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Diritto Civile Contemporaneo
Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537
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Anno III, numero III, luglio/settembre 2016
RIMESSA ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE DELLA SORTE DEI DEBITI RESTITUTORI DA REVOCATORIA FALLIMENTARE NELLA CESSIONE D’AZIENDA
Umberto Stefini
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Rimessa alle Sezioni Unite la questione della sorte dei debiti restitutori da
revocatoria fallimentare nella cessione d’azienda
di Umberto Stefini
Con l’ordinanza del 21 aprile 2016 n. 8090, la Corte di Cassazione rimette alle
Sezioni Unite un problema piuttosto dibattuto, tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza, in materia di cessione d’azienda.
Sintetizzando il caso, una società cessionaria d’azienda, in quanto conferitaria
dell’azienda di un’impresa individuale (con qualche semplificazione: in realtà si
trattava di un’ulteriore società che aveva incorporato, attraverso un’operazione di
fusione, la società conferitaria, subentrando in tutti i rapporti giuridici anteriori alla
fusione, ai sensi dell’art. 2504-bis c.c.), viene convenuta in giudizio per la
revocatoria fallimentare, e conseguente restituzione, di una serie di pagamenti
effettuati a suo tempo a favore dell’impresa cedente da una terza società, all’epoca
in bonis, ma sottoposta poi (successivamente alla cessione d’azienda) ad
amministrazione straordinaria.
Il thema decidendum consiste nel verificare la legittimazione passiva della società
cessionaria: la cessione d’azienda porta con sé anche il subentro nella soggezione
all’azione revocatoria fallimentare di pagamenti effettuati, prima della cessione,
nelle mani dell’impresa cedente? E soprattutto nei debiti, futuri ed eventuali,
derivanti dall’accoglimento della relativa domanda giudiziale? I giudici di primo e
secondo grado si erano espressi in senso positivo, ravvisando sia la legittimazione
passiva della società cessionaria, sia la sussistenza di tutti i presupposti, oggettivi e
soggettivi, richiesti dall’art. 67 della legge fallimentare. La questione arriva dunque
in Cassazione: la Suprema Corte, nell’ordinanza in commento, si concentra sugli
effetti della cessione d’azienda, sulla natura di quest’ultima e sull’oggetto del
trasferimento, ravvisando un contrasto giurisprudenziale che necessita
dell’intervento delle Sezioni Unite (esempio di tale contrasto, proprio nella materia
che ci interessa, seppure in ambito di aziende bancarie – per le quali, come si dirà,
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opera una disciplina speciale – lo si trova mettendo a confronto le opposte
soluzioni adottate da Trib. Venezia, 17 maggio 2000, e Trib. Milano, 8 giugno
2000, entrambe commentate da TOMMASINI, Conferimento d’azienda bancaria e
debito da revocatoria, in Riv. dir. civ., 2002, 421 ss.).
L’ordinanza, oltre a contenere qualche imprecisione terminologica tipica della
tradizione giurisprudenziale (“il conferimento è equivalente alla cessione d’azienda”, quasi
che la cessione d’azienda fosse un contratto tipico, mentre è chiaro che il
conferimento è una cessione d’azienda sorretta dalla causa del contratto di società,
essendo la cessione d’azienda un effetto – traslativo del compendio aziendale –
che può trovare la sua fonte in un qualsiasi contratto ad effetti reali), si limita a
lambire il problema centrale della trasmissione dei debiti futuri “eventuali” da
accoglimento della revocatoria (ordinaria o fallimentare): si preoccupa infatti di
elencare le molteplici tesi giurisprudenziali circa la natura del bene azienda e gli
effetti della cessione sui rapporti giuridici, i debiti e i crediti aziendali, problemi a
dire il vero di vecchia data e mai veramente risolti, ma purtuttavia poco utili, se
affrontati nell’ottica tradizionale delle ricostruzioni dogmatiche, a risolvere casi
concreti come quello portato all’attenzione dei giudici di legittimità.
