Diritto Dei Contratti Internazionali

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Tomaso Ferrando – Diritto dei Contratti Internazionali – A.A. 2005/2006 DIRITTO DEI CONTRATTI INTERNAZIONALI Prof. Aldo Frignani INTRODUZIONE Presupposti economico-commerciali-politici del commercio internazionale e loro influenza sul contratto Parlare di contratti internazionali implica una ricerca intersettoriale posto che sono coinvolti profili giuridici diversi che hanno assunto autonomia didattica e scientifica: diritto pubblico internazionale, diritto privato e processuale, civile, commerciale, tributario e altri. Il commercio internazionale non può mai fare a meno del contratto: questo è lo strumento proprio del commercio internazionale, il quale tiene conto dei presupposti e subisce l’influenza dei presupposti che condizionano il commercio internazionale. Il contratto è il ‘vestito’ che si dà ad un rapporto di carattere economico: dall’individuazione degli elementi economici del rapporto che si vuole instaurare (scopi, paesi con i quali si vuole instaurare il rapporto) nasce la risposta del tipo di contratto, della sua struttura, dei suoi contenuti, delle precauzioni e dei soggetti da coinvolgere. Scelta del tipo e del contenuto contrattuale quale funzione degli obiettivi delle parti (economici, strutturali, fiscali ecc). Come detto, la scelta del tipo di contratto e del suo contenuto appare funzionale agli obiettivi economici prefissi dalle parti. Ad esempio: 1. per vendere o procurarsi la proprietà di un bene, lo strumento più adatto è una compravendita; 2. in base alle esigenze, si concluderà un legame flessibile (facoltà di recesso per ambedue le parti), rigido (durata prefissata) o complesso (possibilità di intervento di altre parti); 3. se si decide di istituzionalizzare i rapporti creano un organismo diverso dalle parti contraenti, si potranno scegliere diverse opzioni (sede secondaria, società figlia, joint venture, consorzio di imprese, società mista). Riguardo a questo punto nascono però problemi legati alla creazione di un ente in un altro Stato: bisogna quindi prestare attenzione alla disciplina del paese ospite sulla quota di partecipazione di capitali stranieri in una società locale, alle norme concernenti l’esportazione dei dividendi ed il rimpatrio degli investimenti, le norme societarie locali (organi, divisioni, competenze), l’eventuale concorrenza fra società madre e società figlia, la fiscalità). 4. anche la tassazione può essere determinante sulla scelta del tipo e sulla struttura del contratto (come se si sceglie il leasing al posto della compravendita, o come nel caso di costi di importazione molto alti che fanno scegliere la strada della produzione in loco). La negoziazione del contratto internazionale I veri problemi della negoziazione di un contratto internazionale appartengono, più che al diritto, alla tecnica, alla psicologia, alla politica ed all’economia. La negoziazione è fondamentale perché in base ad essa possono sorgere responsabilità precontrattuali e perché ci sono molti più fattori che possono influire sul rischio contrattuale (conoscenza della legge straniera, possibilità di avvenimenti imprevisti). È quindi allora opportuno che i contraenti ed i consulenti legali tengano ben presente una distinzione in tre fasi: pre-trattativa, negoziazione vera e propria e infine redazione . In particolare nella prima fase si avrà: 1

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Tomaso Ferrando – Diritto dei Contratti Internazionali – A.A. 2005/2006

DIRITTO DEI CONTRATTI INTERNAZIONALIProf. Aldo Frignani

INTRODUZIONEPresupposti economico-commerciali-politici del commercio internazionale e loro influenza sul contratto

Parlare di contratti internazionali implica una ricerca intersettoriale posto che sono coinvolti profili giuridici diversi che hanno assunto autonomia didattica e scientifica: diritto pubblico internazionale, diritto privato e processuale, civile, commerciale, tributario e altri.

Il commercio internazionale non può mai fare a meno del contratto: questo è lo strumento proprio del commercio internazionale, il quale tiene conto dei presupposti e subisce l’influenza dei presupposti che condizionano il commercio internazionale.

Il contratto è il ‘vestito’ che si dà ad un rapporto di carattere economico: dall’individuazione degli elementi economici del rapporto che si vuole instaurare (scopi, paesi con i quali si vuole instaurare il rapporto) nasce la risposta del tipo di contratto, della sua struttura, dei suoi contenuti, delle precauzioni e dei soggetti da coinvolgere.

Scelta del tipo e del contenuto contrattuale quale funzione degli obiettivi delle parti (economici, strutturali, fiscali ecc).

Come detto, la scelta del tipo di contratto e del suo contenuto appare funzionale agli obiettivi economici prefissi dalle parti. Ad esempio:

1. per vendere o procurarsi la proprietà di un bene, lo strumento più adatto è una compravendita;

2. in base alle esigenze, si concluderà un legame flessibile (facoltà di recesso per ambedue le parti), rigido (durata prefissata) o complesso (possibilità di intervento di altre parti);

3. se si decide di istituzionalizzare i rapporti creano un organismo diverso dalle parti contraenti, si potranno scegliere diverse opzioni (sede secondaria, società figlia, joint venture, consorzio di imprese, società mista). Riguardo a questo punto nascono però problemi legati alla creazione di un ente in un altro Stato: bisogna quindi prestare attenzione alla disciplina del paese ospite sulla quota di partecipazione di capitali stranieri in una società locale, alle norme concernenti l’esportazione dei dividendi ed il rimpatrio degli investimenti, le norme societarie locali (organi, divisioni, competenze), l’eventuale concorrenza fra società madre e società figlia, la fiscalità).

4. anche la tassazione può essere determinante sulla scelta del tipo e sulla struttura del contratto (come se si sceglie il leasing al posto della compravendita, o come nel caso di costi di importazione molto alti che fanno scegliere la strada della produzione in loco).

La negoziazione del contratto internazionaleI veri problemi della negoziazione di un contratto internazionale appartengono, più che al

diritto, alla tecnica, alla psicologia, alla politica ed all’economia. La negoziazione è fondamentale perché in base ad essa possono sorgere responsabilità precontrattuali e perché ci sono molti più fattori che possono influire sul rischio contrattuale (conoscenza della legge straniera, possibilità di avvenimenti imprevisti).

È quindi allora opportuno che i contraenti ed i consulenti legali tengano ben presente una distinzione in tre fasi: pre-trattativa, negoziazione vera e propria e infine redazione. In particolare nella prima fase si avrà:

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1. la raccolta di tutti i dati metagiuridici (economici, sociali, politici, ecc.);2. lo stabilimento degli obiettivi massimi e minimi (punti irrinunciabili);3. stabilimento di chi negozia, come, con quale tecnica;4. conoscenza dell’ambiente legale nel quale ci si può muovere;5. individuazione dei ruoli dei tecnici e dei legali.

A questo punto si potrà procedere alla negoziazione, ed alla stesura di un buon contratto: è pur vero che un buon contratto per se solo non evita il rischio di inadempimento, ma almeno si potranno prevedere deterrenti a lasciarsi vincere da tentazioni di inadempimento.

FONTI DEL DIRITTO DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE

PremessaIl punto di partenza è il crollo della law merchant come diritto comune avvenuta con le

grandi codificazioni dell’800, causa e conseguenza del nazionalismo giuridico: a ciò si aggiunga poi che i legislatori nazionali hanno continuato ad ignorare il commercio internazionale, e che a ciò non potevano bastare le norme di diritto internazionale privato (infatti una volta individuato il diritto applicabile, bisogna individuare la disciplina da applicare a quel preciso contratto internazionale).

Da allora il commercio internazionale, che necessita di una disciplina omogenea per vivere, ha cercato di riguadagnare gradatamente un terreno comune: prima tecnica utilizzata è stata quella che maggiormente salvaguardava la sovranità nazionale, ossia quella delle convenzioni internazionali. Nell’arretratezza e insufficienza di queste, gli operatori commerciali internazionali hanno sviluppato regole e istituti che oggi costituiscono la c.d. lex mercatoria.

Convenzioni internazionaliSi possono fare varie distinzioni tra le convenzioni che rilevano in tema di contratti

internazionali:1. bilaterali o multilaterali;2. di natura processuale ordinaria o concernenti l’arbitrato;3. di diritto internazionale privato o di diritto sostanziale (con la differenza tra la

Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai contratti per la vendita internazionale di beni e, tra le altre, le Convenzioni di diritto uniforme di Ginevra 1930-1931)

Anche se non rilevano direttamente in materia di diritto sostanziale dei contratti internazionali, hanno sicuramente la loro importanza anche le Convenzioni (o trattati) che danno vita ad istituzioni internazionali (Cee, Efta Comecon).

Delle varie convenzioni in tema di contratti internazionali la maggior parte ha ad oggetto singoli istituti, o contratti o clausole (cambiale, responsabilità del vettore aereo, compravendita, arbitrato, prescrizione): una vera e propria unificazione delle regole del commercio internazionale è infatti lontana dall’essere realizzata (merita una menzione l’iniziativa dell’Unidroit, lanciata negli anni ’70, che mirava alla ‘progressiva codificazione del diritto del commercio internazionale’: viste le grandi difficoltà, il comitato promotore costituito nel 1974 decise di limitarsi al diritto generale dei contratti –formazione, interpretazione, validità, esecuzione e inadempimento- e solo in un secondo momento ai singoli contratti. Lo strumento è quello comparatistico, con la predisposizione di un progetto preliminare che accompagna un questionario inviato al più gran numero di giuristi: le loro risposte vengono tenute presenti in una revisione del progetto, poi rinviato ad un numero inferiore di esperti. Per adesso sono stati prodotti circa 40 documenti).

Le Convenzioni internazionali ratificate divengono diritto interno degli Stati ratificanti: il fatto però che parti di un rapporto giuridico internazionale non appartenenti a Stati che abbiano

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ratificato una determinata Convenzione possano fare riferimento ad essa giustifica la collocazione fra le fonti del diritto commerciale internazionale. Esse rilevano come fonte di diritto uniforme non perchè fonti di diritto interno, ma perché comportano un’omologazione di diversi ordinamenti interni lungo la strada della disciplina unica dei contratti internazionali.

Le Convenzioni di diritto sostanziale si distinguono poi tra quelle che hanno come obiettivo il diritto uniforme e quelle che, invece, propongono il riavvicinamento delle leggi interne: nel primo caso troviamo Convenzioni in ambiti come la cambiale o l’assegno, dove la codificazione non era stata tale da determinare la rottura dell’unità sostanziale preesistente; i settori nei quali si tenta solo un riavvicinamento sono invece quelli nei quali non vi è ancora una maturità tale dei vari ordinamenti da far abbandonare il diritto interno (Convenzione di Berna sul diritto d’autore, Convenzione di Parigi sulla proprietà industriale).

Stati Federali possono poi realizzare un’armonizzazione o riavvicinamento delle diverse soluzioni giuridiche: si pensi al Uniform Commerce Code degli USA. E lo stesso si può dire nel caso di organizzazioni economiche internazionali come la Cee.

Rilevano in questo ambito anche le norme di diritto internazionale privato e le convenzioni attraverso le quali è possibile individuare la legge applicabile ai casi concreti (Convenzione dell’Aja del 1955 sulla legge applicabile al contratto di vendita internazionale).

Rientrano nelle fonti di diritto commerciale internazionale anche le norme, di origine statale, dettate specificamente per i contratti internazionali che caratterizzavano gli ordinamenti socialisti: attraverso queste si voleva creare una base giuridica comune per tutte le imprese (di Stato) che operassero con soggetti stranieri (evitando rischi di difformità e discriminazioni), ed assicurare gli operatori stranieri circa la tutela dei loro interessi, andando a volte al di là delle previsioni nazionali, avvicinandosi molto a previsioni tipiche del mondo occidentale.

Lex mercatoria: nozione ed esistenzaÈ indubbio che la maggior parte dei contratti internazionali sono retti da regole che non si

rinvengono nelle convenzioni o leggi nazionali, ma vengono ascritte più genericamente alla lex mercatoria.

Cosa si intende allora con la nozione di lex mercatoria? Riferimenti ad essa si trovano nei contratti internazionali, nella giurisprudenza arbitrale ed in dottrina, ed in ognuno di questi ambiti si offrono diverse interpretazioni del concetto di lex mercatoria.

1. secondo una prima opinione, essa dovrebbe essere ricondotta alla law proper to international economic relations, venendo così a comprendere non solo le convenzioni internazionali, ma altresì tutte le normative nazionali dedicate specificamente al commercio con l’estero. Una nozione così ampia di lex mercatoria determina, però, un’inutile sovrapposizione con le fonti classiche del diritto, ossia con la normativa interna.

2. parlare di lex mercatoria vuol quindi più propriamente dire parlare di quel corpo di regole ed istituti concernenti il commercio internazionale comunemente applicato dai mercatores nella consapevolezza che si tratti di regole che anche gli altri contraenti seguiranno: si può quindi parlare di una sorta di diritto di formazione spontanea. La formazione della lex mercatoria prescinde quindi dalla volontà del legislatore o dall’attività di convenzioni internazionali: essa nasce ad opera degli stessi mercatores, ed ha un’ampiezza che va al di là dei singoli ordinamenti statali. Questa seconda nozione è certo più restrittiva di altre, ma ha il pregio di porre l’accento sul momento volontaristico e spontaneo.

Dal punto di vista del metodo, ci sono due modi di affrontare il discorso sulla lex mercatoria: deduttivamente si può guardare la sua struttura, quali siano i suoi caratteri, le sue valenze ed in seguito i suoi contenuti; all’opposto l’approccio induttivo parte da una ricognizione delle norme e

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delle regole praticate e comuni nel commercio internazionale, per poi giungere, con un’elaborazione successiva, a definire la struttura ed il sistema della lex mercatoria.

In questo caso si adotta il metodo induttivo.Anche la giurisprudenza italiana ammette l’esistenza della lex mercatoria: una sentenza della

Cassazione del 1982 dispose, infatti, che <nella misura in cui si consta che gli operatori –prescindendo dal vincolo della loro appartenenza ad uno Stato e/o ubicazione della loro attività in uno Stato- consentono su valori basici inerenti al loro traffico e, quindi, mostrano di nutrire l’opinio necessitatis, deve ritenersi che esista una lex mercatoria>

Altre volte sono le parti ad indicare la lex mercatoria come norma per completare le lacune o incompletezze del diritto nazionale applicabile al caso specifico.

Al fianco delle tesi che sostengono l’esistenza della lex mercatoria ve ne sono molte che sono critiche circa il suo riconoscimento, ma non sono comunque tali da poterne negare l’esistenza. Tra le varie tesi si è sostenuto che:

1. non sarebbero individuabili con certezza sufficiente i membri della societas mercatorum (e quindi che non si potrebbero individuare gli attori e i destinatari della legge), ma a ciò si può opporre che tutti i soggetti che pongono in essere contratti commerciali internazionali sono attori della lex mercatoria;

2. che la lex mercatoria sia riconducibile e riducibile al concetto di equità, di legge morale del giudice equo, ma a riguardo si può opporre che l’equità non è fonte di diritto, ma soltanto principio per equilibrare gli interessi delle parti, e quindi non può spiegare un corpo di norme.

3. secondo altri, infine, non si può dire che la lex mercatoria che costituisca un ordinamento giuridico, a causa delle sue poche, sparse e slegate norme ed altresì perché la societas mercatorum non è un’istituzione in grado di produrre le sue proprie norme.

A tutte queste obiezioni si risponde che l’incompletezza ed un sistema di sanzioni non eseguibili con la forza (enforceble in court) non ha comunque impedito al diritto internazionale pubblico ed al diritto canonico di rivendicare la qualità di ordinamento giuridico autonomo, e quindi che lo stesso può essere legittimamente fatto dalla lex mercatoria (in particolare è da rimarcare l’analogia con la parabola descritta dal diritto internazionale pubblico, con le regole che si evincono da comportamenti di soggetti e da pronunce giudiziali).

Non dovrebbe poi porsi il dilemma circa l’opportunità di un intervento dello Stato (o, meglio, degli Stati) e il lasciare che le regole mercatorum si sviluppino per conto loro: i due ordini di regole dovrebbero infatti cooperare in modo complementare e non alternativo.

Le fonti della lex mercatoriaBenché non ci sia accordo circa le fonti della lex mercatoria, un buon numero di studiosi

divide le fonti della lex mercatoria in tre categorie:1. principi generali di diritto: molti di essi hanno analogia con gli omologhi noti nei

diritti interni o nel diritto internazionale. Ciò che varia è l’oggetto cui si applica il principio ed il loro contenuto (al fine di ottenere un’interpretazione uniforme a livello internazionale e non al fine di ottenere la sentenza di un giudice). Essi saranno allora i principi generali largamente ammessi che governano il diritto commerciale internazionale (buona fede, eccezione non adimpleti contractus, regole sui vizi del consenso, actori incumbit probativo, dovere di limitare i danni, divieto di venire contra factum proprium, nullità assoluta di un contratto che violi leggi imperative). Vi sarà poi il c.d. super principio di pacta sunt servanda. Ai principi generali a volte ci si riferisce nelle convenzioni internazionali, altre volte se ne fa esplicito riferimento

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nei contratti (hardship clauses, clausole arbitrali) oppure nell’act de mission o, ancora, in risposta ad un quesito specifico degli arbitri

2. usi e consuetudini commerciali (trade usages): il problema è, come nel diritto interno, quello di individuare gli elementi costitutivi degli usi, le loro fonti di conoscenza e la loro rilevanza.

a. In generale si dice che gli usi sono il prodotto della ‘volontaria e ripetuta adozione degli stessi da parte della generalità degli operatori economici’. In generale se le leggi nazionali danno rilevanza agli usi, si limitano ad indicarne la funzione e non gli elementi costitutivi (ad eccezione dello United Commerce Code); utili sono anche i riferimenti contenuti in alcune convenzioni internazionali, quali la convenzione sulla vendita internazionale e la Convenzione di Vienna). Si può quindi affermare che l’uso, perché gli venga riconosciuta rilevanza, debba essere ‘largamente conosciuto’ e ‘regolarmente osservato’ all’interno del settore commerciale interessato e nell’ambito dello specifico tipo di contratto preso in considerazione.

b. Per quel che riguarda le fonti di conoscenza, la forza ed efficienza dei codici ha fatto invocare a molti la codificazione degli usi, però ciò non è stato ancora reso possibile per numerosi problemi e discordanze. Ci si trova quindi di fronte ad una pluralità di fonti, a volte legate tra loro (ad esempio da associazioni di categoria o altri enti –ICC-) altre volte invece del tutto slegate. In ogni caso le raccolte non determinano l’automatica trasformazione dei loro contenuti in usi, perché è comunque necessaria l’adozione regolare e largamente condivisa, da parte degli operatori del commercio. Nel caso di usi non codificati (meglio dire raccolti), rimane all’interprete il compito di documentare, di volta in volta, la loro esistenza e la loro rilevanza. Ruolo molto importante è svolto, a riguardo, dai contratti standardizzati o dalle condizioni generali di contratto: il loro valore, la loro portata, dipende però dall’ente che li abbia predisposti e dalla loro funzione. Non rientrano nelle fonti degli usi né le guide ai contratti (perché strumentali) né le leggi-tipo (Ompi, Uncitral) che sono indirizzate agli Stati, né le condizioni generali predisposte dalle parti (in particolare dalle imprese multinazionali) per regolare in modo uniforme tutti i rapporti con i clienti o fornitori, almeno fino a quando non si dimostri che la stragrande maggioranza delle imprese del settore adottano clausole uguali.

c. In ambito di rilevanza giuridica degli usi nel commercio internazionale si deve distinguere tra tre livelli: Contrattuale (gli stessi contraenti vi fanno riferimento, esplicito o implicito), meta-contrattuale (ricorso agli usi per colmare le lacune del contratto o per interpretarne il contenuto, se previsto o ammesso dal diritto nazionale applicabile –la legge della Repubblica democratica tedesca del 1976 prevedeva che usi commerciali stabiliti nelle relazioni commerciali internazionali devono essere tenuti in considerazione nella conclusione e nell’esecuzione dei contratti commerciali internazionali in quanto non siano in contrasto con le disposizioni della legge stessa- o se ad esso facciano ricorso gli arbitri) e convenzionale internazionale (quando agli usi fanno riferimento le convenzioni internazionali di diritto uniforme).

3. regole stabilite dalla giurisprudenza arbitrale internazionale: secondo la ICC le sentenze arbitrali formano progressivamente una giurisprudenza di cui è necessario tener conto poiché essa deduce le conseguenze dalla realtà economica ed è conforme ai bisogni del commercio internazionale. A dire il vero, però,

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l’attività degli arbitri è creativa: servendosi delle regole di diritto che considerano più appropriate, o degli usi e conformi ai bisogni del commercio internazionale, godono infatti di una notevole autonomia nel reperire ed indicare la regola alla luce della quale risolvere il dissidio. Si pensa però che i precedenti della giurisprudenza arbitrale formino quasi un corpo di diritto casistica con la regola del precedente vincolante (capita spesso che in alcuni casi si citino dei lodi per trovarvi conferma di alcune regole generali).

Effettività e sanzioniDue delle principali obiezioni alla lex mercatoria riguardano la sua effettività e le sanzioni

che dipendono dal suo mancato rispetto.Circa l’effettività bisogna dire che essa non deriva dal fatto che sia promulgata

dall’autorità statale, ma il suo riconoscimento da parte di coloro i cui rapporti deve regolare: allo stesso modo non si può dire che la non derogabilità sia elemento essenziale di una norma giuridica. In ogni caso l’effettività è garantita dall’istituto arbitrale come metodo alternativo di risoluzione delle controversie che nascono all’interno dei limiti della lex mercatoria.

Per quanto riguarda le sanzioni, è giusto sottolineare che l’esecuzione coattiva può essere comminata solamente dalle autorità statali (le uniche che dispongono dei mezzi e degli strumenti): è però vero che le parti cercano all’interno del rapporto contrattuale, un proprio sistema sanzionatorio (garanzie a semplice domanda, penali, incroci temporali di obbligazioni), rafforzato dal potere degli arbitri di intervenire e dalla presenza di un sistema indiretto di sanzioni (boicottaggio, non ammissione a gare, richiesta di maggiori garanzie o di diverse condizioni di pagamento che metterebbero fuori mercato l’inadempiente).

In ogni caso bisogna ricordare che a volte, molto spesso, il diritto interno viene in soccorso della lex mercatoria (come nel caso in cui non sia presente una clausola compromissoria, o una delle parti abbia devoluto la questione a giudice interno) quindi in questi casi si pensa che sia possibile il ricorso all’esecuzione coattiva.

Norme di diritto privato internazionaleLe norme di DIP giocano ancora un ruolo di primaria importanza nella disciplina del

commercio internazionale: tutte le volte che sussista un connotato di internazionalità (parte, prestazione) sorge un problema di conflitto di leggi. Ci si chiede in base alle leggi di quale ordinamento la questione debba essere risolta.

I criteri di DIP variano da Stato a Stato: in ogni caso però la loro applicazione determina un effetto meccanicistico. Una volta individuata la legge da applicare sulla base del DIP, la legge di rinvio si applicherà automaticamente tutta a tutto il rapporto contrattuale.

Per contrastare la possibilità di un diverso esito a seconda delle norme di DIP che venissero applicate al caso concreto, la comunità internazionale dei mercatores ha reagito proponendo un DIP uniforme, di modo che nel maggior numero possibile di Stati a contratti analoghi si applicasse sempre la stessa legge di rinvio. La determinazione di un DIP comune ha proceduto lentamente, a tappe: dapprima Convenzione dell’Aja del 1955 sulla vendita internazionale, poi Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Entrambe verranno applicate a meno di previsione diversa dei soggetti contraenti. In base alle Convenzioni è quindi possibile individuare la legge che sarà applicata ai diversi contratti (ad esempio l’Aja dispone che al contratto di vendita si applichi in primo luogo la legge del luogo di residenza abituale del venditore al momento del ricevimento dell’ordine, e così via), mentre la Convenzione di Roma prevede che, mancando una diversa volontà delle parti, si applicherà la legge con un collegamento più stretto alla obbligazione contrattuale (generalmente si ritiene che il collegamento più stretto sia con lo Stato in cui chi deve fornire la prestazione caratteristica ha la

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propria residenza abituale). Un po’ in tutte le parti del mondo si lavora verso l’unificazione delle regole di DIP: Convenzione inter-americana sulle norme generali di diritto internazionale privato, firmata a Montevideo nel 1979.

Verso una codificazione del diritto del commercio internazionale?La codificazione della international trade law appare oggi come un traguardo: vari sono

però gli ostacoli alla realizzazione di un tale progetto, che sarebbe capace di determinare l’uniformità e la facile reperibilità delle fonti.

In primo luogo non si tratterebbe di una codificazione in senso proprio, ma piuttosto di una raccolta, più o meno ufficiale, di convenzioni internazionali, quindi con nessun intento sistematico.

In secondo luogo i settori attualmente regolati con convenzioni internazionali sono pochi, e ancora meno gli Stati che hanno ratificato tali documenti, di modo che un’eventuale raccolta non sarebbe capace, attualmente, di portare alla necessaria omogeneità. In terzo luogo si dovrebbe ancora decidere se permettere una codificazione creatrice di nuove regole o solamente una a carattere di raccolta dei contenuti delle convenzioni precedenti. In ogni caso rimarrebbe escluso tutto quel corpo di norme che abbiamo chiamato lex mercatoria (nella parte che non trova riscontro nelle convenzioni).

Gli studiosi sono divisi tra chi ritiene tale codificazione impossibile e chi, al contrario, pensa che sia realizzabile, pur condividendo con i primi la valutazione di un suo scarso interesse date le attuali premesse. In ogni caso alcuni passi in avanti si stanno facendo, anche perché, come sostengono alcuni esperti, il continuo aumento delle convenzioni internazionali sta ponendo sempre più le basi per un codice del commercio internazionale, basterebbe però riuscire a porre in essere un’operazione di coordinazione delle stesse.

