DIREPUBBLICA 571 Cult - Le notizie e i video di politica...

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DI REPUBBLICA DOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 NUMERO 571 Fenom enologia di Umbe rto La copertina. Il boom della “Financial Fiction” Le mostre. L’arte di Marisa e Mario Merz I tabù del mondo. Nella mente del terrorista Eco Cult (1932-2016) Alberto Arbasino. Alberto Asor Rosa. Corrado Augias. Nanni Balestrini. Alessandro Baricco. Stefano Bartezzaghi. Zygmunt Bauman. Ginevra Bompiani. Zita Dazzi. Raffaella De Santis. Maurizio Ferraris. Simonetta Fiori. Antonio Gnoli. Ugo Gregoretti. Ezio Mauro. Tullio Pericoli. Danco Singer. Michele Smargiassi UMBERTO ECO VISTO DA TULLIO PERICOLI Repubblica Nazionale 2016-02-21

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DIREPUBBLICADOMENICA 21 FEBBRAIO 2016NUMERO571

FenomenologiadiUmberto

La copertina. Il boom della “Financial Fiction”Le mostre. L’arte di Marisa e Mario MerzI tabù del mondo. Nella mente del terrorista

Eco

Cult

(1932-2016)

Alberto Arbasino. Alberto Asor Rosa. Corrado Augias. Nanni Balestrini. Alessandro Baricco. Stefano Bartezzaghi. Zygmunt Bauman. Ginevra Bompiani. Zita Dazzi. Raffaella De Santis. Maurizio Ferraris. Simonetta Fiori. Antonio Gnoli.

Ugo Gregoretti. Ezio Mauro. Tullio Pericoli. Danco Singer. Michele Smargiassi

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 28LADOMENICA

Lo studiosoE Z I O M A U R O

che volevadivertire

ERA “UNA BELLA MATTINA DI FINE NOVEMBRE, nella notte aveva nevica-to un poco” quando frate Guglielmo da Baskerville allo spuntar del sole venne avanti nell’Italia confusa del 1980. Il Paese aveva appena vissuto lo shock del delitto Moro, il punto più temerario della sfida terroristica alla democrazia, e l’inizio della sua caduta. Come su un terreno prosciugato, ripiegavano le Brigate Rosse e si ritiravano le ideologie, e noi entravamo senza bussola in un terri-torio sconosciuto. Ed ecco quel frate, amico di Occam e di Marsilio da Padova, che si mette in cammino sette secoli fa, procede per sette giorni e 576 pagine insieme al novizio Adso da Melk, viaggia verso settentrione ma senza seguire una linea retta, tocca città fa-mose e abbazie antichissime che incutono paura come fortezze di

Dio inaccessibili, masticando le erbe misteriose che raccoglie nei boschi e scrutando di notte, dopo vespro e compieta, le magie stregonesche dell’orologio, dell’astrolabio e addirittura del magnete.

Davanti al successo mondiale del Nome della rosa, tradotto in quarantacinque lingue, Um-berto Eco ebbe prima la ritrosia prudente dello studioso di fronte alla contaminazione monda-na della scienza, poi seguì divertito il gioco delle sovra-interpretazioni, infine si dedicò alla teo-rizzazione a posteriori, smontando e rimontando sapere e consumo, letteratura e storia, il ca-so e il calcolo. Rivelò che tutto era nato da un’idea seminale, perché gli era venuta la strana vo-glia di avvelenare un monaco. Poi spiegò che scriveva con la pianta dell’abbazia sotto gli occhi, dando ai dialoghi il tempo necessario dei passi per andare dal refettorio al chiostro, perché oc-corre crearsi delle costrizioni per poter inventare liberamente. Quindi aggiunse che poiché scrivere un romanzo è una faccenda cosmogonica, il suo mondo naturale era la storia e il Me-dioevo, e questo ricreò nelle pagine. E infine disse l’ultima verità, intima come una confessione: volevo che il lettore si divertisse.

C’è quasi tutto Eco in questa spiegazione di un successo che è una mappa del-le intenzioni, perché prima del successo c’è la sfida della grande divulgazio-ne, la scommessa di non cedere alla banalizzazione del sapere ma nello stes-so tempo la capacità di costruirsi lettori, accendendo una passione, portan-dosela dietro fino a scoprire l’eresia estrema, una risata come movente di un delitto. Eco c’è riuscito perché questo percorso rigorosamente controlla-to nella formazione del romanzo corrisponde perfettamente alla costruzione intellettuale di sé: dunque suona autentico, senza forzatu-re.

Studioso fino alla fine, Eco infatti ha sov-vertito l’ordine classico delle strutture acca-demiche con la nascita del Dams a Bologna, sperimentando sempre ma rimanendo in fon-do fedele alla lezione di Pareyson, come se fos-se giusto avere un solo maestro. Ma nel 1954 quella generazione un po’ speciale (pensia-mo a lui, con Gianni Vattimo e Furio Colom-bo) ebbe la fortuna di incrociare la Rai na-scente, per concorso e non per raccomanda-zione del sottobosco democristiano: fu natu-rale prolungare la propria analisi scientifica universitaria con la comunicazione di massa che si affacciava all’Italia, con i nuovi linguag-gi, col visivo accanto al letterario, con il divi-smo sconosciuto del piccolo schermo, con la nuova tecnica che scusava l’ignoranza e la by-passava, fino a fare di Mike Bongiorno il mo-dello perfetto dell’uomo televisivo, che crea-va per la prima volta un pubblico costituito, la grande tribù italiana del giovedì sera.

Era incominciato il grande incrocio che avrebbe fatto di Eco un personaggio unico, il primo scienziato capace di chinarsi sulla se-miologia del quotidiano, curioso di tic e tabù individuali moltiplicati a fenomeni di massa dai nuovi strumenti di comunicazione, lin-guaggi e modi di dire, attraversati dal gioco di un calembour, riscattati da un paragone letterario sproporzionato perché ironico ma perfettamente coerente, come quando lega-va Franti con Bresci o portava Mickey Mouse a dormire a Mirafiori, parlando a Minnie in piemontese.

L’alto e il basso del post-moderno trovaro-no in lui non il primo interprete, ma il nucleo forte, che teneva insieme perfettamente i due registri e li legittimava a vicenda. Quel nucleo centrale, credo si possa nel suo caso riassumere in tre parole: cultura come passio-ne. E il “libro” come strumento universale, il libro capace secondo lui di sfidare anche in-ternet, perché il web in fondo — diceva — è un ritorno dalla civiltà delle immagini all’era

alfabetica, alla galassia Gu-tenberg, all’obbligo di leg-gere, e non importa quale for-ma prenderà il supporto che continuiamo a chiamare “libro”. Leggere «per il gusto di leggere» e non solo per sapere, come Eco scoprirà da bambino.

E dietro i libri, borgesianamen-te e naturalmente, la biblioteca. Cinquantamila libri “moder-ni”, milleduecento volumi antichi di cui lo scrittore parlava con la passione di una scoperta conti-nua. Senza un catalo-go, mossi continua-mente dalle emer-genze del conosce-re, dalla curiosità di un lavoro, dalla me-moria che cerca conferma, sapen-do che una biblio-teca raccoglie i li-bri che possiamo leggere, e non so-lo che abbiamo letto, perché è la garanzia di un sapere. Col terro-

re antico degli organismi che divorano le pa-gine dei libri, e la vecchia ricetta che consiste-va nel piazzare una sveglia negli scaffali, con-fidando nel rumore regolare e nelle vibrazio-ni per bloccare il pasto insano dei libri.

L’altro strumento indispensabile alla co-struzione del fenomeno Eco sono i giornali,

quotidiani e settimanali, mensili, riviste. Li ha criticati duramente, fino al suo ulti-mo romanzo, ma li ha sempre usati per indagare il quotidiano, per collegare gli

scarti di costume della vicenda di ogni giorno con le categorie del

suo sapere, capace di ordinare e battezzare i gesti minimi, in-

serendoli in una sorta di catalogo universale.Si comincia dal 1959 con quei brevi saggi

di costume parodistici pubblicati sul Verri che raccolti in volume daranno poi vita al fa-mosissimo Diario minimo per arrivare final-mente alla Bustina di Minerva dell’Espresso. È come se il registro dell’attualità, grazie ai giornali, desse a Eco la possibilità di un con-trocanto, un suono appartato ma rivelatore, che scorre a fianco della grande vicenda na-zionale ma la sa interpretare rovesciandola

spesso nei suoi paradossi, svelandola nell’inti-mo dei suoi vizi o delle sue verità travestite da miserie del quotidiano.

Pastiches e parodie sono la recitazione in pubblico, ordinata letterariamente, del ca-lembour privato, del motto di spirito che Eco ti diceva per prima cosa incontrandoti, sem-

pre alla ricerca della rivelazione anagram-matica, della saggezza popolare che diven-ta enigmatica nel nonsense di un prover-bio stravolto nel suo contrario, che conti-nua beffardo a dirti qualcosa. Contraffa-zioni meravigliose, come i falsi rapporti di lettura dei redattori di un’immagina-ria casa editrice che bocciano la lettura della Bibbia («un omnibus mostruoso, che rischia di non piacere a nessuno

perché c’è di tutto»), di Torquato Tasso («mi chiedo come verran-

no accolte certe scene ero-

Fenomenologia di Umberto Eco.

“La scommessa di non cedere alla banalizzazione

del sapere ma nello stesso tempo la capacità

di costruirsi lettori. Accendendo una passione”

“Un personaggio di una cultura imbarazzante e di una gioia di vivere stupefacente, una combinazione tra il dotto e l’uomo che ama ridere e mangiare”

Jean-Jacques Annaud“Non ha vinto la cattedra a Torino perché non ha mandato gli auguri di Natale a Luigi Pareyson, di cui eravamo stati allievi e lui assistente. Avrebbe dovuto vincere il premio Nobel”

Gianni Vattimo

“Capace di fondere due mondi, quello accademico e quello letterario senza mai perdere il contatto con il pubblico e la realtà”

The New York Times

“Esempio straordinario di intellettuale europeo, univa una intelligenza unica del passato a una inesauribile capacità di anticipare il futuro. Ci mancherà il suo pensiero acuto e vivo, la sua umanità”

Matteo Renzi

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 29

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tiche un po’ lascive») e dei Promessi sposi: «tant’è, non tutti hanno il dono di racconta-re, e meno ancora hanno quello di scrivere in buon italiano».

Fuori dalla parodia, il sentimento dei gior-nali ha in realtà consentito a Eco di incrociare l’attualità e di decifrarla coi suoi strumenti, arrivando a un giudizio politico partendo da una notazione estetica, culturale, da un se-gnale del linguaggio individuale e collettivo. Gli ha consentito, a ben vedere, di prendere parte alla vicenda italiana negli anni più tra-vagliati del Paese. Lo ha fatto senza badare al rischio (ben presente in molti altri intellet-tuali) di dividere con una presa di posizione politica il grande «fascio indistinto» dei suoi lettori, la somma trasversale della sua popola-rità internazionale. Anche qui (e ricordo cer-te discussioni negli ultimi vent’anni) era co-me se fosse mosso semplicemente da un ob-bligo culturale, da un dovere intellettuale, perché la cultura, diceva Bobbio, «obbliga ter-ribilmente».

Naturalmente quando usò il paradosso, di-cendo che la notte prima di addormentarsi preferiva Kafka piuttosto che rincretinirsi da-vanti alla tv, la muta dei critici di destra gli saltò al collo credendo di inchiodarlo alla sua caricatura. Ci vedemmo in quei giorni, ed era totalmente indifferente agli attacchi perché non lo toccavano, ma credo soprattutto per-ché quel che aveva detto come battuta, era in realtà profondamente vero. Era vero che i li-bri lo dominavano come «un vizio solitario».