Va infatti tenuto sempre presente che non è l’adesione a questa o quella teoria che
può servire a risolvere i problemi posti dalla cessione d’azienda, ma
l’interpretazione delle norme dettate dal codice del ’42 agli articoli 2555 ss., avuto
riguardo alla finalità della normativa, che consiste nel favorire la conservazione
dell’unità economica e del valore d’avviamento dell’azienda, a tutela di coloro che
su questi elementi fanno affidamento – acquirente dell’azienda, lavoratori,
creditori – (v., in questo senso, CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto
dell’impresa, Torino, 2003, 137).
Un cenno di riepilogo delle varie tesi ricostruttive è comunque opportuno, anche
solo per seguire il ragionamento della S.C., e allora va subito detto che già sugli
elementi costitutivi dell’azienda le soluzioni sono tutt’altro che pacifiche: secondo
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le c.d. teorie onnicomprensive, dell’azienda fanno parte non soltanto i beni
aziendali in senso stretto dell’art. 2555 c.c., ma, prendendo spunto dall’intera
disciplina degli artt. 2557 ss., anche i servizi, le relazioni con la clientela, i beni
immateriali (marchi, ditta, insegna, brevetti, diritti d’autore), i rapporti giuridici
relativi all’esercizio dell’impresa (contratti in corso, debiti, crediti: v. per tutti
RUBINO, La compravendita, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1962, 151 ss.;
CASANOVA, Impresa e azienda, in Tratt. Vassalli, Torino, 1974, 734 ss.; anche la
giurisprudenza prevalente è in questo senso: Cass., 22 gennaio 1972, n. 171, in
Giur. it., 1973, I, 1, 262 ss.; Cass., 11 agosto 1990, n. 8219, in Giur. comm., 1992, II,
774 ss.); secondo invece le teorie “dualistiche”, l’azienda in senso stretto sarebbe
composta solo dai beni aziendali, come ricavabile dal combinato disposto degli
artt. 2555 e 810 c.c., mentre gli altri sarebbero elementi accessori, tanto che crediti
e debiti o non si trasferiscono, o è possibile escluderne il trasferimento in caso di
cessione d’azienda, mentre dei contratti è detto espressamente all’art. 2558 che è
possibile escluderli dalla cessione (non possono insomma essere qualificati come
elementi essenziali del compendio aziendale, se il loro trasferimento è un effetto
solo naturale, e non essenziale, della cessione d’azienda: v. COLOMBO, L’azienda
e il mercato, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, III, Padova,
1979, 19 ss., spec. 23 ss.; CAMPOBASSO, op. cit., 139).
Ancora più dibattuta la natura giuridica dell’azienda: le teorie unitarie parlano di
un bene immateriale rappresentato dall’organizzazione dei beni d’impresa (v.
FERRARA jr, La teoria giuridica dell’azienda, Firenze, 1945, 118 ss.), o di una
universalità di beni (così la totalità della giurisprudenza; in dottrina si vedano per
tutti CANDIAN, Appunti in tema di azienda, in Temi, 1961, 84; DE MARTINO,
Dei beni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1976, 35 s.), mentre le teorie c.d.
“atomistiche” individuano nell’azienda una pluralità di beni funzionalmente
collegati e sui quali l’imprenditore può vantare diritti diversi (proprietà, diritti reali
minori, diritti personali di godimento), come dimostrato dall’art. 2556 c.c., che per
la cessione richiede le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli
beni che compongono l’azienda (v. tra i molti COLOMBO, op. cit., 4 ss.;
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GALGANO, L’impresa, in Diritto civile e commerciale, III.1, Padova, 2004, 87 ss.;
CAMPOBASSO, op. cit., 141 ss.). Oggi prevalgono nettamente in dottrina le
teorie atomistiche, pure nella convinzione della stretta unità funzionale che lega i
vari beni aziendali, che ben si ricava dalla disciplina dell’usufrutto d’azienda (art.
2561, 2° comma, c.c.), e che fornisce, come si dirà, un utile criterio interpretativo
anche delle norme che disciplinano la cessione, tutte improntate all’idea di
preservare l’unitarietà e la continuità aziendali.
