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Carla Liliana Martini Catena di salvezza Carla Liliana Martini. nata. a Boara Polesine (Rovigo) nel 1926, undice- 5ima di dodici fratelli, dopo 1'8 set- tembre '43 si impegna con le sorel- le maggiori Teresa, Lidia e Renata., nell'assistenza e salvataggio di 501- dati italiani e alleati allo sbando. Nel marzo del 1944 con la sorella. Teresa viene arrestata e condotta nei lager di Mauthausen, LinZ, Grein a.d. Donau. Entrambe ritor- nano a Padova nel giugno 1945. Solo dopo molti anni Carla Liliana è riuscita a parlare di questi eventi e per la prima volta li racconta in questo libro. Vive a Zanè (Vicenza). ,oggi., a distanza di tempo, mi rendo conto che quanto è accaduto in modo cosi osceno, inumano, spesso indicibile, ha un senso: quello della memoria per il futuro, ricordare per i posteri, fiduciosi che la memoria possa fungere da limite, affinché quanto avvenuto con vergogna dell 'umanità tutta non abbia a ripetersi., - te((iATcielo- orizzonti che si toccano nella vita dell 'uomo Foto: archIVio lamiglia Manini Progetto graliCO: Franco Ussanorin A> EDIZJONI p/illOVA ISBN 88-250-1551-8 111111111111111111111111 9 788825 015515 7,50 (I.C.) I -- Carla Liliana Martini Catena -- - - - -- - di salvezza Pre fazione di Tina Anselmi

Transcript of di salvezza - giuliocesaro.it liliana martini.pdf · dati italiani e alleati allo sbando. Nel marzo...

Carla Liliana Martini

Catena di salvezza

Carla Liliana Martini. nata. a Boara Polesine (Rovigo) nel 1926, undice-5ima di dodici fratelli, dopo 1'8 set­tembre '43 si impegna con le sorel­le maggiori Teresa, Lidia e Renata., nell'assistenza e salvataggio di 501-dati italiani e alleati allo sbando. Nel marzo del 1944 con la sorella. Teresa viene arrestata e condotta nei lager di Mauthausen, LinZ, Grein a.d. Donau. Entrambe ritor­nano a Padova nel giugno 1945. Solo dopo molti anni Carla Liliana è riuscita a parlare di questi eventi e per la prima volta li racconta in questo libro. Vive a Zanè (Vicenza).

,oggi., a distanza di tempo, mi rendo conto che quanto è accaduto in modo cosi

osceno, inumano, spesso indicibile, ha un senso: quello della memoria per il futuro, ricordare per i posteri, fiduciosi che la memoria possa fungere da limite, affinché quanto avvenuto con vergogna dell 'umanità tutta non abbia a ripetersi.,

- te((iATcielo­~

orizzonti che si toccano nella vita dell 'uomo

Foto: archIVio lamiglia Manini

Progetto graliCO: Franco Ussanorin

A>EDIZJONI M~ERO p/illOVA

ISBN 88-250-1551-8

111111111111111111111111 9 788825 015515

€ 7,50 (I.C.)

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Carla Liliana Martini Catena - - - - - - - -

di salvezza Prefazione di Tina Anselmi

CARLA LILIANA MARTIN I

CATENA I DI SAL VEZZA

Solidarietà nella lotta contro la barbarie nazifascista

Prefazione di TINA ANSELMI

~EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA

tJ · fr;c c.i.- ~'- h--v- {J

Ai miei cari I che con l'esemPio mi hanno insegnato ad amare anche chi non si conosce, anche chi non ci ama.

Un grazie particolare a Giancarlo che, con solerte pazienza, mi ha seguito nella stesura di questi ricordi lontani nel tempo ma sempre presenti nel pensiero.

Foro di copertina: la famiglia Martini al completo nel luglio del 1930. Da sinistra in alto: Alessandro, Augll~ sto, Maria, Domenico, Maddalena dena Gina, Gillsep~ pe. In prima fila sempre da sinistra: Teresa, Mario, la mamma Carmela, Lidia con il piccolo Giancarlo, il pa­pà Giovanni Battista con in braccio Liliana, e Rcnata.

ISBN 88-250-1551-8

Copyr;ghr © 2005 by P.P.F.M.C.

MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO - EDITRICE Basilica del Samo - Via Orto Botanico, Il - 35123 Padova

www.edizionimessaggero.it

Prefazione

C'è già nel titolo del libro, Catena di salvezza, l'indicazione di ciò che le sorelle Martini hanno saputo e voluto cogliere della loro esperienza nella guerra par­tigia,na.

E un lungo racconto che si sviluppa per cogliere ciò che la loro guerra ha fatto emergere. I fatti sono storia e raramente chi vuoi raccontare questa storia è così fedele nel suo racconto da non interferire tanto da ren­derlo spoglio, potremmo dire arido. Eppure qui c'è la forza di chi annota ogni particolare che qualche volta vive senza nemmeno coglierne la profondità. Vivere la vicenda del treno bestiame, nel suo lungo andare, ma avendo perfino il dubbio della tragedia che si vive, e comprendendola solo dopo che è stata consumata.

E una vita che si svolge in tutta la sua atrocità, ma per certi aspetti la consapevolezza che si vive fa perfino ombra al presente.

Ogni capitolo è insieme il racconto con tutti i par­ticolari vissuti dai protagonisti. È un costellarsi di ePi­sodi, che vengono accolti con calore, come espressione di una novità nel singolo e nel gruppo.

Anche il passaggio da un fienile a uno scambio con i tedeschi viene vissuto con stupore. Perché la guerra è

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novità per chi si affaccia alla vita e lo fa portando con sé la famiglia, il paese che è sempre sullo sfondo con i suoi vecchi, perché i giovani sono alla guerra.

Questo racconto corale che nella sua aridità non ignora un particolare, una voce, un tramonto. Rima­nere uniti per sopravvivere, anche con le ragazze per le quali lo stupore della guerra si aggiunge alla impre­vedibilità di personaggi che si stagliano al di fuori degli stessi soldati.

Credo che questa riduzione del racconto lo renda Più efficace, un racconto che è quasi un diario, dove non c'è una parola sovrabbondante, ma l'efficacia di una parola che dice il tutto, il tutto di una tragedia da cui ci si può salvare , se la catena dei sentimenti supera quella dell'odio.

TINA ANSELMI

Premessa

La notte di San Valentino 2004 mi sono sve­gliata e, ancor nel dormiveglia, ho inteso una vo­ce insistente che mi invitava a scrivere: che cosa di così impellente?

Quanto per anni e anni ho tenuto segreto nel più profondo del mio essere, nella speranza di ri­muoverlo dalla memoria, di dimenticare ogni traccia di quel passato.

Pertanto nel profondo silenzio di quella notte invernale ho iniziato a riempire pagine su pagine, spinta da una molla liberatrice che finalmente ha avuto il sopravvento su ogni remora, e così per varie notti.

Questa stesura ha comportato la riapertura di ferite, vecchie di anni, rimarginate ma pronte a riaprirsi e ha rappresentato per me un profondo atto liberatorio: la volontà di cancellare l'odio con l'amore.

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1. Italia: 25 luglio ~ 8 settembre 1943,

in particolare Padova e dintorni

Ogni favola inizia così: "C'era una volta ... » .

Questa, però, non è una favola ma una realtà vissuta e sofferta, di cui evoluzione e conclusione sono sia tristi sia liete, come potrà constatare chi arriverà all'epilogo di queste note.

Con la numerosa famiglia abitavo allora - sia­mo nel 1943 - a Padova, in centro città, e preci­samente in via G. Galilei, al civico 18, breve tra­versa che congiunge via San Francesco con via del Santo.

Nel 1943 siamo in piena guerra, subita da noi italiani, imposta dal regime fascista.

Cinque dei miei sei fratelli maschi, vestiti del panno militare, sono dislocati nei vari fronti di guerra. Pure, sotto le armi, si trova il cognato Al­berto che ha lasciato a casa la dolce moglie Maria Maddalena, chiamata in famiglia Gina, con due figliolette, di cui la più piccola di pochi mesi.

I rovesci militari in Nord Africa come nei Bal­cani (in Russia le ostilità s'erano già concluse con la ritirata dei nostri e dei tedeschi al di qua del

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Don) sono annunciati sempre più frequentemen­te: guerra mal decisa e mal condotta.

Con circospezione apprendiamo le notizie reali attraverso Radio Londra.

Finalmente il Gran consiglio, riunito a Roma in seduta straordinaria presieduta da Dino Grandi, il 25 luglio 1943 mette in minoranza Mussolini, capo del governo italiano. Il re, Vittorio Emanuele III di Savoia, lo fa arrestare dopo convulse e pro­lungate votazioni dei membri del Gran consiglio.

Il duce è tradotto segretamente sul Gran Sasso, in Abruzzo, dove sarà liberato il 12 settembre 1943 dall'aviatore tedesco Skorzeny, giunto ardi­tamente fin lassù.

In seguito Mussolini, indottovi da Hitler di cui sarà succube sino alla morte - avvenuta per fuci­lazione a Dongo sul lago di Como il 28 aprile 1945 -, dà vita alla Repubblica di Salò sul Garda.

Da questo momento si scatena in Italia la guer­ra civile.

Il 25 luglio 1943, a Padova noi giovani ci riu­niamo numerosi per le vie della città a festeggiare l'accaduto mentre i nostri genitori, ben più saggi e realisti, tentennano il capo dubbiosi.

Arriva settembre

Questo è un mese che segna per l'Italia una da­ta vergognosa da un lato ma radiosa dall'altro per il riscatto da parte dei suoi figli migliori. L'8 set­tembre alle ore 19.30, attraverso la radio italiana,

lO

ascoltiamo il proclama in cui Badoglio annuncia l'armistizio firmato a Cassibile già il 3 settembre tra il nostro incaricato e gli anglo-americani.

Il testo è il seguente: "II Governo Italiano, riconosciuta l'impossibi­

lità di continuare l'impari lotta contro la schiac­ciante potenza avversaria, nell'intento di rispar­miare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l'armistizio al generale Eisenhauer. La ri­chiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni ostilità contro le forze anglo-americane deve ces­sare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Es­se però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza» I.

L'Italia si illude che la guerra finisca. Con questo sibillino annuncio, le truppe italia­

ne sono lasciate in balia di se stesse, senza alcuna direttiva, sia nel territorio italiano, sia all'estero.

Infatti, gli alti comandi italiani antepongono la propria sicurezza alla guida dei propri sottoposti e casa Savoia, contornata da folta schiera di con­siglieri e militari, abbandona Roma lasciando la capitale a se stessa.

Costoro si dirigono verso il Sud Italia (da lì s'imbarcheranno in seguito verso l'Egitto) dove, da tempo, sono sbarcate le truppe anglo-america­ne intenzionate a risalire verso il Nord Italia per liberare tutta la penisola dall'occupazione tedesca, iniziata dopo l'armistizio.

I Cf. /. M ONTANElLI - M. CERVI, L'Iralia del Novecento, Riz­zoli, Milano 1999, p. 234.

Il

La risalita è lenta perché resa difficile dalla strenua difesa delle posizioni raggiunte da parte delle truppe tedesche che ora, qui, sono numero­se, egregiamente armate e organizzate giacché da mesi si sono in gran parte ritirate da altri fronti.

Alla fatidica data dell'8 settembre, i nostri mi­litari sono completamente privi di direttive da parte degli organi supremi.

Mio fratello Augusto, trentaquattro anni, capi­tano d'aviazione di stanza nell'aeroporto di Pola, viene fatto prigioniero dai tedeschi perché non vuole collaborare con loro. Gli ufficiali d'aviazio­ne e altri non aderenti che si trovavano in Istria, vengono stivati nella motonave Vulcania che li conduce a Venezia. Mentre la stessa si trova alla fonda presso il bacino di San Marco con il suo ca­rico umano, vengono caricate le derrate alimenta­ri necessarie all'equ ipaggio e ai «cl ienti» prove­nienti dall'Istria.

Ad Augusto balena un'idea brillante: to ltos i cappello e giacca e copertosi testa e spa lle con un sacco vuoto ricevuto da un facchino che faceva la spola dalla banchina a bordo nave e viceversa, si mischia con gli scaricatori e con la loro complici­tà, una vo lta a terra, si dilegua sfuggendo alla oc­chi uta vigilanza nazista. La rocambolesca fuga si conclude positivamente a Padova. Trafelato e in­credulo arriva a casa nostra e si preoccupa subito di trovare un messaggero da inviare alla moglie Anton ia che abita a Vicenza.

Rassicuratosi ch'ella stia bene e conscio di non poter sostare, trova modo di nascondersi a San

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Pietro in Gù presso l'abitazione di alcuni cono­scenti. In seguito, ottenuti tramite amici i neces­sari documenti per poter circolare, riprende una vita pressoché nonnale.

Anche il fratello Mario, pure lui arruolato in aviazione con il grado di sergente, ce lo siamo visti arrivare a casa con un amico dopo essere scappato a piedi dalla caserma di Verona dove prestava ser­vizio militare.

L'amico ha proseguito per il Sud mentre Mario è rimasto in famiglia solo per un po' di tempo: es­sendovi spie in tutta Padova, trova ospitalità e ri­fugio a San Donà di Piave, presso i gen itori della fidanzata di nostro fratello Domenico.

Di Domenico nulla si sapeva e così pure del suo battagl ione di cavalleria paracadutata di stan­za in Yugoslavia.

In seguito, Mario rientra di nascosto in fami­glia, a Padova, partecipando anche lui alle attiv ità particolari di cui noi in casa ci stavamo occupan­do: la «catena di salvezza».

Contemporaneamente, molti nostri militari salgono in montagna, dove operano da tempo le brigate partigiane per ostacolare le operazioni del­le truppe tedesche.

Altri, nella stragrande maggioranza, rimango­no fedeli al giuramento militare, sentendosi da questo impegnati verso la patria, per cu i sono fatti prigionieri dai nazisti e quindi inoltrati nei campi di concentramento del Terzo Reich. Tra questi si trova anche quello che in seguito diventerà mio marito, Carlo De Muri, scappato dal treno, che

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con molti altri commilitoni, dopo essere stato fat­to prigionierio dai tedeschi, è avviato in Germa­nia. In seguito è vissuto alla macchia m contatto con la Resistenza francese, per rifugiarsi quindi in Spagna dove è vissuto sino alla fine della guerra:

A quella data, si trovano allo sbando anche I prigionieri di guerra che popolano i campi di con­centramento nel Nord e Centro Italia.

I prigionieri anglo-americani nel padovano

In quegli anni, nel padovano, l'economia è prevalentemente agricola, la campagna è intensa: mente coltivata e ab itata da contadml, bracclantl e affi ttuari.

A Saonara, in provincia di Padova, sono gran­di proprietari i fratelli Sgaravatti.

Di costoro sono i vasti vivai dove, prima dell'8 settembre, prestavano la loro opera i prigionieri di guerra prevalentemente sudafricani, neozelandesi e inglesi ospitati in un campo di raccolta. . .

Nel tempo libero dal lavoro campestre, talt pn­gionieri hanno avuto modo di entrare in contatto e creare rapporti di amicizia con i contadml del posto. Dopo 1'8 settembre, i portoni di questi cam: pi si aprono e quanti li popolano, che sognano plU che mai la libertà, ora sono liberi.

Escono così dai cancelli e si sparpagliano per la campagna circostante celandosi nei fossat i e in mezzo alle colture autunnali non ancora raccolte.

Il freddo notturno, il bisogno di cibo e acqua

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rendono coraggiosi quegli uomini, sp ingendoli a bussare alle porte dei casolari circostanti.

Senza tener conto dei pericoli cui vanno in­contro, i contadini offrono cibo, vestiti e un rico­vero nei fienili, nelle stalle, nei ripostigli degli at­trezzI.

In un secondo tempo li accolgono anche nelle proprie case: è più importante il rapporto stabili­tosi con loro che la paura di rastrellamenti da par­te dei fascisti e degli occupanti tedeschi ' .

Tali contadini scrivono una pagina meravi­gliosa di solidarietà verso i perseguitati dai nazisti, che oramai hanno militarmente occupato l'Italia centro-settentrionale, e dai fascis ti che con loro collaborano.

Anche tante famiglie ebree trovano rifugio nei casolari immersi nei campi, alcuni presso famiglie e molti altri nei conventi.

II lO settembre Padova è occupata dai tedeschi che non incontrano alcuna resistenza. Contempo­raneamente, in questa città si forma e inizia a ope­rare il Comitato di liberazione nazionale (CLN) che diventa punto di riferimento per tutto il Ve­neto: i professori universitari Egidio Meneghetti, Concetto Marchesi e Silvio T rentin sono i suoi massimi esponenti.

Anche parte della chiesa cattolica è profonda­mente coinvolta nella lotta contro l'occupante e

2 Cf. R. ASSALOM, A strange alliance. Aspecrs of esca/.>e and survival in Iraly /943·/945, Leo Olschki , Firenze MCMXCI, p. 105.

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nel tentativo di salvare il maggior numero poss ibi­le di vite mediante i parroci di città e campagna e i conventi maschili e femminili, e così pure molti laicj si prodigano in opere di solidarietà.

E una gara tinta di res istenza civica che, per molti , in seguito si trasformerà in impegno politi­co: è una lotta per la libertà, una lotta contto l'op­pressore. Memoria e storia ci hanno portato alla li bertà e chi ricorda trasmette agli altri il proprio vissuto, le proprie esperienze.

Dopo l'occupazione da parte dei tedeschi, Pa­dova viene tappezzata di avvisi redatti in italiano e in tedesco in cui si assicurano cinque ch ilogram­mi di sale da cucina - bene di consumo introvabi­le - e cinquemila lire a quanti fanno il nome di chi ospita un prigioniero, o svelano dove si na­sconde qualcuno di costoro. Erano pure intensa­mente ricercati i giovani renitenti alla leva e i di­sertori dell'8 settembre 1943, nonché gl i ebrei.

Per comprendere il valore del sale a quel tem­po, mi sembra utile riportare quanto feceto nella mia famiglia per ottenere la salarura del cibo ne­cessaria all' organismo.