Molto forte è stata la spinta dell’Uncitral verso la codificazione del commercio internazionale (United Nations Commission on International Trade Law, si rivolge agli Stati e ha come scopo specifico quello di promuovere la progressiva armonizzazione e l’unificazione del diritto del commercio internazionale promuovendo convenzioni internazionali, leggi-tipo, proposte di regole uniformi). Un altro problema che tuttavia permane è quello della scelta del metodo per la realizzazione di suddetto codice: ci si divide infatti tra chi sostiene la necessità di un codice sistematico (razionale) e coloro che, sulla scorta dello United Commerce Code propone un codice empirico, nel quale le singole materie disciplinate sono accostate senza alcuna pretesa di sistematicità.

Più limitato nelle materie abbracciate e più serio il progetto Unidroit, originariamente concepito, ambiziosamente, come un codice uniforme di commercio internazionale, e tuttoggi ristretto alla parte generale dei contratti ed in particolare a: formazione dei contratti, interpretazione, condizioni di validità, esecuzione, inadempimento, indebito arricchimento e prova.

Il problema è che, come si è detto, una siffatta unificazione non può che passare attraverso convenzioni internazionali, ossia attraverso un’opera positiva posta in essere dagli Stati

Il problema dell’interpretazioneIl problema dell’interpretazione riguarda, nel commercio internazionale, non solo il contratto,

ma altresì la legge applicabile: è noto come ciascun ordinamento nazionale ha delle proprie regole di interpretazione (domestic rules), che molto spesso non coincidono con quelle di altri.

Per questa ragione l’interprete non solo dovrà interpretare il contenuto del contratto, sulla base di determinati criteri, ma anche la legge (di natura consuetudinaria, convenzionale, statale) applicabile al caso concreto, servendosi di altri criteri di interpretazione che possono essere espressamente previsti dalla fonte normativa o meno.

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L’interpretazione delle convenzioni regolanti il commercio internazionale costituisce il primo passo: al fine di raggiungere lo scopo primo delle convenzioni, ossia l’omologazione del diritto nell’ambito regolato all’interno dei vari ordinamenti interni degli Stati parte, è fondamentale che l’interpretazione dei testi legislativi sia uniforme. Saranno allora possibili tre soluzioni interpretative: ricorso alle regole di interpretazione nazionali; alle regole di interpretazioni dei trattati (di diritto internazionale pubblico); una combinazione tra la prima e la seconda opzione.

Le regole domestiche si devono scartare perché divergenti le une dalle altre.Le regole di interpretazione dei trattati di diritto internazionale pubblico non sono del

tutto adatte, in primo luogo perché si riferiscono ad obbligazioni di Stati e non delle parti di un contratto internazionale.

Bisogna allora ricorrere ad altri criteri, alcuni dei quali possono coincidere con i classici criteri interpretativi sviluppati nei paesi di civil law (interpretazione letterale, sistemativa, storica, teleologica), ma ciò non è necessariamente detto: in ogni caso bisogna ricordare che il giudice applicherà tali criteri nel proprio contesto nazionale.

Per questo motivo quasi tutte le Convenzioni prendono in esame il problema della propria interpretazione, indicando la strada che gli interpreti devono percorrere.

Per quanto riguarda i criteri interpretativi propri dei paesi di civil law, si deve in ogni caso notare che vi sono problemi nel loro utilizzo a livello internazionale. In particolare l’applicazione del criterio letterale è resa più complicata dalla diversità delle lingue ugualmente facenti fede (si pensi che nella Cvim sono le 6 lingue ufficiali dell’ONU); nel caso del criterio sistematico, invece, la mancanza della definizione di nozioni o concetti base renderà difficile per il giudice non applicare le categorie o nozioni proprie della sua cultura giuridica.

Il criterio storico e teleologico svolgono invece un ruolo di prevalenza: di grande ausilio saranno i lavori preparatori ed eventuali modifiche ai testi convenzionali, nonché la ricerca dello scopo (ratio) della norma di diritto uniforme, che quasi mai consiste nella scelta di una regola interna, ma piuttosto nel creare una regola nuova che ottenga un diverso equilibrio fra le parti.

Sono inoltre state suggerite alcune tecniche attraverso le quali provare a garantire l’interpretazione uniforme delle convenzioni di diritto uniforme:

1. costituzione di un organo giurisdizionale ad hoc che operi a livello sopranazionale: considerato il più adatto, esso è possibile solo in condizioni geografico-culturali-politico-giuridche particolari, ossia in presenza almeno di un minimo di federalismo;

2. tener conto della giurisprudenza sulla legge uniforme formatasi negli altri paesi aderenti: anche tale tecnica presenta una serie di problemi, quali il dare rilevanza a sentenze straniere, lo scegliere tra precedenti divergenti, il valutare comparativamente sentenze dagli stili diversi. Anche se all’interno dell’ambito del commercio internazionale bisognerebbe rovesciare il rapporto tra sentenza domestic e foreign: sarebbe infatti domestic la sentenza che sgorga dalla convenzione internazionale, mentre sarebbe straniera quella che ne è estranea, che ne prescinde, senza che a nulla rilevino i confini geografici.

3. rifarsi alla dottrina: istituzione di un organismo consultivo permanente con il compito di studiare e dare pareri sul diritto uniforme, capace, insieme all’abolizione della regola che vieta di basarsi sulle opinioni dei dottori, di garantire una maggior uniformità e omogeneità nell’interpretazione delle norme del commercio internazionale.

Interpretata la legge, le convenzioni, si dovrà poi pensare all’interpretazione dei contratti sulla base di tali norme: anche questo ambito presenta numerosi problemi, e non a caso costituisce il secondo punto sul quale si è indirizzata l’attività di omologazione del progetto Unidroit. Bisogna infatti determinare elementi quali l’esatto significato di dichiarazioni specifiche fatte dalle parti e di ogni altro comportamento delle stesse, dare la giusta rilevanza

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alle varie pratiche ed usi comunemente osservati nell’ambito di uno specifico settore di commercio, interpretare i contratti conclusi sulla base di condizioni generali o formulari di contratto.

Ciascun ordinamento ha le proprie regole interne in materia di interpretazione dei contratti e l’applicazione delle regole di DIP rimanda alle norme sull’interpretazione di uno Stato piuttosto che di un altro: un tale risultato non sembra però equo di fronte a contratti internazionali ed in effetti gli arbitri si attengono preferibilmente a criteri interpretativi uniformi, senza privilegiare un ordinamento ad un altro

L’INTERVENTO PUBBLICO NEI CONTRATTI INTERNAZIONALI

Scopi, limiti e strumentiPosto che attraverso contratti internazionali si pongono in essere rapporti che possono non

riguardare solamente le relazioni giuridiche fra contraenti, ma anche incidere sull’economia di un paese o sui suoi rapporti globali con altro od altri paesi, trova giustificazione l’intervento dei singoli Stati in un’area ritenuta tradizionalmente riservata all’autonomia delle parti.

Gli scopi dell’intervento pubblico nei contratti internazionali, anche se stipulati fra parti private, spaziano dunque in varie direzioni: tenere sotto controllo il flusso di capitali, canalizzare gli investimenti, mantenere il controllo dello Stato su settori chiave, gestire i livelli occupazionali. Tale tendenza è più o meno diffusa anche nei paesi che dicono di ispirarsi a modelli liberali.

Per quel che riguarda gli strumenti, si va dalle norme civilistiche, di applicazione necessaria e comunque inderogabili dalle parti, sino alle norme che impongono come esclusivo intermediario per alcune operazioni lo Stato: la presenza di norme inderogabili può portare anche alla conclusione di contratti che le parti, se avessero saputo della necessarietà di tali clausole, non avrebbero mai concluso.

Altro strumento molto spesso usato è quello di normative che vengono qualificate come di ordine pubblico interno e che attengono ai profili doganale, valutario e fiscale.

Allo stesso modo possono essere previsti strumenti amministrativi limitativi della libertà dell’investitore: essi possono articolarsi in vario modo (autorizzazioni preventive; obbligo di registrazione di contratti; obbligo di deposito di libri, bilanci, rendiconti; esami preventivi circa la compatibilità del contratto con normative interne; obblighi di disclosure di una serie di dati; criteri di qualificazione; controllo del rispetto di normative tecniche; controllo del rispetto, durante l’esecuzione dell’opera, di leggi e regolamenti).

Di natura non giuridica sono invece interventi che si atteggino come interventi di politica economica contingente, capaci comunque di indirizzare l’attività economica dei privati (investimenti, trasferimenti di tecnologia, licenze di esportazione o importazione, politiche tariffarie).

Norme sugli investimentiOgni ordinamento ha una specifica normativa sugli investimenti esteri in tale Stato e

sugli investimenti da tale Stato verso l’estero. Solitamente i punti regolati sono legati a: automaticità o necessità di autorizzazione all’investimento, ammontare, congruità, condizioni, regime fiscale, regime di rimpatrio dei profitti, regimi del disinvestimento.

Detto che sarà l’operatore economico a fare le sue considerazioni in base alle regole di ciascun Stato, è opportuno osservare l’importanza che assumono in tale contesto le norme in materia di settori riservati: nei vari ordinamenti si possono infatti incontrare settori totalmente riservati, settori da tenere sotto controllo (l’intervento straniero è ammesso però soltanto in posizione di minoranza) e settori liberi.

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Vi sono poi altri tipi di limitazioni, come quelle che impongono l’assunzione di personale locale o l’utilizzo di potenzialità locali fino ad un certo ammontare dell’investimento o del fatturato nel caso di alcuni specifici contratti (appalti, licenze di brevetti e know-how, joint-ventures di ricerca –regola del 30% in alcuni paesi arabi).

Indissolubilmente collegate con le norme in materia di investimenti stranieri sono le regole da applicare nel caso di disinvestimento, di cui esistono svariati modelli: disinvestimento sempre e totalmente libero, non ammesso prima di un certo periodo, non ammesso in eccedenza a certi limiti oppure ammesso ma a condizioni più onerose, disinvestimento mai ammesso oltre certi limiti (tali regole possono valere, oltre che per la repatriation of funds –quindi totale disinvestimento- anche per il trasferimento di interessi, dividendi e utili).

I rischi maggiori nel caso di investimenti all’estero sono il cambiamento successivo di leggi in materia o addirittura atti espropriativi dello Stato ospite, ivi comprese le nazionalizzazioni.

Per risolvere i frequenti conflitti che sorgono in relazione alle esigenze suddette, per lungo tempo si è fatto ricorso alle norme di diritto internazionale pubblico, che però si sono rivelate inadeguate: allora si è proceduto dapprima con accordi bilaterali, mentre a livello di multinazionali sono stati prodotte guide e codici di condotta, che hanno avuto però una scarsa portata, anche perché più che chiedere garanzie agli Stati esteri imponevano obblighi (di facere e non-facere) agli investitori.

Detto che lo Stato, trattandosi di politica economica, avrà sempre le mani libere, e che dal 1981 al 1983 gli investimenti esteri sono diminuiti di oltre il 60%, bisogna dire di due strumenti che potrebbero rendere più appetibile agli Stati l’offrire un minimo di garanzia agli investimenti esteri:

1. la costituzione del Cirdi, Centro Internazionale per la Risoluzione delle Controversie in materia di Investimenti creato dalla Banca Mondiale per il regolamento delle controversie relative ad investimenti tra Stati e soggetti di altri Stati, che realizza anche per l’investitore privato un quadro di elevata stabilità contrattuale.

2. convenzione firmata a Seul l’11 ottobre 1985 che ha istituito la Multilateral Investment Guarantee Agency (MIGA): codice di condotta che fissa obblighi di comportamento sia per le multinazionali investitrici che per i paesi ospiti dell’investimento. La Miga attua come una assicurazione per i soggetti che vogliano investire in Stati esteri: stipula con l’investitore un’assicurazione per rischi di carattere non commerciale e la fa approvare dallo Stato ospite: nel caso in cui tali evenienze si verifichino, la Miga indennizzerà l’investitore e si surrogherà ad esso nei confronti dello Stato ospite.

Norme sui trasferimenti di tecnologiaMentre nei paesi a sistema capitalistico i contratti mediante i quali si trasferisce tecnologia

sono lasciati prevalentemente alla libertà delle parti, nei paesi in via di sviluppo, o in altri paesi che si sono recentemente affacciati sulla scena del commercio internazionale, sono state emanate leggi apposite sui trasferimenti di tecnologia (Cile, Polonia, Ghana, Cina, Venezuela, Colombia, Corea del Sud, Messico): tali norme vogliono da un lato attirare la tecnologia straniera e dall’altro poterla sfruttare liberamente in proprio.

In questo modo si favoriscono operazioni di apporto di diritti di proprietà industriale e tecnologia all’interno di operazioni di joint-ventures o con la creazione di società miste, attraverso la possibilità di pagamenti con royalties, ossia facilitazioni fiscali.

Allo stesso tempo si cerca però di prevedere un sistema di pagamenti che faciliti lo Stato in via di sviluppo, oppure che vincoli l’investimento ad una durata minima.

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Contratti con StatiUna percentuale sempre maggiore degli scambi internazionali globali avviene oggi con gli

Stati o con loro emanazioni: eppure, date le caratteristiche soggettive delle parti, non c’è altro settore del commercio internazionale dove le regole del diritto siano più incerte e le soluzioni proposte più discutibili.

Un conto è infatti parlare degli Stati come controllori dell’attività economica dei privati, un altro invece vederli interpreti diretti dell’attività di commercio internazionale.

Il problema è che la presenza di uno Stato comporta la tendenza ad una forte nazionalizzazione dei contratti, per via del desiderio dello stesso di sottoporre il contratto alla propria legge nazionale, oppure di considerare soltanto i propri giudici competenti per conoscere delle controversie, oppure di invocare i poteri di sovranità su tutto ciò che concerne gli atti di politica economica. Tale tendenza è sicuramente contraria a quella di delocalizzazione che caratterizza, invece, i contratti di commercio internazionale stipulati tra privati.

Evidenti sono i problemi in ambito alla legge cui è sottoposto il contratto: uno dei due soggetti è infatti soggetto di diritto internazionale, mentre l’altra parte, privata, avrà desiderio di evitare che sul rapporto contrattuale vengano a pesare atti unilaterali emanati dagli organi dello Stato che è parte del rapporto. Il problema è quindi quello di indurre uno Stato non a sottoporsi (come parte di un contratto) non solo ad una legge di un altro Stato (cosa teoricamente non impossibile perché di pari grado), bensì ad una legge di altro tipo, più incerta e di rango inferiore (come è la lex mercatoria).

Ancora più problemi crea la questione dello strumento cui ricorrere in caso di controversie, e alla determinazione, qualora sia prevista una clausola arbitrale, di un collegio arbitrale: alla delocalizzazione e perdita di potere sovrano molti Stati hanno risposto, nel corso degli anni, non accettando clausole compromissorie o anche procedendo ad atti di potere sovrano (ad esempio, nazionalizzazioni).

Di fronte a tali pericoli molti contratti stipulati tra privati e Stati od enti pubblici contengono la c.d. clausola di intangibilità, in base alle quali i secondi si obbligano a non provocare unilateralmente la modifica, abrogazione o in esecuzione del rapporto contrattuale attraverso provvedimenti, legislativi o amministrativi, posteriori. Ad esempio nei contratti tra Libia e Texano, Calasiatic e Liamco si legge che il diritto contrattuale espressamente creato con la presente concessione non potrà essere modificato senza l’accordo di entrambe le parti.

Un altro genere di clausola è quella della c.d. stabilizzazione, che dichiara fissato al momento della conclusione del contratto lo stato del diritto interno dello Stato contraente applicabile al contratto.

Detto che tali clausole cono tipiche dei contratti di concessione o di appalto, non mancano esempi di loro inclusione anche in contratti di trasferimento della tecnologia.

La presenza di una di tali clausole potrà condurre l’arbitro a disapplicare l’eventuale subsequent legislation o comunque a ritenere la stessa fonte di responsabilità (a prescindere dalla questione se la violazione della clausola di stabilizzazione configuri, a carico dello Stato che vi procede, un illecito internazionale,). La violazione determinerà, non esistendo nel diritto del commercio internazionale la restitutio, il risarcimento del danno.

Riguardo alla nazionalizzazione appare difficile rilevare un illecito internazionale, dato che l’obbligazione nei confronti di un soggetto terzo privato determina solo una responsabilità risarcitoria, e soprattutto perché l’ONU riconosce nella nazionalizzazione la manifestazione della sovranità degli Stati purché siano prese nel perseguimento di finalità generali di intervento pubblico nell’economia, e non siano caratterizzate da finalità discriminatorie e purché sia previsto l’adeguato indennizzo secondo quanto stabilito dal diritto internazionale. Bisogna però dire che la sentenza Texano si rifiuta di procedere ad un controllo delle finalità della

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nazionalizzazione, mentre la sentenza Agip-Congo giunge ad esigere che la nazionalizzazione sia il solo modo per soddisfare l’interesse generale.

Principio di immunitàDel principio di immunità si hanno due letture:

1. in base a quella ampia, qualsiasi Stato potrebbe sempre opporsi alla richiesta di far fronte a proprie obbligazioni di natura patrimoniale;

2. secondo quella ristretta bisogna distinguere tra atti compiuti nell’esercizio della potestà sovrana (acta iure imperii) e transazioni commerciali ordinarie (acta iure gestionii).

Molti Stati sono tuttora ancorati alla concezione assoluta, benché quella ristretta vada prendendo sempre più piede, tanto da determinare la predisposizione di Acts (Foreign Sovereing Immunity Act e State Immunity Act) con i quali si è cercato di escludere dall’immunità dello Stato la ‘commercial activity’ generalmente intesa come l’acquisto di beni, la costruzione o vendita di autoveicoli, il trasporto aereo e marittimo, l’apertura di credito documentale e la collocazione di un prestito internazionale.

Contratti con imprese di StatoCi si imbatte in ulteriori problemi se si parla dei contratti conclusi con un’impresa di Stato,

che sono divenute, negli ultimi anni, gli strumenti attraverso i quali lo Stato persegue i propri obiettivi economici: non agisce più direttamente, ma per mezzo di enti od organismi che ha creato, spesso dotandoli di autonomia giuridica, e che controllo totalmente.

Il problema sta nel modo di considerare le imprese nei confronti dello Stato: si deve infatti trovare un equilibrio tra il considerarle come organi dello Stato e il non considerarle mai come tali. Ad una corretta individuazione del rapporto si accompagna una individuazione dei diritti, obblighi, immunità e quindi responsabilità dello Stato.

Norme antitrustAgli investimenti ed ai contratti internazionali si collega indissolubilmente l’ambito delle

norme antitrust, ossia delle regole poste per evitare una limitazione dell’accesso ai mercati o un restringimento indebito della concorrenza.

I due principi che tali norme mirano a raggiungere sono la permanenza o accesso sul mercato del maggior numero di operatori e la garanzie di una certa struttura di mercato.

Detto che in base ad alcuni orientamenti ha prevalso il primo (scuola di Harvard) mentre secondo l’analisi economica del diritto sarebbe più importante la struttura di mercato perché capace di autodeterminare efficienza, ciò ha comportato una situazione nella quale non tutte le restrizioni alla concorrenza sono vietate, in quanto vengono ammesse quelle che hanno valenze economiche positive e vengono considerate norme di ordine pubblico.

Alcune linee tendenziali di fondo in materia di antitrust sono:1. illiceità di restrizioni orizzontali tra concorrenti (accordi su prezzi, ripartizioni di

quote o mercati);2. illiceità di ripartizioni verticali non fondate su una consistente giustificazione

economica;3. illiceità del comportamento di singole imprese in posizione di monopolio e la

sfruttino in modo abusivo;4. preventivo controllo delle concentrazioni di potere da parte dell’autorità pubblica

che le vieta se restringono in modo eccessivo la concorrenza o la restringono in modo contrario al pubblico interesse.

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Per quel che riguarda l’approccio legislativo, alcuni Stati hanno adottato quello del divieto salvo approvazione (quindi se si vuole essere sicuri di non violare le norme sarà necessaria autorizzazione preventiva) , mentre all’opposto altri ordinamenti hanno assunto il principio della liceità salvo controllo che dimostri il contrario.

Le norme antitrust di uno Stato si estendono sin dove ha giurisdizione (sia essa interna o dettata dalla presenza di convenzioni internazionali): il problema è che molto spesso ci si trova di fronte all’applicazione di un doppio regime, e che non ovunque si ha nei confronti delle posizioni di trust lo stesso atteggiamento.

Si possono inoltre creare attriti tra gli Stati coinvolti, e questo è sicuramente accentuato dal fatto che quasi mai gli Stati pongono limiti alle esportazioni, il che determina come conseguenza la richiesta di forme di protezione contro la concorrenza nel territorio (dumpoing, countervailing duties, tariffe, quote massime di importazione), che ha portato sino all’emanazione di leggi di blocco in materia di prove.

CAPITOLO QUINTOPROBLEMI COMUNI AI CONTRATTI INTERNAZIONALI: IN GENERALE

Nozione di contratto internazionaleBenché ogni tipo di contratto abbia una sua peculiarità, pare innegabile che esistano dei

problemi comuni al ‘contratto internazionale’, a prescindere dalla sua causa, dai suoi contenuti, dalla natura della obbligazioni che ne discendono e così via (responsabilità precontrattuale, pagamento, penali, risoluzione per inadempimento).

Il contratto internazionale è lo strumento del commercio internazionale: ma come definirlo? La nozione che più di frequente è offerta comprende tutti i contratti che presentano dei points de rattachement, dei punti di contatto, con più di un ordinamento, al fine di individuare la legge applicabile allo stesso. Attualmente si è però sostenuto che tale approccio internazionalprivatistico non sia del tutto soddisfacente per una serie di motivi:

1. può condurre a risultati opposti da quelli voluti dalle parti;2. può non consentire di tener conto di tutti i collegamenti coi diversi ordinamenti

che un rapporto giuridico internazionale può avere;3. può condurre all’impossibilità della delocalizzazione parziale.

Il contratto internazionale deve essere dunque letto in una prospettiva che vada al di là di una scelta di ordinamento, tenendo maggiormente conto del dato fattuale, dell’effettiva regolamentazione che le parti hanno dato ai propri interessi, in modo da attuare una vera e propria delocalizzazione. In questo modo si considererebbe internazionale il contratto che le parti possono sottoporre ad altra legge che non sia quella nazionale, ma in ogni caso la definizione sarebbe legata ai points de rattachement.

La realtà del commercio internazionale allarga allora la nozione ad ‘ogni rapporto contrattuale non destinato ad esaurirsi, nei suoi elementi oggettivi o soggettivi, esclusivamente all’interno di un solo ordinamento statuale’: ciò che conta secondo la prassi internazionale è quindi sia la qualità degli elementi soggettivi sia degli elementi oggettivi. Non sarà quindi internazionale il contratto di compravendita concluso fra due soggetti dello stesso ordinamento, anche se la merce è poi destinata all’esportazione, mentre sarà internazionale il contratto tra quest’ultimo, l’esportatore e l’importatore cui centro di interessi e di affari è situato in un altro ordinamento.

Tecniche di redazione del contrattoNei paesi di common law il drafting style dei contratti è influenzato dalle tecniche di

redazione delle leggi: così come i legislatori, dovendosi difendere dall’attitudine delle Corti di

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interpretare le leggi alla lettera ed in modo rigido, hanno sviluppato la tendenza a formulare le norme con grande cura ed in modo assai dettagliato, allo stesso modo coloro che si accingono a rediger un contratto prevederanno clausole e disposizioni in maniera tale che difficilmente potranno essere definite astratte e generali.

Un secondo motivo di tale tendenza è dovuto all’assenza di un codice, ossia all’assenza di una norma di default che possa intervenire nel caso di lacune o mancanze nel contratto previsto tra le parti.

Il modello di civil law, sia di redazione delle norme sia di produzione di contratti, è invece opposto, caratterizzato da norme laconiche e prive di definizioni.

Si può quindi dire che in generale esistono due grandi modelli di drafting legal tecnique:1. uno proprio dei paesi di common law: il contratto è ad auto-integrazione, ossia self-

regulatory, in quanto molto dettagliato e tale da contenere tutti gli elementi che le parti ritengano rilevanti e tutte le ipotesi che si potranno verificare: gli strumenti per risolvere qualsiasi caso futuro si ritrovano dentro il contratto stesso;

2. l’altro sviluppato nei paesi di civil law: il contratto può essere definito ad etero-integrazione. Qualora le parti non si fossero espresse circa un certo punto, o qualora sorga un dubbio o un conflitto, si fa infatti ricorso alle norme del codice che disciplinano quel determinato tipo di contratto. Il contratto sarà allora breve, sintetico, con individuati solo gli elementi essenziali.

Esportata a livello internazionale, tale distinzione ha portato alla maggior diffusione della drafting style tecnique dei paesi di common law: grazie alla previsione di una disciplina ad hoc maggiormente dettagliata, quasi omnicomprensiva, essa riesce infatti a garantire maggiormente la delocalizzazione che le parti di un contratto internazionale cercano.

Bisogna però dire che sarebbe buona cosa che esistesse un collegamento fra tecnica di redazione del contratto, lingua dello stesso, legge applicabile e foro competente: utilizzare il drafting style della civil law per un contratto governato dalle regole di un ordinamento giuridico appartenente alla common law potrebbe infatti riservare sorprese, e lo stesso si potrebbe dire per il caso opposto.

Scelta della tecnica di redazione: tailor-made, boiler-plateSempre più spesso la scelta del modo redazionale di un contratto internazionale sfugge

alle parti, o ad alcune di esse.1. in certi settori economici la prassi dell’uso di modulari preparati dalle

associazioni di categoria è talmente radicata, che venditore ed acquirente trovano assai comodo riferirvisi (commercio internazionale di cereali, e più in generale delle commodieties –merci, derrate, materie prime);

2. altre volte le grandi multinazionali si sono costruite il loro contratto tipo con due funzioni precise: difendere i loro interessi di fronte a terzi contraenti; uniformare il comportamento di tutte le società del gruppo;

3. altre volte è il contraente più forte che prepara il testo del contratto e lo sottopone all’approvazione dell’altra parte (anche se non si tratta di contratto per adesione, la parte più debole ha molte poche possibilità di rimettere in discussione un pezzo del contratto);

4. le parti possono prevedere di ricorrere a contrati-tipo redatti da enti od organizzazioni internazionali (Uncitral, Ompi).