La giurisprudenza, dal canto suo, è fedele all’idea della universalità di beni. Una
prima posizione vi scorge una universitas facti o rerum, prendendo spunto dall’art.
670 c.p.c. che parla del sequestro giudiziario “di aziende o di altre universalità di beni”
(v. ancora Cass., 26 settembre 2007, n. 20191, in Giust. civ., 2008, I, 365 ss.): in
realtà dell’universalità di cui all’art. 816 c.c., a parte la destinazione unitaria,
mancano la natura squisitamente mobiliare dei beni (l’azienda può comprendere
beni eterogenei), e la proprietà in capo all’imprenditore dei singoli beni costituiti
in universalità (i beni aziendali possono essere oggetto anche di diritti reali minori
o di diritti personali di godimento). Ciò non toglie che parte della disciplina dettata
per le universalità di mobili possa essere applicata in via analogica: per esempio
per i beni mobili aziendali dovrebbe escludersi l’applicabilità del principio del
“possesso vale titolo” ex art. 1156 c.c., l’usucapione dell’azienda dovrebbe maturarsi
in vent’anni ai sensi dell’art. 1160 c.c., e all’imprenditore dovrebbe spettare
l’azione di manutenzione dell’art. 1170 c.c. in caso di molestie al possesso
dell’azienda o di spoglio non violento né clandestino (per queste conclusioni e per
riferimenti, si veda CAMPOBASSO, op. cit., 143).
Una linea interpretativa più diffusa è invece quella che parla di universitas iuris,
universalità cioè creata dalle norme che disciplinano l’azienda stessa dagli articoli
2557 a 2560, e che comprenderebbe quindi anche le relazioni con la clientela, i
rapporti contrattuali, i crediti e i debiti aziendali (oltre che ditta, marchio, ecc.,
come si evincerebbe dalle norme degli articoli 2565 e 2573 c.c.): la tesi, adottata da
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SANTORO-PASSARELLI (Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1959, 86 ss.), si
trova tuttora in diverse pronunce giurisprudenziali (v. Cass., 11 agosto 1990, n.
8219, cit.; Cass., 19 luglio 2000, n. 9460, in Fall., 2001, 767 ss.; Trib. Milano, 24
maggio 2010, n. 6833, inedita).
Si tratta in realtà di tesi che rispondono esclusivamente ad esigenze di
semplificazione classificatoria, ma che devono, come si accennava in principio,
essere messe a confronto con il dettato normativo, dalla cui interpretazione
soltanto può venire la soluzione dei casi controversi: e le norme non sembrano
dare risposte univoche al problema della natura giuridica dell’azienda.
Venendo al caso all’attenzione della Cassazione, la sorte dei debiti aziendali in
caso di cessione è tutt’altro che scontata: l’art. 2560 c.c. si occupa solo dei rapporti
con i terzi creditori, precisando che il cedente non è liberato dai debiti inerenti
all’esercizio dell’azienda ceduta e anteriori alla cessione a meno che non vi sia una
liberazione espressa da parte dei creditori (1° comma), e che dei debiti risultanti
dai libri contabili obbligatori risponde in solido anche l’acquirente dell’azienda (2°
comma). Nulla si dice dei rapporti interni tra cedente e cessionario: vi è pertanto
chi sostiene che i debiti risultanti dai libri contabili obbligatori si trasferiscano
all’acquirente insieme all’azienda, per cui l’alienante resterebbe obbligato solo in
veste di garante (accollo cumulativo ex lege, che diverrebbe liberatorio col
consenso dei creditori), ed è questa la tesi cara ai sostenitori delle teorie
onnicomprensive e “universalistiche” cui si accennava in precedenza (v. per tutti
CASANOVA, op. cit., 830 ss.; ma anche un “atomista” come CAMPOBASSO
aderisce alla tesi del passaggio automatico: ID., Coobbligazione cambiaria e solidarietà
diseguale, Napoli, 1974, 318 ss.; in questo senso è anche la giurisprudenza
prevalente, fautrice dell’idea di azienda come universalità, già a partire da Cass., 22
gennaio 1972, n. 171, in Giur. it., 1973, I, 1, 262 ss.); altrimenti, si dice – e
l’argomento viene ripreso dall’ordinanza in commento –, non avrebbe alcuna
giustificazione la possibilità di liberazione del debitore originario prevista dal 1°
comma della norma (così CASANOVA, loc. cit.). Altri, viceversa, ritengono che i
debiti restino in capo al cedente, e che la norma si limiti a prevedere una
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responsabilità solidale dell’acquirente in veste di garante, accessoria e con diritto di
rivalsa, a tutela dei terzi creditori (così, tra gli altri, COLOMBO, op. cit., 136 ss., e
BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, I,
Padova, 2001, 642 ss.).
