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123 Intervista a Ricky Portera È stato il guitar hero di Dalla negli anni dei successi più grandi, nonché l’ispiratore – o almeno così si è sempre detto – del testo di Grande figlio di puttana. Ricky Porte- ra è un chitarrista che può dare dei punti a tutti e che vanta una personalità spiccata. Per questo, nella lunga amicizia con Dalla, non sono mancate le scintille. PAOLO GIOVANAZZI: Com’è che cominci a lavorare con Dalla? RICKY PORTERA: L’inizio è casuale. A quei tempi io avevo una band che avevo messo su per Renato Zero: molto rock, amata molto anche da Vasco Ros- si, tant’è vero che a quei tempi (nel ’75) facevamo le feste dell’allora Punto Radio. Eravamo sempre pre- senti perché eravamo una band molto dissacrante, una vera rock’n’roll band per quei tempi. Poi capitò che non andò bene con Renato, per vari motivi, e il mio ex batterista che allora lavorava con un’agenzia che conoscerai bene, quella di Bibi Ballandi, mi disse che Dalla cercava un chitarrista e di presentarmi in un locale vicino Modena che si chiamava Due Stelle, a Reggiolo. Io mi presentai là non sapendo neanche Lucio Dalla.indd 123 09/03/12 11.49

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Intervista a Ricky Portera

È stato il guitar hero di Dalla negli anni dei successi più grandi, nonché l’ispiratore – o almeno così si è sempre detto – del testo di Grande figlio di puttana. Ricky Porte-ra è un chitarrista che può dare dei punti a tutti e che vanta una personalità spiccata. Per questo, nella lunga amicizia con Dalla, non sono mancate le scintille.

Paolo giovanazzi: Com’è che cominci a lavorare con Dalla?

ricky portera: L’inizio è casuale. A quei tempi io avevo una band che avevo messo su per Renato Zero: molto rock, amata molto anche da Vasco Ros-si, tant’è vero che a quei tempi (nel ’75) facevamo le feste dell’allora Punto Radio. Eravamo sempre pre-senti perché eravamo una band molto dissacrante, una vera rock’n’roll band per quei tempi. Poi capitò che non andò bene con Renato, per vari motivi, e il mio ex batterista che allora lavorava con un’agenzia che conoscerai bene, quella di Bibi Ballandi, mi disse che Dalla cercava un chitarrista e di presentarmi in un locale vicino Modena che si chiamava Due Stelle, a Reggiolo. Io mi presentai là non sapendo neanche

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chi fosse Lucio Dalla, conoscevo un suo pezzo giusto perché lo suonava un gruppo al quale io ero molto af-fezionato da ragazzino, i Rokes [si riferisce a Bisogna saper perdere, portata da Dalla e dai Rokes al Festival di Sanremo del 1967, nda]. Ci fu quest’incontro, molto breve ma molto significativo: gli piacqui subito, an-che se vedeva che io in un certo senso lo snobbavo. Un po’ perché di persona, in automatico, appena lo vedevi ti metteva timore, ero a disagio, e poi effetti-vamente perché non lo conoscevo. E quando lui me lo chiese, fui sincero e glielo dissi: «Io non conosco nien-te di te». Contavo di stare con lui due o tre mesi. Quei tre mesi sono durati trentatré anni. Il giorno dopo – ricordo ancora, era un mercoledì – di pomeriggio ero a fare le prove a casa sua, lui con il pianoforte e io con la chitarra, e il venerdì eravamo a suonare al Teatro Uomo a Milano.

Di che anno stiamo parlando?

Era il 27 dicembre del 1977. Era appena uscito Com’è profondo il mare.

Stava prendendo velocità, diciamo… ma era ancora un cantautore alternativo.

Infatti, suonavo canzoni tipo Cucciolo Alfredo, can-zoni non tanto per la massa. A quei tempi avevo un pubblico particolare, i frikkettoni di allora. Erano cir-cuiti… Insomma, il Teatro Uomo era fatiscente, sul palco avevamo addirittura i secchi perché la neve che si scioglieva sul tetto cadeva poi sul palco. I secchi servivano a raccogliere l’acqua.

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Da musicista di estrazione rock, come sei tu, che effetto ti faceva un personaggio così? Che impressione ti ha fatto ascoltare le sue cose?

Io venivo dalle sale da ballo, ci ho suonato per tanti anni, quindi ero abituato a suonare qualsiasi cosa, e la vivevo in quel modo, come un turnista che sta facen-do il suo lavoro e prende dei soldi. Lavorando con lui cominciai a capire chi era Lucio Dalla. Quando lavori con un artista ne apprezzi i pregi e i difetti, cominci a entrare nel suo mondo. Io ho sempre avuto questa fortuna, la capacità di riuscire a entrare nel mondo degli altri e di farlo mio, per poter dare quello che di meglio c’era in me. Lucio Dalla mi ha sempre ricono-sciuto il fatto che lui ha cominciato a usare le chitarre in un certo modo da quando ha conosciuto me, per-ché c’è stato uno scambio: lui mi ha insegnato come entrare nel suo mondo e io gli ho insegnato come si potevano usare le chitarre nella sua musica.

A proposito di pregi e difetti dell’artista, parliamone. Quali sono?

Il difetto più grande di Dalla è che aveva sempre le sue sicurezze: «So tutto io, ho già capito tutto»… poi magari faceva delle cavolate. Poi fortunatamente se ne rendeva conto, ma non ti dava mai la soddisfazio-ne di darti ragione… Piano piano cambiava direzione e veniva dalla tua parte, dicendo che era la sua idea! E ti giravano le scatole in una maniera che non ti puoi immaginare. Gli dicevo: «Ma te l’ho detto due ore fa che era così!» Ma non te la dava mai vinta.

Un po’ l’istinto da capobranco.

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Assolutamente. È nell’ordine delle cose… Ecco, questo era un pregio-difetto, perché alla fine il sapersi mettere in discussione, anche senza ammetterlo aper-tamente, è comunque una grande prova di umiltà.

Veniamo al pregio…

Ti racconto un aneddoto molto breve: stavamo re-gistrando una canzone degli Stadio, si chiamava Sole domani, e dovevo fare un assolo. A quel tempo avevo tutte le mie manie di protagonismo, volevo far vede-re quanto fossi bravo e avevo affrontato la canzone in maniera abbastanza personale, cioè senza badare troppo a quello che era la canzone. Lui, che mi stava guidando in questa cosa, a un certo punto si è rotto e ha cominciato a dirmi: «Vedi che è morta tua madre, te l’hanno detto che è morta tua madre? Ti hanno av-visato?» e mi ha fatto venire un’angoscia, una paura tale che ho fatto un assolo incredibile. Se vai ad ascol-tare Sole domani capisci che c’è dentro della paura, il terrore di quello che mi stava dicendo. Lui mi ha in-segnato che quando suoni devi motivarti, devi avere un qualcosa di fronte a te, un quadretto, e suonare ispirandoti a quel quadretto. Questo era un grande pregio di Dalla: farti capire che le cose non vanno mai tirate via, ma vanno scavate in profondità.

Hai vissuto tutto il periodo dell’esplosione di Dalla in una posizione abbastanza privilegiata: eri lo strumentista più in vista, il guitar hero della situazione.

Sai, i chitarristi hanno sempre questo compito, sono più esposti.

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Sì, ma all’epoca eri calato nel ruolo in modo molto vistoso.

Perché “ero”? Ahahah!

Solo perché parliamo di quei tempi. Sei rimasto così, fon-damentalmente… Dalla ti spingeva in questa direzione?

Dipende dai casi. Spesso e volentieri veniva a chiedere aiuto quando sentiva che la serata in qual-che modo non aveva preso la svolta che voleva lui: mi veniva di fianco e diceva: «Ricky, slega». Cioè: fai delle cose per poter acchiappare il pubblico. In-vece delle volte la cosa lo infastidiva, come nell’81, quando sono tornato dal tour con Finardi, e mi fece processare. Ebbi una specie di processo in cui tut-ti, dagli Stadio fino all’ultimo dei nostri facchini, mi accusavano di rovinare il concerto di Lucio Dalla. Tutto perché lui voleva rimettermi in riga. Con Fi-nardi ho avuto un momento in cui suonavo la mia musica, il rock, quindi mi era scattato un meccani-smo di eccitazione e di entusiasmo. Insomma, lo avevano notato tutti, ero un pochino sopra le righe. E il giorno del processo, ricordo che piansi. Era un pomeriggio d’estate, a Trani, stavamo in un campo. Io ero in mezzo e tutti mi puntavano proprio l’indice accusatorio. Alla fine, dissi: «Ok, se è così – e intanto piangevo – trovatevi un altro chitarrista, io me ne vado». La sera si spensero le luci sul palco, doveva cominciare il concerto, gli Stadio salirono sul palco e stavo per salire anch’io insieme a loro: Dalla mi afferrò il braccio e mi disse: «No, le star entrano per ultime». Mi prese sottobraccio e ci presentammo al pubblico io e lui a braccetto, al buio con l’occhio di bue puntato. Insomma, ti voleva tenere in carreggia-

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ta perché lui non sopporta che qualcuno sul palco possa prendersi più attenzioni di lui, e questo ci sta, perché chi va sul palco è assolutamente una prima-donna. Poi però riusciva a farsi perdonare con questi gesti, che volevano dire: “Ti ho voluto educare, ma per me conti”. Una cosa del genere me la fece in Ca-nada, allo Spectrum di Montreal, un locale famoso a quei tempi: rock’n’roll da morire, ci aveva fatto il suo disco anche Billy Cobham. Ci trovammo in que-sto locale, sentivo il pubblico giù – erano in buona parte italiani – che cominciava a chiamare «Lucio, Lucio!» e a un certo punto si comincia a sentire an-che «Ricky, Ricky!» Per me era come se mi avesse-ro tirato addosso una vasca piena di miele, essere conosciuti anche là significava che qualcosa avevo dato anche a loro. Quindi quando sono uscito ero proprio un animale, avevo i denti draculini. Tra il primo e il secondo tempo, stavamo salendo la scala a chiocciola che ci portava ai camerini, Dalla disse: «Senti, mi stai rovinando il concerto, cerca di fare quello che devi fare, nulla di più». Ci rimasi malis-simo e il secondo tempo lo feci proprio da castrato, nel mio angolino. Feci quello che dovevo fare sen-za entusiasmo. Due, tre giorni dopo ci fu il concerto alla Berklee School di Boston, e lì invece non c’era un pubblico di italiani, ma di americani. Per le prime sette canzoni non ci fu un grande entusiasmo, una grande risposta da parte del pubblico. E lì successe quello che succedeva in questi casi: «Ricky, slega». Suonammo Chiedi chi erano i Beatles e alla fine face-vo un assolo allucinante. Io avevo il trasmettitore, quindi la chitarra non aveva il cavo, e un manager americano, Stewart Ravenhill – manager di Power Station, Bowie, Bryan Adams – mi si infilò con la te-

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sta tra le gambe, mi sollevò in aria e mi portò in giro in mezzo al pubblico… e quello fu il momento in cui il pubblico si alzò in piedi, quando noi cominciam-mo a fare un casino allucinante. Dalla aveva questa umiltà: quando non ce la faceva da solo, chiedeva aiuto. Non stava ad arrampicarsi sugli specchi. È un pregio, anche se c’è il difetto di non volere che chi ti sta a fianco possa per un attimo attirare l’attenzione. Ma così sono molti artisti.

Del periodo fine anni Settanta, primi Ottanta, c’è qual-che momento particolarmente alto che ti ricordi? Perché quelli sono stati anni davvero gloriosi per voi…

Quello è stato il momento di una svolta decisiva per la musica italiana. Abbiamo cominciato a fare i primi concerti negli stadi, io lo ricordo come un grande periodo fortunato per tutti. A volte insieme, a volte separati, ma dal ’79 al ’86 mi ricordo di aver fatto qualsiasi cosa. Subito dopo Banana Republic io e Pezzoli facemmo un tour con Loredana Berté, con il non tanto amico Francesco De Gregori, che tra le altre cose – una nota di biasimo – non ho visto al funerale di Dalla, è una cosa che mi dispiace molto. E poi Mo-randi, Ron, io feci un album con Venditti… ci fu un momento di gloria per tutti quanti, e si stava bene. Girava la musica, giravano i soldi, anche se non sono mai stati tanti per noi musicisti: però c’era questa va-lorizzazione che oggi non esiste più.

A proposito di Banana Republic, era potenzialmente una situazione da molti galli in un pollaio: Dalla, De Gre-gori, Ron che comunque aveva un ruolo importante anche se non era ancora famosissimo, e poi c’eravate voi Stadio.

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Non è stata un’operazione dal tipo “uniamo le for-ze”, Dalla non aveva bisogno di unire le forze, era già grande di suo. Qui è venuta fuori l’anima di Lucio, che ha voluto aiutare queste persone. Non dimenti-chiamo che il non amico Francesco era in un momen-to di crisi, non so se ricordi. Aveva subito il famoso processo proletario, non aveva più il coraggio di sa-lire sul palco. Lucio gli ha dato una grande mano in questo, mi dispiace che lui l’abbia dimenticato. Per-ché l’ha riportato sul palco di prepotenza, l’ha pro-tetto, gli ha dato fiducia. Lo stesso Ron stava nascen-do, e Lucio l’ha valorizzato tantissimo, gli ha dato un grande spazio. Non era tanto un “uniamo le forze”, quanto un “vi do una mano”, e questa è la grande anima di Lucio.

Perché rimarchi questo “non amico” a proposito di De Gregori?

Perché ricordo episodi che non mi sono piaciuti. Il primo è il modo in cui maltrattava la sua cagna. Sono un animalista e, insomma, in quel caso mi è cascato il mondo. Secondo, questo signore si è per-messo di chiamarci “schiavi”. Io non sono lo schiavo di nessuno. Io sono un artista che lavora sul palco con te, cerco di darti lustro, di lavorare bene per te ma non sono il tuo schiavo. Un personaggio che si professa di sinistra, dove la prima regola è “siamo tutti uguali”, e che ti chiama schiavo, mi dà fasti-dio. Poi ho assistito a scene come questa: un ultimo dell’anno ad Assisi vidi Lucio andargli incontro per fargli gli auguri e lui girarsi dall’altra parte e non allungargli la mano per dargli il buon anno. A me

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queste cose danno profondamente e fondamental-mente fastidio. E il fatto che non si sia presentato al funerale, proprio non mi è andato giù.

A un certo punto le strade si dividono. C’è un contra-sto o solo la voglia di fare strada da solo, la necessità di provare altro?

Il problema grosso è stato il mio rapporto con il le-ader degli Stadio, Curreri. Credo di essere stato molto rappresentativo per il gruppo e anche molto fastidio-so. Io non ho avuto un bel carattere nella vita, sono stato uno stronzetto megalomane, tutto quello che vuoi. Ero molto giovane e considerato uno dei mi-gliori chitarristi italiani, andavo a passeggio con una Ferrari… Insomma, permetti che un ragazzino possa montarsi un poco la testa. Però non mi sono mai ele-vato a capo di niente, mai considerato capo di qual-cosa. Gli Stadio, ma soprattutto lui, avevano invece questo timore. Quando c’è questo tipo di insicurezza, c’è chi cerca di mantenere il suo spazio con gli artifici. Devi dire ciò che non pensi perché non hai la forza e la potenza per poter controbattere. Siamo arrivati a un punto in cui noi eravamo Stadio già da cinque anni ma la gente ci considerava il gruppo di Dalla. Addirittura l’agenzia, che era la stessa, boicottava le nostre serate, dicendo che non avevamo concerti, che non ci chiamava nessuno, per farci fare invece i con-certi di Lucio a metà prezzo. Perché noi, chiaramente, lavorando da soli avevamo un prezzo, con Lucio ne guadagnavamo la metà. Giustamente: con lui erava-mo dei musicisti, da soli eravamo le star. Non ero solo io a pormi il problema, attenzione: molti di noi pensa-vano alla possibilità di allontanarsi da Lucio, di divi-

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derci. Non per contrasti o perché non ci piacesse stare con lui, ma per dare un senso a tutto il lavoro che ave-vamo fatto: due festival di Sanremo, quattro album, canzoni che ancora sono nella storia, era giusto che noi trovassimo una nostra strada. Siamo partiti come delle bombe e quando ci siamo trovati al cospetto di Lucio mi sono trovato con persone che dicevano: «No, no, mi va bene anche così». Ma come? Ma se fuori da questa porta eravamo agguerriti per trovare il nostro spazio? Mi sono sentito tradito, e questo ha fatto traboccare il vaso della mia pazienza. Io non ho lasciato Lucio, ho lasciato gli Stadio, il che ha avu-to come conseguenza lasciare anche lui, visto che gli Stadio erano la sua band. Ma, attenzione: l’anno dopo che sono uscito io, anche gli Stadio l’hanno mollato. Perché? L’ho capito dopo, quando sono cresciuto, al-lora ero molto talpa, avevo gli occhi semichiusi. Lucio manteneva un equilibrio nella band e qual era l’equi-librio? Che io non prendessi il predominio, che poi a me non è mai importato niente. Volevo delle cose che probabilmente avrebbero valorizzato gli Stadio, non pensavo a me, ma al gruppo. Invece Curreri cer-cava di mettersi davanti, guadagnarsi degli spazi. Mi ha fatto imbestialire. Una volta uscito io, anche loro hanno lasciato Dalla, perché a quel punto Curreri non correva più pericoli. Tant’è vero che adesso lui è il grande capo. Poi, intendiamoci, io e Gaetano ci siamo conosciuti che io avevo dodici anni e lui quattordi-ci: viveva a casa mia, mangiava da me, umanamente siamo rimasti amici. Professionalmente però non ho mai accettato il suo comportamento, inammissibile da parte di un uomo intelligente come lui. Ho visto momenti in cui Curreri, davanti a Dalla, sembrava un lombrico, e non mi stava bene. Ma questo soprattutto perché gli voglio bene.

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Con Dalla hai mantenuto i contatti?

Non ci siamo più visti. Per un periodo lui ha fatto altre scelte, ha preso altri chitarristi, giustamente, si è rifatto una band. Una sera io stavo suonando in un posto vicino ad Alessandria, avevo appena compra-to un cellulare, erano i primi tempi in cui uscivano. Ero in un posto dove non c’era campo, e quella sera avevo subìto uno smacco che mi aveva mortificato e intristito. Ho suonato in questo locale da solo e alla fine della serata stavo avvolgendo i miei cavi, e c’era un tipo che mi faceva delle foto dicendo: «Incredibile, Ricky Portera che si fa i cavi, con tutte le mani spor-che». Questa cosa mi aveva avvilito. Tornando a casa, dove il telefono riceveva il segnale, ho trovato un messaggio in segreteria. Diceva: «Sono Lucio, il tuo caro amico Lucio. Chiamami in studio appena puoi». Chiamai subito, erano le 2.30 di notte. Mi disse: «Io ti voglio subito con me a fare questo disco» era Canzoni, «poi faremo il tour insieme». Sono andato, abbiamo cominciato a fare il disco e lì è ricominciato il nostro rapporto. Ci siamo divertiti molto.

Ti ha spiegato perché proprio in quel momento ha sentito che dovevi esserci tu?

Sai, è come un allineamento dei pianeti. Se tu ci fai caso, e provi ad analizzare l’excursus di Dalla, vedrai che i dischi che hanno venduto sono sempre stati quelli in cui c’erano gli Stadio e in cui c’ero io. Andati via noi, ha avuto un periodo di calo. Per lui è stato un voler riallineare i pianeti, tant’è vero che ha preso tutti i vec-chi musicisti che hanno lavorato con lui quando le cose

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funzionavano. Ritornarono Malavasi, Biancani, Pezzo-li… Tieni conto che io per anni sono stato considerato un portafortuna. Per dire: ho fatto tanti dischi di Ron e in uno nel quale non collaboravo mi ha voluto per fare una sola chitarra, perché diceva che io porto fortuna. Magari agli altri, ma non a me stesso.

Be’, alla fine sei un musicista rispettato e apprezzato… Miravi a qualcosa di più, al successo solista?

No, credimi, sono troppo ingenuo. Non riesco a essere un bravo manager di me stesso. A me piace suonare, essere in mezzo a dove c’è musica, dove c’è il piacere di poterla fare, questo m’interessa. E poi ho un grande difetto, non sono un leccaculi, se non mi piaci, non mi piaci e non ti do confidenza. Ecco, nell’ultimo periodo con Dalla qualche problema c’è stato. Diciamo che l’arrivo di Marco Alemanno ha un po’ ribaltato il mondo di Dalla. Secondo me, Dalla ha dato un po’ troppo carta bianca a questo ragazzo, for-se perché aveva bisogno di scaricarsi dalle responsa-bilità. Comunque, questo ragazzo ha un po’ isolato Dalla, e Dalla era la classica persona del popolo che viveva osservando il popolo. Così faceva sue delle cose che vedeva fare ad altri. Poi Alemanno ha co-minciato a salire con noi sul palco. Io mi sono reso conto che davo fastidio, perché quando arrivava la presentazione di Iskra o di Ricky Portera, c’erano dei boati nei teatri. La legge dice chiaramente che l’ap-plauso sul palco deve essere uguale per tutti sennò… Comunque, sono stato isolato, buttato fuori quando cominciava il tour Dalla/De Gregori senza sapere niente. Nessuno mi ha mai detto niente, io non ho mai saputo niente da nessuno, compreso lo stesso Lucio,

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nessuno mi ha spiegato perché io non fossi in quel tour. Mesi dopo, ho mandato una mail molto cattiva a Lucio, non perché ce l’avessi con lui o perché ero stato mandato via ma per una questione di rispetto. Dopo trentatré anni, devi venirmi a dire: «Ricky, non ci sei». Non ho neanche il diritto di sapere che non la-vorerò più con te? Era una mail chilometrica, che non ti sto a raccontare per intero, e lui mi ha risposto con una mail molto carina che cominciava come comin-cia solitamente lui: «Caro amico mio, ma veramente amico mio». Mi ha spiegato che è stato costretto dalla produzione, dal budget basso, a dover rinunciare alla nostra collaborazione. E finiva così: «E comunque tu sarai il mio chitarrista anche in paradiso». Quindi, adesso io ci conto, sennò appena lo vedo gli sputo in faccia! Guai, se non mi riprende a suonare con lui!

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