Più in generale si può dire che si ritrovano nella prassi internazionali due tendenze apparentemente opposte di redazione dei contratti:

1. tailor-made (fatti su misura): contratti c.d. complessi che, per loro natura, sono unici;

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2. boiler-plate (standardizzazione dei contratti): contratti ripetitivi.Spesso tuttavia le due tecniche si mescolano, tanto che in alcuni contratti tailor-made si

utilizzano clausole e istituti standardizzati tutte le volte che ci siano problemi giuridici ‘tipici’ (clausola di forza maggiore o di revisione dei prezzi), mentre capita anche nei contratti boiler-plate che si costruiscano clausole specifiche data la presenza di elementi peculiari al caso concreto.

La cosiddetta atipicità dei contratti nella prassi del commercio internazionaleNegli ordinamenti di civil law si distingue tra contratti tipici, disciplinati espressamente

dal codice, e contratti atipici, tutti quelli non disciplinati ma riconosciuti in base al principio della autonomia delle parti.

Benché molti giuristi ritengano superata l’età della codificazione, il fatto che molti paesi in via di sviluppo, una volta raggiunta l’indipendenza, accedano ai codici, ha determinato un’inversione di tendenza e un riaffacciarsi del problema

Nel commercio internazionale, come detto non caratterizzato da un codice, ma soprattutto nel quale convivono ordinamenti di civil law ed ordinamenti di common law, ossia sistemi nei quali sono previsti e regolati i contratti tipici e altri nei quali invece non si fa riferimento ad essi, si ha molto raramente il ricorso ad una forma pura di contratto tipico. Ciò è dovuto in secondo luogo al fatto che molto spesso le parti vogliono raggiungere obiettivi economici che non trovano sbocco nella disciplina tipicizzata dal legislatore, sicchè forgiano il contratto inserendovi clausole o patti che sono tipiche di altri contratti. Si viene così a creare il c.d. contratto misto, che contiene elementi propri di contratti tipici diversi.

Al di là dei contratti misti, frutto della commistione tra clausole di contratti tipici, il commercio internazionale ha visto il sorgere, e lo svilupparsi, di nuove figure contrattuali sconosciute, o allo stato embrionale, nei diritti nazionali: esplorazione petrolifera, contratti ‘chiavi in mano’, contratti di consulenza e/o assistenza, e così via.

Mentre tali contratti, se stipulati in ambito di common law, saranno, come detti, auto-integrati, ossia self-regulatory, non richiedendo alcun adattamento,nel modello di civil law si sono sviluppate una teoria dell’assorbimento, secondo la quale dovrebbe farsi ricorso alle norme proprie del tipo contrattuale prevalente (la figura contrattuale che nell’economia complessiva del contratto abbia maggior rilevanza) e una c.d. della combinazione, secondo la quale si applicherebbero le norme corrispondenti di ciascun tipo, in quanto compatibili.

Questa è un’altra ragione per la quale si preferisce il modello di drafting style proprio della common law: la tipicità tradizionale, basata sul codice, è allora caduta, per lasciare spazio alla tipicità basata sulla prassi, sulle consuetudini degli attori del commercio internazionale ed i contratti da loro stipulati.

La lingua del contrattoOgni contratto internazionale stipulato fra due soggetti che non appartengano ad ordinamenti

che si esprimono in una lingua comune presenta il problema della lingua in cui è redatto.In genere vige la libertà per i contraenti di scegliere la lingua che preferiscono: tale

regola subisce però delle limitazioni in alcuni casi, come quando uno dei contraenti sia uno Stato od un suo organismo, oppure quando lo stesso abbia stabilito per legge tutti i termini contrattuali: in questi casi non accetterà lingue che quella nazionale.

In generale si sta imponendo come lingua dei contratti internazionali l’inglese, probabilmente per ragioni storico-economiche. Va detto però che si trovano usate anche il francese, lo spagnolo, il tedesco ed altre lingue.

I vari ordinamenti possono prevedere che un contratto cui sia richiesta la registrazione a pena di nullità sia redatto in una determinata lingua.

In generale si può ricondurre la prassi a tre tipologie di comportamento:

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1. l’uso di diverse lingue aventi tutte valore ufficiale;2. l’uso di una lingua ufficiale e di un’altra non ufficiale;3. l’uso di una sola lingua.

La prima soluzione appare la più pericolosa perché impone il rischio della traduzione, e ciò può avere effetti collaterali per quanto riguarda gli istituti, le categorie e i concetti giuridici che, propri di un ordinamento, non sempre trovano l’omologo nell’altro

La seconda soluzione, basata sulla clausola di prevalenza, appare la più ragionevole, quando la seconda lingua continui, per varie ragioni, ad essere richiesta. Il testo ufficioso, redatto in un no ruling language, sarà allora molto importante, anche se non potrà essere usato quale strumento esclusivo di interpretazione del contratto, ma potrà in ogni caso favorirne l’interpretazione.

La terza soluzione è quella maggiormente indicata per un contratto internazionale: in questo modo non sorgono infatti dubbi di natura interpretativa linguistica, all’ordine del giorno invece laddove siano impiegate più lingue, anche se solo una ufficiale. Il problema che si pone in questo caso è però quello della scelta della lingua, sempre che questa non sia vincolata a priori. Una soluzione valida è quella di definire, all’inizio del contratto, molti dei termini usati nello stesso: tale previsione rileva sia nella fase antecedente alla sottoscrizione del contratto, sia alla fase della sua esecuzione. Si pensa infatti che sia si abbia un vizio del consenso per nel caso in cui vi sia stata ignoranza o falsa rappresentazione di un termine da parte di una delle parti (generalmente quella che non provvede a definirlo) e che questo possa costituire un errore ostativo: allo stesso modo alcuni sostengono che ci possa essere violazione del canone di buona fede qualora la parte incaricata di redigere il contratto abbia approfittato della sua posizione per introdurre nel contratto termini la cui esatta portata essa sa essere ignota alla controparte. Si deve però dire che le due difese sono di difficile attuazione, e per questo le guide ai contratti internazionali suggeriscono una serie di precauzioni.

Nel momento dell’esecuzione del contratto può invece accadere che la legge a cui è sottoposto si esprima in una lingua diversa da quella del contratto: in mancanza di una specifica indicazione delle parti sulla legge applicabile, ci si è chiesto se l’uso di una specifica lingua possa essere indizio sufficiente di sottoposizione del contratto al relativo diritto: la risposta è stata negativa, perché l’uso della lingua spesso è dovuto ad altre ragioni e perché non esisterebbe più quando la lingua scelta sia la lingua ‘universalmente franca’. Ad una simile conclusione si potrebbe arrivare solo nel caso di un contratto redatto nella lingua A che utilizzi parole della lingua B per fare preciso riferimento a categorie e concetti propri dell’ordinamento di B e ignoti all’ordinamento A.

Le soluzioni migliori, opposte, appaiono allora essere quella della denazionalizzazione quanto più possibile del contratto e quella del raccordo tra l’elemento della lingua, della legge applicabile e del foro competente.

Il problema della lingua emerge a partire dai primi contratti tra le parti, dallo scambio di offerte e controfferte, e per questo motivo sarebbe ideale che a partire da subito le parti decidessero quale lingua utilizzare nella stesura del contratto e utilizzare la stessa anche per la negoziazione, in modo che non vi sia il rischio di discrepanze.

Nel caso in cui il contratto presentato alla firma sia in lingua diversa rispetto a quella del negoziato si potrà probabilmente eccepire la non conformità del testo presentato oppure richiederne la rinegoziazione (a meno che così non fosse stato precedentemente stabilito).

La legge regolatrice: in generaleÈ principio generalmente riconosciuto che le parti aderenti ad un contratto internazionale

possano liberamente scegliere a quale legge sottoporre il rapporto: la Convenzione dell’Aja

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sulla legge applicabile alle vendite del 1955, ribadita nel 1985, così come la Convenzione di Roma, hanno provveduto a stabilire tale regola anche in strumenti di diritto uniforme.

La libertà lasciata alle parti può però non essere tale da determinare un equilibrio tra le stesse: ciascuna vorrà infatti che sia preso come riferimento il proprio ordinamento e non quello della controparte, e ciò dipenderà da più motivi (il primo dei quali è di ordine psicologico –ordinamento che si consoce bene rispetto a uno che probabilmente non si conosce).

Per questo motivo se una delle parti non accede alla volontà dell’altra si sceglie spesso la legge di un paese terzo.

Le norme di DIP, che intervengono nel caso in cui le parti non abbiano previsto nulla, determinano la scelta di un ordinamento piuttosto che di un altro: non sarà però mai scelto un ordinamento che non abbia alcun punto di collegamento, point de rattachement, con il contratto in questione, sacrificando così la neutralità.

Una tecnica consacrata dagli internazionalisti è quella del depaçage, che consentirebbe alle parti di frazionare il contratto, sottoponendo pezzi diverse a leggi diverse.

Esistono però modi per denazionalizzare il contratto, ossia per evitare il ricorso ad una legge nazionale:

1. prevedere un contratto il più dettagliato possibile, self-regulatory, indicando una legge applicabile solo in via residuale;

2. impiego di un contratto-tipo predisposto da enti od organizzazioni o associazioni internazionali;

3. sottoposizione del contratto ad una legge uniforme, quando esista.In tutti e tre questi casi il contratto non avrebbe una legge nazionale di riferimento: si può

però ancora parlare di contratto senza che vi sia una legge di riferimento? E ancora, nel caso in cui nei tre casi precedenti sia prevista una clausola arbitrale che dia agli arbitri mandato di applicare la lex mercatoria, si può riconoscere che il grado di delocalizzazione e denazionalizzazione sarebbe massimo.

A ben vedere, però, la necessità di ricorrere all’autorità nazionale nel momento dell’enforcement della sentenza arbitrale fa ben vedere che non si può prescindere totalmente dagli ordinamenti statali, i quali richiederanno allora il rispetto dei principi di ordine pubblico e delle norme di applicazione necessaria dell’ambito cui il contratto si riferisce.

Il contrasto delle norme scelte dalle parti con i principi dell’ordine pubblico e con le norme cogenti relative alla materia del contratto fa si che il contratto sia self-regulatory ma non possa ottenere l’exequatur, ossia non possa essere fatto rispettare in maniera coercitiva.

Data l’attuale prassi commerciale di formazione dei contratti e data la possibilità che intervengano soggetti di paesi diversi, per prestazioni in paesi terzi, ecc., la determinazione della legge da applicare al contratto è fondamentale: si rischia infatti non solo che vengano applicate leggi di ordinamenti ignoti agli stessi contraenti (ad esempio la legge del paese nel quale la prestazione deve essere eseguita, che magari è una trivellazione a Cuba) oppure che allo stesso contratto sia applichino due o più leggi diverse, e sicuramente non verrebbero incontro le regole sussidiarie in caso di mancata scelta delle parti, perché esse sono assai divergenti tra Stato e Stato (si pensi che nel caso di un contratto di agenzia tra proponente italiano ed agente tedesco, per le DIP italiane la legge applicabile sarebbe quella italiana, mentre per il DIP tedesco sarebbe quella tedesca): per questo molte convenzioni internazionali si sono sforzate di dettare dei criteri uniformi.

Per la vendita di cose mobili c’è la Convenzione dell’Aja del 1955.Per il trasferimento di proprietà in caso di vendite internazionali di cose mobili corporali

c’è la Convenzione dell’Aja del 1958.Per il riconoscimento della personalità giuridica delle società straniere c’è la

Convenzione dell’Aja del 1956.

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Per il diritto applicabile ai contratti di rappresentanza la Convenzione del 1978.Altri criteri si trovano nelle convenzioni Unidroit sul factoring e il leasing internazionale.

La Convenzione di Roma del 1980Libertà di scelta delle parti, espressa o risultante dalle disposizioni del contratto o dalle

circostanze, che può riguardare tutto il contratto o solo una parte dello stesso. La scelta della legge applicabile può essere modificata in qualsiasi momento.

Per i contratti conclusi con il consumatore, la scelta della legge non potrà essere tale da privare quest’ultimo delle protezioni garantitegli dalle disposizioni imperative della legge del paese nel quale risiede abitualmente (lo stesso vale per il contratto di lavoro).

È ammessa la possibilità di un contratto totalmente interno regolato in base a legge estera, però quest’ultima non deve essere tale da pregiudicare le norme imperative del paese, di cui non si può impedire l’applicazione, e che quindi disciplinano il caso concreto indipendentemente dalla legge che regola il contratto.

L’applicazione di una norma designata alla convenzione può essere esclusa solo se tale applicazione sia manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro.

Il foro competenteLa scelta del foro competente può servire a raggiungere vari obiettivi:

1. può determinare quale legge applicare al contratto sulla base del principio della lex fori, ma solo se le parti non abbiano previsto nulla a riguardo;

2. può rafforzare la scelta della legge regolatrice;3. può controbilanciare la scelta di una legge regolatrice che le parti considerano

più favorevole ad un dei contraenti;4. può ulteriormente rafforzare la denazionalizzazione del contratto nel caso in cui

non si sia trovato l’accordo sull’arbitrato internazionale.Se questi possono essere gli effetti, non è detto che la scelta di un determinato foro abbia

sempre effetti di attribuzione o di preclusione della competenza: al giudice di quel foro si può infatti essere arrivati in base alla scelta delle parti o alle norme di DIP.

Di solito i paesi che ammettono la libera scelta della legge applicabile, riconoscono alle parti la libertà di scelta del foro: vi sono però alcuni paesi nei quali, per singoli contratti, la deroga del foro è inefficace (Arabia Saudita per i contratti di agenzia): l’articolo 2 c.p.c. non ammette alcuna deroga contrattuale alla giurisdizione italiana nei contratti tra stranieri e cittadini residenti o domiciliati in Italia, a meno di convenzioni bilaterali o multilaterali sul riconoscimento delle sentenze.

Nell’ambito Cee attualmente prevale la convenzione di Bruxelles del 1968, in base alla quale prevale la scelta effettuata dalle parti con clausola scritta qualora si tratti di contratto stipulato da almeno un soggetto parte di uno Stato contraente con deroga della giurisdizione a favore del giudice di un altro Stato contraente. Richiedendo la forma scritta e non la specifica approvazione la Convenzione di Bruxelles ha rigettato l’idea che la deroga al foro sia da considerarsi clausola vessatoria. Se poi la clausola non sia contenuta nel testo sottoscritto dalle parti, è almeno necessario che si faccia rinvio ad essa: in caso contrario non sarà operativa.

In caso di assenza di una scelta preventiva del foro al momento della stipula del contratto può avvenire un fenomeno, molto comune negli USA, di forum shopping, con la ricerca da parte dell’attore della giurisdizione che si presenti più vantaggiosa per quanto attiene all’ammontare del risarcimento, ai termini di prescrizione, ai requisiti procedurali e così via.

Per opporsi alla scelta del foro in assenza di precise indicazioni contrattuali, sarebbe data al convenuto, secondo la dottrina del forum non conveniens, la possibilità di dimostrare che la controversia potrebbe essere più opportunamente decisa, nell’interesse delle parti e della giustizia,

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da un’altra giurisdizione presso la quale l’azione avrebbe potuto essere intentata (alla base ci sarebbe un principio di equity).

CAPITOLO SESTOPROBLEMI COMUNI AI CONTRATTI INTERNAZIONALI SECONDO LE FASI DELLA LORO VITA

Responsabilità precontrattualeL’ambito della responsabilità precontrattuale è poco regolato anche a livello di ordinamenti

interni: la massima attenzione dei legislatori va infatti ai contratti a formazione istantanea piuttosto che a quelli a formazione progressiva.

La realtà economica moderna va però nel senso opposto: la stipula del contratto appare infatti come momento terminale di lunghe, delicate e costose trattative.

Alla lacuna storica dei codici nazionali ha fatto da contraltare la fioritura di proposte dottrinali.

Diritto italiano: art. 1337, principio di buona fede che sarebbe violato quando una parte si ritira immotivatamente e determina risarcimento del danno.

Paesi di common law: se originariamente si difendeva la freedom not to contract fino al momento in cui il contratto veniva posto in essere, e dopo che per lungo tempo si è stentato a riconoscere l’esistenza di un dovere generale to bargain in good faith, oggi sono sempre più frequenti i casi in cui si sanziona una blameworthy (meritevole di biasimo) conduct.

Le osservazioni, valide a livello nazionale, hanno un moltiplicatore esponenziale a livello di commercio internazionale, dato che l’iter per giungere alla conclusione di tali contratti è spesso lungo e tortuoso (studi di mercato, analisi di fattibilità, analisi di documenti o bilanci della controparte, studi sul sistema legislativo, fiscale e valutario dell’altro paese, conoscenza di segreti aziendali altrui, ottenimento di autorizzazioni e concessioni, ricerca di finanziamenti) con impiego di tempo, personale, spese e rischi.

È generalmente riconosciuta l’esistenza, nella disciplina dei contratti commerciali internazionali, di un principio di buona fede da rispettare nelle trattative precontrattuali, la cui violazione è variamente sanzionata: recesso dalle trattative, risarcimento, penali e così via.

Quale può essere il contenuto del principio di buona fede?1. informazione reciproca circa quegli elementi la cui conoscenza indurrebbe ad

assumere un atteggiamento diverso (obbligo di disclosure la cui violazione non rileva solo come causa di vizio del contratto una volta concluso, ma anche qualora non si arrivi al contratto);

2. obbligo di riservatezza tutte le volte che la divulgazione potrebbe avere come conseguenza un pregiudizio per uno dei contraenti ovvero l’intervento di terzi tale da farle fallire;

3. obbligo di non utilizzare o divulgare i segreti (know-how, programmi di ricerca, patti parasociali): secondo la common law la violazione di tale divieto sarebbe riconducibile più alla violazione di una fiduciary relationship, mentre per il civil law costituirebbe un illecito extracontrattuale più che una violazione del canone della buona fede.

Lettere di intentiIn ambito precontrattuale non solo è difficile individuare quando si possa parlare di una

responsabilità, ma anche individuare la legge da applicare e le eventuali sanzioni da applicare: per questo motivo molto spesso le parti prevedono un sistema di rimedi rapido, efficace ed interno a loro stesse.

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Tale risultato lo si ottiene tramite le cosiddette lettere di intenti (agreement in principle, letter of understanding, heads of agreement): la varietà della prassi è tale che è difficile fornire una nozione esatta ed unitaria.

Esse possono infatti coprire una vasta serie di ipotesi: dalla semplice dichiarazione delle parti di quale sia il loro obiettivo, al riconoscimento del punto cui sono arrivate le trattative, all’impegno di non rimettere più in discussione i punti sui quali si è raggiunto l’accordo, a veri e propri impegni giuridici che comportano obbligazioni per le parti (sia nel caso di conclusione dell’accordo sia di mancato accordo). Anche se spesso sono firmate da entrambe le parti, può accadere, non di rado, che siano dichiarazioni unilaterali da una parte all’altra.

Difficile da definire è dove finisca la lettera di intenti e inizi il contratto: sicuro è che se rimane in bianco uno degli elementi essenziali di quest’ultimo non si avrà nulla più che un documento precontrattuale. Nel caso in cui, invece, rimangano solo da definire dei dettagli o elementi accessori e risulta che le parti ritengono che gli elementi sui quali l’accordo è raggiunto bastino a far nascere il contratto, siamo già nel campo della responsabilità contrattuale.

Di fronte alle lettere di intenti sorge un primo quesito circa il loro avere o meno contenuto giuridico: a riguardo è difficile dare una risposta generale, variando essa in rapporto alla nozione che di obbligazione vincolante hanno i singoli ordinamenti ed in relazione al contenuto delle lettere e al concreto atteggiarsi delle parti. Secondo tale cautela si potrà parlare di atti aventi contenuto giuridico solo nel caso di lettere contenenti impegni o accordi di differimento dell’efficacia del contratto sul quale le parti si dicono d’accordo. Nel caso in cui la lettera contenga un’individuazione dei punti sui quali le parti sono d’accordo e l’impegno a non ridiscuterli più, si ritiene che questo al massimo ispessisca il dovere di buona fede, ma non abbia natura vincolante, perché non si tratta di un contratto.

Documentano vere e proprie obbligazioni le lettere in cui le parti si impegnano nel caso di conclusione del contratto o di mancata conclusione dello stesso. Nel caso in cui ci si impegni ad una serie di comportamenti in base al punto delle trattative al quale si è arrivato, bisogna dire che gli impegni scattano automaticamente al raggiungimento di tale soglia.

Secondo la prassi internazionale sono lettere d’intenti anche le cosiddette instructions to proceed, con le quali una parte chiede all’altra di dare inizio all’esecuzione del contratto che è ancora in via di definizione: nel caso in cui le trattative non portino alla conclusione del contratto si ritiene infatti che non vi sia diritto al risarcimento per il mancato utile, ma solo diritto alla refusione dei costi sopportati.

Ha sicuramente contenuto giuridico il patto di prelazione, molto frequente fra parti che hanno già in essere rapporti.

Per quel che riguarda le lettere di intenti con le quali le parti sanciscono il loro accordo sul contratto sancendone però l’entrata in vigore a partire dal realizzarsi di una condizione, bisogna distinguere tra:

1. condizioni meramente potestative (come l’approvazione da parte del cda) che non fanno ritenere si possa parlare di accordo sul contratto, in quanto il perfezionamento dello stesso avverrà solo dopo che i soggetti che ne hanno la capacità lo avranno approvato. Chi sia titolare di tale potestà ha doveri che mirano a che gli sforzi non siano vanificati (obblighi di collaborazione cui specificazione va vista nel caso concreto). La violazione di tali obblighi determina responsabilità;

2. condizioni casuali (autorizzazioni di terzi, benestare di autorità governative, ottenimento di certi finanziamenti) che sono molto più frequenti: il mancato verificarsi di tali condizioni impedisce al contratto di acquistare efficacia ma non crea responsabilità;

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3. condizioni miste: se la mancata conclusione del contratto viene meno per una circostanza che dipende dai terzi non ci sarà responsabilità, mentre ciò si verificherà nel caso in cui una delle parti receda ovvero tenti di modificare il contratto in pendenza del verificarsi dell’evento dedotto in condizione.

Un problema controverso riguarda la natura della responsabilità precontrattuale, in quanto si oscilla tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: la risposta varierà a seconda dello stadio cui sono giunte le trattative, ossia se debbano considerarsi terminate o meno (nel primo caso responsabilità contrattuale, nel secondo no –come per gli obblighi di facere o non facere-).

L’incertezza circa la natura della responsabilità precontrattuale ha indubbie ripercussioni sulla determinazione del risarcimento (interesse negativo e/o positivo, danno alla reputazione commerciale o meno, ecc.).

Per ridurre tale incertezza le parti sono solite prevedere delle penali.

Lettere di patronageBenché il loro ambito di applicazione primario sia quello dei finanziamenti, dei rapporti con le

banche e le assicurazioni, esse trovano applicazione anche in altri contratti, soprattutto quelli nei quali ci sono impegni finanziari particolarmente rilevanti.

Così come le lettere di intenti, anche le lettere di patronage possono assumere o meno rilevanza giuridica.

Basate sui legami di vario genere che nel mondo degli affari uniscono un’impresa giuridicamente indipendente ad altra impresa, esse si trovano particolarmente nel caso di gruppo, ossia qualora vi sia la possibilità per un’impresa di esercitare un controllo determinante sul comportamento di un’altra impresa.

Appare infatti ovvio che l’assunzione e l’esecuzione di obbligazioni da parte di una controllata dipenda, a volte in maniera molto elevata, dai comportamenti della controllante: con le lettere di patronage si vuole ottenere lo stesso risultato delle garanzie tipiche ordinarie, usando però uno strumento sottoposto a diversa tassazione o disciplina.

Benché a livello di commercio internazionale si assista alla tendenza all’uniformazione della prassi, non risultano tuttora elaborati modelli o tipi di clausole, e la varietà dei comportamenti è ancora assai larga, talché risulta difficile enucleare delle categorie.

Si può però provare a fare una classificazione sulla base dell’impegno che le lettere di patronage determinano a carico del promettente:

1. dichiarazioni di mera policy con la quale la controllata dichiara di non aver mai voluto interferire con le decisioni delle controllate;

2. dichiarazioni confermative di controllo: la società controllante comunica ai terzi il suo controllo su un’altra società (disclosure);

3. dichiarazione d’influenza, di mera solvibilità o solvibilità specificamente finalizzata al pagamento delle proprie obbligazioni;

4. dichiarazioni di solvibilità con assicurazione dell’adempimento.Solo gli ultimi due casi di lettere di patronage determinano la nascita in capo al

dichiarante di un’obbligazione, che può essere più o meno forte (nel caso delle lettere di mera dichiarazione rileva solo il caso in cui non siano veritiere, che determina una responsabilità extra-contrattuale): da un lato si hanno dichiarazioni con le quali la controllante si impegna a non svuotare per finalità sue proprie la controllata, garantendo quindi la solvibilità o i mezzi per la solvibilità dell’obbligazione. Nell’ultimo caso, invece, la controllante assume un obbligo specifico per un risultato a favore del destinatario della lettera di patronage: in questo caso ci si trova infatti di fronte ad una promessa del fatto del terzo molto vicina alle fideiussioni, che però non ricade in tale fattispecie perché è proprio questa che si vuole evitare.

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Nel nostro ordinamento si è detto che in quest’ultimo caso una violazione determinerà, qualora l’impegno obbligatorio sia riconducibile ad un istituto tipico del nostro ordinamento, una responsabilità contrattuale.