A ben vedere, il problema ricostruttivo, pure assai interessante, rileva fino a un
certo punto, di fronte a una norma che lascia aperte entrambe le interpretazioni.
La cosa più importante è che la norma, per configurare una responsabilità solidale
dell’acquirente d’azienda, richiede che i debiti siano anteriori alla cessione, inerenti
all’attività d’impresa e risultanti dalle scritture contabili obbligatorie: occorre
quindi verificare che i debiti derivanti dall’accoglimento dell’azione revocatoria
fallimentare posseggano tutte e tre queste caratteristiche, e la dottrina ormai
unanimemente nega che sia così (v. per tutti TOMMASINI, Conferimento d’azienda
bancaria e debito da revocatoria, cit., 432 ss.; VERBANO, Trasferimento d’azienda
(bancaria) e debiti restitutori da revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2014, I, 383 ss.,
spec. 385 e 390 ss.).
Sicuramente non si tratta di debiti anteriori, vista la natura costitutiva, ormai
pacificamente riconosciuta, della sentenza che accoglie una domanda di
revocatoria (ordinaria o fallimentare): è solo con la sentenza che si determina
l’inefficacia dei pagamenti effettuati (v. per riferimenti TOMMASINI, op. cit.,
423), per cui il debito da restituzione sorge solo con la pronuncia del giudice, e in
nessun caso può essere ricompreso nel compendio aziendale ceduto, o
considerato un accessorio che segua l’azienda nella sua vicenda circolatoria.
L’unica via per sostenere che il debito sorga in capo all’acquirente, sarebbe di
ritenere che con l’azienda passi anche la soggezione all’esercizio del diritto
potestativo di agire per la revocatoria dei pagamenti effettuati: ma, innanzitutto, è
dubbia la configurabilità di una situazione giuridica soggettiva di questo tipo (a
dire il vero, il diritto potestativo è solo quello di agire per la revocatoria, non certo
di ottenerla, per cui sarebbe più opportuno parlare di una semplice aspettativa di
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fatto, come mera speranza in un risultato positivo della controversia giudiziale, a
fronte della quale non ci sarebbe nessuna situazione passiva in capo al destinatario
del pagamento: v. sul punto JORIO-AMBROSINI, Cessione di azienda bancaria e
responsabilità per debiti derivanti da azioni revocatorie di rimesse in conto corrente, in Giur. it.,
2002, 1535 ss., spec. 1536, e Cass., 30 luglio 2001, n. 10414, in Foro it., 2002, I,
1451 ss.); in secondo luogo, il fatto che questa “soggezione” sia ricompresa
nell’azienda, o comunque ad essa accessoria, e venga considerata parte dell’oggetto
della cessione, solleva diverse perplessità (v. sul punto VERBANO, op. cit., 385
ss.: un conto è parlare di situazioni giuridiche, anche passive, che però sorgono
per volontà del titolare dell’impresa e nel suo interesse, quali si creano con
l’emissione di una proposta contrattuale o di una procura – ai sensi degli artt. 1330
e 1722 n.4 c.c. –, le quali sopravvivono alla cessione nell’ottica della continuità
dell’esercizio dell’impresa; cosa diversa invece la soggezione a revocatoria, che
sorge per legge e serve a tutelare interessi di terzi estranei all’attività aziendale).