Ed era certo che anche Eco, come i suoi perso-naggi, diventava in Italia collettivamente “vero” perché la comunità dei lettori aveva fatto su di lui negli anni un investimento cul-turale e passionale, trasformandolo nell’In-tellettuale italiano degli ultimi trent’anni.

Tutto questo lo ha portato all’ultimo atto, il riscatto di una parte del patrimonio di auto-ri Bompiani — partendo da se stesso — dal gi-gante Mondazzoli per fondare con Elisabetta Sgarbi “La nave di Teseo”. Ne discutemmo a fine novembre, in un salone dell’Accademia dei Lincei. Umberto chiuse la porta e parlò sottovoce, perché confidava uno dei grandi segreti della sua vita, l’ultimo approdo della sua passione, o ancora una volta del suo “ob-bligo” culturale trasformato in avventura fi-nale, a ottantaquattro anni.

Adesso la nave dovrà salpare da sola, sen-za il Capitano, ma con il suo nuovo libro Pape Satan Aleppe, di cui proprio negli ultimi gior-ni aveva preso in mano la copertina, toccan-dola e accarezzandola come fa chi ama i libri. Gli avevamo chiesto in tanti che destino vole-va avesse la sua biblioteca un giorno, dopo di lui. Adesso che il giorno è venuto, bisogna ri-cordare cosa rispondeva: non era sicuro che la sua biblioteca gli assomigliasse, perché la passione per i libri ti porta a conservare anche ciò in cui non credi. Tuttavia, non avrebbe volu-to che i suoi libri fossero dispersi. Forse, diceva, verranno compra-ti dai cinesi: se vorranno, dai miei libri «potranno capire tutte le follie dell’Occi-dente».

La cultura mostruosa

di un uomo libero

SE WOODY ALLEN E PAOLO VILLAGGIO sono stati autori Bompiani lo si deve anche all’Umberto Eco editor di titoli come Citarsi addosso o Come farsi una cultura mostruosa. Citazioni e cultura «mo-struosa» sono proprio gli elementi che non solo per scherzo sem-brano i migliori per definire l’immagine pubblica di Eco, studio-

so e romanziere di fama planetaria e di eclettismo già da decenni leggenda-rio.

«Cultura come passione». Alla formula con cui ieri via Twitter lo ha ricor-dato Ezio Mauro andrebbe solo aggiunto, ce ne fosse il bisogno, che, mentre esistono passioni contemplative e statiche, quella di Eco era invece mobilis-sima, connettiva e, fino all’ultimo, instancabile nel cercare di impiantare si-stemi per poi smontarli e ricominciare da capo. Dalla filosofia medioevale tornava ad Aristotele e poi rimbalzava su James Joyce, che lo portava sulla trincea delle neoavanguardie del secondo Novecento, con il Gruppo 63, l’in-tuizione dell’«opera aperta» e l’amicizia e la collaborazione con Luciano Be-rio, conosciuto però non in un conservatorio o un’accademia ma alla Rai di Corso Sempione, a Milano. La prima carambola sulle sponde del poliedrico biliardo della cultura fu questa e coinvolgeva filosofica antica, medioevale e contemporanea, avanguardia, accademia e mass media. Poi sarebbero arri-vati i fumetti, lo strutturalismo e la semiotica; Gérard de Nerval e Sherlock Holmes; il cabalismo ebraico e cristiano e la fantascienza; le teorie della tra-duzione, i labirinti; il pensiero debole e quello ermetico; i complotti e il cogni-tivismo; le analisi di movimenti politici, terrorismo e berlusconismo; gli ana-grammi e i romanzi; bellezza, bruttezza e terre incognite; la ghiotta bibliofi-lia ma anche l’impegno pionieristico sull’editoria multimediale, con la sua Encyclomedia e la fondazione del primo web-magazine italiano, Golem.

Quando ci si rende conto della quantità di discipline, argomenti, interes-si, metodi e forme di espressione che Eco ha praticato in sessant’anni di atti-vità ci si può davvero riferire a carambole fra elementi mobili che si toccano e si spostano l’un l’altro: si può perché ce lo ha insegnato lui. Non solo per le partite a flipper nel Pendolo di Foucault (fra i suoi romanzi, il più utile per comprenderlo), ma anche perché l’immagine della cultura che esce dal suo Trattato di Semiotica Generale è appunto composta di biglie che si avvicina-no e allontanano, si toccano e si spostano, governate dal magnetismo caoti-co delle connessioni. Questa era, per lui, l’Enciclopedia: il ritratto entropico e probabilistico di una quantità di singoli elementi, o «unità culturali», in re-lazione l’uno con l’altro.

Ogni suo lavoro conteneva l’aspetto di interrogazione e quello di combina-toria. La ricerca culturale, l’investigazione («Io sono il Sam Spade della cultu-ra», dice il protagonista del Pendolo) e l’enigma sono passioni anche ossessi-ve sospinte dal motore e dal carburante di una domanda; la risposta deriva da una combinazione di elementi, indizi, segni, concetti che si concatenano in deduzioni e congetture, secondo un metodo di connessione che pagava i suoi debiti sia nei confronti della logica formale sia nei confronti dell’analo-gia più creativa. Così funzionano la memoria, l’enciclopedia, l’intelligenza.

In letteratura non è nata una «scuola di Eco» e anche in semiotica l’assie-me degli studiosi che si sono formati nel suo insegnamento non è omoge-neo per interessi e oggetti di analisi. Un’ortodossia echiana non è potuta esistere: fin nei suoi romanzi Eco ha sempre praticato e predicato la diffi-denza verso i cultori fanatici di una qualsiasi Verità. Il suo vero insegna-mento ha riguardato il metodo giusto per muoversi (non solo in teo-ria) in un mondo in cui convivono, apparentemente da estranei, dipar-timenti e redazioni, metafisica e pop, astrazione e trivio. Ma guarda-re, prima che alle cose, alle relazioni che intrattengono è più facile a dirsi che a farsi. Dai sillogismi agli anagrammi, dalle «segnature» rina-scimentali ai motti di spirito, la passione di Eco andava a tutti i modi possibili per combinare relazioni fra gli elementi raccolti dalla sua va-stissima erudizione e dalla sua invece infinita curiosità.

Basta leggere i suoi testi, e guardare come sono fatti, per vedere che aveva previsto ipertesti e Internet ben prima che si fossero incar-nati in format tecnologici, e sbandate planetarie. Collezionista di in-cunaboli e primo esploratore di computer e web, degustatore di bi-blioteche e teorico di enciclopedie, quando le sue intuizioni si sono appunto incarnate ha subito diagnosticato i mali che ne potevano derivare. Il primo è l’imbecillità — l’uso stolido, statico, ripetitivo di luoghi comuni oltretutto sbagliati o la connessione delirante —; il secondo, l’ipertrofia della memoria. Ricordare tutto sarebbe rovi-noso quanto non ricordare nulla. Occorre invece essere mobili, e qui è il senso del suo gioco: immaginarsi sempre impegnati in nuo-vi «esercizi di stile» (lui che aveva portato in italiano quelli di Ray-mond Queneau), vedersi come non si è ancora mai stati, collegare quello che non è mai stato collegato e infine trarne una teoria, un romanzo, una barzelletta di cui sanamente compiacersi. Far ridere rettori e ridere di loro, impensierire buffoni, cospargere dogmati-

ci di catrame e piume, riportare potenti alle loro responsabilità, cantare «Kant, filosofetto che mi piace tant», appassionare chiunque al Medioevo, fondare discipline, disseminare ovun-que idee e dubbi. Nel continuo reinventarsi, con la sua cultura «mostruosa» e nei suoi giochi, Umberto Eco è stato quello che ha voluto e saputo essere: un uomo libero.

S T E F A N O B A R T E Z Z A G H I

“È morto il più erudito dei sognatori. La costante della sua analisi resta la volontà di vedere il senso là dove si sarebbe tentati di non vedere altro che fatti. Una sorta di Pico della Mirandola, colui che il medievalista Jacques le Goff chiamava ‘il grande alchimista’”

Le Monde

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“È un dolore molto forte. Non dimenticherò mai cosa ha fatto per me. C’è stato quando, sconosciuto e in difficoltà agli inizi, la mia vita stava precipitando. Grazie, Professore”

Roberto Saviano

“Un uomo libero, dotato di un profondo spirito critico e di grande passione civile, anticipatore e sperimentatore di fenomeni e tendenze, si è sempre proiettato nella dimensione internazionale”

Sergio Mattarella

“Disponibile, gentile, squisito.Oltre a essere un grande scrittore era un amico. Non saliva mai in cattedra e aveva un fortissimo senso dell’ironia. Una perdita per l’Italia perché il suo sguardo era sempre acuto e sapiente”

Dacia Maraini

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 30LADOMENICA

BOLOGNA

L’ECO AVEVA PRECEDUTO ECO. «QUANDO ARRIVÒ a Bologna, molti colleghi erano inquieti», racconta sorridendo Re-nato Barilli, estetologo, «la potenza intellettuale di Um-berto faceva soggezione, diversi atenei avevano can-cellato concorsi pur di non dargli una cattedra». All’al-ba degli anni Settanta aveva già alle spalle Rai, Bom-piani, Gruppo ’63, un curriculum poco accademico da intellettuale critico trasversale. Ma il grecista Benedet-to Marzullo voleva proprio docenti così, per quell’idea che gli era venuta in mente nel 1972 e che si chiamava Dams, Discipline delle arti, della musica e dello spetta-colo, un corso di laurea che voleva «sfuggire al soffoca-

mento della lettera», sfidare la cultura logocentrica nazionale con l’irruzione delle arti non ver-bali. Quaranta corsi che il catalogo accademico non aveva mai contemplato, uno di questi era Semiotica, prima cattedra in Italia, e fu per Eco. Gli altri compagni d’avventura, oltre a Barilli, si chiamavano Ezio Raimondi, Thomas Maldonado, Roberto Leydi, Furio Colombo, Luciano Anceschi, e via via Gianni Celati, Luigi Squarzina, Ugo Volli, Giuliano Scabia, Omar Calabre-se…

A quell’esperimento e a quella città Eco è rimasto fedele per oltre quarant’anni. «Non era un intellettuale da torre eburnea, e qui trovò la sua agorà», ricorda con gratitudine Ivano Dio-nigi, ex rettore. Eco è nato in molti luoghi, ma Bologna è stata la sua patria del pensiero. «Invi-tato in tutto il mondo, avrebbe potuto avere cattedre ovunque. Ha preferito lanciare da qui il suo sguardo d’aquila sulla realtà. Molti docenti sono stati resi famosi dalla nostra università. Lui l’ha resa famosa nel mondo». Nel 1987 fu il regista della campagna di comunicazione attor-no al nono centenario dell’ateneo più antico d’Occidente. «Quando l’alma mater chiamava, Umberto c’era».

Con un’idea di insegnamento che non ter-minava con la campanella. Quasi obbligata in una città di portici che lui fingeva di detesta-re «perché non riesci a camminare di fretta, c’è sempre qualcuno che ti ferma». L’aperiti-vo delle sette al caffè Commercianti come oc-casione di scambi filosofici. La bicchierata co-me after hour culturale, dove Eco «tirava fuo-ri il suo lato goliardico», racconta Francesco Guccini, «una volta accettò una gara di otta-ve improvvisate con me e Roberto Benigni».

Oggi che ogni ateneo ha il suo Dams, è faci-le sottovalutare l’impatto di quella novità. I colleghi della facoltà di filosofia sfottevano «l’Istituto di turismo e spettacolo». Ma all’a-pertura delle iscrizioni, per 120 posti a nume-ro chiuso si presentarono in tremila. In aula, nulla di simile a quel che si faceva nelle acca-demie d’arte, fino a quel momento monopoli-ste dell’insegnamento artistico. «Rottura del-le barriere, contaminazione fra alta e bassa cultura», elenca il mediologo Roberto Gran-di, «scelta inaudita di usare strumenti scienti-fici per smontare oggetti banali». Fumetti sui banchi, radio a transistor in cattedra. Quan-do esplose il ’77, gli indiani metropolitani graffitavano sui muri “Eco è un coiffeur pour Dams”, ma quell’ironia dada la dovevano an-che a lui. Che in verità si era battuto per allun-gare l’acronimo in Damsc, con la C di comuni-cazione, ma alla fine aveva desistito, «tanto qui a Bologna lo pronunciate lo stesso così». Anni dopo, nel 1992, avrebbe istituzionaliz-zato quell’iniziale, tenendo a battesimo il pri-mo corso di laurea in Scienze della comunica-zione. Ma il suo figlio prediletto era nato due anni prima: la Scuola superiore di studi uma-nistici, che a dispetto del suo nome togato in-vitava in cattedra Joan Baez come Marc Fu-maroli, Elie Wiesel come Gérard Depardieu. Nel palazzo medievale di via Marsala dove Si-mona Barbatano, per trent’anni custode se-verissima dell’agenda inaccessibile di Eco, non trattiene le lacrime, stava il suo studio bo-lognese, con la poltrona Frau unico spazio in-

tatto dalla tracimazione dei libri. «Qui tengo solo quelli che ho letto due volte», buttava lì con noncuranza ai visitatori più ingenui, e si gustava l’effetto. Più bolognese di molti nati-vi. «Non tradisci un ristorante dove hai sem-pre mangiato bene»: lo disse per l’aspra cam-pagna elettorale del ’99 (dove i bolognesi, in-vece, cambiarono chef ed elessero Giorgio Guazzaloca), ma potrebbe essere la cifra dell’affinità elettiva fra Eco e la sua città d’ele-zione culturale. Che gli ha dato, ma gli ha chiesto molto e ha ricevuto di più.

Nel 2001, per dire, quando Bologna fu capi-tale europea della cultura, immaginò un “por-tico telematico” che tenesse assieme l’acces-so dei cittadini alla nuova grande Rete e la so-cialità dell’incontro umano. Ma «Umberto da Bologna, professore angelico», come lo adulò il semiologo Paolo Fabbri, non ha in fondo mai chiesto nulla in cambio del suo tributo di fedeltà. Racconta Romano Prodi che nel 1996, quando passò da suo collega a premier, rinunciò in partenza «all’idea di proporgli il ministero della Cultura. Mi avrebbe risposto di no, era uno spirito libero».

La vitaè un’opera

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Le mille stagioni.

“Scrittore di bestseller e gigante della filosofia e del mondo accademico. Ha esplorato le strade intricate del comportamento umano, dell’amore e della letteratura con grazia e attenzione alle sfumature”

aperta

The Guardian

La fondazione del Dams a Bologna,

la televisione, la neovanguardia, i romanzi

divenuti bestseller, il lavoro editoriale:

ritratto a più voci di un intellettuale totale

M I C H E L E S M A R G I A S S I

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 31

NANNI BALESTRINI E UMBERTO ECO si conoscevano da sessant’anni. Amici, ma soprattutto anima-tori della grande avventura intellettuale del

Gruppo 63, che scombussolò e rinnovò la società lette-raria italiana dei primi anni Sessanta.

Balestrini, che posto ha avuto Umberto Eco nella sua vita?«È stato un punto di riferimento irrinunciabile. Lo

avevo visto l’ultima volta un mese fa, per me era un po’ come un fratello maggiore. Era la mia bussola, tenevo molto al suo giudizio. In tutti questi anni non ci siamo mai persi di vita. Ogni volta che scrivevo qualcosa ave-vo bisogno di confrontarmi con lui».

A quando risale il vostro primo incontro?«A metà degli anni Cinquanta. Eravamo tra i collabo-

ratori portati da Luciano Anceschi alla rivista Il Verri. Ci si incontrava a Milano al Blu Bar, un posto frequenta-to da filosofi e intellettuali. Noi eravamo i più giovani».

Poi venne il Gruppo 63. Che ruolo ha avuto Eco nell’esperienza della neo-avanguardia?«Era un faro. Con Opera aperta aveva inaugurato

una nuova maniera di vedere le cose. La nostra era una rivolta generazionale: la società stava cambiando, l’Ita-lia diventava un paese industriale, e noi volevamo qual-cosa di nuovo, fuori dai canoni».

Eco ha detto una volta che esprimevate una forma di gaiezza, in che senso?«Eravamo contrari all’impegno ideologico della vec-

chia sinistra comunista. Eco era un personaggio gaio e vivace come pochi. Questa sua natura è molto chiara nell’ironia che percorre Diario minimo e le Bustine di Minerva».

Nessuna invidia tra voi?«Mai, era il più bravo di tutti e bisognava ammetter-

lo» . (r.d.s.)

IL GRUPPO 63

UMBERTO ECO HA FATTO PARTE DEL GRUPPO 63.

NELLA FOTO, IN ALTO DA SINISTRA, FRANCO CURI,

ANTONIO BUENO, GASTONE NOVELLI, ANGELO

GUGLIELMI, GIORGIO MANGANELLI, ALFREDO GIULIANI

E NANNI BALESTRINI (IL PENULTIMO DELLA FILA).

SOTTO, DA SINISTRA, ANTONIO PORTA, ENRICO

FILIPPINI, EDOARDO SANGUINETI, JEAN THIBAUDEAU,

GAETANO TESTA, PAOLO CARTA E MASSIMO FERRETTI

Il concorso in Raiera stato taroccato

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La rivolta gaiadel Gruppo 63

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Dirigeva ogni stilecome un’orchestra

«ALLA FINE ANCHE UMBERTO SI DECISE a chiamarlo “zio Val”, come facevano i nipoti veri. Ma sem-pre dandogli del “lei”», racconta Ginevra

Bompiani. È vero che Valentino Bompiani si arrabbiava con tutti ma non con Eco? «Sì, godeva di una serafica im-punità. Appena entrato, nel 1959, arrivava in redazione alle 11, con grande irritazione di mio padre. Un giorno de-cise di affrontarlo: “Perché arriva a quest’ora?”. “Perché dormo”. “Se almeno mi dicesse: sono andato nel bosco a guardare gli uccellini…”. “Va bene, dottore”. Il giorno do-po Umberto arriva alla solita ora. “E allora, perché alle 11?”, sentiamo ringhiare in corridoio. E lui: “Sono andato nel bosco a sentire il canto degli uccellini…”. Era l’unico che lo facesse ridere».

Diresse la saggistica dal ‘59 al ’75, stagione di grandi fermenti culturali.«Mio padre era attratto dalle novità e Umberto le incar-

nava. Da noi pubblicò Opera aperta e Apocalittici e inte-grati. Contemporaneamente lavorava a Nonita, parodia di Lolita di Nabokov: i suoi due lati, erudito e giocoso».

Anche la sua vita privata cambiò.«Nell’ufficio grafico conobbe Renate, la sua futura mo-

glie. E anche l’amicizia con l’editore sarebbe durata tutta la vita. Quando mio padre morì, alle 11 di sera, mia so-

rella e io chiamammo Umberto, solo lui. Si precipitò, alleggerendoci da tutte le in-

combenze».E lo da Bompiani dopo l’acqui-

sizione di di Mondadori?«Non sono rimasta sorpre-

sa. Lui sapeva già di stare molto male. E quindi la

scelta della Nave di Te-seo è stato un gesto te-stamentario». (s.f.)

LE IMMAGINI

SOPRA, UMBERTO ECO DA GIOVANE SEDUTO

SUL DIVANO IN UNA FOTOGRAFIA DEGLI ANNI 50

SOTTO, ECO AL PREMIO STREGA NEL 1981

INSIEME AD ENZO SICILIANO

«In realtà quel concorso del 1954 era tarocca-to», racconta Ugo Gregoretti, compagno di lavoro negli studi della Rai. «Ma fu l’unico

modo per trasfondere nuova linfa intellettuale nel-la defunta Eiar postfascista».

Eco entrò in Rai insieme a Vattimo e Colombo.«Sì, i cosiddetti “corsari”: insieme avevano segui-

to il famigerato corso che li introdusse nell’azienda. L’idea era stata di Filiberto Guala, un cattolico illu-minato che poi si sarebbe fatto frate: pescare tra i mi-gliori cervelli dell’azione cattolica per rinnovare la Rai».

Com’era Eco in redazione?«Aveva un modo allegro di stare al lavoro. E sfotte-

va la Rai con ironia. “Sento un gran parlare di audio e di video ma non vedo il cogito…”, mi disse una volta».

Era incuriosito da Mike Bongiorno.«Sì, veniva a trovarci quando facevo il segretario

di Mike in “Arrivi e partenze”, un programma dei servizi giornalistici. Ci divertivamo a sfotterlo, sen-za darlo a vedere. Di lì a poco avrebbe scritto il suo ca-polavoro di umorismo sociologico».

Che idea aveva della Tv?«Non doveva annoiare. Negli anni Settanta

avremmo lavorato insieme a una serie televisiva de-dicata al romanzo popolare. Con una bussola condi-visa: il pubblico deve divertirsi, oltre che acquisire nozioni di tipo critico e culturale».

Era l’epoca dell’“ambulatorio culturale”?«Sì, infuriava la moda dello strutturalismo. Così

anche in Rai avevamo il semiologo, il linguista etc. Ed Eco si divertiva a consultarli come si fa con il me-dico: “Scusami, passo un attimo dal fenomenologo”. Ironizzava su tutto, anche su se stesso».

S I M O N E T T A F I O R I

“Un immenso intellettuale è morto. Umberto Eco lascia un patrimonio di cultura, di idee, romanzi e insegnamenti che resteranno eterni”

Martin Schulz

“Si indignava al momento giusto e usciva sempre dal branco degli adulatori, dalla corte. In un momento come questo è da tenere come esempio”

Dario Fo

©RIPRODUZIONE RISERVATA

APPRESA LA NOTIZIA DELLA MORTE di Umberto Eco, Alberto Asor Rosa si è messo in viaggio per Mi-lano. Autori di opere dirompenti, Eco ed Asor

Rosa non hanno certo condiviso sempre le stesse posi-zioni, ma non hanno mai smesso di dialogare. Eppure nei primi anni Sessanta da una parte stavano Opera aperta (1962) e Apocalittici e integrati (1964), dall’al-tra Scrittori e popolo (1965): saggi che si accostavano in modi molto diversi alla cultura nazional-popolare.

Professore, qual è stato il vostro rapporto?«Nonostante i nostri approcci fossero altamente con-

flittuali, ci siamo sempre rispettati. Quando uscì Il no-me della rosa, nel 1980, fui il primo a recensirlo, pro-prio su Repubblica. Si trattava di un’opera imponente, sorprendente, rappresentava uno scarto di enorme portata: un romanzo di impianto storico-filosofico che faceva riferimento alla tradizione non tipicamente ita-liana del giallo».

In effetti, Eco è stato un grande esploratore di gene-ri letterari. Era un esercizio intellettualistico?«Tutt’altro, narrare lo divertiva, era il modo per su-

perare i limiti dell’intellettuale e dello scienziato. Quando si è accorto di aver raggiunto nella ricerca di studioso il confine oltre il quale non sarebbe potuto an-dare, ha scelto di esprimersi in un’altra maniera. Ha frequentato ogni genere, dal romanzo storico a quello filosofico di origine illuminista, dal giornalismo all’au-tobiografia, come ne La misteriosa fiamma della regi-na Loana, un’opera che andrebbe rivalutata».

Si deve a questo il suo successo internazionale?«Si deve al fatto che, al pari di Italo Calvino, riuscì a

rompere con la tradizione letteraria italiana. Eco è sta-to un grande direttore d’orchestra in grado di suonare benissimo più strumenti»

R A F F A E L L A D E S A N T I S

L’unico a far ridere il terribile “Zio Val”

Ugo Gregoretti

Nanni Balestrini

“Che coraggio far rimare amare con Schopenhauer. Ogni intanto lo incontravo in giro per Bologna. Con me tirava fuori il suo lato goliardico. Avevamo una passione in comune, tra le altre, per la crittografia”

Francesco Guccini

©RIPRODUZIONE RISERVATA

LA COPERTINA

DICEMBRE 1986,

IL SETTIMANALE

USA METTE ECO

IN COPERTINA

PER IL FILM

TRATTO

DA “IL NOME

DELLA ROSA”

Alberto Asor Rosa

Ginevra Bompiani

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 32LADOMENICA

Dal “Nome della Rosa” a “Numero Zero”, da “Diario

minimo” a “Vertigine della lista”: guida alla lettura

di una produzione editoriale sterminata

L’uomo che

C O R R A D O A U G I A S

LE FORME

DEL CONTENUTO

1971DAI “PERCORSI DEL SENSO” ALLA “GENERAZIONE DI MESSAGGI ESTETICI”, UN SAGGIO IN SEI CAPITOLI IN CUI ECO TORNA SUL PROBLEMA DEL SIGNIFICATO

I libri.

IL PROBLEMA

ESTETICO

IN SAN TOMMASO 1956, RIPUBBLICATO NEL 1970 CON IL TITOLO “IL PROBLEMA ESTETICO IN TOMMASO D’AQUINO”È LA TESI DI LAUREA DISCUSSA DA ECO NEL 1954, CON LUIGI PAREYSON RELATORE

DIARIO MINIMO

1963QUESTA RACCOLTA DI SCRITTI CONTIENE ANCHE LA CELEBRE “FENOMENOLOGIA DI MIKE BONGIORNO” (1961) IN CUI ECO ANALIZZA DAL PUNTO DI VISTA SEMIOTICO LE RAGIONI DEL SUCCESSO DEL PRESENTATORE

APOCALITTICI

E INTEGRATI

1964UNA RACCOLTA DI SAGGI SULLE COMUNICAZIONI E SULLA CULTURA DI MASSA IN CUI ECO APPLICA STRUMENTI DI ANALISI RIGOROSA A TEMI COME IL FUMETTO O LA MUSICA LEGGERA

LA STRUTTURA

ASSENTE

1968IL SAGGIO SI PONEVA IL PROBLEMA DI UNA TEORIA SEMIOLOGICA UNIFICATA E SI PROPONEVA DI DISTINGUERE TRA SEMIOLOGIA E STRUTTURALISMO

L’ARTE

COME MESTIERE

1969IN QUESTO LIBRO, ECO SI OCCUPA DI CIÒ CHE STA INTORNO ALL’ARTE E MOSTRA COME ELEMENTI ESTERNI ABBIANO INFLUENZATO GLI ARTISTI E LE LORO OPERE

SUGLI SPECCHI

E ALTRI SAGGI

1985LA METAFORA DEGLI SPECCHI SUGGERISCE ALCUNI DEI TEMI AFFRONTATI DAI SAGGI IN QUESTA RACCOLTA: SEGNO,RAPPRESENTAZIONE,ILLUSIONE, IMMAGINE

LA MISTERIOSA

FIAMMA

DELLA REGINA LOANA

2004QUINTO ROMANZODI ECO. GIAMBATTISTA BODONI RECUPERA LA MEMORIA DEL SUOPASSATO ATTRAVERSOUNA SERIE DI OGGETTI: LIBRI, QUADERNI, DISCHI

“Facevamo un gioco che vedeva la partecipazione di Benigni: uno show che Eco aveva battezzato “Los Colombos”, con la parodia delle dirette Rai e la traduzione simultanea che diceva cose completamente diverse”

Furio Colombo

‘‘ “Posso leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarmi, aveva dichiarato Eco. Non so se lui fosse incazzato per quella frase troppo spesso citata. Io comunque ne ero felicissimo”

Tiziano Sclavi

Leggere

Chi non legge, a settant’ anni avrà vissuto

una sola vita. Chi legge avrà vissuto 5000 anni

CINQUE SCRITTI

MORALI

1997CI SONO FORME DI “FASCISMO ETERNO” CHE SI RIPROPONGONO IN OGNI PARTE DEL MONDO E SONOSTRETTAMENTE CORRELATE ALLA CULTURA DI MASSA

scrisse babeleIL PENDOLO

DI FOUCAULT

1988È IL SECONDO ROMANZO DI ECO, RACCONTATO IN PRIMA PERSONA DA CASAUBON, PROFESSIONISTA DELL’EDITORIA, CHE INCROCIA MISTERI TEMPLARI E COMPLOTTI

KANT

E L’ORNITORINCO

1997LA RACCOLTA RIDISCUTE I MASSIMI TEMI DELLA FILOSOFIA DA ARISTOTELE A HEIDEGGER: L’ESSERE, LA VERITÀ, IL FALSO, LA CONOSCENZA OGGETTIVA, LA REALTÀ

LA BUSTINA

DI MINERVA

2000IL LIBRO RACCOGLIELE RUBRICHE CHE ECO TIENE SUL SETTIMANALE “L’ESPRESSO”A PARTIRE DAL 1985.TRA RIFLESSIONE, LETTERATURA E IRONIA

BAUDOLINO

2000QUARTO ROMANZO DI ECO. RACCONTA LA STORIA DI BAUDOLINO, RAGAZZO DI CAMPAGNA PIEMONTESE, ADOTTATO DALL’IMPERATORE FEDERICO BARBAROSSANEL DODICESIMO SECOLO

SULLA LETTERATURA

2002LA LETTERATURASECONDO UMBERTOECO IN UNA SERIE DI SAGGI SCRITTI, QUASI TUTTI, TRA IL 1990 E IL 2002. CI SONO DANTE, WILDE, BORGES, CAMPORESI, LA MANCHAE BABELE

STORIA

DELLA BELLEZZA

2004LA BELLEZZA NON È MAI STATA UN VALORE ASSOLUTO. MA HA ASSUNTO FORME DIVERSE NEI SECOLI.ECO LE RIPERCORRETRA ICONOGRAFIA, ESTETICA E FILOSOFIA

Credere

I libri non sono fatti per crederci,

ma per essere sottoposti a indagine

El Pais

OPERA APERTA

1962DEFINITO DA ECO “UN’INDAGINE DI VARI MOMENTI IN CUI L’ARTE CONTEMPORANEA SI TROVA A FARE I CONTI COL DISORDINE”, È STATO UNO DEI TESTI FONDAMENTALI DELLA NEOAVANGUARDIA

‘‘“Una presenza costante e imprescindibile della vita culturale italiana dell’ultimo mezzo secolo. Ripercorrerne la vita e la carriera significa ricostruire un pezzo importante della storia culturale non solo italiana”

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 33

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A PASSO DI GAMBERO

2006DALL’11 SETTEMBRE ALLA GUERRA IN IRAQ, PASSANDO PER IL POPULISMO MEDIATICO ITALIANO. ECO RIFLETTE SUL PRIMO SCORCIO DI MILLENNIO DOVE LA STORIA PROCEDE “A PASSO DI GAMBERO”

ESTETICA E TEORIA

DELL’INFORMAZIONE

1972IN QUESTO VOLUMEECO CURA GLI SCRITTISULL’ESTETICA E LA TEORIA DELL’INFORMAZIONEDI ARNHEIM, BENSE, MOLES, JAKOBSON

IL COSTUME DI CASA

1973IL TELEGIORNALE, I DISCORSI DEI POLITICI, IL KITSCH, IL LINGUAGGIO PUBBLICITARIO,LA CONTESTAZIONE GIOVANILE. ALCUNI TEMI TOCCATI DA ECO IN QUESTE PAGINE

STORIA

DELLA BRUTTEZZA

2007LE MANIFESTAZIONIDEL “BRUTTO” ATTRAVERSO I SECOLISONO ALTRETTANTOSUGGESTIVE DI QUELLEDEL BELLO. ECO VIAGGIAATTORNO AL SUBLIMEDELLA DEFORMITÀ

CI SONO UNA DATA E UN LUOGO PRECISI in cui il fenomeno Umberto Eco co-minciò a diventare (almeno per me) evidente. Era il 1963 (forse 1964), il luogo era la storica libre-ria Feltrinelli di via del Babuino og-gi scomparsa. Eco parlava del suo li-bro Diario minimo che conteneva all’interno un breve saggio destina-to a grande e meritata celebrità: “Fenomenologia di Mike Bongior-no”. Quelle sei o sette paginette

rappresentarono una rottura clamorosa rispetto alle abitudini cul-turali e alla stessa visione che si aveva allora della cultura. Analiz-zando con gli strumenti della più raffinata analisi un fenomeno pop all’apparenza insignificante qual era Bongiorno, si abbatteva il solido muro di matrice crociana che separava la cultura alta dalla cultura bassa: letteratura, musica o arti figurative che fossero. Non c’era più l’alta letteratura da valutare togliendosi per così di-re il cappello e la letteratura bassa da considerare con un benevolo sorriso di simpatia. C’era sì Tolstoj, ma c’erano anche Dumas o Si-menon, c’era Tiziano (giù il cappello) ma c’erano anche i fumetti; tutti meritavano attenzione e serietà di valutazione, se si voleva capire quale poteva essere nella società che si allora andava profi-lando (oggi è la nostra) la funzione non solo estetica dell’opera d’arte. La seconda intuizione di quel breve saggio fu aver afferrato fin dai primi sintomi quale sarebbe stata l’importanza sociologica

del nuovo strumento di comunicazione — la Tv — che era nata in Italia da soli cinque o sei anni. Rileggerei dunque per primo quel Diario minimo sicuro di ritrovarvi ancora il divertimento che spri-gionò allora. Rileggerei, con un salto bibliografico di 17 anni, Il no-me della Rosa (1980), il suo primo dove la mescolanza di elementi diversi — da lui teorizzata — veniva messa al servizio di un intrigo che pescava alle fonti più varie, dal Mastino dei Baskerville di Co-nan Doyle, al perduto libro sulla commedia di Aristotele, all’esteti-ca di Tommaso d’Aquino sulla quale peraltro s’era laureato. Rileg-gerei un romanzo memoriale che non ha avuto molta fortuna e che mi ha invece profondamente appassionato, La misteriosa fiamma della regina Loana, una specie di Amarcord nel quale Eco immagi-na che un vecchio professore, colpito da amnesia, si rechi nei luo-ghi della prima giovinezza (tra Langhe e Monferrato) per ritrovar-vi la memoria perduta. Riscopre vecchi quaderni, i primi albi a fu-metti (Cino e Franco), dischi con le canzoni di quegli anni lontani. Bisogna probabilmente avere una certa età per apprezzare questa Recherche, nel mio caso funzionò. Rileggerei il fondamentale Co-me si fa una tesi di laurea, esempio clamoroso di come Eco riuscis-se a trasformare un argomento plumbeo in una scintillante, ironi-ca, rassegna dove accurate istruzioni per l’uso si mescolano ai più appropriati esempi, sillogismi, metafore. Rileggerei infine alcune sue Bustine di Minerva, minimi saggi in pillole dove lo scrittore-fi-losofo che oggi piangiamo ci ha dimostrato come, da piccole scheg-ge di realtà, si possano ricavare, sorridendo, lungimiranti intuizio-ni — certe volte addirittura delle profezie.

