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1 DIDATTICA DELLE LINGUE E DELLE LETTERATURE CLASSICHE Liceo Classico-scientifico “I. NEWTON” di Chivasso NOVA VERTENDI ITINERA LABORATORIO Competenza traduttiva Autori: A. Calzavara - S.Sabello

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DIDATTICA DELLE LINGUE E DELLE LETTERATURE CLASSICHE

Liceo Classico-scientifico “I. NEWTON” di Chivasso

NOVA VERTENDI ITINERA

LABORATORIO

Competenza traduttiva

Autori:

A. Calzavara - S.Sabello

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INDICE

Introduzione p. 3

1. I percorsi di lavoro p. 3

2. Un’ipotesi di lavoro su un passo virgiliano (Aen, II, vv.707-720)

2.1 Analisi del testo p. 5

2.2 Approfondimenti p. 11

3. Tempo e memoria

3.1 SENECA, Il valore del tempo, Ad Luc, 49 p. 17

4. Istinto e intelligenza di fronte alla morte 4.1. SENECA, Il compianto deve essere conforme alla natura, Ad

Marciam, VI p. 19

5. Un compianto, un rimpianto, un uomo

5.1. TACITO, Considerazioni di Tacito sulla morte del suocero, Agricola,

43 p. 20

5.2. Il ritratto di Agricola: versione e confronto p. 23

6. La favola insegna… 6.1. FEDRO, Favole, Lupus et agnus e varianti p. 25

6.2.Varianti a partire dalle traduzioni contrastive p.29

7. Considerazioni conclusive p. 32

BIBLIOGRAFIA p. 32 SITOGRAFIA p. 32

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INTRODUZIONE  

Dopo il gratificante esperimento condotto lo scorso anno, abbiamo deciso di cimentarci nuovamente

in una ricerca-azione, mirata a una riflessione sulla competenza traduttiva. L’esperienza maturata

nel corso del triennio ci ha convinti della necessità di superare lo sterile solco tra apprendimento

grammaticale e lettura consapevole dei testi d’autore: «Tradurre non per travasare, più o meno

goffamente, un enunciato da una lingua a un’altra, ma tradurre per comprendere fino in fondo ciò

che sta dietro i singoli enunciati che si hanno sotto gli occhi.1»

1. I PERCORSI DI LAVORO

4B Liceo Classico

Il lavoro prevede la traduzione e l’analisi di un passo tratto dal Libro II dell’Eneide virgiliana, che

ci è parso particolarmente significativo poiché riporta in pochi versi un valore fondamentale della

cultura romana: la pietas verso i genitori e verso gli dei.

Il percorso è composto da due macrosezioni: analisi con commento e approfondimenti

intersemiotici, di carattere artistico-letterario.

Dal punto di vista grammaticale, il brano è stato analizzato accuratamente a fine di far emergere

tutte le possibile sfumature semantiche e di sottolinearne il carattere fortemente icastico.

La traduzione del brano è stata effettuata dapprima in una versione “di lavoro”, estremamente

letterale e ancora ferma alla superficie semantica del testo; successivamente, abbiamo sviluppato la

nostra idea di traduzione, basata sul rispetto, ove possibile, della struttura del periodo e della sua

tessitura, nonché dei valori espressi, ma attenta anche alle esigenze della lingua d’arrivo. Infine, si

sono poste a confronto due traduzioni “d’autore”, una più classica, l’altra più recente, al fine di

coglierne differenze e affinità anche rispetto alla nostra ipotesi.

Poiché abbiamo cercato di immaginare il nostro lavoro come un ipotetico, ma plausibile, contributo

alla sezione antologica di un manuale scolastico, abbiamo formulato domande di comprensione del

testo e di raccordo con altre possibili chiavi di lettura. Proprio per questo abbiamo aggiunto una

rubrica di approfondimenti, a proposito dei quali abbiamo pensato a collegamenti con la mitologia

ma abbiamo anche individuato rapporti a nostro giudizio suggestivi con l’arte e la letteratura

moderne e contemporanee.

                                                                                                                         1 Bettini M. (2017), A che servono i Greci e i Romani? Torino Einaudi

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Abbiamo scelto questa modalità di lavoro in quanto è la stessa di cui ci serviamo abitualmente

quando ci troviamo di fronte ad un testo latino ed è anche quella che – secondo noi – permette allo

studente di entrare davvero nel testo e di esercitare le sue competenze traduttive in un modo allo

stesso tempo ampio e profondo.

Lavorare in gruppo, infine, ha costituito ancora una volta per noi l’occasione di confrontarci, di non

dare mai nulla per acquisito, di imparare ad abbandonare le nostre convinzioni quando necessario

come pure di persuadere della bontà delle nostre ipotesi in altre circostanze.

5B Liceo Classico

Alla luce della necessità di cimentarci in una prova d’Esame di Stato che preveda la resa precisa,

consapevole, elegante e coesa di un passo d’autore ad alto grado di complessità stilistica, abbiamo

privilegiato l’analisi di pochi passi di particolare pregnanza di significato e tali da consentire uno

sviluppo interdisciplinare. A fronte di singoli sforzi personali di cimento critico con l’autore, ci è

sembrato più efficace un lavoro di gruppo che mirasse a sviluppare un breve percorso tra analisi

formale e commento contenutistico, volto ad una traduzione di qualità dei passi in oggetto, tratti

dalle Epistulae morales ad Lucilium e dal De brevitate vitae di Seneca, con il supporto di schede-

guida e con l’integrazione di materiali extra-scolastici, quali ad esempio l’analisi del passo dalla

Consolatio ad Marciam, VII, suggerita del prof. L. Serianni ad un recente convegno torinese, e

dall’Agricola di Tacito.

Abbiamo scelto di strutturare il nostro progetto cercando di fornire dei modelli cui ogni studente

dovrebbe aderire consapevolmente, qualora si trovi di fronte ad un testo di altra lingua su cui

effettuare un lavoro di traduzione.

Nel corso del lavoro, abbiamo seguito e sostenuto il contemporaneo esperimento dei ragazzi di 2B

della sezione classica, di cui siamo stati tutor lo scorso anno: per loro si è trattato soprattutto di

seguire l’ineguagliato esperimento di lettura interpretativa delle favole di Fedro suggerito dal

manuale Est modus curato tra gli altri da G. Sega negli ormai lontani, ma profetici primi anni 2000,

per i tipi de La Nuova Italia. I nostri giovani compagni si sono dilettati nel confronto tra le redazioni

di un archetipo e ne hanno fornito una libera traduzione in uno scanzonato rap!

             

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2. UN’IPOTESI DI LAVORO SU UN PASSO VIRGILIANO (A, II, vv.707-720)

2.1. ANALISI DEL TESTO

Contestualizzazione L’opera capolavoro di Virgilio, l’Eneide, narra le vicende dell’eroe padre della romanità, Enea, che,

fuggito dalla città di Troia in fiamme e rifugiatosi alla corte della regina Didone, ripercorre le

proprie disavventure fino al momento dell’approdo a Cartagine, prima di ripartire verso la meta

fatale. Il racconto occupa il II e III libro dell’opera ed è nel primo dei due che Enea si trova ancora

a Troia, assediata dai Danai, cercando di fuggire insieme al padre Anchise, il figlio Iulo, i servi e la

moglie Creusa.

 

Il testo

'Ergo age, care pater, cervici imponere nostrae;

ipse subibo umeris nec me labor iste gravabit;

quo res cumque cadent, unum et commune periclum,

una salus ambobus erit. Mihi parvus Iulus

sit comes, et longe servet vestigia coniunx.

Vos, famuli, quae dicam animis advertite vestris.

Est urbe egressis tumulus templumque vetustum

desertae Cereris, iuxtaque antiqua cupressus

religione patrum multos servata per annos

hanc ex diverso sedem veniemus in unam.

Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis;

me bello e tanto digressum et caede recenti

attrectare nefas, donec me flumine vivo

abluero.'

I termini che definiscono la posizione di Enea rispetto ad Anchise rivelano la pietas dell’eroe, che rispetta il padre e gli si sottomette naturalmente

Le espressioni che sottolineano l’unità rivelano il carattere collettivo del cammino di Enea

Notevole la trama semantica riferita al sacro

Il campo semantico del tempo e della tradizione è funzionale al messaggio centrale del passo

La familia di Enea vede al primo posto il padre, affettivamente connotato, poi il figlioletto (parvus), infine – e a distanza – Creusa e i famuli (in questo caso, compagni d’arme)

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Apparato di note 707: il breve inciso è inizio del discorso di Enea, il quale incita il padre ad affrettarsi per evitare di

soccombere all’ira dei Danai. L’intera costruzione della frase è volta a far trasparire al meglio la

drammaticità del momento: l’imperativo age rende, infatti, la fugacità dell’istante, mentre il

vocativo care pater lascia trasparire il sentimento di pietas che caratterizza Enea anche nei momenti

più critici. Da un punto di vista fonetico, particolarmente significativa è l’allitterazione della lettera

r.