Altrettanto difficilmente si può considerare il debito da revocatoria “inerente
all’esercizio dell’azienda ceduta” ai sensi dell’art. 2560, 1° comma, c.c.: inerenti
all’attività d’impresa – requisito peraltro piuttosto opinabile – saranno stati
eventualmente i pagamenti ricevuti, non il debito che scaturisce dall’accoglimento
della domanda di revocatoria proposta dalla curatela fallimentare (v. ancora
VERBANO, op. cit., 390 ss.; Trib. Milano, 7 ottobre 1976, in Dir. fall., 1977, II,
100). E neppure si può dire che i debiti risultino dalle scritture contabili
obbligatorie, visto che, per la ricordata natura costitutiva della sentenza che
accoglie la domanda di revocatoria, tali debiti ancora non esistono al momento
della cessione.
Le sentenze di merito del caso in esame, così come la giurisprudenza in altre
occasioni (ad esempio Trib. Venezia, 17 maggio 2000, cit.; Cass., 28 luglio 2010, n.
17668, in Giust. civ. Mass., 2010, 1078) hanno cercato di sostenere che comunque
dalle scritture contabili risultano i pagamenti ricevuti, dai quali si può dedurre il
rischio e l’ammontare del debito restitutorio, così come spesso nei bilanci si trova
un “fondo cause passive e revocatorie”, che lascerebbe intendere la ricomprensione nel
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compendio aziendale del “rischio da revocatoria”. In realtà questo può rendere i
debiti da revocatoria determinabili, ai fini della validità di un eventuale accollo di
debiti futuri, come si dirà tra poco, ma il semplice fatto che dalle scritture risultino
dei pagamenti ricevuti non può implicare l’indicazione dei relativi debiti restitutori,
come detto solo futuri ed eventuali. Peraltro, la vendita d’azienda (o anche il
conferimento della stessa in società) è un contratto commutativo, che richiede
un’attenta valutazione, nella fase precontrattuale, della reale consistenza dei cespiti
aziendali: non si può pretendere che l’acquirente debba sempre interrogarsi
sull’eventuale revocabilità di pagamenti ricevuti che risultano dalle scritture
contabili, andando a verificare la maggiore o minore solvibilità di colui che li ha
effettuati. Il “rischio d’impresa” non può arrivare a tanto, altrimenti dovremmo
dire che la vendita d’azienda sia sempre un contratto fondamentalmente aleatorio,
in cui la prestazione del cedente è incerta per definizione, a fronte della certezza
degli obblighi assunti dal cessionario, mentre così non è, a differenza di quanto
accade nella vendita di eredità (questa sì universitas iuris che si compra “a scatola
chiusa”, accollandosi il rischio della consistenza effettiva dell’asse: in questo senso
già BIANCA, La vendita e la permuta, in Tratt. Vassalli, Torino, 1972, 198;
CAPOZZI, Dei singoli contratti, Milano, 1988, 185; BOCCHINI, in VALENTINO
(a cura di), Dei singoli contratti, I, in Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Torino,
2011, 604; in giurisprudenza, v. Cass., 18 ottobre 1956, n. 3730, e Cass., 9 febbraio
1962, n. 287, in Foro it., 1962, I, 429 ss.).
In conclusione, la cessione d’azienda in sé, ai sensi dell’art. 2560 c.c., non può
comportare una legittimazione passiva del cessionario nell’eventuale azione
revocatoria, ordinaria o fallimentare, di pagamenti effettuati al cedente, prima della
cessione, da terze imprese che in quel momento non erano ancora in stato di
decozione.
La stessa conclusione va confermata anche nel caso di cessione di aziende
bancarie – caso giurisprudenziale più frequente di quello che stiamo esaminando –
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dove per i debiti opera la norma speciale dell’art. 58 T.U.B., che deroga all’art.
2560 c.c. L’art. 58, 5° comma, prevede che “i creditori ceduti hanno facoltà, entro tre
mesi dagli adempimenti pubblicitari previsti dal comma 2 [iscrizione della cessione nel registro
delle imprese e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale], di esigere dal cedente o dal cessionario
l’adempimento delle obbligazioni oggetto di cessione. Trascorso il termine di tre mesi, il
cessionario risponde in via esclusiva”.
Dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono trattarsi di ius speciale, che deroga
alla normativa generale in materia di cessione d’azienda: deroga motivata in primo
luogo da esigenze di certezza e semplificazione nella cessione delle aziende
bancarie; in secondo luogo, secondo alcuni autori, dall’idea che crediti e debiti
nelle aziende bancarie assumano la natura e la funzione di beni aziendali in senso
stretto, per i quali si prevede l’automatico passaggio all’acquirente (v. per tutti
COLOMBO, Crediti e debiti nella cessione di aziende bancarie, in Riv. società, 1970, 1150
ss., con riferimento alla vecchia norma dell’art. 54 della legge bancaria – R.D. n.
375 del 1936). Le deroghe rispetto alla disciplina codicistica sono
fondamentalmente due: non si richiede il consenso dei creditori per la liberazione
del cedente, affidandosi invece al criterio cronologico dei tre mesi; non sembra sia
richiesta la risultanza dei debiti dalle scritture contabili obbligatorie (così la
giurisprudenza più recente: v. Cass., 10 febbraio 2004, n. 2464, in Giur. it., 2004,
1669 ss., con nota di CAVANNA; Cass., 29 ottobre 2010, n. 22199, in Giust. civ.,
2011, I, 373 ss.).
Per quanto in dottrina si siano proposte diverse ricostruzioni, la soluzione
maggiormente condivisa è che, fuori da queste due deroghe, torni ad applicarsi la
disciplina generale, e che pertanto i debiti ceduti di cui parla la norma siano solo
quelli anteriori alla cessione e inerenti all’esercizio dell’impresa, liquidi e certi (v.
JORIO-AMBROSINI, op. cit., 1535; TOMASINI, op. cit., 434 ss.; VERBANO,
op. cit., 394 ss.). Anche in questo caso, pertanto, i debiti futuri ed eventuali da
accoglimento della revocatoria non possono ritenersi passati in capo all’impresa
cessionaria (in questo senso, recentemente, v. App. Bari, 24 gennaio 2014, n. 61,
inedita, consultabile su DeJure).
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Una volta chiarito che il trasferimento dei debiti restitutori da revocatoria non è
automatico, resta da esaminare se sia possibile, per l’autonomia privata, prevedere
un accollo di siffatti debiti da parte dell’acquirente dell’azienda, attraverso una
clausola espressa del contratto che realizza la cessione.
La risposta non può che essere positiva: beni e diritti futuri possono formare
oggetto di contrattazione ai sensi dell’art. 1348 c.c., principio che trova poi
declinazione espressa in materia di vendita di cose future, fideiussione omnibus,
servitù a vantaggio di edifici da costruire, e via dicendo (con l’eccezione dei divieti
di patti successori dispositivi e rinunziativi, e della donazione di cose future).
Crediti futuri possono formare oggetto di cessione, e ad essi vengono ricondotti
anche i crediti eventuali, soggetti cioè all’incertezza tipica del meccanismo
condizionale (v. TROIANO, La cessione di crediti futuri, Padova, 1999, 41 ss., per
una ricostruzione storico-comparatistica e una classificazione dei crediti
qualificabili come “futuri”, atta a ricomprendere anche crediti la cui fattispecie
costitutiva si colloca interamente nel futuro): il problema è quello di valutare in
questi casi la validità ed efficacia del negozio dispositivo, e in particolare la
determinatezza o determinabilità di tali crediti (v. TROIANO, op. cit., 230 ss.;
sulla cessione di crediti futuri, v. in giurisprudenza Cass., 26 ottobre 2002, n.
15141, in Foro it., 2003, I, 498 ss., che ha introdotto la distinzione tra crediti
“eventuali in concreto” ed “eventuali in astratto”; la giurisprudenza prevalente è però
alquanto restrittiva, ammettendo la cessione anche in mancanza di certezza e
liquidità, ma purché i crediti derivino da un rapporto identificato e già esistente:
così Cass., 10 settembre 2009, n. 19501, in Giust. civ. Mass., 2009, 1292).