Ripetutamente il papà, assieme all'unico figlio maschio di quattordici anni rimasto in casa (il se­sto dei maschi, anche lui prelevato in seguito dalla Todt J), si recava in bicicletta fino alla laguna ve-

l L'organizzazione Todt venne istituita nel 1933 da ll ' inge~ gnere tedesco Fritz Todt con lo scopo di lenire la disoccupazio­ne in Germania attraverso la rea lizzaz ione di migliaia di chilo­metri di autos trade. Durante la seconda gue rra monel iale la

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neta per raccogliere l'acqua salata da portare a ca­sa. Papà con una damigiana da cinquantaquattro litri dietro e una da venticinque litri davanti; Giancarlo con una so la damigiana da venticinque litri dietro. Arrivati a una specie di piccola peni­sola, chiamata dei Figheri, riempivano le damigia­ne con acqua abbastanza salata, per poi riprendere la via di casa in bicicletta.

Dopo tre mesi le bici fi ni rono per essere senza copertoni e senza camere d'aria per cui la mamma provvide con le fasce delle brande militari e con quantità sempre maggiori di ovatta a far sì che il marito e il figlio non smettessero la raccolta della preziosa acqua necessaria per la cottura dei cibi .

Tornando ai manifesti murali del tempo, oltre all'allettante ricompensa, ogni delatore avrebbe contribuito a lla salvezza e al benessere suo e dei suoi frate lli «perché ogni so ldato alleato tenuto nascosto significa un nemico di più nella sua lotta contro l'indipendenza».

l problemi per la salvezza dei perseguitati dai nazisti e fasc isti si aggravano.

Si fa ora più forte l' impegno degli antifascisti e antinazisti, scattano i primi meccanismi in scala organizzata in aiuto dei ricercati e dei loro soccor­ritori.

Wehrmacht (l'esercito tedesco) se ne avva lse per costruire for­tificazioni. In Italia ebbe il compito di potenziare le linee di difesa contro gli alleati utilizzando manodopera volam aria o reclutata a (orza. Molti giovani ital iani si arruolarono nella Todr, ottenendo così l'esonero dalla chiamata alle anni nella Repubblica di Salò.

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2. La «catena della salvezza»

Una nostra am ica, Elsa Vicinanza, impiegata presso la prefettura di Padova , si reca sa ltuaria­mente in campagna all a ricerca di viveri perché quanto si acquista a fatica con la tessera di razio­namento si trova in abbondanza alla borsa nera.

Ella riceve le confidenze di alcuni contadini preoccupati per la pericolosità della situaz ione che si era determinata: l'a llettante promessa di premi aumentava il rischio di soffiate sui prigio­nieri usc iti dai campi e da loro variamente soccor­si e, quindi, di incursioni nelle loro case.

A sua volta Elsa ne parla a mia sorella Teresa ed entrambe restano in attesa che venga in testa, a loro o ad altri, qualche buona idea per salvare i prigionieri.

Nel frattempo sia Elsa che la nostra famiglia osp itano dei prigionieri sudafricani, anche loro «ricercati». Noi sorelle, quattro su se i, abitiamo a Padova con i gen itori e ora l'una ora l'altra ci re­chiamo in campagna presso i contadini, special­mente a Saonara , senza dimenticare d i passare per Battaglia Terme dove c'è un campo di con-

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centramento. Parliamo con i prigionieri in forma amichevole portando loro quel po' di cibo d i cu i disponiamo; ricordo, in particolare, i sacchetti di pane biscotto.

Nel contempo, tranquillizziamo i contadini sempre più preoccupati per l'incolumità propria e di quanti vengono da loro osp itat i.

Ora, a distanza di tempo, con la mente sgom­bra da timori, speranze e preoccupazioni, logica­mente insiti nella situazione di allora, mi sembra di poter affermare con serenità ed equilibrio che a ciò siamo state indotte da vari motivi, convinte di aver fatto la scelta giusta.

In primo luogo l'impellente necessità di strap­pare alla morte il maggior numero possibile d i vite umane. Il nostro pensiero andava ai nostri fratelli lontani e al cognato, fatti prigionieri e trasportati chissà dove. Anch'essi versavano nel bisogno, an­ch'essi erano senz'altro privi del necessario per una «dignitosa» sopravvivenza, privi di notizie dei propri cari ma, soprattutto, della libertà, di quella libertà per la quale noi ci stavamo battendo.

Poi, almeno da parte mia, una certa dose d'in­coscienza e l'attrazione che poteva esercitare il «nuovo», il «diverso», su una giovane vita guan, do si era costretti a «rigare» entro limiti ben stret­ti: taci, il nemico ti ascolta, era uno degli impera­tivi allora più diffusi. Il rischio esercita la sua at­trazione, le cose vietate sono que ll e c he più seducono.

A questo punto, un evento apparentemente casuale comporta un sa lto di qualità nel sistema

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di soccorso attraverso il contatto, preso dalla so­rella Lidia, con un ufficiale scappato dopo 1'8 set­tembre dal campo di av iazione di Padova e ora nascosto in c ittà.

Costu i, di nome Armando Romani" diventa un ab ile agente informativo alle dipendenze del console italiano di Lugano;. Egli prende in mano a Padova la «rete di salvataggio'" precedentemen­te guidata da padre Artero e da don Zanin costret­ti entrambi a fuggire in Svizzera perché ricercati.

Romani espone il suo piano a mia sorella Tere­sa che a sua volta mette al corrente i nostri genito­ri e le altre sore lle. Posso dire dunque che la nostra «resistenza" sia scattata come conseguenza della formazione ricevuta in famiglia e in parrocchia.

Infatti, tutti aderiamo a questo piano desidero­si di contribuire alla salvezza del maggior numero di persone ricercate, senza pensare ai rischi cu i an­diamo incontro, mossi prevalentemente da carità cristiana.

Solo in un secondo tempo subentra l'impegno politico, specia lmente in mia sorella Teresa che all'università comincia a interessarsi di problemi sociali, soprattutto del confronto fra società de· mocra tiche e dittatura fascista discutendone con alcuni compagni di studio.

~ Cf. ivi. 'i Cf. G. DE ROSA (a cura), I cattolici e la Resistenza nelll

Venezie, /I Mulino, Bologna 1997, G. DE ROSA, Il movimenfO cauolico in lralia , Lacerza, Bari,Roma 1979.

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In quel periodo conosciamo pure padre Placido Cortese ', da l 1937 direttore de l «Messaggero di sant'Antonio» (edito dalla basilica de l Santo), una rivista diffusa in tutto il mondo.

Costu i ricevette da parte delle autorità prepo­ste, e precisamente dal card inale Borgongini Du­ca, nunzio apostolico in Italia e delegato pontifi­cio della basilica del Santo, l'incarico di assistere gli ebrei, i croati e gli sloveni internati nel campo di concentramento di Chiesanuova, alle porte di Padova, sia spiritualmente come pure trasmetten­do loro, di nascosto, pacchi di viveri e vestiario nonché lettere da parte delle loro famiglie.

Le cronache conventuali di quel tempo ripor­tano che il santuario antoniano in Padova, grazie alle garanzie di cui fruisce quale territorio del Va­ticano, costituisce un rifugio sicuro per gli uomini minacciati e perseguitati. Questo padre è partico­larmente sensibile e attento ai bisogni dei perse­guitati.

Le leggi razziali, emanate nel 1936 in Genna­nia e nel 1938 in Italia, sono inizialmente disatte­se nel nostro paese, ma ora vengono fatte rispetta­re con sistemi inumani da parte dei fascisti e dei nazisti.

A ricevere l'aiuto di padre Cortese sono anche i numeros i prigionieri alleati disseminati nel terri­torio patavino.

6 Cf. A. TOTTOLl, Padre Placido Cortese viuima del nazismo, Edizioni Messaggero, Padova 2002, p. 13.

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Benché sconsigliato dai superiori, padre Corte­se continua a provvedere in vario modo alle ne­cessità impellenti: è in contatto con il CLN di Mi­lano, del quale è figura di spicco il professar Fran­ceschini, docente dell'Università Cattolica della città meneghina.

Con lui porta avanti vari progetti che hanno come fine la sottrazione del maggior numero pos­sibile di vite in pericolo dagli sgherri fascisti e na­zisti.

Padre Cortese non si mette dalla parte dei più forti ma non è neppure neutrale.

A Padova prende forma la «catena della sal­vezza» di cui noi sorelle (Teresa, Lidia, Renata, Liliana) siamo dei semplici anelli.

Necessitano: abiti civili, poiché la maggior parte degli ex prigionieri veste tuttora la divisa militare; documenri d'idenrità italiani; mezzi di trasporto (individuati nelle Ferrovie dello Stato), un punto d'inconrro stabilito tra i fuggiaschi e le guide per accompagnarli in Svizzera.

Il percorso programmato è Padova-Milano, do­ve si cambia treno e linea, per proseguire sino a Oggiono, sul lago di Como, dove le persone ven­gono affidate a conrrabband ieri precedentemente avvisati e profumatamente pagati tramite Romani.

Saranno cosroro a far attraversare il confine itala-sv izzero, verso la salvezza, a ex prigionieri, ebrei e italiani renitenti alla leva militare.

I viaggi della speranza si susseguono senza in­convenienti e tutro procede come desiderato e previsto. Oltre a noi sorelle Martini, varie sono le

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persone impegnate, come Delia Mazzucato, Fran­ca Decima, Milena Zambon, Parisina Lazzari, tut­te di Padova e Delfina Borgato con sua zia Maria di Saonara (Padova).

La partecipazione diretta delle donne contro la quotidiana follia nazista e fascista è stata un con­tributo indispensabile alla lotta di liberazione, alla salvezza di tante vittime.

A questo proposito va ricordato che la presen­za femminile si è resa necessaria per vari motivi: la sensibilità della donna meglio recepisce i bisogni di chi soffre, la sua presenza può più facilmente passare inosservata menrre gli uomini o sono pri­gionieri di guerra, o sono sui monti quali partigia­ni, oppure appartengono alla Repubblica di Salò istituita da Mussolini su ordine di Hitler.

Dalla stazione di Padova partono anche prigio­nieri provenienti da altri comuni patavini come Este, Monselice, Cittadella ... i quali salgono negli 5compartimenri, mescolandosi ai civili, diretti nel Trentino dove pastori e boscaioli li aiutano ad at­traversare le Alpi per proseguire verso la Svizzera.

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3. L'arresto

Dopo l'inizio dell'esodo dai campi di concen· tramento e l'organizzazione della fuga oltre il con· fine delle persone ricercate, a Saonara e a Piove di Sacco si avvertono meno la preoccupazione e la tensione, anche se di prigionieri se ne trovano ano cora nascosti tra canoniche, conventi e casolari nonché in città, presso famiglie fidate.

Verso la metà di marzo è in programma un en· nesimo viaggio Padova-Milano-Oggiono. Come nei casi precedenti, necessita preparare i docu· menti di identità e altresÌ provvedere al vestiario civile per i prossimi partenti.

Per organizzare la partenza il 13 marzo 1944, con la mia bicicletta, unico mezzo di trasporto ano cora a disposizione - dopo qualche mese sarebberr state requisite le gomme delle bici mentre eran! già stati ritirati (dietro rilascio di un buono) i co· pertoni delle automobili -, mi reco a Saonara nel· le prime ore del pomeriggio percorrendo allegra mente quella dozzina di chilometri dopo aver pre so parte, nella mattinata, alle regolari lezioni ne mio liceo.

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Giunta a destinazione e salutata la famiglia Borgaro, in stretta relazione con noi perché parte dell'organizzazione, chiedo di incontrare coloro che sono destinati al prossimo trasporto. Nella borsetta porto un pacco di foto formato tessera fornitemi da padre Cortese (le aveva staccate dal­l'Arca dell'altare di sant'Antonio) per trovare quelle i cui volti fossero più somiglianti ai prigio­nieri, allo scopo di riportarle nelle loro nuove car­te di identità. Come direttore del Messaggero, pa­dre Cortese ne riceveva parecchie da parte di per­sone riconoscenti verso sant' Antonio per «grazie ricevute ».

La piccola persona fisica di padre Cortese si staglia imponente quale «resistente» con la sua carità. Infatti, è una figura di primo piano nella resistenza padovana: è amico e punto di riferimen­to per rifugiati, perseguitati politici, ebrei di ogni nazionalità, persone che versano in precarie con­dizioni ed ex prigionieri di guerra.

Fa parte del movimento FRA-MA (France­schini-Marchesi) che coinvolge soprattutto vene­ti e lombardi.

A Saonara, mi incontro dunque con cinque giovani uomini, quattro dei quali sono alti e bion­di mentre il quinto è picco letto e bruno.

Non parlano durante l'incontro. lo li guardo e quindi passo in rassegna le foto in mio possesso al fine di individuare quelle più somiglianti.

Con Delfina e Maria Borgata resto d'accordo che ci sentiremo per telefono sulla data di parten­za e sulle modalità per far pervenire loro docu-

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menti e vestiario. L'unico telefono «sicuro» in Saonara è quello della farmacista e di quello si ser­vono le Borgato per mettersi in contatto con noi. La farmacista, che conosce e stima Maria Borgato, le consegna, inoltre, varie medicine per curare gli ex prigionieri ammalati.

Il giorno seguente, 14 marzo, nelle prime ore pomeridiane accompagno mamma a Campo Mar­te, da dove partono i treni, dopo che la stazio­ne centrale è stata resa inservibile dai bombarda­menti.

Mamma è diretta a Schio dove, presso lo zio don Alessandro (fratello del papà), si trovano Giancarlo, il più giovane di noi dodici fratelli, e papà che, ferito al piede, non può muoversi con speditezza durante i frequenti allarmi e bombarda­menti a Padova.

Nella strada di ritorno incontro mia sorella Te­resa con tre dei cinque uomini visti il giorno pri­ma a Saonara; sono vestiti come il giorno prece· dente. A quella vista, provo prima meraviglia e poi sentimenti che si trasformano in angosciosa paura quando Teresa mi sibila ... SS.

Esse si erano presentate a casa nostra, accom· pagnate da Delfina Borgato che, dopo la mia par· tenza da Saonara, era stata arrestata insieme al pa· dre, a zia Maria e ad altri contadini.

Vengo anch'io catturata e tutti insieme proce· diamo verso casa nostra dove siamo sottoposte, se· paratamente, a incalzanti interrogatori. Prima di questi, un piccoletto bruno di nome Franz, l'unico dei cinque a parlare italiano, mi invita a dire «tur·

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(O» poiché, così facendo, avrei evitato spiacevoli conseguenze. Sia Teresa che io neghiamo, neghia­mo e continuiamo a negare.

A questo punto mi sembra che il mondo mi crolli addosso e che con esso venga distrutta, a causa mia, la famiglia e nel contempo si spezzi la .catena della salvezza» a favore di tanti derelitti che contano sul nostro aiuto.

Chiedo di andare in bagno e uno di loro vuole entrare con me, al che io mi oppongo energica­mente. In questo locale si trova infatti un capace guardaroba dove custodiamo parecchi abiti civili famitici dalla ditta Bonato di Padova dietro inte­ressamento di padre Cortese. Prendo alla rinfusa tali abiti e frettolosamente li butto dalla finestra nel giardino sottostante, che è quello dei nostri vicini.

Tra me penso: «Questa presenza è certamente a nostro carico se ispezionano la casa, meglio per­ciò farla sparire in qualche modo».

In seguito, per guadagnare tempo e nella spe­ranza che accada un qualunque evento a noi favo­revole, offro loro il caffè.

A tal proposito, ricordo che la mamma era a quel tempo famosa in citrà, tra amici e conoscen­ti, nella preparazione di quella bevanda ottenuta dalla essiccazione e tostatura di varie radici, maci­nate poi da noi figli. Infatti, il caffè-caffè, come allora veniva chiamato il vero caffè, non era più In commercio da tempo.

Dal salone superiore scendo a piano terra con tre di loro e in cucina faccio scaldare, con il gas,

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parte della bevanda conservata in un fiasco "pron­ta per l'uso». La verso nelle tazzine con poco zuc­chero, infatti anche quello scarseggia.

Prima di accettarla, mi costringono a berne, cosa che faccio ben volentieri, senza minimamen­te immaginare quanto tempo sarebbe passato pri­ma di poterne gustare ancora!

In questa circostanza, parlando naturalmente in tedesco, lingua che conosco perché studiata al ginnasio, uno di loro mi grida con fare minaccioso che mi schiaccerà come una noce per estrarmi tut­ta la verità. Fingo di non capire.

Franz e gli altri due, che si trovano ancora al piano superiore con Teresa, perquisendo la sua stanza da letto, scoprono nel comodino un pac­chetto di biglietti da mille lire di grande taglia, di color rosato (ora, nel 2004, a una banconota da mille lire corrisponderebbero circa tre milioni di lire, ossia millecinquecento euro), soldi fattici pervenire da Romani che li riceveva dal conso· le britannico di stanza a Lugano (Svizzera) e dal Vaticano attraverso padre Cortese, per affrontare le molteplici necessità inerenti all'opera di salva· taggio 7.

Franz li prende e se li mette semplicemente in tasca, mi dirà in seguito Teresa.

Solo in questo momento mi rendo conto di es· sere in trappola. Ora Franz, unico dei cinque a

7 È doveroso ricorJare che i primi soldi per far fronte aUt' necessità dell'operazione di salvaraggio ci sono Sfati consegnarl dal nos tro papà Martini.

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parlare italiano, dice a Teresa e a me di prendere qualche cosa con noi e di seguirli.

Nella completa ignoranza di quanto mi sta ac­cadendo, mi limito a prendere un asciugamano e lo spazzolino da denti, oltre al mio cappottino fat­to recentemente e di cui vado molto orgogliosa.

Usciamo tutti e sette da casa dove, per il mo­mento, resta solo la nostra domestica Norma, che verrà arrestata in seguito e tradotta pure lei nelle carceri d i Venezia.

Per loro fortuna non si trovano in quel mo­mento a casa le sorelle Lidia e Renata; la prima stava accompagnado due ebrei a Milano-Oggio­no, mentre la seconda si era recata in centro per effettuare delle commissioni.

Ci avviamo verso Prato della Valle e chi ci in­contra, può scambiare i nostri accompagnatori co­me conoscenti a passeggio con noi. In Prato della Valle si trova il comando tedesco dove, però, non ci fanno entrare.