Momento della conclusione del contrattoLa distinzione tra contratti a formazione istantanea ed a formazione progressiva non ha più

utilità sotto il profilo della conclusione del contratto e della battle of the forms.Si considerano contratti istantanei quelli nei quali si ha istantanea percezione della

comunicazione rispetto alla sua emissione. Nel commercio internazionale rilevano però altre distinzioni, ed in particolare quella tra

contratti di beni di genere e quelle afferenti beni singolarmente individuati; tra contratti di massa e contratti individuali.

Contratti di beni di genere-contratti di beni singolarmente individuati: distinzione che si basa sulla natura dei beni. Saranno beni di genere le commodities e le materie prime, ma anche i titoli e i valori (beni commercializzati in borse o mercati). La conclusione di tali contratti avviene generalmente per telefono o verbalmente, e sarà quindi istantanea: non si presenta dunque la battle of the form perché gli operatori non si serviranno di formulari.

Contratti di massa: si basa sulla standardizzazione delle condizioni dei contratti ed è tipica del caso in cui il produttore offra una gamma di prodotti affini ad un numero potenzialmente illimitato di acquirenti o, viceversa, quando l’acquirente si rivolge ad un numero potenzialmente illimitato di fornitori di beni individuati per natura, caratteristiche, prestazioni. Gli imprenditori tenderanno, in questi due casi, a standardizzare i loro contratti attraverso le cosiddette condizioni generali: qui il problema della battle of the forms è centrale.

Il problema deriva dal fatto che molte poche volte ci sarà la contemporanea presenza dei contraenti al momento della conclusione del contratto: l’individuazione del momento di conclusione del contratto non è quindi così facile. Common law e civil law hanno da sempre individuato norme diverse per la individuazione del momento della formazione dei contratti nel caso in cui fossero conclusi inter absentes:

1. nel modello di common law la regola è che il contratto è concluso nel momento della spedizione dell’accettazione (mail-box rule);

2. nel modello di civil law, cui paradigma è l’art. 1326 c.c. it. il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte, in base alla c.d. teoria della cognizione. In realtà, però, nel mondo di civil law non vi è grande uniformità nell’applicazione della regola in questione.

Accettare un modello piuttosto che un altro ha, tra le altre conseguenze, anche quello della possibilità di una revoca dell’offerta e, anche se in grado minore, di revoca dell’accettazione: in una circostanza di formazione progressiva del contratto, come è nel caso di contratti internazionali, è utile per l’offerente sapere fino a quale momento può revocare la sua offerta e, per il ricevente, revocare la sua accettazione.

Avere criteri uniformi sarebbe molto importante: l’unico campo dove si è raggiunto un qualche risultato è quello della compravendita di beni mobili, ma non si è trovato l’accordo sulla preferenza all’uno od all’altro modello: ciascun modello ha fatto alcune concessioni all’altro senza però rinunciare totalmente al proprio principio. Il modello basato sul mail-box rule sta accogliendo l’importanza della conoscenza da parte dell’offerente per l’efficacia dell’accettazione, mentre il modello c.d. romane inizia a riconoscere che il contratto si abbia per stipulato in un momento anteriore alla conoscenza dell’accettazione.

Sarà quindi buona norma, al fine di evitare le incertezze in ordine al momento perfezionativo del contratto, derivante anche dalle possibilità di dépeçage lasciate aperte dalle convenzioni, che i

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futuri contraenti, nel corso delle trattative, indichino chiaramente quando intendono che il contratto sia concluso

Condizioni generali di contratto (battle of the forms)Quando le parti di un contratto internazionale comunicano con formulari già predisposti

che contengono clausole standard, il cui contenuto è diverso se non in contraddizione, sorgono alcuni problemi:

1. quando si forma il contratto?;2. sulla base di quali condizioni generali si è formato il contratto?; 3. la validità delle stesse (di fronte ad eventuali norme nazionali sulle condizioni generali

di contratto).In generale si è detto che il contratto si formerà sulla base dell’ultima di tali forms, alla

quale il destinatario non abbia opposto una sua controproposta: la realtà è però più complessa, perché molto spesso ciascun contraente prevede nel proprio formulario che saranno le proprie condizioni a prevalere.

La regola generale in materia di formazione del contratto è: proposta-accettazione-controproposta, con la controproposta che equivale ad una qualunque accettazione modificata. In questo modo però erano numerosissimi i casi nei quali non si arrivava alla conclusione del contratto. Per evitare ciò si è pensato, nel modello di common law, di distinguere tra termini addizionali (o secondari) e termini fondamentali (o essenziali).

Secondo lo United Commerce Code, una accettazione contenente termini addizionali o differenti da quelli dell’offerta può valere a concludere il contratto e questi termini entrano nel contratto a meno che l’offerta espressamente limiti l’accettazione al contenuto dei termini dell’offerta o che essi materialmente alterino l’offerta.

Fra i paesi di civil law non esiste una regola unitaria: per l’Italia una accettazione non conforme all’offerta equivale a una nuova proposta, lo stesso vale in Germania, mentre il codice Svizzero pone la distinzione tra controproposta e aggiunta di elementi secondari.

La Convenzione di Vienna costituisce un compromesso tra i due modelli: prevede infatti la regola della controproposta, ma la attenua con la sotto-regola dei termini addizionali o differenti con l’onere per l’offerente di obiettare, specificando che non potranno mai essere considerati tali quelli riguardanti prezzo, pagamento, qualità e quantità, luogo e tempo di consegna, responsabilità di una parte, risoluzione delle controversie.

SEZIONE II FASE DELL’ESECUZIONE

GaranziePer svariate ragioni nel commercio internazionale le garanzie svolgono un ruolo assai più

importante che nei rapporti commerciali domestici: difficoltà di conoscere a priori quale legge regoli i rapporti, lungaggini delle procedure giurisdizionali, difficoltà nell’esecuzione delle sentenze, impossibilità frequente di esecuzione in forma specifica, difficoltà di trovare beni del debitore da aggredire.

Le garanzie pecuniarie costituiscono quindi una difesa per le parti ed allo stesso tempo un deterrente contro l’inadempimento.

Le garanzie più comuni sono:1. garanzia d’offerta: bid bonds o tenders bonds: l’ente che bandisce una gara

internazionale generalmente le chiede a chi vi partecipa. Deposito cauzionale, indice di serietà o solvibilità del partecipante alla gara, e impegno a dare esecuzione agli obblighi che derivano dalla aggiudicazione ed in particolare all’obbligo di stipulare il contratto;

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2. garanzie di buona esecuzione: performance bond: riguardo la corretta esecuzione della prestazione oggetto dell’obbligazione;

3. garanzie di rimborso: payment bonds: in caso di anticipo di somme da parte del beneficiario;

4. garanzie di manutenzione: maintenance bonds.Gli strumenti giuridici attraverso i quali fornire tali garanzie sono svariati (fideiussione,

cauzione, polizze assicurative, crediti documentari), e altrettanto vari possono essere i soggetti che le forniscono (banche, compagnie di assicurazioni, etc.).

A differenza della fideiussione, che è obbligazione accessoria rispetto all’obbligazione principale, e quindi richiede la prova dell’inadempimento per poterne usufruire, il bond generalmente utilizzato a livello di commercio internazionale è indipendente ed astratto rispetto al contratto, quindi determina la liberazione del beneficiario dalla necessità di provare l’insesecuzione da parte del garantito, dell’obbligazione principale. SI parla allora di garanzie a prima vista (on demand) mentre all’opposto vi sono le meno gradite garanzie on default, che richiedono un previo accertamento in via definitiva dell’inadempimento.

L’automaticità delle garanzie induce i prestatori di garanzie a prestarle con maggior facilità, dato che rimangono sollevate da ogni incombenza relativa alla valutazione delle prove addotte dal beneficiario in ordine all’inadempimento del fornitore; inoltre sanno che a parti invertite la banca controgarante pagherebbe, evitano di avere uno scredito alla propria immagine e che eventuali fondi di loro pertinenza depositati presso l’altra banca vengano bloccati.

Il problema dell’automaticità deriva dalla possibilità di una escussione anche se il fornitore non sia inadempiente oppure l’inadempimento riguardi un elemento secondario: se si forza il carattere autonomo della garanzie al massimo livello, si deve dire che una volta pagata la garanzia, nemmeno la prova dell’adempimento potrebbe essere tale da determinare una ripetizione.

Non si è però andati tanto lontani nel considerare l’autonomia della garanzia e le sue conseguenze: si è giunti infatti solo a dire che è indifferente rispetto alle mutazioni del contratto principali e che ad essa non si applicherà il saggio di interessi convenuto nel contratto principale ma il saggio legale.

Detto della autonomia e astrattezza, i vari ordinamenti del mondo le hanno più o meno riconosciute, prevedendo però, in caso di clear fraud, di un comportamento manifestamente fraudolento, l’inibitoria a pagare nei confronti dei garanti: certo è che il comportamento deve essere manifestamente e chiaramente fraudolento (prova documentale dell’adempimento, inadempimento imputabile al beneficiario).

Il carattere on demand della garanzia crea però molti problemi: le parti prevedranno infatti nel testo del contratto una possibilità di escussione immediata indipendentemente dalla prova dell’inadempimento. Per questo motivo si è cercato di introdurre dei correttivi che potrebbero essere fatti accettare al beneficiario e che dovrebbero limitare la sua possibilità di essere sempre garantito, tra cui chiedere di fornire garanzie documentali circa l’inadempimento.

A livello di prassi non si è ancora raggiunti una regolamentazione condivisa a livello internazionale.

In sede arbitrale si è invece sostenuto l’indipendenza e astrattezza della garanzia, ma si è anche detto che non equivale ad un diritto astratto all’incasso, e può quindi conciliarsi con provvedimenti urgenti per opporsi ad escussioni abusive.

Per questo tanto a livello di ICC quanto di dottrina internazionale sono state avanzate delle proposte in merito: obbligo del beneficiario di depositare presso la banca i documenti probatori del suo diritto (proposta dall’ICC e in contrasto con l’idea di garanzia on demand), limitazione nel tempo della validità della garanzia, previsione della progressiva riduzione

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dell’importo alla garanzia in rapporto agli stadi di esecuzione del contratto, previsione che il pagamento della banca sia condizionato alla presentazione di un certificate of default da parte di un terzo indipendente designato nel testo stesso della garanzia (expertise ad opera di un terzo).

Hardship clause e force majeureUn carattere che tende ad uniformare tutti i contratti internazionali è quello della

durata: più a lungo i rapporti commerciali internazionali dureranno, maggiore sarà il rischio di mutamento di circostanze, che possono rendere l’esecuzione di una delle parti assai più onerosa rispetto all’equilibrio dinamico iniziale.

Devono allora essere presi in considerazione due principi:1. non ogni fatto contingente che possa pregiudicare la convenienza economica

dell’esecuzione potrà giustificare la mancata esecuzione;2. il verificarsi di circostanze che erano imprevedibili al momento della stipula del

contratto possono disequilibrare sostanzialmente la posizione economica delle parti, a beneficio di una sola di esse.

Le cause possono essere le più svariate: dal verificarsi di eventi naturali imprevedibili (terremoti, inondazioni, guerre), a mutamenti dell’assetto politico di un certo paese, dell’assetto monetario internazionale, di politiche commerciali o monetarie, e, in generale, di tutte le misure che possono turbare il commercio internazionale.

Detto che i contratti internazionali di lunga durata presentano la peculiarità che difficilmente e raramente possono essere risolti, e che la risoluzione non gioverebbe a nessuna delle parti, i principi tradizionali sviluppati negli ordinamenti giuridici sono assolutamente inadeguati per una risposta consono alle nuove esigenze degli operatori internazionali.

In tutti gli ordinamenti, tanto di civil law quanto di common law, troviamo infatti teorie circa la sanctity of contract, la generale norme del pacta sunt servanda, e del contratto che una volta per tutte stabilisce la allocazione del rischio di fronte alla quale si può opporre solo la forza maggiore.

In generale nei sistemi di civil law quindi il contratto può essere modificato solo con il consenso dalle parti o per cause previste dalla legge: nel caso di forza maggiore, invece, si avrà risoluzione. Di fronte ad avvenimenti irresistibili, imprevedibili, esterni al debitore che è del tutto privo di colpa, si potrà allora invocare la forza maggiore e la risoluzione: in nessun caso si potrebbe provvedere ad una modifica del contenuto del contratto.

Una simile rigidità la si trova anche nel sistema britannico, laddove domina la teoria della frustration del contratto nel suo scopo, interpretata per lungo tempo in maniera molto rigida: adempimento materialmente impossibile che determina liberazione dall’obbligo (la chiusura del canale di Suez non fu ritenuta una causa di liberazione dell’obbligato trasportatore).

Il nuovo spirito del diritto commerciale, sulla scia dell’United Commerce Code, sembra però indurre le Corti a procedere ad una modificazione giudiziale dei termini del contratto, onde preservarne i benefici a vantaggio di entrambe le parti, quando la contingency abbia sconvolto l’equivalenza di base delle prestazioni (Germania, Svizzera, Italia ed eccessiva onerosità sopravvenuta applicabile ai contratti non aleatori ad esecuzione continuata, periodica o differita, che pare sicuramente innovativo, ma ugualmente inadeguato perché prende in considerazione solo un settore di sopravvenienze contrattuali, legato alle variazioni del valore o del costo della prestazione, lasciando in ombra tutte le altre circostanze, perché collega l’eccessiva onerosità all’area dell’imprevedibile, senza però definirla, e perché non prevede un potere del giudice circa l’adattamento del contratto, ma solo una possibilità di risoluzone).

La prassi internazionale ha allora tentato di prevedere un’alternativa tra la impossibilità di intervenire nel contratto e la facoltà di dichiararne la ineffettività qualora ci si trovasse

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nella situazione di forza maggiore: si è cercato di introdurre una possibilità di revisione, rinegoziazione, giurisdizionale del contenuto contrattuale.

A tal fine si utilizza la tecnica dell’hardship clause: viene infatti introdotta nei contratti una clausola che consente la revisione del contratto nel caso di circostanze sopravvenute che alterano sostanzialmente l’originale equilibrio nelle obbligazioni delle parti, che però va al di là delle cause di forza maggiore, mirando a disciplinare le conseguenze di mutamenti fondamentali e profondi delle condizioni economiche, che producono uno sconvolgimento nell’economia del contratto, non rendendone però impossibile l’esecuzione (solo in quest’ultimo caso si ricorrerà alla disciplina della forza maggiore). A differenza delle clausole atte a fronteggiare singoli rischi (revisione di prezzi, rischi monetari), la previsione di una hardship clause consente di porre rimedio ad un’ampia serie di circostanze sopravvenute, senza la necessità di una loro previa determinazione.

Tale tecnica di redazione dei contratti rientra sicuramente nel più generale indirizzo verso una autoregolamentazione delle possibili controversie ad opera delle parti stesse: in questo modo infatti sono le parti stesse a determinare la strada da seguire in momenti critici. Le hardship clause sono infatti tali da prevedere le circostanze nelle quali si applicano e le conseguenze del loro verificarsi. Per quel che riguarda le circostanze si deve dire che esse saranno sempre esterne alle parti che la invocano e tali da incidere in misura sostanziale sull’equilibrio del contratto (il punto più problematico è il raggiungimento di un accordo circa la effettiva presenza di condizioni tali da determinare il ricorso ad hardship clauses: può infatti facilmente accadere che la parte che non invoca tale circostanza, che sicuramente trarrà beneficio dal mutamento delle circostanze, provi ad approfittarne. Le parti dovranno allora prevedere la procedura, che può prevedere un accertamento ad opera delle stesse o da parte di un terzo); per quanto riguarda le conseguenze del ricorso a tale clausole, si può dire che esse determinano generalmente ricorso a soggetti terzi per la definizione delle conseguenze, i quali non avranno come unica alternativa la pronuncia della risoluzione del contratto, ma potranno anche prevederne la sospensione (se gli effetti della circostanza sono limitati ad un certo periodo) e la rinegoziazione (questo è il punto più importante di tutta l’impalcatura messa in piedi tramite l’hardship clause).

Saranno le parti a determinare il procedimento attraverso il quale si realizzi la rinegoziazione: può essere che le parti decidano di fare da sé, ma che non si mettano d’accordo. In questo caso si potrà o richiedere la risoluzione del contratto che non si riesce a rinegoziare e che è divenuto maggiormente oneroso o impossibile da adempiere, o ci si potrà rivolgere al giudizio di un terzo (in particolare ad un collegio arbitrale, cui funzione sarà peculiare perché dovrà colmare le lacune lasciate dai vari ordinamenti in materia di hardship clauses, il che però rende difficile l’individuazione dello strumento per conferire al risultato dell’arbitrato un’efficacia vincolante nell’ordinamento interno che interessa).

Clausole di revisione prezziIl prezzo, considerato da sempre come un elemento dell’alea contrattuale normale, è stato per

lunghissimo tempo concepito come fisso o stabile: solo nelle più recenti codificazioni, di fronte a svalutazioni ufficiali e di inflazione galoppante, si è prevista la possibilità di revisione del prezzo, ma sempre e solo in caso di avvenimenti imprevedibili, trovando un equilibrio tra l’esigenza di stabilità e certezza, da un lato, e la realizzazione dello scopo economico del rapporto contrattuale.

I motivi che hanno portato a tali innovazioni negli ordinamenti interni sono ancora più acuiti a livello internazionale: contratti nei quali tali clausole sono tipicamente previste sono i contratti di durata e quelli ad esecuzione differita. Attualmente si può dire che la clausola di revisione prezzi opererà non solo nel caso di eventi imprevedibili, ma anche in presenza di variazioni sui costi di beni e servizi.

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Quattro sono gli elementi da considerare:1. in base ai criteri scelti per la suddivisione del rischio si possono avere due modalità

per l’operatività della clausola:a. con franchigia: fino ad un certo livello di aumento dei costi la revisione non

scatta. Si potrà poi decidere se la revisione riguarderà solo la differenza che supera la franchigia o se, a partire dal momento del superamento di tale soglia, si applicherà all’intero ammontare.

b. senza franchigia: la clausola di revisione opera in presenza di qualsiasi aumento.

2. Vi è anche la possibilità per le parti di prevedere una ripartizione dell’aumento del prezzo e dei suoi effetti onerosi

3. bisogna inoltre preventivamente individuare la composizione del costo del bene, e decidere se ed in che modo gli aumenti di singoli fattori assumano rilevanza ai fini della revisione.

4. scelta dei parametri di riferimento: per evitare contestazioni è necessario stabilire il momento di partenza dell’operatività della clausola, i luoghi o le piazze alle cui quotazioni fare riferimento, e così via;

5. quanto alla prova è ovvio che l’onere spetti a colui che invoca l’operatività della clausola.

La mancata previsione di una clausola esplicita di revisione prezzi potrà essere aggirata attraverso la previsione di una hardship clause ed il ricorso ad essa: come detto la clausola di revisione prezzi è una delle espresse clausole di revisione contrattuale che già prima del ricorso alla tecnica delle hardship veniva utilizzata.

Moneta di pagamentoRiguardo alla moneta prevista per il pagamento si deve distinguere tra il caso nel quale

il creditore voglia incassare o voglia riutilizzare la somma ricevuta: nel primo caso infatti gli converrà ricevere il pagamento nella moneta dello Stato dove vorrà incassare, nel secondo caso invece sarà meglio pattuire un pagamento nella moneta con la quale è più facile portare a termine i negozi giuridici che ha in programma.

Le leggi dei vari Stati possono:a. lasciare la libera scelta della moneta;b. imporre il pagamento verso l’estero solo con la moneta avente corso legale;c. consentire che l’incasso avvenga all’estero oppure che debba avvenire nel paese.

Se determinato in una moneta non avente corso legale nello Stato, il pagamento avrà effetto solutorio solo per volontà delle parti (Italia, Francia).

Si deve poi distinguere tra moneta del contratto e moneta del pagamento: la prima riguarda la moneta in cui il debito è espresso (moneta in obligatione), mentre la seconda riguarda quella con cui l’obbligazione deve (o può) essere soddisfatta (moneta in solutione).

In generale l’attuale tendenza è quella di riconoscere la piena validità di un debito espresso in moneta straniera, tanto che anche Corti nazionali si spingono sino ad emettere sentenze di condanna in moneta straniera se questa era pattuita dal contratto.

Rischio di cambioMolto spesso nei contratti internazionali intercorre un certo lasso di tempo dal momento

nel quale l’obbligazione monetaria viene stabilita e la scadenza della stessa. In tale spazio è possibile che vi sia un mutamento del rapporto tra le monete sulla base delle quali le parti avevano fatto i loro calcoli (nel fare l’offerta o nell’ordine della merce).

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Tale situazione si denomina generalmente come rischio di cambio: può infatti accadere che al momento della conversione nella moneta avente corso legale nel paese in cui il debitore intende incassare la somma, il cambio risulti diverso da quello che era al momento in cui è stato stipulato il contratto.

Per evitare il rischio di cambio, ossia che a parità di somma straniera il creditore si trovi con una somma di denaro inferiore, si possono introdurre vari correttivi: è in ogni caso necessario che le parti pongano la massima attenzione sul punto nella redazione del contratto.

a. Clausola oro: un tempo molto utilizzata è caduta in desuetudine dopo la dichiarazione di incontrovertibilità del dollaro nel 1971 che ha portato ad enormi fluttuazioni del valore del metallo;

b. Clausola valuta estera: si fa riferimento ad una moneta ritenuta stabile, ma la scelta deve essere accurata;

c. Clausola paniere di monete: può essere costruita ad hoc oppure fare riferimento ad unità monetarie prestabilite;

d. Clausola di cambio: si ancora la conversione della valuta di fatturazione in quella nazionale ad un rapporto di cambio prefissato.

e. Acquistare e vendere sempre con la stessa moneta (tecnica esterna al contratto).Il problema si riduce di molto nel caso di scambi sotto forma di barter (baratto).Una recente tecnica per la eliminazione del rischio di cambio è invece quella dello ‘swap’

da intendersi come quel contratto col quale due soggetti si scambiano gli eventuali vantaggi o svantaggi connessi alle oscillazioni dei rapporti di cambio della valuta straniera nella quale sia espresso il debito o credito di ciascuno di essi.

Nella prassi è molto diffuso il ricorso ad un intermediario finanziario che funge da clearing house (banca o società finanziaria).

PagamentiSe il corrispettivo di un bene è stabilito in una somma di denaro, il pagamento costituisce la

controprestazione del beneficio. Relativamente al pagamento sono da analizzare quattro elementi: tempo, modo, luogo e

moneta. Le problematiche che derivano dal fatto che si tratta di operazioni commerciali internazionali

sono: non praticabilità di un pagamento contestuale alla consegna; rischio per l’acquirente di un pagamento al momento dell’ordine; rischio per il venditore nel caso di pagamento dopo la consegna (o ancora di più di quello dilazionato).

Le parti prevedranno allora nel contratto modalità di pagamento che ritengano tali da determinare un sostanziale equilibrio:

a. Pagamento diretto dall’acquirente al venditore (all’ordine, alla consegna, nel momento in cui si ricevano i documenti rappresentativi della merce –pagamento a vista, sight payment-, in un momento successivo con garanzia costituita nella riserva di proprietà –che dipende dalla natura del bene e che può trovare ostacoli nelle formalità necessarie per l’opposizione ai terzi -1153 in Italia è contro questo tipo di garanzia-, cambiali;

b. Accordi con i quali si incarica la banca dell’incasso: collection agreements: si danno istruzioni ad una o più banche circa l’incasso della somma. Il rischio è quello di incomplete o imprecise istruzioni o di difficoltà interpretative delle stesse;

c. Crediti documentari bancari: modalità più frequente di pagamento. Apertura di lettere di credito che consiste in un ordine dato ad una banca di pagare il venditore dietro presentazione da parte di quest’ultimno dei documenti di

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spedizione. In tal modo si realizza l’interesse del venditore che è sicuro di ottenere il pagamento e quello dell’acquirente che paga solo quando la merce è già uscita dalla disponibilità del venditore ed a lui spedita. Può anche essere che il pagamento sia effettuato da una banca ad un’altra banca: in questo caso la notizia all’acquirente potrà essere data tanto dalla prima banca quanto dalla seconda. Le normative nazionali non hanno recepito in maniera sufficientemente diffusa. L’ICC ha predisposto invece delle ‘Norme e pratiche uniformi per i crediti documentari’. Le norme uniformi prendono anche in considerazione la possibilità del beneficiario di un credito di trasferire ad un altro soggetto il diritto di utilizzarlo: in questo modo è consentito che, ad esempio, parte della somma ricevuta dall’intermediario sia direttamente rigirata sul conto del produttore del bene, salvaguardando però il bisogno di riservatezza dell’intermediario che vuole impedire alle altre parti di mettersi direttamente in contatto con il produttore (il credito deve però essere dichiarato trasferibile e vi è il limite di un solo trasferimento, anche se in paese diverso da quello del primo beneficiario). Nel caso in cui la banca dichiari non trasferibile il credito, il primo beneficiario può chiedere l’apertura di un credito documentario sussidiario che tragga le risorse proprio dal suo credito e che abbia come destinatario il secondo beneficiario (controcrediti o crediti documentari back to back). L’obbligo della banca è in ogni caso astratto rispetto al rapporto che gli dà causa e ai rapporti tra le banche, per cui resta in piedi anche nel caso in cui quelli dovessero venire meno. Gli obblighi dell’istituto di credito si limitano ad una verifica della regolarità dei documenti stabiliti (strict compliance) di modo che essa non sarà responsabile per le eventuali falsificazioni od alterazioni dei documenti che non emergano da un’analisi strettamente formale degli stessi.Rientrano nelle crediti documentari bancari anche le stan by letters con le banche USA e giapponesi, alle quali era fatto divieto di predisporre garanzie espressamente, raggiungevano lo stesso scopo: con queste lettere, che impegnano un istituto bancario a pagare nel momento in cui gli vengano presentate e al verificarsi di determinate condizioni, le banche garantivano infatti l’esatto adempimento di obbligo.