708: è qui ribadito il concetto del verso precedente ma questa volta con maggiore decisione, così da

dimostrare ancora una volta la grande fedeltà di Enea verso i mores maiorum; la sua azione è

definita labor (“fatica”),mentre l’idea del peso del padre è implicita nel verbo gravare, il che rende

ancor più ammirevole l’impresa dell’eroe.

709-710:Quo res cumque è tmesi per quocumque res, mentre è sottinteso modo. Periclum è forma

sincopata per periculum. Virgilio chiude epigraficamente la prima parte del discorso, rivolta al

padre, con il primo emistichio del verso 710. Subito dopo, infatti, l’eroe si rivolge al figlio Ascanio,

che viene chiamato, come spesso accade nell’Eneide, Iulo, al fine di rievocare la progenie romana

(Ottaviano appartiene alla gens Iulia). Particolare rilevanza assume anche l’aggettivo che connota il

figlio, parvus (piccolo), ponendolo in netto contrasto tanto con il padre quanto con il nonno.

711:coniunx è la moglie di Enea, Creusa. L’ordine in cui i componenti della famiglia sono

presentati è emblema della cultura romana in cui gli avi hanno la massima reverenza e le donne

ricoprono il ruolo meno importante, ritenute utili semplicemente perché necessarie nella

riproduzione e fondamentali nell’educazione della prole.

712:famuli sono i membri della famiglia romana che comprendeva anche i servi. Il pronome

relativo quae è in realtà parte di una più complessa locuzione, ea quae. L’espressione animis vestris

è, invece, un ablativo di mezzo posto in iperbato.

713-714: Inizia qui una nuova parte del discorso di Enea dove l’eroe strategicamente individua e

indica ai familiari quale debba essere il punto di incontro, ritenendo rischioso allontanarsi tutti

insieme. Egressis è dativo di relazione (la traduzione letterale è “per chi è uscito”). A cavallo fra i

due versi è presente, poi, un’enallage per cui l’aggettivo desertae è concordato con Cereris e non

con templum, come sarebbe certamente più logico: l’uso della figura retorica è ben studiato, volto a

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sottolineare l’impotenza di Cerere (deserta, dunque abbandonata), dea della terra e della fertilità, di

fronte all’orribile condizione della guerra. Particolarmente rilevante è, poi, l’allitterazione della

lettera t che dà ritmo ai versi.

715: il verbo servare, dai molteplici significati, è qui da intendersi nel significato di “prendersene

cura”. L’aggettivo multos è separato da un iperbato al sostantivo a cui è correlato, annos.

716: l’espressione ex diverso sottintende il sostantivo itinere. I termini sedem, unam e hanc sono in

realtà disposti in iperbato e anastrofe: il posizionamento non è casuale, sono infatti queste le parole

su cui cadono gli accenti che definiscono maggiormente il ritmo con cui il verso deve esser letto.

717: la costruzione del verso è in realtà specchio di quella del verso 707; Enea, infatti, dopo essersi

rivolto a tutti i propri familiari, ritorna ora a parlare solamente con il padre Anchise: è presente

nuovamente l’invocazione al padre(qui definito genitor) e il verbo è sempre coniugato in modo

imperativo, nonostante il tono sia, come in tutto il discorso, affettivo. Sacra patriosque penatis è

ovviamente un’endiadi in cui è sottinteso il termine signa. Penatis è desinenza arcaica del più

classico penates. I Penati sono le divinità romane protettrici del focolare domestico: qui Enea affida

le loro immagini sacre alle mani del padre poiché le proprie sono sporche di sangue. Il ritmo del

verso è cadenzato dall’allitterazione della lettera p.

718-720: ora Enea decide di spiegare la ragione per cui affida le sacre immagini dei Penati al padre.

Il verbo della proposizione principale è est ed è sottinteso, esso regge il sostantivo nefas che indica

il sacrilegio o l’empietà sul piano religioso, il termine è significativo dell’importanza data dai

Romani ai propri protettori. Degna di nota è, poi, l’anastrofe di bello e tanto per e tanto bello.

Il verso 720, costituito in realtà da un solo termine, è uno dei 58 tibicines (“puntelli”) che sono

presenti in tutta l’opera, e ne testimoniano l’incompiutezza.

Commento

Il brano si apre con l'esortazione di Enea rivolta al padre Anchise di montare sulle sue spalle per

fuggire insieme da Troia, ormai conquistata; significativa è la vocazione affettiva utilizzata da Enea,

ovvero care pater (v. 707), che indica che l'eroe si sta facendo carico di un dolce peso, in quanto la

figura paterna è simbolo di tutta la tradizione che egli trarrà in salvo dalla distruzione della sua

patria.

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Contrapposto alla tradizione troviamo nel secondo verso, in posizione incipitaria, ipse (v.708), da

cui si evince che Enea non rinuncia alla salvezza della storia del suo popolo, bensì se ne fa carico

riconoscendone la superiorità: a sottolinearlo, il verbo subibo (v. 708).

Successivamente, l'eroe troiano sostiene che, qualunque cosa accada, unico e comune sarà il

pericolo e una sola la salvezza per tutti; ciò è messo in risalto dal poliptoto "unum...una" (vv. 709-

710), assai significativo, in quanto in latino è particolarmente enfatico l'utilizzo di questo attributo.

Tuttavia, il suo compito non è limitato a salvare la tradizione: è necessario assicurare una

discendenza e, perciò, un futuro al suo popolo. Per questo al suo fianco porta con sé il giovane

figlio Iulo, il cui importante ruolo è reso manifesto dal fatto di essere posto in clausola di verso,

posizione molto rilevante.

Compare sullo sfondo anche la moglie Creusa, che riveste un ruolo assai marginale - non viene

infatti accompagnata da alcun attributo, a differenza del care pater e del parvus Iulus -, alla quale

viene concesso esclusivamente di seguirli da lontano. Connotarla in questo modo non è casuale, in

quanto sembra preannunciarne la prossima scomparsa: non è compresa nel futuro destino dell'eroe,

perché ha ormai assolto il proprio compito di madre, assicurando un futuro al proprio popolo e alla

propria stirpe.

Enea si rivolge poi ai famuli, parola che letteralmente si riferisce all'insieme dei servi di una

famiglia, ma che qui assume il significato dei suoi compagni e soldati. A questi descrive il luogo in

cui tutti si dovranno recare per cammini diversi ("ex diverso", v. 716), ovvero un antico tempio di

Cerere abbandonato; in latino, in realtà, troviamo "desertae Cereris" (v. 714), ovvero è la divinità

stessa a essere stata dimenticata, anche se con un'ipallage possiamo riferire l'attributo al tempio.

Inoltre, ritroviamo nuovamente una (v. 716), sempre per sottolineare come unico sia il destino del

popolo.

Accanto al tempio vi è un vecchio cipresso, "servata per multos annos religione patrum”:

particolarmente efficace è il verbo servare, perché esprime la cura impiegata per conservare questa

pianta, e il forte iperbato "multos... per annos" (vv. 715-716).

Infine, Enea si rivolge nuovamente al padre Anchise, invitandolo a reggere le sacre immagini dei

padri penati perché lui, reduce da tante battaglie e stragi recenti, ha ormai reso impure le proprie

mani; è necessario che, prima che gli sia nuovamente lecito toccarle, si sottoponga a un rituale di

purificazione, ovvero l'immersione nelle acque di un fiume. Da notarsi l'impiego di nefas (v. 719),

che conferisce un'ulteriore connotazione sacra al discorso dell'eroe.

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Confronto fra traduzioni

TRADUZIONE DI ROSA CALZECCHI

ONESTI

TRADUZIONE DI MARTINO MENGHI

Presto, padre mio, dunque: sali sulle mie spalle,

io voglio portarti, né questa sarà fatica per me.

Comunque vadan le cose, insieme un solo

pericolo,

una sola salvezza avrem l’uno e l’altro. Il

piccolo Iulo

mi venga dietro, discosta segua i miei passi la

sposa.

Voi, servi, a quello che dico fate bene

attenzione:

c’è, appena fuori città, un’altura e un tempio

vetusto

di Cerere abbandonato, lì accanto un cipresso

vecchissimo,

dal culto dei padri per anni e anni serbato:

qui per strade diverse verremo, a quest’unica

meta.

Tu, padre, prendi gli arredi sacri, i patri Penati:

io, appena uscito da tanto massacro di guerra,

non posso toccarli, fin che l’acqua viva di un

fiume

non m’abbia mondato

Affrettati, padre, a metterti sulle mie spalle:

con queste ti sosterrò, e tale fatica non mi sarà

di peso.

Comunque andranno le cose, unico e comune

sarà il pericolo,

o una sola la salvezza per entrambi. Mi stia

appresso

il piccolo Iulo e a qualche passo mi segua mia

moglie.

E voi, gente mia, tenete bene a mente ciò che vi

dico.

Uscendo dalla città c’è un’altura e un antico

tempio

di Cerere abbandonato, e accanto un vecchio

cipresso,

venerato per molti anni dal culto dei padri:

per cammini diversi giungeremo tutti in quello

stesso luogo.