TRATTATO

DI SEMIOTICA

GENERALE

1975CON QUESTO TRATTATO ECO DELINEA UNA TEORIA GLOBALE DI TUTTI I SISTEMI DI SIGNIFICAZIONE E I PROCESSI DI COMUNICAZIONE

VERTIGINE

DELLA LISTA

2009DALL’“ILIADE” A “MOBY DICK”, DA ESIODO A JOYCE, LA GRANDE LETTERATURA È FATTA DI LISTE VERTIGINOSE. ECO RISCOPRE LA FORZA E IL PIACERE DELL’ENUMERAZIONE

COME SI FA UNA TESI

DI LAUREA

1977IL SAGGIO INDICALA METODOLOGIAFONDAMENTALEE IL LINGUAGGIOACCADEMICO PER REALIZZAREUNA TESI DI LAUREA

IL CIMITERO DI PRAGA

2010SESTO ROMANZO DI ECO. È UNA RIELABORAZIONE DELLA STORIA DEL RISORGIMENTO ATTRAVERSO LA FIGURA DEL FANTOMATICOFALSARIO SIMONE (SIMONINO) SIMONINI

LECTOR IN FABULA

1979ECO INTRODUCE IL CONCETTO DI “COOPERAZIONEINTERPRETATIVA”DOVE L’INTERAZIONEDEL LETTORE CON LA “MACCHINA PIGRA”DEL TESTO È FONDAMENTALE

IL NOME DELLA ROSA

1980PRIMO ROMANZO DI ECO.L’AVVENTURA DEL MONACO MEDIEVALE GUGLIELMO DA BASKERVILLE HA VENDUTO 50 MILIONI DI COPIE NEL MONDO ED È STATA TRADOTTA IN 40 LINGUE E IN UN FILM

COSTRUIRE IL NEMICO

E ALTRI SCRITTI

OCCASIONALI

2011UNA SERIE DI VARIAZIONI IMPEGNATE O DIVERTITE SU TEMI COME L’ASSOLUTO, IL FUOCO, IL PERCHÉ PIANGIAMO SULLA SORTE DI ANNA KARENINA E VICTOR HUGO

I LIMITI

DELL’INTERPRETAZIONE

1990IL VORTICE DELL’INTERPRETAZIONELETTERARIA E I SUOI LIMITI ANALIZZATI IN UNA SERIE DI SAGGI CHE SONO UN MONITO AI CRITICI DI MESTIERE

L’ISOLA DEL GIORNO

PRIMA

1994TERZO ROMANZO DI ECO, AMBIENTATO NEL 1643. UN GIOVANE PIEMONTESE, ROBERTO DE LA GRIVE, NAUFRAGA NEI MARI DEL SUD. HA DAVANTI A SÉ UN’ISOLA IRRAGGIUNGIBILE

STORIA DELLE TERRE

E DEI LUOGHI

LEGGENDARI

2013SIN DAI TEMPI PIÙ ANTICHI, L’UMANITÀ HA FANTASTICATO SU LUOGHI RITENUTI REALI, COME ATLANTIDE, LE TERRE DELLA REGINA DI SABA O L’ELDORADO

‘‘ “Ho appreso con grande stupore della morte di Eco perché è stato una figura centrale nell’Italia dalla fine del 900 fino ad oggi. Una figura particolarmente rappresentativa”

Luca Serianni

“Una perdita enorme per il mondo del fumetto che lui prima di chiunque altro ha sdoganato di fronte all’Accademia” (sceneggiatore di Diabolik)

Roberto Recchioni

‘‘

Chi scrive

Ognuno dovrebbe morire dopo aver scritto

per non disturbare il cammino del testo

SETTE ANNI

DI DESIDERIO

1983RACCOGLIE LE “CRONACHE” DEGLIANNI 1977-1983.DALLA STAGIONEDEL TERRORISMOAL BOOMDELLE TELEVISIONICOMMERCIALI

NUMERO ZERO

2015SETTIMO E ULTIMOROMANZO DI ECO. HA PER PROTAGONISTAUNO SCRITTORE FALLITOCHE SI RITROVA IN UN GIORNALE DESTINATOAD ALIMENTARELA MACCHINA DEL FANGO

Sfogliare

I libri si rispettano usandoli,

non lasciandoli stare

“È morto l’autore italiano che ha incuriosito e fatto scervellare e soprattutto deliziato i lettori di tutto il mondo”

The Hindustan Time

“È stato un forte combattente, antiberlusconiano senza diventare ideologico. Considerava Berlusconi l’uomo di cui bisognava liberarsi per aprire le finestre”

Angelo Guglielmi

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 34LADOMENICA

ho datoCosì

il nome

MILANO

VENTICINQUE ANNI FA IN POCHI AVREBBERO immaginato che un roman-zo carico di ironia e di dottrina, sorprendente per ampiezza ed eru-dizione, a metà strada tra il teologico e il poliziesco, sarebbe diven-tato quello che ogni scrittore spera che accada, ma non confidereb-be neppure alla propria mamma, cioè un sogno da quindici milio-ni di copie. Il nome della rosa è stato questo.

E venticinque anni dopo resta il mistero dell’uomo che seppe dare il nome giusto alla rosa. Per questo vado a trovare Umberto Eco nella sua casa milanese, per capire la parte meno visibile di un successo, il lavoro che ci è voluto, le tracce che ha lasciato. A sor-presa apre una stanza chiusa a chiave. «Qui ci sono i libri che ho consultato per i successivi romanzi». Ha l’aria di essere uno studio-

lo segreto, uno spazio poco illuminato, ma suggestivo. Sul tavolo un leggio con le tavole origi-nali di un fumetto. Alle pareti testi rari: ricerche sui Rosacroce, prime edizioni di Ulisse Aldro-vandi. Sul ripiano della libreria, dentro un contenitore cilindrico di vetro, galleggiano, irricono-scibili, i testicoli di un cane. Eco sorride: «Ne parlo nel mio ultimo romanzo». Ma è tempo di tor-nare al primo.

Che cosa non si sa ancora del “Nome della rosa”?«Tutti pensano che il romanzo sia stato scritto al computer, o con la macchina da scrivere,

in realtà la prima stesura fu fatta a penna. Però ricordo di aver passato un anno intero senza scrivere un rigo. Leggevo, facevo disegni, diagrammi, inventavo un mondo. Ho disegnato cen-tinaia di labirinti e piante di abbazie, basandomi su altri disegni, e su luoghi che visitavo».

Da cosa nasceva questa esigenza visiva?«Era un modo per prendere confidenza con l’ambiente che stavo immaginando. Avevo biso-

gno di sapere quanto ci avrebbero messo due personaggi per andare da un luogo a un altro. E questo definiva anche la durata dei dialoghi che non ero così certo di saper realizzare».

Capisco i luoghi, ma perché disegnare anche i monaci dell’abbazia?«Avevo bisogno di riconoscere i miei personaggi, mentre li facevo parlare o agire, altrimen-

ti non avrei saputo cosa fargli dire».A volte lei dà l’impressione di non poterne più del clamore che il romanzo ha sollevato. Si sente sotto assedio?

«È fatale che ci si senta accerchiati. D’altro canto, constatare che attorno al Nome della rosa sono uscite migliaia di pagine di critica, centinaia di saggi, libri e tesi di laurea — l’ulti-ma mi è arrivata la scorsa settimana — mi fa sentire abbastanza responsabilizzato da pro-nunciarmi su alcune questioni di poetica. È le-gittimo che un autore dichiari come lavora. Mentre la critica interviene sul modo in cui va letto un libro».

Si può dire che con “Il nome della rosa” ha

realizzato una moderna operazio-ne ironica su un affresco medievale?

«Diciamo, come accade per altre ope-re, che il mio romanzo può avere due o più li-

velli di lettura. Se io comincio dicendo: “Era una notte buia e tempestosa”, il lettore “inge-nuo”, che non capisce il riferimento a Snoo-py, godrà a un livello elementare, e la cosa ci può stare. Poi c’è il lettore di secondo livello che capisce il riferimento, la citazione, il gio-co e dunque sa che si sta facendo soprattutto dell’ironia. A questo punto potrei aggiungere un terzo livello, da quando il mese scorso ho scoperto che la frase è l’incipit di un romanzo di Bulwer-Lytton, l’autore degli Ultimi giorni di Pompei. Ovvio che anche Snoopy stava pro-babilmente citando».

La sottile ironia letteraria, fatta di citazio-ni, rimandi, allusioni è un omaggio alla pu-ra intelligenza. Ma non c’è il rischio che l’e-laborazione della pagina finisca con l’ave-re poca narrazione e molta testa?«Non sono fatti miei. Io mi posso occupare

legittimamente di postille, di questa conver-sazione, del fatto che il romanzo è stato scrit-to in un periodo in cui si parlava molto di dia-logismo intertestuale e di Bachtin. Se poi lei osserva, che così saranno pochi coloro che lo leggeranno, io le rispondo: sono fatti dei letto-ri, non miei».

È un’affermazione molto perentoria.«La verità è che da quando è uscito Il nome

della rosa sono stato sottoposto a una vera e propria doccia scozzese. Perché ha fatto un li-bro difficile che nessuno capisce? E io rispon-do come il guerriero dancalo di Hugo Pratt: perché tale è il mio piacere. E allora perché ha fatto un libro popolare che tutti vogliono leg-gere? Mettiamoci d’accordo: è difficile, o è po-polare?».

Paradossalmente è entrambe le cose.«A questo punto proporrei un’interessan-

te questione: oggi diventa popolare un libro difficile perché sta nascendo una generazio-ne di lettori che desidera essere sfidata».

A N T O N I O G N O L I

‘‘‘‘

“Un libro difficile e popolare”

Ripubblichiamo l’intervista

in cui Eco spiegava

il segreto del romanzo

che conquistò il mondo

“Di Umberto Eco ricordo soprattutto il sorriso e il sorriso è una forma sublime di consapevolezza”

Fabio Fazio

alla rosa

Il bestseller.

“Era al tempo stesso uno studioso di Tommaso d’Aquino, filosofo, semiologo, romanziere affermato; un uomo di successo nel corpo di un bon vivant”

“Era così parte dell’orizzonte culturale e da così tanti anni che quasi non si è abituati a considerarlo di carne e ossa”

Nicola LagioiaLe Figaro

“Grandissima anima, grandissima intelligenza. Mancherà sicuramente al Paese”

Antonio Pennacchi

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 35

A me pare un romanzo che gratifica le per-sone. Le fa sentire più colte di quello che so-no.«Non sono così sicuro. Il lettore ingenuo

che confessa quale frustrazione tremenda sia non aver capito le citazioni in latino, mica si sente gratificato. O dovremmo concludere che c’è un tipo di lettore che gode nel sentirsi stupido».

Cosa decreta il successo di un libro come “Il nome della rosa”? Ammetterà che alla fine resta qualcosa di misterioso.«È vero, io sto cercando delle spiegazioni.

Ma solo perché lei me le chiede. Se dipendes-se da me ne farei a meno. Quello che so e ho capito è che se “Il nome della rosa” usciva die-ci anni prima, forse nessuno se lo sarebbe fila-to, e se usciva dieci anni dopo, forse sarebbe stato altrettanto ignorato».

C’è un esempio che abbiamo sotto gli occhi oggi: “Il codice da Vinci” di Dan Brown. Crede che se fosse uscito in un altro mo-mento non avrebbe avuto lo stesso succes-so?«Dubito che se Il codice da Vinci fosse usci-

to sotto Paolo VI avrebbe potuto interessare alla gente. La spiegazione del fenomeno che si è verificato su un giallo, tutto sommato mo-desto, è da ricondurre probabilmente alla grande teatralizzazione dei fatti religiosi av-venuta sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Sul romanzo di Dan Brown c’è stato un in-vestimento teologico da parte della gente. Mettiamola così: ha scritto un libro apparso nel momento giusto».

È proprio l’idea del “momento giusto” che ha qualcosa di insondabile.«Credo allo Zeitgeist, a quello spirito del

tempo che ti fa fiutare le cose, e grazie al qua-le ricevi sollecitazioni che si traducono in qualcosa di compiuto e definito. Altrimenti, non potrei spiegarmi perché proprio nel 1978 e non prima mi viene in mente di fare Il nome della rosa. Benché, devo riconoscere, già ai tempi del Gruppo 63 io avevo pensato

di scrive-re un romanzo».

Perché ha scelto quel titolo, “Il nome della rosa”? «Era l’ultimo di una lista che comprendeva

tra gli altri L’abbazia del delitto, Adso da Melk eccetera. Chiunque leggeva quella lista diceva che Il nome della rosa era il più bello».

È anche la chiusa del romanzo, la citazione latina.«Che io ho inserito per depistare il lettore.

Invece il lettore ha inseguito tutti i valori sim-bolici della rosa, che sono tanti».

Le dà fastidio l’eccesso di interpretazio-ne? «No, sono dell’idea che molto spesso il li-

bro è più intelligente del suo autore. Il lettore può trovare riferimenti cui l’autore non ave-va pensato. Non credo di aver diritto di impe-dire di trarre certe conclusioni. Ma ho il dirit-to di ostacolare che se ne traggano altre».

Si spieghi meglio.«Coloro che ad esempio nella “rosa” hanno

trovato un riferimento allo shakespeariano “a rose by any other name”, sbagliano. La mia citazione significa che le cose non esisto-no più e rimangono solo le parole. Shakespea-re dice esattamente l’opposto: le parole non contano niente, la rosa sarebbe una rosa con qualunque nome».

L’immagine della rosa conclude il roman-zo. Ma il problema vero per uno scrittore, soprattutto se esordiente, è come iniziar-lo. Con quale disposizione mentale, con quali dubbi, si è posto di fronte alla prima pagina?«All’inizio l’idea era di scrivere una specie

di giallo. In seguito mi sono accorto che i miei romanzi non sono mai cominciati da un pro-getto, ma da un’immagine. E l’immagine che mi appariva era il ricordo di me stesso nell’Ab-bazia di Santa Scolastica, davanti a un leggio enorme che leggevo gli Acta Sanctorum e mi divertivo come un pazzo. Da qui l’idea di im-

maginare un benedetti-no in un monastero che mentre legge la collezio-ne rilegata del manife-sto muore fulminato».

Un omaggio ironico all’attuali-tà.«Troppo attuale e allora mi so-

no detto se non fosse stato me-glio retrodatare tutto al medioevo. L’idea che un frate morisse sfogliando un libro avvelena-to mi pareva efficace».

Come l’ha avuta? «Credevo fosse un parto della mia fanta-

sia. Poi ho scoperto che esiste già nelle Mille e una notte e che Dumas l’aveva copiata nel ci-clo dei Valois. Quindi è un vecchio topos lette-rario. Essendo un narratore citazionista mi ha divertito».

So che all’inizio non aveva intenzione di dare “Il nome della rosa” alla Bompiani.«Era la casa editrice nella quale avevo lavo-

rato e pubblicato tutti i miei libri. È chiaro che lo avrebbero preso a scatola chiusa. Ma in un primo momento pensavo di consegnarlo a Franco Maria Ricci. Pensavo a una tiratura di mille copie in una collana raffinata».

E invece?«Si sparse la voce che Eco aveva scritto un

romanzo. Prima mi telefonò Giulio Einaudi, poi, mi pare, Paolini della Mondadori. Lo avrebbero preso senza discutere. A quel pun-to tanto valeva che lo pubblicassi con il mio editore».

Per essere un romanzo di nicchia non ma-le. “Il nome della rosa” è stato pubblicato in trentacinque paesi. Cosa prova nel sen-tirsi consacrato a livello internazionale?«Più che la fama, che non guasta, mi grati-

ficano le lettere dei lettori. E da questo punto di vista, l’America è stata una vera sorpresa. Mi scrivevano non solo da San Francisco o da New York ma dal Midwest. Uno scrisse dicen-do che per il solo fatto di aver nominato Ec-kart, il grande mistico, gli facevo tornare alla

memoria un suo antenato europeo con lo stes-so nome. Era per molti di loro un modo di co-noscere le proprie origini».

A una critica negativa come reagisce?«Non faccio tragedie. Quando ci si accorge

che essa può dire tutto e il contrario di tutto, allora concludo che la critica è una mera rea-zione di gusto».

Lei ha scritto cinque romanzi. L’idea che il suo maggior successo sia stato il romanzo d’esordio cosa le fa pensare?«Ci sono autori fortunati che toccano il pic-

co delle vendite alla fine della loro vita e auto-ri disgraziati che lo toccano all’inizio. Quando al tuo esordio vendi tantissimo, dopo puoi an-che scrivere La Divina Commedia ma non raggiungerai mai più quelle cifre».

Considera una specie di condanna che qua-lunque cosa lei faccia si finirà sempre col tornare al “Nome della rosa”?«Lo è senz’altro. Ma è anche una legge del-

la sociologia del gusto, o meglio della sociolo-gia della fama. Se uno diventa famoso per aver ucciso Billy the Kid, qualunque cosa fac-cia in seguito — dal diventare presidente de-gli Stati Uniti allo scoprire la penicillina — agli occhi della gente sarà sempre “quello che ha ucciso Billy the Kid”».

(da La Domenica di Repubblica, 9 luglio 2006)

‘‘

I DISEGNI

QUI SOPRA,

ALCUNI DEI DISEGNI

REALIZZATI

DA ECO DURANTE

LA STESURA

DEL ROMANZO.

DA SINISTRA,

ACCANTO

ALLE FOTO

DEI LUOGHI CHE

LO HANNO AIUTATO

A CONCEPIRE

L’ABBAZIA

DOVE SI SVOLGE

IL ROMANZO

GLI SCHIZZI

ORIGINALI

DELL’AUTORE;

UN ROMPICAPO

CON IL “QUADRATO

DI SATOR”;

I MONACI

PROTAGONISTI

DEL ROMANZO

E ALTRI APPUNTI

SULLA BIBLIOTECA

DELL’ABBAZIA CON

I LIBRI CATALOGATI

E SISTEMATI

PER AREE

GEOGRAFICHE

‘‘

©RIPRODUZIONE RISERVATA

“L’ultimo titolare del pensiero universale, un enciclopedista che ha dato la misura della memoria del mondo nel Novecento come solo Benedetto Croce e Jorge Luis Borges hanno fatto”

Vittorio Sgarbi“La notizia è arrivata comeun fulmine a ciel sereno. Era ancora così presentenella scena culturale italianatanto che si era gettatocon entusiasmo in una nuova iniziativa editoriale”

Die Welt

“Un immenso umanista, lettore insaziabile, professore abbagliante e scrittore appassionato: un grande italiano che non ha mai smesso di essere un grande amico della Francia”

Francois Hollande

“I suoi romanzi sono solo la punta dell’iceberg della sua sterminata erudizione e conoscenza delle tradizioni filosofiche e religiose europee”

Massimo Cacciari

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 36LADOMENICA

Sotto il segno

ERAVAMO DI DIECI ANNI PIÙ GIOVANI di lui, quando uscì Il Barone rampante. Capimmo che Calvino era lo scrittore della nostra generazione. Più tardi lo ho

conosciuto, e avrei potuto essere ingannato dal suo sorri-so evasivo e beffardo, da quel suo parlare chinando gli oc-chi per nascondere lampi di ironia. Ma non voglio parlare di Calvino scrittore, ne parleranno tutti in questi giorni. Saprei solo dire che era quello che amavo di più. Vorrei ri-cordare l’altro Calvino. Vorrei parlare del Calvino che fre-quentava i musicisti di avanguardia Berio, Maderna, Bou-lez, o del Calvino che preparava con Elio Vittorini i nume-ri più esplosivi del Menabò, cercando di far dialogare la si-nistra tradizionale e neorealista con le nuove correnti di letteratura sperimentale, attento e rispettoso, anzi curio-so, anche con quelli che non approvava. Stava con gli altri con l’aria di chi si trova a disagio e vuole andare a casa pre-sto. Ma questa maschera nascondeva una attenzione con-tinua: non dimentichiamo che come consulente dell’Ei-naudi fu un generoso scopritore di nuovi talenti, e sapeva lavorare sui testi degli altri con la passione con cui lavora-va sui propri. Non posso evitare, in questo momento, i ri-cordi personali. Nel 1959, appena mi conobbe, mi disse che aveva letto su una rivista musicale un mio articolo sull’opera aperta. Lo interessava, mi chiese di scrivere un libro su quell’argomento. Poi, per ragioni accidentali, il li-bro lo scrissi, ma per un altro editore. Però senza l’incorag-giamento di Calvino non avrei iniziato il lavoro. Dico que-sto per spiegare come, sotto quella maschera di distacco e assenza, egli sapeva essere presente, incoraggiare, aiu-tare gli altri. Il suo mondo immaginario si muoveva, con delicato equilibrio, tra Voltaire e Leibniz. Come parlare di lui, rispettando la sua grazia illuministica e metafisica, senza cadere in un patetico che non avrebbe amato? Non trovo di meglio che rileggere una sua pagina, da T con ze-ro, dove aveva saputo meditare su quel momento in cui occorre decidere, accettare, rendere trasparente alla ra-gione e alla fantasia, il passaggio all’Altrove. «Quel che mi domando è, visto che a questo punto si deve comun-que tornare, se non sia il caso che io mi ci fermi... Tanto va-le che io mi conceda un riposo di qualche decina di miglia-ia di anni, e lasci il resto dell’universo a continuare la sua corsa spaziale e temporale sino alla fine».

(9 settembre 1985)

di Minerva

DURANTE LA GUERRA FREDDA l’Europa, uscita dal se-condo conflitto mondiale (e divisa tra Est e Ove-st), era costretta a vivere sotto lo scudo di un’al-

tra potenza, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Poste al centro di questo gioco che le superavano, le nazioni euro-pee dovevano modellare la propria politica estera su quel-lo dei due blocchi. Il panorama era già cambiato dopo la caduta del muro di Berlino ma i nodi sono venuti al petti-ne negli ultimi anni. Nel frattempo appare chiaro che il grande confronto che gli Stati Uniti si preparano ad af-frontare è quello con la Cina. Nulla dice che sarà un con-fronto bellico, ma lo sarà certamente in termini economi-ci e demografici. Basta visitare una università americana per vedere quanto le borse di studio, i posti di ricerca, le posizioni di leadership studentesca siano sempre più nel-le mani di studenti asiatici. Lo sviluppo scientifico ameri-cano sarà sempre più dovuto all’importazione non di cer-velli europei bensì asiatici, dall’India alla Cina e al Giappo-ne. Questo vuole dire che tutta l’attenzione americana si sposterà dall’Atlantico al Pacifico, così come già da anni i grandi centri della produzione e della ricerca si sono tra-sferiti o sono sorti sulla costa californiana. Nel lungo perio-do New York diventerà una Firenze americana, ancora centro della moda e della cultura, e sempre meno luogo delle grandi decisioni. Quindi l’Europa, lasciata da sola per forza di cose (per un decreto quasi hegeliano che vuo-le che le cose vadano come la realtà, che è razionale, co-manda), o diventa europea o si sfalda. L’ipotesi dello sfal-damento pare irrealistica, ma vale la pena di delinearla: l’Europa si balcanizza, o si sudamericanizza. Oppure l’Eu-ropa avrà l’energia per proporsi come Terzo Polo tra gli Stati Uniti e l’Oriente (vedremo se l’Oriente sarà Pechino o Tokyo o Singapore). Per proporsi come terzo polo l’Euro-pa ha una sola possibilità. Dopo aver realizzato l’unità do-ganale e monetaria dovrà avere una propria politica este-ra unificata e un proprio sistema di difesa. O così o niente. L’Europa è condannata, per sopravvivere, a trovare stru-menti di politica estera e di difesa comuni. Altrimenti di-venta, senza offesa per nessuno, il Guatemala. Questo è il senso del richiamo che alcuni cittadini europei rivolgono ai governi del continente nel quale sono nati e vorrebbero continuare a vivere, fieri della loro appartenenza.

(31 maggio 2003)

Perché crederenell’Europa unita

Il mio debitocon Italo Calvino

©RIPRODUZIONE RISERVATA©RIPRODUZIONE RISERVATA

ARRIVATO ALLA MIA TARDA ETÀ ho collezionato una se-rie sesquipedale di ricordi che riguardano la fine del romanzo. Trascurando gli anni in cui non sape-

vo ancora leggere, sono circa 74 anni che a ogni volgere di ferragosto vedo un articolo, un’intervista, una inchiesta, una discussione che coinvolge molte degne persone, sulla crisi, scomparsa, tracollo, apocalisse del romanzo (negli anni Sessanta circolava la battuta «anche Pasolini pensa che il romanzo sia morto ma non lo dice per non fare di-spiacere alla sua mamma»). È verissimo che il romanzo nella forma in cui lo conosciamo nasce in quanto novel nel XVIII secolo, e come è nato potrebbe scomparire, ma era-no testi narrativi, e svolgevano la funzione che svolgono per noi i romanzi, i poemi di Ariosto o di Tasso, i racconti cavallereschi medievali, e se oltre al romanzo pensiamo alla novell, da Boccaccio in avanti ce n’era per tutti i gusti. E prima esistevano il romanzo romano e greco (pensate solo a Luciano e ad Apuleio) e prima di Apuleio scriveva bellissime storie Ovidio (spero ricorderete con tenerezza Filemone e Bauci) e prima ancora erano bellissimi roman-zi i poemi come l’Odissea, e prima prima ancora, la sera sotto l’albero del villaggio, gli anziani analfabeti racconta-vano i miti, e tutti a commuoversi sulla sorte di Edipo, a odiare Medea, a fremere su Proserpina, a orripilare su Sa-turno, come tante madame Bovary dell’epoca. Insomma, stiamo celebrando la fine del romanzo nella forma inven-tata da Richardson e Defoe? E può anche darsi, ma allora il romanzo è finito dai tempi di Joyce e persino Roth è co-me un patetico reazionario che si ostini oggi a scrivere un poema cavalleresco in ottave. O stiamo parlando della pul-sione narrativa (bisogno di narrare e di ascoltare narra-zioni) e allora la “funzione fabulatrice” è fondamentale nell’essere umano almeno quanto l’istinto sessuale. Per-sonalmente trovo noiosi e illeggibili molti romanzi molto lodati dalla critica e, come Roth, mi diverto di più con una bella biografia, che so, di Garibaldi o di Gilles de Rais, op-pure mi rileggo romanzi di cento o cinquanta anni fa. Ma poi accade che ne leggo con gusto anche dei nuovi. Insom-ma, la vita è così complicata, e rifiuta talmente le divisio-ni tra bianco e nero, che mi viene in mente quel detto non ricordo più di chi: «Per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice. Ed è sbagliata».

(23 luglio 2011)

Non sparatesui romanzi

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il meglio di Umberto Eco giornalista: negli articoli su “Repubblica”

e nella sua rubrica sull’“Espresso” ricordi e analisi sulla politica,

sulla cultura, sul mondo che cambia. Riflessioni profonde

in uno stile “leggero”. Come nel suo ultimo libro ora in uscita

“Un grande mai monumentale, un uomo con il senso della dimensione delle cose, con cui si poteva parlare di argomenti molto seri senza che ti mettesse in soggezione”

Piero AngelaDie Zeit

“Ci ha lasciato un gigante che ha portato la cultura italiana in tutto il mondo. Giovane e vulcanico fino all’ultimo giorno”

Dario Franceschini

La carta stampata.

“Eccelleva nella scrittura ma anche alla radio e alla tv con dichiarazioni taglienti.Era un gran maestro della semiotica e con la sua complessa teoria ha messo in difficoltà molti suoi colleghi che si perdevano come nel labirinto del Nome della rosa”

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 37

Venerdì in libreriala nuova raccolta

SI INTITOLA, in omaggio a un famoso verso

dantesco, “Pape Satàn Aleppe” ha come sottotitolo “Cronache di una società liquida”, ed è l’ultimo libro di Umberto Eco. Sarà nelle librerie a partire da venerdì, anche se in un primo momento

l’uscita era prevista per maggio prossimo. A pubblicarlo è La Nave di Teseo, la

nuova casa editrice fondata lo scorso novembre dallo stesso Eco insieme all’ex direttore editoriale di Bompiani Elisabetta Sgarbi, a Mario Andreose e ad alcuni altri soci, e a cui hanno aderito molti scrittori fuoriusciti da Bompiani. Il volume di 470 pagine è una raccolta di “Bustine di minerva” e saggi scritti dall’autore negli ultimi quindici anni, su vari

argomenti di attualità e di costume, nello stile enciclopedico e

di facile letture tipico di Eco. «Alcune parti — racconta Andreose —

sono di pura comicità. Come quella in cui si parla del lato gesuita di papa

Francesco, di cui Eco aveva grande stima».

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STO INIZIANDO UNA RUBRICA. L’intitolo alla bustina di Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Ritengo

sia utile appuntare idee sulle bustine di Minerva, e anche Husserl faceva qualcosa del genere. Primo pensiero. Sto seguendo il Colombo televisivo, né intendo rubare il mestiere al titolare della rubrica apposita. Semplicemente (e accade ogni qual volta si rilegge la storia di Colombo) stupisce quanto si possa andare lontano con una idea sbagliata. Per questo genere di scoperte, fatte per sbagliare, gli inglesi hanno un termine che non esiste nel nostro lessico se non per ricalco: “serendipità”. Ogni grande scoperta avviene perché lo scienziato (o il filosofo, o il detective) invece di seguire le normali vie di ragionamento si diverte a pensare che cosa succederebbe se si ipotizzasse una legge del tutto inedita e puramente possibile, la quale però fosse capace di giustificare — se fosse vera — i fatti curiosi a cui non si riesce a dare spiegazione. Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando è sicuro di avere ragione. Le idee migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto tue.

(31 marzo 1985)

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La musica del casogenera grandi idee

El Clarin

“Se ne è andato il grande eruditoche amava le enciclopedie”

LA BUSTINA

DI MINERVA

LA RUBRICA

COMINCIA

SU “L’ESPRESSO”

DEL 31 MARZO 1985:

NELLE INTENZIONI

DELL’AUTORE DOVEVA

FINIRE “NEL GIRO

DI UN ANNO”. INVECE

È ANDATA AVANTI

PER 31 ANNI.

ECCO UN ESTRATTO

DEL PRIMO ARTICOLO

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 38LADOMENICA

Dalle magnifiche sorti

e progressive del pc olivettiano

alle legioni di imbecilli

prodotte da internet

Il pessimismo antropologico

di un filosofo

amico della tecnica

“Umberto Eco ha datoun senso ai segni,scritto libri indimenticabili,sferzato con intelligenzae ironia ogni luogo comune sulla cultura”

L’allegria dietro la semiotica

“Addio capitano.Grazie Umberto Eco”

La nave di Teseo

ERA IL SETTEMBRE DEL 1990, LAVORAVO nell’area della Ricerca Olivetti come respon-sabile dei rapporti con le università e i centri di ricerca. Il laboratorio dell’Oli-vetti di Pisa aveva appena realizzato un prototipo di computer multimediale, un personal computer, che collegato con un lettore di videodischi (grandi co-me un long play 33 giri) poteva proiettare sullo schermo disegni, fotografie,

filmati: non più solo testi e numeri.Andai a trovare Umberto Eco nel suo ufficio di Scienze della comunicazione a Bologna e

gli presentai il computer “multimediale”. Gli dissi: «Umberto, sono nati gli ipertesti e stan-no investendo un mucchio di soldi per costruire computer sempre più potenti e multime-diali, ma nessuno pensa a cosa metterci dentro come contenuto».

Lui mi guardò e mi disse: «Facciamo la storia del mondo». Nacque così l’idea di fare un’opera enciclopedica unica nel suo genere in cui tutti gli

strumenti conoscitivi e tutti i ”linguaggi” — testi, musiche, fotografie, disegni, filmati, ci-tazioni — fossero intrecciati tra loro in un percorso infinito attraverso link che collegava-no la storia, la musica, la filosofia, l’arte, la letteratura, la scienza.

Aveva già capito, prima di tutti, che sarebbe arrivato il World Wide Web. E come mi dis-se e scrisse molti anni dopo, rimettendo mano all’introduzione della sua Encyclomedia — Storia della Civiltà Europea —, «il primo servizio che un ipertesto come Encyclomedia rende ai propri utenti (studenti, insegnanti, studiosi, o anche semplicemente persone cu-riose che vogliano sapere qualcosa di più sul secolo in cui hanno visto agire, al cinema, i tre moschettieri) è quello di farli “navigare”, con pochi movimenti delle dita, nel tempo e nel-lo spazio». Internet, come lo conosciamo oggi, non c’era ancora.

In queste poche righe di Umberto Eco c’è tutta la curiosità, la cultura, il gusto per il nuovo, l’ammirazione per la tecnologia, il desiderio di conoscere e parallelamente l’interesse a rivolgersi a tutti, studiosi o semplicemente curiosi, studenti e inse-gnanti. Sapere, capire, conoscere, raccon-tare, scoprire, inventare, stupire: qui c’è se-condo me l’essenza di Umberto e della sua capacità di dire in modo semplice e chiaro, a tutti, cose difficili e complesse anche per pochi.

Forse uno dei momenti più significativi del percorso culturale, personale, professio-nale che ho avuto la fortuna di fare con Um-berto è stato quando il 21 ottobre del 2013 abbiamo incontrato al Palazzo di vetro del-le Nazioni Unite il Segretario generale dell’Onu Ban-Ki-Moon e poi Eco ha tenuto la sua lectio magistralis a tutti i rappresen-

tanti mondiali “Contro la perdita della me-moria”.

In quei giorni a New York, mentre beve-va il suo amato Martini seduti al caffè del nostro albergo, abbiamo costruito anche quel grande appuntamento culturale che è il Festival della comunicazione di Camogli. Grande per due motivi: perché si parlava di comunicazione, di linguaggi, filosofia, futu-ro, tecnologia e grande perché aveva chia-mato intorno a sé i più grandi personaggi della cultura, dell’economia, della società italiana per ascoltarli e condividere con tut-ti loro la passione del sapere e del capire.

Danco Singer, direttore editoriale di Em Publishers, ha ideato con Umberto Eco il progetto Encyclomedia e il Festival della co-municazione di Camogli

Quandoscoprì

il computer

CON UMBERTO SIAMO STATI AMICISSIMI per una cinquantina d’anni.

E a casa sua, in Foro Bonaparte, ci siamo visti per quasi altrettanti anni, o stagioni. Ricordo sempre che la moglie Renate fatti i dovuti calcoli osservò che per andare dall’albergo all’aeroporto, a New York, bastava prendere un taxi invece di due.

Ma ricordo soprattutto la grande allegria di Umberto, fra quei volumi tutti severissimi. Come se non gliene importasse niente.

E invece facevano parte del grande fascino intorno al suo lavoro.Chi avrebbe supposto, davanti a quel buontempone,

di trovarsi al cospetto del fermissimo trattatista di qualche Semiotica Generale?

Pietro GrassoWashington Post

D A N C O S I N G E R

Mass e media.

“I suoi libri eranoal tempo stesso storie avvincentied esercizi filosofici ed intellettuali”

©RIPRODUZIONE RISERVATA

A L B E R T O A R B A S I N O

©RIPRODUZIONE RISERVATA

SUL SITO

SU REPUBBLICA.IT

UNO SPECIALE

MULTIMEDIALE

INTERAMENTE

DEDICATO

A UMBERTO EC0

Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 39

IN ANNI REMOTI, CORREVA IL 1981, uscì, nella collana “I Castori”, la bella monografia di Maria Teresa de Lauretis su Umberto Eco, allora quarantanovenne ma già celebre. In copertina, lo schermo di un computer Ibm dell’epoca, oggetti di ferro e schermi poco confortevoli, tastiere in cui (incredibilmente) non c’era ancora la @ dell’e-mail. Appariva un simbolo perfetto per Eco di cui era uscito l’anno prima Il no-

me della rosa che era stato definito da critici malevoli “scritto con il computer”, come una volta si diceva “scritto a tavolino”. Chi l’avrebbe detto che vent’anni dopo avrebbe parlato delle “legioni di imbecilli” sul web? Qualunque lettore di buon senso, ma, sappiamo, il buon senso è merce rara. All’obiezione “scritto con il computer” Eco non rispose “Come vo-levate che lo scrivessi? Con una stilografica? O magari su tavolette di cera?”. Si limitò a no-tare, nel suo secondo romanzo, Il pendolo di Foucault, che il brano che un critico aveva re-putato come il solo autentico, frutto di un gesto autentico, spontaneo e sorgivo, ossia il rac-conto del giovane Umberto che a Nizza Monferrato suona la tromba per commemorare la morte di un partigiano, era in effetti l’unico che avesse scritto con il computer e senza un solo ripensamento, avendolo raccontato prima un gran numero di volte. Più meditata-mente, osservò che per il computer vale il principio Trash in — Trash out: se quello che ci metti dentro è spazzatura, allora anche quello che viene fuori è spazzatura.

Il pessimismo antropologico del filosofo amico della tecnica emergeva in modo profeti-co. Perché non c’è contraddizione tra il venire rappresentato come il primo autore italiano che si sia servito del computer ed essere il moralista alla Flaiano che ricorda che se a scrive-re sulla tastiera tecnicamente più avanzata c’è un imbecille, allora il risultato sarà lo scrit-to di un imbecille, sia pure impaginato in modo impeccabile e diffuso alla velocità della lu-

ce. Qui cogliamo il nucleo filosoficamente rilevante della visione della tecnologia in Eco. E anche la ragione di quella frase, pro-nunciata nello scorso giugno in occasione dell’honoris causa a Torino, che ha fatto storcere tanti nasi; e cioè che sul web si pos-sono leggere tante cose intelligenti, ma il web è anche lo spazio in cui si possono sca-tenare legioni di imbecilli. Come si permet-te? A chi allude? Allude a me e a te, per esempio, «gente curiosa di conoscere la vi-ta altrui, ma infingarda nel correggere la propria», come diceva Agostino. Gente pronta a dire (d’accordo con il classico para-digma dell’alienazione) che l’umanità è perfetta e viene pervertita dalla tecnica. E che lo fa per evitare di considerare che, in-vece, la tecnica è rivelazione di quello che noi siamo, pronti, poniamo, a dire le peggio-ri stupidaggini grazie a dei mezzi che per-

mettono di diffondere urbi et orbi la nostra vanità e imbecillità.

In un divertissement di vent’anni fa Eco si immaginava il dialogo tra Socrate e un di-scepolo in cui Socrate sostiene che per mori-re senza rimpianti bisogna convincersi che il mondo è pieno di imbecilli. Non subito, ov-viamente, non da giovani, altrimenti si di-venta nichilisti. Ma nel corso del tempo bi-sogna prepararsi, bisogna imparare a mori-re, e capire che è proprio vero che il mondo è pieno di imbecilli. Come negarlo? Osser-vando che la tecnica non è corruzione o alie-nazione, ma rivelazione della imbecillità di massa, Umberto Eco, il 10 giugno del 2015, ha anticipato una presa di congedo dal mondo degna di Seneca, che corona una vi-ta piena di tenerezza e curiosità per il mon-do.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

COME HA OSSERVATO JACQUES DERRIDA, ogni morte rende l’universo più povero di un mondo. E,

di conseguenza, rende tutti noi più poveri. Tuttavia, l’addio di Umberto Eco ci ha reso molto più poveri di quello che pensava Derrida. Eco era il maestro supremo dell’insieme e del dettaglio, ha scandagliato con uguale naturalezza archivi senza tempo di saggezza e stupidità umana, di grandezza e insignificanza. Nella sua vita, ci ha sfidato a mettere in

discussione chi, secondo la maggior parte di noi che nemmeno si azzardavano a farlo, andava oltre le nostre capacità umane. Come nessun altro è riuscito a produrre una mappa pressoché completa e

perfettamente leggibile di ogni mondo. A noi altri non resta che imparare dalle sue opere, che abbiamo la fortuna di poter gustare e ammirare. Eco ha segnato il nostro tempo in maniera così

straordinaria che pochissimi di noi, o forse nessuno, riuscirà a raggiungere i suoi livelli.

Maestro dell’insieme e del dettaglioZ Y G M U N T B A U M A N

“Eco viene ricordato soprattutto per la sua abilità nel tradurre le teorie semiotiche per il grande pubblico. Proprio come ha fatto con successo scrivendo il suo romanzo di debutto Il nome

della rosa. Intriso di semiotica”

Wall Street Journal

M A U R I Z I O F E R R A R I S

E quando maledì

il web

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Repubblica Nazionale 2016-02-21

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la RepubblicaDOMENICA 21 FEBBRAIO 2016 40LADOMENICA

Il piacere

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A L E S S A N D R O B A R I C C O

del sapere

SEMPLIFICO: ERA IL PIÙ GRANDE. Lo era in uno sport molto particolare, che a mol-ti può sembrare un lusso noioso come il Polo, e che invece può essere incante-vole, e lo dico senza vergogna: fare gli intellettuali. Forse ad alcuni ne sono sfuggite le regole, quindi le ricordo: si vince quando si comprende, racconta o nomina il mondo. Fine. Periodica-mente, in quello sport arriva qualcuno che non si limita a giocare da dio: quel-li entrano in campo, giocano, e quan-

do escono, il campo non è più lo stesso. Non nel senso che lo hanno rovinato: nel senso che nessuno aveva pensato a usarlo in quel mo-do, nessuno aveva visto prima quelle traiettorie, quella velocità, quella tattica, quella leggerezza, quella precisione. Tornano negli spogliatoi, e si lasciano dietro uno sport che non è più lo stesso, campioni che sono diventati dinosauri in un pomeriggio, e prate-rie di gioco da inventare per chi ne avrà il talento. Sono fenomeni, e averli visti gioca-re va considerato, sempre e comunque, un privilegio. Eco era uno di loro, e se penso al pezzo di storia in cui sono cresciuto, pas-sando dallo stupore frenetico del venten-ne alla meraviglia assorta del cinquanten-ne, me ne vengono forse in mentre altri due o tre, grandi come lui: ma nessuno che fosse nato qui.

Naturalmente bisognerebbe riuscire a spiegare quale fu la sua rivoluzione, e farlo in un modo che tutti lo possano compren-dere. Un tipico esercizio in cui lui sarebbe stato bravissimo. Potrei provarci così: capì che il cuore del mondo non stava immobile in un tabernacolo sorvegliato dai sacerdoti del sapere: comprese che era nomade, ca-pace di spostarsi nei posti più assurdi, di nascondersi nel dettaglio, di espandersi in archi di tempo colossali, di frequentare qualsiasi bellezza, di battere dentro a un cassonetto e di sparire quando voleva. Non fu il solo: ma mentre altri ne uscirono sgo-menti, o storditi, o increduli, lui trovò la co-sa naturale, ovvia, piuttosto funzionale e, diciamolo pure, discretamente diverten-

te. Così insegnò che il sapere non era solo un dovere, ma anche un piacere: e che era riservato a gente in cui forza e leggerezza, me-moria e fantasia, lavorassero una dentro l’altra e non una contro l’altra: gente con il coraggio, la determinazione e la follia degli esploratori. Non si limitò a spiegarlo, ne fece una prassi. È quello che ci ha lasciato: più che una teoria, una serie di esempi, di gesti, di comportamenti, di colpi, di mosse. Era il suo modo di giocare. Una sua certa idea di mondo, se posso usare questa frase.

Valga, per tutti, l’esempio del Nome della rosa. Forse lo soprav-valuto, ma, come ho già avuto modo altrove di dire, io penso che sia il libro che ha inaugurato una nuova stagione dei libri: quella in cui un romanzo non è tanto figlio di un incesto tra consangui-nei, cioè l’erede stretto di una dinastia, quella letteraria: ma è lo spazio in cui narrazioni, abilità, tradizioni e saperi completamen-te diversi vanno ad abitare insieme: una sorta di centro magneti-co capace di raccogliere pezzi di mondo esiliati da ogni parte. Di letterario, nel Nome della Rosa, c’era giusto la laccatura, l’atmo-sfera, il sapore di fondo: tutto il resto era una sorta di rave di sape-

ri e bellezze che si erano andati lì a incon-trare, per ragioni misteriose. Poteva esse-re una chicca da cattedratico brillante, e bon. Uno di quei libri che poi si tengono sul tavolo basso, per fare bella figura. Invece intuiva un mondo che era già il nuovo mo-do, sotto la pelle di quello vecchio: finì nelle tasche di tutto il pianeta, e ancora è lì, e da lì non ha nessuna intenzione di spostarsi.

Verrebbe da dire, dunque, che oggi quell’uomo si lascia dietro un vuoto enor-me. Ma in questo momento mi viene da ri-conoscergli la grandezza di aver lasciato, piuttosto, dietro di sé, una frontiera enor-me, una sorta di epico West da cui in tantis-simi, e ormai da tempo, liberiamo le no-stre più modeste scorribande. In un certo senso, siamo ancora lì a colonizzare terre di cui lui, insieme ad altri pochi visionari, aveva intuito l’esistenza. Non sembra un compito prossimo alla fine, quindi qualco-sa di quell’uomo continuerà a respirare in ogni colle che sapremo valicare, e in ogni terra da cui sapremo ottenere dei frutti. Sa-rà inevitabile, e giusto. Un omaggio lun-ghissimo che ci sarà delizioso riservargli.

L’addio.

Aveva capito che il cuore

del mondo è nomade,

frequenta qualsiasi bellezza

e può battere

anche dentro

a un cassonetto

I funerali

Ha chiuso gli occhi nel cuore della notte, circondato dai suoi cari, la moglie Renate, il figlio Stefano e la figlia Carlotta, che erano al suo capezzale da diverse ore, per l’aggravamento delle condizioni di salute (aveva un tumore). Umberto Eco, nato a Alessandria 84 anni fa, se n’è andato così, nella sua bella, grande casa-biblioteca affacciata sul Castello Sforzesco, dove la salma rimarrà fino a martedì pomeriggio

alle 15, quando verrà ricordato dalle autorità e dai cittadini con una cerimonia laica, come lui voleva. Nel giorno più lungo, sotto casa dello scrittore, molti i milanesi comuni arrivati anche solo per lasciare un fiore, un biglietto. Si fermano sotto le finestre chiuse al secondo piano con gli occhi lucidi, si raccontano fra di loro quando incontravano “il professore” nella vicina via Dante e in via Rovello, dove c’era la libreria antiquaria che Eco più amava.

Moglie e figlia escono tenendosi strette, con la faccia serena, sotto un sole quasi primaverile. Non si fermano a parlare con i cronisti, ma vanno al castello a fare un sopralluogo per decidere assieme al Comune dove tenere la cerimonia. Negli ultimi giorni Eco aveva voluto vedere i nipotini, a cui era legatissimo e che amava avere attorno, o accompagnare in giro alla scoperta della vecchia milano.

(Zita Dazzi)

Repubblica Nazionale 2016-02-21