad un’altra modalità tramite la quale si manifesta la pratica eutanasica, ovverosia al suicidio assistito109, che riguarda quelle ipotesi in cui la morte è causalmente riconducibile al paziente, il quale si è avvale, nella realizzazione del suo proposito, dell’apporto materiale o psicologico del medico; queste ipotesi richiamano l’applicazione del delitto di istigazione o aiuto al suicidio110. Le ipotesi di eutanasia, riconducibili ora ai delitti di istigazione/aiuto al suicidio ora a quelli di omicidio del consenziente, si avvicinano fortemente sotto il profilo della comune spinta motivazionale dell’agente, ma si differenziano nell’attuazione materiale di questa volontà: nell’istigazione/aiuto al suicidio, la volontà di morire, oltre che essere espressa è anche realizzata dalla stessa vittima, mentre nell’omicidio del consenziente, la volontà del morente si realizza solo per il tramite dell’intervento del terzo111. Nei rapporti con l’omicidio del consenziente, è la condotta di agevolazione che sembra segnare una linea di demarcazione tra partecipazione al suicidio e omicidio con il consenso della vittima; infatti l’agevolazione individua il tipo di 109 Per quanto riguarda la valutazione del suicidio nel nostro sistema penale v. supra §.5 nota 10. 110 Art. 580 c.p. “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito al suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo derivi una lesione personale grave o gravissima”. Possiamo rilevare, tuttavia, che l’istigazione è, nel nostro paese, quasi inapplicata. In altri paesi hanno ricevuto eco casi di suicidi di massa su istigazione di capi di sette religiose. 111 In questo senso, Cassazione, 6 febbraio 1998, in Gius. pen., 1998, 449, che ha sostenuto che in entrambe le fattispecie si punisce un nucleo comune, dato dal cagionare la morte della vittima, ma questo cagionare si differenzia per il diverso grado di efficienza causale di ciascuna delle condotte. Per cui, si avrà “omicidio del consenziente, nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi […] mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria”.

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partecipazione del terzo estraneo al suicidio altrui, includendo la sola attività di colui che in qualsiasi modo interviene a facilitare l’esecuzione del proposito suicida, tuttavia senza prendere materialmente parte alla realizzazione degli atti esecutivi112. Avuto riguardo alle situazioni eutanasiche, le condotte maggiormente ricorrenti si sostanziano nella prescrizione di farmaci, rifornimento di essi o di qualsiasi altro mezzo idoneo a togliersi la vita (es. fornire la pillola mortale all’ammalato, o aiutare il malato, che lo richiede, a versarsi e a bere il veleno contenuto nel bicchiere).

112 Per tutte queste osservazioni v. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 175. L’A. specifica, inoltre, che se colui che agevola interviene come partecipe attivo nella fase esecutiva e da lui dipende la realizzazione dell’evento, si potrebbe avere, nel caso, la configurazione del reato più grave di omicidio del consenziente, sebbene la morte sia riconducibile causalmente non soltanto all’agevolatore, ma anche alla stessa vittima.

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CAPITOLO IV

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE E DE IURE CONDENDO Sommario: 13. Proposte de iure condendo. – 14. Conclusioni.

§12. PROPOSTE DE IURE CONDENDO.

Le discussioni dottrinarie e soprattutto le decisioni giudiziarie hanno posto in luce l’inadeguatezza dei risultati raggiunti e raggiungibili de iure condito per la soluzione dei casi di eutanasia, soprattutto di fronte alla constatazione che queste soluzioni caricano di un’eccessiva responsabilità il solo giudice. Infatti, nelle sentenze italiane (ma anche straniere)1 trapela spesso il dilemma del giudice di infliggere una pena che, in relazione a certe situazioni, viene considerata, dalla coscienza propria e sociale, come esorbitante e iniqua rispetto all’entità del fatto o di disapplicare in parte la legge attraverso espedienti (ad esempio ravvisando consensi validi, ignorando aggravanti, creando situazioni attenuanti) o pervenendo ad assoluzioni che non sono giustificabili sotto il profilo giuridico e della generalprevenzione. Si giunge, pertanto, alla conclusione che l’unica soluzione possibile, al fine di fronteggiare le lacune del diritto penale nei confronti dell’eutanasia quale fenomeno sempre più emergente, sia quella della sua riforma, tenuto conto del fatto che l’agente non agisce con lo stesso impeto del lucido omicida, ma agisce per pietà e misericordia in presenza di una particolare e drammatica situazione. Ecco, dunque, che si prospettano ipotesi affinché, alla luce di queste considerazioni, ai fini sanzionatori, il reo possa beneficiare di un trattamento più benevolo, ritenendo eccessiva una sua equiparazione a chi uccide frigido pacatoque animo. 1 Per una casistica delle sentenze italiane e straniere v. Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere. Diritto di morire, Padova, 1982, 37.

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Vengono, così, avanzate delle proposte de iure condendo come: l’abbassamento dei minimi di pena previsti per il reato di omicidio comune; la creazione di una norma speciale ed autonoma che disciplini l’eutanasia pietosa consensuale come ipotesi di reato specifica; l’eutanasia come circostanza attenuante specifica del reato di omicidio (comune o del consenziente); la completa non punibilità, che sancirebbe il diritto dell’uomo a scegliere liberamente e consapevolmente il tempo e il modo della propria morte.

a) Abbassamento dei minimi di pena per il reato di omicidio2: è la proposta di riforma meno radicale. È opportuno rilevare come legislazioni di altri paesi abbiano previsto, per l’omicidio, pene notevolmente inferiori, nel minimo, rispetto a quelle del nostro codice penale (es. codice olandese, danese, portoghese, islandese), che esprimono l’impronta autoritaria di un codice nato sotto l’influsso di una concezione autoritaria di uno Stato ormai superata e che continua a sopravvivere in un mutato contesto politico-costituzionale solo a causa dell’inerzia del legislatore; di conseguenza, in assenza di un’autonoma disciplina penale dell’eutanasia, tali sistemi potrebbero evitare l’applicazione di pene eccessive rispetto alla situazione concreta. Perciò, l’abbassamento dei minimi di pena previsti per l’omicidio (con una parallela e opportuna modifica della sospensione condizionale della pena) consentirebbe di mantenere salvi i vantaggi dell’attuale regolamentazione, eliminandone i gravi inconvenienti. Infatti, da una parte, rimarrebbe ribadito e salvaguardato il principio dell’indisponibilità della vita umana: mantenendo ferma l’illiceità penale dell’eutanasia, la minaccia della pena, nella sua funzione generalpreventiva, continuerebbe a costituire un ostacolo al diffondersi del fenomeno eutanasico3. 2 Per tutto v. Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, 48. 3 “Impedendosi che con una qualsiasi deroga si aprano spaventose falle, sulla china delle quali si rischierebbe, poi, di scivolare verso mostruose realtà”, v. Mantovani, op. cit, 49.

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Dall’altra parte, si eviterebbero gli eccessi di assoluzioni ingiustificate o di punizioni esagerate, non sempre condivise dalla coscienza sociale. L’idea di fondo di questa proposta è che la carica positiva che i motivi di pietà possono dare all’eutanasia non è sufficiente a far venir meno il disvalore del fatto, ma solo a rendere più tenue il giudizio di riprovevolezza dell’autore.

b) Norma speciale e autonoma per il reato di eutanasia4: la dottrina ritiene che anche questa possibilità, pur mantenendo fermo il carattere antigiuridico della condotta eutanasica, sia in grado di conciliare la protezione della vita umana con le esigenze di mitezza della pena in ipotesi particolari. Più in particolare la norma incriminatrice dovrebbe prevedere la comminazione di pene non elevate e con un minimo edittale basso, così da consentire al giudice di meglio adeguare la pena concretamente applicabile alle diverse situazioni concrete fino a consentire l’applicazione, in casi estremi, della sospensione condizionale della pena e dell’affidamento in prova del reo. Questa soluzione permetterebbe al legislatore di affrontare e colmare alcune lacune che impediscono al sistema vigente di disciplinare nuove situazioni che sono sempre più meritevoli di interesse (e questo può sostenersi per tutte quelle ipotesi, oltre l’eutanasia, che sono oggetto di bioetica; pensiamo ad esempio alla fecondazione artificiale). Quindi non più ricorso ad interpretazioni analogiche per affrontare tematiche non espressamente previste, ma un adeguato intervento sul piano della tipicità, rispettando il principio di legalità5.

4 V. Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, cit., 47; Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia. L’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1014; Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità, in Indice penale, 1998, 515; Canestrari, Le diverse tipologia di eutanasia: una legislazione possibile, in RIML, 2003, 5, 751; Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, in Arch. pen., 1950, 383; Virotta, I mostri, gli incurabili e il diritto alla vita, in Arch. pen., I, 216. 5 Per queste ultime osservazioni v. Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità, cit., 516.

