DI MELANZANE E DI PALESTINA - LA TERRA TREMA · n.01 de La Terra Trema vini, cibi, cultura...

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Cultura materiale IL RISO E LA PANISCIA Territori TANGENZIALE, 15 ANNI DI BATTAGLIE Agricoltrici CANTINE CASTELLO CONTI n. 01 Estate 2016 / euro 3,50 de La Terra Trema vini, cibi, cultura materiale DI MELANZANE E DI PALESTINA SI ALZANO TRA LE STRADE DI BATTIR FUMI SPEZIATI, RIEMPIONO ARIA E CUORI DI CHI SI OPPONE ALL’ENNESIMO INDEBITO PEZZO DI MURO

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CulturamaterialeIL RISO E LA PANISCIA

TerritoriTANGENZIALE,

15 ANNI DI BATTAGLIE

AgricoltriciCANTINECASTELLO

CONTI

n.01

Estate 2016 / euro 3,50 de La Terra Trema vini, cibi, cultura materiale

DI MELANZANEE DI PALESTINA

SI ALZANO TRA LE STRADE DI BATTIR FUMI SPEZIATI, RIEMPIONO ARIA E

CUORI DI CHI SI OPPONE ALL’ENNESIMO INDEBITO PEZZO DI MURO

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ESTATE 2016 EDITORIALEdi Laura M. Alemagna

IN QUESTO NUMERO

Rapporti di produzioneTutto ha un prezzo?

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TerritoriDi melanzane e Palestina

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Cultura materialeIl riso e la paniscia

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Territori15 anni di battaglie no tangenziale

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Cucine popolariBouffe de rue

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Cucine popolariLa sfida di Chiku'

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AgricoltriciDal sogno di Ermanno

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Il bicchiere 16

Trimestrale di vini, cibi e cultura materialeanno 1, numero 1, estate 2016registrazione del Tribunale di Milano n.139 del 12/05/2016A causa delle leggi sulla stampa risalenti al regime fascista, la registrazione presso il Tribunale evita le sanzioni previste per il reato di "stampa clandestina". Rispetto, sostegno e diffusione per le autoproduzioni culturali e gli spazi sociali autogestiti

Editore Associazione di promozione sociale Antares, Frazione Castelletto 17, 20080, Albairate (Mi).Direttore responsabile Laura M. AlemagnaRedazione Paolo Bellati, Andrea Bottalico, Claudio Madella, Gabriele Moscatelli

LASCIAPARLARE

Se possibile lascia parlare per primi i luoghi, e poi subito chi li abita, li attraversa e la-vora, chi li vive, chi li ha trasformati. Poi torna ad ascoltare. Ronzare di motoseghe

tra le querce nell’Alto Piemonte, scorrere di au-tomobili nelle campagne a sud di Milano, ferro di tornelli a Hebron, bambini sulla spiaggia di Gaza, garzette tra le risaie tra Vercelli e Novara, vociare molesto di maiali, il passo della volpe tra la boscaglia.Costruiamo e costruiremo questo progetto, que-sto incessante periodico, L’Almanacco de La Ter-ra Trema intorno a quell’opera immensa che è il paesaggio, italiano e non solo, territorio che ferve tra infinite declinazioni e che passa tra le mani attive di uomini e donne e il loro vivere quotidiano tra natura e costrutto. È un movimento continuo, uno spiegarsi di sin-gole storie che si insinuano nella Storia, tra de-vastazione e abbandono, tra difesa e celebrazio-ne, tutela e volontà di trasformazione, naturale ricchezza e ingegno.Di fronte a questo panorama, splendido, ete-

“La storia del paesaggio si incrocia con quella del lavoro [...]dell’addomesticamento del territorio selvaggio, strappato al dominio della gran maestra natura dalle tecniche lavorative dell’uomo”. Piero Camporesi

rogeneo, volubile, serve prendere per mano la consuetudine della narrazione, della descrizio-ne precisa, scrupolosa e attiva, della riflessione ragionata, non delegata, della partecipazione assidua dei propri ambiti vitali e della presa in carico di sorti e scelte. Seguendo questa traccia abbiamo ascoltato e riportato narrazioni di terri-tori vivissimi, a volte a noi molto prossimi, come nel caso della lotta No Tangenziale, nella por-zione di Lombardia che si trova a sud di Milano, assedio cementifero anche più longevo dell’ac-cerchiamento di Troia con i suoi cavalli ma che trova una opposizione popolare di vigore e di ragione. E poco più oltre, nella storia familiare di vigne e di vini delle sorelle Conti a Maggiora, provincia di Novara, e di quella mappa del teso-ro da decifrare che si trovano in mano. Nei 10 cm di acqua e fango delle risaie di quella stessa provincia, ma fronte opposto, rasente al Ticino, una storia di agricoltura locale e cucina mate-riale che balza tra le stanze di Pellegrino Artusi e poi fino in Messico nel guizzo psicogeografico di Simonetta Lorigliola. E ancora, nel nostro Medi-

terraneo, a Scampia, nel racconto di Emma Feru-lano di cucina di relazio-ne e convivio di cultura e gastronomie operoso e meticcio; a Marsiglia l’esperienza viva di cu-cina sociale, cucina per strada, simposio gastro-nomico diffuso di quar-tiere, e ancora sul mare di mezzo, nelle ricette di Palestina raccolte da Fi-daa I Abuhamdiya e Sil-via Chiarantini e, nelle immagini, da Alessandra Cinquemani. Seminare, cucinare, op-porsi alle ruspe, fare del proprio corpo scudo, sce-gliere come potare una vite, scovare un messag-gio nella feccia deposita-ta sul fondo, attraversare un check point, cercare sommacco al mercato, pensare ad una gastro-nomia popolare, traccia-re una mappa di spezie,

intrecciare un ricamo e ricominciare a vivere. Siamo gli artefici di questi paesaggi di lotta, di op-posizione alle manipolazioni prescritte dall’alto, paesaggi di posizioni prese, di contrapposizione ragionata, di elaborazione e azione. Perché questo sforzo sia lotta proficua, occorre continuare, rac-contarne ancora, ascoltarne di nuovo, di nuovi. Auspichiamo si faccia pratica diffusa e condivisa, anche attraverso queste pagine.

Hanno collaborato Fidaa I A Abuhamdiya, Alice Selene Boni, Silvia Chiarantini, Emma Ferulano, Matteo Isella, Simonetta Lorigliola, Renato Marzorati, Veronica ScottiFotografie Laura M. Alemagna, Cartacarbone, Alessandra Cinquemani, Davide Marconcini, Renato MarzoratiFoto di copertina Alessandra CinquemaniIllustrazioni Andrea Rossi Progetto grafico e impaginazioneClaudio Madella

Stampato da Graphidea srlVia Fara, 35, 20124 Milanosu carta CyclusOffset 90gr, cert. FSC-C021878

info: [email protected]

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ESTATE 2016 TERRITORI

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*Andrea Rossi, sketcher urbano e di campagna, vive tra Milano e il nascondiglio dei giganti.ilnascondigliodeigiganti.artstation.com

FAGOCITARE PAESAGGIO, ASFALTARE UN PATRIMONIO CULTURALE E NATURALE LA FORMULA È TRITA E RITRITA MA C'È CHI MANIFESTA DA OLTRE UN DECENNIO ED ELABORA UNA FERMA OPPOSIZIONEdi Alice Selene Boni illustrazioni di Andrea Rossi*

Ècompreso tra due parchi, il Parco naturale della Valle del Ticino (riserva della Biosfera MAB) e il Parco Agricolo Sud Milano, il territorio su cui dovrebbe sorgere il progetto di una tangenziale che collega Milano - Vigevano e l’aeropor-to di Malpensa. Si tratta di un’area situata a sud-ovest della Regione Lombardia e che lambisce: ad est i comuni di prima cintura che senza soluzione di continuità, insieme a Mila-no, formano l’area metropolitana; a nord, una zona com-posta da centri di medie dimensioni che hanno conosciuto uno sviluppo soprattutto industriale; a sud, una zona che

ha mantenuto una forte connotazione agricola; e infine, a sud ovest, oltre il fiume Ticino, l’ormai depresso “distretto della scarpa” con una vocazione principalmente agricola capace di resistere faticosamente nel tempo. Il terri-torio in questione si articola in una rete di centri urbani che, nonostante un importante sviluppo industriale negli anni del boom economico, ha visto una crescita moderata del territorio urbanizzato e lo svilupparsi di una economia agricola di qualità che lo ha reso di pregio soprattutto dal punto di vista pae-saggistico e ambientale. Il progetto tecnico della tangenziale prevede su questo territorio il potenzia-mento di un’arteria stradale esistente di accesso alla città di Milano e, per la restante parte del tracciato, la realizzazione ex novo di un’infrastruttura che interesserebbe, se fosse attuata, aree naturali e destinate all’agricoltura. Nello specifico il progetto prevede la realizzazione di strade a due corsie per senso di marcia, tratti e svincoli sopraelevati. Nel corso di circa vent’anni l’opera è stata proposta in più passaggi e in più versioni tentando, come accaduto di recente, la via della realizzazione per parti o una sua estensione su un’altra porzione di territorio, come il progetto della Tangenziale Ovest Esterna di Milano, la TOEM. Quest’ultima solo recentemente è stata stralciata dal Pro-gramma Regionale della Mobilità e dei Trasporti, grazie all’opposizione dei Comitati e di tutti i Sindaci toccati dal tracciato. L’opera, è bene precisarlo, era nata con l’obiettivo di completare l’anello delle tangenziali esterne di Milano, collegando il tratto del progetto di tangenziale a ovest di Milano, in direzione dell’aeroporto di Malpensa, con la TEEM (Tangenziale Est Esterna di Milano) un’altra infrastruttura che, come la nota BREBEMI (Brescia-Bergamo-Mila-no), ha un utilizzo che risulta ben al di sotto delle previsioni iniziali. È curioso osservare come il primo progetto della tangenziale Vigevano-Mi-lano-Malpensa nasca alla fine degli anni Novanta in concomitanza con la chiusura delle industrie manifatturiere generatasi, in una prima fase, da fe-nomeni di delocalizzazione industriale e, in una fase successiva, da processi di finanziarizzazione dell’economia che hanno portato molti imprenditori locali

15 ANNI DI BATTAGLIENO TANGENZIALE

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ESTATE 2016

a investire i profitti realizzati in prodotti finanziari e in operazioni immobi-liari, invece che in ricerca e sviluppo. Di lì a poco, alla chiusura delle aziende (anche di quelle “sane” cui si è assistito fino a pochi anni fa, col diffondersi di migliaia di metri quadrati di aree industriali dismesse e da bonificare), sareb-bero seguiti: la nascita di grandi centri commerciali e di alcuni centri logistici, l’aumento del pendolarismo verso la grande città con il conseguente conge-stionamento, nelle ore di punta, delle arterie stradali principali e dei mezzi di trasporto pubblici. A sostegno della realizzazione dell’opera (inserita tra quelle

ritenute strategiche all’interno della Legge Obiettivo) ci sarebbe la certezza che la stessa avrebbe reso maggiormente accessibile un territorio poco dotato dal punto di vista infrastrutturale, favorendo la fluidificazione del traffico su gomma verso i grandi centri e, soprattutto, l’attrazione di numerose industrie che avrebbero portato nuovi posti di lavoro. È negli anni in cui iniziano ad essere presentati i primi progetti dell’infrastrut-tura che nasce il movimento No Tangenziale come espressione dell’insorgen-za di una popolazione messa ai margini di processi decisionali volti a definire

il destino del territorio. Un movimento forma-to da abitanti, agricol-tori, amministratori locali, movimenti so-ciali e ambientalisti preoccupati degli effetti distruttivi e devastanti dell’infrastruttura per il territorio, la vita delle persone, il paesaggio, l’ambiente e l’econo-mia locale (soprattut-to agricola). Fino ad oggi, attraverso mobi-litazioni, iniziative di sensibilizzazione e pro-getti locali, gli abitanti mobilitatisi sono stati

SCHEDA TECNICACosa: Superstrada (tangenziale) Milano Vigevano Malpensa e TOEM (Tangenziale Ovest Esterna Milano)Dove: Europa del Sud, Nord Italia, Lombardia, Città Metropolitana di Milano, Zona Ovest, Parco Agricolo Sud Milano, Parco Naturale della Valle del Ticino (Riserva della biosfera MAB - Man And the Biosphere).Quando: dagli anni Novanta ai giorni nostri. Perché: i progetti della Tangenziale Milano Vigevano Malpensa e della TOEM nascono con l’obiettivo di portare sviluppo e crescita economica attraverso la realizzazione di nuove infrastrutture in grado di rendere maggiormente accessibili e quindi attrattivi i territori. I sostenitori delle opere sono il Governo, la Regione, la Città Metropolitana, alcuni amministratori locali e alcuni industriali della zona. Ad opporsi a entrambe le opere, invece, cittadini e cittadine, movimenti sociali/ambientalisti/ecologisti, agricoltori ed alcuni amministratori comunali, riunitisi in Comitati contro la realizzazione dell’opera, per la salvaguardia del territorio e per la riconversione ecologica dell’economia.Come: i progetti delle due opere nascono, in tempi diversi, con l’unico obiettivo di potenziare il collegamento tra i comuni del sud e del sud – ovest Milano con Milano e con l’Aeroporto di Malpensa. Il progetto della tangenziale era stato inserito tra le opere strategiche della Legge Obiettivo. Nessuna delle due infrastrutture è stata finora realizzata. I progetti presentati prevedono che le opere attraversino un territorio attualmente occupato da coltivazioni agricole e da aree naturali. L’opposizione dei Comitati, articolatesi nel corso degli anni, attraverso attività di sensibilizzazione, mobilitazioni e lo sviluppo di esperienze d’uso del territorio in armonia con l’ambiente, ha impedito sino ad oggi la realizzazione dell’opera. Riferimenti:- No Tangenziale - Rete di Salvaguardia Territoriale- Comitati No Tangenziale- La Terra Trema laterratrema.org- Folletto 25603 inventati.org/folletto25603

Ticino

Parco LombardoValle del Ticino

Parco AgricoloSud Milano

Abbiategrasso

Magenta

CislianoCusago

AlbairateCassinetta

di Lugagnano

Ozzero

VIgevano

Vermezzo

Rosate

Rozzano

Milano

A4

SS 494

SP 40

Strade/superstrade esistenti

Progetto Milano-VIgevano-Malpensa

Tang. Ovest

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TERRITORI

capaci di dissuadere, nelle diverse fasi, i decisori pubblici dalla realizzazione dell’opera. Contemporaneamente, hanno saputo dare alla luce progetti che oggi rappresentano non solo pratiche di resistenza ma processi fecondi che negli anni hanno costituito veri e propri esempi di alternative all’attuale mo-dello di sviluppo in crisi. Non è un caso che sia proprio sul fronte delle lotte contro la tangenziale e dall’incontro tra gli agricoltori della zona e i membri dei movimenti sociali, che siano nati sodalizi importanti che hanno contri-buito a sviluppare narrazioni, pratiche di agricoltura di qualità ed esperienze come La Terra Trema. Dopo anni di silenzio, negli scorsi mesi, la Regione e al-cuni Sindaci affini politicamente alla giunta regionale, hanno rimesso in gioco il progetto dell’opera, riaffidando ad ANAS s.p.a. il compito di definire una nuova versione del progetto. Rispetto al passato però, il percorso si connota ora per l’introduzione di una novità. Grazie all’intermediazione di alcuni ammi-nistratori della Città Metropolitana vengono aperti, presso le istituzioni, tavoli di ascolto finalizzati a concordare alcune migliorie al progetto. Tali incontri

coinvolgono dapprima solo alcuni membri dei comitati e, successivamente, gli amministratori locali insieme al Ministero delle Infrastrutture. Il fronte No Tangenziale, dopo una prima fase di lotta comune, si trova a que-sto punto spaccato tra chi aveva creduto nella novità dei tavoli concertativi a cui aveva partecipato e chi, invece, ne era rimasto escluso e che non credeva che da tali trattative potesse nascere una infrastruttura ad impatto zero. La millantata partecipazione, svoltasi a porte chiuse all’interno dei palazzi, ha il-luso alcuni abitanti sulla possibilità di cambiare il tracciato della superstrada, il suo senso e la sua necessità piegandolo alle necessità del territorio. Ciò non è avvenuto. Al contrario, l’apertura di questa trattativa sembra aver avuto un effetto decisivo sull’approvazione dell’opera. Rimuovendo surrettiziamente, con i tavoli concertativi, quel vizio legato al mancato coinvolgimento e ascol-to della popolazione – che non è mai avvenuto nel passato in quanto l’opera, inserita nella Legge Obiettivo, è di interesse strategico e nazionale e, per que-sto, viene definita e approvata a livello di governo centrale - di fatto, è stato sbloccato un progetto insabbiato, legittimando definitivamente gli alti livelli decisionali ad accelerare i tempi di realizzazione.Nonostante nel corso di questi vent’anni il modello di sviluppo abbia mostra-to gli effetti più perversi e fallimentari (dal punto di vista sociale, economico e ambientale), l’impressione è che, acriticamente e ottusamente, gli stessi paradigmi utilizzati venti anni fa valgano oggi, in piena recessione, ancor più di ieri. Le grandi opere, come si è visto in numerosi altri casi nazionali – si pensi alla realizzazione dei Treni ad Alta Velocità, al ponte sullo stretto, ai progetti di trivellazione in terra ferma e nel mare, alle opere legate ai grandi eventi come le Olimpiadi e come EXPO - sono dispositivi complessi in grado di mobilitare importanti interessi economici (dalla progettazione dell’opera sino alla sua realizzazione) e di sviluppare meccanismi che sfuggono al con-trollo di chi abita i territori investiti da tali progetti, mettendo sotto tensione la democraticità dei processi decisionali, il rapporto tra uomo e ambiente e la questione più generale del modello di sviluppo. È per questa ragione che le opere ritenute utili dagli abitanti ma non dalle logiche del sistema economico e politico vigenti, non sono mai state realizza-te. Si pensi alle numerose richieste di potenziamento della rete dei trasporti pubblici locali e delle piste ciclabili, di riqualificazione delle strade esistenti, di opere di valorizzazione e salvaguardia del territorio, di progetti, politiche e programmi volti alla riconversione ecologica dell’economia. Il modello di sviluppo che si cela dietro a tali progetti infrastrutturali appare desueto, inesorabilmente senza futuro e senza prospettive. È lo stesso modello che ha portato alla crisi economica attuale e che affonda le sue radici nella crescita incontrollata delle città, nella costruzione infondata di infrastrutture (si pensi alle già citate TEEM e BREBEMI), nel business legato agli appalti pubblici e nel finanziamento di progetti che sistematicamente non vengono realizzati. Si tratta di un modello capace di impossessarsi di territori vivi, rigo-gliosi e sani e di restituirli privi di vita, di identità, depressi dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.All’interno di questo contesto, il territorio investito dal progetto della Tan-genziale si trova oggi in una fase molto difficile. Dopo quasi vent’anni di battaglie, la realizzazione dell’opera sembra alle porte. Una parte del progetto, a seguito dei tavoli concertativi, è stata infatti inserita all’interno del nuovo Piano Regionale dei Trasporti che prevede la sua realizzazione entro il 2017. Si tratta di quella parte del tracciato che sorgerebbe su territori agricoli e in-contaminati da infrastrutture. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se il fronte del NO senza mitigazioni e compensazioni riuscirà a resistere o se verrà posata l’ennesima pietra di un’opera inutile che segnerà indelebilmente il futuro di un territorio e dei suoi abitanti.

LA MILLANTATA PARTECIPAZIONE, SVOLTASI

A PORTE CHIUSE ALL’INTERNO DEI PALAZZI, HA ILLUSO ALCUNI ABITANTI SULLA POSSIBILITÀ DI CAMBIARE IL TRACCIATO DELLA

SUPERSTRADA. CIÒ NON È AVVENUTO

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ESTATE 2016

SI ALZA TRA LE STRADE DI BATTIR UN PROFUMO DI SPEZIE E AFFUMICATO. RIEMPIE ARIA E CUORE DI CHI SI OPPONE ALL’AVANZAMENTO DELL’ENNESIMO INDEBITO PEZZO DI MURO di Fidaa I A Abuhamdiya e Silvia Chiarantinifotografie di Alessandra Cinquemani

DI MELANZANE E PALESTINA

In Palestina le melanzane abbondano! Da giugno ad ottobre se ne trovano in quantità e di colori, sapori e forme di-verse, ciascun tipo ordinatamente siste-mato sui banchi dei mercati. Sono molte le ricette della tradizione culinaria palestinese che si preparano con le melanzane, tra queste: il Mutab-bal Batinjam, una salsa di melanzane affumicate; il Makdus, piccole melan-

zane sott’olio riempite con aglio e noci e la Ma-qlouba, il piatto dei giorni di festa a base di riso, carne, spezie, cipolle e melanzane fritte. Tra le tante varietà di melanzane, quella baladi, ovvero autoctona o indigena del luogo, si chiama battiri: è dolce, dalla forma oblunga, con la buc-cia fine e per questo particolarmente adatta alla frittura senza doverla sbucciare.Il suo nome deriva da quello dall’omonimo vil-laggio di Battir che si trova a pochi chilometri da Betlemme ed a sud di Gerusalemme, famoso per le sue melanzane in onore delle quali viene organizzata ogni anno ad ottobre una festa nel villaggio.

FRA ORTI E FRUTTETIBattir è un bellissimo villaggio di case in pietra chiara, terrazzamenti con orti coltivati, giardini, frutteti che scendono a cascata sul dorso di mor-bidi pendii. Da oltre 2000 anni funziona a Battir un sistema di irrigazione che, dalla fonte prin-cipale, trasporta l’acqua attraverso un articolato sistema di canali e vasche di raccolta che portano l’acqua sui terrazzamenti del villaggio. L’organiz-zazione per la distribuzione dell’acqua funziona con un sistema di rubinetti ed un calendario che alterna la distribuzione tra tutti gli abitanti.

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L’ORGANIZZAZIONE PER LA DISTRIBUZIONE DELL’ACQUA FUNZIONA CON UN SISTEMA DI RUBINETTI ED UN CALENDARIO CHE ALTERNA LA DISTRIBUZIONE TRA TUTTI GLI ABITANTI

TERRITORI

COME PROCEDEREINGREDIENTI1 melanzana grande da 500 gr o due medie6 cucchiai di tahine1 spicchio d’aglio tritato2 limoni spremuti4 cucchiai di olio d’olivasaleprezzemolo tritato e chicchi di melagrana per guarnire

PROCEDIMENTOSe si vuole provare l’ottimo profumo di affumicato del vero Mutabbal per prima cosa si dovrà foderare bene il piano cottura con un foglio di alluminio lasciando liberi i fuochi. Appoggiare la melanzana direttamente sul fornello a fiamma medio/alta e farla arrostire, rigirandolaaiutandosi con delle pinze, per almeno cinque minuti o fino a quando la buccia non diventerà di colore molto scuro.Ci vorrà un po’ di tempo per ripulire il fornello dal liquido rilasciato dalle melanzane, ma il profumo del Mutabbal ripagherà della fatica. Le melanzane andranno poi pelate e lasciate a sgocciolare in un colino per una decina di minuti, poi devono essere strizzate e ridotte in grossolana poltiglia con le mani. In una ciotola mescolarle con la tahine, il limone, il sale e l’aglio schiacciato finemente. Sistemare il Mutabbal su un piatto da portata e guarnire con prezzemolo e olio d’oliva e, se è stagione, qualche chicco di melagrana. Questa favolosa salsa si mangia servendosi direttamente dal piatto di portata con un pezzo di pita.

A PROPOSITO DEL LIBROSi muove tra pietanze e racconti. Attraversa città. Hebron, Betlemme, Ramallah, Gerusalemme, Gerico, Nablus, Jenin. Entra ed esce, di case in strade; bussa alle botteghe; scivola tra i banchi dei mercati, tra i sacchi, le ceste, sui piatti, i tegami, scorre nelle

teiere e nei bicchieri. Pop Palestine Salam Cuisine tra Gaza e Jenin è il diario di un viaggio in una Palestina piena, quotidiana e materiale.È narrazione aperta, di pancia e di cuore per una Palestina, non diversa, non altra, Palestina e basta, e canta il suo popolo di donne e di uomini, di vite che fremono anche nelle cucine, anche fra i fornelli. Strette in un conflitto che vorrebbe annientarle e che non si stancano mai di affrontare, con semi di sesamo, foglie di vite, za’atar, sommacco, cardamomo, pietre (L.M.A.).

Fidaa I A Abuhamdiya e Silvia ChiarantiniFotografie di Alessandra CinquemaniPOP PALESTINEViaggio nella cucina popolare palestinese Salam cuisine tra Gaza e Jenin Stampa Alternativa, 2016

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terrazzamenti. Anche se speriamo di avervi fatto venir voglia di andare a visitare Battir (dove c’è una Guest House e vengono organizzate gite tra i terrazzamenti in cui carpire qualche segreto uti-le in agricoltura e lasciarsi incantare dal sistema d’irrigazione) la ricetta che vi proponiamo si pre-para con le melanzane che si trovano in questa stagione in Italia, grandi, viola scuro e possibil-mente senza semi.

IL CAVIALE DI MELANZANEIn Palestina questo piatto si chiama Mutabbal Batinjam, che si può tradurre come “melanzane speziate o profumate”, ma lo si trova anche con altri nomi, ogni paese arabo ha il suo e qualche variante nella ricetta: Baba Ghanoug, che si può tradurre come “un padre viziato da troppe coc-cole” oppure qualcuno lo chiama anche "caviale di melanzane", tutti nomi che comunque indi-cano la prelibatezza di questa ricetta. Questa sal-sa viene servita insieme al pane rotondo che si chiama khobez, in Italia conosciuto con il nome greco pita o come pane arabo. Solitamente la tavola palestinese viene imbandita con le mese, una sorta di aperitivo diremmo noi, composto da tante ciotoline di salse come appunto il mutabbal ed anche l’hummus, olive, olio con za’atar (una miscela di erbe a base di timo tipica palestinese), peperoni verdi in salamoia, falafel.La particolarità del Mutabbal Batinjam è il suo aroma affumicato, che si ottiene cuocendo le melanzane alla fiamma, cosa di non particolare difficoltà, ma che richiederà un po’ di tempo e pazienza, soprattutto per ripulire i fornelli! Visto che siamo in estate, la soluzione ideale sarebbe preparare una brace ed arrostire le me-lanzane su una griglia all’aperto.

Sulla fertile e bella terra di Battir pende dal 2006 il progetto di avanzamento del muro che, se re-alizzato, andrebbe a dividere in due il villaggio separando i campi (che verrebbero nei fatti in-globati in Israele) dai suoi abitanti. Un destino che ha già riguardato tanti villaggi palestinesi che hanno così perso le loro terre, tanti oliveti che sono stati distrutti per permettere la costruzione del muro, tanti agricoltori e le loro famiglie che hanno perso i terreni che erano la loro fonte di sostentamento.Contro questo progetto si sono impegnati gli abi-tanti di Battir che, insieme ad organizzazioni am-bientaliste locali ed internazionali, hanno richie-sto ed ottenuto dall’UNESCO l’inserimento del villaggio di Battir tra i siti patrimonio mondiale dell’umanità, riconoscendo così il valore storico e paesaggistico del suo unico sistema idrico e di

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ESTATE 2016

DAL SOGNODI ERMANNO

UNA STORIA DI VITICOLTURA D’ALTO PIEMONTE SBOCCIA DA UN DESIDERIO DI CONVIVIALITÀ E PROTEZIONE. UN SAPERE ASSUNTO TRA VIGNE E BOSCHI TRACCIA LE SORTI DI UN TERRITORIO E LE FORME DEI SUOI VINI di Laura M. Alemagna e Paolo Bellatifotografie di Laura M. Alemagna

Di nuovo.Siamo di nuovo in viaggio, per incontrare due vignaiole cono-sciute a La Terra Trema.La gioia per questa nuova op-portunità è accompagnata già da qualche riflessione: quanti vignaioli bravi (donne e uomi-ni) artefici di vini unici lavora-no in ogni parte l’Italia? Corag-

giosi, hanno osato, hanno salvato storie e culture millenarie, sono andati controcorrente, hanno rivoluzionato la propria vita, i modi di produzione, le economie di piccoli e grandi territori.Quanti di loro sono distanti solo un’ora di mac-china da qui, dalla provincia di Milano? Tantis-simi, alcuni conosciuti da una decina di anni nel corso dei quali non si è riuscito a trovare il tempo per andare a trovarli. È imperdonabile. Bisogna darsi da fare, rimediare. Tutti. Anche voi. Siamo in viaggio verso Paola e Elena Conti delle Cantine Castello Conti, nell’Alto Piemonte, in provincia di Novara, a Maggiora, uno dei cinque comuni della DOC Boca.Arriveremo in un’ora di macchina, appunto.Abbiamo incontrato Paola a Milano non troppo tempo fa. Una lunga chiacchierata e cinque, sei annate di Boca avevano fatto scattare senza sforzo la voglia di sapere di più, di andare da loro, tra vigne e cantina e di incontrare anche Elena, sul campo.Pensavamo alle sorelle Conti con un sorriso. L’idea che l’azienda fosse ospitata in un castello dei pri-mi anni ’60 era motivo di curiosità. Mai avevamo conosciuto delle castellane. Che persona doveva essere Ermanno, il loro papà? Cosa aveva in mente quando decise di costruire dal niente un castello in cui vivere, lavorare, custodire il proprio vino?

IL CASTELLO È GRANDE E ROSSO DI MATTONI A VISTASapremo della presenza ricorrente di fornaci late-rizi nel territorio.Ad accoglierci è mamma Mariuccia con la sua ironia. Paola ed Elena arrivano subito, neanche il tempo di un saluto e siamo già a bordo di una pic-cola jeep a inerpicarci su sentieri sterrati circonda-ti da boschi fittissimi.Elena va veloce, ha fretta di portarci a una vigna di mezzo ettaro in affitto che sta recuperando da tre anni, dopo decenni di abbandono. È il vigneto più in alto dei loro. Il folto del bosco si apre all’orizzonte e lì si vedono poche altre vigne. Qui non ha mai vendemmiato, anche se avrebbe voluto. L’anno scorso le piante avevano finalmen-te reso dei bei grappoli ma aveva deciso di aspet-tare qualche giorno per raggiungere il giusto grado di maturazione. Volpi e caprioli hanno pensato di banchettare mangiando tutto in quel lasso di tem-po. Esopo ne gioirebbe.

Questo campo è quasi interamente coltivato con un impianto tradizionale detto a maggiorina, un nome che designa un territorio, Maggiora.È un metodo antico utilizzato solo in questa fascia dell’Alto Piemonte. Non ci sono i classici filari ma quadrati di circa 4 metri per lato formati da otto pali di castagno, al centro dei quadrati c’è il ceppo centrale di vite che è formato da tre piante vici-nissime una all’altra. Crescendo, quando le piante diventeranno molto vecchie, sembrerà un unico ceppo centrale. Una pianta segue la parte centrale del quadrato e le altre due la parte esterna. Per vestire tutta la mag-giorina sono necessari anche 8 anni. Come metodo di allevamento della vite è in con-trotendenza con tutta quella letteratura, teorica e pratica, su viticoltura ed enologia moderna che vuole altissime densità di ceppi per ettaro, fusti molto bassi, un contenuto vigore vegetativo e po-chi grappoli per ceppo. Lo stesso disciplinare della DOC del Boca nella pratica non consente l’utiliz-zo dell’impianto a maggiorina perché si avrebbero meno piante per ettaro rispetto a quelle indicate di 3500 piante minimo. Con la maggiorina si arriva a poco più di 2000 piante per ettaro. Oltre al fatto che nella DOC alcune varietà autoctone presenti nei vigneti storici non sono neanche contemplate.È una questione già incontrata. Un’alta densità di ceppi per ettaro (con situazioni estreme dove si arriva anche a 10/12000) e l’aumentare della competitività tra le viti, portano ad aumentare lo sviluppo radicale in verticale del singolo ceppo e ad avere uve ricche di zuccheri e altri elementi mi-nerali. Questo, insieme a tecniche e tecnologie di vinificazione, permette di ottenere vini complessi, spesso molto concentrati, robusti e strutturati. Pa-rametri che sono finiti a costruire (e standardizza-re) giudizi di valore, di qualità e di gusto.

Sarebbe da aprire una discussione enorme sulle forme diversissime del vino, sull'uniformità gu-stativa, sui degustatori accreditati, su come prende corpo un gusto soggettivo, su quali e quanti fattori determinino qualità, caratteristiche organolettiche e fisiologiche di un vino. Rimandiamo la discus-sione limitandoci a suggerire la lettura di un bel libro, edito in Italia nel 2011 da DeriveApprodi: Dioniso crocifisso, saggio sul gusto del vino nell’era della sua produzione industriale di Michel Le Gris.

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AGRICOLTRICI

UNA STORIA CHE NON DOVEVA SPARIRELa maggiorina è un metodo di coltivazione unico, difficile non subirne il fascino trovandosi di fronte a queste piante, non c’è qualcosa di uguale altrove.La sua storia è millenaria. Utilizzata già prima dei Romani, nel corso dei secoli perfezionata (l’ultima modifica fu opera di Alessandro Antonelli, archi-tetto progettista della Mole Antonelliana origina-rio di queste zone), è racconto di un territorio e degli abitanti che lo hanno vissuto e coltivato. La vite è una lianacea, in natura si arrampica, ten-de ad allungarsi sviluppandosi per parecchi metri. Questo metodo di allevamento sembra così molto più naturale rispetto a quelli classici più diffusi. Chiede solo lavoro di mani, è impossibile affron-tarlo meccanicamente. Elena racconta: “Quan-do lavoro qua e poi mi sposto sulle altre vigne a spalliera mi sembra di andare in fabbrica; qui hai un’altra sensazione, giri intorno, sei dentro e av-volto, là c’è il filare lungo, ripetitivo, tutto uguale, tutto lì, compresso”. La geologia poi influisce in modo determinante sulle caratteristiche di questi vini. Non lo dire-sti, ma siamo in prossimità del Supervulcano del Sesia, un vulcano fossile collassato circa 280 mi-lioni di anni fa formando una caldera enorme. I suoli sono franco-limosi, porfidi rossi, porfidi rosa (sono ben visibili le rocce rosa, rossastre ai bordi dei sentieri), aridi, con sabbie drenanti e ghiaiosi in superficie. Le piante presenti in questo vigneto hanno quasi

100 anni. Queste e quelle negli altri campi a mag-giorina sono state recuperate da Elena sulla trac-cia di un lavoro iniziato da Christoph Künzli de Le Piane e da altri produttori. Sono ormai alcuni anni che questi coraggiosi produttori si occupano di preservare e innovare questa storia attraverso analisi e accurate selezioni. In queste maggiorine recuperate ci sono tutte le varietà autoctone e sto-riche del territorio: vespolina, croatina e uva rara, moscatella, malvasia a bacca bianca tipica di Boca, erbaluce, slarina, nebbiolo (detto spanna) e dol-cetto di Boca, durasa, barbera.Sono piante forti. Nel difficile 2014 gli impianti a maggiorina sono stati quelli in cui sono stati fatti minor trattamenti. Emerge chiarissimo: non può esserci un’unica direzione, un unico modo di rapportarsi con la viticoltura. Anche per gli stessi territori, anche per gli stessi vitigni.Elena e Paola raccontano la storia di questo terri-torio e della loro azienda negli spostamenti tra un vigneto e l’altro. Attraversiamo bellissimi boschi di betulle, querce e castagni, nel sottobosco tantis-sima felce. Un tempo al posto dei boschi trovavi solo vigneti e, a puntare lo sguardo, qualcosa la intravedi tra le fronde. Le sorelle Conti ci mostre-ranno a pranzo alcune foto aeree degli anni ‘50, tantissimi erano i campi coltivati e una geometrica esplosione di vigne prendeva il posto del groviglio verde boschivo. Nelle foto più recenti la natura ha già sommerso ogni cosa e i vigneti si sono fatti ve-ramente sporadici. Sono state le grandinate feroci e l’industrializza-zione (rubinetteria e manifatturiera) degli anni ’50 e ’60 a spopolare la campagna e a determinare che i vigneti fossero di fatto abbandonati. Il padre delle nostre, Ermanno, di famiglia conta-dina, influenzato da suo zio Pietro, commerciante di vino e sostenuto nella creazione della cantina dal padre Vincenzo, inizia nei primissimi anni set-tanta a produrre con la propria etichetta il Boca, riconosciuto come DOC nel 1969.Erano anni di spopolamento delle campagne ma erano anche tempi gloriosi in cui lo Spanna (il nome dato al nebbiolo nell’Alto Piemonte) faceva grandi numeri. Alcuni produttori approfittarono del boom mettendo sul mercato prodotti di bas-sa qualità e rovinando il nome dell’Alto Piemonte che prese il colpo di grazia finale con la brutta sto-ria del metanolo, a metà degli anni ‘80.Ermanno tenne la posizione, era un uomo di po-che parole e schietto, di princìpi e convinzioni fer-ree, ma anche un uomo creativo e conviviale che non ha mai smesso di sognare, “se si sogna biso-gna sognare in grande” diceva, tenendo vivo il suo lato bambino, nonostante l’infanzia difficile e una vita di duro lavoro. Ha sem-pre creduto in un certo tipo di viticoltura, non ha mai usato il diserbo quando tutt’intorno era la normalità “meno fai, meglio è, per i tuoi vini” usava dire a Elena e andava avanti, falcet-to in mano. Ha creduto fortemente nel produr-re vini che si discostas-sero dal gusto diffuso e dalle mode, ha deciso di costruire un castello in un periodo di difficol-tà economica, con gli artigiani del luogo, per conservare e difende-re un vino che doveva saper invecchiare negli

anni. Il castello oggi è la mappa del suo genio. Per le sorelle è un’eredità in divenire, uno scrigno di intuizioni da capire ed esaudire.Elena, laureata in Storia dell’Arte al DAMS, ha vissuto a Milano per seguire progetti di arte con-temporanea. Studiando arte e artisti qualcosa è scattato. Ha cominciato a capire il lavoro fatto ne-gli anni dal padre. Ha compreso che l’attività del vignaiolo è molto più vicina all’arte e alla filosofia di quanto pensasse.Decide di tornare a casa nel 2001 per lavorare in campagna. Il padre accetta il ritorno senza entu-siasmo, rassegnato alla presenza di tre figlie fem-mine e persuaso che altrimenti in azienda non ci sarebbe stata continuità familiare.Il primo anno per Elena è gavetta tostissima ma insiste, prende familiarità con il trattore, si oc-cupa di trattamenti e potature. Ermanno capisce che fa sul serio.Paola ha frequentato sociologia a Trento, è la so-rella maggiore, nonostante i conflitti è rimasta sempre vicina all’attività del padre ma senza mai pensare di continuare almeno fino a quando non ritorna Elena. In quel momento attitudine e coin-volgimento, anche suoi, cambiano. La sua espe-rienza sarà fondamentale per la storia aziendale.In questi anni un buon numero di giovani produt-tori sta facendo un gran lavoro tra vigneti e can-tine. Grazie a loro questi vini sono nuovamente riconoscibili, in Italia e fuori. Sono anni di ripresa, Paola ed Elena non sono sole. Cappelle è il vigneto impiantato dal papà nel 1970. Quasi tutto nebbio-lo e un po’ di vespolina e uva rara.

SONO STATE LE GRANDINATE FEROCI E L’INDUSTRIALIZZAZIONE DEGLI ANNI ’50 E ’60 A SPOPOLARE LA CAMPAGNA E A DETERMINARE CHE I VIGNETI FOSSERO DI FATTO ABBANDONATI

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ESTATE 2016 AGRICOLTRICI

Biella

Borgosesia

Gattinara

Maggiora

Ghemme

Varallo

Castello Conti

Lago d’Orta

Torino

Il tipo di allevamento e il metodo di potatura adot-tati da Elena sono interessanti e moderni: a filari a guyot, che per ogni ceppo tiene aperti due canali orizzontali favorendone la crescita, da una parte lo sperone e dall’altro il capo a frutto, evitando potature con tagli grossi su parti di vite che hanno più di uno o due anni. I tagli grossi sono ferite che possono portare anche malattie gravi col rischio di perdere la pianta; la vite, rispetto ad altre piante, non cicatrizza facilmente, lo fa solo su tralci che hanno meno di due anni.Da questo vigneto e da un altro, il Motto, arrivano le uve per lo straordinario Boca DOC delle Can-tine del Castello Conti. Di fianco alle Cappelle, più sopra, c’è un altro mezzo ettaro a maggiorina recuperato e affittato. Bellissime piante tutte le-gate rigorosamente col salice. Viti di 60/70 anni di nebbiolo, vespolina, uva rara, barbera e altre varietà autoctone. Dalle uve di queste piante pro-duconoil vino rosso Origini.

UNA SOLUZIONE DIVERSACi spostiamo. Verso l’ultima sfida delle sorelle Conti: l’impianto di un nuovo vigneto.Una cosa tutt’altro che semplice perché il nuovo vigneto prenderà il posto di un bosco, dove pri-ma c’era una vigna, prima ancora un bosco e, milioni di anni prima, un vulcano.Impianteranno nuove piante di nebbiolo e vespolina a filare per il Boca.Il disboscamento è in atto in questi mesi. Già a terra tronchi di alberi enormi, di 30/40 anni.L’effetto è straniante.Intorno a Boca e a Maggiora negli anni cinquanta e sessanta erano tutte geometrie di vigne e pochissimi spicchi di bosco, poi l’abbandono del-le colture ha lasciato spazio a floridi boschi, riportando questi luoghi a uno stadio simile a quello di secoli preceden-ti, ma già 2000 anni fa qui si coltivava la vite e si faceva il vino. Siamo colpiti. È “una soluzione diversa” ci dice Elena. A span-ne enormi. Ogni vigneto, ogni campo coltivato è stato foresta, bosco, mare, palude, vulcano. Cosa

sta facendo opera di distruzione. Le monoculture dei filari di viti cancellano biodiversità ambienta-le fatta di boschi, prati e altre colture. Pratiche di espianto e impianto cancellano tutto, interi ecosi-stemi, habitat di specie animali e vegetali autocto-ne, a volte anche rarissime. Qui è diverso. Malgrado la fatica, il tempo impie-gato, le sorelle Conti parlano con malcelato orgo-glio di una eterogeneità costante del loro lavoro, nel via vai tra luoghi di piccole vigne, di una mol-teplicità di specie e varietà, di un continuo gira-re, guadare corsi d’acqua, abbracciare e coltivare territorio.

NEL CUORE DEL CASTELLOArriva il momento di entrare in cantina ed è su-bito chiaro che non è solo cantina ad accoglierci ma una nuova declinazione della storia di questo posto. Una vasca di cemento di settecento ettolitri, enorme e rossa, è diventata caveau per le annate storiche del Boca, al centro, sul soffitto, una luna di argilla di Boca dell’artista Giò Crippa. Poi an-cora un’installazione di Oreste Sabadin artefice dell’etichetta del Boca DOC Il Rosso delle Donne e una serie di etichette disegnate da Mauro Mauli-ni, che ispirò e realizzò anche la bottiglia dell’Elixir (nebbiolo aromatizzato mediante infusione a fred-do in soluzione idroalcolica di vari aromi).Le opere di artisti contemporanei esposte alla Can-tina Conti sono tantissime.Surreale, bello. La grande vasca, il museo, la galle-ria d’arte, un luogo di cultura, di piacere, di lavoro.Assaggiamo in cantina il vino dalle botti: Origini 2015. Un bel vino che si fa bere bene e sembra addirittura pronto. Saggeremo anche il 2014 in bottiglia, un vino interessante nonostante l’anna-ta difficile, con buona mineralità, speziato. Origini viene vinificato in acciaio e affinato in parte in ac-ciaio e in parte in botti grandi.Il Colline Novaresi Nebbiolo DOC Flores 2015 senza aggiunta di solforosa, molto interessante, ha caratteri di apertura che si discostano dal neb-biolo tradizionale Colline Novaresi DOC. Anche lui è giovane ma si fa bere bene. Un anno di legno e finirà in bottiglia. Il Colline Novaresi Nebbiolo DOC coi solfiti fa sei mesi in più. Vini che presi dalle botti sembrano quasi pronti, finito l’affina-mento potranno rimanere in bottiglia per anni.Il Boca DOC 2015, fermentazione in vasche di acciaio senza aggiunta di lieviti selezionati, mace-razione che dura circa un mese e affinamento di almeno tre anni (il disciplinare ne chiede almeno due) in gran parte in botti di legno di rovere di Slavonia (alcune che hanno cinque anni e altre anche di più) e in parte minore in barrique usa-te. Si sentono proprio diversità e potenzialità, un vino che ha bisogno di tempo per esprimersi al meglio. Tornano alla mente le annate assaggia-te una in fila all’altra 2005, 2007, 2009 e 2010. Colore rosso rubino, granata. Profumi comples-si, fiori, spezie e tabacco. Vini piacevoli, eleganti, fini, dalla buona beva, ma strutturati e con ca-rattere. Gioielli dell’enologia piemontese frutti di un territorio unico e del lavoro delle matte, l’ag-gettivo che più si sentono appellare le sorelle del castello di Maggiora: le matte. Concordiamo amorevolmente.

LA TERRA TREMA“È uno di quei posti che ci fa sentire parte di un mo-vimento, dove incontri produttori simili a noi, che sono colleghi, ma anche amici con cui condividere e confrontarsi, dove trovi un pubblico attento e formato e dove è bellissimo incontrare dei giovani che hanno un’idea di vino e di agricoltura che vedi che si è forma-ta lì dentro. Grazie a questi incontri e a questi spazi fisici e temporali abbiamo trovato la nostra dimen-sione che ha dato senso al nostro lavoro e ci ha dato rinnovata forza per continuare”.

sono vite e viticoltura? Da dove arrivano le piante che troviamo nei vigneti? Cosa significa selezio-nare varietà e cloni? Può esistere vite da seme? È tanto lontana da questo l’idea di disboscare per impiantare un vigneto? Le risposte portano tutte ad indagare i rapporti tra uomo e natura. La scelta delle sorelle Conti di espiantare un ettaro di bosco per impiantare le loro viti apre a tante riflessioni oltre all’apparente, sola e unica, contraddizione. Questa è una piccola azienda che ha deciso di fare i conti con una storia enorme e secolare. Resistere, fare agricoltura contadina recuperando e inno-vando, con consapevolezza, una storia familiare e metterla a confronto con una storia millenaria di pratica vitivinicola territoriale. Pioniere, da defini-zione.Restano le contraddizioni, ma è di certo una sto-ria lontana dalla pratica di speculazione estrema, dall’urbanizzazione vitivinicola selvaggia che sta avvenendo in Italia (nelle valli della DOC Valpo-licella o nei territori della DOC Prosecco ad esem-pio) dove l’impianto massiccio di nuovi vigneti

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ESTATE 2016RAPPORTI DI PRODUZIONE

TUTTOHA UN PREZZO?

La più grande multinazionale di birra ha comprato nell’aprile 2016 un birrificio artigianale italiano! Fatto che ha creato molto scalpore nel mondo brassicolo nazionale e non solo. