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Diritto Civile Contemporaneo Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537 www.dirittocivilecontemporaneo.com Anno IV, numero IV, ottobre/dicembre 2017 LE SEZIONI UNITE ED IL TRAMONTO DELLA «USURA SOPRAVVENUTA» Simone Alecci

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Diritto Civile Contemporaneo

Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537

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Anno IV, numero IV, ottobre/dicembre 2017

LE SEZIONI UNITE ED IL TRAMONTO DELLA «USURA SOPRAVVENUTA»

Simone Alecci

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Le Sezioni Unite ed il tramonto della «usura sopravvenuta»

di Simone Alecci

Le Sezioni Unite (sentenza n. 24675 del 19 ottobre 2017, Rel. De Chiara),

attingendo ad un apprezzabile nitore argomentativo, diradano definitivamente la

coltre di equivocità che alcune recenti pronunce (nel novero delle quali spiccano

Cass. Civ., 11 gennaio 2013, n. 602 nonché Cass. Civ., 12 aprile 2017, n. 9405)

avevano condensato sul viscoso crinale della cd. usura sopravvenuta (cfr., in

chiave sinottica, F. GAZZONI, Usura sopravvenuta e tutela del debitore, in Riv. Not.,

2000, 1447; F. DI MARZIO, Il trattamento dell’usura sopravvenuta tra validità, illiceità e

inefficacia della clausola interessi, in Giust. Civ., 2000, 3099; A. DOLMETTA, Al vaglio

delle Sezioni Unite l’usura sopravvenuta, in ilcaso.it, 2017, 1; G. GUARINA, L’ordinanza

di rimessione alle Sezioni Unite in tema di usura sopravvenuta, in Dir. Civ. Cont., 15 marzo

2017).

Il principio di diritto scandito dalla Suprema Corte a corollario di un’impalcatura

motivazionale tanto compatta (in piena aderenza ai dettami “canziani”) quanto

adamantina nei suoi snodi analitici non esibisce alcuna crepa nella sua

componente illocutiva, laddove stabilisce inequivocabilmente che, nell’ipotesi in cui

il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superasse nel corso

del rapporto contrattuale la soglia usuraria individuata sulla scorta di quanto

previsto dalla legge n. 108 del 1996, non affiorerebbero né la nullità né l’inefficacia

della clausola di determinazione del tasso stipulata anteriormente all’entrata in

vigore dell’evocato ordito normativo o della clausola pattuita successivamente per

un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della conclusione

del regolamento negoziale.

Il precipitato dell’assunto enunciato dai giudici di legittimità esclude recisamente

che la pretesa da parte del mutuante di riscuotere gli interessi secondo la misura

validamente concordata possa quindi considerarsi, in virtù del sopraggiunto

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superamento di tale soglia, collidente con la clausola generale di buona fede che

permea lo stadio esecutivo della vicenda contrattuale.

L’approdo ermeneutico appena illustrato, a prescindere dalla sua opinabilità sul

piano dogmatico, rappresenta il frutto di una puntuale nonché analitica

confutazione delle argomentazioni addotte dal formante dottrinale e da quello

giurisprudenziale a sostegno della rilevanza fenomenica della cd. usura

sopravvenuta.

Alla tesi per la quale la pattuizione di interessi eccedenti la soglia dell’usura

sarebbe suscettibile di sanzione soltanto in prospettiva penale nonché, attraverso

la disposizione iugulatoria di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., entro il perimetro del

contatto di mutuo le Sezioni Unite muovono un rilievo di indubbia pregnanza

sistematica, nella misura in cui rimarcano che la disposizione di interpretazione

autentica delineata dall’art. 1, comma 1, del d.l. 394 del 2000 rappresenterebbe una

sponda normativa imprescindibile per una ortodossa rilevazione del fenomeno

usurario.

In altri termini, dalla visuale delle Sezioni Unite non potrebbe concepirsi la

ricorrenza di un illecito civile al di fuori dei binari tracciati dall’art. 644 c.p. (come

autenticamente interpretato dall’art. 1, comma 1, del d.l. 394 del 2000), e ciò in

quanto le disposizioni di legge diverse da quest’ultima, lungi dal tratteggiare un

divieto di incamerare o di farsi promettere interessi ovvero altri vantaggi usurari,

rinviano alle ondulazioni della stessa norma penale, così come integrata dalla legge

108/1996.