Lo stesso ragionamento deve farsi per l’accollo di debiti futuri, anche eventuali,
ma determinati o quanto meno determinabili. In origine la giurisprudenza negava
l’ammissibilità di tale fattispecie, ritenendo che l’assunzione del debito
presupponesse la sua esistenza al momento dell’accollo, e che l’accollo del debito
futuro potesse al più considerarsi un preliminare di accollo (così Cass., 22 giugno
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1957, n. 2386, in Fori it. Rep., voce Obbligazioni, 1957, n. 385); in seguito l’indirizzo
è mutato, ammettendo l’accollo di debiti futuri purché almeno determinabili (v.
Cass., 23 settembre 1994, n. 7831, in Corr. giur., 1995, 330 ss., con nota di
CARINGELLA; Cass., 28 luglio 2010, n. 17668, cit.), e anche la dottrina è oggi in
questo senso (v. CAMPOBASSO, voce Accollo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988,
4; G.GIACOBBE-D.GIACOBBE, Della delegazione, dell’espromissione e dell’accollo, in
Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1992, 109; CARINGELLA, L’accollo
di debiti futuri torna all’attenzione della Suprema Corte, nota a Cass., 23 settembre 1994,
n. 7831, in Corr. giur., 1995, 335 ss.; TROIANO, op. cit., 260 ss.).
Nel caso che ci interessa, il debito accollato sarebbe senz’altro futuro ed eventuale,
non essendosi ancora perfezionata, al momento della cessione d’azienda, la
fattispecie che condurrà alla sua venuta ad esistenza, ma purtuttavia, risultando dal
bilancio i pagamenti ricevuti, il contenuto del debito accollato è sicuramente
determinabile per relationem (v. ancora VERBANO, op. cit., 401): è pertanto ben
possibile non solo un accollo meramente interno tra cessionario e cedente, ma
pure un accollo esterno, che attribuisca al terzo creditore del debito restitutorio
una ragione di credito verso il cessionario dell’azienda.
Naturalmente, per ottenere la liberazione dell’imprenditore cedente servirà il
consenso espresso del creditore (accollo liberatorio, che sarà privativo o novativo
a seconda che si voglia il subentro nello stesso debito, o la costituzione di
un’obbligazione nuova, ancorché di uguale contenuto, a carico del cessionario);
per un accollo cumulativo, trattandosi di un contratto a favore di terzo, tale
consenso non sarà invece necessario, se non per far degradare a sussidiaria
l’obbligazione originaria del cedente (per la ricostruzione dell’accollo esterno dal
punto di vista strutturale, si rinvia a STEFINI, La solidarietà nella delegazione,
nell’espromissione e nell’accollo cumulativi, in Contratto e impresa, 2014, 674 ss., spec. 700
ss.).
Anche nel caso in cui il contratto di accollo prevedesse con una clausola espressa
la liberazione del cedente, mi sembra però azzardato ritenere che il
comportamento del creditore che scegliesse di agire contro il cessionario
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accollante possa essere interpretato come accettazione presunta o “per
comportamenti concludenti” dell’accollo così come strutturato dalle parti – e quindi
come adesione ad un accollo liberatorio (così invece, pur con qualche perplessità,
VERBANO, op. cit., 402). L’agire contro il cessionario non è un comportamento
dal quale possa ricavarsi una volontà univoca in questo senso: tanto più in una
materia controversa come quella in discorso, dove il creditore potrebbe agire
contro il cessionario per i motivi più svariati, credendo ad esempio che il subentro
nel debito restitutorio avvenga automaticamente con la cessione dell’azienda, e
che l’accollo espresso sia meramente pleonastico, e quindi con l’idea di riservarsi
comunque di agire in un secondo tempo contro il cedente. Al contrario, la volontà
di liberare il cedente deve essere espressa, e risultare o da un atto remissorio, o da
un’adesione espressa all’accollo configurato come liberatorio. Non c’è spazio, a
mio avviso, per comportamenti concludenti: il creditore potrebbe semplicemente
voler agire contro uno degli obbligati in solido, senza che ciò comporti remissione
del debito dell’altro obbligato.
Una volta acclarato che il subentro nel debito restitutorio eventuale da revocatoria
non è conseguenza automatica della cessione d’azienda, ma può discendere da un
accollo del debito, che si giustifica causalmente con il medesimo sostegno causale
della cessione (di solito la causa di scambio) e si inserisce come clausola nel
contratto che realizza il trasferimento del compendio aziendale, rimane un ultimo
problema da risolvere: se sia sufficiente una clausola di generica assunzione di tutti
i debiti presenti e futuri più o meno inerenti all’attività d’impresa, o se serva invece
una clausola specifica, nella quale si faccia espressa menzione degli eventuali debiti
restitutori di cui si sta discorrendo.
Il caso, ad esempio, deciso dalla sentenza del Tribunale di Venezia del 17 maggio
2000, si riferiva a un conferimento d’azienda che prevedeva il subentro “… di pieno
diritto e nel modo più ampio e generale … in tutti gli elementi attivi e passivi”, mentre il
complesso aziendale avrebbe compreso “tutti i rapporti attivi e passivi, tutti i debiti e i
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crediti, ogni cespite, diritto, aspettativa nei confronti di chiunque, ogni attività e passività, nella
più esatta loro natura e consistenza”. Secondo la dottrina prevalente, una clausola di
questo tipo dovrebbe determinare l’assunzione da parte del cessionario anche dei
debiti eventuali da revocatoria, trovando la sua causa nella stessa causa della
cessione (come ogni clausola contrattuale che prevede l’effetto dell’accollo di un
debito inserendosi in una più complessa operazione negoziale: v. TOMMASINI,
op. cit., 429 s.; VERBANO, op. cit., 398 s.).
A mio avviso, clausole di questo tipo o sono clausole di stile, o hanno l’utilità di
chiarire che nella cessione d’azienda vengono trasferiti anche crediti e debiti (viste
le diverse impostazioni teoriche sul punto: v. supra). Tuttavia, innanzitutto, a meno
che non ci sia un riferimento espresso ai debiti futuri, presuppongono che si tratti
di debiti esistenti e “inerenti all’esercizio dell’impresa”, secondo quanto si ricava dalla
normativa sulla cessione d’azienda (art. 2560 c.c. e art. 58 T.U.B.); in seconda
battuta, come detto, ove anche ci sia il riferimento a debiti e crediti futuri,
occorrerà vagliare la determinatezza o determinabilità delle situazioni giuridiche
trasferite, pena la nullità del relativo trasferimento in capo al cessionario.
Ora, i debiti restitutori eventuali da revocatoria di pagamenti ricevuti sono
inesistenti al momento della cessione, tutt’altro che certi e liquidi, non inerenti
all’esercizio dell’impresa. Sono – si è detto – determinabili, e quindi possono
formare oggetto di un accollo, che dovrà però prevederli espressamente, perché
sia chiara la volontà delle parti di realizzare un subentro anche in queste poste
passive eventuali: solo in questo modo l’autonomia privata può arricchire il
contenuto della cessione d’azienda così come si trova disciplinato nel codice e nel
T.U.B., e cioè con una volontà di accollarsi tali debiti eventuali che sia espressa in
modo inequivoco. Del resto, proprio la prima e fondamentale sentenza della
Corte di Cassazione che ammise l’accollo del debito futuro ed eventuale dei debiti
in discorso in una cessione d’azienda (Cass., 23 settembre 1994, n. 7831, cit.), si
trovò a giudicare di una pattuizione in cui si prevedeva che la cessionaria “si
accollava, fra l’altro, anche i debiti eventuali ex art. 67 legge fallimentare”. Di
fronte invece a pattuizioni dal contenuto più generico, l’interprete dovrebbe
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adottare una maggiore cautela nell’ipotizzare deroghe pattizie al regime legale,
ricercando sempre la “comune intenzione delle parti” ai sensi degli articoli 1362 e
1364 c.c.
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Questa Nota può essere così citata:
U. STEFINI, Rimessa alle Sezioni Unite la questione della sorte dei debiti restitutori da
revocatoria fallimentare nella cessione d’azienda, in Dir. c iv . cont ., 15 luglio 2016