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Brindisi nel Tempo Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI TUTTE LE STRADE PORTANO A BRUNDISIUM TUTTE LE STRADE PORTANO A BRUNDISIUM Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI ITINERARIO STORICO-CULTURALE vol. 1 Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI FEDERICO II A BRINDISI … TRA CASTELLI … CULTURA …CUCINA Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI MASSERIE TORRI CASTELLI MONASTERI E CHIESE MASSERIE TORRI CASTELLI MONASTERI E CHIESE Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione BRINDISI

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Brindisi nel Tempo

Istituto Professionale di Stato per iServizi Alberghieri e della Ristorazione

BRINDISI

TUTTE LE STRADE PORTANO A BRUNDISIUM

TUTTE LE STRADE PORTANO A BRUNDISIUM

Istituto Professionale di Stato per iServizi Alberghieri e della Ristorazione

BRINDISI

ITINERARIO STORICO-CULTURALE

vol. 1

Istituto Professionale di Stato per iServizi Alberghieri e della Ristorazione

BRINDISI

FEDERICO IIA BRINDISI

… TRA CASTELLI … CULTURA

…CUCINA

Istituto Professionale di Stato per iServizi Alberghieri e della Ristorazione

BRINDISI

MASSERIE TORRI CASTELLIMONASTERI E CHIESE

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Le OriginiBrindisi nel Tempo

….. UN PO’ DI STORIA

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Brindisi nel TempoLe Origini

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Le OriginiBrindisi nel Tempo

LE ORIGINI

BRINDISI NEL MITO

La leggenda narra che Brento, figlio di Ercole durante un naufragio fu salvato dai delfini e deposto sul litorale brindisino, dove pensò d’innalzare due colonne come quelle che il padre Ercole aveva eretto tra Africa e Spagna per indicare il limite invalicabile delle navigazioni. Le colonne di Brento volevano indicare ai mercanti un posto sicuro. A Brento giunse voce che le sue colonne erano belle come quelle di suo padre Ercole.Allora perché venisse ricordato nei secoli decise di edificare il territorio a sua immagine: i due seni del porto interno rappresentavano le sue braccia, invece la sua testa, la terraferma.

Ercole

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Brindisi nel TempoLe Origini

L’ORIGINE DEL NOME

Da dove derivi alla città e al porto il nome di Brundisium, Brantesium e Brentisium è ignoto. Secondo alcuni, il nome alla città è venuto dal suo fondatore Brento, secondo altri dalla conformazione del suo porto, secondo altri ancora, dal termine messapico Brunda che significa testa di cervo.

Nuove ipotesi poi, sono state formulate dopo la scoperta di alcuni bronzi al largo della costa brindisina. Queste fanno risalire il nome di Brindisi alla parola “Bronzo” poiché nell’antichità esistevano molte fonderie e la città era famosa per la lavorazione dei metalli. Infine, secondo un noto studioso della storia di Brindisi, popoli orientali si sarebbero stabiliti nell’isola dove oggi sorge Forte a mare e avrebbero chiamato Biranta la rocca costruita su di essa, da cui, dopo che alcune di quelle genti passarono alla terraferma derivò il nome Brantisium.Brindisi pare anche un nome dato alla città da qualche colonia greca. I Greci avevano infatti l’abitudine di chiamare i paesi abitati con i loro nomi e da qui il nome Brentesion. Comunque poco importa se i fondatori di Brindisi siano stati Teseo, Minosse coi Cretesi o dopo la distruzione di Troia, Diomede con gli Etoli o Brento figlio di Ercole. E’ importante sapere invece che tutta questa regione che si disse Magna Grecia, fu invasa da popoli greci che cacciarono o assoggettarono gli indigeni. Sorsero così colonie prospere e potenti che non ebbero un centro né leggi comuni in modo da formare uno stato o una confederazione. Separate dalla madrepatria, ebbero varie forme di governo, da quello aristocratico a quello popolare, secondo la provenienza delle stirpi.La Magna Grecia raggiunse un grado tanto alto di cultura da influenzare in maniera evidente la messapica Brindisi.

Il porto di Brindisi

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Le OriginiBrindisi nel Tempo

LA STORIA

BRINDISI PREROMANA

Gli scrittori greci del V secolo a.C. indicavano la penisola salentina con il nome di Messapia. Nel Salento, dunque, senza considerare gli insediamenti preistorici, abitavano i Messapi, di cui si sa poco, anche se è stato accertato che il territorio da essi occupato, corrispondeva alla striscia di terra comprendente l’attuale provincia brindisina e parte della leccese e tarantina. Ad occidente questo territorio confinava con le colonie della Magna Grecia con epicentro Taranto, città militarmente fortissima che tenterà di assoggettare Brindisi, senza successo grazie alle poderose fortificazioni, alle vedette(specchie) e le muraglie (paretoni) innalzate dai Messapi; a sud con l’estremo Salento, ad est con il mare Adriatico.I Messapi erano certamente di origine greca. Alcuni studiosi li ritengono antichi abitanti della Beozia; altri dell’Eubea; altri della penisola calcidica; altri ancora di Rodi e di Creta.Della civiltà messapica, oltre alle mura e alle opere di difesa, sono rimaste iscrizioni su pietra e su bronzo, vasi in terracotta, fra cui spicca la tipica “Trozzella”: un’anfora di forma ovoidale rastremata al piede, con anse a nastro, verticali, che terminano in alto e all’attacco col ventre, con quattro rotelline, conservata nel Museo della città. La chiusura dei porti persiani ai Greci provocò, nel sec.VII a.C. la loro emigrazione verso i lidi dell’Italia Meridionale, in particolar modo verso i paesi della costa ionica, famosi per il rame. Una volta stabilitisi nelle nostre zone, i coloni greci dettero vita alla Magna Grecia. Essi si fusero con le popolazioni indigene di cui rispettarono usi, costumi e tradizioni. In questo clima sorsero e prosperarono città come Siracusa, Reggio, Metaponto, Crotone, Taranto. Frattanto Roma procedeva nel suo programma di conquiste.

All’inizio del III secolo a.C., le colonie greche dell’Italia incontrarono molte difficoltà nel fronteggiare la pressione delle popolazioni italiche (Sanniti, Lucani) sui loro territori. Temendo per la loro sopravvivenza, poleis greche come Turi, Crotone e Reggio chiesero e ottennero la protezione di Roma, che mandò truppe nella regione e sconfisse definitivamente, dopo aspri scontri, i Sanniti.

Trozzella

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BRINDISI DIVENTA COLONIA ROMANA

Roma era penetrata in Puglia: il Tavoliere dauno, ricco di grano, era una abbondante risorsa per l’approvvigionamento degli eserciti. Cominciò così la non facile impresa di assoggettamento delle popolazioni.

L’iniziativa allarmò la potente città di Taranto, l’unica città greca che vantava una economia florida basata sull’allevamen-to e sulla lana, un esercito e una flotta rispettabile e che, più volte aveva tentato inutilmente di conquistare Brindisi, il cui porto era uno scalo importantissimo per il commercio. I Ta-rantini temevano, però di diventare in breve tempo una del-le tante comunità sottomesse al dominio romano. Fu proprio Roma a porre fine ai continui conflitti. I Messapi, stanchi di difendersi dagli attacchi di Taranto, si allearono con Romani, con essi, i Peucezi e i Dauni. Fu l’inizio di una guerra.

Taranto chiese allora aiuto a Pirro re dell’Epiro, uno stato piccolo ma combattivo posto nel nord della Grecia. Assai ambizioso, Pirro sognava di riunire sotto il suo scettro tutte le città greche dell’Italia meridionale e di sottrarre il Mezzogiorno al dominio roma-no. Così, sbarcato in Italia con circa 30.000 fanti e 20 elefanti, rivestiti di pesanti corazze (gli elefanti erano animali fino allora ignoti ai Romani) egli ottenne subito due impor-tanti successi contro Roma. Perse tuttavia un numero molto alto di soldati che non riu-scì a rimpiazzare sia per la distanza dalla madrepatria, sia perché l’Epiro era un paese poco popolato.Taranto sperò allora nell’aiuto delle altre città greche, compresa la potente Siracusa. Ma Roma era riuscita a stringere solide alleanze proprio con queste città in previsione dell’attacco definitivo contro Taranto. Così Pirro fu definitivamente sconfitto a Bene-vento e costretto a lasciare l’Italia. Taranto ed i territori di altre popo-lazioni meridionali come quello dei Bruzi(odierna Calabria), dei Lucani (odierna Basilicata) furono incorpo-rati nei domini di Roma. Stessa sorte toccò ai Salentini cui fu tolto il ter-ritorio di Brindisi, che divenne poi, colonia romana.

Pirro

Elefanti a seguito di Pirro

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DALLA REGINA VIARUM ALLE COLONNE ROMANE DI BRINDISI

La via Appia

Divenuta Brindisi colonia e muni-cipio romano, si cercò di rendere più agevole il cam-mino tra Roma e questa città,nel cui porto erano pron-te le navi per l’im-barco delle legioni per l’Oriente. Così la via Appia, in-terrotta a Venosa, poté essere prolungata fino a Brindisi. Sappiamo che fu Appio Claudio il Censore, nel 312, ad iniziare la costruzione di questa prima grande strada romana.Per la prima volta una via di comunicazione non prendeva il nome dalla sua funzione (es. la Salaria come via del sale) ma dalla persona che l’aveva costruita. La “regina via-rum”, ovvero la regina delle strade, determinante per l’espansione romana collegava inizialmente Roma a Capua, la città più importante della Campania e grande alleata di Roma. Essa fu la prima delle grandi strade romane che vennero costruite con tecniche innovative che rappresentavano dei veri capolavori d’ingegneria e, superando grosse difficoltà naturali. Tutte le più importanti vie di comunicazione erano costruite in una posizione rialzata così da permettere un buon controllo del territorio circostante ed essere più sicure dagli attacchi nemici o dei banditi.Seguivano quasi sempre una linea retta e gli ostacoli naturali venivano superati con ponti e terrapieni. La costruzione avveniva con uno scavo nel terreno riempito poi con altri materiali ricavati sul posto. L’ultimo strato era costituito dal selciato che veniva sistemato in modo da consentire lo scolo sui lati dell’acqua piovana. I vari strati assicuravano un buon drenaggio, rendendo le strade praticabili anche in caso di abbondanti piogge.Le misure di una strada erano per legge larghe 2,33 metri nei rettilinei e 4,66 nelle curve. Tali misure dovevano consentire il passaggio contemporaneo di due carri che procedevano in senso opposto.

La via Appia

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Anche la via Appia fu costruita con queste caratteristiche, ma fu la prima via pavimen-tata. Nel suo primo tratto, fino a Terracina era un lunghissimo rettifilo di circa 132 mi-glia ottenuto rettificando il tracciato di una precedente via, che doveva chiamarsi presu-mibilmente “Albana” che, partendo dall’Isola Tiberina, attraversando la valle del Circo Massimo, congiungeva Roma ad Albalonga e ad altri centri dei colli Albani. Gli ultimi tratti della via erano fiancheggiati da un canale di bonifica che consentiva di alternare il tragitto in barca a quello sul carro o a cavallo. Dopo Terracina, la strada deviata verso Fondi, attraversava le impervie gole d’Iri e scendeva a Formia e Minturno. Superata poi Sinuessa, (l’odierna Mondragone) con tratto sempre rettilineo, puntava sul Volturno e

raggiungeva l’antica Capua.Il percorso totale si effettuava normalmente con cinque, sei giorni di viaggio.

Dopo la fondazione di Venu-sta (l’odierna Venosa) nel 291 a.c. al confine tra Irpinia, Lucania, Apulia, la strada fù prolungata di circa 322 mi-glia, da Capua a Benevento.Quando Roma, padrona di quasi tutta la penisola, co-minciò a guardare al porto di Brindisi come alla più como-

Carro da trasporto

La via Appia

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da testa di ponte per l’Oriente e al Salento come un territorio indispensabile per la sicurezza, prolungò la via Appia da Benevento a Taranto. Dopo la conquista romana di Taranto e della penisola Salentina, nel II sec.a.C. la via fu condotta fino a Brindisi, divenuta colonia di Roma.Dopo la prima guerra punica, quando crebbe in Roma l’interesse per i collegamenti ra-pidi con la Magna Grecia e con i porti del Mediterraneo, ci fu la costruzione dell’ultimo tratto dell’Appia che attraversò l’istmo della salentina, toccando Oria. Da questo momento Brindisi inizierà la sua rapida ascesa che la porterà a soppiantare Taranto nei traffici e interessi commerciali con la Grecia.

Marciando lungo la via Appia fino al porto di Brindi-si, i Romani poterono intraprendere la conquista della Macedonia e dell’Asia. Per la sua importanza strategi-ca i Romani potenziarono la via Appia, lastricandola. Nel 191 a.C. la strada era talmente efficiente che Ca-tone poté percorrerla con il cocchio fino a Roma in soli 5 giorni. Malgrado la sua importanza vitale per Roma, la via Appia non subì sostanziali modifiche fino all’epoca dell’imperatore Traiano (II secolo d.c.). Questi poten-ziò non solo i due porti di Ancona e di Brindisi, ma anche la via. Tagliando alla base, lungo la costa di Terracina, il promotorio del Pisco Montano creò una variante al percorso originario: la via Traiana. Questa si staccava dall’Appia a Benevento, toccava Troia, Canosa, Ruvo di Puglia e Bitonto, raggiungeva la costa a Bari e proseguiva per Egnazia lungo il litorale fino a Brindisi. Un percorso dunque alternativo più veloce, comodo e sicuro.La via Appia-Traiana era in parte lastri-cata con grandi lastroni (basoli) di pietra basaltica. La carreggiata aveva una larghezza di cir-ca 4 metri, sufficienti a consentire il pas-saggio contemporaneo di due carri nel doppio senso di marcia. Due marciapiedi in terra battuta, delimitati da un cordolo di pietra e larghi ognuno almeno un metro e mezzo fiancheggiavano la carreggiata. Ogni 7 o 9 miglia erano dislocate, proprio

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come le moderne autostrade, le stazioni di posta che servivano per il cambio dei cavalli, i luoghi di ristoro e alloggi per i viaggiatori. Lungo il percorso massicci cippi miliari in pietra, sistemati lungo i bordi della strada, indicavano la distanza. In prossimità dei cen-tri abitati la strada era fiancheggiata da ville e soprattutto tombe e monumenti funerari di vario genere. A segnare poi il tratto terminale della via Appia furono erette a Brindisi sulla rupe che domina il porto, due colonne: le famose Colonne romane.

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IL PORTO DI BRINDISI NELL’ANTICHITA’

Il mare ha sempre avuto nel tempo un ruolo insostituibile come via di comunicazione tra i popoli. Ciò ha privilegiato le città marinare e in modo particolare quelle dotate di porti naturali, come Brindisi. La fama della nostra città è legata alla singolarità del suo porto che, sin dai tempi più remoti ebbe una funzione militare e mercantile di primo piano e fu un importante scalo di collegamento tra l’Italia, la Grecia e il Mediterraneo orientale.

…Passeggero se non ti reca molestia,fermati e leggi

...qui è la mia ultima tappa...qui ho deposto i miei affanni,

qui non temo le stelle, il mare insidioso...

(anonimo navigante)

Planimetria del porto

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Brindisi ha come coordinate geografiche: 46° 15’(latitudine) e 15° 25’(longitudine). Il navigante proveniente dall’Oriente, poteva scorgere all’imboccatura del porto, poco sopra il livello del mare, un gruppo di isolette irte di scogli. Parallele ad esse vi era un’ altra isola rocciosa, bassa e lunga. Tanto le une quanto le altre sembravano dapprima confondersi da lontano con le alture retrostanti.Man mano che il navigante si avvicinava al porto invece si distinguevano chiaramente dalla terraferma. Tutte le isolette erano inapprodabili. Gli antichi non tramandarono i loro nomi, tranne che della più grande che chiamarono Bara. I bassi fondali coperti di scogli che, dalla costa si dilungavano verso la prima delle isolette, facevano sì che neanche le barche piccole potessero passare tra queste e la costa. Le bocche per cui i bastimenti potevano anticamente entrare nel porto di Brindisi erano due: una grande ed una piccola.

La grande era situata fra la prima delle cinque isolette e l’estremità dell’isola di Bara, la piccola fra quest’isola stessa e la terraferma. Il terreno, che circondava il porto esterno, era ricco di fonti di acque dolci, di collinette poco elevate, coltivabili, leggermente digradanti. L’antemurale era formato dal gruppo delle cinque isolette, che vennero in seguito chiamate Pedagne, e distinte con i nomi di Pedagna grande, Giorgio Treviso, La Chiesa, Monacello, e Traversa.

L’isola di Bara, divisa ora in Forte a mare e Isola di S.Andrea o del Lazzaretto, impediva alle mareggiate di penetrare nel porto, mentre le circostanti colline lo riparavano dal vento, per cui i bastimenti vi trovavano asilo sicuro.Il porto esterno dunque, prima della repubblica romana, era molto più angusto di quello attuale; successivamente l’azione erosiva del mare produsse l’attuale insenatura.

La triremi

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Le acque del porto esterno s’internavano nella costa esposta a mezzogiorno, in due seni, chiamati dagli antichi, Delta e Luciana ed oggi detti Fiume grande e Fiume piccolo. Questi due seni erano stati formati forse dal mare che, nelle forti mareggiate irrompeva con veemenza nell’uno, dalla grande imboccatura, tra le cinque isolette e Bara, e nell’altro,dalla piccola, fra questa isola e la terraferma. Man mano che le acque del porto esterno si avvicinavano alla città, si andavano sempre restringendosi da una parte e dall’altra della costa, sino a formare un canale di passaggio al porto esterno. Entrando le acque per questo stretto si biforcavano in altri due seni che, a loro volta, davano luogo a seni secondari nell’interno della città. Così Brindisi, circondata quasi per intero da questi due seni sembrava situata sopra una piccola penisola. La città costruita sopra due collinette era soggetta al dominio dei venti che rendevano il clima variabile. La fertilità di questo luogo, e la configurazione del porto dovettero attrarre molte popolazioni a stabilirvisi.La leggenda vuole che i primi abitanti di Brindisi fossero orientali. Nulla di più ovvio che codesti popoli orientali, capitati in questa nostra terra, trovandovi un porto naturalmente sicuro e un terreno fertile, abbiano deciso di stabilirvisi. Alla fertilità del terreno seguiva l’abbondanza del pesce del porto. Il sarago brindisino fu dichiarato “eccellente” da Ennio e Plinio definiva le ostriche brindisine, “saporite”.

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LE COLONNE ROMANE

Sopra la collina prospiciente l’imboccatura del por-to, sulla quale sorge la città, furono erette dai Ro-mani due colonne che, per chi veniva dal mare, si presentavano gigantesche ed enormi.Assunte da sempre a simbolo della città, sulle loro origini sono state fatte varie ipotesi. Per molti si tratta di un monumento fatto innalzare nel 110 a.C. dall’imperatore Traiano, per celebrare col potenziamento del porto, il prolungamento della via Appia da Benevento a Brindisi, strada che fu detta Traiana. Per alcuni è un monumento eretto in onore di Ercole, dio dalla forza proverbiale e dal quale la città Brindisi si vantava di trarre origine. Per altri, innalzare queste due colonne al punto dove la strada usciva sul mare, era fare allusione alle leggendarie Colonne d’Ercole situate sull’attuale stretto di Gibilterra e che indicavano la fine del mondo allora sconosciuto. Per altri ancora, le colonne sa-rebbero state volute dai Romani per premiare la lealtà dei Brindisini che, nel 214 a.C. non si erano arresi ad Annibale oppure a testimonianza del valido aiuto fornito a Silla, a Cesare ad Ottaviano in occasione della guerre civili che li videro vincitori su Mario, Pompeo, Marco Antonio.Un’ altra ipotesi attribuisce alle colonne la funzione di faro: tra un capitello e l’altro fu posta una robusta traversa di bronzo con un fanale dorato al centro, per dare ai navi-ganti un punto di riferimento e la possibilità di trovare riparo dalle tempeste per le quali era famoso l’Adriatico. Purtroppo, nel 1528 una delle due colonne crollò e uno dei pez-zi che la componevano, rimase trasversalmente sulla base, come oggi ancora si vede. La colonna superstite è alta circa 20 metri. Il capitello, alto circa mt. 1,85 ha la parte inferiore decorata con foglie di acanto; la parte superiore, adornata con quattro cop-pie di tritoni poste agli spigoli e con quattro busti di deità che reggono l’abaco, è alta mt. 1,05; il pulvino che sta sopra il capitello ha tre ordini di fregi. I resti della colonna crollata invece, furono riutilizzati a Lecce nella colonna innalzata a Sant’ Oronzo che aveva preservato il Salento dalla peste, scoppiata nel 1656.

Le Colonne Romane

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Le OriginiBrindisi nel Tempo

…. QUANTO RESTA DELLA BRINDISI ROMANA ….

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I MONUMENTI DELLA BRINDISI ROMANA

SAN PIETRO DEGLI SCHIAVONI

Nel centro storico di Brindisi, tra Piazza Vittoria e Via Duomo, è ubicato il parco ar-cheologico di San Pietro degli Schiavoni. L’area, venuta alla luce in seguito all’abbat-timento di vetuste abitazioni, racchiude un quartiere abitativo riferibile ad età romana medio-imperiale; esso e’ attraversato per la lunghezza da una strada lastricata, orien-tata a nord-est, larga mt.4,75 e costeggiata da alti marciapiedi formati da massi che recano incisi vari simboli (pesci, uccelli ecc.) da collegarsi probabilmente alle cave di appartenenza; lungo la carreggiata sono visibili i solchi lasciati dai carri.Sulla strada si affacciano edifici pubblici e privati, ambienti coperti da pavimenti a mosaico o marmo o da semplici mattoncini in terracotta disposti a spina pesce. A est della strada è stato rinvenuto un grande ambiente, forse il peristilio di un’abitazione patrizia, circondato da un grande portico a colonne. Sicuramente questo ambiente rappresentava la parte più ricca della casa, il luogo dove si raccoglievano le opere d’arte e i dipinti.Di notevole interesse è l’impianto termale portato alla luce nelle immediate vicinanze della DOMUS patrizia. Il rinvenimento poi, di elementi architettonici in marmo e in terracotta dipinta, appartenenti ad edifici, nonché di pavimenti a mosaico, di sculture, ci fanno dedurre che nelle vicinanze del centro urbano, cioè del foro, (forse nei pressi di Piazza Vittoria) sorgesse un quartiere abitativo elegante.

VIA CASIMIRO

Poco distante da San Pietro degli Schiavoni, fra via Casimiro e via De Muscettola, sono visibili ulteriori testimonianze della Brindisi romana di età tardo imperiale: pavimenti a mosaico e in cocciopesto, stucchi parietali, elementi architettonici in marmo, rocchi di colonne da collegare forse, alla presenza di edifici pubblici nelle vicinanze.

L’ACQUEDOTTO ROMANO

Nei primi due secoli dell’impero romano, Brindisi fu arricchita, con il favore e con l’interessamento personale di alcuni imperatori, con grandiose opere di pubblica utilità come il foro, l’anfiteatro, gli acquedotti, le vasche limarie, i templi, le statue in marmo di cui, purtroppo, rimangono pochissime tracce. Sotto l’imperatore Claudio fu costruito un

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magnifico acquedotto che traeva origine da una falda acquifera situata nella contrada Pozzo de Vito sulla sponda orientale del canale di Lapani, a poca distanza dalla statale Adriatica. E’ ancora visibile una gora cilindrica, posta a 20 metri dal livello del mare, del diametro di 6 metri, internamente foderata con una muratura di calcestruzzo e di quadretti tufacei ad opera reticolata. Questi rivestimenti erano indispensabili per contenere gli strati sabbiosi e argillosi dello scavo.Nella gora confluivano, attraverso 5 gallerie, le acque di altri pozzi situati nel sabbione tufaceo in diversi punti della città.

Da Pozzo de Vito, l’acquedotto si dirigeva verso est-sud-est, sottopassava masseria Re-stinco, attraversava la ferrovia Bari-Brindisi, tagliava il canale di Cillarese e dopo una svolta a sinistra, proseguiva verso la città, parallelamente alla ferrovia e alla strada stata-le Appia. A circa duecento metri dalla Chiesa dei Cappuccini, formava un angolo retto, deviava a sud-est e, seguendo l’andamento di via Settimio Severo, all’altezza dell’attua-le viale Commenda, sottopassava la ferrovia per innestarsi nei pressi del bastione San Giorgio con la condotta realizzata nel 1618, dal governatore De Torres per alimentare le fontane cittadine. Il percosso complessivo dell’acquedotto era di mt. 11.935. Tutta l’acqua poi, convogliata nelle Vasche Limarie situate nei pressi di Porta Mesagne, era lasciata a decantare per far depositare le sostanze sabbiose, accumulate durante il tra-gitto prima di farla defluire nelle fontane.

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LE VASCHE LIMARIE

I resti romani che si osservano a lato di Porta Mesagne, sulla destra per chi entra, sono da collegare all’acquedotto di Pozzo de Vito. L’acqua potabile depositava la sabbia e i detriti che trasportava con sé in queste vasche prima di defluire nelle fontane.

La lunghezza delle cinque vasche è di mt.51, la larghezza di mt.11,20, l’altezza è di mt.3,50. Le pareti e le volte sono di “Opus incertum” alternato ad “Opus Listatum”, il pavimento è in lastroni di argilla cotta.

Acquedotto romano (galleria)

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IL POZZO TRAIANO

Un’ altra riserva idrica e dei cunicoli filtranti furono ritrovati sotto il piano stradale della via Pozzo Traiano, prima della salita S. Dionisio. L’imperatore romano Traiano, del quale porta il nome che, si trovava a Brindisi con l’esercito, in attesa del tempo favorevole per imbarcarsi per le sue campagne orientali contro Armeni e Parti, ne avrebbe ordinato la costruzione per provvedere di acqua i soldati e i cavalli. Il grande deposito (conserva) d’acqua, collegato all’acquedotto alimentava le fontane della città. Sino alla fine del 1800 era detto dai Brindisini il “pozzo della città”. Altra acqua giungeva in città dal fiume di Celano, chiamato nell’uso popolare Cerano perché per buona parte, scorreva “celato” sottoterra.

LE TERME

La costruzione delle Terme risale all’età imperiale. Di esse sono visibili nella zona Apollinare tracce della tubazione in terra-cotta, del fridario, della vasca natatoria, del tepidario e lastre marmoree che, forse, erano il rivestimento delle pareti interne dell’edifi-cio. Ma cosa erano le Terme? Esse erano un luogo di ritrovo, con piscine, palestre, giardi-ni. L’orario di apertura andava dal mattino al tramonto.

Inizialmente, esigenze di pudore spinsero a riservare la mattina alle donne e il pomeriggio agli uomini. Col tempo questa separazione tra sessi fu sempre meno rispettata: donne e uomini si mescolavano normalmente.

Le terme avevano “anzitutto” una funzione igienica. Sappiamo che le abitazioni della gente comune erano abbastanza malsane, prive di acqua corrente e di servizi igienici. Le terme erano invece ampi spazi, puliti e pieni di luce dove l’acqua scorreva a profu-sione. Ma erano edifici molto complessi. Da-

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gli spogliatoi si passava a tutta una serie di ambienti, diversi per forma e dimensioni: il sudatorium, sala riscaldata con aria calda, oppure con vapore, per i bagni di sudore; il calidarium, per i bagni caldi; il tepidarium, per i bagni tiepidi; il frigidarium, per i bagni freddi; la natatio, una vera e propria piscina per il nuoto, di solito scoperta. Vicino a questi locali era la palestra, costituita da un vasto spazio aperto, circondato da portici e da locali coperti per i giochi e per le attività atletiche: corsa, sollevamento pesi, scherma. Ad un’abbondante sudorazione seguivano immersioni alternate in acqua calda e fredda; il tutto si concludeva con una buona nuotata in piscina. Queste operazioni agivano beneficamente sull’ organismo. Dopo le abluzioni, seguivano i massaggi con oli e unguenti profumati. I cittadini ricchi avevano propri massaggiatori; essi potevano servirsi del personale delle terme pagando un supplemento, oppure si aiutavano a vicenda.

I grandi complessi termali disponevano anche di ambienti per gli spettacoli, auditori e biblioteche, sale di ristoro dove era possibile consumare cibi e bevande. Le terme erano

per gli abitanti della città che trascorrevano la maggior parte del tempo fuori casa: “il salotto cittadino” dove incontrare amici, fare nuove amicizie, concludere affari.

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IL FORO

Come tutte le città dell’impero anche Brindisi ebbe il Foro; pur non avendo notizie certe sulla reale ubicazione, alcuni storici locali ritengono che sorgesse o nei pressi dell’attuale piazza Duomo o in piazza Della Vittoria.

Di sicuro, sappiamo che i processi avvenivano in un apposito edificio, chiamato “basi-lica” divenuta in seguito il modello delle maggiori chiese cristiane. Essa era costituita da una navata centrale sulla quale si aprivano diverse stanze:i processi avvenivano nelle stanze che si affacciavano sulla navata; lungo le balconate si accalcava il pubblico dei curiosi perché i processi erano molto teatrali: gli accusati piangevano, si strappavano le vesti, portavano con sé moglie e bambini per impietosire il giudice; pagarsi un avvocato di grido significava spendere una fortuna. Dopo il dibattimento, il giudice emetteva la sentenza che po-teva comportare un risarcimento in denaro, la morte, l’esilio, il remo sulle galere. I condannati non erano tenuti in prigione, se non in attesa dell’esecuzione capitale. Alcuni venivano esiliati in lontane terre dell’Impero, altri venivano puniti con la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni. E’ necessario dire che le punizioni non erano uguali per tutti.

A loro piacere i giudici dividevano gli accusati in “i più

Foro romano

Oratore

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rispettabili” e “i più poveri”. Quest’ultimi ricevevano pene molto più severe: condannati a morte venivano gettati in pasto alle fiere nei giochi del circo. Una sorte ancora peggiore toccava agli schiavi, chiamati a fare da testimoni in un processo contro il loro padrone: la loro testimonianza non poteva essere accettata se non sotto tortura. Le leggi civili e penali a cui il giudice faceva riferimento erano le Dodici Tavole, il primo codice scritto del Diritto Romano. Le norme erano molte dure, addirittura crudeli, tuttavia in questa raccolta stavano già alcuni principi di altissimo valore umano. Uno di questi fu la “curatela” cioè la cura, la protezione offerta dal diritto alle persone deboli, malate, indifese, compreso il malato di mente o il bambino non ancora nato. La loro curatela veniva affidata al parente più prossimo o a quello ritenuto più adatto. Su queste basi il diritto romano perse nel tempo quegli elementi di incivile durezza che l’avevano caratterizzato all’inizio. Ma la grande innovazione per la quale i Romani sono considerati i fondatori del diritto, consiste nel fatto che ogni sentenza veniva registrata e commentata per iscritto dal giudice che l’aveva emessa e che questi documenti costituivano i precedenti per i nuovi processi e nuovi giudizi. Nacque così la “scienza giuridica” che i Romani applicarono in modo pratico e concreto. Ogni giudice, infatti, poteva dire che la questione non si poteva risolvere in quel modo, perché un’altra volta si era fatto diversamente.

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I TEMPLI

Non solo la storia, ma anche i numerosi resti di monumenti di epoca romana ci tramandano del culto in onore di molte divinità come Nettuno, Ercole, Apollo e Diana. In quasi tutte le monete brindisine dell’epoca citata v’è coniata la testa di Nettuno, e ciò è facilmente spiegabile, col fatto che una città che doveva la sua importanza e i suoi traffici commerciali al mare, dovesse venerare sommamente il possente dio del mare e tutte le altre divinità marine. La figura di Nettuno, del resto, compare scolpita sul capitello della Colonna.Il culto di Ercole viene attestato dalle medesime colonne terminali della via Appia, che, come la leggenda narra sono state erette proprio in suo onore. Pare che l’adorazione degli astri sia stato anche il culto predominante della Brindisi pagana. Particolare vene-razione si aveva per il Sole e per la Luna, personificati in Apollo e Diana.

Un tempio ad Apollo fu eretto su una spiaggia del porto che, per questo fu chiamata Apollinaria e in seguito S.Apollinare. Al Sole fu consacrato un tempio di cui si scoprì qualche rudere nelle vicinanze del passaggio livello di Porta Mesagne, mentre una gigantesca statua mutilata della dea Diana è visibile nel Museo civico della città. E che Brindisi pagana venerasse il dio Pan, Minerva, Marte, Cerere e Proserpina lo si può dedurre dalle molte statuette frammentarie in marmo e in terracotta, recentemente rinvenute in vari punti della città.

Planimetria di un tempio di Apollo

Ipotetica ricostruzione del Tempio di Diana

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….ED ORA CAMMINIAMO PER BRUNDISIUM

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L’URBANISTICA DELLA BRINDISI ROMANA

Delle principali strade della Brindisi romana rimane traccia solo dell’antico decumano superiore, via principale che attraversava la città in lunghezza, mentre il decumano inferiore è nascosto da nuove strade ed edifici; l’asse stradale del decumano superiore è oggi costituito dalla Via Santabarbara e Tarantini e dalle vie ad esso perpendicolari e tra loro parallele. Il decumano inferiore comprendeva, invece, la lunga strada che, partendo da via Carmine terminava in via Casimiro e i due cardini di cui, uno percorreva gli orti che si trovano in via Armengol e SantaBarbara, mentre l’altro giungeva in via Duomo.

Furono i Greci i primi a progettare in modo razionale i centri urbani; essi influenzarono non solo i Messapi, grandi costruttori di città nel Salento, ma anche i Romani: mentre in precedenza si edificavano le case e lo spazio tra esse diventava strada,i Greci adottarono uno schema planimetrico regolare con strade che si intersecavano ad angolo retto. Questo schema fu confermato dai Romani; lo spazio urbano fu così attraversato da due decumani, strade larghe, lunghe e parallele, procedenti in direzione est-ovest e dai cardini, vie di dimensioni ridotte e perpendicolari alle prime, orientate da nord a sud. Le case venivano distribuite in isolati, dette “insulae” al cui interno vi erano gli “ambitus”, passaggi larghi appena una sessantina di centimetri. Una via romana di Brindisi, ancora oggi percorribile da tutti, è via Lata. Essa fu costruita dai Romani sulla collinetta del Seno di Ponente, zona esposta a sud ed occupata unicamente dalle legioni romane in attesa di imbarco per l’oriente.

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LA DOMUS

Da qualche ricostruzione storica ed illustrazione si può dedurre che la “domus” corrispondeva soltanto a uno dei tipi di casa allora esistenti e nemmeno la più comune. Infatti, proprio come oggi,non c’era un modello unico per le abitazioni che, invece, differivano notevolmente a seconda del livello economico e sociale di chi li abitava. La “domus” era una residenza che oggi chiameremmo “unifamiliare” e “signorile”.

Possiamo immaginare che vi abitassero personaggi illustri e facoltosi, mentre la maggior parte della plebe viveva in affitto, in una sorta di condominio a più piani che si chiamavano “insulae”.Oltre a questa tipologia di abitazione, c’era la villa in campagna che, a sua volta poteva essere di due generi: una, quella dei piccoli e medi proprietari, attrezzata per le varie esigenze della vita agricola, un po’ come la casa colonica o fattoria; l’altra, la vasta e ricca villa padronale, che corrispondeva invece alla scelta di conservare gli agi e i lussi della vita cittadina negli spazi più ampi di una grande proprietà terriera. La “domus” aveva una disposizione planimetrica interna ben precisa, in cui le varie stanze avevano una funzione e un posto fisso. Era di norma a un solo piano ed abitata come già detto, da una sola famiglia. La porta d’ingresso non dava sulla strada ma si trovava a metà di un corridoio. Uno schiavo, addetto alla porta, introduceva i visitatori nell’atrio vero e proprio centro della casa, quello di rappresentanza: esso riceveva la luce da un’apertura del soffitto al di sotto della quale c’era una vasca che raccoglieva

Domus vista prospettica e pianta

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l’acqua piovana. Sull’atrio davano diverse stanze, riservate di norma alla vita sociale o adibite a stanze di servizio; soprattutto l’atrio era il luogo dove si celebravano i “culti domestici” e, per questo ospitava anche l’altare per i Lari e divinità della famiglia. Per la sua funzione di rappresentanza, l’atrio era la sala più curata nelle decorazioni, con affreschi, mosaici e soffitti a cassettoni: dal tipo e dal livello delle decorazioni ci si poteva fare idea della condizione sociale del proprietario. La stanza del paterfamilias e la biblioteca concludevano questa parte della casa. Si accedeva, poi, alla parte più interna, in cui tutte le stanze si aprivano su un cortile, decorato con cura e ornato di statue e fontane, delimitato da un colonnato. Trovavano spazio in questa zona le camere da letto, la cucina, il bagno, la sala da pranzo e quella dei ricevimenti. Questa parte poteva terminare in un giardino

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LE INSULAE

Le “insulae”, case a quattro o cinque piani potevano ospitare numerose famiglie. Ne erano proprietari i ricchi patrizi che affittavano alla plebe, a prezzi piuttosto elevati, i loro appartamenti. Le insulae potevano svilupparsi fino a tre, quattro piani e anche di più. Le loro basi erano ridotte rispetto allo sviluppo in altezza per risparmiare terreno e le strutture portanti spesso non erano solide, in quanto si economizzava sul costo e sulla quantità del materiale utilizzato. Per tali motivi le insulae erano soggette a crolli.

Il piano terra era occupato dalle botteghe di artigiani e commercianti che abitavano nel retrobottega. Gli appartamenti erano spesso formati da una sola stanza che fungeva sia da cucina che da camera da letto.La vita all’interno di questi caseggiati era piuttosto disagevole: erano mal riscaldati d’inverno, poco illuminati, privi d’acqua, che doveva essere attinta dai pozzi o dalle fontane e dai bagni. Tuttavia, con pochissima spesa e sovente gratis,a cura dei cittadini più influenti in cerca di popolarità, la plebe poteva frequentare i bagni pubblici e le terme.

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LE TABERNAE

Lungo la via Appia e nella città di Brindisi v’erano le taberne di vari livelli. All’origine erano dei luoghi oscuri, depositi di legna poi divennero le piccole botteghe dell’artigiano, aperte sulla strada e situate a pian terreno o seminterrato di una domus o di un’ insula. In seguito, finì col diventare le taverne per eccellenza cioè luoghi in cui si beveva e si mangiava.

La parola taverna ebbe fortuna non solo a Roma ma anche nelle province, ed è giunta fino ai nostri giorni, senza mutare alcunché del suo significato, tanto è vero che anche il nome italiano ”taverna” è sinonimo di osteria. Molte taberne erano specializzate nella vendita di piatti già preparati come: salsicce pronte, carni bollite, verdure, lardo, pro-sciutto, cibo sotto sale, latte e formaggi.Un altro luogo di ristoro era la popina: qui la bevanda veniva portata a tavola solo per accompagnare i piatti del pasto. Essa era rinomata per i grassi arrosti e gli ottimi bolliti.Altri locali più poveri erano i gurgustium (bettole) e la guinea (cantine sotterranee).

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…. UN PO’ DI LETTERATURA ANTICA

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LA VIA DELLA CULTURA

Brindisi è una città ricca di storia e di cultura. Gli uomini celebri che vi sostarono più o meno a lungo, furono molti. Cicerone, ospite di Marco Lenio Flacco scrisse le famose “Lettere brindisine”. Il poeta Orazio amava tanto sostare nella nostra città che, una volta giuntovi, non desiderava andare altrove. Si crede anche che il poeta Virgilio abbia non solo dimorato nelle vicinanze del porto di Brindisi, ma che sia stato acclamato cittadino e che Cicerone vi sia morto all’età di 58 anni, il 28 a.C..Brindisi, punto d’incontro tra la civiltà greca e la cultura romana, accolse un gran numero di Greci che, come schiavi e ostaggi, i “gre-culi”, come li chiamavano ironicamente i romani, confluiro-no a Roma e diedero impulso all’attività letteraria e artistica di Roma.

E, forse percorrendo la via Appia o Traiana, giunse a Roma il prigioniero di guerra tarantino, di origine greca, Livio Andronico che organizzò il primo spettacolo “teatrale” a Roma recitando e cantando l’Odissea.Il pubblico e governo rimasero così compiaciuti che da quel momento consentirono agli attori di costituirsi in “corporazione” e di organizzare per le feste dell’anno, i cosiddetti “ludi scenici”. Dopo di lui, un altro pugliese di padre italiano e di madre greca, Quinto Ennio, giunse a Roma e portò con le sue tragedie, un soffio di originalità al teatro romano che, fino a quel momento aveva scopiazzato da quello greco.

E che dire del brindisino Marco Pacuvio, il tragediografo per eccellenza: egli, nipote di Ennio portò a vette mai raggiunte la tragedia latina ed è, senza dubbio, una delle antiche glorie di cui Brindisi va superba. A questo punto nasce spontaneo chiederci cos’è la tragedia, la commedia, dove e perché nacquero, qual è la loro importanza, insomma è necessario tracciare una breve storia del teatro greco e romano perché solo in questo modo potremmo capire il significato delle famose parole di Catone: “La Grecia conquistata conquistò il barbaro vincitore”.

Cicerone

Orazio

Virgilio

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BREVE STORIA DEL TEATRO

Il teatro, sia come luogo di rappresentazioni, sia come genere letterario, ha una vecchia storia che si perde nella notte dei tempi. Si sa anche che in epoche lontane, le rappresentazio-ni erano costituite solo da imitazioni (mimi) e danze a carattere religioso. Il teatro che noi conosciamo ha avuto però origine nella Grecia antica, esattamente nell’Attica; esso si ricollegava alle feste in onore di Dionisio, dio della vite, del vino e della gioia, simbolo del mistero della vita, della morte e dell’avvicendarsi delle stagioni. In Atene si davano quattro feste all’anno in onore del dio, figlio di Zeus, ucciso, smembrato, divorato dai Titani suoi nemici e resuscitato dalla volontà del padre. Durante queste feste, avve-niva il sacrificio di un capro, accompagnato dal canto di un inno, intonato dal coro dei fedeli. In un’epoca successiva, uno dei partecipanti al rito, fingendo di essere lo stesso Dionisio, rispondeva e dialogava con i fedeli. Nacque così il personaggio e, con esso la possibilità di rappresentare una storia che, in un primo momento ebbe per oggetto solo le vicende del dio.In origine tra tragedia e commedia non vi fu differenza;successivamente si diversifica-rono per il contenuto.Le tragedie trattarono temi morali e religiosi,le commedie, criti-cando vivacemente i costumi e la corruzione di certi personaggi pubblici, insegnarono una morale spicciola e offrirono spunti al dibattito civile. Da qui è facile capire l’impor-tanza del teatro presso i Greci. Inteso come un vero “servizio pubblico” fu la polis, cioè la collettività, a costruire i teatri che potevano ospitare dal 75% al 100% dei cittadini e a sovvenzionare l’attività teatra-le con un sussidio dato a coloro che non potevano permettersi la spesa dell’ingresso a teatro.

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Il teatro greco era costituito da un gradinata di forma semicircolare spesso addossata ad un’altura, dove prendeva posto il pubblico; dall’orchestra che era lo spazio riservato alle danze del coro e dalla scena sopraelevata, costituita da una piattaforma sulla quale recitavano gli attori. Il bordo esterno del palco si chiamava proscenio. Si accedeva all’orchestra mediante due ingressi laterali, le scene erano molto semplici e il fondale era formato da colonne e pannelli. Le onde sonore, amplificate dalle correnti d’aria, garantivano allo spettatore il massimo ascolto da qualsiasi punto della gradinata.L’attore si imponeva al pubblico con atteggiamenti solenni; portava una maschera dalla fronte prominente, talvolta parrucca e barba, e indossava i coturni, calzari con parecchie suole, che gli davano una statura anormale. Gli abiti erano costituiti da lunghe tuniche drappeggiate, colorate e ricamate, con ampie maniche e una cintura, posta sopra la vita, che rendeva più imponente la figura. La mancanza di posti privilegiati o più precisamente l’altissimo numero di posti destinati al pubblico di qualsiasi classe sociale, facevano dell’edificio greco il modello di insuperabile funzionalità che rispecchiava il carattere democratico della società greca.

Teatro greco

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IL TEATRO ROMANO

Il teatro romano trasse origine dalla tradizione greca, trasmessa a Roma attraverso le colonie della Sicilia e dell’Italia meridionale. Va detto che i Romani, inizialmente erano ostili ad ogni forma di cultura a loro estranea, specialmente a quella greca. Col passare del tempo però,a Roma si iniziò ad assistere a commedie, tragedie,a scrivere in greco, e a non curare solo l’arte della guerra.I Romani, a differenza dei Greci, non amarono molto il teatro “serio”: le tragedie riscuotevano successo soltanto presso un pubblico colto. Più amato fu invece il teatro comico specialmente nelle sue forme popolari: il fescenni-no (rozza rappresentazione improvvisata, dal tono licenzioso, legato alle feste agricole) e l’atellana. Questa era giunta a Roma dalla Campania ed era una rappresentazione improvvisata. Gli attori incarnavano personaggi fissi stabili e, sulla trama di un semplice canovaccio (futuro copione) tessevano la loro rappresentazione.

Grande successo ebbero a Roma le pantomime, un nuovo tipo di spettacolo in cui un unico attore, con una maschera a tre volti interpretava da solo differenti personaggi. Più tardi queste esibizioni furono proibite, ma nulla cambiò; esse erano diventate un bisogno per la popolazione, che le reclamava accanto alle corse dei cavalli, al pugilato, agli spettacoli dei gladiatori ed alle battaglie navali ricostruite negli anfiteatri.

Teatro romano

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A partire dalla seconda metà del III sec.a.C., si diffuse un teatro comico,con una produzione di commedie che venivano dette “palliate”, perché l’azione era ambientata in Grecia e i personaggi vestivano il “pallium”, l’abito nazionale greco. Il fatto che le azioni comiche venivano ambientate in Grecia era richiesto dal costume romano che non ammetteva che si mettesse in ridicolo sulla scena un proprio cittadino.Autori di palliate furono Plauto e Terenzio. I Romani amarono in modo particolare Plauto che seppe calare trame e personaggi greci in un contesto squisitamente romano. Terenzio fu amato più dalle persone colte che dal popolo;la sua comicità era più sottile e raffinata,priva di volgarità e non si addiceva a un pubblico piuttosto grossolano, desideroso solo di divertirsi. Il popolo romano che andava a teatro aumentò sempre più, anche perché non pagava il biglietto d’ingresso.I primi locali teatrali erano rudimentali e si approntavano soltanto in occasione delle feste, dopo le quali venivano rimossi. Consistevano in una sorta di impalcatura di legno che sorreggeva il palcoscenico, davanti al quale c’era un’”orchestra” circolare per i balletti che accompagnavano lo spettacolo. Solo nel 145 fu costruito un teatro stabile, di legno anch’esso e senza tetto, con sedili fissi disposti circolarmente intorno al palcoscenico, secondo lo stile greco. Erano ammessi tutti, anche gli schiavi, che erano costretti a stare in piedi per tutta la durata dello spettacolo e le donne confinate in fondo.

Teatro romano

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La recitazione comunque, veniva spesso interrotta con battute grossolane. Gli attori erano in genere schiavi greci, tranne il protagonista che poteva essere un cittadino romano, il quale però dandosi alla carriera, perdeva i suoi diritti politici. Erano gli uomini a interpretare anche le parti femminili. Essi, finché il pubblico fu limitato, si accontentarono di una sommaria truccatura. Ma, quando le platee diventarono strabocchevoli, fu introdotto l’uso delle maschere che si chiamavano “personae”. Gli attori che le incarnavano, quando si trattava di tragedia, portavano i “coturni”, ch’erano le scarpe a stivaletto; quando si trattava di commedia, portavano il “soccus”, cioè la scarpa bassa.

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MARCO PACUVIO UN BRINDISINO ILLUSTRE

Marco Pacuvio è senza dubbio, una delle antiche glorie di cui Brindisi ne va orgogliosa. Nacque nel 220 a.C. da padre osco, da madre rudina e so-rella del poeta Quinto Ennio. Fu iniziato agli studi letterari dallo zio che lo portò con se a Roma, quando fu chiamato, non solo a dirigere il collegio degli scrittori e dei poeti, ma, a tenere anche scuola di grammatica e di poesia. Lo stesso zio Ennio lo introdusse nel circolo letterario filellenico degli Scipioni, dove strinse amicizia con Emilio Paolo, il vincitore della Macedonia, per il quale compose l’unica praetexta “Paulus”, che celebra la battaglia di Pidna (168 a.C.). Di Pacuvio, conosciamo i titoli di 13 tragedie delle quali sono giunti a noi soltanto i frammenti per circa 450 versi. Sap-piamo anche che egli scrisse un numero imprecisato di satire, di cui non possediamo nulla, e che fu un buon pittore. Egli fu giudicato da Cicerone, il maggiore tragico latino. Vecchio abbastanza, Pacuvio lasciò Roma per ritirarsi a Taranto, dove all’età 90 anni si spense il 130 a.C.. Sulla sua tomba che pare fosse non lontano dall’antica Porta Temenide (in prossimità del Mar Piccolo) si poteva leggere questo epitaffio: “O giovinetto, sebbene tu abbia fretta, questo sasso ti invita a guardarlo e poi a leggere ciò che vi è scritto. Qui giacciono le ossa del poeta Marco Pacuvio. Ciò voleva che tu sapessi. Addio”.

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Le OriginiBrindisi nel Tempo

…. IMPARIAMO CON ALLEGRIA

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IL BRINDISINUS A TAVOLA

Cosa mangiava e come si comportava

Lucius Phasulus, dopo aver chiuso la porta della sua bottega si dirigeva come al solito verso le scale che portavano al suo appartamento. La sua insula era distante dal centro e, sebbene non fosse delle migliori, era abbastanza carina: i muri erano pieni di affreschi. Lì lavorava, e il suo appartamento era sopra il suo negozio, al primo piano. Il quartiere era tranquillo, dato che era in periferia e vicino alla domus; gli unici due problemi erano la puzza della sua via (infatti davanti alla sua bottega vi erano un conciatore ed un pescivendolo) e le grida di festa che, quasi ogni sera, venivano dalla villa vicina del ricco Marcus Horatius Patricius.

Lucius poteva solo immaginare quali prelibatezze venivano servite nella ricca residenza vicina; a lui spettava la solita polenta di farina di farro. Certamente al patrizio Marcus Horatius, sdraiato sul triclino, l’ancella serviva cibi con abbinamenti che a noi sembrerebbero impossibili e disgustosi, come coppe di gustatium, vino col miele per aperitivo; primi piatti di uccelli cotti in un umido composto di aceto, miele, olio, uva passa, vino, menta, pepe e un’infinità di erbe dal sapore acuto e ancora, arrosto di maiale con il garum, un condimento disgustoso ricavato dal pesce disfatto e fermentato in acqua molto salata. Il tutto accompagnato da calici di Merum Casinum o Brundisium, cioè vino puro, tanto esaltato dal romano Plinio il Vecchio.

Cosa mangiava il plebeo Lucius Phasulus a tavola?

Lucius

Marcus

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I piatti più comuni erano a base di cereali. Con la cicerchia, un cereale che cresceva quasi spontaneo Lucius Phasulus gustava una poltiglia impastata nel latte di pecora, mentre con il miglio, una specie di focaccia che mangiava calda con pezzi di formaggio di capra, fichi e miele.

Sulla sua tavola compariva anche il pane: una schiacciata di farina d’orzo, fatta seccare per farla durare a lungo e ammorbidita nell’acqua prima di essere consumata (forse la famosa “frisedda”!?).

E, sicuramente, utilizzando la farina di grano, Drusilla, moglie di Lucius creò la prima “Puddica” la cui fraganza convinse Virgilio ad abbandonare, sia pure momentaneamente, i suoi eroi e a cedere ai piaceri della tavola. In qualche particolare ricorrenza compariva qualche piatto a base di carne suina o di agnello dal momento che il consumo della carne in generale era riservata ai ceti più abbienti, cioè al padrone della domus, vicino di casa del nostro plebeo.

Lucius Phasulus e famiglia, per sopperire alle scarse proteine contenute nella loro alimentazione mangiavano spesso legumi come fagioli, fave, piselli, lupini, messi a cuocere nel “cacca-bus”, una specie di pentola con un coperchio in terracotta per cottura di cibi a fuoco lento. Altre “prelibatezze” gustate dal nostro “amico” e consorte erano le cipolle selva-tiche, “li cipudazzi”, le verdure selvatiche (forse le famose fogghie ammusckate), fiori, radici che si consumavano la sera come cena e che li preservavano dai malanni. Poi, un venerdì, esplose nella famiglia Phasulus la mania del pesce (solo perchè poco costoso!!): sulla tavola comparve il famoso sarago brindisino, cotto e condito con olio e limone, e non solo… anche molluschi e ostriche, gustate crude o con l’aggiunta di qualche salsa. Il tutto accompagnato da un semplice calice di “vinum alterum” (vino rosso) o “vinum candidum” (vino bianco) sempre allungato con l’acqua.

Drusilla

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Colazione, pranzo e cena: nulla è cambiato

Anche a Brindisi, come a Roma, si facevano tre pasti al giorno: appena alzati una colazione piuttosto sostanziosa con uova, miele, frutta, olive, formaggio e pane. In tarda mattinata si pranzava spesso con gli avanzi della cena precedente ed anche questo era un pasto molto frugale. La cena era il pasto principale: sulla tavola abbondavano molte “prelibatezze” (naturalmente il tutto in base alla posizione sociale) e si consumava a metà pomeriggio e, nelle case dei ricchi andava avanti fino a tarda sera.

Strumenti e galateo a tavola

Una tavola apparecchiata in una domus o in un’ insula non era molto differente da una dei giorni nostri: c’erano al centro la saliera, un recipiente per il vino e uno per l’aceto e diversi piatti contenenti le vivande. Sicuramente in una domus circolavano molti tovaglioli e asciugamani perché i commensali e gli ospiti sempre numerosi, non usando la forchetta, attingevano dal piatto di portata con le mani, per poi mettere il cibo sul proprio piatto. Spesso si sciacquavano le dita in una ciotola contenente dell’acqua. Se era sconosciuta la forchetta si conoscevano i coltelli e i cucchiai per le varie salse. A tavola si assumevano spesso strani comportamenti: in un banchetto di lusso era concesso persino ruttare o emanare gas intestinali da qualche altra fonte, e tutto ciò veniva visto come un gradimento del pranzo. E, alla fine del pasto, gli ospiti erano soliti portarsi a casa gli avanzi, avvolti in un tovagliolo.

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LO SPORT

A Brindisi si svolgevano i ludi gladiatori. Erano seguiti da un pubblico impressionante di spettatori, tra cui il nostro plebeo Lucius Phasulus, che, seduto su uno sca-lino della gradinata, non perdeva un passaggio dello scontro e scaricava nel tifo le sue amarezze, depressioni e frustrazioni. Bisogna sottolineare che gli imperatori offrivano al popolo con sempre maggior frequenza, tali spettacoli per svago. I ludi gladiatori erano interpretati

per lo più da una ristretta cerchia di persone, quasi sempre provenienti da classi e ceti subalterni che, scendendo nell’arena, cercavano di emanciparsi dalla loro condizione servile confidando nelle proprie doti fisiche e atletiche. Il patrizio Marcus Horatius in-vece, facendo suo il detto famoso “mens sana in corpore sano” frequentava le palestre racchiuse nel foro di Brindisi e si esercitava nella corsa, nel getto del peso, nel salto in alto e in lungo e in quanto era più conveniente o adatto al suo “robusto”fisico.

Il momento tanto atteso per il nostro plebeo Lucius Phasulus era il giorno dedicato a Saturno, quando si disputavano incontri di harpastum o detto in volgare il piede-palla cioè il nostro calcio. Incurante delle proteste della moglie Drusilla, si allontanava da casa a stomaco vuoto per vedere scendere in campo la squadra di harpastum “Brundisium” i cui giocatori erano gli idoli di tanti tifosi. E fu sempre un giorno dedicato a Saturno (Ahimè nefasto giorno!!) quando il numero uno della squadra, il beniamino del nostro

plebeo, pronto a segnare il tanto atteso gol, viene atterrato dall’avversario. Lucius, insieme con altri plebei reagisce con parole e gesti “violenti” e non solo ….. invade il campo. La partita viene sospesa ed i facinorosi tifosi vengono prelevati dai pretoriani e condannati al pagamento di una multa di venti sesterzi. Il nostro Lucius, per pagare la multa, preleva il denaro dal misero fondo cassa gestito dalla moglie per il vitto.

Gli toccherà mangiare “cipudazzi” per un mese….

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…. UN PO’ DI FOLKLORE

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DAL PASSATO AL PRESENTE

LA FESTA DI SANT’ ANTONIO ABATE

Una festa popolare che ha nel fuoco il vero protagonista è quella che si svolge il 17 gennaio nella ricorrenza di sant’Antonio Abate, popolarmente noto come “S.Antonio ti lu fuecu”. Secondo la credenza popolare cristiana, il santo rubò il fuoco dall’Inferno per farne dono agli uomini. E’ chiaro il legame con il mito pagano di Prometeo, dio del fuoco, figlio del titano Giapeto e fratello di Atlante, il gigante condannato a reggere sulle spalle il mondo. Secondo gli antichi miti pagani, Prometeo, genio del fuoco, plasmò il primo uomo con terra e acqua; poscia, per dargli vita, rubò il fuoco a Giove, padre di tutti gli dei. Per punirlo del furto, Giove lo fece legare ad uno scoglio, ove un avvoltoio gli divorava continuamente il fegato che rinasceva. Il santo monaco, raffigurato con un maiale ed un rametto di ebano in mano, è considerato non solo il protettore degli animali, tant’è che viene onorato anche come “S. Antonio di lu puercu”, ma principalmente il custode del focolare, difesa contro gli incendi. Ecco perché la sera del 17 gennaio a Brindisi e nei paesi limitrofi, come una volta, si usa dare fuoco alle “focare”: grandi falò di rami d’ulivo caduti dalla rimonda e accatastati a mò di pagliata.In passato, la raccolta della legna per i falò iniziava per tempo e diventava una gara in cui non erano impegnati solo i ragazzi ma interi rioni; nessuno si tirava indietro

nell’approntare la fascina più grossa e i cipponi più vecchi che facessero più fuoco o fiamma; addirittura ogni famiglia offriva per devozione al santo, un fascio di rami secchi per il falò anche con grande sacrificio, viste le ristrettezze economiche.Anche oggi, uomini donne e bambini si accalcano sul sagrato della chiesa dedicata al santo per l’annuale benedizione degli animali, prima di accendere i falò. Un tempo, intorno alle fo-care si aprivano anche i balli, le danze, la pizzica con chiaro e palese richiamo alla ridda infernale dei diavoli danzanti e irati attorno al perpetuo fuoco dell’Averno, di cui il dio Plutone era

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sovrano. Quando poi a tarda sera, le fiamme avevano consumato le ramaglie secche, le anziane donne devote del santo raccoglievano in capaci bacili di rame e ottone la brace per distribuirla per devozione in tutte le case. La cenere, ritenuta benefica, invece ve-niva sparsa al vento per placare l’ira del mare e consentire ai pescatori un rientro tran-quillo. Oggi, presso il mondo agricolo si usa ancora raccogliere le ceneri e disperderle nei campi nella convinzione che esse possono tenere lontano dal raccolto grandine e uragani.E come dice un antico proverbio: “A Sant’Antuono maschere e suoni” infatti, da questo momento, inizia il Carnevale per proseguire di domenica in domenica fino al martedì grasso.Il significato della festa è duplice. Il primo è il desiderio di scacciare gli spiriti maligni e l’inverno. Il secondo celebra la rinascita della terra e l’arrivo della primavera che viene festeggiata con maschere e balli. La festa si conclude con il funerale di Carnevale. Con il mercoledì delle Ceneri inizia la Quaresima, il periodo di quaranta giorni prima della Pasqua. Nei tempi passati, nel territorio brindisino faceva la sua triste comparsa sulle terrazze delle case oppure appesa in aria al centro di qualche via, la Quaremma: un fantoccio di paglia con abiti neri o scuri da vecchia, che raffigurava una donna brut-ta e sdentata. La Quaremma equivalente a Quaresima, aveva in mano la “cunucchia e lu fusu” e nell’altra una patata o un’arancia in cui erano conficcate sette penne di gallina, una per ogni settimana di Quaresima.Ogni settimana se ne toglieva una,l’ultima penna veniva sfilata a Pasqua, quando final-mente il fantoccio veniva bruciato tra l’allegria di tutti.La Quaremma era presente anche nel mondo pagano greco-romano; rappresentava infatti una delle tre parche, Cloto, che teneva in mano la conocchia e filava il destino degli uomini. Assorbita, poi dalle credenze cristiane servì a ricordare agli uomini che la Chiesa attraversava un periodo di penitenza e di lutto, per cui le feste e i divertimen-ti erano banditi. Si dovevano affrontare giorni di pentimento e di digiuno dopo la festa e la baldoria del Carnevale. Quella della Quaremma è un’usan-za ormai del tutto scomparsa. Peccato!

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Istituto Professionale di Stato per i

Servizi Alberghieri e della RistorazioneBRINDISI

Alla stesura di questo lavoro molto ha contribuito sia la collaborazione dei docenti del consi-glio di classe della I°L sia l’impegno, la determinazione e la volontà degli studenti del corso.

Guidati dalla docente Gatti Maria e dall’esperto arch. Paolo Capoccia gli studenti hanno stila-to un itinerario storico-culturale della Brindisi romana, attingendo tutta la relativa

documentazione storica ed architettonica da testi e da ricerche telematiche.

Il Dirigente Scolastico

Vladimiro Caliolo

Progetto relativo alle aree a rischio art. 9 CCNL comparto scuola 2002-2005Progetto grafico Francesco Zarcone