L’iter logico-sistematico scandito dal tessuto motivazionale si lascia

particolarmente apprezzare per la sua intrinseca coerenza, se non altro perché

ribadisce l’ovvietà di un dato troppo spesso obliterato nelle dissertazioni

affastellatesi nell’arco dell’ultimo decennio, e cioè che il giudizio di usurarietà non

può prescindere dalla sponda rappresentata dall’art. 644 c.p., che impone –

proprio attraverso la lente costituita dalla norma di interpretazione autentica di cui

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all’art. 1, comma 1, del d.l. 394 del 2000 – di polarizzare lo sguardo sul momento

in cui gli interessi sono promessi o comunque convenuti, indipendentemente dal

tempo del rispettivo pagamento o, più correttamente, della rispettiva maturazione

(significante ben più idoneo, sulla scia delle intramontabili costruzioni dogmatiche

di M. LIBERTINI, Interessi (Voce), in Enc. Dir., Milano, 1972, XXII, 20 e P.

BARCELLONA, Frutti (Voce), in Enc. Dir., Milano, 1969, XVIII, 205, a cogliere

l’inestricabile connubio tra il concetto di interesse e quello di frutto civile, ossia ciò

che si ritrae da un bene quale corrispettivo del godimento che altri ne abbia).

Se è innegabile, infatti, che l’orizzonte problematico (volendo adoperare uno

stilema mengoniano) relativo al dato materiale di rilevanza usuraria non può certo

arenarsi, per sua stessa natura, alla fase genetica del vincolo contrattuale sul quale

attecchisce (cfr., per tale ordine di considerazioni, A. DOLMETTA, Sugli effetti

civilistici dell’usura sopravvenuta, in ilcaso.it, 2014, 1) e che, per tale ragione, non

possono non assumere rilievo – quantomeno nell’alveo della ragionevolezza o del

buon senso – le dinamiche inerenti allo stadio esecutivo del rapporto, è d’altra

parte indubitabile che, al cospetto di una simile norma di interpretazione autentica

(che, per quanto esecrabile nel suo sostrato ideologico, persegue comunque

l’obiettivo di tutelare il mercato del credito anche al prezzo di indulgere in appetiti

rimediali alquanto rigidi), la soluzione al quesito posto dall’ordinanza di rimessione

non avrebbe potuto essere di segno differente.

La convinta adesione all’approdo raggiunto dalle Sezioni Unite non deve

certamente far perdere di vista né sminuire i connotati di fluidità e di incandescenza

connaturati alla definizione stessa di interesse che, già nelle pagine del pamphlet

benthamiamo “Defence of Usury” (e, dunque, ben tre lustri prima della

promulgazione del codice napoleonico), evocano l’idea del “reddito” e,

conseguentemente, del frutto civile, inteso alla stregua di ciò che ritorna giorno per

giorno (art. 821, comma 3, c.c.) dal capitale (cfr., sul punto, le fertili osservazioni

di T. DALLA MASSARA, Obbligazioni pecuniarie, Padova, 2012, 301 nonché di

O.T. SCOZZAFAVA, Gli interessi dei capitali, Milano, 2001, 39).

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Si tratta, semmai, di riconoscere l’insostenibilità, sul versante logico ancor prima

che tassonomico, della tesi che limita l’efficacia della norma di interpretazione

autentica alla sola sanzione penale ed a quella civile della gratuità del mutuo, atteso

che l’usurarietà di un tasso di interesse non può mai prescindere dall’art. 644 c.p.,

così come decifrato alla luce dell’art. 1, comma 1, del d.l. 394/2000.

Non v’è dubbio, del resto, che tentare di dilatare il perimetro di rilevanza usuraria

dei tassi – che sono stati convenuti e poi applicati – sino ai successivi periodi di

svolgimento del rapporto contrattuale (così come ventilato da A. DOLMETTA,

La Cassazione e l’usura sopravvenuta, in ildirittobancario.it, 2017, 2) espone

inevitabilmente al rischio di obliterare l’inequivoco tenore dell’ordito normativo di

interpretazione autentica che, uscito indenne dallo scrutinio di costituzionalità, la

Suprema Corte non ha ritenuto opportuno offuscare nemmeno dinanzi alla

tentata valorizzazione della clausola generale di buona fede in executivis.

Ed invero, pur rimarcando che il principio di correttezza e la clausola di buona

fede in senso oggettivo impongono a ciascuno dei contraenti di agire in modo da

preservare gli interessi dell’altro (con tutto ciò che ne deriva sul fronte delle

interazioni tra Leistungsinteresse e Schutzinteresse), le Sezioni Unite avvertono

l’esigenza di puntualizzare che la violazione di tale canone non è riscontrabile

nell’esercizio in sé e per sé dei diritti scaturenti dal contratto, bensì

nell’estrinsecazione concreta delle modalità di esercizio di tali diritti, il che

disinnesca ammirevolmente l’equivoco – a più riprese denunciato da F.

PIRAINO, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi

sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Europa e dir. priv., 2010, 1173 e, più

recentemente, ID., Usura e interessi, in Gli interessi usurari. Quattro voci su un tema

controverso (a cura di G. D’Amico), Torino, 2016, 135 – insito in quella improvvida

“costituzionalizzazione” delle regole del giudizio civile che, sulla scia di un dovere

di solidarietà dagli incerti confini, tende sovente ad enucleare dal dettato

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normativo soluzioni o meccanismi rimediali del tutto avulsi dallo spirito della

legge.

L’asserita insostenibilità sul piano dogmatico del fenomeno dell’usura

sopravvenuta (acquisizione cui la giurisprudenza penale è pervenuta da tempo, sia

pur adottando il costrutto della fattispecie a consumazione prolungata o frazionata

che nulla ha che vedere però – a scanso di equivoci e come chiarito da Cass. Pen.,

5 novembre 2008, n. 45361 nonché da Cass. Pen., 16 gennaio 2013, n. 8353- con

la diversa operazione di misurazione dell’usurarietà) reca con sé almeno un paio di

rischiaranti corollari.

Per un verso, essa determina il (si auspica) definitivo smascheramento di un

contenitore categoriale, quale è quello della “nullità sopravvenuta”, privo di

qualsivoglia consistenza sistematica. Non è casuale, infatti, che, rispolverando

anche in questo frangente la buona abitudine di rileggere i classici (si allude, in

particolare, a R. TOMMASINI, Nullità (Voce) Dir. Priv., in Enc. Dir., Milano, 1978,

XXIII, 22), emerga incontestabilmente che il concetto stesso di nullità successiva

e/o sopravvenuta non può che incidere sull’efficacia (e non già sulla validità) del

negozio cui si riferisce.

Ragionare in termini differenti, invero, equivarrebbe non solo a rimettere in

discussione tutto il quadro della patologia negoziale, ma anche ad omettere di

considerare che il ciclo di formazione dell’atto e quello di esecuzione dell’effetto

esprimono stadi negoziali irriducibili ad un comune denominatore, non potendo

avere inizio il secondo se non quando si è esaurito il primo (cfr. DE LA

PRADELLE, Les conflits de lois en matière de nullités, Paris, 1967, 31 nonché A.

FALZEA, La condizione e gli elementi del negozio giuridico, Milano, 1979, 47).

Per altro verso, essa rivela la fragilità della soluzione rappresentata dal

meccanismo di sostituzione automatica delle clausole contrattuali ai sensi dell’art.

1339 c.c., da molti interpreti censurata sia sul crinale strutturale che sul piano

funzionale.

E difatti tale grimaldello rimediale risulterebbe privo, da un lato, di una norma che

provveda alla sostituzione di diritto della pattuizione tacciata di usurarietà e,

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dall’altro, dell’individuazione di un’ipotetica volontà in tal senso dei contraenti

(che rievocherebbe i lineamenti funzionali della conversione), a tacere del fatto,

inoltre, che ricondurre il valore aritmetico della clausola inficiata dall’usura

sopravvenuta al limite consentito dalla legge (oppure a quello rappresentato dal

tasso globale medio dell’operazione negoziale) equivarrebbe a rendere inutile per il

creditore la scelta di tenere un comportamento virtuoso nei confronti del debitore,

finendo così, paradossalmente, per incoraggiarne contegni improntati

all’opportunismo (cfr., a tal riguardo, le calzanti considerazioni di A.

DOLMETTA, Sugli effetti civilistici dell’usura sopravvenuta, cit., 8 nonché di G.

GUARINA, L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite in tema di usura sopravvenuta,

cit.).

Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, etichettato come eversivo da

alcuni commentatori, si rivela, invece, tutt’altro che irrispettoso del tessuto

normativo allestito dal legislatore per soppesare l’usurarietà dei tassi di interesse

pattuiti prima dell’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996 e di quelli convenuti

successivamente in misura ab origine non superiore alla soglia legale.

Nell’epoca della legalità pos-moderna (mutuando il felice sintagma di P. GROSSI,

L’invenzione del diritto, Bari- Roma, 2017, 12) è senz’altro innegabile che al giudice –

soprattutto nel settore civile – sia richiesto di non cedere alla tentazione della

legolatrìa e, dunque, di non sottrarsi al dovere di mediare tra legge vecchia ed il

nuovo che ribolle nel vivo del tessuto sociale (cfr. altresì le dense pagine di R.

CONTI, I giudici e il biodiritto, Roma, 2014, 37); è pur vero, tuttavia, che essere

inventore (nell’accezione originaria del termine) ed interprete non può sublimare – e

di questo sembrano avvedersi le stesse Sezioni Unite – in una obliterazione

dell’ordito normativo che, per quanto censurabile e deprecabile sul piano

ideologico, non deve mai essere disarticolato in via surrettizia dal formante

giurisprudenziale.

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L’unico profilo di friabilità dell’iter logico-giuridico dipanato dai giudici di

legittimità sembrerebbe condensarsi sulla questione dell’eventuale violazione del

canone di buona fede “nelle particolari modalità di esercizio del diritto nella fase esecutiva

del regolamento negoziale”.

Non appare, invero, alquanto chiara la portata di tale inciso, la cui caratura

sibillina pare rievochi quella sfoggiata da Corte Cost., 25 febbraio 2002, n. 29,

nella misura in cui stabilisce che restano estranei al raggio applicativo della norma

di interpretazione autentica gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario

secondo la generale disciplina codicistica dei rapporti contrattuali.

Nel solco di tale silenzio argomentativo si potrebbe postulare, prendendo le

mosse da quanto osservato da R. ALESSI, La disciplina generale del contratto, Torino,

2017, 487 (sia pur con riguardo ai contratti di swap), che il sopravvenuto

superamento del tasso soglia, scalfendo la funzione negoziale dell’atto,

legittimerebbe il debitore ad invocare quantomeno una tutela di stampo

risarcitorio, a maggior ragione nell’ipotesi in cui il comportamento del creditore si

rivelasse in concreto – e con riferimento a precise modalità di esercizio dei suoi

diritti – difforme dal canone di buona fede (come potrebbe darsi, del resto,

qualora quest’ultimo non ponesse rimedio al sopravvenuto superamento della

soglia tramite la solerte applicazione di apposite clausole di salvaguardia o di

cimatura).

Non v’è chi non veda, del resto, che al momento della pattuizione il creditore è

senza dubbio a conoscenza dell’eventuale usurarietà del tasso convenuto, mentre

per il futuro egli stesso non può che rimettersi, sia pur entro gli steccati di una

condotta che sia improntata a correttezza, alle imprevedibili fluttuazioni del

mercato.

Tale prospettiva rimediale possiede il pregio di rivelarsi senz’altro meno

sdrucciolevole di quelle che, sulla falsariga di quanto delineato dall’art. 1384 c.c. in

tema di riduzione della penale (la cui poliedricità funzionale è stata

opportunamente messa in luce da F. PATTI, La determinazione convenzionale del

danno, Napoli, 2015, 121), richiedono un intervento giudiziale sul programma

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contrattuale difficilmente conciliabile con una dimensione – quale è quella delle

soglie usurarie – dalle venature squisitamente oggettive, in quanto tale irriducibile

a criteri di rimodulazione dell’equilibrio negoziale incentrati sull’interesse del

creditore all’adempimento (cfr., per tale condivisibile ordine di considerazioni, E.

BIVONA, Il divieto di usura tra interessi corrispettivi e interessi moratori, in Persona e

Mercato, 2016, 13).

E, d’altra parte, come è stato limpidamente illustrato in dottrina (cfr., per tutti, S.

MAZZARESE, Clausola penale, in Commentario Schlesinger, Milano, 1999, 421),

l’essenza dell’intervento riduttivo giudiziale, riannodandosi al presupposto della

meritevole conservazione dell’assetto negoziale, finirebbe per evocare un

dispositivo rimediale assai blando per fronteggiare una condotta che sul fronte

penalistico risulta, invece, sanzionata con spiccato vigore punitivo.

A tal proposito è, peraltro, appena il caso di osservare che la stessa allusione al

meccanismo delineato dall’art. 1384 c.c. è stata caldeggiata da interpreti favorevoli

non soltanto all’idea di un insostenibile “doppio binario rimediale” per gli interessi

corrispettivi e per quelli moratori (sulla scia di una bipartizione che non trova

alcuna corrispondenza nella disciplina sull’usura), ma anche ad una sostanziale

immunità di questi ultimi dal perimetro di rilevanza usuraria (cfr., sul punto, le

considerazioni di S. PAGLIANTINI, Spigolature su di un idolum fori: la cd. usura

legale del nuovo art. 1284 c.c., in Usura e interessi, in Gli interessi usurari. Quattro voci su un

tema controverso (a cura di G. D’Amico), cit., 57, nt. 21).

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Questa Nota può essere così citata:

S. ALECCI, Le Sezion i Unit e ed i l t ramonto de l la «usura sopravvenuta», in Dir.

c iv . cont ., 30 ottobre 2017