In un bar lì vicino, Franz offre a Teresa e a me una cioccolata calda; forse per ricambiare i caffè bevuti a casa nostra dai suoi tre camerati. Mentre beviamo, noi sorelle cerchiamo di toccarci il pie­de sotto il tavolino accompagnando il gesto con un impercettibile movimento del capo come per dirci: "Non parliamo, noi non sappiamo nien­te», ma Franz se ne accorge e ci richiama brutal­mente.

Infine, guidati da lui, ci dirigiamo verso un ca­mion che staziona poco lontano e che prima non avevo notato, dentro cui si trovano già numerosi

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contadini conosciuti precedentemente da noi, e anche Delfina, suo padre e sua zia Maria. T uni sono stati arrestati nelle loro abitazioni il giorno precedente, dopo la mia partenza da Saonara, e tradotti per la notte nelle carceri di Piove di Sac­CO, «al sicuro».

A tale vista sono invasa da un profondissimo sconforto e da indescrivibile contrarietà.

Ora capisco che quei cinque delle SS (i quattro biondi alti e il bruno basso) venuti ad arrestarci si erano precedentemente spacciati per prigionieri alleati e, perciò, erano stati generosamente accolti dai contadini come tutti gli altri che erano alla macchia.

Come spie i cinque osservavano, annotavano e trasmettevano i messaggi alle loro autorità in atte­sa di conoscere chi tirava le fila della nostra orga­nizzazione, mentre i contadini li rifocillavano e li accoglievano caritatevolmente trattandoli come fossero figli loro.

Ora, eccoli qui quei contadini! Arrestati, mal­menati, trattati come bestie e pronti per essere in un primo tempo trasferiti in prigione e in seguito avviati nei campi di lavoro o di sterminio in Ger­mania, da dove non tutti torneranno.

Salite sul camion, mestamente li saluto tutti con un'occhiata, siamo ignari della prossima de· stinazione e di quanto ci è riservato.

È profondo il buio attorno a noi, impenetrabile dentro di me: qui i pensieri si susseguono e si scon· trano gli uni contro gli altri senza che io riesca a dar loro un po' d'ordine, una logica.

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Dopo circa un'ora - Teresa aveva l'orologio­che mi è parsa un'eternità, al chiarore della luna scorgo dei barlumi, come di lame illuminate; è I~ laguna di Venezia: lo deduco percorrendo il lungo ponte che congiunge la città lagunare alla terra­ferma.

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4. Prigione di Santa Maria Maggiore a Venezia

Dopo l'arrivo a Venezia e un tragitto con un mezzo pubblico riservato esclusivamente a nOi, CI fanno scendere.

Increduli e smarriti, oltrepassiamo un massic­cio portone. È la prima volta che metto piede in un carcere .

L'impressione che ne riporto è deprimente e aggravata dalle ptocedure cui sono sottoposta. .

Uno dopo l'altto, gli uomini da una parte, nOI donne dall'altra, ci sottopongono a varie operazio. ni quali: dichiarazione delle notizie anagrafiche individuali suggellata dall'impronta del pollice destro, operazione questa che mi ha avvilita anco· ra di più: in quel preciso istante, mi ha fatto semI' re un comune delinquente; la consegna, da parte nostra, dei lacci delle scarpe e della cintura non· ché di qualsiasi altro oggetto ritenuto pericolo5() "per la nostra incolumità». .

Ci troviamo lì, tutte spaurite come fOSSImo pe' core senza pastore in balia dei lupi, con dinanzi un greve buio.

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Ecco che avverto un opprimente stridio di ca­tenacci, subito seguito da un sinistro rumore di chiavi e dalla fosca apparizione di una figura fem­minile, alta e magra come la strega delle favole. Teresa e io siamo affidate a lei e, quindi, con la scorta delle SS, saliamo per una stretta scala e ci fanno entrare, verameme in malo modo, in celle di punizione separate. La mia porta il numero 5.

Il primo impatto è di incredulità, non riesco a raccapezzarmi, tanto che mi sembra di vivere an­cora in un brutto sogno.

Questo sarà il luogo che mi ospiterà per oltre quattro mesi!

Per quel che ricordo, la cella misura circa 250 per 150 centimetri ed è fornita di un traliccio in ferro fissato alla parete di sinistra (entrando) con sopra un pagliericcio: il mio nuovo letto.

Vicino alla porta si trova un bugliolo per le necessità fisiologiche mentre in alto, sotto il sof­fitto, si apre una finestrina. All'interno, nell'ango­lo di destra, vi è un treppiede ligneo con sopra un catino. . Un particolare da non dimenticare è lo spion­

cmo nella porta che funge da osservatorio da parte di chi ci tiene prigionieri e che serve per far passa­re la sbobba quotidiana.

Questo è il mio nuovo regno dove vivere e so­gnare ... Per quanto tempo?

Dopo queste prime sommarie impressioni, se­gue la prima notte di prigionia tra pensieri, i più s\'anatl, che SI accavallano convulsamente gli uni sugli altri.

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Che ne sarà di noi? Come faranno a sapere i nostri cari dove ci troviamo? Quale nuovo dolore st iamo recando loro? Che ne sarà dei prigionieri che attendono da noi la salvezza? Potrà operare ancora la catena della solidarietà?

Che si dirà al liceo da me frequentato sulla mia improvvisa scomparsa?

Questo e altro ancora mi turbina in testa e mi attanagl ia il cuore in una morsa insopportabile per cui, con fatica, riesco a chiudere gli occhi, insegui­ta da sinistri fantasmi nel sonno agitato.

Il ri sveglio del primo giorno in carcere è tinto di stupore, pervaso da grande confusione e deve trascorrere un po' di tempo prima che mi renda conto del luogo in cui mi trovo. Emergendo dalle nebbie di un sonno pesante che non pre lude a nulla di buono, ben presto mi rendo conto della realtà in cui sono immersa senza immaginare, nel contempo, come avrebbero potuto svolgersi i fatti che ci riguardano.

L'ottimismo innato e la fede in cui ero stata cresciuta, mi fanno innanzi tuttO rivolgere il peno siero fiducioso a Dio Padre, pur con l'angoscia e la paura che mi attanagliano.

N iente prima colazione! Riprendono invece molto pressanti gli interrogatori da parte di Franz. Le sue domande si susseguono senza sosta, intra· mezza te da botte e minacce.

Egli, infatti, sperando di far leva su l mio cuore nomina genitori e fratelli esposti a pagare per il mio cocciuto diniego e insiste a chiedermi di con· fessare nomi e luoghi da me conosciuti.

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Per i genitori, mi sento tranquilla, sapendo li al sicuro in quel di Schio con Gina e Giancarlo (mamma e Renata sono nascoste presso le suore canossiane come saputo in seguito; papà e Gian­carlo, presso lo zio don Alessandro); ma i miei fra­telli e mio cognato, tutti militari, dopo 1'8 settem­bre, sono prigionieri degli alleati o dei nazisti. Per­ciò li penso «a l sicuro» e quindi non mi sento più di tanto preoccupata. Di mio fratello Sandro, pur­troppo, ~ulla so dal febbraio 1943, ossia da quan­do non e nentrato a lla base con l'aerosilurante SM 81 (trasformato in bombardiere SM 79 dopo che era stato abbattuto due volte) da un'azione contro un convogl io americano che stava sbar­cando materiali vari a Bona, in Tunisia.

Tranquilla per quanto riguarda i familiari, pos­so dunque tenere con Franz un contegno impass i­bile, quasi distaccato, né mi spaventano le botte e le minacce.

CosÌ procede la vita per alcuni giorni, che si susseguono monotoni ma car ichi di incognite, non solo per il mio avvenire ma anche perché sono priva di notizie di qualsiasi genere , anche sul conto di Teresa che «vive» poco lontano dalla mia cella. Fra tanto sconcerto, mi è stato di intimo sollievo il non aver avuto a che fare con i fascisti italiani come me, se pure indegni e da me combat~ tuti.

. Contro la mia volontà imparo ora a fare la pri­glomera, specia le per giunta. Infatti, come Teresa . , ncevo un trattamento particolarmente severo ri­spetto agli altri, che sono stati arrestati insieme a

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noi (perché secondo il punto di vista dei nazisti, avendo trovato in casa nostra i soldi, risultavamo essere di livello superiore nella gerarchia dell'orga­nizzazione sovversiva).

Mi rendo conto, e ne sono intimamente con­vinta che, quale prigioniera politica, di me posso­no fare que llo che vogliono.

Il mio spirito è però libeto e così i miei pensieri e i miei sogni, che non possono essere messi in catene: spirito, pensieri e sogni cavalcano le nubi, liberi nello spazio, alla ricerca di cicli nuovi dove tutto l'essere finalmente riposa.

Questa è la mia forza e di ciò mi avvalgo per affrontare gli aguzzini, ora e in seguito.

Dagli interrogatori, dopo l'arresto, Franz non ottiene quanto sperato per cui, finalmente, san la­sciata «tranquilla» a crogiolarmi nella mia nuova e inaspettata vita di carcerata.

Ecco come si svolge la mia giornara: la prima colazione consiste in una nera brodaglia fatta pas­sare attraverso lo sp ioncino (come ogni altro pa­sto giornaliero) pe r cui sono privata di ogni con­tatto umano, sia pure dell'arcigna carceriera. Le ore da far scorrere sono tante, sono lunghe e così un giorno dopo l'altro.

Non posso avere né carta né penna, né libro o giornale da leggere in attesa del pranzo che consi­ste in una gamella di liquido insipido rallegrato da qualche pezzo di patata o carota e da alcuni chic­chi di riso diventati enormi.

Qualche volta può esserci un pezzetto di pane accompagnato da qualcosa d'altro. Non lavoro,

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vivo in un mai provato «dolce far niente», che pos~o desiderare di più?

E atroce la mancanza d'acqua cui sono costret­ta: un litro al giorno che deve servire per ogni ne­cessità: come bere - siamo in estate - lavarmi, te­ner puliti i pochi panni di cui dispongo e sciac­quare la game lla. Al bugliolo ci pensano le prigioniere comuni addette a simile servizio.

Seguono le ore pomeridiane che ti pigliano al­lo stomaco, più di quelle antimeridiane, per la lo­ro vacuità e lunghezza infinita.

Resami finalmente conto della realtà in cui de­vo vivere - chissà per quanto tempo - ben presto mi impongo di riempire quel vuoto per non da­sciarmi andare» e canto. Sono stonata, adesso co­me allora, ma non me ne preoccupo e passo in rassegna tutte le arie che conosco. In particolare ricordo la canzonetta che diceva: "C'è una strada nel bosco ... ».

Poi prego e prego, richiamando alla mente tut­te le preghiere che fin da bambina ho imparato, allora molto spesso recitate senza sapere quello che dicevo, mentre ora capisco molto bene ciò che chiede, che grida il mio cuore. Capisco però che la preghiera è una grande risorsa e può rappre­sentare una risposta alle tante domande che mi turbinano in testa.

E quando le ho tutte passate in rassegna e di tempo ne avanza ancora tanto, ne invento di nuo­ve, e me la piglio talvolta anche con Dio che ades­so non sento papà amoroso, bensì il grancle assen­te nella mia giornata.

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Mi rifacc io nella notte, allorché le cimici non m i tormentano e posso smettere d i dar loro la cac­cia. Con una luce sempre accesa sopra la porta mi ri trovo a far sogni consolatori , meravigliosi, che in parte ancora ricordo.

Mi ritrovo sempre fra i miei cari , genitori e fra­telli , specialmente con Sand ro, al quale nel sogno mi rivolgo festante po iché è finalmente ritornato in famiglia, sano e salvo, dopo una lunga assenza. Di conseguenza al mattino mi sveglio rasserenata, rincuorata, pronta ad affrontare un 'altra lunga giornata, sempre priva delle notizie sino ad ora inutilmente attese.

Alcuni accadi menti vengono, però, a inter­rompere la sequela uniforme de lle mie giornate veneziane.

Ricordo distintamente la volta in cui s'è aperto lo spioncino e a me, incredula, è apparsa una ete­rea, bionda visione - molto ridotta a causa delle dimensioni dell'apertura attraverso la quale mi si è mostrata.

Ben presto concretizzatasi in una voce suaden­te e dolce oltre ogni dire, mi si rivo lge con fare materno compiangendomi e confortandomi: "Ma corne mai» essa quasi sussurra «ti trovi in questo luogo, sola, priva di ogni libertà e sottoposta a ri­gida sorveglianza, cosa mai hai combinato per me­ritare tutto ciò?» ,

E intanto asciuga le lacrime, che non ci sono, con un fazzolettino ornato di trine. Mi invita quindi a raccontarle le mie disavventure, ché for­se lei, principessa di casa Savoia, potrà aiutarmi.

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Dopo un comprensibile sbigottimento, rispon­do di non conoscere la causa de l mio arresto e del conseguente indegno trattamento cu i sono sotto­posta. La spia, che ce rto era ta le, visto che non riesce a ottenere da me alcuna ri velazione, mi la­scia in pace, so la con i miei pensieri .

Un giorno - questa finalmente è una be lla, quanto inaspettata avventura - la carceriera mi fa uscire da lla cella.

Assieme a Delfina e ad altre prigioniere - T e­resa però non c'è - naturalmente precedute e se­guite da lle guardie naziste, saliamo in un motosca­fo che a grande velocità - resa ta le anche dalla inerzia di tanti giorni - punta verso il Lido.

Q ui entriamo in una villa, requisita dai naz isti , alla cui pulizia siamo obbligate. Pulizie che faccia­mo vo lentieri, anche se la mancanza di cibo ade­guato e di normale movimento rendono goffo il nostro agire. Tra noi non poss iamo parlare perché impedite dalla occhiuta sorveglianza nazista, ma il solo rivederci ci infonde coraggio e fiduc ia.

Franz ci è sempre alle calcagna, ma di lui poco o nulla ci curi amo. Al momento godo intensa­mente de ll ' insperata «libertà.., di tan to movimen­to, della vista del c ielo azzurro, dei palazz i venezia­ni dorati da l sole e de i canali luccicanti , dell 'aria che tutta mi avvo lge e da lla quale mi lasc io dolce­mente inebriare.

Certo, se non ogni giorno come da regolamen­to carcerario, spesso mi conducono all'ora d 'aria, che consiste nell 'usc ire dalla mia cella, scendere le scale senza incontrare anima viva per passeggiare

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in uno stretto cortile lungo circa otto metri, cinta­to di alte mura per cu i non si vede nulla di quanto sta all'esterno.

Ma è pur sempre un cambiamento! Durante l'ora d'aria, una volta mi sono sentita

venir meno: mi sono ripresa nella mia cella senza ricordare quanto mi fosse accaduto. Me l'ha rac­contato poi Antonia, la carceriera che non era poi così arcigna e strega come mi era apparsa al primo incontro; anche se ho un dubbio: che siano stati i danari ricevuti dai responsabili del CLN ad addolcire il suo cuore, oppure il vedermi in quello stato?

È seguito un altro fatto, ben più importante per me e foriero di cose nuove, cioè l'entrata in cella di un sacerdote - da quanto tempo non ne vedevo uno? - per confessarmi, se lo desiderassi. Senza pensare che anche costui potesse essere una sp ia, l'ho subito scongiurato d i far sapere a mio zio, sa­cerdote a Schio, che le sue nipoti si trovavano in prigione a Venezia e che stavano bene.

Monsignor Urbani, questo il suo nome, futuro patriarca della città lagunare, si è categoricamente rifiutato di esaudirmi, forse perché potevano esser­ci dattorno orecchi indiscreti ... mentre, dopo tale incontro, i miei fami liari sono venuti a conoscen­za del luogo in cui eravamo recluse. Finalmente!

A proposito dei nostri fami li ari va detto che, dopo l'arresto, il papà ha trovato più sicuro rifugio a Schio presso l'amico pittore Alfredo Ortelli. La mamma c mia sorell a Renata sono rimaste, inve­ce, a Schio dalle suore canossiane, presso le quali

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lo zio don Alessandro celebrava la messa quotidia­na, mentre mio fratello Giancarlo ha trovato rico­vero presso la casa dei nonni, dove pure aveva tro­vato ospitalità mia sorella Gina con le sue due bambine, dopo la partenza del consorte per la guerra.

Mia sore lla Lidia, di cui ora racconterò in mo­do sintetico la sorte in quegli anni sfortunati, di ritorno da Milano, te lefona a casa e viene aggior­nata da Norma, la domestica, sugli ultimi avveni­menti: la casa è stata messa sottosopra dai nazisti che hanno arrestato le sue due sorelle T eresa e Li­Iiana.

A tale notizia, Lidia si ferma ad Annone Brian­za per alcuni mesi, ospite di un ex co lonnel lo se­gnalatole dal Romani come rifugio sicuro.

Dopo la lontananza di alcuni mesi, torna a casa nella speranza che non vi siano p iù motivi di peri­colo.

Nel tardo autunno, i fascist i cercheranno Lidia nella casa di via XX Settembre, a Padova, dove i nostri genitori avevano ricevuto generosa acco­glienza da parte di una famiglia sfo llata, essendo stata la nostra dimora requisita dai fascisti.

Alla risposta che Lidia non c'è e di fronte a una crisi card iaca della mamma, che aveva quattro fi­gli e due figl ie prigionieri e uno nascosto, i fascisti dicono di essersi sbagliati.

Ritornano però dopo circa un mese e, trovata­la, la conducono nelle carceri di Santa Maria Mag­giore a Venezia.

Qui rimane per due mesi assieme all'amica Pa-

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risina Lazzari di Padova, sua compagna nell'assi­stenza ai perseguitati.

In seguiro, Lidia viene trasferita a Verona nel Forte di San Leonardo dove conosce, tra gh altri, Edgardo Sogno che ritroverà più tardi a .Gries, in Alro Adige, assieme a Egidio Meneghettt.. . .

Qui è costretta a lavare i panni del pnglol1len fino al 25 aprile 1945, giorno in cui il campo di Gries (Bolzano) viene liberaro.

Dopo la liberazione, con Meneghetti e Sogno, Lidia va per qualche giorno in Svizzera e nrorna

quindi a Milano. . Ma la meta è logicamente Padova dove giunge

il30 aprile 1945. Nostra sorella Gina, dopo aver sapuro dove ci

troviamo vuole venirci a trovare e prende il treno per Vene~ia. Ma Mestre è sotroposta a un furioso bombardamento. E lei, scampata per un vero mi­racolo a tanta violenza, si presenta a Palazzo Du­cale dove ha sede il comando nazista-

I~timamente trema, ha paura, ma nulla di ciò fa trapelare all'esterno.