Finanziamento di creditiQualora il pagamento non avvenga in uno dei modi sopra esaminati, il venditore si

troverà in mano una massa di crediti per la cui realizzazione deve affrontare una serie di problemi: ai fini di riscuotere i crediti a livello internazionale si sono diffuse tre tecniche: non-recourse financing, forfaiting e factoring.

a. Non recourse financing: un finanziatore si impegna nei confronti del venditore a pagargli l’intero prezzo delle forniture dietro consegna dei documenti di spedizione, prendendo su di sé i rischi connessi alla posizione finanziaria dell’acquirente. A sua volta l’acquirente si obbliga nei confronti della finance house a pagare il prezzo di acquisto alla consegna dei documenti di spedizione. Differisce dall’attività di una banca confermante di una lettera di credito in quanto all’esportatore non si richiede di prendersi una responsabilità personale e se la fattura non sarà pagata dall’acquirente la finance house non avrà rivalsa.

b. Forfaiting: l’acquirente a forfait dei titoli di credito accetta di assumersi il rischio e la responsabilità di riscossione, senza rivalsa nei confronti del venditore, e si farà garantire da un soggetto finanziatore. Tale prassi si verifica quando l’acquirente abbia bisogno di prodotti ma non abbia liquidità e allo stesso tempo

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il venditore sia disponibile a consegnare i beni ma non possa procurare al compratore il credito a medio termine.

c. Factoring internazionale: tale prassi solleva il venditore da ogni problema successivo alla vendita (contabilizzazione, gestione di debiti, crediti, recuperi), che gravano su una società di factoring che fornisce servizi. Si ha sostanzialmente un imprenditore creditore che cede o si impegna a cedere ad un altro imprenditore (factor) tutti i crediti derivati o derivandi dall’esercizio della sua impresa. Il factor accetta (e allora assume il rischio dell’insolvenza dei debitori ceduti) o si riserva il diritto di accettare (la cessione allora sarà pro solvendo). Al cedente verrà accreditata una somma pari al valore nominale del credito meno una commissione per l’attività: tale accredito può essere contestuale alla scadenza dei singoli crediti, anticipato rispetto ad esse o successivo. I servizi che la società di factoring fornisce al creditore sono essenziali nel momento in cui la cessione è pro solvendo: la riscossione sarà infatti affidata alla società. Il contratto di factoring non è tipicizzato dal legislatore, quindi richiede un’attenta valutazione della prassi (si è aperto più di un dibattito circa la natura del rapporto di factoring, sottolineando come sia legato tanto a funzioni di liquidità quanto di pagamento e collaborazione gestionale). Factoring non è una cessione singola o una sommatoria di singole cessioni: è un rapporto che si instaura concepito come economicamente unitario in virtù della sua sistematicità e globalità. Si è poi dibattuto circa la sua natura di contratto normativo o preliminare (nel caso in cui la cessione del credito sia pro soluto o pro solvendo): in linea di massima si può dire che sia entrambi.Il rischio nel factoring internazionale deriva dall’appartenenza a due ordinamenti diversi sia dei soggetti parte del contratto sia delle società di factoring: ciò può portare non solo a problemi di valuta, ma anche a problemi di diverse legislazioni in materia. Per tale ragione la Factors Chain International ha promosso un codice di condotta sul factoring internazionale e si è provveduti alla compilazione tanto di convenzioni internazionali quanto di leggi uniformi.

La legge uniforme Unidroit sul factoring internazionaleIl 28 maggio 1988 è stata approvata ad Ottawa ed aperta a ratifiche la Convenzione di diritto

uniforme sul factoring internazionale, preparata dagli esperti dell’Unidroit. Ai fini della convenzione il contratto di factoring è quello concluso tra un fornitore ed un factor in base al quale il primo può o si impegna a cedere al factor crediti sorti dalla vendita di beni ed il factor deve svolgere almeno due fra queste funzioni: finanziare il fornitore, anche su prestiti o anticipazioni, tener i conti, incassare i crediti, assumersi il rischio di mancato pagamento. Deve sempre essere effettuata comunicazione al debitore ceduto. Rendendo possibile la cessione anche di crediti non specificatamente individuati, la legge Unidroit rende possibile la cessione al factor di crediti futuri in quanto identificabili con sufficiente certezza. Gli effetti della cessione dei crediti futuri si produrranno quando i crediti vengono ad esistenza e senza bisogno di alcun nuovo negozio di cessione da parte del fornitore

In conclusione la convenzione è frutto del desiderio di trovare un testo il più accettabile possibile al maggior numero di Stati. Il prezzo tuttavia è alto: per un verso sono riemerse soluzioni tipicamente nazionali, per altro verso si è dovuto rinunciare a disciplinare alcuni punti (per esempio quello sulla opponibilità ai terzi) sui quali le delegazioni governative non sono state pronte a rinunciare a soluzioni tradizionali.

SEZIONE IIIFASE DELLA CESSAZIONE E DELLA PATOLOGIA

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Cessazione del contrattoLa cessazione del contratto può essere:

a. Un fatto fisiologico (termine o recesso nel caso di contratti a tempo indeterminato);b. Un fatto patologico (impossibilità sopravvenuta o nel caso di in esecuzione).

Le tecniche tradizionali con le quali gli ordinamenti nazionali cercano di risolvere il problema della cessazione patologica poggiano sull’esecuzione forzata oppure sulla risoluzione per inadempimento con il conseguente obbligo di risarcire i danni.

I problemi nascono dal fatto che non tutti gli ordinamenti riconoscono, o riconoscono nello stesso modo, la possibilità di ricorrere all’esecuzione forzata, e anche dal fatto che molto spesso è difficoltoso perseguire, direttamente o in via di regresso, i responsabili dei danni, sia perché le conseguenze si fanno risentire in ordinamenti diversi sia perché esse potrebbero superare l’ammontare totale del contratto ineseguito.

Cessazione per scadenza o per recessoLe parti possono prevedere che la cessazione dell’efficacia di un contratto sia collegata al

raggiungimento di una certa data, che ne determina la scadenza, o all’esercizio del diritto di recesso per opera di una delle parti. Per una maggior semplificazione giuridica è da consigliare la scelta del contratto a tempo determinato, con scadenza, piuttosto che un contratto a tempo indeterminato con diritto di recesso.

Il contratto a tempo indeterminato può essere sciolto in qualunque momento o per comune volontà delle parti o per recesso unilaterale, ma il tal caso tutti gli ordinamenti hanno sviluppato la regola dell’equo preavviso che, qualora non stabilito dal contratto stesso, viene fissato dal giudice in relazione agli usi commerciali oppure alla lunghezza del rapporto pregresso.

Quanto al recesso in tronco o per giusta causa, esso è ammesso in tutti gli ordinamenti, ma è opportuno che i contraenti specifichino le fattispecie in presenza delle quali possa verificarsi.

Cessazione per inadempimentoIn tutti gli ordinamenti non ogni violazione di qualsiasi clausola contrattuale costituisce

inadempimento che dia alle parti la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto.Nel common law si richiede un fundamental breach: si avrà breach of a fundamental

quando a causa di esso la prestazione sarà radicalmente diversa da quella che le parti avevano voluto, ossia quando riguarda una condition, ossia un elemento contrattuale sostanziale.

Nella civil law il rimedio di risoluzione è negato se l’inadempimento ha scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra parte.

In entrambi i casi il carattere fondamentale o la non scarsa importanza devono essere valutati non solo alla luce di elementi oggettivi, ma anche soggettivi, ossia tenendo conto dell’importanza che tale aspetto ha all’interno della regolazione di interessi che le parti hanno posto in essere.

Nelle convenzioni di diritto uniforme, al contrario, si tende ad oggettivizzare la nozione di violazione sostanziale del contratto (pregiudizio sostanziale e imprevedibilità nella Cvim): si vuole realizzare una sorta di responsabilità oggettiva che risulta attenuata dal sistema delle esenzioni e dal parametro della ragionevolezza.

Nei contratti di durata la risoluzione per inadempimento si traduce in un recesso.La difficoltà di ottenere l’esecuzione in forma specifica di un contratto ha portato tanto

la common law quanto la civil law a trovare dei deterrenti all’inadempimento, il più automatici possibili: se a tutto ciò si aggiunge l’interesse, nel commercio internazionale, all’esecuzione più che al risarcimento, si comprende la cura con la quale le parti disciplinano le

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penali in funzione di deterrente all’inadempimento, la ricerca di forme risarcitorie forfetizzate, le clausole di esclusione di responsabilità.

Eliminazione dei vizi, sostituzione dei pezzi difettosi, azione di riduzione del prezzoCome detto, a livello di commercio internazionale la risoluzione dei contratti si configura

come un rimedio sempre più residuale, poiché non viene incontro agli interessi di nessuno dei contraenti. Per questo è fondamentale trovare degli accorgimenti per consentire al rapporto di proseguire anche nel caso di problemi o variazioni delle condizioni.

La regola delle hardship clauses ne è la massima conferma. Espressioni di questa tendenza sono anche la possibilità di un’azione di sostituzione o riparazione (sconosciuta nell’ordinamento italiano) o di riduzione del prezzo, molto familiare negli ambienti giudiziari e commerciali dei paesi continentali, ma ignota come rimedio autonomo nella common law.

Penali e risarcimento forfetarioLa clausola penale può servire ad un duplice scopo: agire come deterrente e costringere

il debitore di una prestazione ad eseguirla puntualmente, oppure servire come mezzo per liquidare anticipatamente il danno (per il ritardo nell’esecuzione, l’inadempimento di garanzie , la mancata consegna, l’inesecuzione di un’obbligazione di acquisto o delle obbligazioni inerenti alla difesa dei brevetti, etc.

Nei vari ordinamenti giuridici si è giunti a diverse soluzioni:a. Common law: se la somma stipulata mira ad essere un deterrente (penal clause),

essa è nulla se sproporzionata al valore del contratto e se oltrepassa i danni che possono derivare dal suo inadempimento; se invece la somma è considerata una liquidazione anticipata e forfetaria dei danni, che la parte inadempiente dovrà pagare in caso di in esecuzione, i giudici non potranno intervenire anche se il danno risultasse inesistente, minore o maggiore della somma stabilita (liquidated damages). La differenza di regime dipende dall’essere intervenuta l’equity al fine di evitare l’abuso derivante dalla possibilità che attraverso la clausola penale una parte potesse trarre un vantaggio maggiore di quello derivante dall’esatto adempimento della prestazione.

b. Civil law: si deve distinguere tra i vari ordinamenti. In Francia, ad esempio, il nuovo codice non distingue tra i due obiettivi della clausola penale e respinge generalmente la possibilità di un intervento del giudice, a meno che sia considerata manifestamente eccessiva. In Italia si distingue tra penale pura e penale non pura, e la regola generale è che il giudice ne possa ridurre l’entità. In Germania il giudice può ridurre la penale se è sproporzionatamente alta, rimanendo però ammessa la risarcibilità del danno ulteriore ove provato (mentre in Italia e in Spagna ciò non è ammesso perché si ritiene che la penale abbia lo scopo di liquidazione anticipata del danno): è escluso però l’intervento del giudice nei rapporti tra commercianti.

Tale varietà di discipline costituisce un serio ostacolo all’uso tranquillo delle clausole penali (nel loro duplice obiettivo) nel commercio internazionale: a tale inconveniente si è cercato di rimediare sia attraverso la predisposizione di contratti tipo delle varie associazioni per il commercio internazionale sia attraverso il sistema delle convenzioni (convenzione di diritto uniforme Benelux sulle penali contrattuali. L’ulteriore danno è da escludersi a meno di espressa previsione delle parti.

Esonero o limitazioni di responsabilità

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L’esonero o limitazione della responsabilità di colui che è tenuto alla prestazione è obiettivo ampiamente ricercato dagli interpreti del commercio, specialmente internazionale.

La limitazione, fino ad un certo punto, della responsabilità, si può ottenere con la previsione di una clausola penale che non tenga in considerazione il danno ulteriore.

Altre clausole perseguono però questa specificamente tale obiettivo:a. Clausola di esclusione oggettiva: ampliando l’ipotesi di forza maggiore oppure

escludendo la responsabilità per certi uso o utilizzi del bene;b. Clausola di esclusione soggettiva: per esempio si risponde solo in presenza di dolo

o colpa grave;c. Limitazioni quanto alle categorie di danni;d. Limitazioni quanto all’entità del danno: si risponde fino ad una certa sogliae. Limitazione quanto alle condizioni: ad esempio si rovescia l’onere della prova

Attraverso la previsione di tali clausole, gli imprenditori rendono prevedibili e sopportabili certi rischi circoscrivendone l’estensione: le clausole di limitazione della responsabilità sono però da distinguere rispetto alle clausole che limitano l’obbligazione, riguardo alle quali non si dovrebbe parlare di responsabilità. Vogliono anche evitare che l’ammontare dei danni sia maggiore del profitto.

È facile osservare che le clausole di esonero sono più rare di quelle limitatrici, vuoi perché difficili da imporre alla controparte, vuoi perché rischiano l’illiceità, soprattutto allorché concernono la non esecuzione di obbligazioni essenziali: alla ricerca di un equilibrio tra autonomia delle parti ed esigenza di impedire che una delle parti sia sollevata da qualsiasi impegno di diligenza nell’esecuzione della sua prestazione, i vari ordinamenti sono arrivati a conclusioni quali l’art. 1229 c.c. it. che vieta le limitazioni della responsabilità in caso di dolo o colpa grave.

Per evitare la sopraffazione della parte più debole si ha quasi ovunque un atteggiamento c.d. di vitcim approach, in base al quale, come nel caso della recente legislazione in materia di consumatore.

Il rischio nei contratti internazionali è che si debba far riferimento a legislazioni interne, e che quindi le parti si trovino di fronte ad un diritto diverso da quello conosciuto.

Il danno da responsabilità contrattualePaesi di civil law: i criteri che dominano sono quelli dei danni diretti ed immediati e della

prevedibilità al momento in cui è nato l’obbligo contrattuale.Nel common law inglese si usano le categorie di causation e remoteness, ossia di nesso

causale e di prevedibilità ragionevole.Nella prassi internazionale il risarcimento da inadempimento sarà un pieno risarcimento,

che comprenda tanto il damnum emergens quanto il lucrum cessans, con l’aspirazione di porre la parte non inadempiente nella stessa posizione in cui essa si sarebbe trovata se la prestazione dell’altra fosse stata esattamente adempiuta.

Il problema è il calcolo del lucro cessante, del loss of profit: si pensa che si possa prendere in considerazione fino all’estremo della prevedibilità. Il secondo limite è quello della evitabilità della perdita.

Il problema si complica perché molto spesso nei contratti internazionali si fa riferimento ai consequential damages resulting from the seller’s breach (fino a che punto si può parlare di danno consequenziale?).

Responsabilità extracontrattualeI danni in un’azione aquiliana non hanno la limitazione della prevedibilità al momento

dell’assunzione delle obbligazioni, ma si estendono a tutti i danni, con il solo limite derivante dalle regole sulla causalità.

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Non solo consequential damages, ma anche danni indiretti dunque. Detto che l’azione per il risarcimento dei danni contrattuali non esclude quella per i

danni extracontrattuali, e viceversa, è chiaro come le parti nello stipulare un contratto internazionale debbano impiegare la massima cura nel definire nei dettagli e secondo l’oggetto i tipi di danni che vogliono includere od escludere dal risarcimento.

Responsabilità precontrattualeIn ambito precontrattuale emerge la risarcibilità dell’interesse negativo, ossia dei danni

rappresentati dalle spese, dalle perdute occasioni di stringere altro valido contratto, dalll’attività sprecata nelle trattative e sottratta ad altre utili applicazioni, ecc.

CAPITOLO SETTIMOL’AREA DELLA COMPRAVENDITA INTERNAZIONALE

COMPRAVENDITA INTERNAZIONALE

PremessaLa compravendita rimane il contratto principe del commercio internazionale. Se prima

dei codice la lex mercatoria presentava un alto grado di uniformità tra i paesi che più commercializzavano ed era al contempo tale da stare al passo con i tempi, con i codici queste caratteristiche si sono affievolite. L’uniformità della disciplina della vendita internazionale si è quindi affievolita, ed è stata da sempre una delle aspirazioni più forti del mondo degli affari internazionali.

Oggi un contratto di compravendita internazionale è sottoposto ad uno di questi tre regimi:

a. Convenzionaleb. Pattizio, con adesione ad un contratto-tipoc. Pattizio, interamente libero

Convenzione dell’Aja del 1964A partire dagli anni ’30 l’Unidroit individuò nella vendita uno dei campi di proficuo

lavoro unificante: grazie agli studi comparatistici di Rabel si diffuse l’idea che non uscire dalle soluzioni nazionali non avrebbe solamente realizzato uniformità, non solo non avrebbe realizzato uniformità, ma avrebbe altresì ampliato le divergenze già esistenti.

Due prime convenzioni furono stipulate all’Aja nel 1964, cui seguì la convenzione di Vienna del 1980. Alle due prime convenzioni sono poi allegate la legge uniforme sulla formazione del contratto di compravendita internazionale di beni mobili (Lufc) e sulla vendita internazionale di tali beni (Luvi). Attraverso l’analisi comparativa sono allora stati proposti i modelli ritenuti migliori, e nel caso in cui tutti sembrassero obsoleti, si è scelta la strada dell’innovazione.

Definizione di vendita internazionaleL’art. 1 della convenzione dell’Aja definisce la vendita internazionale sulla base di due

criteri di internazionalità, uno soggettivo e l’altro oggettivo: sarà internazionale il contratto concluso da contraenti il cui centro degli affari sia situato in Stati diversi quando l’oggetto dello stesso o la sua conclusione saranno internazionali.

Si può parlare di oggetto o conclusione del contratto internazionali quando:a. La merce faccia o farà oggetto di un trasporto da uno Stato all’altro;b. Oppure gli atti costituenti offerta ed accettazione sono stati compiuti in Stati

differenti;

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c. Oppure la consegna della cosa deve effettuarsi sul territorio di uno Stato diverso da quello nel quale sono state effettuate l’offerta e l’accettazione.

Per centro degli affari invece si intende la sede caratterizzata da funzioni direttive, dal quale viene diretta l’attività commerciale, e non il luogo nel quale vengono posti in essere i singoli rapporti di vendita (centro-vendite) o vengono prodotte, lavorate o depositate merci (unità aziendale): dunque sede amministrazione e non stabilimento o fabbrica.

Per l’applicazione delle convenzioni al contratto non è necessario che gli Stati siano firmatari della convenzione, ma basta che lo Stato nel quale si trova il tribunale competente (volontà universalistica della Convenzione dell’Aja che la convenzione di Vienna ha perso).

Le parti hanno però la facoltà di escludere, totalmente o parzialmente, esplicitamente o tacitamente, la legge uniforme: allo stesso modo gli Stati possono prevedere, al momento della ratifica, che applicheranno la legge uniforme solo a soggetti che abbiano il loro centro d’affari nel territorio dello Stato stesso.

Oggetto della legge uniformeOggetto della convenzione è la vendita, ossia lo scambio di un bene contro un prezzo: in

particolare essa regola esclusivamente le obbligazioni del venditore e dell’acquirente, e non la formazione del contratto, la capacità delle parti, la validità dello stesso, né gli effetti della conclusione del contratto sulla proprietà della cosa (riguardo a quest’ultimo punto alcuni hanno sostenuto che il trasferimento della proprietà non può essere separato dalla compravendita, mentre altri hanno sostenuto come il contratto crei solo obbligazioni). Il fulcro della Luvi è la consegna: non si occupa degli usi, che vengono però posti in posizione di supremazia rispetto alla legge uniforme.

Il sistema sanzionatorioRisoluzione: criterio dell’inadempimento essenziale, che si verifica, tutte le volte che la

parte inadempiente sapeva o avrebbe dovuto sapere, al momento della conclusione del contratto, che una persona ragionevole nella stessa posizione dell’altra parte, non avrebbe concluso il contratto se avesse previsto questo inadempimento e i suoi effetti.

Sanzioni connesse all’inadempimento che variano a seconda che si tratti di essenziale (mancata consegna) o non essenziale, lasciando la risoluzione solo alla prima delle due circostanze.

Carattere dettagliato e tecnicoLa legge uniforme sulla vendita dei beni mobili è piuttosto lunga: i redattori vollero infatti

fornire soluzioni il più dettagliate possibile. Mentre infatti nel diritto interno l’interpretazione può contare su di una base di istituti e di regole ben conosciute dal giudice, nel caso della legge uniforme, che si ispira ad istituzioni non sempre note nei paesi in cui dovranno essere applicate, è necessario poter contare su chiare e dettagliate spiegazioni degli istituti non noti.

Alcuni punti specifici della LuviForma: si è optato per la forma libera e per la possibilità di provare il contratto di

compravendita internazionale con qualsiasi mezzo, anche con testimoni.Esecuzione forzata in forma specifica: quando una parte ha diritto di esigere dall’altra

l’esecuzione di un obbligazione, nessun tribunale sarà tenuto a pronunciare o a eseguire un ordine specifico al di fuori del caso nel quale lo farebbe secondo il proprio diritto nazionale

Obbligazioni principali del venditore: consegna, rimessione dei documenti e trasferimento della proprietà. No obbligazione di garanzia, sostituita dall’obbligazione di consegnare una cosa conforme.

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Luogo di consegna: nel caso di trasporto si considera consegnata la cosa nel momento in cui viene consegnata al vettore.

Mancanza di conformità: prevede un’espressa elencazione dei casi concreti nei quali i beni non posseggono le qualità o le caratteristiche che esplicitamente o implicitamente erano contemplate nel contratto.

Obbligazioni dell’acquirente: pagamento del prezzo e presa in consegna. Il prezzo deve essere determinato o determinabile, o il contratto non si riterrà concluso (non si può quindi ricorrere al giudice).

Rimedi per il mancato pagamento: nel caso di violazione essenziale l’acquirente ha la scelta fra la condanna al pagamento o la risoluzione del contratto.

Risarcimento del danno: se il contratto non è stato risolto, si dovrà valutare il danno concreto, che comprende sia il pregiudizio subito che il mancato guadagno, limitato tuttavia al denaro che la parte inadempiente avrebbe dovuto prevedere al momento della conclusione. Nel caso di contratto risolto, invece, ci si ispira al compenso integrale del pregiudizio subito.

L’influsso della Luvi e la sua interpretazioneI criteri utilizzati dall’art. 1 della Luvi per definire l’ambito di applicazione della legge

uniforme sono assai complessi: per questo la convenzione di Vienna sulla vendita di beni mobili ha tentato di semplificarla, utilizzando i soli criteri soggettivi, di più facile individuazione.

A tale regime erano era arrivata anche la giurisprudenza, la quale applicava la Luvi indipendentemente dall’elemento oggettivo.

Un problema a riguardo è quello della sede secondaria, non esplicitamente contemplato dalla Convenzione: essi hanno ugualmente applicato la Luvi usando sostanzialmente quel criterio di stretta relazione con il contratto e la sua esecuzione che è stato poi ripreso dalla Convenzione di Vienna. La sede secondaria viene infatti considerata centro dei propri affari poiché in essa vengono compiuti in modo autonomo affari che si riferiscono alla propria attività.

Vendita e appaltoUn problema presente anche nel nostro ordinamento interno è quello della distinzione tra

contratto di compravendita e contratto d’appalto: servendosi del criterio della parte essenziale delle materie necessarie, la convenzione di Vienna ha voluto escludere dalla propria applicazione i contratti in cui parte preponderante delle obbligazioni consista in lavoro o altri servizi.

Applicazione dei principi generali che ispirano la disciplina uniformeLe questioni riguardanti materie disciplinate dalla Luvi ma non espressamente regolate

(ambiti non regolati della compravendita), dovevano essere risolte in base ai principi generali che la informavano. Il testo della Cvim invece prevede che, in mancanza di tali principi, si faccia riferimento alla legge applicabile secondo le norme di DIP, mettendo così in luce la difficoltà di raggiungere l’assoluta autonomia rispetto ai diritti nazionali, come invece perseguito dalla Luvi.

Un problema è sicuramente quello di individuazione dei principi generali, soprattutto se si tiene conto del fatto che si ha a che fare con una serie di paesi con culture giuridiche diverse. Si è allora sostenuto che sicuramente vi rientrino la ragionevolezza e la buona fede, il divieto di abuso del diritto, l’imputazione del pagamento al debitore più antico.

Consegna della cosa

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La Luvi non prevede un obbligo di garanzia da parte del venditore, ma solo un’obbligazione di consegnare cosa conforme. In caso di mancanza di conformità si potrà allora parlare di inadempimento, e di conseguente responsabilità: tutti i precedenti sul punto sono caratterizzati da un alto grado di specificità, il che li rende difficilmente generalizzabili (difetti del confezionamento, grosse differenze di colore, consegna di prodotti non originali, inesatto assortimento). Ovviamente si ritiene che il venditore sarà responsabile per la mancanza di conformità solo nel caso in cui il vizio esistesse già nel momento del trasferimento dei rischi al compratore, e che spetti a ques’ultimo provare che il difetto di conformità, constatato in data successiva, esisteva già al momento deil trasferimento dei rischi. Il termine per la denunzia dei vizi viene indicato come tempo ragionevole rispetto al momento della scoperta del vizio o nel quale avrebbe dovuto scoprirlo. La mancanza di colpa non è considerata rilevante ai fini della individuazione del vizio: quello che si guarda è se sia o meno rilevabile in base alle qualità soggettive dell’acquirente. La denuncia deve inoltre essere precisa, ossia comprendere tutto quanto richiesto dalla convenzione stessa.

Nel caso in cui il vizio di conformità sia noto al venditore si è ritenuto che l’acquirente conserva in ogni caso il diritto di avvalersi del vizio di conformità della cosa se il venditore aveva o avrebbe dovuto conoscere il vizio e non l’ha rivelato all’acquirente.

La consegna consiste poi nella dazione della cosa direttamente all’acquirente o ad un vettore, a meno che le parti non abbiano convenuto un altro luogo per la consegna.

Sanzioni di difetto di conformitàRisoluzione del contratto; adempimento parziale; conformità parziale del bene

consegnato al venditore. Lo spirito delle norme in materia mira a mantenere in vita, per quanto possibile, il contratto, riservando, ad esempio, la risoluzione del contratto solo all’ipotesi di un fundamental breach ed impedendola quando, seppur tardivamente, la controparte abbia adempiuto entro un termine ragionevole o entro il termine convenuto.

Nel caso di conformità parziale, l’acquirente può dichiarare la risoluzione del contratto solo per quanto concerne la parte non conforme, a condizione che le due parti possano, per loro natura, essere dissociate.

Obbligazioni del compratore, pagamento del prezzoPer la Luvi il luogo di esecuzione è il centro degli affari del venditore o, in difetto, la sua

residenza abituale: tale principio deve essere applicato anche al luogo della restituzione del prezzo di vendita. Il compratore dovrà quindi effettuare il pagamento in tale luogo, a meno di diverse previsioni. Il luogo del pagamento determina la legge applicabile alla prescrizione della relativa domanda, dato che la Luvi non dice nulla a riguardo. Il pagamento del prezzo avverrà nel centro d’affari del compratore solamente nel caso in cui la vendita di merci e la consegna avvengano mediante dazione della cosa o di documenti. Di regola il pagamento è contestuale al ricevimento della merce, ma, come detto, possono esserci eccezioni.

Rimedi per l’inadempimento del compratoreRisoluzione del contratto per mancato pagamento del compratore e risarcimento del

danno a favore del venditore: quando l’acquirente non adempie alla sua obbligazione di pagamento, i danni che il venditore può domandare comprendono anche gli interessi che ha dovuto pagare per ottenere il credito bancario di importo pari al prezzo.

Cause di esonero della responsabilitàLa Luvi prende in considerazione specifiche situazioni, determinando se si tratti o meno di

cause di esclusione della responsabilità per inadempimento. Non lo sono la mancata consegna

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da parte del fornitore al venditore se non è stata espressamente prevista nel contratto, e nemmeno la circostanza che nel periodo tra la conclusione del contratto e quello della consegna della cosa sia entrata in vigore nello Stato dell’acquirente una legislazione che proibisce l’utilizzazione della cosa nella composizione stabilita, qualora una persona ragionevole messa nella stessa situazione dell’acquirente, sarebbe stata in grado di prevedere l’entrata in vigore di una simile legislazione.

Costituisce invece causa di esonero il fatto che il bene non si trovi più sul mercato o che sia subentrato un divieto di esportazione che colpisca l’acquirente.

La legge uniforme sulla formazione dei contratti internazionali di vendita di beni mobili (Lufc)Adesso è disciplinata dalla Cvim: come la Luvi si è cercato di fare riferimento ad esso in tutti i

casi non fosse stato espressamente escluso dalle parti. In particolare si ritiene che fare riferimento ad un ordinamento di uno Stato sottoscrittore significhi fare riferimento alla Lufc.

Per quel che riguarda il suo contenuto specifico, si occupa solo della formazione del contratto, quindi di offerta e accettazione: di particolare si deve dire che la Lufc prende espressamente in considerazione il caso dell’accettazione attraverso comportamenti concludenti (come l’invio di parte della merce o come l’inizio dell’esecuzione dell’obbligazione) mentre nega che si possa parlare di accettazione nel caso di silenzio.

Inoltre fa propria la teoria dell’accettazione che è tale anche se siano stati modificati elementi secondari dell’offerta.

ConclusioniI giudici hanno resistito alla tentazione di interpretare le norme uniformi alla luce dei

criteri interpretativi nazionali, benché sia rimasta loro ignota l’esperienza dei colleghi di altri paesi aderenti, anzi, lo spirito del diritto uniforme contenuto nella convenzione dell’Aja ha già avuto effetti sui diritti interni, ed in particolare sull’interpretazione di questi da parte dei giudici.

In ogni caso nell’interpretazione della Convenzione di Vienna non si potrà prescindere né dai testi della convenzione dell’Aja né dalla sua interpretazione.

Le due convenzioni dell’Aja appaiono, però, carenti in alcuni punti: la convenzione di Vienna ha tentato di ovviare a tale circostanza chiarendo o semplificando le disposizioni, al fine di favorire una più larga diffusione di queste norme tra gli operatori economici interessati.

La Convenzione di Vienna del 1980Alla base della convenzione di Vienna vi fu la creazione all’interno delle Nazioni Unite, nel

1964, dell’Uncitral, il cui scopo principale era quello di predisporre leggi uniformi atte a migliorare il commercio internazionale.

Detto che l’Uncitral in primo luogo chiese agli stati membri delle Nazioni Unite di ratificare la convenzione dell’Aja, prese spunto da essa per arrivare alla produzione della Convenzione di Vienna, la quale, proprio come la Luvi e la Lufc, sottolinea il ruolo primario del contratto, quale espressione della libera formazione della volontà delle parti, e quindi non contiene norme imperative.

Come detto la Cvim si applica ai contratti tra parti aventi sede di affare in Stati diversi purchè ratificanti le convenzioni o purchè le norme di DIP rinviino alla legge di uno Stato che abbia ratificato: si è abbandonata la pretesa universalista della Luvi. Si trascurano i criteri relativi alle condizioni di conclusione del contratto e all’oggetto dello stesso.

L’applicabilità è poi esclusa nel caso di vendite al consumatore ma non alle vendite a rate.Si dice poi che l’interpretazione della convenzione deve rispondere al carattere

internazionale della stessa e all’esigenza di promuovere l’uniformità della sua applicazione.

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Per riempire le lacune si potrà poi fare riferimento ai principi generali sui quali è basata la convenzione (lealtà verso l’altra parte, dovere di cooperare, dovere di limitare i danni, tutela dell’affidamento, non andare contra factum proprium) o, in mancanza, alla legge nazionale selezionata tramite le norme di DIP.

Secondo la Convenzione di Vienna le parti saranno poi vincolate dagli usi che hanno accettato e dalle pratiche che si sono instaurate tra loro, ritenendosi implicitamente applicabili al contratto o alla sua formazione gli usi dei quali esse erano a conoscenza o che avrebbero dovuto conoscere e che nel commercio internazionale sono generalmente conosciuti e regolarmente osservati dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato. Unico modo perché gli usi non giochino alcuna rilevanza giuridica nel singolo contratto sarà allora la manifestazione di un’espressa volontà in tal senso (infatti anche se non sono espressamente indicati c’è una presunzione relativamente agli usi che si considerano widely known in quel settore commerciale).

Formazione del contrattoNon differendo molto dalle soluzioni adottate dalla Lufc, la Cvim risolve problemi relativi

tanto all’offerta quanto all’accettazione. Nello specifico dispone:a. Che cosa sia un’offerta e fino a quando sia revocabile;b. Che cosa sia l’accettazione e fino a quando sia revocabile;c. Da quale momento l’incontro di offerta ed accettazione produce effetti, ossia il

momento della conclusione del contratto.Alcune novità rispetto alla Lufc le presenta il primo punto: si richiede che l’offerta sia

rivolta ad una o più persone determinate e che per essere sufficientemente precisa debba indicare i beni e fissare esplicitamente o implicitamente la quantità ed il prezzo o dare indicazioni che consentano di determinarli.

Circa l’accettazione si riafferma il principio in base al quale può consistere anche in un comportamento concludente, mentre il silenzio o l’inattività non potranno mai essere considerati tali.

Così come la Lufc, dispone che un’accettazione cui siano state fatte aggiunte o modifiche di scarso rilievo è sufficiente a concludere il contratto.

Obbligazioni delle parti e inadempimentoMentre la Luvi prevedeva una serie di differenti rimedi per differenti inadempimenti,

per la Cvim il rimedio non dipende più dalla qualificazione formale dei tipi di violazione, bensì dalla serietà dell’inadempimento. A rilevare ai fini della risoluzione del contratto sarà il solo inadempimento essenziale (fundamental breach), ossia che riguardi clausole da considerarsi di vitale importanza nell’economia del contratto e la cui mancata esecuzione dà alla controparte il diritto di ripudiare il contratto.

Detto che la teoria del fundamental breach farebbe pensare ad un criterio di responsabilità oggettiva, la convenzione richiede però che vi sia prevedibilità, il che milita a favore della idea che il criterio seguito sia quello della colpa cui parametri sono stati il più possibile oggettivizzati (alcuni dicono che la Cvim ha accolto un sistema di responsabilità oggettiva attenuato).

Obbligazioni del venditore e dell’acquirenteLe disposizioni in materia di obbligazioni del venditore e dell’acquirente ricalcano abbastanza

le norme della Luvi. Le maggiori differenze riguardano l’espunzione del criterio della conformità del bene che tanti problemi interpretativi aveva creato. In ogni caso il venditore è tenuto alla consegna dei beni, al trasferimento della proprietà ed al rilascio dei documenti relativi, mentre le

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due obbligazioni principali dell’acquirente sono il pagamento del prezzo e la presa in consegna dei beni.

Vizi, rimedi, risarcimentoCome nella Luvi, la tendenza è quella di mantenere in vita il contratto piuttosto che farlo

cadere. Ecco allora l’apparizione di rimedi quali la sospensione degli effetti del contratto, la sostituzione e la riparazione, il rimedio ad un’esecuzione difettosa, la riduzione del prezzo e solo in ultima istanza la risoluzione (solo in caso di fundamental breach, non opera di diritto e non può essere dichiarata dopo che la controparte abbia eseguito e prima che l’altra parte abbia dichiarato di non voler adempiere), seguita dal risarcimento.

In ogni caso l’azione di danno concorre con gli altri rimedi previsti in caso di inadempimento.

I danni sono quelli prevedibili e che la parte che li ha subiti non potesse evitare, comprendendo tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, in maniera da riporre la parte non inadempiente il più vicino possibile alla posizione nella quale si sarebbe trovata in caso di adempimento dell’altra parte.

La convenzione dell’Aja del 1985: regole di DIP Riprende la convenzione dell’Aja del 1955 e quella di Roma del 1980 e propone regole

uniformi di DIP per la vendita di beni mobili.Nello specifico dispone che:

1. in primo luogo si applica la legge indicata liberamente dalle parti;2. in secondo luogo si applicherà, in via sussidiaria, la legge dell’ordinamento in cui

abbia sede il centro d’affari del venditore (il suo ‘place of business’);3. nel caso in cui le trattative si siano svolte ed il contratto sia stato concluso in presenza

delle parti nello stato del compratore, si applicherà la legge di tale stato;4. solo in alcuni casi eccezionali e tenuto conto delle circostanze, qualora il contratto sia

manifestamente collegato più strettamente con una legge diversa da quella che risulterebbe applicabile in base ai primi due paragrafi, si applica la legge con cui abbia il maggior collegamento (proper law tipica del common law).

La Convenzione di New York sulla prescrizioneUno dei primi obiettivi della neonata Uncitral fu quello di unificare le norme in tema di

prescrizione della vendita internazionale, totalmente trascurata dalla Luvi: la relativa convenzione fu firmata a New York nel 1974 ed è entrata in vigore nel 1988.

Scopo della Convenzione è quello di rendere definitivi rapporti che invece trascinerebbero con sé grandi incertezze.

Date le differenze tra civil law e common law in tema di prescrizione, la convenzione, che copre i contratti internazionali di vendita, contiene al suo interno le definizioni delle nozioni principali, a partire dal periodo di prescrizione, definito come il tempo oltre il quale venditore ed acquirente non possono più proporre azioni l’uno contro l’altro relative ad ogni violazione del contratto, cessazione o validità.

Fissato in 4 anni, il termine decorre dal momento a partire dal quale l’azione può essere proposta: tale momento non può essere modificato dalle parti se non in presenza di una garanzia data dal venditore per un certo periodo.

La previsione di un unico termine di prescrizione indipendentemente dalla natura dei beni oggetto del contratto, che per alcuni è sembrata una scelta non proprio felice, ha il vantaggio di dare una soluzione univoca e chiara, che può facilmente rispondere all’esigenza di uniformità.

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Intervengono sul decorrere del termine di prescrizione l’interruzione e l’estensione dello stesso: interrompe la prescrizione, secondo la Convenzione di New York, l’atto introduttivo del giudizio o dell’arbitrato, o comunque quando il creditore fa valere il proprio diritto al fine di ottenerne il riconoscimento e l’attuazione.

Uno delle massime espressioni della lex mercatoria: gli IncotermsLa storia degli Incoterms è una storia tipica di lex mercatoria: nessuno Stato ha legiferato,

nessuna convenzione di diritto uniforme ne ha fatto il suo oggetto, eppure in tutto il mondo le stesse sigle e quotazioni hanno acquistato con il tempo, anche grazie all’ICC, lo stesso significato.

La nascita degli Incoterms si deve alla prassi internazionale di elaborare formule sintetiche per indicare alcuni obblighi rispettivi delle parti, ricorrenti in ogni fattispecie di vendita internazionale: il costo del trasporto, il passaggio dei rischi, l’assicurazione, l’adempimento delle formalità doganali, la presenza o meno di un’assicurazione sulla vendita.

Se a livello di commercio internazionale tali formule ricevevano interpretazione unitaria, nel momento in cui venivano calate negli ordinamenti interni esse ricevevano contenuti diversi, tanto che tutt’oggi clausole frequentissime come Fob o Cif hanno significati diversi negli Usa e nei paesi europei.

Per evitare tali divergenze interpretative e soprattutto un abuso da parte dei contraenti più organizzati, la ICC si è fatta promotrice di una prima raccolta di Incoterms dando a ciascuno di essi la interpretazione più diffusa e proponendoli all’adozione del mondo degli affari, come norma uniforme.

Nate come norme che si applicavano soltanto se le parti vi facevano esplicito riferimento, negli ultimi decenni si può parlare della formazione progressiva di un uso internazionale, sicchè tocca alla parte che l’invoca dimostrare che essa intendeva dare a un certo termine commerciale il significato proprio che ad esso conferiscono i proprio giudici nazionali o i giudici della legge altrimenti applicabile al contratto. Se sono usi internazionali, si devono quindi ritenere operanti anche senza specifico richiamo delle parti: in questo modo hanno aiutato alla uniformazione non soltanto degli usi commerciali, ma anche delle giurisprudenze nazionali.

Gli Incoterms sono norme interpretative di clausole in uso, non determinano obbligazioni, ma chiariscono quali spettino al venditore e quali all’acquirente.

Si applicano alle vendite internazionali che implicano trasporto, il che vuol dire praticamente tutte (aereo, navale, via rotaia e via strada), non toccando però le obbligazioni tra venditore e vettore o altre obbligazioni connesse alla compravendita.

L’ultima revisione degli Incoterms è del 2000 e attualmente vi sono 13 Incoterms, che la ICC definisce come regole di interpretazione dei termini del commercio.

I contratti stipulati ad hocSi tratti di contratti di compravendita internazionale in un certo senso residuali: sono

ancora frequenti in contratti autonomi, ma per i beni di grande valore unitario, oppure in contratti che costituiscano in qualche modo esecuzione di più ampi impegni.

La maggior libertà di cui i contratti godono di fronte ad un foglio totalmente bianco comporta una duplice serie di rischi:

a. Possibile imposizione da parte di un contraente sull’altro di clausole a lui particolarmente favorevoli senza che quest’ultimo ne sia stato specificamente avvertito;

b. Elementi importanti della determinazione contrattuale possono venire dimenticati.

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Per evitare entrambi i problemi si dovrà allora ricorrere ad un esperto, il che alza sicuramente i costi transattivi (transactional costs), ma aumenterà allo stesso tempo la tranquillità della parte che gli si affida.

Un rischio che però rimane è quello della clausola redatta con le forbici, ossia copiata da modelli di contratto di associazioni od enti, senza un attento esame della sua conformità con la volontà reale delle parti o della intelligibilità delle clausole stesse. Tale situazione può portare all’impossibilità di capire che cosa le parti intendano.

L’ARBITRATO COMMERCIALE INTERNAZIONALE

Nozione di arbitrato e distinzione di figure affiniL’esigenza di riconquistare una “giustizia fra commercianti e per i commercianti”, che

fosse amministrata dallo stesso ceto mercantile e che venisse incontro al sempre crescente tecnicismo dei rapporti, ed allo stesso tempo che fosse caratterizzata da uniformità di regole al di sopra delle barriere dei singoli ordinamenti, ha dettato nel corso del XIX e del XX secolo una rapida espansione ed un profondo miglioramento dell’arbitrato commerciale internazionale, sempre più sorretto da strutture precostituite e preorganizzate e favorito da convenzioni internazionali.

L’arbitrato può essere considerato il momento giurisdizionale della lex mercatoria, che ne costituisce, quindi, la base sostanziale.

In senso tecnico l’arbitrato può essere definito come un istituto alternativo per la risoluzione delle controversie cui ricorrono le parti quando vogliono sottrarre la risoluzione di una controversia ai tribunali ordinari per affidarla ad altri giudici o tribunali liberamente da loro scelti.

I legislatori dei singoli stati si sono sempre più occupati di tutelare tale possibilità e di dotare il procedimento arbitrale e soprattutto l’iter per accedere ad esso di regole fondamentali.

L’arbitrato internazionale, a differenza dell’arbitrato interno, è caratterizzato dal fatto che il rapporto al quale accede la clausola compromissoria, o che sarà al centro del compromesso, vede una delle parti risiedere o avere sede effettiva in un Paese diverso rispetto all’altro contraente, oppure il fatto che, tra due parti dello stesso Paese, viene concluso un contratto cui prestazione andrà compiuta in un paese terzo.

Si distinguono dall’arbitrato una serie di istituti simili ma con caratteristiche differenti:1. arbitraggio: si demanda al terzo non la risoluzione di una controversia, ma la

determinazione della prestazione dedotta in contratto o, in generale, l’integrazione di un elemento negoziale. Si chiama arbitraggio perché solitamente tale definizione è lasciata al mero arbitrio del terzo;

2. perizia contrattuale: le parti si rivolgono ad un soggetto terzo dotato di particolari conoscenze tecniche affinché egli compia un apprezzamento tecnico che le parti si impegnano preventivamente ad accettare (di norma la perizia sarà infatti vincolante e non impugnabile, ma in altri casi sarà possibile che essa sia suscettibile di controllo di una corte). Casi più tipici di perizia contrattuale sono la valutazione della capacità operativa di un impianto, della corrosione di materiali, del valore economico di un’azienda o la quantificazione dei danni in caso di sinistro. L’ICC (International Chamber of Commerce) ha istituito un Centro Internazionale per la Perizia Tecnica.

3. in alcuni ordinamenti di civil law si trova poi l’istituto dell’arbitrato libero, in particolare nell’ordinamento italiano: la pronuncia finale non avrà efficacia di sentenza ma solo valore di contratto (in francia si ha l’arbitrage contractuel e in spagna l’arbitraje irritual). Tale istituto viene equiparato ad un mandato a transigere, in quanto gli unici mezzi per agire contro ad esso sono le azioni per l’annullamento del contratto, violazione del mandato e violazione del diritto al contraddittorio. La sua peculiarità e la sua natura prevalentemente privatistica determinano che venga scarsamente riconosciuto negli altri ordinamenti.

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4. la mediation è un’altra ADR: il mediatore non è chiamato a decidere chi abbia ragione o chi torto, ma piuttosto a cercare insieme alle parti delle soluzioni che permettano di comporre la vicenda, il più delle volte non sulla base delle disposizioni giuridiche formali ma sulla base di interessi economico-commerciali. La mediazione è, a livello internazionale, l’ADR più diffusa dopo l’arbitrato, tanto che a Londra esiste Il Center for Dispute Resolution che ha emanato un regolamento in tema di “Mediation Procedure & Agreement”. Caratteristico è che il mediatore incaricato risolverà la questione in una giornata o in un week-end e che gli incontri del mediatore con le parti hanno carattere privato e non pubblico e possono avvenire separatamente, in modo tale che sia più facile giungere ad un accordo arrivando a capire effettivamente che cosa voglia ogni singola parte.

5. la conciliazione: altra forma di ADR, essa ha avuto sviluppo molto importante in ambito internazionale, tanto che le istituzioni più importanti relative alle ADR hanno nettamente distinto tra conciliazione ed arbitrato, predisponendo discipline separate. Si pensi ad esempio all’UNCITRAL che ha iniziato a dettare norme relative all’arbitrato nel 1976 e che a partire dal 1980 ha invece disciplinato separatamente la conciliazione. Allo stesso modo l’ICC regola arbitrato e conciliazione con leggi differenti raccolte anche separatamente.

Vantaggi e svantaggi dell’arbitrato commerciale1. dato il numero crescente di relazioni commerciale a carattere continuativo, rispetto ai

rapporti contrattuali la cui esecuzione è istantanea, aumenta la necessità degli operatori di mantenere dei buoni rapporti commerciali con le controparti per un lungo periodo di anni. L’arbitrato è una forma di risoluzione delle controversie capace di non incrinare eccessivamente i rapporti tra le parti contrattuali.

2. ulteriore motivo della sempre maggiore diffusione dell’arbitrato è sicuramente dato da ragioni socio-politiche: a partire dal medioevo gli ambienti commerciali hanno elaborato, ed elaborano, regole proprie per la disciplina dei rapporti commerciali, dando vita ad una dicotomia tra materia civile e materia commerciale (lex merchatoria) che nemmeno l’unificazione dei codici è stata in grado di superare. Le regole più significative per il commercio, infatti, non si devono ricercare nei codici e nelle leggi dello Stato, ma in altre fonti, quali le condizioni generali di contratto, i contratti-tipo, i moduli, i formulari, gli usi e le consuetudini, che tendono sempre più ad essere unificati a livello internazionale. Prende quindi sempre più corpo un sistema parallelo rispetto agli ordinamenti statali, che prevede proprie regole, propri principi e anche un proprio strumenti giurisdizionale: ebbene questo strumento e l’arbitrato commerciale. Ciò è dovuto a più ragioni, tra cui sicuramente la perdita di credibilità del sistema statuale di porre il diritto e di applicarlo, dovuto principalmente alla rigidità del sistema delle leggi scritte, incapaci di mutare, di adattarsi alle circostanze e di essere al passo con i tempi. A ciò si aggiunge poi un eccessivo carico di lavoro per i magistrati e il senso di estraneità e di lontananza che l’ordinamento giudiziario ispira negli operatori economici.

3. L’attuale struttura ed amministrazione della giustizia affidata ai giudici ordinari presenta dunque una serie di caratteristiche per molti aspetti configgenti con esigenze proprie del mondo degli affari:

• formalismo (si pensi agli effetti della nullità e all’intralcio determinato dall’eccessiva richiesta di forme)

• preclusione dei mezzi di prova• mancanza di preparazione tecnica dell’organo giudicante: di fronte ad un mondo

dei commercianti sempre più tecnicizzato si presenta un giudice scarsamente preparato, e che, soprattutto in Italia, in poche circostanze provvede alla nomina del consulente tecnico o tiene conto della sua consulenza, non essendo ad essa vincolato;

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• lungaggini della procedura: è un male cronico.Mentre alcune di queste caratteristiche si può pensare che siano dovute ad una crisi momentanea della giustizia, è certo che la maggior parte di esse sono ineliminabili dalla struttura della giurisdizione ordinaria.I commercianti hanno esigenze che poche volte i giudici ordinari riescono a soddisfare, ed è qui che si fonda il ricorso all’arbitrato.A dire il vero bisogna sottolineare, guardando soprattutto ad altri ordinamenti nei quali la giurisdizione ordinaria funziona meno peggio che in altri, che il ricorso all’arbitrato aumenta anche perché si ritiene che l’arbitrato sia strumento capace di mantenere una certa serenità di rapporti tra le parti, oltre che tale da dare a ciascun parte un ruolo attivo e determinante, e da far sì che essa provi maggior fiducia nei confronti dei soggetti incaricati di risolvere la controversia.

Non si può però pensare che l’arbitrato non abbia svantaggi: il ricorso all’arbitrato non è infatti tale da porre rimedio a determinate situazioni patologiche della giustizia ordinaria, e presenta dei limiti intrinseci.

1. per prima cosa nessun lodo è forzatamente eseguibile, nemmeno il lodo rituale. Per ricorrere a forme coattive bisognerà seguire le procedure previste nel codice di procedura civile, e quindi ricorrere a ufficiali giudiziari.

2. allo stesso modo è molto difficile che nel lodo ad una parte sia attribuita tutta la ragione e all’altra tutto il torto: ciò avviene perché l’arbitro, potendo tenere conto di elementi di fatto o prove che sarebbero precluse nel giudizio ordinario, può evidentemente arrivare a soluzioni meno nette di quanto accada nel giudizio ordinario. Tanto più che, in determinate situazioni, gli arbitri possono giudicare secondo criteri riferibili grosso modo all’equità.

3. il giudizio arbitrale, salvo pochi casi, è sprovvisto di un secondo grado nel merito4. il giudizio arbitrale è un procedimento molto costoso, anche perché molte spese non sono

ripetibili e perché, essendoci molto spesso soccombenza di tutte e due le parti, anche se in percentuali diverse, le spese vengono sempre compensate.

5. un tempo tra i vantaggi dell’arbitrato si annoverava il fatto di essere avvolto dal segreto: tale pregio si è però venuto lentamente affievolendo a causa di una recente tendenza a pubblicare anche sentenze arbitrali, soprattutto per via del fatto che la volontà di avere un sistema di precedenti non può che richiedere la conoscenza dei lodi, il che postula la loro pubblicazione.

Il vantaggio dell’arbitrato come modo di soluzione delle controversie nascenti da rapporti commerciali internazionali

Rispetto ai vantaggi dell’arbitrato in generale, l’arbitrato commerciale internazionale non solo ha gli stessi pregi, ma anche pregi ulteriori.

1. con l’arbitrato internazionale si aggiunge alla delocalizzazione sostanziale (il fatto che il contratto sia stipulato da soggetti di Paesi diversi o per prestazioni in luoghi terzi) anche la delocalizzazione sotto il profilo giurisdizionale, perché è possibile scegliere da un paese terzo non solo il presidente del collegio, ma altresì i componenti del collegio arbitrale stesso. Con l’arbitrato, così come nella giurisdizione ordinaria, si potrà poi ricercare la neutralità del soggetto giurisdizionale: è infatti possibile che le parti deroghino alla giurisdizione ordinaria a favore di un giudice straniero, ma è al contempo possibile che questo si rifiuti di pronunciare per totale mancanza di connessione con l’oggetto.

2. nell’arbitrato internazionale saranno le parti a scegliere quali regole di procedura vadano applicate: nella giurisdizione ordinaria il giudice non può che fare riferimento alle regole di procedura proprie del suo ordinamento. Non potranno mai essere derogati il diritto alla difesa e l’integrità del contraddittorio.

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3. le parti possono raggiungere il massimo dell’autonomia, scegliendo regole di procedura, lingua, sede, composizione del collegio, norme sostanziali applicabili al rapporto, contenuto delle domande agli arbitri e via discorrendo;

4. dal punto di vista sostanziale, la delocalizzazione può determinare un ampliamento dell’ambito di arbitrabilità delle materie ovvero evitare l’applicazione di qualche norma interna inderogabile in relazione al tipo contrattuale (sono le parti che scelgono, se vogliono, le norme di diritto sostanziale sulla base delle quali gli arbitri dovranno emettere il lodo);

5. dal punto di vista temporale l’arbitrato internazionale, a differenza dell’arbitrato domestico, presenta alcuni ostacoli peculiari al conseguimento dell’obiettivo: la formazione del collegio richiede tempi non brevi e lo stesso di può dire per l’istruttoria (riunioni collegiali ed impegni degli arbitri; traduzione dei documenti; lavoro di interpretariato; approvazione e firma dei verbali); discussione e la comunicazione all’interno del collegio; apposizione delle sottoscrizioni al lodo e l’eventuale sottoposizione della bozza del lodo all’istituzione arbitrale. Tutte queste attività richiedono tempo, a volte molto tempo: per questo motivo ha scarsa effettività fissare un termine per la pronuncia del lodo a pena di decadenza;

6. l’arbitrato internazionale ha grande importanza nel caso di controversie nelle quali sia implicato uno Stato, un ente statale o un organismo internazionale, i quali poco volentieri sopporterebbero, al di là delle regole relative all’immunità, di essere sottoposti al giuidziio di giudici, tanto meno di giudici di altri Stati.

Arbitrato domestico, estero, internazionaleUna prima distinzione da fare è quella tra arbitrato domestico ed arbitrato estero: in Inghilterra

l’Arbitration Act del 1996 definisce come domestico l’arbitrato che si svolge in Inghilterra e le cui parti non abbiano nazionalità o residenza o sede di amministrazione all’estero al momento della convenzione.

Nel nostro ordinamento è considerato estero, o straniero, l’arbitrato previsto e disciplinato da un ordinamento diverso dal nostro, ovvero che non ha sede in Italia oppure è stato definito nel proprio paese da un lodo reso secondo una legge di uno Stato estero.

È quindi domestico il lodo che è regolato dalle norme dell’ordinamento domestico e che riguarda soggetti residenti o con centro d’interessi in quell’ordinamento.

I criteri di individuazione sono però molto vari, anche a livello di convenzioni internazionali:1. un criterio assai diffuso è quello geografico: la nazionalità del lodo dipenderebbe dal

luogo nel quale è stato pronunciato (così la Convenzione di Ginevra e quella di New York): si obietta, però, che il lodo può essere emanato in uno Stato diverso da quello nel quale si sia svolta tutta la procedura.

2. l’altro criterio è quello processuale: è la legge processuale applicata che attribuisce la nazionalità al lodo: secondo la Convenzione di New York, secondo la quale saranno arbitrati esteri quelli pronunciati in uno Stato nel quale si chiede la delibazione del lodo, ma sulla base di un procedimento regolato da una legge processuale straniera rispetto a tale Stato.

Determinare quando un lodo sia interno o estero è fondamentale per il giudice al quale sia chiesto di sentenziare l’esecuzione forzata del lodo: egli infatti dovrà determinare se possa agire direttamente o se sia necessaria la preventiva delibazione.

Nell’ambito delle convenzioni internazionali stabilire la nazionalità di un lodo è utile per sapere se esso sia attribuibile ad uno stato che ha ratificato la convenzione in questione o meno.

Le convenzioni plurilaterali e le leggi-modello

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Il più grave problema dell’arbitrato internazionale è che il lodo è più o meno estraneo rispetto a tutti gli ordinamenti: per poter essere oggetto di esecuzione forzata, il lodo dovrà quindi sempre essere riconosciuto e reso efficace.

A maggior ragione il lodo arbitrale non è dotato della qualifica formale di sentenza, e quindi molto spesso viene ritenuto un mero fatto dai giudici ordinari, a meno che esso sia divenuto res judicata in un altro ordinamento.

Ciò spiega il sempre crescente ricorso da parte della business comunità a convenzioni internazionali che rendano più facile e migliorino il riconoscimento e l’esecuzione dei lodi arbitrali stranieri.

Ulteriore passo rispetto alle convenzioni internazionali, particolarmente di moda in questi anni, è il tentativo di introdurre negli ordinamenti interni dei singoli Stati una normativa favorevole all’arbitrato commerciale internazionale armonizzata con quella degli altri Stati.

Le tappe più significative dello sviluppo a livello internazionale in ambito di riconoscimento ed esecuzione degli arbitrati internazionali sono state:

1. Protocollo relativo alle clausole dell’arbitrato, Ginevra 1923: impegnava gli Stati contraenti a riconoscere la validità del compromesso o della clausola compromissoria tra soggetti appartenenti a Stati diversi, anche se l’arbitrato aveva luogo in uno Stato terzo. Gli Stati assicuravano l’esecuzione delle sentenze arbitrali emesse sulla base della procedura dello Stato in cui l’arbitrato aveva luogo. La Convenzione di New York del 1958 ha superato tale convenzione.

2. Convenzione per l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, Ginevra 1927: gli Stati contraenti si impegnavano a dar esecuzione alle sentenze arbitrali in base al Protocollo del 1923, ma solo in quanto emesse in uno Stato contraente, e a patto che la clausola fosse valida secondo la legge ad essa applicabile, che la materia fosse compromettibile nel paese in cui si invocava la sentenza, che la sentenza fosse divenuta definitiva nel paese in cui era stata resa e che non fosse contraria all’ordine pubblico o ai principi di diritto pubblico del Paese in cui era invocata l’esecuzione forzata;

3. Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali, New York 1958: essa rappresenta il testo base per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali, risolvendo e superando alcuni nodi delle precedenti convenzioni. In particolare questa convenzione si è staccata dall’idea dello Stato come unica fonte di diritto. Essa si applica a tutte le sentenze arbitrali rese nel territorio di uno Stato diverso da quello in cui è invocato il riconoscimento o, comunque, a tutte le sentenza non considerate nazionali. Gli Stati si impegnano a riconoscere e dare esecuzione a tali lodi a condizioni simili a quelle richieste per il riconoscimento e l’esecuzione di lodi arbitrali nazionali, con l’aggiunta della richiesta dell’originale del lodo e della convenzione arbitrale.Ai sensi dell’art V il riconoscimento o l’esecuzione possono essere rifiutati solo per invalidità della convenzione arbitrale, impossibilità della difesa, pronuncia fuori od oltre la convenzione arbitrale, vizio della costituzione del collegio o nella procedura, sentenza non ancora vincolante o annullata o sospesa (purchè la parte lo provi) oppure perché la controversia non era arbitrabile o per contrarietà all’ordine pubblico.Rispetto alle precedenti convenzioni si nota come sia saltato il collegamento necessario con un ordinamento giuridico (quello dello Stato in cui il lodo era emesso), come sia necessario che sia la parte a provare fatti paralizzanti il riconoscimento del lodo e si richiede che la sentenza sia vincolante tra le parti, e non più definitiva (quindi si può chiedere riconoscimento ed esecuzione anche se non sono stati esauriti i mezzi di ricorso). Tutto ciò poi all’interno di una convenzione molto semplificata. Tale Convenzione è stata punto di riferimento di vari Paesi fino all’avvento della legge modello UNCITRAL.

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4. Convenzione europea sull’arbitrato commerciale internazionale, Ginevra 1961: per la prima volta viene adoperata la nozione di “arbitrato commerciale internazionale” e se ne disciplinano tutte le fasi del procedimento. Inoltre dichiara che anche le persone giuridiche di diritto pubblico possono sottoporsi all’arbitrato, prevede come regola la motivazione della sentenza, disciplina la contestazione sulla competenza arbitrale e il rapporto con la competenza giudiziaria ordinaria.

5. Convenzione per il regolamento delle controversie relative agli investimenti fra Stati e soggetti di altri Stati, Washington 1965: può essere qualificata come una convenzione settoriale, in quanto abbraccia solo le controversie che possono nascere in occasione di investimenti privati internazionali. Suo scopo principale è superare gli ostacoli derivanti dal fatto che una delle parti sia uno Stato. Nello specifico è previsto che il consenso dello Stato di essere sottoposto alla giurisdizione del Centro internazionale per il Regolamento delle controversie relative ad investimenti (CIRDI) debba essere per iscritto o contenuto in una legge nazionale: una volta dato il consenso non può più essere revocato

6. Convenzione sulla risoluzione attraverso l’arbitrato delle controversie civili che nascono dalla cooperazione economica, scientifica e tecnica, Mosca 1972: ratificata da tutti i Paesi dell’allora COMECON, essa prevedeva un arbitrato obbligatorio a livello internazionale nel caso di controversie tra Stati

7. Convenzione interamericana sull’arbitrato nel commercio internazionale, Panama 1975: i Paesi latino-americani erano stati a lungo ostili nei confronti dell’arbitrato nazionale ed internazionale. Per ovviare a tale atteggiamento di diffidenza e per evitare di rimanere indietro rispetto al resto del mondo commerciale, nel 1975 venne emanata questa convenzione, ratificata da quasi tutti i paesi latino-americani, USA e Portogallo, che non solo ha previsto l’adozione delle regole previste nella Convenzione di New York del 1958, ma che è andata anche un po’ oltre.

8. Convenzione di diritto uniforme del Consiglio d’Europa, Strasburgo 1966: riprendendo un vecchio progetto dell’UNIDROIT (Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato), il Consiglio d’Europa nel 1966 proponeva agli Stati l’adozione di una convenzione europea avente ad oggetto una legge uniforme sull’arbitrato, in modo da creare all’interno degli Stati una disciplina uniforme dell’arbitrato. Solo il Belgio ratificò la Convenzione e la incorporò nel suo codice.

9. legge-modello Uncitral(United Nations Commission on International Trade Law) sull’arbitrato commerciale internazionale, Ginevra 1985: nata dalle ceneri della Convenzione del Consiglio d’Europa, la legge-modello rappresenta la chiusura del cerchio in materia di arbitrato commerciale internazionale. Tradizionalmente gli Stati si limitavano a disciplinare l’arbitrato interno e si limitavano a riconoscere e dare esecuzione ai lodi internazionali, in base ai presupposti delle convenzioni ratificate. Con il passare del tempo ci si è resi conto che la situazione ideale sarebbe quella di avere singole legislazioni interne che dettino regole uniformi relativamente al riconoscimento ed all’esecuzione dell’arbitrato internazionale. La legge-modello prende quindi in considerazione gli arbitrati internazionali e indica quindi criteri diversi ed alternativi per individuarli ( <se al momento della stipula della convenzione arbitrale le parti hanno il loro centro d’affari in Stati diversi; ovvero se una parte delle obbligazioni derivanti dal rapporto da cui nasce la controversia debba essere eseguita all’estero o all’estero si trovi il luogo con quale l’oggetto della controversia ha il collegamento più stretto; o se per volontà delle parti l’arbitrato dovrà svolgersi all’estero; ovvero se per volontà delle parti l’arbitrato dovrà svolgersi all’estero>).Non si tratta di una convenzione, ma di una legge-modello, quindi molto più flessibile e non vincolante: proprio questa sua duplice natura ne ha consentito la rapida diffusione, per

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via del fatto che gli Stati erano liberi di incorporarla integralmente oppure di prendere ispirazioni più o meno accentuate. Il grande favore incontrato si spiega però anche grazie all’intrinseca alta qualità della legge, frutto di culture arbitrali ed esperienze diverse, capaci di venire incontro alle esigenze della giustizia arbitrale (in particolare si deve sottolineare la grande enfasi data alla libertà delle parti, la neutralità e qualificazione del collegio arbitrale, la previsione della garanzia di un’ampia facoltà di difesa, l’individuazione di una lista esaustiva di motivi di opposizione al riconoscimento e all’esecuzione dei lodi).La legge-modello ha avuto grande successo non solo nei paesi ancora non dotati di una legge sull’arbitrato, ma anche nei paesi che già regolavano l’arbitrato domestico.Essa è stata anche tale da determinare in una certa misura al riforma dei regolamenti arbitrali degli organismi arbitrali internazionali.L’UNCITRAL ha emanato questa legge-modello perché ritiene che il miglioramento del commercio internazionale debba passare attraverso il miglioramento e il più ampio utilizzo dell’arbitrato: per tale motivo la sua attività continua.

10. La legge uniforme sull’arbitrato tra i Paesi dell’OHADA (Organizzazione per l’armonizzazione del diritto commerciale in Africa), 1999: legge uniforme che ha abrogato tutte le leggi nazionali contrarie.

11. WTO: anche l’Organizzazione Mondiale per il Commercio ha istituito un organismo ad hoc per la risoluzione delle controversie, il Dispute Settlement Body, il quale costituirà un organo ad hoc per ogni singola controversia.

Le convenzioni bilateraliAl fianco delle convenzioni internazionali e della legge modello dell’Uncitral hanno un certo

rilievo le convenzioni bilaterali sul riconoscimento e sull’esecuzione delle sentenze arbitrali: caratteristica tipica è la sottomissione delle sentenze arbitrali validamente pronunciate allo stesso regime delle sentenze ordinarie. Il numero di convenzioni di questo genere e di Stati firmatari è molto alto.

Gli arbitrati preorganizzati e gli arbitrati ad hocIl rischio che, in assenza di una chiara volontà delle parti, il collegio arbitrale applichi norme

processuali del luogo dove si svolge l’arbitrato (invece che quelle delle convenzioni o di quelle indicate dalle parti) o del paese di origine del Presidente del collegio o di un altro arbitro, hanno spinto gli operatori internazionali a stabilire delle procedure per l’arbitrato internazionale ed a creare degli organismi per il controllo delle stesse. Alcuni di questi organismi sono generalisti, altri sono, invece, settoriali: caratteristica comune è quella di prevedere delle liste di arbitri specializzati.

1. La corte di arbitrato della Camera di Commercio Internazionale di Parigi (ICC): fondata nel 1919 a Parigi essa prevede un istituto, la Corte di arbitrato, che non decide le controversie, ma presiede alla costituzione del collegio e controlla lo svolgimento della procedura. Il corpo di diritto casistico, i precedenti, dell’ICC rappresentano sicuramente l’esempio migliore dei risultati che può conseguire l’organizzazione della giustizia arbitrale ad opera dei privati ed è senza dubbio il punto più alto della lex mercatoria. Al controllo su costituzione e procedimento si aggiunge un controllo sul lodo prima che sia emesso, sia relativamente alla forma sia relativamente al contenuto, ma solo al fine di attirare l’attenzione del collegio su alcuni punti inerenti al merito e senza pregiudicarne la libertà di decisione: si tratta di un caso più unico che raro, in quanto nessun altro organismo prevede la sottoposizione preventiva del lodo ad un organo, e tanto meno che possano essere sollevati rilievi inerenti anche al merito.

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2. London Court of International Arbitration: antica corte arbitrale fondata nel 1912, essa è da sempre centro di numerosi e grandi arbitrati per via di diversi fattori, tra cui quello linguistico, la reputazione degli arbitri, la tradizione mercantilistica del common law e la scarsa proceduralizzazione. Le regole riprendono molto del processo civile inglese, benché l’entrata sulla scena internazionale della legge-modello Uncitral la sta lentamente avvicinando a regole più tipiche del civil law.

3. Corte permanente per l’Arbitrato internazionale dell’Aja: organismo di diritto internazionale cui si fa molto ricorso nel caso in cui una parte sia uno Stato.

4. si possono poi citare altre corti, come la Corte arbitrale di Stoccolma, Vienna e Praga (in particolare per la loro tradizione e perché fino agli inizi del ’90 erano le uniche sedi arbitrali accettate nel blocco sovietico); in America si ricorda l’AAA (American Arbitration Association), organismo generale e non settoriale, nato per risolvere controversie all’interno degli Stati Uniti, da tempo attrezzato per fungere da centro arbitrale internazionale, tanto da fondare a New York l’International center for Dispute Resolution (ICDR). In America latina va ricordato il Centro di Conciliazione e Arbitrato di Panama (CCIAP), mentre in Italia ha ultimamente guadagnato prestigio la Camera Arbitrale Nazionale ed Internazionale di Milano. Data la situazione economica attuale a livello mondiale non si può non citare la China International Ecnomic and Trade Arbitration Commission.

Arbitrati ad hocMolto spesso le parti non fanno riferimento ad un arbitrato preorganizzato, ma tentano

di organizzarselo da sole.Anche quando il risultato può apparire eccellente (nel senso che le parti ritengano di aver

pensato ad ogni singolo elemento e ad ogni patologia), raramente si è previsto tutto e si rischia di far naufragare tutto con estrema facilità. Occorre, nel caso di arbitrati ad hoc, grande preparazione e grande attenzione, specialmente quando si stipula la clausola compromissoria, in quanto essa dovrà prendere in considerazione tutto quanto.

Può sempre avvenire che le parti nella clausola compromissoria facciano riferimento ad un regolamento di un organismo internazionale, in questo modo esso soccorrerà le parti nel caso di lacuna della loro clausola compromissoria.

Tra i regolamenti cui le parti possono fare ricorso vi è quello emanato dall’UNCITRAL, le UNCITRAL Arbitration Rules del 1976, che possono funzionare come punto di riferimento nel caso in cui le parti non si accordino oppure non abbiano previsto una qualche soluzione.

Gli arbitrati settorialiSi può affermare che gli arbitrati settoriali abbiano preceduto gli arbitrati generali: si pensi ad

esempio al settore marittimo, che da sempre ha avuto i suoi arbitri specializzati.Oggi praticamente tutte le organizzazioni internazionali del commercio hanno predisposto dei

propri giudizi arbitrali, che vengono imposte agli aderenti tramite convenzioni generali di contratto che devono sottoscrivere: membri della Corn Association, della International Wool Textile Ortganization e così via, per il solo fatto di aver aderito, saranno sottoponibili all’arbitrato da esse predisposto.

Compromesso e clausola compromissoriaLaddove è previsto l’arbitrato, compromesso e clausola compromissoria sono considerati

elementi indefettibili.La giurisdizione arbitrale, a differenza di quella ordinaria, non è imposta alle parti, ma è

una loro scelta, e ciò implica una apposita manifestazione di volontà.

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Nel diritto del commercio internazionale non si distingue tra clausola compromissoria o compromesso, ma si parla in ogni caso di convenzione arbitrale.

Fino a qualche anno fa gli ordinamenti, ed anche l’ordinamento italiano, era restio a consentire una deroga della giurisdizione a favore di arbitrati esteri (al massimo concedevano un accordo in deroga della giurisdizione a favore dell’arbitrato interno). Tutte le convenzioni a partire da quella di Ginevra del 1923 miravano proprio al superamento di tale atteggiamento, cercando di privare la giurisdizione interna della esclusività e del monopolio.

Grazie a tali convenzioni, la situazione attuale è di parità di trattamento tra arbitrato interno ed arbitrato estero in quanto a deroga della giurisdizione del giudice ordinario, tanto da consentire anche un’apertura nei confronti dell’arbitrato internazionale laddove nessuna delle parti o dell’oggetto della controversia abbia un elemento di internazionalità. Secondo la legge italiana di Diritto internazionale privato (DIP) del 1995, <la giurisdizione italiana può essere convenzionalmente derogata a favore di un giudice straniero o di un arbitro estero se la deroga è provata per iscritto e la causa verte su diritti disponibili>

Condizioni per la validitàDalle convenzioni internazionali e dalla giurisprudenza si possono ricavare le condizioni per

la validità delle convenzioni arbitrali:1. forma2. capacità delle parti3. oggetto della convenzione4. arbitrabilità della controversia5. contenuto della controversia

Punto di partenza è, però, l’individuazione della legge in base alla quale giudicare della validità della convenzione arbitrale.

Per quanto riguarda la capacità delle parti si rimanda alla Convenzione di New York del 1958 e a quella di Ginevra del 1961, per lo statuto personale si guarda alla cittadinanza (talvolta alla residenza), mentre per tutte le altre questioni si guarda alla legge individuata dalle parti quale regolatrice della clausola arbitrale o, in mancanza, alla legge del Paese nel quale la sentenza arbitrale deve essere resa.

Vi sono stati però casi in cui le regole operatrici sono state individuate diversamente: nel famoso caso ISOVER/Dow Chemical (inizi anni 80), gli arbitri ritennero che l’individuazione dell’ambito e degli effetti della clausola non dovesse basarsi sulla legge regolatrice del merito, ma effettuarsi in base alla comune intenzione delle parti (svelata dalle circostanze della negoziazione ed esecuzione del contratto) e agli usi del commercio internazionale.

Ma oltre a questo vi sono altri casi nei quali è stato negato che sia la legge indicata dalle parti per decidere nel merito che debba essere impiegata anche per valutare la validità della convenzione arbitrale: ad esempio le regole di procedura svizzere dispongono che la validità della convenzione si misura in base al diritto scelto dalle parti, oppure dal diritto applicabile all’oggetto litigioso, oppure al diritto svizzero.

Tale impostazione sembra però andare contro il buon senso: se le parti hanno stabilito che il contratto sia sottoposto ad una certa legge e se la convenzione arbitrale fa parte del contratto, non si vede come sia possibile sottrarre la clausola recente la convenzione al medesimo diritto cui è sottoposto il resto del contratto.

Effetti e limiti Gli effetti della convenzione arbitrale si possono produrre in tre direzioni:

1. effetti fra le parti: sono puramente obbligatori. La mancata osservanza di tale obbligo non è sanzionata con il risarcimento del danno, ma con la costituzione dell’organo arbitrale

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anche senza la collaborazione o contro la volontà dell’altra parte (in una sorta di esecuzione specifica dell’obbligo). In alcuni casi l’ostruzionismo della parte che non vuole l’arbitrato può essere tale da determinare l’impossibilità di dar vita al collegio: in questo caso alcuni ordinamenti prevedono che i giudici riacquistino giurisdizione (Svizzera, Usa, Svezia, Francia).

2. nei confronti dei giudici: la convenzione arbitrale produce un effetto negativo, facendo venire meno la loro giurisdizione. Tale effetto non è però riconosciuto ovunque: secondo la common law inglese infatti il giudice può ancora giudicare se reputa che ci siano validi motivi (ad esempio rilevi prima facie la nullità della clausola compromissoria o la sua inefficacia). La mancata eccezione della carenza di giurisdizione dei giudici determina nelle prime fasi del giudizio determina, non potendo essere rilevata d’ufficio, che essa sia di nuovo attribuita a loro: la carenza di giurisdizione non ha quindi carattere assoluto. Nel caso in cui l’eccezione sia correttamente sollevata, i giudici ugualmente aditi si dovranno astenere da qualunque pronuncia nel merito sino a quando sia intervenuto il lodo arbitrale.

3. nei confronti dei terzi non sottoscrittori della convenzione arbitrale (non signatories): a riguardo si deve parlare del gruppo di società, ossia della situazione in cui vi siano più società, ognuna dotata di autonomia e personalità giuridica, sottoposte alla direzione unitaria di una capogruppo.

La cosiddetta autonomia della convenzione arbitraleSecondo un principio comunemente accolto, la nullità di un contratto comporta la nullità

di tutte le sue clausole, a meno che esse siano scorporabili in tanti pezzi che abbiano autonomia contrattuale.

In ambito di arbitrato si assiste ad una deroga di tale principio: anche se la clausola compromissoria è contenuta in un contratto che viene meno causa la sua nullità, tale venir meno non determina la nullità della clausola stessa.

Facendo leva sulla distinzione del piano sostanziale con il piano processuale si arriva a poter sostenere che all’interno dello stesso documento siano in realtà presenti due contratti diversi.

A volte però si è sostenuto che nel caso di vizio talmente grave da far dubitare dell’esistenza del contratto stesso, alla stessa sorte non potrebbe sfuggire la clausola compromissoria.

Le parti hanno deciso che su quel contratto decidano gli arbitri, anche sulla validità dello stesso: in questo modo l’unico modo per far salvo l’arbitrato anche nel caso di nullità del contratto era introdurre il principio di autonomia della clausola compromissoria.

L’autonomia, dato il favor crescente nei confronti dell’arbitrato, ha avuto riscontri sia a livello di ordinamenti nazionali sia di convenzioni internazionali: in Italia dapprima il concetto era espresso solo a livello giurisprudenziale e dottrinale, ma di recente è stato ad introdotto l’art. 808.3 c.p.c. che sancisce espressamente tale caratteristica della clausola compromissoria; procedimenti analoghi sono avvenuti anche in Francia, Panama e a livello internazionale.

Tradizionalmente il common law era restio ad ammettere tale regola: ma l’High Court nel 1991 e la Court of Appeal nel1993 declinando la propria giurisdizione nonostante fosse stata dichiarata l’illiceità del contratto e il suo successivo venir meno.

Dello stesso avviso è stato anche l’UNCITRAL il quale nella sua legge modello ha predisposto che l’invalidità che colpisce il contratto non si estende alla convenzione arbitrale, a meno che le parti abbiano stabilito diversamente.

Negli Stati Uniti si era a lungo dubitato dell’autonomia della clausola compromissoria: una sentenza della Corte Suprema, nel famoso caso Prima Paint del 1967, ha invece stabilito che l’autonomia potesse essere affermata tutte le volte che non risultasse una diversa intenzione delle

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parti: conseguenza è stata che ormai tutti gli ordinamenti di common law prevedono l’autonomia della convenzione arbitrale.

Elemento decisivo verso il riconoscimento universale del principio dell’autonomia è stata le legge-modello dell’UNCITRAL, il cui art. 16 dice “Il tribunale arbitrale può decidere sulla sua stessa giurisdizione, inclusa ogni obiezione relativa all’esistenza o alla validità degli accordi arbitrali. Per questo motivo, una clausola arbitrale che formi parte di un contratto deve essere trattata come un accordo indipendente rispetto alle altre parti del contratto. Una decisione da parte del tribunale arbitrale che il contratto sia nullo non determina ipso jure l’invalidità della clausola arbitrale”

Composizione e costituzione del tribunale arbitraleAl contrario di quanto avviene per la giustizia statale, i cui organi sono stabiliti per legge, la

giustizia arbitrale, essendo basata sulla volontà delle parti, per mettersi in moto richiede la collaborazione di ambedue le parti.

Il primo dilemma è tra arbitro unico oppure collegiale, dato che entrambe le alternative hanno dei pro e dei contro (costo più ridotto e maggior speditezza da un lato; discussione collegiale, possibilità per ciascuna parte di nominare un arbitro di parte che porti nella discussione tutte le argomentazioni a favore e che possano meglio illustrare al collegio le condizioni economiche, culturali e sociali della parte stessa e che stanno alla base del contratto).

Numero di arbitri: mentre in paesi quali l’Italia si chiede il numero dispari a pena di nullità, in altri ordinamenti ciò non avviene (in alcuni casi la legge prevede dei correttivi in caso di numero pari).

In caso di mancato accordo tra le parti ci potrà essere l’intervento o della legge applicabile o dell’istituzione arbitrale, se vi hanno fatto ricorso.

Arbitri non mandatari delle parti, ma devono attenersi ai doveri di indipendenza e imparzialità, anche se si sostiene che non si può rimproverare all’arbitro di parte il fatto di difendere i punti di vista della parte che lo ha nominato (il rischio di partigianeria sta però esponenzialmente aumentando, tanto che sono stati proposti dei codici deontologici)

Decisioni preliminariUna volta costituito il tribunale arbitrale, dovranno essere risolti, nel caso in cui le parti non abbiano già previsto le soluzioni nella convenzione arbitrale, alcuni problemi preliminari al procedimento vero e proprio:

1. Sede: il concetto di sede dell’arbitrato è più giuridico che geografico in quanto la sede non sempre è il luogo dove vengono svolte le attività processuali (riunioni del collegio, assunzioni di prove…) bensì il luogo dove è resa la sentenza, ossia, secondo la convenzione di Ginevra, il luogo dove è stato deliberato il lodo. Si dibatte, a riguardo, circa il significato della nozione di “luogo della sottoscrizione”, anche perché queste possono essere apposte in più luoghi. Di regola la scelta della sede spetta in primo luogo alle parti, e solo secondariamente agli arbitri, nel caso di arbitrato preorganizzato, l’istituzione amministrante.L’individuazione della sede è importante perché è quello che determina se si parla di arbitrato nazionale o estero al fine dell’applicazione della Convenzione di Ginevra o di New York. Inoltre ciò è utile al fine di individuare l’autorità giudiziaria nazionale competente per tutta una serie di incombenze e controlli che siano ad essa attribuiti (ricusazione, sostituzione, aiuto nell’assunzione delle prove, misura cautelari). Il giudice nazionale competente che viene individuato in base al luogo dell’arbitrato, sarà anche il giudice

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competente nel caso di azioni di nullità del lodo arbitrale e dell’eventuale riesame nel merito.Infine si è appena visto che dal luogo dove si svolge l’arbitrato potrà dipendere, in caso di mancata previsione delle parti, la legge applicabile nella procedura.

Lingua: la scelta spetta in primo luogo alle parti. Nel caso in cui esse non dicano nulla, spetterà agli arbitri stessi

Tentativo di conciliazioneSe le parti lo hanno previsto, gli arbitri devono esperire il tentativo di conciliazione, ossia

devono ricercare soluzioni che permettano la permanenza e l’esecuzione del contratto oppure che siano in ogni caso tali da consentire alle parti di mantenere buoni rapporti attraverso una chiusura amichevole della controversia.

Questo tentativo può essere svolto all’inizio della procedura come in qualunque altro momento, ma solo se entrambe le parti lo desiderano.

Tra un tentativo di conciliazione immediato ed uno in un secondo momento sembra che possa avere miglior sorte un tentativo posto in essere sulla base di una maggior concezione della controversia e su una più ampia conoscenza dei suoi termini.

In mancanza della previa manifestazione di volontà delle parti, allo stato attuale della lex mercatoria, è difficile poter asserire l’esistenza di un obbligo giuridico di esperire il tentativo di conciliazione oppure affermare che saltare quel passaggio e ricorrere direttamente all’arbitrato violi il canone della buona fede.

Quando l’accordo riesce, le parti potranno chiedere agli arbitri di incorporarlo nel lodo.

Competenza sulla competenzaBenché non sia sempre stato così, oggi si riconosce agli arbitri il potere di decidere sulla

propria competenza in relazione alle questioni loro sottoposte: saranno gli stessi arbitri a dire se potranno entrare nel merito oppure se la loro competenza sia carente o del tutto carente (nel caso di inesistenza, invalidità o cessazione degli effetti della clausola compromissoria).

Questo discorso si ricollega a quello relativo all’autonomia della clausola compromissoria: in ogni caso saranno gli arbitri a valutare la convenzione arbitrale e a decidere se, in base a questa, siano o meno competenti nel merito.

In passato la decisione sulla competenza degli arbitri era sempre rimessa ad un giudice ordinario: si ricorreva quindi a questo istituto per interrompere la prosecuzione dell’arbitrato.

Sempre per evitare che il procedimento sia paralizzato, è fatto obbligo delle parti di sollevare la contestazione relativa alla competenza nel primo atto di difesa, pena la decadenza: sarà allora l’arbitro la cui competenza è contestata a decidere al riguardo. Secondo la Convenzione di Ginevra, infatti, <egli ha il potere di pronunciarsi sulla propria competenza e sull’esistenza o validità delle controversie d’arbitrato o del contratto di cui detta convenzione fa parte>.

L’arbitro non è tenuto a sospendere il procedimento: egli potrà conoscere della sua competenza o per mezzo di una sentenza parziale oppure all’interno della pronuncia finale che decide nel merito.

La competenza degli arbitri può essere oggetto anche di questione portata dinnanzi ai giudici ordinari: nel caso in cui ciò avvenga, però, il tribunale arbitrale deve continuare la procedura arbitrale.

Mentre nei paesi di common law e in Germania si è da sempre considerato normale che la parte che contesta la competenza e l’efficacia della convenzione possa, oltre che non partecipare all’arbitrato, rivolgersi ai giudici statali, in altri paesi tale possibilità è stata introdotta solo di recente, non perché si ritenesse che le parti non avessero la possibilità di

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adire la giurisdizione ordinaria, ma perché si pensava che la clausola compromissoria non fosse di per sé sufficiente a determinare la competenza degli arbitri.

Le parti e l’arbitrato multipartiJoint ventures, contratti di appalto internazionali (committente, main contractor, sub-

contractors), impresa che appartiene ad un gruppo: tutte situazioni nelle quali le parti di un rapporto contrattuale saranno più di due. Mentre nel caso di joint-ventures è poi possibile sapere in anticipo quante saranno le parti di un’eventuale controversia, negli altri casi ciò non è facile da determinare con prelazione.

Si pongono a riguardo problemi circa la formazione del tribunale arbitrale, l’intervento di terzi nel procedimento, gli effetti della pronuncia sui terzi che non hanno partecipato all’arbitrato.

Chi non è parte della convenzione arbitrale non potrà mai ricorrere ad essa né pretendere di intervenire autonomamente (ma può intervenire con l’accordo delle parti già in causa); sul versante opposto chi ne è parte non potrà impedire che gli effetti del lodo vincolino anche lui, benché sia stato assente.

Delimitare tutti i rapporti contrattuali che si desidera siano decisi nell’ambito di un’unica procedura arbitrale è utile per individuare i soggetti che possono legittimamente intervenire in un procedimento arbitrale facendo valere le proprie ragioni e, al contempo, di permettere ad una delle parti in causa di chiamare in causa altre parti di tale convenzione.

I diritti di difesaCome si è avuto più volte modo di dire, l’arbitrato si basa, in primo luogo, sulla volontà delle parti e sulla loro libera determinazione circa le norme da applicare alla procedura. Esistono però dei principi che si pongono come limite estremo di tale libertà, in quanto non possono essere in ogni caso superati.

1. rispetto del contraddittorio nelle sue varie implicazioni: ciascuna parte deve potersi difendere, aver tempo per organizzare la difesa, poter presentare prove a proprio favore e poter contestare le prove addotte dalla controparte;

2. trattamento uguale delle parti, relativamente ad ogni loro azione o potere;3. convincimento proprio: l’arbitro deve fondare la sua decisione sull’opinione che egli stesso

si è formato e non su quella di altro.

Istruzione della causa ed assunzione delle provePer quanto riguarda l’andamento dell’arbitrato e la fase istruttoria le parti possono:

a. decidere che siano esclusi la possibilità di audizione delle parti stesse ed il dibattimento in contraddittorio, con la conseguenza di un giudizio documentale.

b. Rinunciare all’udienza di discussione che la maggior parte dei regolamenti prevedono.c. Decidere che la procedura abbia maggiormente carattere orale (come avviene quasi

sempre in ambito di common law) o sia basata su atti scritti (come nel caso di arbitrati che seguano lo schema della civil law);

Ed è proprio riguardo al modo di condurre la procedura da parte degli arbitri, ed in particolare la fase istruttoria, che emergono le maggiori differenze tra il modello della common law ed il modello di civil law: si ha infatti la contrapposizione tra il modello inquisitorio, tipico della common law, con quello accusatorio della civil law, il che determina un diverso atteggiamento degli arbitri nei confronti della ricerca della verità e, soprattutto, dei testimoni (si pensi al modello dell’adversary rule tipica della common law per l’esame testimoniale che invece nella civil law è sostituito da dichiarazioni scritte dei testimoni stessi).

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Comune ad entrambi i modelli è la verbalizzazione delle dichiarazioni delle parti, dei testi e dei periti.

Esistono differenze rilevanti anche per ciò che riguarda la produzione di documenti: nella civil law il mito della disponibilità delle prove comporta la libertà per la parte di produrre solo i documenti che essa reputa a sé favorevoli; al contrario nei paesi di common law incombe su ciascuna parte l’obbligo di produrre la totalità della documentazione in suo possesso, che sia attinente alla causa, e per garantire l’osservanza di tale obbligo il giudice e la controparte possono sottoporre la parte ad una serie di domande molto dettagliate.

Fondamentale è quindi la determinazione delle ‘regole del gioco’ (anche riguardo alla possibilità del giudice di ricorrere all’aiuto di un expertise, che per il modello di civil law è frequente, mentre così non è nei paesi di common law)

Provvedimenti cautelari e d’urgenzaFino a poco tempo fa si era concordi nel sostenere che gli arbitri non avessero né poteri

cautelari né il potere di emettere provvedimenti provvisori: data la dilatazione dei tempi della maggior parte degli arbitrati internazionali, per via della complessità delle controversie, si è iniziato a pensare che l’impossibilità di emettere provvedimenti cautelari o provvisori fosse un grosso limite per l’arbitrato.

Iniziò allora a verificarsi la situazione nella quale erano le stesse parti ad attribuire agli arbitri i poteri di emettere decisioni parziali od interlocutorie (provvisionale di danni, etc).

Entrando nello specifico dei singoli ordinamenti nazionali si ritrovano diverse situazioni, anche molto contrastanti tra loro: ad esempio in Francia gli arbitri possono pronunciare provvedimenti d’urgenza, mentre in Italia ciò è decisamente negato.

Nel panorama delle Convenzioni internazionali, il potere di emettere provvedimenti provvisori è previsto dalla Convenzione di Washington e dalla legge-modello Uncitrale del 1985.

Nei regolamenti arbitrali tale previsione è decisamente più diffusa.Originariamente il potere di emettere provvedimenti cautelari o provvisori era rigettato

sulla base della loro non eseguibilità forzata: detto che tale situazione è la stessa in cui si trova il lodo definitivo, bisogna aggiungere che lentamente si sta ponendo rimedio a questa carenza per mezzo di un’apertura nei confronti delle collaborazione tra giustizia ordinaria e giustizia arbitrale. Se fino a qualche anno fa si riteneva che ricorrere al giudice ordinario per ottenere un provvedimento cautelare fosse manifestazione di volontà di rinunciare a far valere la convenzione arbitrale, attualmente si sta diffondendo la tesi per la quale le due procedure non siano alternative, ma che operino su due piani diversi potendo quindi anche intervenire contemporaneamente sullo stesso procedimento, perché quello che può dare il giudice non potrebbe darlo l’arbitro.

Data la possibilità di che il ricorso all’autorità giudiziaria sia esclusivamente finalizzato ad intralciare o ritardare il normale procedimento arbitrale, si è previsto l’istituto delle anti-suit injunctions: la parte contro la quale è finalizzato il ricorso al giudice ordinario si potrà infatti rivolgere al collegio arbitrale per ottenere una declaratoria che il ricorso dell’autorità giudiziaria per un provvedimento d’urgenza costituiva violazione della convenzione arbitrale ed un ordine di porvi termine mediante rinuncia alla richiesta di provvedimento.

In ogni caso la possibilità di ricorrere alla giustizia ordinaria da parte degli arbitri costituisce un grande ausilio all’arbitrato: ciò rafforza l’idea della cooperazione.

Si è quindi fatta strada l’idea che gli arbitri possano rivolgersi alla giustizia ordinaria per ottenere le misure di protezione (provvedimenti cautelari soprattutto) che ritengano necessari: ciò su cui sia le norme degli ordinamenti interni sia i regolamenti internazionali pongono l’accento è che alla base di questa domanda degli arbitri vi deve essere la richiesta di una parte.

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I regolamenti più recenti prevedono poi un diretto potere degli arbitri di emettere provvedimenti cautelari: in particolare la dottrina ha evidenziato la distinzione tra due categorie di misure cautelari: misure con effetti processuali e misure con effetti sostanziali.

1. misure con effetti processuali: raccolta di campioni; audizione di teste che si teme non potrà più testimoniare; vendita di beni deperibili o l’ordine di custodia degli stessi.

2. misure con effetti sostanziali: sono misure che in un certo qual modo anticipano il merito, come le provvisionali di danni, le inibitorie provvisorie, i depositi cauzionali per i costi dell’arbitrato e così via.

Non si può prescindere dall’attribuzione o di riconoscimento alle autorità giudiziarie del potere di intervenire nel caso in cui le misure vadano ad incidere sui diritti di soggetti terzi: a proposito si distingue tra l’opinione di chi ritenga che le autorità giudiziarie dello Stato, valutata la richiesta della parte, possono prendere ed eseguire le misure cautelari secondo le norme comuni di diritto processuale civile (tale opinione è quella accettata sia a livello di leggi sull’arbitrato, sia di convenzioni internazionali sia di diversi regolamenti arbitrali), e l’opinione di chi invece sostiene che la misura cautelare sia predisposta dagli arbitri, i quali si serviranno dell’autorità giudiziaria dello Stato per eseguirla.

La sentenza arbitraleLa legge applicabile al merito

Tutti i problemi procedurali appena visti sono considerati del tutto secondari rispetto al vero fine dell’arbitrato internazionale, la sentenza: ciò determina che le parti, se molto spesso tralasciano le questioni legate alla norma procedurale da applicare, molto spesso selezionano le norme dalle quali desiderano che il merito del rapporto sia regolato.

La preminenza della volontà delle parti è consacrata nelle convenzioni internazionali, tanto che è ormai sancito che le parti possano liberamente scegliere una legge che non abbia alcun punto di rattachement con il contratto, che possano sottoporre diversi pezzi di contratto a diverse legge (dépeçage) o che possano far riferimento a corpi di regole di origine non statale (regole di diritto commerciale internazionali, usi commerciali).

Nel caso di riferimento alla lex mercatoria, le inevitabili lacune saranno colmate da una qualche legge statale: il rapporto di integrazione avviene in primo luogo tenendo conto della volontà delle parti (se hanno adottato un modello elaborato ed utilizzato prevalentemente in un determinato ordinamento, se hanno fatto riferimento a istituti o nozioni tipiche di un ordinamento, se tra le parti esistono rapporti pregressi con indicazione incontestata di una certa legge). In secondo luogo la selezione può avvenire attraverso l’applicazione delle norme di DIP ritenute più appropriate, ma tali leggi possono essere scavalcate per scegliere di regolare il rapporto sulla base delle norme dell’ordinamento con il quale il contratto appare avere il collegamento più significativo.

Gli arbitri hanno però bisogno di essere il più possibile affrancati da una specifica normativa statale, tanto che alcuni ordinamenti riconoscono la loro possibilità di decidere in base al regime che considerino maggiormente appropriato.

La nozione di lodo arbitraleLe convenzioni arbitrali dicono poco riguardo alla nozione ed ai requisiti del lodo arbitrale:

molto più dettagliati sono i regolamenti arbitrali ed i singoli ordinamenti nazionali.

DeliberazioneCome avviene la deliberazione del lodo?Se l’arbitro è unico non si pongono grossi problemi: se sono più di uno la regola è quella

della decisione collegiale, a volte addirittura della conferenza personale (gli arbitri devono

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partecipare a ciascuna deliberazione e decisione del tribunale arbitrale). Per evitare che un solo arbitro potesse bloccare il collegio, si è diffusa sempre più l’idea della validità dell’arbitrato a maggioranza.

In ogni caso nei paesi in cui è richiesta l’unanimità, o qualora le parti richiedano l’unanimità, o nel caso di collegio formato da due soli arbitri, il rifiuto di uno dei due di sottoscrivere il lodo è tale da paralizzare il procedimento: a questo punto le uniche soluzioni sono iniziare un nuovo arbitrato o iniziare l’azione davanti ai giudici.Forma del lodo

Anche se il diritto nazionale eventualmente applicato non richiede la forma scritta (come nel common law arbitration inglese) il lodo arbitrale internazionale deve risultare da forma scritta: o perché essa è richiesta per il suo riconoscimento e per la sua esecuzione oppure perché deve preventivamente passare il vaglio di un organismo interno dell’istituzione arbitrale che amministra l’arbitrato.

La regola della forma scritta è ormai presente in tutti i regolamenti per l’arbitrato internazionale.

MotivazioneIl problema della necessità della motivazione e degli effetti della sua mancanza laddove

richiesta non ha trovato soluzione univoca.Gli ordinamenti statali fino al 1996 si dividevano in due gruppi: quelli in cui la motivazione è

chiesta a pena di nullità (Francia, Italia, Olanda…) e quelli nei quali per tradizione non è richiesta, perché non era richiesta la motivazione neanche per le sentenze dei giudici (common law inglese). Dopo l’Arbitration Act del 1996 anche nel common law inglese i lodi devono obbligatoriamente essere motivati meno che le parti non vi abbiano espressamente rinunciato.

A metà strada si trovano quegli ordinamenti nei quali la motivazione è richiesta ma le parti vi possono rinunciare, e sulla stessa scia si trova la maggior parte dei regolamenti internazionali: l’omaggio è, ancora una volta, alla libera determinazione delle parti.

Il regolamento ICC si è invece distinto dagli altri prevedendo l’obbligo di motivazione, indipendentemente dalla volontà delle parti: a ben vedere questa è la soluzione migliore, dato che l’arbitrato è costituito da un’unica istanza.

La presenza o meno della motivazione non rileva ai fini del riconoscimento in quanto la Convenzione di New York prevede il riconoscimento nel caso in cui siano rispettati i requisiti richiesti dalla legge procedurale scelta dalle parti o, in assenza, dello Stato in cui il lodo è reso, sempre che ciò non vada contro l’ordine pubblico: anche gli Stati nei quali la motivazione è obbligatoria riconoscono lodi emessi senza motivazione in base a leggi procedurali che non la prevedevano.

Effetti della decisione arbitraleA meno che sia ammesso il ricorso, il lodo acquista immediatamente autorità di cosa

giudicata, determinando un effetto obbligatorio per le parti di dare esecuzione alle sentenze.

Impugnazione o annullamentoPuò essere che lo Stato preveda dei mezzi di impugnazione anche dei lodi arbitrali, o che

le parti stesse abbiano previsto un’istanza arbitrale d’appello.Riguardo all’impugnazione prevista dagli ordinamenti statali, in alcuni casi si dice che

non potrà mai riguardare il merito, ma solo la presenza di motivi che conducono alla nullità del lodo, mentre in altri ordinamenti è previsto un grado di appello, davanti all’autorità

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giudiziaria ordinaria, che può condurre anche ad un riesame nel merito (le parti vi possono rinunciare).

La possibilità di impugnazione concessa dall’ordinamento statale viene vista come un ostacolo per gli interpreti del commercio internazionale, che sono sempre molto restii ad accettare arbitrati in tali ordinamenti.

Riconoscimento ed esecuzioneNonostante un’altissima percentuale delle sentenze arbitrali venga spontaneamente eseguita

dalla parte soccombente, vi sono tuttavia dei casi nei quali manca l’esecuzione spontanea, sia per mancanza di volontà di non far fronte ai propri obblighi sia per presenza di vizi nella sentenza arbitrale che ne influenzano in diverso modo la credibilità.

Fondamentale per l’esecuzione del lodo è l’exequatur: chi voglia che il contenuto obbligatorio del lodo sia reso coattivamente efficace deve ottenere tale pronuncia nel paese nel quale ha interesse a farlo rispettare.

Fondamentale in materia di esecuzione delle sentenze arbitrali straniere è la Convenzione di New York, la quale predispone la procedura proprio per eseguire in ogni singolo paese sottoscrittore lodi stranieri o internazionali.

Secondo la Convenzione di New York gli stati membri si obbligano infatti a riconoscere ed eseguire le sentenze arbitrali straniere e le sentenze arbitrali internazionali: in particolare predispone una sorta di presunzione di riconoscibilità ed eseguibilità, addossando la prova degli elementi ostativi alla parte convenuta che si oppone al riconoscimento ed esecuzione del lodo.

Gli elementi ostativi, ridotto al minimo quanto al loro fondamento, sono divisi in categorie, a seconda del fatto che possano essere rilevati d’ufficio o solo dalla parte convenuta.

La parte convenuta potrà impugnare la richiesta di exequatur sulla base di:1. incapacità delle parti a compromettere in arbitri o invalidità della convenzione

arbitrale ai sensi della legge individuata dalle parti o della legge del luogo ove la decisione è stata resa;

2. mancata informazione della designazione dell’arbitro, mancata informazione della procedura arbitrale, impossibilità di far valere le proprie prove;

3. non applicabilità della convenzione arbitrale alla materia oggetto della controversia; decisione ultra o extra petita (anche se gli arbitri nella decisione competentia competentiae tendono ad interpretare in via estensiva le questioni che rientrano nella convenzione arbitrale);

4. non conformità della costituzione del collegio arbitrale o della procedura all’accordo delle parti o, in mancanza, alla legge del luogo ove l’arbitrato si è svolto;

5. non vincolatività fra le parti della decisione arbitrale;6. sentenza non vincolante, annullata o sospesa: la Convenzione di New York richiede

che la sentenza arbitrale di cui si chiede il riconoscimento ed esecuzione sia obbligatoria, quindi non è necessario che ci sia l’exequatur nello Stato in cui fu pronunciato il lodo. Può però accadere che il lodo sia stato annullato o sospeso o non sia obbligatorio: in questi casi è chiaro che non possa essere né riconosciuto né reso efficace.

L’esecuzione può anche essere rifiutata per iniziativa dell’autorità quando, secondo la propria legge, la controversia non era arbitrabile oppure se il riconoscimento o l’esecuzione sarebbe contraria all’ordine pubblico:

1. non arbitrabilità della controversia: questa ipotesi appare come una specificazione della contrarietà all’ordine pubblico. Va valutata sulla base della lex fori.

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2. contrarietà all’ordine pubblico: il giudice richiesto del riconoscimento e dell’esecuzione deve far riferimento all’ordine pubblico del Paese di esecuzione, e non del paese dove il lodo è stato reso. Si deve guardare non all’ordine pubblico interno, ma all’ordine pubblico internazionale, in modo che da parte dei giudici vi possa essere un’interpretazione il più univoca possibile. La contrarietà all’ordine pubblico è uno dei motivi più frequentemente invocati per opporsi al riconoscimento di un lodo straniero o internazionale, quindi tale aspetto deve essere analizzato con particolare attenzione. Si è cercato allora di raggiungere un nucleo basico di principi di ordine pubblico ai quali il giudice, e gli arbitri stessi, debbano fare riferimento: in particolare si distingue tra ordine pubblico processuale ed ordine pubblico sostanziale (relativo alla non arbitrabilità).Il Committee on International Commercial Arbitration dell’ILA nel 2000 ha presentato un ampio rapporto sul tema, che elenca una serie di motivi di violazione dell’ordine pubblico processuale: dolo nella composizione del tribunale, violazione della giustizia naturale, difetto di imparzialità, difetto di motivazione, manifesto contrasto con la legge, annullamento nella sede dell’arbitrato. Nel 2002 l’ILA ha poi presentato alcuni esempi di violazione dell’ordine pubblico sostanziale: violazione di norme imperative, violazione di principi fondamentali del diritto, contrarietà ai buoni costumi, contrarietà agli interessi nazionali.Anche se i singoli motivi possono essere più o meno apprezzabili, l’elenco contiene sicuramente un nucleo suscettibile di ampio consenso.

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