Tu, padre, reggi nelle tue mani le immagini

sacre dei padri penati:

a me, reduce da tante battaglie e da stragi

recenti,

non è lecito toccarli, finché non mi sia lavato

nella

corrente di un fiume

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Il confronto, condotto attraverso gruppi di lavoro e poi confluito in una discussione comune, ha

messo in evidenza le differenze tra una traduzione “tecnica” – quale nonostante tutto restava la

nostra, viziata dal traduttese scolastico pur se purificata da un labor limae talvolta doloroso (per la

difficoltà dello studente di abbandonare le strade certe…) – ed una “esegetica”, ma ha permesso

pure di sottolineare diversi punti di vista: i famuli saranno stati i “servi” o la “gente”, il popolo, di

Enea? Serbare e venerare sono sinonimi? E via di questo passo.

Questionario Comprensione del testo

1) Al verso 713 compare l’espressione “urbe egressis”:di quale costrutto si tratta? Traducilo in

modo letterale e proponi una traduzione più libera che renda più chiara l’espressione in lingua

italiana.

2) Esamina e traduci la proposizione “quo res cumque cadent”(vv.709).

3)All’inizio del verso 714 è presente una figura retorica: quale? Dopo averla individuata spiegane il

funzionamento e lo scopo espressivo del suo utilizzo.

4) Nel testo è presente la parola “nefas” (vv.719): riportane il significato in italiano e poi analizza

quale valore potesse avere per un lettore dell’antica Roma un vocabolo come questo.

Approfondimenti

5)Pur facendo formalmente riferimento ad un’ambientazione greca, Virgilio decide di descrivere i

valori e le caratteristiche di una familia romana: pertanto gran parte della narrazione è concentrata

su Anchise, guida ed esempio morale per tutti gli altri appartenenti al nucleo familiare, mentre viene

data una rilevanza minima alla “matrona” Creusa. Scegli uno dei due personaggi sopracitati e scrivi

un breve testo a riguardo, sviluppando un’ampia riflessione sulla società romana dell’epoca.

Scrittura creativa

6) Riscrivi l’intero episodio dal punto di vista di Creusa, moglie di Enea.

 

 

 

 

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2.2. APPROFONDIMENTI Un Anchise del Novecento?

Il sentimento che lega Enea all’anziano Anchise è senz’altro il rispetto. Lo avvertiamo nel gesto di

Enea di caricarsi in spalle il padre e lo avvertiamo nel modo che ha di dirgli che non gli sarà

minimamente di peso. L’attenzione di Enea è sempre ben focalizzata sul padre dal momento in cui

lo prende in spalle, apostrofandolo come “ care pater”, fino all’arrivo nel luogo di incontro

stabilito. Un rapporto padre-figlio senz’altro più controverso e logorante è quello tra Franz Kafka e

suo padre Hermann. Kafka ce ne fornisce un quadro ben dettagliato nella lettera che scrisse ormai

all’età di 36 anni e che non fu mai spedita. Franz ci racconta di un padre risoluto, forte ed energico e

di sé stesso, un figlio senz’altro insicuro che si nasconde, si rintana nelle cose che scrive. Di sé

stesso il giovane Kafka racconta semplicemente che non è il figlio che suo padre avrebbe voluto.

Nonostante la sua condizione di uomo adulto, la presenza del padre ed il rapporto problematico che

ha con lui è ancora ben vivo e pressante nella sua testa: fra i due si apre una distanza abissale che

strazia lo scrittore e lo annienta nella rete generata dalla paura.

Creusa vs Euridice

Siamo nel II libro dell’Eneide: Troia è in fiamme ed Enea sta fuggendo con la sua gente. In questo

frangente, il personaggio di Creusa e il suo rapporto con il pius Enea ci spingono a porci qualche

interrogativo.

Enea ha il padre Anchise caricato sulle spalle, al suo fianco ha il suo bambino Ascanio e dietro, a

qualche passo di distanza, ,la sposa Creusa, come nel mito di Orfeo ed Euridice. Ma se Orfeo dovrà

procedere verso la luce del Sole con Euridice alle spalle senza però voltarsi a guardarla (e lo farà,

ormai proprio sulla soglia, perdendola per sempre una seconda volta), qui Enea non si volterà mai a

guardare la sposa, rendendosi conto della sua assenza solo una volta giunto nel luogo di ritrovo con

la sua gente.

Enea dovrà quindi tornare indietro a cercare sua moglie, sperando di trovarla ancora viva. Ritorna

sui suoi passi a Troia dove poco tempo prima vigevano il caos, grida, pianti, lamenti, scene di

sangue e di violenza e che ora invece è deserta, avvolta completamente nel silenzio. Enea la cerca in

ogni angolo, in ogni casa, in ogni luogo, e proprio quando i suoi occhi ormai pieni di lacrime fino

all’orlo cedono ed iniziano a rigargli inesorabilmente le guance, ecco che gli appare la moglie

Creusa che sorride dolcemente e lo esorta a proseguire il suo fatale cammino.

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Giorgio Caproni, Il passaggio di Enea

1.

Didascalia

Fu in una casa rossa: la Casa Cantoniera.

Mi ci trovai una sera di tenebra, e pareva scossa

la mente da un transitare continuo, come il mare.

Sentivo foglie secche, nel buio, scricchiolare.

Attraversando le stecche delle persiane, del mare

avevano la luminescenza scheletri di luci, rare.

Erano lampi erranti d’ammotorati viandanti.

Frusciavano in me l’idea che fosse il passaggio d’Enea.

1954

Caproni nel corso degli anni, a partire dal 1948, fornisce più interpretazioni di questa sua opera

profonda e allegorica. Riprende la scena in cui l’eroe Enea si carica il padre , simbolo di un passato

che sta per crollare, sulle spalle e tiene per mano suo figlio che rappresenta il futuro non in grado di

reggersi ritto

(“Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo

ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto”).

Dal fatto che sottolinea questa prospettiva della scena riguardante Enea si capisce, anche secondo la

sua prima interpretazione, che Caproni è interessato alla solitudine dell’eroe che è in questo

momento figlio e padre quando non è ancora non è pronto ad esserlo, posto al centro dell’azione, la

guerra, nel momento della sua maggiore solitudine.

Più tardi, nel 1956, Caproni fornisce una seconda chiave di lettura ovvero suggerisce che in realtà la

descrizione del personaggio è anche la descrizione dell’autore stesso che si ritrova in un momento

della sua vita vedovo e orfano proprio come Enea, abbandonato nella solitudine. Sempre nello

stesso anno suggerisce un senso generazionale alla sua opera e circa vent’anni dopo modernizza le

interpretazioni precedenti. Dice infatti che Enea non è altro che l’uomo di oggi, il povero uomo.

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Costruisce, partendo da questa sua interpretazione, nel 1988 un confronto con la figura di Ulisse che

dopo il suo viaggio torna a casa e ritrova la moglie e la sua patria mentre Enea lo ritroviamo senza

patria, orfano, vedevo e simbolo universale dell’esule. In quest’ultima sua interpretazione infatti

definisce questo il mito dell’esule.

Somnium Scipionis, Io non ho paura: due padri nettamente diversi

Il Somnium Scipionis non è altro che la conclusione del sesto e ultimo libro del De re

publica di Cicerone, un dialogo filosofico composto dal celebre oratore tra il 54 (per alcuni 55) e il

51 a.C. e che ha per tema le forme possibili di governo di uno stato (monarchia, aristocrazia e

democrazia). Il Somnium Scipionis, descrivendo il sogno di un viaggio ultraterreno da parte di

Scipione l’Emiliano, presenta la figura ideale del princeps che rispetta e tutela le istituzioni

repubblicane di Roma e si impegna per il bene supremo della patria. In questo viaggio viene

accompagnato dal suo avo, Scipione l'Africano, che funge da guida attraverso l'universo in sé (si

ricordi la descrizione dei ''cerchi'' cosmici, dove orbitano i pianeti) e attraverso i Mores che erano le

rappresentazioni delle virtù che avrebbero segnato la vita dell'Emiliano. Alla profezia della morte

giovane dell'Emiliano, Scipione l'Africano è accompagnato da Lucio Emilio Paolo, padre naturale

dell'Emiliano, cui è pure assegnato il compito di descrivere il destino delle anime dopo la morte: a

quelli che in vita sono stati buoni governanti è destinato un posto nella Via Lattea, dove possono

godere la felicità eterna. Solo questa, per l’Africano, è la vera vita, mentre quella che noi

chiamiamo vita è in realtà una condizione decisamente inferiore, paragonabile alla morte. Ma non

si può arrivare a questa meta prima del tempo attraverso il suicidio, come teorizzato dagli stoici,

perché la vita è un dovere impostoci dalla divinità, che ci ha affidato il compito di badare al mondo

terreno. In questo frangente dunque il padre e il nonno, figure nell'immaginario del figlio

solidissime e autorevoli, assumono ancora più peso, poiché sono assunte quali profeti del futuro del

figlio stesso e come guide verso il ''paradiso'' indicato da Cicerone, ovvero uno spazio celeste dove i

virtuosi sono ricompensati. Il topos della profezia si ritrova anche nell'Eneide, dove Enea, disceso

nell'Ade, incontra il padre Anchise (morto poco prima) che gli profetizza la grandezza di Roma.