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Ma da taluno viene sottolineato come questa eventuale scelta, seppur opportuna in via di principio, in via di fatto risulterebbe una strada ardua da percorrere, dovendo procedere ad una formulazione legislativa dell’eutanasia sufficientemente precisa e rigorosa (dovendo, ad esempio, descrivere con precisione i presupposti fattuali: uso di mezzi indolore, grave stato di prostrazione, irreversibilità del processo letale, prossimità della morte), tale da poter evitare ogni possibile processo di dilatazione della fattispecie e di estensione del regime di favore a vantaggio di categorie affini6.

c) Eutanasia come circostanza attenuante del reato di omicidio: alcuni autori7, mossi dalla stessa preoccupazione di salvaguardia dei principi e di mitigazione della pena, hanno previsto questa soluzione, con una riduzione di pena (fino ad un terzo) notevolmente più consistente di quella oggi effettuabile sulla base dell’applicazione dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, con l’esclusione (come è previsto dall’art. 579 c.p.) o la possibilità di esclusione delle eventuali aggravanti concorrenti. Questa proposta risente di quanto enucleato dallo Schema di delega per l’emanazione di un nuovo codice penale (1992). Infatti, l’art. 59 nn. 1 e 3 del c.d. Progetto Pagliaro ha previsto una specifica circostanza – pur senza precisarne l’effetto attenuante – quando il fatto sia commesso “con mezzi indolori e per esclusivo 6 Così Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, cit., 49, il quale, aggiunge: “Tutto ciò nella fiduciosa – ma forse illusoria – attesa, da più parti prospettata, che la medicina possa vincere, se non la morte, la malattia, la deformità, almeno definitivamente il dolore. Quel dolore che costituisce la spinta alla eutanasia pietosa e la vittoria sul quale svuoterebbe di contenuto il problema giuridico dell’eutanasia per il venir meno del suo stesso oggetto: i fatti della uccisione pietosa”. 7 V. Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, in Critica penale e medicina legale, 1962, 137; Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, in Quad. Giust., 1986, II, 69; Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia, cit., 1014; Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., 463, che, come per l’ipotesi della configurazione dell’eutanasia come reato autonomo, rileva questo inconveniente: “La configurazione dell’eutanasia pietosa consensuale come reato autonomo o, meglio, come attenuante richiede una formulazione legislativa rigorosa, per assicurare che tale eutanasia resti sempre un problema di “caso concreto” di omicidio e per evitare che finiscano, fatalmente, per passare, attraverso l’ipotesi privilegiata, fatti estranei alla autentica eutanasia pietosa: l’eutanasia su larga scala”.

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motivo di pietà verso la persona incapace di prestare un consenso valido, la quale per ragioni di malattia si trovi in irreversibile condizione di sofferenza fisica insopportabile o particolarmente grave, quando sia stata constatata l’impotenza dei trattamenti antalgici”8.

d) Legalizzazione dell’eutanasia attiva consensuale: a sostegno di questa scelta viene riportato il rilievo e il rispetto da attribuire all’autodeterminazione dei pazienti che chiedono di morire; e tale argomento assume rilievo nei confronti di un malato terminale che non è in grado di far cessare da solo la propria vita9. Quindi, questo indirizzo della dottrina rivendica la necessità di 8 V. Canestrari, Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione possibile, cit., 751. 9 Sotto il profilo comparatistico, anche in paesi a noi vicini si sono avviate iniziative di riforma della legislazione, fallite, volte a legittimare l’eutanasia attiva. Un esempio è costituito dal Voluntary Euthanasia Bill introdotto alla Camera dei Lords nel 1969 da lord Raglan, il cui obiettivo era quello di autorizzare i medici a dare l’eutanasia ai pazienti che l’avessero richiesta. La condizione fondamentale era che il paziente fosse affetto da grave malattia o da un deterioramento fisico ritenuti incurabili e capaci di arrecare al paziente insopportabili dolori o di renderlo inetto a una vita razionale. Il morente doveva essere adulto e mentalmente responsabile e doveva aver firmato, in presenza di due testimoni, una dichiarazione con la quale chiedeva, trovandosi nelle condizioni dette, di essere soppresso mediante eutanasia, in tempi e circostanze da lui indicate o, se incapace, a discrezione del medico curante. Nella stessa dichiarazione il paziente chiedeva che non gli venissero applicate misure rianimatorie per riportarlo alla coscienza o per prolungargli la vita. Il Bill fu respinto dalla House of Lords con 61 voti contro 40. Altro esempio è dato da ciò che è accaduto nel Cantone di Zurigo nel 1977: i cittadini promossero referendum popolare per legittimare l’eutanasia attiva in determinate condizioni: il paziente, in sintesi, doveva essere affetto da malattia incurabile, dolorosa e sicuramente mortale. Avrebbe dovuto chiedere per iscritto di essere soppresso da parte di un medico titolare di diploma federale. Questa iniziativa raccolse 203.148 voti favorevoli e 144.822 voti contrari, nel referendum del 25 settembre 1977. Essa, tuttavia, fu respinta all’unanimità da una commissione nazionale di esperti e successivamente dal Consiglio Nazionale Federale il 6 marzo 1979. V. Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, cit., 70; l’A. afferma che: “Se i sistemi penali assumono certi specifici contenuti e non altri, non è per un capriccio del legislatore, ma perché il detentore del potere normativo avverte la necessità di apprestare tutela a valori connessi con l’esistenza del sistema sociale, tra i quali il bene della vita assume – e non può che assumere – un valore primordiale ed irrinunciabile”. È recente, 12 maggio 2006, la proposizione al Parlamento inglese della legge, proposta da Lord Joffe, che prevede la legalizzazione della morte assistita, sulla scia della vicenda di Diane Pretty, malata di paralisi progressiva che espresse il desiderio di suicidarsi con l’assistenza materiale del marito (la donna si rivolse all’autorità giudiziaria; il suo caso approdò alla Corte dei Diritti dell’Uomo istituita dal Consiglio d’Europa. La donna viene sconfitta anche a Strasburgo, che in quell’occasione ha riconfermato il principio di inviolabilità della vita umana). Il disegno di legge, a seguito di un dibattito di sette ore, è stato bocciato dalla Camera dei Lords con 148 voti contro 100. Più dettagliatamente per il caso Pretty v. Tassinari, Profili penalistici dell’eutanasia

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una legge che, con il riconoscere il diritto dell’uomo di scegliere il modo e il tempo della propria morte, identifichi l’eutanasia consensuale come fatto lecito e, in quanto tale, differente dall’omicidio10. La tesi della liceità della eutanasia attiva comporta la rinuncia a una concezione sacrale della vita per rimarcare l’importanza anche della sua dimensione qualitativa: “speculare alla rottura del tabù si pone la conclamata astensione del pubblico dalla sfera delle scelte private dei cittadini”11. Ognuno deve poter decidere da solo, senza alcuna interferenza da parte dello Stato; le leggi di uno Stato laico e pluralista non dovrebbero rispecchiare una determinata concezione etica ormai non più universalmente condivisa, ma costituire uno strumento di coesione tra le diverse concezioni della vita che convivono all’interno della società12. D’altra parte è necessario tener conto anche degli effetti che possono derivare da una legalizzazione del fenomeno eutanasico13. Innanzitutto la legalizzazione dell’eutanasia urterebbe con la lettera e lo spirito della Costituzione italiana nella sua essenza personalistica, e , parimenti, con negli ordinamenti anglo-americani, in AA.VV, Eutanasia e diritto. Confronto fra discipline, a cura di Canestrari-Cimbalo-Pappalardo, Torino, 2003, 119. 10 V. Pappalardo, Eutanasia e soppressione dei mostri, in Giust. pen., I, 1972, 270 : “In un mondo in cui il progresso si accanisce lodevolmente contra la miseria, la fatica ed il dolore, il divieto dell’eutanasia è un anacronismo crudele. È crudele, nello stesso modo, sapere che una non-coscienza che si può sopprimere senza danno e senza dolore soggettivo, si avvia, per nostra colpa, a divenire una coscienza eternamente sofferente, frustrata, priva per sempre di libertà e di gioia di vivere”; e in epoche passate: Del Vecchio, Morte benefica, Torino, 1928, 88, Ferri, L’omicidio-suicidio, Torino,V ed., 1925. 11 Così Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, in Teoria del diritto e dello Stato, 2002, 2, 404. 12 Così Neri, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, ed. Laterza, Roma-Bari, 1995, 132. Rimoli, Laicità, in Encicl. Giur., Treccani, XVIII, Roma, Treccani, 1995, 1, definisce la laicità dello Stato come “neutralità degli apparati pubblici dinanzi alle istanze emergenti di tempo in tempo dalla comunità: lo Stato laico si concepisce come quello che opera quale punto di riferimento di ideologie e culture diverse senza assumerne alcuna come propria, ma garantendo le condizioni istituzionali del loro conflitto e della composizione di questo: ossia il dialogo. Lo Stato laico costituisce l’inveramento istituzionale di quella regola laica della salvaguardia dei diritti di libertà intesa come norma di coesistenza di tutte le filosofie e di tutte le religioni”. 13 V. §.8.

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l’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo14, che è parte integrante del nostro ordinamento e che è dotata di un valore, secondo quanto si è propensi a ritenere, superiore a quello della comune legge ordinaria, cioè di quel tipo di legge di cui si servirebbe il legislatore che volesse dichiarare l’impunità dell’eutanasia. La liberalizzazione dell’eutanasia finirebbe per aprire una breccia nel divieto di uccidere; sarebbe molto facile che l’eutanasia volontaria si possa trasformare, prima o poi, in eutanasia non consensuale, tutte le volte in cui si arrivi a presumere il consenso della vittima. È il rischio dei c.d. “passi successivi”, cioè della progressiva ed inarrestabile estensione della pratica a situazioni in principio escluse. Questo rischio provocherebbe, a livello di psicologia collettiva, effetti disastrosi in termini di perdita di sicurezza, legati alla messa in discussione del primordiale tabù per l’uomo: il divieto di uccidere un proprio simile15. Il percorso su cui si fonda il ragionamento dei “passi successivi” è quello per cui da una scelta, oltre alle conseguenze volute e desiderate, possono derivare anche conseguenze non volute e indesiderabili; legalizzare l’eutanasia potrebbe portare, nel futuro, ad operazioni di massa nei confronti degli individui più deboli, in funzione di strumento repressivo di annientamento di tutti coloro la

14 La Convenzione è stata resa esecutiva con l. 4 agosto 1955 n. 848 e entrata in vigore per l’Italia il 26 ottobre 1955. L’art. 2, rubricato ‘Diritto alla vita’, così dispone: “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena. […]”.V. supra §.5. 15 Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 230, rileva come anche i sostenitori della legalizzazione dell’eutanasia e, in generale, coloro che sono favorevoli al principio della libera disponibilità della vita, affermano che, pur essendo l’eutanasia in via di principio perfettamente lecita moralmente, è opportuno che venga vietata a causa delle “disastrose conseguenze sociali che si verificherebbero a seguito di una sua legalizzazione. […] Questo argomento, che è di carattere esclusivamente empirico, giunge alla giustificazione di una assoluta penalizzazione delle condotte eutanasiche a causa del disastro sociale che la configurazione di eccezioni al generale divieto di uccidere e di disporre della vita umana comporterebbe”.

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cui vita è ritenuta non degna di essere vissuta, anche senza o, addirittura contro, la loro volontà. Altre conseguenze riconducibili a una possibile legalizzazione possono essere così sintetizzate: in primo luogo, l’indebolimento dell’impegno a fornire un’adeguata assistenza sanitaria ai morenti, cioè tutte le cure palliative praticabili. È difficile, infatti, pensare ad una politica sociale che preveda onerosi costi in una duplice direzione: da una parte, l’attuazione di una legge che consenta l’eutanasia con rigorose garanzie procedurali fondate su complessi accertamenti, dall’altra un rafforzamento delle strutture destinate alla cura delle fasi terminali della vita. In secondo luogo, l’eventualità che le scelte dei soggetti più deboli, malati terminali o anziani inabili, possano essere influenzate da parte dei familiari o della società, al fine di liberarsi dei costi, non solo economici, ma anche umani, degli infermi; infatti, l’eventuale riconoscimento dell’eutanasia potrebbe innescare meccanismi psicologici e sociali che avrebbero ricadute proprio sui diretti interessati. Infine, ne potrebbe uscire scosso il rapporto fiduciario medico-paziente. È stato sottolineato, infine, che parlando di eutanasia il problema è se possa esistere una legge ordinaria dello Stato, con le caratteristiche tipiche della legge (generalità, astrattezza, formalismo, il carattere inevitabilmente burocratico) in grado di gestire situazioni ambigue ed estreme come quella eutanasica. La preoccupazione è che qualsiasi legge eutanasica possa arrivare a dilatare arbitrariamente il potere dei medici, possa sottrarre la morte al carattere di tragica eccezionalità che essa possiede fino a farla divenire una procedura standardizzata16.

16 Per questa posizione v. D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 37. L’A. sostiene che “Sono convinto che gestire casi simili attraverso lo strumento tipico del diritto, quello della legge, e in particolare di una legge permissiva, equivalga a dare una risposta sbagliata a problemi reali. […] I problemi

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In conclusione, il grido d’allarme alla legalizzazione dell’eutanasia lo lancia il Manzini quando dice: “Quale moltitudine di criminali pietosi balzerebbe fuori dalle chiudende apprestate dalla legge penale, ove una norma giuridica dichiarasse lecito o indifferente l’omicidio commesso per motivi di pietà”17 .

§13. CONCLUSIONI. Nel corso di questo lavoro, abbiamo visto che quello dell’eutanasia è un tema complesso, nel quale vengono inquadrati numerosi “sotto-problemi”. In definitiva, possiamo dire che il ricorso alla pratica eutanasica emerge come conseguenza del modo in cui nella nostra epoca viene concepita la morte. Se la morte, oggi, costituisce un problema18, è perché nella società attuale non solo l’exitus, ma l’intero processo che dalla malattia conduce alla morte non ha più nulla di naturale; si parla, a proposito, di “medicalizzazione” della morte19, per indicare quanto la tecnologia medica abbia assorbito settori

eutanasici sono sempre problemi estremi; ma la legge non è adatta a risolvere simili problemi. La legge esiste per governare e regolare situazioni ordinarie, non situazioni di eccezione. E le situazioni eutanasiche sono sempre situazioni di eccezione, perché ciascuna è dotata di un profilo individuale, irripetibile, non analogabile a nessun altro profilo”. 17 Manzini, Omicidio del consenziente, in Trattato di diritto penale italiano, VIII, 103. Cassiano, L’eutanasia, in Riv. pen., II, 1952, 364, così aggiunge: “Il potere divino evangelico nelle sue facoltà sovrumane ridava la vita ai paralitici e ai lebbrosi, la scienza medica moderna, illuminata dalla fede, si avvia a grandi passi, con le sue instancabili ricerche e con i suoi apprezzabili risultati, verso un più radicale risanamento fisico dell’umanità. Che la morale e il diritto, nell’ambito delle loro finalità, fiancheggino codesta opera risanatrice per sbarrare definitivamente il passo alle funeste e dilaganti conseguenze dell’eutanasia”. 18 Ogni civiltà ha sempre manifestato un diverso atteggiarsi innanzi al mistero della morte. Lo storico Philippe Ariès, cit. da Veronesi, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Milano, 2005, 13, ha suddiviso in alcune tipologie il diverso modo di concepire la morte: nel Medioevo si ha la cosiddetta “morte addomesticata”, perché il terrore dell’ignoto era esorcizzato da una profonda fede nella resurrezione e la morte veniva accettata con questa speranza ultraterrena. Più tardi, con l’affermazione dell’individuo si cerca di trovare nella morte una specie d’innalzamento della singola personalità; il corpo diventa polvere e l’anima attinge la perfezione. Con il Romanticismo, la morte diventa la morte dell’altro, e l’aldilà diventa il luogo dove si ricongiungono gli affetti. La fine della vita, nella visione romantica, viene esaltata come qualcosa di bello e di comunione con la natura. 19 In questo senso, Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Cles, 1977, 222.

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tradizionalmente affidati a religiosi o a medici di famiglia che si limitavano ad un’amorevole e caritatevole assistenza del morente; una morte dissociata dai meccanismi naturali che l’avrebbero provocata a breve termine e che tende a diventare l’eccezione rispetto a quella artificiale. Il morire, da evento necessario e ineluttabile, diviene un processo gestibile, una procedura mediata dall’inserimento delle decisioni di almeno due soggetti, il titolare del bene della vita e il medico, fino alla possibilità della programmazione della propria disattivazione; la relazione vita-morte diviene l’oggetto di una modificazione programmabile. Si ha un’appropriazione della vita da parte della tecnologia; un accanimento contro la vita20. Siamo di fronte a una scienza medica che cura sempre di più, ma guarisce sempre di meno e i progressi dell’ars medica rendono, oggi, difficilmente individuabili i confini tra vita e morte. Così, accanto all’ideologia che valorizza l’uomo-dolore, sofferente, malato, prende posto, sostituendola, l’ideologia materialistico-edonistica dell’uomo-piacere, che vive in funzione della massimalizzazione del piacere, del benessere, della felicità, di una vita all’insegna del di più e del migliore, per cui la vita deve essere vissuta in quanto realizzatrice di quei canoni di incontaminazione e perfezione dell’uomo. In questa ideologia non c’è spazio per il degrado che spesso accompagna la morte. La morte appartiene a una zona d’ombra, senza speranza e senza luce, essa viene negata, viene considerata politicamente scorretta, è innominabile; non si considera la morte quale ineliminabile componente ed esperienza della

20 “[…] non è possibile (la morte è heideggerianamente l’unica certezza) ma soprattutto che non è lecito, in quanto costituisce ubris, pensare di ergersi a sovrani del destino della vita e della morte dell’uomo”, v. Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fine di vita, in Teoria dir. e Stato, 2002, 3, 374..

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vita umana ma, da evento tragico e solenne, viene ridotto a un fatto sconveniente che bisogna tacere. Il risultato inevitabile è quello di cercare di controllarla, di decidere di concludere la propria esistenza senza lasciare spazio al fato. L’eutanasia rappresenta, in questo modo di vedere la morte, un mezzo per l’obliterazione: “la grande bugia di un mondo, ove, perduta la ‘pietà per la morte’, si invoca la ‘morte per pietà’”21. E in tutto questo scenario, ciò che va realmente preso in considerazione è che nella nostra società attuale il più grande problema del morente resta quello dell’isolamento, dell’abbandono, di una tragica solitudine22; queste povere persone vivono l’ultimo periodo della loro vita in ospedale, tra medici e infermieri per i quali la morte altro non è che routine. Un tempo si moriva in comunità, come la famiglia, il convento; la morte, così, continuava la vita, giacché era la stessa comunità dove si viveva che accompagnava i momenti critici dell’esistenza, dalla nascita alla morte. Nella realtà attuale il malato muore in ospedale o nell’hospice e anche il lutto e il dolore incontrano una specie di riprovazione sociale; tendenzialmente, si vive sempre più soli, e, ciò è ancora più drammatico, si muore soli, tanto che si suole parlare di una tipica “solitudine del morente” che affliggerebbe la nostra epoca. Essa è rappresentata, non tanto e non solo dal fatto che ognuno è chiamato a morire da solo, quanto dalla mancanza di possibilità di “vivere socialmente” il morire che permetta di parlare della morte e insieme di parlare con il morente23. 21 La condivisibile affermazione è di Mantovani, Diritto penale, parte speciale. I delitti contro la persona, Padova, 2005, 74. 22 L’eutanasia, sostiene Mantovani, è una teorizzazione che proviene dall’alto, da chi, cioè, sta bene. Esperienze di oncologi e volontari che assistono il malato nella fase terminale testimoniano che coloro che richiedono la morte sono coloro che si sentono abbandonati nella fase più tragica della loro vita e che la richiesta altro non è che un accorato appello a non essere lasciati soli. 23 V. Viafora, Per un’etica dell’accompagnamento, in Bioetica, 1, 1999, 131. L’A. riporta le parole di Norbert Elias: “Le persone a contatto con i morenti non sono più in grado di confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza e fanno fatica ad

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Conseguenze di questa negazione della morte, di questa solitudine del morente, sono: da un lato, il c.d. “zelo igienista”, da intendersi come allontanamento del morente, un porlo dietro le quinte della vita sociale per sottrarlo alla vista dei vivi; dall’altro, la “volontà di dominio”, la morte è tecnicizzata, la morte è dominata. Senza i progressi della tecnologia medica non esisterebbe la morte tecnicizzata, e probabilmente anche l’eutanasia avrebbe un rilievo minore. Ma, allora, la risposta alle richieste eutanasiche, più che in una legislazione, sta nella c.d. “cultura dell’accompagnamento del malato alla morte”, cioè più solidarietà, compagnia, condivisione della sofferenza che, evitando il senso di abbandono, fanno venir meno la richiesta eutanasica. Colui che sta per giungere al momento estremo della sua vita ha bisogno del medico, sì, affinché provveda a sollevarlo dalle sofferenze fisiche, ma ha soprattutto bisogno di un amico, di un congiunto, di una persona cara. Davanti alle dure situazioni che la condizione del morente evoca, innumerevoli angosce ed emozioni portano a parlare di “vita che non vale più la pena di essere vissuta” o a considerare certe persone, colpite da forme estreme di malattia, “non più degli esseri umani”; ma è necessario impossessarsi di nuovo della particolarità umana del tempo del morire. E ciò, innanzitutto, attraverso la terapia del dolore, affinché si valorizzi il tempo del morire per aiutare il malato a viverlo in maniera degna; è questo un obiettivo prioritario dinanzi al dolore della fase terminale, un dolore che spesso elimina la possibilità di vivere come una persona per mancanza di forza di relazione. Ma l’angoscia di morte, l’inquietudine per la separazione che la morte comporta, l’isolamento in cui ci si può venire a trovare, la percezione umiliante di essere di peso, sono sofferenze che non possono essere trattate solo a livello medico. È

accarezzarne la mano. […] perché pervasi da una sensazione di imbarazzo suscitata dalla loro insulsaggine”.

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necessario capire i bisogni del malato, capire e decodificare le richieste di essere aiutati a morire: “Le richieste di accelerare la morte non riflettono abitualmente un persistente desiderio di eutanasia, ma hanno invece altri importanti significati che esigono un’adeguata interpretazione”24. Per cui, ogni malato che nella fase terminale arriva a manifestare il desiderio di morire dovrebbe essere oggetto di ascolto attento, poiché una richiesta di morte esprime sempre una grande sofferenza: “Aiutatemi a morire” può voler dire “Eliminate il mio dolore”. Altre volte, questa richiesta, può essere legata alla sensazione che, in un’epoca che collega il senso della dignità al ruolo e alle funzioni, la vita non abbia più senso. Altre volte può derivare dalla preoccupazione di essere di peso, di gravare sulla famiglia. Infine, essa può esprimere un sentimento di autosvalutazione che colpisce un malato quando, soprattutto in presenza di certe situazioni degenerative, vede il proprio corpo alterato e deturpato. È proprio in nome della dignità del morire e del rispetto per le scelte individuali che si sta cercando di svuotare e burocratizzare un evento che ha comunque e solo un significato per il singolo, sia esso ateo, agnostico o credente: la fine della vita. Tutto si riduce ad avere speranza finché c’è una vita o al contrario a vedere una vita finché c’è speranza di una vita degna? Ciò che l’etica dell’accompagnamento si propone è, dunque, di considerare la situazione di vulnerabilità in cui viene espressa la richiesta di morte: non sono le vite umane non più degne di essere vissute, ma sono le condizioni in cui le nostre scelte sociali costringono a vivere la fase terminale a non essere degne.

24 Così Viafora, Per un’etica dell’accompagnamento, cit., 140, che riporta quanto è stato affermato da due medici della Harvard Medical School sulla base della loro esperienza relativa alla richiesta di morte effettuata da un malato terminale.

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Per concludere, dunque, possiamo arrivare a sostenere che la mancanza di una legge che disciplini la pratica dell’eutanasia attiva consensuale non scoraggi quanti in passato hanno aiutato i propri pazienti terminali a togliersi la vita. La realtà dei fatti probabilmente continuerà a rimanere invariata, indipendentemente dall’entrata in vigore o meno di una legge che disciplini l’intera materia: a prescindere da una eventuale soluzione giuridica, infatti, la morale con le sue regole e norme, è più complessa e articolata di qualsiasi legge e non è pensabile di ricondurre il discorso morale al solo ragionamento giuridico. E allora, alla luce di tutto questo, sembra preferibile, ad un legislatore “azzeccagarbugli”, un prudenziale “riposo del legislatore”; la risposta all’eutanasia sta nella maggiore solidarietà umana per una migliore qualità della vita dell’ammalato, con la quale sola si giunge ad affermare il vero umanesimo. Il dolore umano chiede amore, non la sbrigativa violenza della morte per amore. Ma soprattutto questa risposta sta nella riscoperta della realtà, misteriosa, della morte: la vera dignità dell’uomo sta nell’affrontare e non fuggire davanti alla sofferenza e al taedium vitae e nell’accettare coraggiosamente la condizione umana nella sua inesorabile ineluttabilità.

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare, innanzitutto, i miei genitori che mi hanno permesso di realizzare questo progetto e che mi hanno, pazientemente e spesso silenziosamente, sopportato e supportato in questi lunghi anni. Li ringrazio anticipatamente anche per quanto ancora mi sopporteranno. Un affettuoso grazie a Erika e Stefano per essermi stati vicini nei momenti che hanno accompagnato la preparazione di alcuni esami universitari e non solo. E, infine, un doveroso ma sincero grazie al mio relatore, Prof. Ferrando Mantovani, per avermi seguito nella stesura di questo lavoro.