S i incontra finalmente con Franz al quale espone con coraggio la sua attuale situazione: il mariro prigioniero in Africa settentrionale dal quale non ha notizie; a casa due figliolette picco­line. ora con due sorelle in prigione, senza colpa, , . trascinate chissà come in azioni sconOSCiute, spe-cialmente Liliana ancora minorenne- Le è conces­so un colloquio di breve durata alla presenza dello stesso Franz, sia con me che con Teresa, ma sepa-

ratamente.

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.È immaginabile quanto conforto abbia portato a Ciascuna d i nOI tale insperato co lloquio!

Gma nesce pure a ottenere l'aurorizzazione di mandare (solo per me perché minorenne) qualche pacco-vlven, ma nessuno scritto sia dall'una sia dall'altra parte.

Per fortuna, con la complicità di Antonia la carceriera, riesco a dividere i viveri con Teresa:

Questi sono i piccoli e grandi avvenimenti che mi aiutano a vivere, a dare ancora un significato alla mia giornata_

Ma non sempre è così poiché il riso e il pianto, la rabbia e la delusione sono sentimenti che m· stordiscono, che non mi danno tregua nei momen~ ti neri_o Mi rendo conto, ora più che mai, quanro sia valido spendere la propria vita per un ideale, fidU CIOSI contro ogni apparenza negativa.

Solo dopo il _rientro da lla prigionia, ci spie­ghiamo Il perche di tanta munificenza nei nostri riguardi da parte dei nostri aguzzini: Teresa e io fummo condannate a morte e per quesro ci invia­rono un prete.

Fu grazie all'intervenro presso le autorità tede­sche da parte di un grosso personaggio politico, zio di una compagna d'università di Teresa di cu i né Teresa né io purtroppo ricordiamo il no~e, che la condanna fu tramutata nell'internamento in Ger­mania.

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5. Bolzano

Siamo verso il 26-27 luglio 1944. Una sera, una alla volta fanno scendere in direzione le don­ne che fanno parte del nostro gruppo. Qui ci ob­bligano a firmare un foglio nel quale è scritto che saremo trasferite a Fossoli, nome che in quel mo­mento non mi dice niente.

Il mattino seguente le SS conducono questo sparuto gruppetto d i donne alla stazione ferrovia­ria di Santa Lucia.

Fermamente, ognuna di noi spera in un inter­vento liberatorio da parte di appartenenti al CLN.

Ma di quanto agognato niente succede. Il treno parte col suo carico di sofferente uma­

nità e va ... dove? Non lo sappiamo. L'unica consolazione è rappresentata dal ritro­

varci finalmente insieme. C i sono Teresa, Delfina e sua zia Maria, Milena Zambon, le signore Rai­mondi, Battan e Zonta, Gabriella ed Erika di Go­rizia, nonché a lcuni prigionieri uomini.

Dopo un tempo che mai finisce, il convoglio si ferma e attraverso il finestrino leggiamo: Verona.

Qui vengono fatti salire molti uomini, tutti prigionieri politici detenuti da tempo nella fortez-

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za San Leonardo (cosa, questa, che sapremo in se­guito), che per la sua posizione domina tutta la cirtà scaligera.

Il treno riprende la sua lenta corsa per fermarsi definitivamente a Bolzano, città che dopo 1'8 set­tembre 1943 è passata sotto la giurisdizione dei te­deschi assieme a Trento e a Belluno, per cui nulla lì può sfuggire al controllo nazista.

Non ricordo come avviene il trasferimento alle carceri, rese fatiscenti dai bombardamenti che le avevano centrate in pieno.

Qui viviamo pressoché all'aperto ma in com­pagnia, e non solo tra noi: famelici cimici, scara­faggi e pidocchi non mancano di visitarci con as­siduità.

Questo luogo sinistro è illuminato dalla vici­nanza e conoscenza di a ltre donne, pure esse arre­state e qui tradotte perché coinvolte in movimen­ti di resistenza ai tedeschi, tra cui in particolare Albertina Brogliati'.

B Ricordo con fraterno affetro soprattutto Albertina Bro~ g.liati, c~n la q~ale ho rial.lacciaro amicali rapporti, dopo il mio nenrro 111 pa[na, rafrom. che si sono protratti sino al giugno 1985, dar~ nefasta In CU I ella fu barbaramente pugnalma in casa propna da un ladro imrodottosi durante una sua breve assenza.

A rico~d? dell '~mica prematuramente scomparsa riporto una breve Imca deJIGltale da mio marito Carlo De Muri Da-t'ilmi alla fotografia di Albertina Brogliati: '

lo ti guardo, Albenina dai tuoi occhi traspaion la vis ione e l'incanto

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Dopo circa una senimana viene fana la se lezio­ne. Maria Borgato (zia di Delfina, claudicante dal­la nascita), Milena Zambon (al momento con un piede malfermo) e altresÌ le signore Bonan e Rai­mondi, per il momento rimangono a Bolzano e cosÌ pure Albertina, in seguito trasferita a Mera­no, da dove doveva proseguire per Dachau, se ben ricordo.

Albertina, assieme a una compagna di sventu­ra, è riusci ta a fuggire dalla cittadella trentina sca­valcando l'alta recinzione e arrampicandosi su va­rie casse (da loro stesse riempite di preziosi, frutto

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di cieli lomani , quasi un rimpianto. E nasce nel mio cuore il pianw. Per re così buona, così generosa "ingratitudine più amara. In breve momento l'angosc ia, il terrore e la tragedia senza scampo. • <Mio Dio, perdona a lui perché non sa que llo che fa», Dicesti così. Ma ad un misero che morde la mano che dona, difficile e lento sa rà il nostro perdono. Troppo grave "offesa. Nei suo i giorn i lo segua come un'ombra il rimorso che rode. Caino non può impunemente uccidere Abele. Ma tu A lbertina viv i. Viv i nel cuore dei Tuoi. Vivi nel cuore d i chi ti conobbe. Vivi nel Parad iso sperato e intravisto che a noi significast i amorevolmente con la tua arte, quaggiù.

di funi eseguiti dai tedeschi a danno dei civili ita­liani) ; hanno osato, senza sapere cosa ci fosse oltre quel muro.

La fortuna e l'audacia le hanno assistite poiché sono «planate» su un prato erboso che ha perciò attuti to il loro tonfo. Ripresesi, inebriate dalla ri­conquistata libertà, sono fuggite in cerca di aiu to, trovato presso abitanti del posto.

In seguito, Albertina è vissuta alla macchia riu­scendo però ad avvertire la mamma (che co~ lei era stata arrestata e poi liberata ) della sua <<nuova dimora» mentre Lidia, sua sorella, COntinuava nel pericoloso incarico di «staffetta».

Le altre, rimaste a Bolzano, solo in un secondo tempo saranno trasportate a Ravensbruch, a nord di .Berlino, da dove non tutte torneranno alla pro­pna casa. Infatti, Maria Borgato di Saonara, se­condo la testimonianza delle compagne di prigio­nia ritornate a casa, è morta durante una marcia di rrasferimento verso ovest all 'avanzata dei russi .

Per lei sono in atto le pratiche per il processo di bearificaz ione. Di questa umile creatura saona­rese, laica consacrata, conservo un ricordo che col tempo ingigantisce.

In vita è sempre stata pronta a soccorrere a donare quanto precedentemente chiesto e a tte~o a interporre i bisogni altrui alle proprie necessità!

In questo dono COntinuo a quanti si rivolgeva­no a b, ha COinvolto la giovane nipote Delfina. Era quest'ultima che contattava gli ex prigionieri per rendersi conto di quanto abbisognassero prima di Intraprendere il viaggio verso la libertà.

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, D lf' Borgato s'incamminavano con Mana e e ma ' l d

, " 'rl' partendo da Saonara verso e tre I l pnglOl1le ' 'l'

f'd do il coprifuoco e i van penco l per notte s l an f"

l'all'appuntamento Issato con nOI essere puntua l , ' nei pressi della stazione ferrov13na,

P "ece e' stato riservato un altro desti-er nOI, mv b ' l 'f no salire su un carro estlame e no: eccO c 1e Cl an l' ' d

d , 'd'ce che il nostro convog lO e l-una guar la Cl l Il''

M thausen nome che nu a mi suggensce retto a au , e che mai ho visto segnato in alcuna carta geogra-

fia ' '" Per tutta la durata del viaggio -: siamo al pnml

di agosto - non ci danno da mangiare e nemmeno

da bere. ,b' l Qualcuno tuttavia riesce a scnvere un 19let-'h ' dalla finestrella nella speranza tlno c e getta pOI , Il

l l , enga e lo faccia pervel1lre a a che qua cuno o nnv famiglia cui è indirizzato. Il

Anche noi l'abbiamo scritto, ma a casa nu a

hanno ricevuto.

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6_ Mauthausen

Ora non ricordo quanto possa essere durato questo nostro andare verso l'ignoto. Unica cosa certa, e che ci consola, è il trovarci tutte insieme, specialmente noi due sorelle. Che cosa ci attende? Che cos'hanno escogitato di nuovo i nostri carne­fici nei nostri riguardi come punizione del nostro operato e dei nostri silenzi?

Ma non è certo la libertà ad attendere quanti fanno parte di questo doloroso convoglio!

Dopo un tempo che non so quantificare, final­mente si ferma quel treno che trasporta tante vite impregnate di ideali, di valori, di desideri e in se­guito destinate a privazioni, a sofferenze, a torture e a morte. Nello scendere, mi rendo conto per la prima volta quanto numerose siano le persone fat­te salire nel nostro treno alla stazione di Verona. Forse tre o quattrocento, non so; comunque tante e soprattutto uomini di tutte le età.

Sono dolorosamente colpita dalla vista di un "ecchio prete ancora in camicia da notte con so­pra la veste talare: certamente arrestato e portato via di notte dalla sua canonica senza dargli il tem­podi vestirsi.

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Ancor più mi sconvolge l'apparizione di quat­tro prigionieri che reggono i quattro ango lt dI una coperta nella quale giace un loro compagno mo­rente o forse già morto, del quale scorgo solamen­te le ~ambe : due stecchetti che penzolano inermi oltre il bordo della coperta.

Tra grida scomposte da parte dei nostri guar­diani e ord ini urlati in tedesco, formiamo una co­lonna, lungo se rpentone fatto da molti uomini e dallo sparu to gruppetto di donne se lezIOnate a Bolzano.

Siamo ai primi di agosto. La notte tiepida è ri­schiarata dalla luna, questo mi permette di scorge­re un paesino ridente, variamente fiorito e ralle-grato dalle acque di un vasto fi~me. .

Non ho né tempo né stato d anuno per Immer­germi nella contemp l azio~e della magnificenza da cui sono circondata e COSI poter dunentlcare, sIa pure per un att imo, l'ignoto e inimmaginabile pre­sente.

C i pensano i nazisti a richiamanni alla realtà ... la nostra dolente processione si snoda lungo una strada sassosa, in salita, ai lati de lla quale vedo qualche casetta in mezzo al verde . .

I nostri piedi si trascinano su l percorso II1for~ me, le SS sbraitano, urlano e infieriscono ;;u chI perde il passo o cade. Simile trattamento e pure riservato a chi cerca di aiutare il compagno 111 dIf­ficoltà.

Ricordo nettamente anche l'aprirsi silente e ti­moroso di qualche imposta e quindi l'apparizione furtiva di una testa o ltre le cortine.

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G li austriaci non possono dire che non sapeva­no che cosa c'era "oltre quelle mura .. e che cosa vi accadeva, né considerarsi vittime del nazismo.

Vedevano quei tristi convogli, sempre diversi, passare ripetutamente davanti alle loro abitazioni , giungeva distintamente alle loro orecchie il pro­lungato scricchio lio prodotto da tanti piedi su l­l'acciottolato informe, sentivano distintamente la puzza d i carne bruciata colpire le loro narici men­tre dal camino notte e giorno sa li va al cielo il fu­mo dei cadaveri bruciati nei forni, dopo essere sta­ti nelle camere a gas.

Lo strano corteo procede, io mi sen to tranquil­lizzata dalla vicinanza di mia sorella, maggiore di me di sette anni, verso la quale nutro stima e ora soprattutto fiducia.

All'improvviso sulla nostra sinistra appare una garitta sull a cui apertura si vede un cranio. Subito dopo scorgo ergersi davanti a tutti noi un porto­ne massiccio, enorme, alto sino al cielo, su lla cui sommità campeggia, nitida, la scritta Arbeit macht [rei (" Il lavoro rende liberi .. ) accompagnata da una proterva croce uncinata, simbolo del potere nazista.

A destra e a sinistra di questo portone si dipar­te una imponente muraglia, anch 'essa alta sino al cielo (così allora mi è parsa) su cui corrono i fili ad alta tensione (come ho saputo in segui to) e poi torrette a regolare distanza dalle quali spuntano canne di mitragliatrici pronte a entrare in funzio­ne contro quel malcap itato che cerca la sa lvezza nella fuga.

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È una vista agghiacciante che mi toglie il re­

spiro. A questo punto Teresa, anch'essa dilaniata

nell'intimo alla vista di quanto ci appare 111 tutta la sua assurdità, esp lode verso di me con questa frase: «Liliana, da qui non usciremo più vive».

lo sono presa dal panico, da improvvisa dispe­razione. Provo ribellione verso quel Dio in cui credo, ma dal quale ora mi sento abbandonata. In seguito, mi rendo conto che ciò è stato un ulterio~ re atto di fede, di richiesta di aiuto, un volerml aggrappare a qualche cosa, a qualcuno in cui ri-pongo ogni mia speranza. . ..

L'imponente portone si apre: ll1lZla una nuova vita. La miseranda colonna è fatta arrestare nel cortile dell'appello, che è enorme e illuminato a giorno. Qui ci tengono inpiedi per il resto della notte, immobili come fossnno ll1amldatl: guardie e cani pensano alla nostra «proteZione».

Cè un particolare che pochi ricordano ma che a me preme fare presente: la vista di bel flon colo­rati, forse petunie, lungo la prima baracca a Sini­stra entrando. Questa incred ibile VISione, dopo tante opprimenti vic issitudin i, mi rallegra, facen~ domi sperare che malgrado le attuah apparenze SI

trovano ancora persone fomite di qualche sensi-

bilità. Folle illusione, la mia! Ciò era stato studiato per ingannare la Croce

rossa internazionale, qualora fosse venuta per un'ispezione: gli incaricati si fermavano qui «sod­disfatti», senza procedere oltre.

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Al mattino, indolenzite e tremanti, spaventate oltre misura per quello che ci attende, fanno scen­dere noi donne per una stretta scala, oltrepass ia­mo quindi uno squallido stanzone ed entriamo in un altro. Qui troviamo ad attenderci quattro ra­gazzotti, sempre SS, che ci ordinano di denudarci davanti a loro.

Sghignazzano bestialmente alla nostra confu­sione e indecisione nell'obbedire ai loro ordini.

In quel preciso momento mi sento spogliata del mio pudore, della mia intima femminilità.

Quindi, una dopo l'altra, a braccia e gambe al­largate,. ci rasano in tutte le parti del corpo, toc­candoci ovunque, con le loro manacce immonde.

Dopo aver registrato minuziosamente le nostre generalità, sempre una dopo l'altra, ci consegnano il nuovo vestito: una rozza casacca di tela consu­mata (purtroppo la mia è senza bottoni), a righe grigie e blu dai colori stinti, su l retro della quale spicca ben visib ile la mia nuova identità: il nume­ro 18974, vicino al quale è riportato un triangolo rosso che denota i prigionieri politici, e sono se­gnate in nero le lettere lT per indicare la mia na­zionalità.

Ogni categoria di persone - da ora so lo nume­ri - è contrassegnata da un triangolo di colore dif­ferente: dai comuni delinquenti, agli omosessua li ai testimoni di Geova, agli ebre i... ' . Mi aggiungono un paio di ca lzoni, essi pure a

nghe e consunti, con ripetuto il mio numero e il triangolo rosso sul davanti del ca lzone sin istro. Chissà quante creature, prima di me, avrà coperto

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quella "d ivisa» e chissà quanti di loro saranno passati per il camino ...

Sono intontita, non riesco ancora a penetrare la realtà nella quale sono stata sbattuta e immersa.

A questo punto, a nome di tutte, Erika~ che tra noi è quella che parla meglio il tedesco, SI nvolge ai nostri aguzzini chiedendo che CI fuctlmo, subito.

Mi rintronano ancora nelle orecchie le osceni­tà uscite dalle loro bocche.

Siamo quindi condotte, attraverso a ltri am­bienti, in un'altra costruzione e qui malamente costrette a entrare in una cella pICcola: sIamo una quindicina di giovani donne.

Ricordo il pavimento in pendenza. Perché? Ci ch iediamo fra di noi, forse per lo

scorrimento delle orine, giacché l'ambiente è pri­vo di bugliolo?

Qui non c'è alcun segno di giaciglio, oltretutto ne manca lo spazio.

Quando qualcuna di noi sente il bisog~o di stendersi, altre stanno in pied i o sedute, COSI pro­cediamo a turno nella notte e durante il giorno.

Una volta al dì lo sp ioncino si apre e il detenu­to, addetto a ciò, ci passa una grossa gamella con­tenente del liqu ido su cui galleggia qualche pezzo di verdura, prevalentemente rape. 11 det:nuto CI

parla con gli occhi, diversamente non puo: al suo fianco c'è una 55. Non abbiamo cucchIaIO per CUI siamo costrette a lappare come i cani, una dopo l'altra.

È questo quello che vogliono coloro che CI

tengono in loro potere! Prima ci hanno privare

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della nostra persona lità riducendoci a numeri e ora ci trattano come le bestie.

Proprio a questo mirava il regime nazista: luci­da mente e scientificamente studiato a tavolino e poi ampiamente sperimentato sui milioni di schia­vi in suo potere. Ci è stato risparmiato l'oltraggio maggIore che mente umana pervertita possa im­magmare: lo stupro da parte di cani a ciò adde­strati.

Inquesto modo trascorrono pochi giorni e qui compIo l dICIotto annI che Teresa festeggia sotto­ponendoml a una meravigliosa sp idocchiatura gesto carico di affetto da parte di mia sore lla. '

Se per mia disgrazia i nazisti me li trovano ad­dosso sono guai seri come per ogni essere umano in loro potere.

Un mattino, sarà 1'8 o il 9 agosto, ci fanno usci­re dalla cella e ancora una volta siamo costrette a spogliarci, questa volta, della divisa zebrata e con­trassegnata con la nostra nuova identità.

Siamo sempre il soli to gruppetto. Ci fanno quindi entrare in un ambiente ampio

neanche da confrontare con la cella precedente~ mente occupata, tutto piastrellato d i bianco dal cui soffitto pendono tanti soffioni per docce i così almeno sembrano). . Noi god iamo a tale vista giacché da giorni non

Cl laVIamo. Nude, aspettiamo con comprensibile ansIa glt spruzzi ristoratori su i nostri corpi ...

Ma veniamo fatte uscire e a ognuna è conse­gnato ti fagottino dei suoi stracci tolti all'entrata allorché ci hanno schedate. '

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Che succederà ancora? Solo in seguito abbia­mo capito - ci è stato confermato - di essere en­trate nella camera a gas, ma di essere miracolosa­mente usc ite vive: le uniche, penso, in tutta la vi­ta concentrazionale del Terzo Reich. "Perché - ci siamo chieste - simile trattamento per no i?» . Una risposta plausibile ci è venuta da quanto ci sarà in seguito riservato.

Ciascuna ricevette indietto i propri panni; an­cora incredule e senza raccapezzarci ci siamo rese conto che, anche in questo modo di agire nei ri­guardi dei prigionieri, i nazisti hanno messo in mostra la metodicità e lo sp irito scientifico da cui erano animati per porrare a termine i loro faraoni­ci progetti, nell ' intento di sottomettere alloro do­minio il mondo intero.

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7. Linz

Ci fanno salire su un camion. Con questo arri­viamo a Linz, grosso centro industriale lungo il Danu bIO, dIstante una ventina di chilometri da Mauthausen.

Qui le fabbriche producono esclus ivamente materiale bellico, il più svariato: dai gross i mezzi ai più piccoli proiettili.

Tutti i tedeschi atti a imbracciare un'arma so­no impegn ati nei vari fronti di tutta Europa e in Nord AfrICa, mentre la produzione dell'armamen­tario bellico è affidata alla manodopera straniera, rappresentata dai militari costretti vi COntro ogni convenzIone rnternazionale (gli italiani sono con­trassegnati dalla sigla IMI, italiani militari inter­nati) , e dai milioni di militari e ci ttad ini europei strappatI dalle loro case e fatti schiav i al volere di Hitler. Complessivamente circa trentacinque mi­lioni.

Veniamo internate nellager n. 39, a Linz. Qui ci trov iamo scaraventate, ilnmerse in un

mondo cosmopolita, dove ogni nazione europea è rappresentata in maniera più o meno numerosa, da persone prevalentemente giovani.

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Stupore, perplessità, interrogativi vari turbano le nostre menti.

Che cosa ci attende ancora? Il tedesco è la lin­gua che bene o male c i accomuna tutti.

La baracca alla quale siamo destinate è lunga, con castelli a tre piani.

Pessima, deprimente, la prima impressione. La paglia su cui riposare è vecchia e puzzolente.

Chissà quante creature prima di noi avranno lì cercato riposo per le oppresse membra ...

Le traverse in legno dei caste lli sono istoriate con disegni e scritte spesso osceni e nelle più sva­riate lingue. L'impatto, pertanto, è tutt'altro che rassicurante!

Il mattino seguente, quando scendo dal terzo piano, dove ho trascorso la notte, mi attende un'a­mara sorpresa: sono sparite le mie scarpe, bene in­sostituibile.

Che fare? Comincio a muovermi sca lza. Nel vedermi, faccio compassione a un giovane france­se che, assentarosi per breve tempo, ritorna con un paio di zocco li che mi porge sorridente.

Zoccoli con i quali rirornerò a casa. Come ringraziamento mi invita ad andare a

letto insieme. Senza capire cosa voglia intendere, ringrazio e ancora ringrazio e tutto finisce lì.

In seguito, una ragazza ucraina mi suggerisce di mettere le calzature sotto la testa, quando si va a dormire, se si vuo le ritrovarle al mattino!

Ma le sorprese non sono finite. Infatti, quando ci viene distribuita la sbobba­

una sorta di brodaglia con qualche pezzettino di

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verdura, rape di solit~, quelle che si danno alle mucche, e qualche po di patata quando si è fortu­nati -, li «rIstorante» non ci fornisce il cucch' . . . IalO per CUI sIamo costrette a lappare, come a Mau­thausen.

Saranno dei ragazzi italiani a liberarci da que­sta ulterIore umiliazione ingegnandosi a ricavare una specie di cucchiaio da un pezzetto di legno che Incavano con un vetro: evviva l'ingegnosità del nostri compatrioti!

Anche questo inconveniente è superato con grande soddisfaz ione.

Per il momento non lavoriamo, dedichiamo il nostro tempo a guardarci intorno e a prendere cosÌ VISIone dI un mondo mai prima immaginato.

SIamo CIrcondate da vecchi macilenti donne sfatte con figlioletti intorno e giovani che non sanno più cosa aspettarsi dalla vita.

Parliamo con chi è nel campo da più tempo di nOI e quante cose si apprendono ...

Teresa e io, sempre insieme, ci muoviamo libe­ramente nelle strade interne dellager che divido­no le baracche dove dormono uomini e donne, separatamente.

Intanto continuiamo a credere nel nostro ri­torno. Quando! Non lo sappiamo ma questo è un modo per forzare il destino.

Lo crediamo ferm amente, nonostante il fred­do, la fame, le umiliazioni, i bombardamenti...

Insieme ricordiamo la famiglia lontana; privi reciprocamente di notizie, pensiamo ai fratelli in armI ora prigionieri!

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Parlare di tutti loro ci fa compagnia, li sentia­mo quasi fisicamente vicini condividendo fame e aspettative_

Mentre un giorno camminiamo tra le barac­che, vediamo davanti a noi due ragazzi, uno dei quali ha uno strappo nella manica destra della ca­micia. T l'a noi osserv iamo che porremmo aggiu­starla, se solo disponessimo di ago e filo, beni pres­soché introvab ili in quel luogo. Ci sentono parla­re, si girano e si presentano, sono anche loro italiani, studenti universitari a Padova.

Andrea, il maggiore dei due, diventerà il mari­to di Teresa due ann i dopo il nostro ritorno a casa.

Arriva il giorno della nostra nuova destinazio­ne: al lavoro!

È una fabbrica metallurgica ad «accog lierci .. : la Voigt Haeffner A. G. Zweignerlz, Frankenstrasse, 51, Lim, Donau.

Dalle SS siamo vendute ai proprietari di questi opifici bell ici, con grossissimi vantaggi per gli uni e per gli altri.

Teresa è addetta a una fresa e, per sua fortuna, lavora stando seduta.

lo, messa davanti a un grosso tornio, devo ma­novrare varie manovelle, sempre in piedi.

Lungo è il tempo lavorativo dei turni di dodici ore.

Una settimana di giorno, cioè dalle se i alle di­ciotto con mezz'ora di riposo, e una settimana di notte, dalle diciotto alle sei.

Quest'ultimo turno mi è particolarmente pe­sante.

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Tra noi prigionieri, politici in particolare, si stringono legami di umana solidarietà, grande aiu­to per superare, anche se non sempre, i timori del presente.

La fame, nemica numero uno, è la compagna inseparabi le di ogni prigioniero, il cibo è l'argo­mento che predomina.

Un giorno, seduti davanti alla baracca, Teresa, Andrea, Lucio e io parliamo delle nostre famiglie e naturalmente di fame, specialmente Andrea.

Mi assento per un attimo e nel mio giaciglio trovo quel po' di crosta di pane nascosta con ogni circospezione per evitarne la scomparsa.

Usc ita, la porgo ad Andrea. A ricordo del compagno nel dolore dell'esilio e

della ritrovata libertà tanto agognata, riporto qui di seguito un breve racconto del nostro incontro tra le baracche di Lim, nel campo di smistamento n. 39, scritto da Andrea subito dopo il suo rientro in famiglia .

Racconto di Andrea Astronomia al lager di smistamento

Ci eravamo fermati alla rete che ci divideva dalla strada.

Fuori, gli «s tranieri. straccioni tornavano dopo dodici ore di lavoro. Ci eravamo fermati a guardarli appiccicati alla rete. Ci sedemmo poi sui gradini della «Kantina» come le donne incinte, i Piccoli bambini ucraini, i vecchi e i giovani minati dalla tisi.

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Era un tepore, quella sera, ed era bello abbracciare le ginocchia e pensare. Salvatore continuava a parlar­mi di quei Piccoli bambini biondi con amarezza, di quelle donne disfatte, di quei vecchi, di quel giovani ormai perduti alla vita. La sua voce era sorda e I SUOi occhi cattivi, quando parlava, eppure m fondo era an­che delicato.

Passarono due belle ragazze che erano venute al nostro convoglio. lo ero senza giacca per quel tepore serale e avevo la manica della camicia che lasciava quasi completamente scoperta la spalla per un grande strappo. Si fermarono di fronte anO/o Indicarono lo strappo della mia camicia e, sorndendo, ch!esero di poterlo riparare. . .

Così parlammo: erano due conClttadme. Salvatore non l)arlava Più con la sua voce sorda e ascoltava, invece, la parlata del nostro dialetto. Il tempo SI era fermato in quelle voci, in quelle parole, nel tepore del­la sera veniente.

Ci alzammo a passeggiare e diventammo amici. Si diventa amici in pochi minuti quando, in certe

circostanze, si diventa di una semplicità elementare e basta guardarsi per conoscersi. Ma questo non ha Im-

portanza. .... Continuavamo a passeggiare e Li tepore mcomm-

ciava a tramutarsi in frescura e la mia camicia strap­pata si raffreddava sulla mia pelle. . .

Sui gradini delle baracche erano sedute mtere fami­glie. Vecchi e vecchie, donne polac~he, bambml, uo­mini distrutti, quasi aspettassero la fme. .

Mi meravigliai che Salvatore non parlasse. Era SI­

lenzioso e guardava la terra davanti ai suoi pasSI.

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Tacevo io e tacevano anche le due ragazze. Pas­sammo davanti alla nostra baracca e io vi entrai per mettermi la giacca. L'oscurità era cominciata. Dentro la baracca qualcuno già russava disteso sui castelli (l'unica maniera per far tacere lo stomaco), altri sta­vano attorno al tavolo a guardare Romeo e Luigi che avevano disegnato una scacchiera sulla tavola e con pezzi di cartone giocavano a dama.

M i levai la camicia e mi m isi la giacca . Fatto un fagotto della mia camicia, uscii con Angelo. Fuori era ormai buio e le stelle innumerevoli. Salvatore e le due ragazze si erano seduti davanti alla baracca dove dor­mivamo. Presentai l'astronomo Angelo alle due ra­gazze e diedi la mia camicia.

Ci sedemmo come vecchi amici e il buio nasconde­va i nostri volti. La mia testa pelata era fresca e mi rirai il bavero della giacca sul collo. Le ragazze comin­ciarono a parlare a bassa voce con rancore nei con­fronti dei tedeschi. Avevamo ancora della diffidenza anche se erano paesane.

Salvatore disse che aveva lo stomaco vuoto. lo dissi che era una bella scoperta e cominciai a parlare di pa­ne bianco, di riso coi fegatini, di polli, di vitello arro­sto, di frutta, di panettoni interi, magari . Tutti mi pregarono di tacere. La ragazza Più alta si alzò e andò a portare la camicia - così disse - nella baracca.

Quando si risedette tra noi, aveva una fetta di pa­ne (un pane di segatura, ma era pane). Era la sua razione del giorno. Eravamo tutti silenziosi. La ragaz­za chiese se avevamo un temperino. Naturalmente non l'avevamo. Alle nostre obbiezioni disse che quel giorno non aveva fame e spezzò il pane con le mani

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in cinque parti. Mangiammo in silenzio. «Perché siete silenziosi? », disse la ragazza Più piccola.

Improvvisamente il cielo fu Pieno di riflettori. Dal­le colline in tomo salivano al cielo colonne di luce che si incrociavano. «Che bello! » disse la ragazza Più grande. «Dovresti darci qualche lezione sulle stelle. disse Salvatore ad Angelo. Le ragazze ne furono entu­siaste . Angelo incominciò a parlare di stelle polari, di Venere , del Carro maggiore, del Carro minore e via di seguito.

Tutti eravamo a guardare il cielo punteggiato di stelle, ma erano troppe, io non riuscivo a individuare alcuna costellazione e gli altri ridevano della mia inca­pacità. Forse erano i riflettori che mi confondevano. Angelo parlò di distanze, di anni luce , e di tante altre cose. Improvvisamente i riflettori si spensero e ne ri­mase uno solo. Si spense anche quello. Anche senza riflettori non riuscivo a distinguere e a individuare nulla.

Certo fu una bella lezione perché non avevo mai considerato il cielo, di notte, come quella sera. Faceva freddo. «Sarà meglio entrare nelle baracche» propose­ro le ragazze. «Dobbiamo anche cucire la camicia» .

Forse l'indomani ci saremmo divisi per andare chissà dove; forse per non rivederci /)iù. Rientrammo nella nostra baracca dopo aver salutato le ragazze. Salvatore era serio alla luce debole della baracca. «Pensa che ci sono milioni di persone che marciscono in queste sporche baracche piene di Pidocchi».

Ci scendemmo sui pagliericci e i pagliericci erano deliziosi in confronto alle baracche dove, vestiti a ri­ghe, si dormiva in trecento in una stanza. Mi faceva

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male allo stomaco. Pensavo ad Angelo; alle due ra­gazze; a quelli che avevo lasciato in Italia e avevano la fortuna di continuare a lottare , anche per noi che in milioni, si era ad attendere in una lenta morte senz; poter far nulla. Quello sopra di me parlò nel sonno. Mi voltai sul fianco con la femJa volontà di addor­mentarmi.

Ma anche lo spirito è talvolta imbavagliato e succube quando la ragione è stanca di vigilare.

l giorni si susseguono monotoni sulla nostra pelle.

Ci pensano i bombardamenti a vivacizzare, ad attirare la nostra attenzione e aspettativa del nuo­vo. Osservo vogliosa quelle volanti macchine mo­struose, dette fortezze, che fanno piovere dai loto ventri rigonfi grappoli di bombe a non finire pronte a colpire ogni fabbrica . È un finimond~ che si scatena durante ogni bombardamento, ma mai sono stata sfiorata dalla paura di non farcela, anzi, rivolgendomi a quelle portatrici di morte le invito a colpire, a distruggere gli arsenali di morte in cui siamo costretti a prestare la nostra opera.

Noi, poi, a casa ci torneremo. Di questo mi sono sentita sempre certa, nono­

stante tutto.

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8. Grein a.d. Donau

La nostra fabbrica, assieme ad altre, è parzial­mente colpita per cui i responsabili decidono di installare altrove alcuni macchinari rimasti illesi.

Unica donna, sono addetta alloro trasporto si­no ai camion all'uopo predisposti. Finita tale ope­razione, mi fanno partire, sempre sola donna, e quindi divisa dalla sorella: è la prima volta da quando siamo uscite dal carcere. La meta è Grein a.d. Donau, ridente paesino sulla sponda sinistra del Danubio, a circa sessanta chilometri da Linz in direzione di Vienna.

T utta l'attrezzatura viene scaricata da noi pri­gionieri e quindi trasportata nelle ampie e bu ie cantine di un castello.

Sono, quindi, condotta in quello che sarà il mio ultimo lager in terra austriaca: piccolo, pulito, con baracche da circa venti posti, a castello, e un tavolo.

Mi incontro con le prigioniere che si trovano qui da tempo, portate via a forza dalle loro case per lavorare nelle fabbriche tedesche.

Sono sopratturto ucraine, ma ci sono anche polacche, una greca, un'estone che mi dà un suo

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graziosissimo copricapo in lana multicolore in cambio non so di che cosa da parte mia.

Nuove compagne, nuova vita. L'impatto non è traumatico, ha prevalso anche in questa occasione il mio innato ottimismo, la volontà di farcela mal­grado i frequenti malesseri che mi colpiscono; si­curamente in gran parte a causa della malnutrizio­ne, ho avuto ripetutamente febbre e mal di gola e più di una vo lta sono stata co lta da improvvisi malori e capogiri.

La separazione da Teresa è durata circa quaran­ta giorni. Proprio durante questo periodo essa si è gravemente ammalata di difterite. Ricoverata in ospedale è curata e per la prima volta si trova in un letto normale, fornito persino di lenzuola, e guarisce. Vengo a conoscenza di ciò quando an­che Teresa è trasferita a Grein.

Teresa ritorna guarita al lavoro e riprende il posto alla sua fresa. Entrambe cerch iamo di com­binare de i «guai sul lavoro» sabotando dei pezzi che escono finiti malamente dai nostri macchina­ri ; ciò può costarci atroci punizioni ma la soddisfa­zione che ne deriva è così grande che vale la pena tentare'

Teresa a un certo punto, istruita da un elettri­cista belga su l da farsi, riesce a mertere fuori uso la fresa cui è adderta. L'operazione è egregiamente riuscita.

Grande soddisfazione! Qui conosco anche de i francesi; uno di loro mi

regala una coperta per meglio coprirmi visto che, sopra l'abituccio estivo con il quale sono partita

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dall'Italia, ho una tuta di tela quasi senza bianche­ria intima e sono priva anche di calze per l'incom-

bente inverno. Oltre ai francesi, incontro un folto gruppo di

ragazzi cecoslovacchi, per lo più studenti, con i quali mi integro piuttosto bene, ma andrà meglio quando arriverà Teresa.

Tutti abbiamo subito lo stesso destino, costret­ti a lavorare per il trionfo finale del nazismo nel

mondo. Nel tempo libero, oltre al riposo, è per noi vi-

tale scambiarci notizie e informazioni, di qualsiasi

genere. \I posto predominante spetta al cibo, ci scam-

biamo le ricette delle nostre mamme prometten­doci, a vicenda, di preparare i piatti più succulenti quando qualcuno farà visita a un altro, natural­mente a guerra finita, ché tutti torneremo a casal

Infatti, del ritorno in patria, viva, continuo a essere certa, e il dubbio non mi ha mai sfiorata.

Impartisco qualche" lezione» di italiano a un ragazzo ucraino, in cambio egli danza per noi ca­ratteristici balli della sua terra.

Il tempo scorre, sempre troppo lentamente per me. Anche a Grein si fanno sentire i bombarda­menti, la fabbrica però, nella profonda cantina del castello, è al sicuro e il nostro lager ne esce in-

denne. Tra noi prigionieri, provenienti da vari stati

europei, si stabiliscono rapporti di solidarietà, che si intensificano con l'incalzare di quel freddo au­tunno-inverno \944; i sentimenti amicali che si

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stringono fra di noi contribuiscono a scald . . . . are I cuon se non I corp\.

Sono fondamentali i rapporti che intercorrono tra nOI «pOlttICI »: tuttt ci sentiamo solidali nella prova, forti nel rapporto reciproco, certi della vit­[Ona sulla tirannide.

Teresa e io ricorriamo, inoltre, a reminiscenze scolastiche npetendo, per esempio, poesie impara­te a memona allo scopo di tenere in esercizio la mente che, con ti resto del nostro essere, i nazisti tendono ad annullare. , Intorno,dentro di me, si forma un'atmosfera

d altri tempi ... Mi ritrovo a scuola, tra i miei com­pagnt e I professori, che ora rimpiango, anche i più arClgm come quello di filosofia; mi aggiro per la nostra casa (sarà forse stata bombardata?) ripeten­domi la leZione di storia e filosofia ... . Anche in questo modo ingaggiamo un'impa­

rt I~tta contro I nostri oppressori, che alla fine s'è pero dimostrata vincente.

Partita da Linz e arrivata a Grein, attraverso la cofrt:pondenza riesco a contattare Delfina che ri­marra sempre 1\1 quella città.

In questo modo ci pare di essere ancora insie­me, e sono p,arole di conforto, di incoraggiamen­to, di volonta di farcela quelle che le rivolgo.

Delftna ha conservato vari scritti, che mi ha fatto piacere rivedere e rileggere: quanti ricordi appannatl~ sono riemersi da quelle righe! Oggi, ~ distanza di tempo, mi ,rendo COnto che quanto è accaduto 1\1 modo COSI osceno, inumano, spesso tndlclbtle, ha un senso: quello della memoria per

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il futuro, del ricordare per i posteri, fiduciosi che la memoria possa fungere da limite, affinché quanto avvenuto con vergogna dell'umanità rutta non abbia a ripetersi.

Nella mia baracca c'è una stufa in comunica­zione con la baracca accanto, tuttavia non ricordo che sia mai stata accesa, suppongo per mancanza di combustibile. Per la verità, una volta, un grup­petto di noi è riusc ito a carpire un tronco d'albero trascinandolo con fatica vicino alla nostra barac­ca, ma era cosÌ bagnato che non si riuscì a dargli fuoco.

Il tempo incalza a nostro favore, passa il santo Natale, arriva l'anno nuovo, la neve biancheggia ovunque; per recarci al posto di lavoro siamo co­stretti a camminare sul ghiaccio con gli zoccoli di legno, senza calze e con cadute sempre in agguato.

A un certo punto ci raggiunge a Grein anche Gabriella T ommasi, che era stata con noi prima a Venezia, poi a Bolzano, a Mauthausen, a Linz: la nostra famigliola si allarga. In seguito per un breve periodo viene anche Erika, compagna di Gabriella.

Purtroppo Delfina e Pasquina (salita a Verona? non ricordo) sono rimaste a Linz sino a guerra conclusa.

Si ripetono i miei malori, cui ho precedente­mente accennato, cerco di mascherarli per evitare il peggio.

Alla fine, la lagerfiirhrerin (la responsabile del campo) decide di mandarmi in ospedale a Linz dove, qualche mese prima, è stata ricoverata an­che mia sorella.

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Di quel posto ho un penoso ricordo. Infatti, so­no ricoverata in un reparto di giovani donne, cer­tamente prostitute, e tale sono anch'io considera­ta dalla mia lagerfiirhrerin. Unico aspetto positivo di quella settimana è ricevere il cibo, migliore di quello del lager, senza lavorare.

Scavando nella mia memoria, ché anche que­sto ho cercato di rimuovere dal vissuto di allora rivedo quelle ragazze presentarsi in lunga fila all~ visita medica con una pezzuola in mano (che mi pareva di tela gommata) e io a chiudere quella tri­ste schiera a mani nude.

Dopo alcuni giorni vengo dimessa, affetta da denutrizione e decalcificazione ossea.

. Il cibo è sempre scarso e il lavoro pesante. Il mio fiSICO, ancora in sviluppo, esige più di quello e meno di questo!

Per fortuna ci sono delle circostanze che equi­valgono a un sostanzioso piatto di pastasciutta ita­liana.

In fabbrica presta servizio Therese, una gentile, giovane ragazza viennese. Portata via dalla sua fa­miglia è costretta a lavorare in fabbrica poiché le SS non hanno trovato a casa sua il giovane fratel­lo che faceva parte della Hitleljugend 9 e che per sottrarsi si era nascosto per bene.

9 Era la gioventù hitleriana, che corrispondeva ai nostri Avan~uardisti come operatività c ai Balilla per l'e[à, entrambi facentI parte della GIL (GioVentll Italiana del Littorio) ass ie~ me ai più giovani Figli della Lupa. )

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Questa Therese abita in paese, presso privati, ma a~che lei come noi lavora dodICI ore giorna­liere. E lei che tra mille stratagemmi CI fornisce le ultime notizie sull'andamento della guerra, sem­pre più devastante per i nazisti, è lei che ogni tan: to sfidando l'occhiuta sorveglianza del melster, CI allunga una fetta di pane spalmato di strutto o un uovo. Gesti umani, coraggiosi, che se scoperti pos­sono costarle qualche grave punizione; per nOI 111: vece sono un altro motivo di fiducia verso I nostri simili oltre che un modo per calmare qualche morso rabbioso di fame.

I bombardamenti si molriplicano sugli obietti­vi strategici del Terzo Reich, rra gli altri è distrut­to un grosso deposito di materiale a uso belliCO nella città di Frankfurt am Main, da dove ncevla­mo quanto ~i necessita per far funzionare le nostre macchine. E enorme la soddisfazione che ne den­va, contribuisce a bilanciare quanto mi °rprime, ed è assai, anche se il coraggio e la volonta di far­cela non mi abbandonano: devo, voglio tornare a

casa mia . Non possiamo però mangiare senza lavorare:

questo è l'ordine che vige, per CUI sono Impegna­ta, con alrre prigioniere, a vangare del terreno nel­le vicinanze dellager, ridurlo quindi in aiuole, do-ve tuttavia non abbiamo piantato nulla. . .

Tali aiuole, a detta di chi ci comanda e dmge, devono risultare come le "pance delle signore".

Questo nostro capo è meno aguzzino degli al· tri, fatto raro se non unico. COStLll, di CUI non n­cordo il nome, ha preso parte come combattente a

n

tutte le campagne di guerra intraprese in quegli anni dai tedeschi.

Ora la sua presenza tra noi desta meraviglia e sospetto in un primo tempo. La spiegazione viene da sé: egli, infatti, ha una gamba artificiale, un braccio anchilosato e un occhio di vetro, ciò no­nostante deve egualmente contribuire alla vittoria finale nazista.

Girando l'Europa ha appreso gli idiomi dei po­poli assoggettati. Sento infatti che parla il russo, il greco e il francese. Teresa e io, guardandoci, ci di­ciamo: "Non saprà mica anche ['italiano!". L'or­goglio, la presunzione lo hanno tradito poiché su­bito ci apostrofa nella nostra lingua, evitando a noi, in seguito, di parlare, magari male, del siste­ma tedesco.

Come la stragrande maggioranza dei prigionie­ri, anch'io sono sprovvista della biancheria inti­ma, andata per consumazione.

Riesco fortunosamente a venire in possesso di una bandiera nazista, campo rosso nel cui centro spicca la croce uncinata. Eliminata questa, cerco di confezionarmi un paio di mutande la cui fattura è stata una grande impresa mancando di tutto il necessario per l'esecuzione, ma a questo pensa la solidarietà tra noi prigionieri.

Mi rimane una striscia di quella tela rossa che custodisco gelosamente per ogni evenienza: po­trebbe sempre tornare utile a me o a qualche com­pagno di prigionia. In seguito, l'offro a quel nostro capo dei lavori campestri poiché m'accorgo che ha tanto mal di gola. Non so cosa abbia pensato e

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come abb ia interpretato quel mio gesto, che ho compiuto senza pensarci due volte. ..

Uscendo una notte dalla baracca per I bIsogni personali, mi imbatto in un ragazzo cecoslovacco che mi prende tra le braccia e mi imprime un pe­sante bac io sulla bocca. PtoVO un repentino schifo e poi sono presa da grande angoscia: temo di resta­re incinta.

Per alcuni giorni mi crogiolo nel mio tormen­to, poi finalmente trovo la forza di parlarne con mia sorella. Lei, con affetto materno e con mag­giore conoscenza delle umane vicende, mi tran­quillizza assicurandomi che non mi accad rà nulla di tanto sgradito.

In tutto il periodo della mia detenzione, da Ve­nezia in poi, non ho mai av uto i cicli mestruali, con evidente sollievo, sprovvista come ero del ne­cessario. E così Teresa.

Forse mettevano qualche preparato nelle bro­daglie che ci davano per fermarle ? Tuttav ia, ero fisicamente deb ilitata e anche ciò può avere avuto la sua importanza.

In svariate occasioni mi sono trovata esposta al rischio di essere violentata sia da tedeschi, sia da prigionieri come me; sempre tuttav ia mi è stata risparmiata quest'intima offesa.

Anche il lavoro sulla terra finisce. Ora c i impe­gnano a spostare del materiale ed ilizio, molto ru­vido, da un angolo a quello diametralmente oppo­sto dellager. Formiamo, donne e uomini , una ca­tena umana e ci gettiamo l'un l'altro i mattoni del mucchio.

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Siamo naturalmente senza guanti di protezl' . d ' l '. one per CUI , opo un po, e mant commciamo a san-

gumare. Senza rendermi conto di quel che faccio e delle eventuali conseguenze, arrabbiatissima, mi rivolgo al militare che sovrintende a questa opera­zione, dicendogliene di tutti i colori, naturalmen_ te in tedesco e finisco la sfilza delle mie contume_ lie ingiuriose con la peggiore paro la italiana del mio vocabolario: «carogna».

La reazione nemica è immediata: togli e la pi­stoIa dalla fondina e me la punta contro. Non sa­rei qui a scrivere queste memorie se non fosse in­tervenuto un ufficiale della Wehnnachr, presente in quel momento nel nostro lager, ad abbassargli il braccio omicida.

In seguito, tra mille difficoltà e sotterfugi, quel­l'ufficiale, cui devo la vita, contatta Teresa e me in perfetto italiano.

C i fa coraggio, nello stesso tempo compiange il misero stato in cui versiamo. C i consegna poi un libro scritto in italiano, La vira nova, di Dante.

Questo gesto solidale da parte di un «nemico» ci co lpisce positivamente nell'intimo, c i infonde nuova speranza di cui sempre si ha bisogno per af­frontare le traversie quotidiane.

Non riesco a leggere p iù di tanto, ma il so lo toccare un libro , per giunta scritto in italiano e altresì datoci da un tedesco, che amava molto la nostra terra, la sua storia, la sua arte e di cu i cono­sce perfettamente la lingua, vale per me come tan­ti pezzi di pane - magari ci avesse offerto anche di quelli! Ma non esageriamo.

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La partita di calcio

La vita quotidiana, divisa tra lager e fabbrica, è qualche volta diversificata da avvenimenti non necessariamente opprimenti o solo negativi.

Ricordo quella «famosa partita di calcio» svol­tasi tra prigionieri cecoslovacchi e francesi non­ché la momentanea dimenticanza, da parte di noi spettatori e degli stessi giocatori, delle reali circo­stanze che ci avevano confinato in quel luogo, a vivere in tali condizioni.

Non rammento come l'incontro si sia conclu­so: tuttavia resta ancora in me il sapore di quei momenti di completa astrazione dalla realtà che stavo vivendo.

I fatti incalzano, i rovesci militari tedeschi non si contano più e il ram tam delle notizie si diffonde anche nel Iager.

Come prima conseguenza si consolida in me e in ogni altro prigioniero la certezza della vicina fine della guerra, e il ritorno di ognuno alla sua terra si fa sempre meno lontano.

Anche il comportamento nei nostri riguardi è mutato da parte di chi ci comanda. I tedeschi so­no nervosi e spesso scaricano su di noi le fosche previsioni di un prossimo crollo del regime nazi­sta. Tra loro c'è però qualcuno follemente illuso.

Me ne rendo conto una volta in cui mi permet­to di far notare a un milirare della Wehnnacht che per loro ormai è finita e la guerra persa. Serio mi risponde testualmente che «sÌ, ora siamo momen­taneamente in difficoltà, ma alla fine il nostro

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Fiihrer risorgerà, più grande che mai, la vittoria ci arriderà e nostro sarà il dominio sul mondo».

Lo riferisco poi a Teresa che in quel momento non è con me, essa mi sgrida perché quella teme­rarietà poteva costarmi cara.

D'altra parte non ci vuoi molto a capire che i tedeschi si stanno ritirando da ogni fronte e que­sto per noi è di sommo conforto.

Pensando alla drammatica situazione in cui versa la Germania, accordatici tra noi lavoratori stranieri nell'ambiente del lavoro, intoniamo la marsigliese, ognuno nella propria lingua.

Il tono del canto, inizialmente sommesso, si eleva sotto la volta della fabbrica. I capi, esterre­fatti, non battono ciglio e non reagiscono in nes­sun modo.

Nel frattempo, Gabriella è ritornata a Linz e cosÌ pure Erika, per cui di italiane, a Grein, ci sia­mo solo Teresa e io.

Il lavoro dei campi è finito, i mattoni sono stati spostati. .. Ora ci spediscono in un capannone che dista dallager circa due chilometri.

Siamo destinate ad assemblare piccoli pezzi fa­centi parte del motore degli Stuka, aerei tedeschi da bombardamento, micidiali per la velocità con cui piombano sull'obbiettivo, lo colpiscono e al­trettanto velocemente riprendono quota.

Per svolgere questo lavoro necessitano mani sottili, femminili. Ci rechiamo sul posto di lavo­ro senza scorta. Il percorso lungo il Danubio è sti­molante, il freddo inverno è ora solo un brutto ricordo.

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Dinanzi a ciascuno di noi s'aprono nuovi oriz­zonti di attesa, di speranza, di libertà, si profila una primavera ricca di promesse. La lagerfiirhreri~ di­venta sempre più cattiva ne i nostn nguardl, e so­la non ha amici e riversa su di noi, solidali gli uni c~n gli altri, la sua invidia, la sua gelos ia, il suo rancore, il suo odio .

Q ualche tempo prima, quando c ioè ero ancora ricoverata all 'ospedale di Linz per i miei frequenti malori, nel viaggio di ritorno Linz-G rein colmpiu­to in treno e senza scorta (SI vedeva chI ero.) una signora che viagg iava con me e alla quale devo aver fatto tanta compass ione, mi rega la quanto ha con sé in una modesta valigetta, scusandosi di non potermi offrire di più: un pezzo di pane e una camicia da notte.

Indumento che mi accompagnerà notte e gior-no per il resto della prigionia. .

Di indumenti con cui ripararci, ne possedI amo ben pochi: quelli che indossiamo. lo poiho vissu­to quel freddo inverno senza calze, con I salt zoc­coli a suo tempo regalatimi nellager n. 39 dal pn­gion iero francese.

Quando decidiamo di lavare la (Uta, una resta a letto e l'a ltra fa il bucato.

Per fortuna non ci manca l'acqua calda, il de­tersivo è rappresentato da sola soda per gli abiti e per il nostro corpo. . .

Gli eventi inca lzano, i cannoneggiamenti ruSSI su Vienna si fanno sentire sino a Grein mentre a ovest si intensificano i bombardamenti alleati.

È sempre la viennese Therese che ci fornisce le

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not~z ie sull 'andamento delle operazioni belliche ma e quanto vediamo e percepiamo intorno ~ h . d " l l d l a nOI c e CI a I po so e la situazione.

Un giorno, tornando da l lavoro, Scorgia nella nostra stessa direzione una lunga colonna~~ mdltan tedeschI che, usciti da Vienna, puntano verso ... dove? A ovest incalzano gli alleati!

AI conducenti di una carretta tirata da un ca­vallo chiediamo un passaggio. Teresa e io saliamo a cassetta, vi cino a due giovani militari .

Parliamo insieme. Le loro parole sono incrina­te dal dolore, cariche di pessimismo. Pensano alla loro mamma, a Berlino, dove cè la loro casa che temono di non rivedere più. Quanto più essi ~ i di ­sperano, convinti come sono della loro imminen_ te d isfatta totale, tanto più noi godiamo egoistica­mente nel nostro intimo: la liberazione è alle por­te, ma come avverrà?

. Cè subbuglio nel nostro campo, ora ci sembra mveroslmde che tutto il male annidatos i in no i e attorno a noi abbia definiti vamente termine.

Nello stesso tempo, però, noi due sorelle siamo prese da timori inspiegabili, da paure diverse dalle precedenti .

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9. La fuga

Decidiamo di fuggire dallager, senza far parte· cipe anima viva del nostro piano, a eccezione di una giovane greca, che in seguito si fermerà a Mauthausen mentre noi proseguiamo il viaggio verso l'Italia.

In precedenza abbiamo studiato la posizione dellager rispetto ai punti cardinali ed è nostra in­tenzione fuggire verso ovest, quindi in direzione

dell'Italia. La vigilanza nel campo è modesta, molti dei

responsabili sono fuggiti e ciò ci rende più facile l'esecuzione di quanto intendiamo fare. Propno non riesco a ricordare in che modo abbiamo sca­valcato la recinzione nel buio che ci avvolgeva. Ma ora siamo fuori.

Libere. Andiamo nella notte. Fiduciose. Ben presto tuttavia ci arrestiamo: una pletora

di sentimenti contrastanti fiacca le rimanenti no· stre energie.

Ci stendiamo sulla nuda terra coperta da un'er­ba rada - siamo verso il 6-7 maggio - e la prima­vera diffonde solo parzialmente i suoi benefici te-

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pori. Cerchiamo di riprenderci e nello stesso t d, l '1 em-po I ca mare I cuore che sembra impazzito. Tensione e paure inconsce salgono alle stelle

allorché sentiamo un brusio indistinto di passi frettolOSI, dI VOCI che si avvicinano, che avanzano verso la nostra posizione.

Siamo inseguite? Forse è già stata scoperta la nostra fuga? Che cosa sarà ora di noi? Cerchiamo di aderire ancor più alla terra, annullandoci in es­sa, per scomparire .

. ln~anto i numerosi passi si fan sempre più vici-01, plU dlstmte le voci. Il cuore pare fermarsi, qua­SI non respiriamo nell'illusione di cancellare la nostra presenza.

l sopraggiunti parlano italiano, noi scattiamo come stanche molle, andando loro incontro. Sono giovani militari italiani, che hanno messo in atto il nostro medesimo piano: fuggiaschi dal luogo della loro prigionia, puntano verso ovest, verso casa.

Ci aggreghiamo, dopo aver loro esposta breve­mente la nostra situazione.

Procediamo insieme, lungo i binari della ferro­via Vienna-Linz, in direzione opposta al corso del Danubio. , La sopraggiunta stanchezza, le molteplici emo­

ZI.oI1I che turbano fisico e spirito, ci inducono sag­gIamente a riposare. Ci stendiamo pertanto lungo I bman, sotto ad alcune carrozze che stazionano sugli stessi.

Riusciamo a dormire grevemente. Senza sogni. Ci svegliamo al sopraggiungere della luce del

giorno. Con nostro grande stupore ci troviamo

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parzialmente imbiancati da un leggero velo di ne­ve caduta durante la nottata, senza che no i ce ne accorgessimo!

Ancora increduli , infreddoliti, ma avvo lti da un a lone che sa di fiaba, c i guardiamo smarriti scambiandoci un meraviglioso "buon giorno» .

Decidiamo di riprendere la nostra marcia verso la libertà. Noi dallager non abbiamo portato nul­la, ché nulla possediamo o ltre a ciò che indossia­mo, neppure un tozzo di pane con cui rompere il digiuno e ca lmare l'ans ia. Alle necessi tà contin­genti pensano i nostri militari, dividendo con noi quanto hanno con sé di mangerecc io.

Rinfrancate le forze, lo spirito è già alle stelle e il nostro pensiero ha già scavalcato le Alpi senza di fficoltà alcuna, percorso lievemente la Val d'A­dige e la Valsugana per giungere sino a Padova, finalmente!

Non smettiamo di camminare incoraggiandoci a vicenda. La meta ci chiama, ci alletta , è sempre più vic ina. I chilometri da percorrere sono pur tanti e i miei piedi calzati con duri zoccoli fanno fa tica a procedere; ogni tanto ne perdo uno, ma non mi lamento, non mi facc io vedere né capire.

E andiamo. A ndiamo. I chilometri si susseguono ai chilometri. Cantiamo esprimendo in ta l modo la gio ia che

tutti ci pervade. Non ricordo a che ora gi ungiamo a Mauthau­

sen, quel " ridente» paesino che si snoda lungo le maestose sponde del Danubio , incupito dall 'arci­gna e maledetta fortezza da noi tristemente speri-

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mentata e ,mai, dimenticata; siamo tormentate da ncordl mdlclbdi.

Il campo dI Mauthausen è Stato liberato dagli allea tI per ultImo, fra tutti i campi d i stermi nio nazisti , il 5 maggio l 945.

A no i che giungiamo felic i, ma fa melici, si pre­senta una VISIOne che i nostri occhi inquadrano con fati ca, i~creduli: l e strade, ogni strada, rigurgi­tano del p lU svan an ogge tti . C ibo dappertutto, tanto CIbo. SacchI di fa rina, di riso, di pasta, d i zucchero, forme di formaggio e altro ancora d isse­mif!ati alla rinfusa. E nessun essere umano.

E un miraggio, ul tima beffa giocataci dai nazi-'IN '

Stl. o, no ... e tutto vero e io immergo bramosa la testa m un s~cche tto di zucchero , gesto che per poco non mI e costato la vita.

Che cosa è accaduto? All'imminente arrivo dei liberatori , in tutta fretta i tedeschi hanno abban­donato quanto avevano carpito, accontentandosi di salvare la propria pelle.

Superato l'iniziale nostro sbigottimento, d'ac­cordo con i compagni di viaggio, T eresa e io ci presentiamo, a nome di tutti , al comando alleato dandoci prima appuntamento in un determinato luogo con i nostri militari. . Mia sore lla, che conosce l' inglese, fa presente

al responsabili della locale sicurezza la nostra si­tuazione e quella dei soldati che sono con no i.

Gli addetti a gestire i molteplici problemi per la sIcurezza e soprattutto per l'evacuazione degli ultllm sopravvIssutI agb stenti e alle camere a gas d, Mauthausen, ben volentieri rinunciano a oCCu-

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parsi di no i, quindi «se ne lavano le mani .. e no­minano Teresa responsabile del nuovo gruppo cui apparteniamo.

Mentre noi stiamo parlamentando con gli al­leat i, i <mostri .. impiegano assai proficuamente l'attesa. Andando in giro per le strade, si imposses­sano di un camion che caricano, poi, di ogni ben di Dio.

Giunte all'appuntamento prestabilito, sa liamo in cabina col guidatore, esultanti per il lasciapas­sare rilasciatoci dalle autorità americane.

S i parte. La direzione è Linz, che sa lutiamo senza fermarci anche se lì si trovano ancora - lo spe riamo - Delfina, Andrea e altri conoscenti, dei quali però manchiamo di notizie da tempo.

Anche se il camion corre, lo fa con ttoppa len­tezza rispetto al nostro desiderio che galoppa a ve­locità impensata.

O ra che ci sentiamo liberi - ma è poi vero? - , ora che il nostro essere è ridiventato di nostra pro­prietà - i pensieri e i desideri lo sono sempre stati, durante tutto quel periodo lungo e devas tante, seppur appannati talvolta dai continui accadi­menti - s'impone, ingigantendo chilometro dopo chilometro, il ricordo, il pensiero dei nostri cari.

La troverò ancora la mia casa? O sarà stata di­strutta dai bombardamenti ? E i suoi ab itanti, ai quali abbiamo procurato cosÌ grossi disp iaceri ...

Persa in questi e a ltri pensieri vedo stendersi davanti a noi la bella Salisburgo ma il camion col suo carico umano punta su Innsbruck, ultima città austriaca prima del confine.

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Il cuore mi canta, ogni fibra del mio essere, fi nalmente libero, freme.

Presto saremo di nuovo nella nostra terra, fra nostri cari che speriamo di ritrovare tutti vivi, ir attesa di ricongiungersi a noi. Ma un contrattem. po, assai spiacevole, ci attende e smorza ogni no. stra entusiastica attesa.

Infatti , il tifo petecchiale infierisce ne lla zona per cui siamo costretti alla quarantena.

Veniamo accolti nel cortile di un caste llo, re­quisito dagli alleati.

Qui si trovano ricoverate varie centina ia di ita­liani giunti prima di no i, e come noi in spasmodi­ca attesa di proseguire il viaggio verso la terra pro­messa.

Uniche donne, Teresa e io siamo ospitate nei piani superiori: finalmente ritornate persone, esse­ri normali fra altri esseri normali.

Un normale letto, per me risulta troppo morbi­do per cui stendo il materasso per terra. E mangio normalmente, ma con precauzione, poco per vol­ta, lo stomaco è rimpicciolito e occorre fare atten­zione.

G li americani, dai quali siamo presi in custo­dia, ci passano la quarta parte della lo ro razione giornaliera, ma è sempre troppo abbondante. Cibi conservati in scatola di vari tipi, su cui campeggia una confezione di Compresse antiscorbuto di co lor rosso, se ricordo bene.

Non sappiamo, Teresa e io, di che cosa si tratti e in seguito apprendiamo che sono pastiglie con­tro l'avitaminosi.

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Ora che siamo «quasi felici» Teresa si ammala, ma è ben curata dagli americani. A me, che voglio starle vicino, dice insistentemente di uscire a pren­dere un po' d'aria buona e libera, perché finalmen­te godiamo la libertà, «così mi rinfranco prima del rientro ». lo indugio, stento a obbedire, mi fanno timore, se non paura, tutti quegli uomini anche se sono italiani.

Adotro allora un sistema che si è rivelato vin­cente durante tutta la prigionia: cerco cioè di tto­varmi con più persone, mai con un uomo e per di più solo.

Due giovani americani vengono a visitarci tut­ti i giorni. La stanza in cui siamo ospitate è ampia, luminosa ma modestamente ammobiliata. Non mancano però, oltre ai nostri due letti, delle capa­ci poltrone e un tavolino rettangolare da salotto.

Gli americani quando vengono a salutarci e a tenerci un po' di compagnia, si mettono comoda­mente seduti e poi, allungando le gambe, poggia­no i loro piedi, calzati da stivaletti, sopra il tavoli­noi Questo per noi è motivo di imbarazzato stupo­re, ma bisogna portare pazienza e far buon viso anche a ciò che non consideriamo particolarrnen­te educato.

Più concreta si fa la nostra preoccupazione al­lorché uno dei due, togliendosi da un dito un gros­so brillante, lo infila al dito di mia sorella. Per il momento Teresa, saggiamente, non reagisce in al­cun modo.

Rimaste sole non sappiamo come sp iegarci quel comportamento.

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Durante una successiva visita i «nostri due» ci dicono che entro sera possono portarci in Italia a patto che noi ci dimostriamo «carine» Con loro. Teresa approfitta di questo frangente per sfilarsi l'anello e restituirlo al proprietario aggiungendo, a nome di entrambe, che siamo sicure di tornare a casa nostra, è solo questione di giorni.

Sicurezza che si è rivelata esatta. Finalmente possiamo lasciarci alle spalle quel

caste llo, ultima nostra dimora in Austria, dopo tante traversie costellate di umiliazioni, di terrore, di botte, di molta paura da parte mia di perdere l'occhio sinistro per un incidente occorsomi sul lavoro, di fame costante, di tanto freddo e proble­mi fisici, che mi hanno reso più difficile ogni istante vissuto in prigionia e nel lavoro.

Ora intravedo finalmente la realizzazione del sogno così a lungo accarezzato. Ma sarà poi vero? Non voglio illudermi, ché troppo sp iacevo le e bef­fardo sarebbe il contrario.

Ci rimettiamo in viaggio, dopo quasi un mese di permanenza in loco, con il nostro lasciapassare. Il camion ci attende, anche lui impaziente.

In un mattino radioso, con il cuore in festa ci lasciamo alle spa lle Innsbruck, le cui rovine deno­tano il passaggio della guerra appena finita.

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10. Rientro in Italia, arrivo a Padova

Una comprensibile euforia invade ciascuno di noi ancora increduli della realtà che stiamo vi­ve~do . Puntiamo su Bolzano, dopo aver gioiosa­mente oltrepassato il Brennero dove salutiamo il tricolore che ci dà il benvenuto.

In città chiediamo dei comitati di liberazione dell'Alto Adige, presso i quali sono gestiti dei cen­tri di assistenza per i rimpatriati. Qua, Teresa e io, illustriamo a sommi capi la nostra personale situa­zione, i militari farmo altrettanto.

Conservo ancora il foglio di via che allora mi è stato rilasciato.

A fine guerra i nostri familiari hanno fatto per­venire nostre foto al vescovado di Bolzano: anche la chiesa si occupa di quanti stanno rientrando dalla prigionia offrendo cibo e un letto a coloro che sono in attesa di un mezzo di trasporto per proseguire il viaggio verso la propria casa. .

Ma noi non passiamo per il vescovado; vogIta­ma poseguire il più velocemente possibile la corsa del rientro.

Tutto mi sembra meraviglioso: il cielo, le nubi,

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i monti, le valli, gli agglomerati di case, i corsi d'acqua ... anche se sono evidenti i segni lasciati dalla guerra.

Ho l'impressione che il viaggio non finisca mai, tanta è l'ansia che mi consuma.

Attraversiamo la Valsugana. Verso le tre del pomeriggio di quel 5 giugno

1945 arriviamo nelle vicinanze della mia città. Teresa prega il conducente di entrare a Padova. Superata la stazione ferroviaria centrale, ridotta a un cumulo di macerie, il camion imbocca il corso del Popolo.

Un bel sole ci accoglie con il suo caldo abbrac­cio. Per la strada passeggiano tante ragazze, giova­notti e alleati in divisa ... Mi sembrano tutti grassi, ben vestiti e straripanti di felicità e di sa lute. Ora avverto dentro di me sentimenti di ribellione, di rabbia e profonda delusione. Guardo mia sorella, sparuta e mal vestita, guardo me nelle stesse con­dizioni ...

Raggiungiamo col camion Prato della Valle e, salutati i compagni dell'ultimo viaggio verso la li­bertà, imbocchiamo via Luca Belludi, dirette alla basilica del Santo.

Infatti, noi due non ce la sentiamo di andare a casa nostra: esisterà ancora? Se sì, saranno rientra­ti i nostri familiari? Questi e altri sono gli ango­sciosi interrogativi che ci rivolgiamo l'un l'altra.

Entriamo in chiesa. Ci dirigiamo all'altare del Santissimo dove so­

stiamo per ringraziare Dio del nostro avvenuto ri­torno.

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Ci rivolgiamo quindi a un fraticello, poco lon­tano, e a lui Teresa si rivolge per chiedere ... Non può finire la frase, interrotta dal religioso scanda­lizzato dal nostro abbigliamento: siamo in tuta da lavoro, cioè in calzoni, unico indumento di cui di­sponiamo. Allora, in Italia, le donne non li usava­no affatto.

Rinfrancatasi, Teresa prosegue il suo dire: "Pa­dre, rientriamo ora da un lager nazista e vorremmo incontrarci con padre Cortese».

Se avesse potuto sprofondare sotro il pavimen­to, il malcapitato lo avrebbe fatto ben volentieri.

Quasi prendendoci per mano, ci invita fuori dalla chiesa, nel chiostro delle Magnolie.

Guardandoci in faccia chiede: "Ma non sapete nulla? Da quanto tempo mancate da Padova?».

"Siamo state arrestate il 14 marzo 1944 e solo sino a tale data siamo state in contatto costante con padre Cortese».

"Egli - racconta il fraticello - con un tranello è stato fatto uscire dalle mura della basilica del San­to, luogo protetto in quanto territorio del Vatica­no, e fatto salire su un'auto» IO ,

A questo punto lo preghiamo di contattare la nostra famiglia e, se dall'altra parte risponde qual­cuno dei Martini, di prepararlo con i dovuti ri­guardi dicendo che Teresa e Liliana si trovano a Padova.

IO Cf. A. TOTIOLl, Padre Placido Correse, ci[.; padre L. F. RUFFATO, Olocausto del silenzio. dramma in due atti rappresen­tato al teatro Verdi di PaJova il 30 gennaio 2005.

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Dopo circa quindici minuti vediamo avanzare SOtto il porticato del chiostro nostro fratello mag­giore, Augusto, che si trova momentaneamente a Padova, insieme a nostro fratello Giuseppe, medi­co, rientrato in Italia dalla prigionia in Nord Afri­ca sotto gli inglesi - dei quali, scopriremo, ha ri­cordi tutt'altro che piacevoli - e a nostro fratello minore Giancarlo, di quindici anni, cioè tre meno di me.

Finalmente mi ritrovo nella mia Padova con quanto di più caro essa mi può offrire, dopo avere atteso per tanto tempo.

Ma è poi tutto vero quanto sta accadendo in­torno a me o non è, ancora una volta, un mirag­gio? Non appena li scorgo, vado loro incontro di corsa, zoccoli permettendo. Giancarlo fa altret­tanto: entrambi ci troviamo abbracciati a terra.

A braccetto percorriamo il breve tratto di stra­da che ci separa dalla nostra ab itazione ed è tutto un fluire fitto fitto di domande e risposte sui nostri cari.

Mamma e papà sono i primi che abbracciamo, poi Lidia, già tornata in famiglia e Renata, scam­pata miracolosamente alla cattura nazifascista che è sempre stata vicina ai nostri genitori, di gra~ conforto per loro e per noi tutti, forzatamente lon­tan i dalla casa di Padova, punto di riferimento e di supporto psicologico.

A quanti sotterfugi è dovuta ricorrere la nostra cara sorella Renata per tranquillizzare i nostri ge­nitori, scrivendo loro tra l'altro false lettere «nor­mali» con sotto la nostra firma. E come non ricor-

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dare i poch i dolci che confezionava e cuoceva presso la casa dei vicini in via XX Settembre, per farli, poi, arrivare a Lidia, in prigione a Venezia ...

A quel tempo, i genitori nulla hanno saputo della sorella Lidia: un ulteriore dolore risparmiato!

Troviamo anche Mario, che a sua volta ha vis­suto momenti difficili e pericolosi ma superati, per fortuna, in maniera positiva.

La famiglia continua ad allargarsi ricomponen­dosi con il rientro dei figli. Mancano Domenico e Sandro, mentre il cognato Alberto s'è già ricon­giunto con Gina a Schio. Ognuno riprende il suo posto nel contesto familiare. C'è anche Norma, la cameriera che, come Teresa, Lidia e io, è stata tra­dotta nelle carceri di Venezia e rilasciata dopo cir­ca due mesi senza nulla aver rivelato di quanto era a conoscenza. Era lei, infatt i, che quotidianamen­te portava i pasti ai prigion ieri da noi a lungo ospi­tati, era lei che lavava i loro panni e faceva pulizia nell'ambiente da loro occupato.

Anche noi sore lle sa livamo al secondo piano di casa nostra, presso l'alloggio dei due prigionieri, per far loro un po' di compagnia e per rassicurarli de lla prossima liberazione.

È doveroso ricordare che Norma, a guerra fini­ta, ha ripreso il suo servizio presso di noi con la sua consueta ded izione e bontà.

Ancora grazie, cara Norma l

Il nostro parroco e il suo vice sono fra i primi a porgerci il «bentornate». Seguono via via i vicini di casa, l conoscenti, i parenti e gli amici appena si sparge la voce del nostro ri torno a casa.

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. Al r,ientro nella casa di via Ga lile i, i nostri ge­I1lton l hanno trovata spoglia di quanto COntene_ va e sono stati parenti e amici a privarsi di qualche cosa a favore di chi era staro depredato di tutto.

A distanza di qualche giorno, passeggiando in giardino, proprio vicino al pozzo, G iuseppe mi co­munica che a Roma, presso il ministero compe­tente dove si era recato per avere qualche comu­nicazione su nostro fratello A lessandro, ha avuto la conferma della sua morte.

In quell'attimo d'incredulità e sconforto ripen­so alle molte volte in cui l'ho sognato, vivo, di ritorno dalla prigionia: quanta compagnia mi ha tenuto nei lunghi mesi della forzata lontananza ... Ora - soggiunge Giuseppe - dobbiamo farci ani­mo, soprattutto per la mamma già tanto provata.

Con il trascorrere dei giorni, c i sentiamo sem­pre più e sempre meg lio in famiglia vivendo come in un sogno. Mi sento aiutata dal discrero e amo­roso comportamento dei familiari, che mai mi hanno chiesto di raccontar loro alcunché del re­cente passato. Vivo il presente gustando ogni suo attlmo.

Verso la fine di giugno, il 27 per la precisione, da Wietzendorf, nell 'A lta Germania, arri va anche nostto fratello Domenico.

L'8 settembre egli si trovava come capitano di cavalleria paracadutata a Spalato, in Dalmazia. Rifiutatosi, assieme agli altri ufficiali e soldati , di collaborare con i nazisti, venne da costoro carica­to e sigillaro in carri bestiame.

Senza acq ua e senza cibo i soldati nei carri be-

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stiame vengono fatti proseguire sino a Beniamino­wo, in Polonia, e in seguito, come già detto, a Wietzendorf nell'Alta Germania.

Qui, ci ha raccontato, mai s'è fatta vedere la Croce rossa, per cui ci raccomandò allora di nOn dare mai offerte a detto comitato nazionale e in­ternazionale.

In bicicletta, Domenico giunge a Padova insie­me a un compagno di prigionia. Sono scappati dal lager, prima dell'arrivo delle truppe "liberatrici» russe, convinti di giungere a casa più alla svelta con le "due ruote» piuttosto che attraverso le la­boriose e farraginose operazioni messe in atto dal­l'esercito vincitore.

Infatti, come s'è poi saputo, molte centinaia di nostri militari, ex prigionieri dei tedeschi, sono ri­tornati dopo mesi o anni, oppure non sono tornati affatto.

Ora ogni tessera del mosaico è pressoché al suo posto, manca quella di Sandro.

Ormai ogni speranza nel suo ritorno è svanita, annullata dalla comunicazione della sua morte.

Morire a ventotto anni, quando la vita arride con le sue promesse e i sogni!

Anche la casa riprende a vivere malgrado sia stata spogliata quasi del tutto del suo contenuto, non si sa da chi.

Giancarlo con risolutezza riesce però a recupe­rare alcuni mobili, una delle tre auto, la macchina da cucire Singer, la statua del Sacro Cuore, parti­colarmente cara alla mamma dal tempo della guerra 1915-1918 qundo il papà era al fronte.

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Per me la famiglia è un grande cuscino che tut­ta mi avvolge, che attutisce ogni colpo e attenua i dolorosi ricordi.

L'idillio è tuttavia funestato da forti pruriti, la diagnosi è semplice: scabbia. La mamma si occupa amorosamente del mio corpo infetto sottoponen­domi a bagni a base di zolfo.

Sto pagando la mancanza di pulizia, in partico­lare degli ultimi tempi. Sono da evitare.

Tengo a distanza quanti vengono a salutarmi. Presto torna il sereno, anche se ogni tanto av­

verto fitte alla schiena, vecchie conoscenze. Ma non do loro eccessiva importanza.

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11. Voglio fare gli esami di maturità

Nel quotidiano che sta sfogliando, Giuseppe trova una notizia che mi può interessare: 111 ltalta è istituita una sessione speciale di maturità tra set­tembre e dicembre 1945, a favore di quanti sono stati coinvolti direttamente dalle vicissitudini bel­liche. «Te la senti?", mi chiede.

Praticamente dovevo, in cinque mesi, passare dalla prima liceo alla maturità classica.

Faccio un minuzioso esame delle mie possibili­tà, soprattutto chiedo consiglio alla mia mai di­menticata insegnante di lettere della quarta e quinta ginnasio.

La professoressa Gambardella mi risponde di essere disposta a curare la mia preparaZIone 111 la­tino e greco. Per matematica e fisica mi rivolgo al professar Tellini e via via, per ogni materia d'esa­me, trOvO qualcuno ben disposto nel mIeI con­fronti. Solo per storia dell'arte mi sono arrangiata da sola dedicandole un'ora al mattino, quando m casa tutti stavano ancora dormendo. Mi sono let­teralmente buttata sui libri per quindici ore al

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giorno. Voglio farcela. Se al tornio stavo dodici ore al giorno e a pancia quasi Vuota, vuoi vedere che a casa, circondata dall'affetto dei miei e con cibo a sufficienza, non posso cavarmela?

Ora devo solo decidere dove sostenere gli esa­mi. Scarto subito il mio liceo Tito Livio, dove posso trovare i vecchi insegnanti: che penserebbe­ro dell'alunna perduta e ora improvvisamente ri­comparsa?

Decido per Bassano del Grappa che purtroppo posso raggiungere solo con la bicicletta, mancan­do qualsiasi altro mezzo di trasporto, sia pubblico che privato.

Giancarlo, nell'attesa del nostro ritorno, ha preparato per me il suo regalo «mettendo insie­me" una bicicletta con un particolare congegno, penso unico: una sella che scorre sul rubo portan­te a seconda del peso che sostiene e delle buche.

La mia bici del 1944, portata via da casa, è rim­piazzata da questa, che mi sarà ancor più cara.

In bici mi reco perciò a Bassano per sostenere le varie prove d'esame scritte e orali.

Stanca, nel ritorno mi attacco più di una volta a qualche camion, allora un mezzo ,<lumaca" con un traffico pressoché inesistente.

A dicembre la sessione speciale si chiude e con la mia bici devo recarmi a Bassano per conoscere i risultati.

Trafelata, tra dubbi, attese e speranze, leggo sul tabellone i miei voti d'esame. Alla loro vista non so riportare le emozioni e i sentimenti che mi per­vadono; un solo dispiacere e cioè «quel magro sei

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in italiano». Per migliorarlo, l'avrei volentieri ba­rattaro con gli al rri sette e otto.

Come esprimere la gioia del momento? Devo pur metterne a parte qualcuno ... In tasca

ho pochi centesimi: che cosa posso far di meglio se non offrirne la metà al bidello lì presente? Quindi mi avvio sulla strada del rirorno.

Superata la prima emozione e soddisfazione profonda per il risultaro ottenuro, avverto qualco­sa di vecchio, di diverso ... ? Sono gli stimoli del­l'appetiro acuiti da un generale rilassamento dopo la tensione e il nervosismo dei mesi precedenti.

Che cosa posso procurarmi con cosÌ pochi spic­cioli? lnnanzitutro pane, il cibo per eccellenza, sa­cro, che non stanca mai, e qualche fico secco: l'u­no e gli altri sbocconcello allegramente sotto la pioggia ...

Sono naturalmente senza ombrello e la piogge­rella mi accompagna noiosa e insistente lungo quei quaranta chilometri che separano Bassano da Padova.

Bagnata, ma felice, arrivo a casa con la bella notizia, portatrice per tutti di soddisfazione e gioia.

Con ciò mi sembra di ripagare, sia pure in mi­nima parte, genitori e familiari tutti per le molte ansie, le preoccupazioni e i dispiaceri loro arrecati con la carcerazione prima a Venezia e poi nel campo di sterminio e di lavoro nel Terzo Reich.

Ora quale facoltà universitaria mi accoglierà? Personalmente non ho dubbi, opro per medici­

na. Sono molte e di un certo peso le ragioni che mi spingono a tale scelta.

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Anzitutto le tragedie umane viste ed, sute, le sofferenze di tanti COrpI' . a me VIS-'. I vanamente St

Zlatl, queg i occhi grandi all'infinito ch . h ra-devano aiuto e pietà... e mI c le-

E poi anche la mia naturale incll'na . . rig d' d" Zlone nel uar I I quanti versano nel bisogno Q altro ancora. . uesto e

. "Ma in famiglia basta un medico» sentenzia GIuseppe che è otorinolaringoiatra.

Lldla mi iscrive, quindi, alla facoltà di Lettere.

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12. Il mio ricovero a Mezzaselva

Frequento le lezioni al Liviano. Sostengo i pri­mi esami. Sono trascorsi quattro anni dal mio ri­torno, ma i dolori alla schiena non mi danno tre­gua. Dopo aver trascorso quasi due mesi estivi al mare, fiduciosa che l'aria marina ricca di iodio mi rechi il desiderato beneficio, me ne torno a casa sempre in compagnia dei miei dolori. Vengo, per­ciò, ricoverata presso il reparto di medicina nell'o­spedale di Padova. Tenuta sotto osservazione per una settimana, alla fine mi viene comunicato il gran responso dal professore alle cui cure sono af­fidata: "isteria»!

A casa, i dolori continuano, e io mi chiudo nella mia stanza con il mio male.

A Vicenza, dove abita con la moglie, mio fra­tello Augusto sente parlare del professor Campi­glio. Fissa con lui un appuntamento nel suo studio di Vicenza, dove mi reco con lo stesso Augusto e con Giuseppe, il medico.

Campiglio, sottoposta la mia colonna verte­brale a radiografia stratigrafica, emette la sua dia­gnosi: TBC ossea con duplice focolaio.

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Devo assolutamente essere ricoverata. È magra la mia rivincita nei riguardi del grane

clinico patavino, d'accordo ... Ma quanto viene ora confermato mi pare be

più grave. In attesa che si renda libero un posto lett

presso l'Istituto elioterapico di Mezzaselva (Vi cenza), me ne sto a casa e incomincio a rimaner rigorosamente a letto.

L'Istituto di Mezzaselva mi accoglie nell'aprii, del 1949 e qui rimango sino al 26 dicembre de 1950, sempre in posizione orizzontale, giorno, notte, per ogni necessità. Fra tutti i ricoverati - , siamo in parecchi: primo piano uomini, second< piano donne e terzo piano bambini - sono quell~ che recupera la salute nel più breve tempo.

Quando i miei familiari ringraziano il professol Campiglio per le cure che mi prodiga, si sento ne rispondere che la mia ripresa fisica non è meritc suo bensÌ della mia caparbia volontà di guarire.

Sono stati lunghi quei mesi ma carichi di fidu­ciosa attesa, resi molto spesso allegri, spensierati e portatori di cose nuove, grazie ad amici e familiari.

Come non ricordare, a distanza di tanti anni, la fraterna compagna Silvia, la quale, potendo muoversi, mi è di prezioso aiuto? E suor Nella con il suo faccione sempre sorridente che infonde a tutte tanta fiducia? E quella ragazza non vedente, di cui non ricordo il nome, che riesce a prepararci un caffè indimenticabile, e infine la cara Wilma che provvede alle mie necessità fisiche più varie? E che dire della sempre vigile suor Pia?

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Mi ricordo quando pos izionavo, dal mio letto, i due specchi d i cui ero provvista per scorgere i vi­sitatori che scendevano da lla corri era nei giorni di visita. E quale soddisfaz ione quando notavo dei volti noti !

È sempre festa per ogni visita. Per me, di feste ce ne sono state moltissime

non solo da parte dei parenti , sempre le più gradi­te, ma anche da parte dei compagni d'università: Giorgio, Carmela, Mariuccia, Maria Teresa, Mar­cella, Mario ...

Ma quam o magg iormem e incide su no i ricove­rati è la visita settimanale che ci fa il professore con i suoi due ass istenti . Silvia e io siamo tese , ma fiduciose, e in un silenzio cari co di aspettati va ascoltiamo le poche parole che C ampiglio ogni volta ci rivolge.

Né posso dimemicare che la stanzetta, dove è racchiuso il mio mondo per quasi due anni, si tro­va ubicata sopra la sala operatoria usata dal profes­sor Campiglio e dalla sua équipe quasi settimanal­meme.

In quelle c ircostanze dovevamo stare ben at­teme a non fare alcun rumore, tanta era la tensio­ne nella sottostante sa la operatoria.

Dopo circa vemi mes i tom o dai miei che, nel frattempo, si sono trasferiti a Schio. La casa di Pa­:lava, infatti, è troppo spaziosa per i pochi rimasti: :leI frattempo, tre fratelli e due sorelle si sono spo­;ati, trasferendosi altrove con le loro famiglie .

In seguito , per la precisione nel 1953, riprendo 'università che mi ha richiesto molto impegno a

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causa del lungo e forzato abbandono degli studi per malattia.

Dopo qualche mese, conosco Carlo De Muri che nel 1955 divemerà mio mari to: con lui c i sta­biliremo nei primi anni a Bassano del Grappa e poi a Zanè (Vicenza), dove abitiamo tuttora assieme.

La «favo la» si è conclusa positivameme. Dopo c irca cinq uam'anni di silenzio , incred ibilmente condiviso con genitori e fratelli , sento ora il dove­re di testimoniare quella parre di fo lli a nazista che ho subita, affinché non vada perduta la memori a di atrocità ed eroismi che essa ha partori to, in di ­fesa dei va lori per i quali molti hanno pagato an­che con la vita.

Memoria e futuro giusto, per non dimenticare la violenza, il degrado, le umiliazioni continue in­flitte da uomini contro altri uomini.

Mi auguro che questi miei ricordi, le brev i con­siderazioni e i pensieri non si sperdano nel ven to come il fumo dei milioni d i nostri fratelli stenni­nati .

Sono tutti ricordi provocati dall a sofferenza di allora.

È desiderio di pace. È volontà di sradicare l'od io che è annidato nei

cuori. È imperativo individuale e co llettivo per sana­

re ogni forma di ferite.

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Inno alla bandiera

È la terra, i monti, i mari e tutte le bellezze del­la natura che ti circondano, l'aria che respiri, il sangue di chi è caduto nell'adempimento di un dovere o nel raggiungimento di un ideale per per­metterti di vivere libero, la zolla che ricopre i tuoi morti, la fede, l'amore, la fatica, l'affanno, la gioia di chi studia e di chi produce con la mente e col braccio, il dolore, il sudore e la struggente nostal­gia dell'emigrante, la tua famiglia, la tua casa e i tuoi affetti più cari, la speranza, la vita dei tuoi figli.

La bandiera è il suo simbolo

Finché apparirà libera nelle tue strade tu sarai libero. Rispettala, onorala, difendila. Ricordati che al di sopra di ogni ideologia significherà con­cordia e fratellanza; falla sventolare alle tue fine­stre, mostra a tutti che tu sei italiano Il

Il Questo testo è stato ripreso da un vo lantino dell'Asso~ :iazione nazionale fra mutila[i e invalidi di guerra. Sede pro~ , jnciale di Treviso.

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Indice

Prefazione ............................ pago 5

Premessa .. .. .. .. .. .. . .. .. . .. .. . .. ....» 7

1. Italia: 25 luglio - 8 settembre 1943, in particolare Padova e dintorni ...» 9

2. La «catena della salvezza» . . .... . .. » 18

3. L'arresto...................... . .. » 24

4. Prigione di Santa Maria Maggiore a Venezia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 32

5. Bolzano......... ... . .... . ... . .... » 44

6. Mauthausen..... ... . ............. » 49

7. Linz .. ........................... » 57

8. Grein a.d. Donau.. . . . . . . . . . . . . . .. » 66

9. La fuga. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 80

lO. Rientro in Italia, arrivo a Padova .. » 88

Il. Voglio fare gli esami di maturità. .. » 96

12. Il mio ricovero a Mezzaselva .. . .... » 100

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I EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA I

Collana terra & cielo

orizzonti che si toccano nelln vita del/'uomo

Parole che fanno riflettere. Libri che siano compagni delle domande dell'uo mo. Provocazioni che aiutino a riscoprire una parte di noi. Turco questo in «terra&cielo ~> , co llana che raccoglie testi diversi: dalla narrat iva alle riflessioni, anche a sfondo autob iografico, dalle esperienze alla testimonianza.

I. Rodolfo Doni, Storia di Elsa

2. Emmanuelle-Marie, La pazienza del/'istante

3. Maddalena di Spello, Da Antonio a Francesco

4. Simona Mastrocinque, Grilli in testa

5. Brunilde Neroni, T urti i cieli

6. Chris Cappell, Lasciami correre via

7. Amalia Navarro, Siamo ancora vive!

8. Erri De Luca, Nocciolo d'oliva

9. Luca Desiato, Dal giardino murato

IO. Arturo Paoli, La gioia di essere liberi

Il . David Maria T uroldo, Il pastore innamorato

12. Genev iève de Gaulle Anthonioz, La traversata delln notte

13. A line Schulman, Paloma , mia colomba

14. Renzo Allegri, Il segreto del suo sorriso. Luc Valemini Terrani

15. Paolo Papotti, Come quando il creno muove

16. Rodolfo Doni, Il Giudice (Mysterium iniquitati.

17. Luisa Solero, L'odore delln neve

18. Jean Vanier, Trovare In pace

19. Vittorio Farronato, Il sole è di tutti. La missior nasce dalln simpatia

20. Markus Hofer, Francesco per uomini. Che co~ ha da dirci oggi l'uomo di Assisi

21. GianCarlo Bregantini, Gli alberi del/'anno

22. Alberto Bobbio, Truccarsi a Sarajevo. Storia storie di un assedio dimenticato

23. M. Elena Ascoli , Caterina. Un cuore di fuoc per l'Europa

24. Christian Albini, Il Dio degli ultimi posti

25. Mario De Maio - Emmanuelle-Marie - Robel to Mancini - Arturo Paoli - Massimo Tosch Vivere tra violenza e tenerezza

26. Marilena Rubaltelli, Non /)osso stare ferma

27 Antonio Riboldi, Gli scugniZZi di don Antonio

28. Paola Majocchi - Vittoria Prisciandaro, In cor data

29. Carla Liliana Martini, Catena di salvezza. So lidariew nelln lotta concro In barbarie nazifascis~