Dunque si delinea un ritratto del padre, nell'antichità, molto preciso: il padre è guida, esempio

(''pater optimus'' definisce l'Emiliano Lucio Emilio Paolo) per il figlio, che deve onorarlo (come

Enea onorò fino all'ultimo Anchise, sorreggendolo sulle spalle fuggendo da Ilio in fiamme) e

seguirne le indicazioni per vivere la vita secondo virtù.

Di tutt'altra matrice è il padre di Michele, il protagonista del romanzo Io non ho paura di Niccolò

Ammaniti. Siamo nel pieno degli anni di piombo (1978), anni in cui spesso i giovani si separavano

dalla famiglia in segno di una simbolica ''secessione'' dai sostegni e dai vincoli, per abbracciare

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correnti politiche e ideologie. Michele, che però ha solo 9 anni, vede nel padre un concentrato di

forza e un esempio di virilità da perseguire (''si na femminuccia'' dice scherzando dopo aver battuto

Michele a braccio di ferro). Quest'uomo però, che ama scherzare col figlio, nasconde un terribile

segreto: è un pericoloso criminale, capace di rapire un bambino, e persino cercare di ucciderlo,

senza però riuscirvi. Nel finale si ha un parallelismo per così dire ''chiastico'': Michele, infatti,

saputo che i ''grandi'' volevano uccidere il bambino, corre alla gravina dove era custodito per

liberarlo. Qui, sopraggiunti il padre e i complici, viene ferito dal padre stesso con un colpo di

pistola. Il padre, arrendendosi, carica Michele sanguinante sulle spalle, similmente a Enea con

Anchise. Questo forte contrasto suggerisce che i ruoli si sono simbolicamente invertiti: un padre

corrotto e criminale, capace di atti terribili, viene redento dal figlioletto di nove anni, che, malgrado

la sua giovane età, tradisce un ben più grande senso del dovere e della giustizia (del tutto

assimilabili alle virtù che l'Emiliano deve seguire e alla pietas che caratterizza Enea lungo tutto il

viaggio). Dunque si desume un cambiamento radicale nei ruoli, almeno in questi tre casi;

nell'Eneide e nel Somnium Scipionis il padre è la guida, in Io non ho paura è il figlio che, essendo

sensibilmente più responsabile e ''adulto'', guida simbolicamente il padre nel finale, quando si

arrende alle forze dell'ordine.

5. La familia di Enea nell’Arte

“Ergo age, care pater, cervici imponere nostrae; ipse subibo umeris nec me labor iste gravabit;

quo res cumque cadent unum et commune periclum, una salus ambobus erit. Mihi parvus Iulus

sit comes, et longe servet vestigia coniunx” Aeneis II vv. 707-711

In questi versi cruciali del secondo libro dell’Eneide, Virgilio tratteggia in modo efficace e

immediato le due fondamentali declinazioni che la pietas assume nei confronti dei legami familiari

nel valoroso eroe romano che Enea incarna.

In primo luogo è enfatizzata l’unione salvifica che intercorre tra l’anziano Anchise, che Enea porta

in spalle, e l’eroe stesso; successivamente Virgilio si concentra invece sulla vicinanza del piccolo

Ascanio ai suoi due parenti, simboleggiando la discendenza diretta dei valori che essi personificano.

Alla moglie Creusa è invece riservato

un ruolo marginale, in quanto, come da

decisione divina, a Enea spetta un

nuovo matrimonio per fondare la

Bernini G.L., Enea, Anchise e Ascanio, (1619), Galleria Borghese, Roma

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nuova città.

Può risultare interessante approfondire gli echi di tale episodio in vari ambiti artistici, soprattutto

nell’arte scultorea e figurativa che maggiormente trae ispirazione dai miti classici.

Bernini in questo gruppo scultoreo riprende l’episodio virgiliano caricandolo però di un’originale e

nuova connotazione psicologica dei personaggi. Infatti, il viso del padre Anchise, come anche

quello del figlioletto Ascanio, è pregno di preoccupazione per la patria abbandonata e distrutta, ma

anche ricco di speranza poiché entrambi sono consapevoli che gli dei riservano loro un futuro più

prospero. Enea invece rappresenta il vigore e la determinazione della gioventù, in contrapposizione

con la saggia calma della vecchiaia, due presupposti fondamentali per la fondazione di una città

salda e giusta.

In quest’opera marmorea inoltre Bernini esibisce la sua sopraffina abilità di scultore, rendendo

diversamente pelle, corporatura ed espressione adattandoli ad ogni personaggio, per rappresentare al

meglio le differenti età delle tre generazioni.

 

Questo dettaglio fa parte di un imponente affresco di

Raffaello, e costituisce una esplicita citazione

dell’episodio virgiliano, collocata in abisso. Infatti

non rappresenta una scena della narrazione

principale, ma esprime l’intenzione dell’autore di

richiamare i principi romani profondamente legati

alla tradizione familiare che questi personaggi

incarnano. Questo affresco è infatti situato nella

Stanza di Eliodoro dei Musei Vaticani, un tempo

dimora privata del Papa, simbolo della magnificenza

e della potenza dell’Urbe.

Raffaello, Incendio di Borgo, particolare, (1514), Musei Vaticani, Città del Vaticano

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Quest’opera si presenta molto fedele alla narrazione virgiliana sia per

quanto riguarda i personaggi rappresentati, sia per l’ambientazione.

La famiglia di Enea sta fuggendo quindi da Troia in fiamme sullo

sfondo: la moglie Creusa, destinata a essere lasciata indietro in questa

fuga, procede faticosamente dietro al protagonista della vicenda, Enea, vestito da guerriero, che con

forza e accesa

determinazione porta sulle

spalle il peso del padre

Anchise.

Barocci rappresenta questo

gruppo di personaggi senza

concentrarsi sulla loro

corporeità e umanità, ma

piuttosto sulla loro dinamicità

e forza nel fuggire

velocemente dal terribile

incendio. I corpi sono coperti

dunque da leggere e colorate stoffe che si alzano per il movimento e creano un forte contrasto con

l’ambientazione oscura in cui si stagliano, illuminati dal fuoco che sta distruggendo la loro patria.

Questo dipinto raffigura non la vera e propria fuga da

Troia, ma gli attimi che la precedono, in una

composizione unitaria che lega strettamente tutti i

personaggi attraverso un contatto fisico e visivo. Creusa

consegna ad Anchise le statue dei Lari, simbolo degli

antenati e fondamento della famiglia. Enea sta

accogliendo il padre sulle sue spalle, rivolgendogli la

sua attenzione con lo sguardo e con gesti premurosi.

L’elemento più innovativo è l’atteggiamento del piccolo

Ascanio che, volgendo lo sguardo all’eroico padre, gli

indica con la mano la via da seguire, concludendo la catena compositiva che lega i personaggi e

attribuendole allo stesso tempo una precisa direzione, che condurrà al destino di Enea e dei suoi

Barocci F., Fuga di Enea, (1598), Galleria Borghese, Roma

Spada L., , Enea e Anchise, (1615), Louvre, Parigi

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successori.

3. TEMPO E MEMORIA

3.1. SENECA, Il valore del tempo, Ep. Morales ad Lucilium, 49

Testo in latino: Modo amisisse te videor; quid enim non 'modo' est, si recorderis? Modo apud

Sotionem philosophum puer sedi, modo causas agere coepi, modo desii velle agere, modo desii

posse. Infinita est velocitas temporis, quae magis apparet respicientibus. Nam ad praesentia intentos

fallit; adeo praecipitis fugae transitus lenis est. Causam huius rei quaeris? quidquid temporis transit

eodem loco est; pariter aspicitur, una iacet; omnia in idem profundum cadunt. Et alioqui non

possunt longa intervalla esse in ea re quae tota brevis est. Punctum est quod vivimus et adhuc

puncto minus; sed et hoc minimum specie quadam longioris spatii natura derisit: aliud ex hoc

infantiam fecit, aliud pueritiam, aliud adulescentiam, aliud inclinationem quandam ab adulescentia

ad senectutem, aliud ipsam senectutem. In quam angusto quodam quot gradus posuit! Modo te

prosecutus sum; et tamen hoc 'modo' aetatis nostrae bona portio est, cuius brevitatem aliquando

defecturam cogitemus. Non solebat mihi tam velox tempus videri: nunc incredibilis cursus apparet,

sive quia admoveri lineas sentio, sive quia attendere coepi et computare damnum meum.

TRADUZIONE DI LAVORO TRADUZIONE RIELABORATA

Mi sembra di averti lasciato or ora; ma che cosa

non è “or ora”, se volessi ricordarlo? Or ora, da

ragazzo, sono stato a lezione dal filosofo Sozione,

or ora ho iniziato a seguire cause in tribunale, or

ora ho smesso di volerle trattare, or ora ho cessato

di poterlo fare. La velocità del tempo è finita e

risulta più evidente a chi si rivolga a guardare

indietro. Infatti inganna coloro che sono intenti

alle cose che scorrono davanti nel presente; a tal

punto è leggero il passare di questa fuga

precipitosa.

Cerchi la causa di questa cosa? Ogni cosa che

succede nel tempo, è in uno stesso luogo;

contemporaneamente si vede, si espande; ogni

Poco fa mi sembra di averti lasciato andare; infatti

che cosa non è “poco fa” se lo volessi ricordare?

Poco fa, da ragazzo, sono stato discepolo presso

Sozione, poco fa ho iniziato ad occuparmi di cause

giuridiche, poco fa ho smesso di volermene occupare,

poco fa ho smesso di poterlo fare. La velocità del

tempo, che appare più chiaramente a coloro che

volgono lo sguardo al passato, è infinita. Infatti trae

in inganno coloro che sono concentrati sulle

circostanze del presente; a tal punto è impercettibile

il passare della fuga precipitosa.

Ne domandi la causa? Tutto lo scorrere del tempo

confluisce in un medesimo luogo; si coglie allo

stesso modo, giace tutto insieme; ma ogni cosa

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cosa soccombe nello stesso abisso. Del resto non

possono esserci lunghi intervalli (di tempo) in ciò

che nel complesso è breve. È un momento quello

che viviamo e anzi ancora meno di un momento;

ma di questo pochissimo tempo la natura ci ha

deriso dandogli l’aspetto di durata più lunga: in

questo collocò in una parte l’infanzia, in un’altra

la giovinezza, in un’altra l’adolescenza, in un’altra

il passaggio dall’adolescenza alla vecchiaia, in

un’altra ancora la vecchiaia stessa. In che spazio

così angusto ha collocato quanti livelli! Or ora ti

ho salutato, e tuttavia questo “or ora” è una buona

parte della nostra vita e pensiamoci la sua breve

durata un giorno finirà. Il tempo non era solito

sembrarmi così veloce: appare ora l’andamento

rapido del tempo, sia perchè percepisco

l’avvicinarsi della morte, sia perchè ho cominciato

ad attendere e fare il conto della mia perdita.

precipita nello stesso abisso. Del resto non possono

esserci lunghi intervalli nel tempo che nel complesso

è breve. E’ un attimo quel che viviamo, e persino

meno di un attimo; ma la natura ci irride con

l’illusione che abbia lunga durata: di una parte ne ha

costituito l’infanzia, di un’altra la fanciullezza, di

un’altra l’adolescenza, di un’altra il declino

dall’adolescenza alla vecchiaia, infine la vecchiaia

stessa. Quanti gradini ha collocato in una scala così

corta! Poco fa ti ho salutato e tuttavia questo “poco

fa” è una buona parte della nostra esistenza e

pensandoci, la sua breve durata un giorno avrà fine.

Non ero solito pensare che il tempo passasse così

rapidamente; ora il suo percorso appare straordinario,

sia perché mi accorgo dell’avvicinarsi della morte,

sia perché ho cominciato ad attendere e a tenere il

conto della mia perdita.

COMMENTO: In questo passo tratto dalle Epistulae ad Lucilium, 49, Seneca ci offre un'analisi del

tempo in funzione della percezione che l'uomo ha del suo scorrere e, di conseguenza, parla del ruolo

e delle caratteristiche della memoria. La comunicazione di questo tema avviene tramite la relazione

di Seneca con il suo discepolo Lucilio, attraverso la quale riesce a superare il freddo distacco della

trattazione filosofica e ci permette di comprendere come non solo il tempo, ma anche lo spazio sia

soggettivo. Infatti, per la prima volta, essi sono legati da un rapporto affettivo, che permette di

appropriarsi solo di quei momenti che siamo riusciti a sottrarre al suo scorrere inesorabile,

trattenendolo e facendolo nostro. In questo modo, possiamo evitare che "omnia in idem profundum

cadunt", come Seneca sostiene nel De brevitate vitae. Il tempo in realtà "si trova tutto nello stesso

luogo" ed è solo l'individuo che scandisce lo scorrere della propria vita, la quale in realtà è un

continuo scorrere verso il nulla. Il nostro tempo è infatti troppo breve, ma siamo illusi del contrario

dalla natura che ci porta a suddividerlo in vari periodi, ciò emerge dalla martellante anafora di

"aliud" che scandisce le illusorie età della vita creando un parallelismo che sembra porre tutto sullo

stesso piano, in quanto in realtà sono tutte uguali fra loro, sono semplici frammenti di tempo.

Secondo Seneca, gli unici in grado di sottrarsi alla passività che si nasconde dietro a un'eccessiva

attività sono gli oziosi, che si contrappongono agli occupati, i quali, distratti dai futili affari, non si

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accorgono dell'incidere inarrestabile del tempo. L'unico modo quindi per dare un senso a questa

corsa incessante del tempo è ricordare, riguardare al passato isolandone i ricordi e dando loro una

dignità propria e in un certo senso strapparli al tempo rendendoli nostri.

4. ISTINTO E INTELLIGENZA DI FRONTE ALLA MORTE

4.1. SENECA, Il compianto deve essere conforme alla natura, Consolatio ad Marciam, VII

Testo latino: “At enim naturale desiderium suorum est.” Quis negat, quam diu modicum est? Nam

discessu, non solum amissione carissimorum necessarius morsus est et firmissimorum quoque

animorum contractio. Sed plus est quod opinio adicit quam quod natura imperavit. Aspice mutorum

animalium quam concitata sint desideria et tamen quam brevia: vaccarum uno die alterove mugitus

auditur, nec diutius equarum vagus ille amensque discursus est; ferae cum vestigia catulorum

consectatae sunt et silvas pervagatae, cum saepe ad cubilia expilata redierunt, rabiem intra exiguum

tempus extinguunt; aves cum stridore magno inanes nidos circumfremuerunt, intra momentum

tamen quietae volatus suos repetunt; nec ulli animali longum fetus sui desiderium est nisi homini,

qui adest dolori suo nec tantum quantum sentit sed quantum constituit adficitur.

TRADUZIONE DI LAVORO TRADUZIONE RIELABORATA

"Ma, infatti, la nostalgia dei propri cari è

conforme a natura". Chi potrebbe negarlo,

purché sia moderata? In verità riguardo alla

separazione, non solo per la perdita delle

persone più care è inevitabile il tormento, ma è

inevitabile persino il tormento dei caratteri più

forti. Ma è più quello che l'opinione aumenta

rispetto a quello che la natura stabilisce.

Osserva quanto tanto impetuosi siano i dolori

degli animali silenziosi e tuttavia quanto brevi:

un giorno o due si sente il muggito delle vacche,

e quello vago e insensato delle cavalle non è

emesso più a lungo; le fiere, dopo che seguono

le orme dei piccoli e si aggirano per i boschi,

quando spesso fanno ritorno alle tane depredate,

reprimono l'ira in un tempo breve; gli uccelli,

girano attorno ai nidi vuoti con grande stridore,

tuttavia in un instante tornano tranquilli ai loro

"Ma infatti è naturale aver nostalgia dei propri

cari". Chi potrebbe negarlo, purché si provi

secondo misura? In verità riguardo

l'allontanamento, non solo è inevitabile il

tormento per la perdita dei più cari ma è

inevitabile persino l'indebolimenti degli animi

più saldi. Ma è più quello che la

rappresentazione mentale modifica rispetto a

quello che la natura ti costringe. Considera

quanto impetuoso sia il dolore degli animali che

non possono parlare e tuttavia quanto breve: il

muggito delle mucche si sente per un solo

giorno o due, e non dura più a lungo quel folle

ed insensato vagare delle cavalle; le bestie

feroci, ogni volta che fanno ritorno alle rane

depredate, dopo aver seguito le orme dei

cuccioli e dopo essersi aggirati per i boschi,

reprimono l'ira in breve tempo; gli uccelli,

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voli. Nessun essere vivente ha nostalgia a lungo

del piccolo se non l'uomo, il quale partecipa al

suo dolore non tanto quanto lo sente, ma quanto

decide che ne sia afflitto.

girano attorno ai nidi vuoti con grande stridio,

tuttavia in un istante riprendono tranquilli i loro

voli. Nessun essere vivente prova a lungo

nostalgia della prole tranne l'uomo, il quale

partecipa al suo dolore non nella misura in cui

lo sente, ma quanto decide di esserne afflitto.

COMMENTO: Seneca utilizza il dolore di Marcia per la morte del figlio Metilio come pretesto per

affrontare una profonda riflessione sul lutto e la sua elaborazione. Qui il genere codificato della

consolatio diventa lo strumento di obiezione verso coloro che ritengono leggittima un'eccessiva

manifestazione del dolore: anche Marzia, inconsolabile per il suicidio del figlio, non riesce a

superare la perdita. Seneca presenta alcuni esempi provenienti dal mondo animale per spiegare

come in tali circostanze l'uomo tenga un comportamento contronatura: infatti "ferae rabiem intra

exiguum tempus extinguunt", gli animali, dopo aver preso coscienza della morte dei propri cuccioli,

riescono in un breve tempo a sfogare la rabbia e il dolore per poi ritornare al proprio equilibrio

emotivo. L'evidente scarto tra ciò che per natura è normale e come questo viene filtrato dalla mente

umana è reso con efficacia dalla sentenza Senecana che vede la contrapposizione di "opinio" e

"natura" tramite la correlazione introdotta da "quod"': l'uomo che decide deliberatamente la durata e

le forme della propria sofferenza.

5. UN COMPIANTO, UN RIMPIANTO, UN UOMO

5.1. TACITO, Considerazioni di Tacito sulla morte del suocero, Agricola, 43

Finis vitae eius nobis luctuosus amicis tristis extraneis etiam ignotisque non sine cura fuit. vulgus

quoque et hic aliud agens populus et ventitavere ad domum et per fora et circulos locuti sunt; nec

quisquam audita morte Agricolae aut laetatus est aut statim oblitus. Augebat miserationem constans

rumor veneno interceptum: nobis nihil comperti [ut] adfirmare ausim. Ceterum per omnem

valetudinem eius crebrius quam ex more principatus per nuntios visentis et libertorum primi et

medicorum intimi venere sive cura illud sive inquisitio erat. Supremo quidem die momenta ipsa

deficientis per dispositos cursores nuntiata constabat nullo credente sic adcelerari quae tristis

audiret. Speciem tamen doloris animi vultu prae se tulit securus iam odii et qui facilius dissimularet

gaudium quam metum. Satis constabat lecto testamento Agricolae quo coheredem optimae uxori et

piissimae filiae Domitianum scripsit laetatum eum velut honore iudicioque. Tam caeca et corrupta

mens adsiduis adulationibus erat ut nesciret a bono patre non scribi heredem nisi malum principem.

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TRADUZIONE DI LAVORO TRADUZIONE RIELABORATA

La sua morte fu per noi dolorosa, per gli amici

triste, fu causa di dispiacere persino per gli

estranei e coloro che non lo conoscevano.

Anche la gente e questa folla che si occupa

d’altro, andava continuamente a casa e ne

parlava per la piazza e in gruppo; nessuno

venuto a conoscenza della morte di Agricola, nè

era contento nè se ne dimenticò subito.

Aumentava la compassione l’insistente diceria

che fosse stato eliminato con il veleno: nulla di

certo per me, che io osi confermare. Del resto

nel corso di tutta la sua malattia con maggiore

frequenza di quanto fosse abitudine del principe,

lo mandava a controllare tramite i messaggeri e

i primi tra i liberti e i più intimi tra i medici

andavano (da lui), forse per cura o forse per

spionaggio. Certo si sa che il giorno della sua

morte, erano sttai riferiti, attraverso schiavi così

disposti i mutamenti stessi di lui che veniva

meno, senza che nessuno pensasse che fossero

sollecitate quelle cose che avrebbe udito con

tristezza. Tuttavia la rappresentazione del

doloro dell’animo si ostenta nel volto, ormai

indifferente all’odio e che più facilmente

nascondeva la gioia rispetto al timore. e di certo,

letto il testamento di Agricola, nel quale nominò

eredi l’ottima moglie, la devotissima figlia e

Domiziano, si rallegrava per l’onore e la stima.

La mente era a tal punto cieca e corrotta dalle

continue adulazioni da non accorgersi che un

buon padre non istituisce suo erede se non un

cattivo principe.

La sua morte fu per noi motivo di lutto, per gli

amici fonte di tristezza e non lascio indifferenti

neppure gli estranei e chi non lo conosceva.

Persino il volgo e questo popolo che di solito si

occupa d'altro, si recarono frequentemente alla

casa e ne parlavano sia per le piazze che nei

crocicchi; e nessuno dopo aver udito la notizia

della morte di Agricola si rallegrò o se ne

dimenticò subito. Accresceva il compianto e la

voce insistente che egli fosse morto per

avvelenamento: non oserei affermarlo per certo,

non sappiamo nulla di sicuro. Tuttavia, più

frequentemente che secondo la consuetudine del

principato, giunsero i primi tra i liberti e i più

fidati tra i medici, attraverso degli ambasciatori

che gli facevano visita per tutto il decorso della

sua malattia, sia che fosse una forma di

sollecitudine o un'indagine. Nell'ultimo giorno

risultava che gli erano stati riferiti, per mezzo di

messi così disposti, gli ultimi istanti del

morente, senza che nessuno pensasse che si

sollecitassero così quelle notizie che avrebbe

udito con tristezza. Mostrò in volto una

parvenza di afflizione d'animo, non più

tormentata dall'odio, lui che dissimulava più

facilmente la gioia rispetto al dolore. Era

abbastanza chiaro, letto il testamento di

Agricola, in cui nominò coerede, insieme

all'ottima moglie e alla devotissima figlia,

Domiziano, che lo resero gioioso come se si

trattasse di un segno di onore e di stima. La

mente era tanto accecata e corrotta da continue

adulazioni che non capì che un buon padre non

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designa erede se non un cattivo principe.

Studio dell’errore:

Nello svolgimento di questa versione tratta dall’Agricola di Tacito, abbiamo riscontrato alcune

difficoltà relative all’interpretazione grammaticale e contenutistica.

Presentiamo di seguito le parti del testo che sono state per noi causa di maggiori problemi:

- “nobis nihil comperti [ut] adfirmare ausim” mancata individuazione del congiuntivo indipendente.

- “ex more principatus” locuzioni ambigue (declinazione)

- “nullo credente sic adcelerari quae tristis audiret” disorientamento riguardo la costruzione del

periodo.

Commento:

Finis vitae: questo il tema trattato nel capitolo 43 dell' "Agricola" di Tacito. La morte di Agricola

viene descritta nel primo periodo attraverso le reazioni che suscita nel vulgus e nel populus: non

solo coloro che avevano un legame affettivo con il defunto ne piangono la morte, ma anche coloro

che non lo conoscevano direttamente, avendone comunque sentito parlare, poiché egli era una

figura molto amata dalla comunità.

A differenza del popolo, realmente afflitto per la perdita di una tale personalità, l'imperatore

Domiziano fingeva di partecipare a questo lutto.

Evidenziando quest'ipocrisia, Tacito coglie l'occasione per muovere una velata critica al potere e in

particolare all'atteggiamento dell'imperatore ; pur raccontando degli avvenimenti senza prendere

posizione, in alcuni punti traspare, grazie ad una sottile ironia, il suo giudizio nei confronti del

potere.

Inoltre Tacito non rinuncia a riportare i pettegolezzi del popolo, nonostante trascendano la verità,

come ad esempio quello che sosteneva che la causa della morte fosse l'avvelenamento ad opera

dell'imperatore stesso. Tali voci erano rese più insistenti dalle continue visite dei medici e dei liberti

più vicini all'imperatore: Tacito osserva come queste fossero più assidue di quanto fosse costume

del principato.

Questo passo permette all'autore di mettere in luce, non tanto gli ultimi istanti della vita del

protagonista, quanto i crimini del potere.

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5.2. Il ritratto di Agricola: versione e confronto

Gnaeus Iulius Agricola, vetere et inlustri Foroiuliensium colonia ortus, utrumque avum

procuratorem Caesarum habuit, quae equestris nobilitas est. pater illi Iulius Graecinus senatorii

ordinis, studio eloquentiae sapientiaeque notis, iisque ipsis virtutibus iram Gai Caesaris meritus:

namque Marcum Silanum accusare iussus et, quia abnuerat, interfectus est. Mater Iulia Procilla fuit,

rarae castitatis. In huius sinu indulgentiaque educatus per omnem honestarum artium cultum

pueritiam adulescentiamque transegit. Arcebat eum ab inlecebris peccantium praeter ipsius bonam

integramque naturam, quod statim parvulus sedem ac magistram studiorum Massiliam habuit,

locum Graeca comitate et provinciali parsimonia mixtum ac bene compositum. Memoria teneo

solitum ipsum narrare se prima in iuventa studium philosophiae acrius, ultra quam concessum

Romano ac senatori, hausisse, ni prudentia matris incensum ac flagrantem animum coercuisset.

Scilicet sublime et erectum ingenium pulchritudinem ac speciem magnae excelsaeque gloriae

vehementius quam caute adpetebat. Mox mitigavit ratio et aetas, retinuitque, quod est difficillimum,

ex sapientia modum.

Gneo Giulio Agricola, nato nell’antica e illustre colonia del Frejus, ebbe entrambe i nonni

funzionari imperiali, titolo che attiene all’ordine equestre. Suo padre Giulio Grecino, di ordine

senatorio, famoso per il suo interesse nell’oratoria e nella filosofia, proprio per quelle virtù si attirò

la collera di Gaio Cesare: infatti gli fu ordinato di accusare Marco Silano e, poiché non lo fece, fu

ucciso. La madre era Giulia Procilla, donna di rara castità. Sotto la sua amorevole protezione

trascorse la fanciullezza e l’adolescenza nella pratica di tutte le buone discipline. Lo teneva lontano

dalla tentazione di commettere colpe oltre che alla sua stessa buona ed incorrotta indole, il fatto che

fin da piccolo ebbe come sede e maestra di studi Marsiglia, un luogo in cui si mescolavano e ben si

amalgamavano l’affabilità greca e la sobrietà provinciale. Ricordo che lui stesso era solito

raccontare di essersi dedicato nella sua prima gioventù allo studio della filosofia con un ardore

maggiore di quanto fosse consentito ad un Romano, e per giunta senatore, se la saggezza materna

non avesse tenuto a freno l’animo splendente e ardente. Si intende che il suo animo nobile ed

elevato tendeva con più impeto che prudenza alla bellezza e al lustro di una grande ed eccelsa

gloria. In seguito il raziocinio e l’età lo resero più posato e trattenne, cosa più difficile, dalla

filosofia il senso della misura.

Tacito, nell'Agricola, si propone di narrare gli eventi biografici del proprio suocero, Gneo Giulio

Agricola, il quale era stato generale e uomo politico di rilievo. Nel testo sopra riportato l'autore ne

mostra il personaggio evidenziandone le origini e le virtù. Analizzando i due passi, il ritratto e gli

ultimi giorni di vita, si nota una continuità nel pensiero tacitiano: Agricola, anche in procinto della

sua morte, resta un uomo di grande integrità morale nonostante la reggenza ingiusta di Domiziano.

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Inoltre il suo rapporto con il potere è caratterizzato da una forma di subordinazione e obbedienza: è

costretto, per esempio, a nominare come coerede, insieme alla moglie e alla figlia, l’imperatore,

lasciandogli quindi parte della sua eredità. Si può osservare come l’autore, tracciando il ritratto del

suocero, nonchè protagonista, si mantenga oggettivo e neutrale: l’obiettivo dell’opera infatti non è

quello di promuovere un certo tipo di potere politico ma di esaltare un uomo che, per di più in un

momento storico difficile, continua a essere una rappresentazione vivente del mos maiorum.

6. LA FAVOLA INSEGNA…

NON VERBUM PRO VERBO REDDERE, SED GENUS OMNE VERBORUM VIMQUE

SERVARE, Cicerone, De optimo genere oratorum, 14

Tradurre, per dei ragazzi di biennio ginnasiale, è un’avventura ancora irta di difficoltà,

paradossalmente proprio per quell’automatismo che le frasi di applicazione delle troppe regole

morfosintattiche, eredità di un metodo d’insegnamento delle lingue classiche poggiato su ben

diversi prerequisiti nei discenti, lasciano in dotazione anche di fronte ad un testo autentico, d’autore

o di genere precisi dal punto di vista comunicativo.

La favola di animali, retaggio di una didattica felicemente consolidata, anche nelle lingue d’origine,

può in realtà offrire, pur nei suoi brevi testi, un’occasione di riflessione ricca, specie se scandita da

attività di gruppo e di interscambio. E accanto ad un’analisi delle strutture morfosintattiche, assai

semplici, del testo, può affiancarsi, come opportuno strumento di acquisizione e di

approfondimento, l’esame di traduzioni o tradimenti consapevoli che ampliano e vivificano il testo

d’origine, dimostrando quel continuo colloquio tra presente e passato che rende ancora sensato

sottrarre le lingue e la cultura classica alla condanna approssimativa dei novelli futuristi dei nostri

giorni. A riprova, tra le osservazioni e la ricerca di traduzioni efficaci, la proposta di resa nel genere

musicale del rap plurilingue.

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6.1. FEDRO, Favole, Lupus et agnus e varianti

ESOPO, Favole, CLX (l’originale)

Λύκος θεασάµενος ἄρνα ἀπό τινος ποταµοῦ πίνοντα, τοῦτον ἐβουλήθη µετ' εὐλόγου αἰτίας

καταθοινήσασθαι. διόπερ στὰς ἀνωτέρω ᾐτιᾶτο αὐτὸν ὡς θολοῦντα τὸ ὕδωρ καὶ πίνειν αὐτὸν µὴ

ἐῶντα. τοῦ δὲ λέγοντος, ὡς ἄκροις τοῖς χείλεσι πίνει καὶ ἄλλως οὐ δυνατὸν αὐτῷ ἑστῶτι κατωτέρω

ἐπάνω ταράσσειν τὸ ὕδωρ, ὁ λύκος ἀποτυχὼν ταύτης τῆς αἰτίας ἔφη· “ἀλλὰ πέρυσι τὸν πατέρα µου

ἐλοιδόρησας”. εἰπόντος δὲ ἐκείνου µηδέπω τότε γεγενῆσθαι ὁ λύκος ἔφη πρὸς αὐτόν· “ἐὰν οὖν σὺ

ἀπολογιῶν εὐπορῇς, ἐγώ σε οὐ κατέδοµαι”.

ὁ λόγος δηλοῖ, ὅτι οἷς ἡ πρόθεσίς ἐστιν ἀδικεῖν, παρ' αὐτοῖς οὐδὲ δικαία ἀπολογία ἰσχύει.

FEDRO, Favole, Lupus et agnus

Lupus et agnus

Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,

siti compulsi. Superior stabat lupus,

longeque inferior agnus. Tunc fauce improba

latro incitatus iurgii causam intulit;

Cur, inquit, turbulentam fecisti mihi

aquam bibenti?. Laniger contra timens:

"Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?

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A te decurrit ad meos haustus liquor".

Repulsus ille veritatis viribus:

Ante hos sex menses male, ait, dixisti mihi.

Respondit agnus: Equidem natus non eram.

Pater hercle tuus ibi, ille inquit, male dixit mihi.

Atque ita correptum lacerat iniusta nece.

Haec propter illos scripta est homines fabula

qui fictis causis innocentes opprimunt.

The Wolf and the Lamb

BY thirst incited; to the brook

The Wolf and Lamb themselves betook.

The Wolf high up the current drank,

The Lamb far lower down the bank.

Then, bent his ravenous maw to cram,

The Wolf took umbrage at the Lamb.

"How dare you trouble all the flood,

And mingle my good drink with mud?"

"Sir," says the Lambkin, sore afraid,

"How should I act, as you upbraid?

The thing you mention cannot be,

The stream descends from you to me."

Abash'd by facts, says he, " I know

'Tis now exact six months ago

You strove my honest fame to blot"-

"Six months ago, sir, I was not."

"Then 'twas th' old ram thy sire," he cried,

And so he tore him, till he died.

To those this fable I address

Who are determined to oppress,

And trump up any false pretence,

But they will injure innocence.

The Fables of Phaedrus Translated into English Verse. Phaedrus. Christopher Smart, A. M. London. G. Bell and Sons, Ltd. 1913. (in PERSEUS, http://www.perseus.tufts.edu)

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ADEMARO DI CHABANNES

Lupus et agnus ad rivum venerunt. Superior lupus, longe inferior agnus. Tunc fauce improba latro

incitatus, iurgio dixit: “Cur turbulentam fecisti mihi aquam?” Laniger: “Quo fieri potest, dum a te

liquor decurrens ad meum os venit?” Lupus: “Ante hos sex menses maledixisti mihi”. Et ita

correptum lacerat iniuste.

Qui fictis causis innocentes opprimunt.

(codice autografo, Vossianus Latinus, 8° 15, 1025)

ROMULUS

De innocente et reprobo

Agnus et lupus sitientes ad quendam e diverso venerunt rivum. Superius bibebat lupus, agnus autem

inferius de rivo bibebat. Lupus ut agnum vidit, sic ait: “Cur turbasti mihi aquam bibenti?” Agnus

patiens ait: “Quomodo aquam turbavi tibi, quae a te ad me decurrit?” Lupus non erubuit mendacium

praeferre veritati. “Maledicis”, inquit, “mihi”. Agnus ait: “Non maledico, verum dicens”. Lupus

dixit: “Ergo pater tuus fuit hic, ante sex menses, qui mihi pari modo fecerat”. Agnus ait: “Numquid

ego natus fui tunc?” Sicque lupus improba facie dixit: “Et adhuc loqueris latro?” Et statim insiluit in

eum ac innocenti vitam abstulit.

Haec de illis dicta fabula est, qui non iuste calumniantur homines.

(recensio vetus del codice Vindoboniensis Latinus 303, XIV secolo)

ROMULUS FEDRO ADEMARO DI

CHABANNES

ESOPO

De innocente et

reprobo

Lupus et agnus / /

Incipit: inverte

l’ordine con cui Fedro

presenta il lupo e

l’agnello

Incipit: introduce

l’ambientazione e in

seguito presenta i due

protagonisti

Incipit: presenta prima

il lupo, poi l’agnello

Incipit: introduce

l’ambientazione, poi i

due protagonisti

Simile nella scelta dei

verbi rispetto a Fedro;

cambia le desinenze

personali

/ Utilizza gli stessi verbi

di Fedro, ma ne

cambia il tempo (dal

ppf. venerant al pf.

/

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venerunt)

Utilizza sempre i

sostantivi lupus e

agnus

Usa l’appellativo

laniger per l’agnello e

la perifrasi fauce

improba latro per

riferirsi al lupo

Utilizza laniger per

indicare l’agnello, ma

usa soltanto il

sostantivo lupus

Utilizza sempre i

sostantivi Λύκος e

ἀρήν

Mette in risalto la

narrazione e il dialogo

Equilibrio tra dialogo

e narrazione

Sintesi in prosa del

testo di Fedro

Esalta la crudeltà del

lupo attraverso i

dialoghi

Per indicare la morte

dell’agnello usa

l’espressione vitam

abstulit (sogg. sott.

lupus)

Usa il verbo lacerat Usa il verbo lacerat /

Morale semplificata,

espressioni edulcorate

(fictis causis, più

tecnico, diviene

l’avverbio non iuste;

opprimunt si trasforma

in calumniantur)

Condanna gli uomini

certi di sopraffare i

deboli con falsi

pretesto, certi della

propria superiorità

fisica, o del potere

riconosciuto dalla

società di classe

Trae uno spunto

essenziale dalla morale

di Fedro, tutta la

versione del testo è

semplificata,

apparendo una sorta di

appunto di catalogo

Morale implicita cui si

appoggia il messaggio

della variante di Fedro

Tra le suggestioni moderne della favola di animali, come non citare un testo ‘politico’ dello scrittore

siciliano L. SCIASCIA, Favole della dittatura, edito nel 1950, di cui si ignora tuttavia l’esatta

elaborazione: come riferisce D. SCARPA2, le favole sono ventisette, tutte brevissime. La quinta si

risolve addirittura in due frasi «Il cane abbaiava alla luna. Ma l'usignuolo per tutta la notte tacque di

paura» sufficienti per mettere in moto una causalità trasversale: la paura nasce da un malinteso

consentito a sua volta da un contesto che il testo ci tace.

Ma è la numero uno a rammentare da vicino il nostro testo di partenza, il contrasto tra il lupo e

l’agnello. Superior stabat lupus: e l'agnello lo vide nello specchio torbo dell'acqua. Lasciò di bere, e

stette a fissare tremante quella terribile immagine specchiata. «Questa volta non ho tempo da

                                                                                                                         2 Le favole politiche di Sciascia, Il Sole 24 ore, 25/09/2011

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perdere», disse il lupo. «Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell'antico: so quel che

pensi di me, e non provarti a negarlo». E d'un balzo gli fu sopra a lacerarlo.

In questa favola, la numero uno, il senso è chiaro, la morale è inalterabile, l'acqua torbida resterà

torbida.

Le Favole della dittatura sono trasparentissime, appuntite allegorie che denunciano gli orrori della

dittatura fascista, da pochi anni conclusa, e di tutte le dittature e le tirannie, con i loro archetipi

comportamentali sinistri e grotteschi. Così, nell’uomo «chiuso e rigido dentro tanto splendore», il

lettore scorgerà infallibilmente un Ciano o uno Starace: ma soprattutto non potrà non cogliere nella

contrapposizione tra lupo e agnello, gatto e canarino, uomo e topo, padrone e asino (o cane) la

divisione tra carnefici e vittime, dominanti e dominati; nei corvi (neri) gli integrati e gli organici e

nei passeri e nei colombi i disorganici; e ancora in porci, faine, volpi, lumache e talpe altrettante

allusioni ai tipi – e ai loro tic – di ogni regime. Come notò Pasolini, che fu tra i primi lettori di

queste «favole», «l’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine così

lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far

rabbrividire».

Anche I. CALVINO compose a partire dal 1943 dei racconti a sfondo politico contrari a Mussolini,

meditando di pubblicarli dopo la fine della guerra: «L'apologo nasce in tempi d'oppressione.

Quando l'uomo non può più dar chiara forma al suo pensiero, lo esprime per mezzo di favole.

Questi raccontini corrispondono a una serie d'esperienze politiche o sociali d'un giovane durante

l'agonia del fascismo». Alla fine non si decise a pubblicare, ma se lo avesse fatto avrebbe

accompagnato i testi con le date di stesura: «Si deve guardare a queste date, e per giustificare certi

apologhi che oggi non avrebbero senso, e per seguire l'evolversi della concezione dello scrittore,

come egli dallo scetticismo più pessimista riesce a poco a poco a trovare qualche punto fermo,

l'avvio per una fede positiva».

6.2.VARIANTI A PARTIRE DALLE TRADUZIONI CONTRASTIVE

Tre possibilità intraviste dal gruppo classe della 2B classico: la morale e il rap.

LUPUS ET AGNUS

Erano giunti ad un torrente

Due fuori di mente

Il lupo sulla cima

L’agnello sulla china

Dai, che ti spiego tutto in una rima.

Il primo affamato

L’altro già spacciato:

“L’acqua mi hai sporcato!”

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“Ma io non sono stato!”

“Tu mi hai insultato!”

“Ma se non ero nato!”

Adesso stop!, basta blaterare!

Così disse il lupo prima di attaccare.

Questa è la morale

Non te la scordare

Anche se sei potente

Lascia star la gente

Non fare il prepotente!

Yo!

QUESTA STORIA E’ PER CHI NON SA RAPPARE

Giunsero ad un rivo un lupo ed un agnello

Pronto era il lupo a fare bordello

Il primo sopra l’altro sotto

L’uno ingenuo l’altro pronto al complotto.

Subito il lupo trovò un pretesto

Come questo:

“Perché l’acqua tu mi sporchi?”

“Ma guarda con i tuoi occhi

l’acqua scorre da te fino ai miei sorsi”.

“Hai parlato male di me, sì non adesso,

l’hai fatto un anno fa

e questo non si fa!”

“Non ero ancora nato,

i miei non ci avevano neanche pensato!”

“Sì, ma tuo padre di me parlò male

e la tua scusa adesso non vale”.

L’agnello non poté neppur belare

Che subito il lupo prese ad attaccare.

Questa storia è per chi non sa rappare,

come i potenti che san solo accusare!

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BALLADE FOR PEOPLE WHO CAN’T RAP

Wolf and lamb come to a river,

first over, second under,

one candid, other evil,

“How dare you dirty my water?”

“Comment puis-je faire ça,

je suis là!”

“Tu me dois respect, je suis vénérable,

tu es coupable!”

“Yes, Sir, but my father...”

“Your father and you talked behind me,

last year, last year”

“Mais je n’étais pas né”

“Sì, tu l’étais! Et après,

je m’en fiche et te dévore!”

This story is for people who can’t rap

But can sing with us

Wolf and lamb

Come to a river

First over, second under

und so weiter

Esempio di spartito rap adattabile alle nostre

proposte

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7. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Tradurre è un percorso di cui si gustano incertezze di direzione, almeno altrettanto quanto si

intravede la meta, i segnali sbiaditi rispetto alle chiare indicazioni, la sfida di riprendere in

considerazione ipotesi fino a cercare di dire ‘quasi’ la stessa cosa3 del nostro testo d’origine, del

nostro autore di partenza, cui restituire una bella infedele o una paludata fedele, ma dirla, come la

prima volta in cui risuona, la parola creatrice, a srotolare mondi e suoni e bellezza.

BIBLIOGRAFIA

Seneca, Epistulae ad Lucilium, intr. Canali L, trad. it. Monti G. (1993), Milano, Rizzoli

Virgilio, Eneide, trad. A. Fo (2012), Milano, Einaudi

Tacito, Opere complete, trad. Mazzocato G. D. (1995), Milano, Newton Compton

Degl'Innocenti E. (2014) Lo sguardo di Giano. Letteratura e cultura latina, Milano - Torino, Pearson Italia

Diotti A. (2010) Guida metodologica alla traduzione, Torino, SEI

Bettoni M.-Mangiavini M.L., Traduzione problem solving, in Interaction Design and

Architecture(s) Journal - IxD&A, N. 7-8, 2009, pp. 48-50

Pieri B. (2009) La traduzione dalle lingue antiche fra prassi e riflessione, in Herméneuein, Tradurre

il greco, Bologna, Pàtron

Cricco, Di Teodoro, (2012), Itinerario nell’arte, ed. azzurra, Bologna, Zanichelli

Bettini M. (2017), A che servono I Greci e I Romani? Torino, Einaudi

Traina A. (1998) Le traduzioni, in SLRA, Vol.II, La circolazione del testo, Roma, Salerno

Ammaniti N. (2001), Io non ho paura,

Kafka F.(2013), Lettera al padre, Milano, Feltrinelli

Io non ho paura, film di Salvatores G. (2003)

SITOGRAFIA -http://www.perseus.tufts.edu/hopper (PerseusDigitalLibrary)

http://www.freemaninrealworld.altervista.org/Caproni-in-itinere

 

 

                                                                                                                         3 Eco U.(2003) Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani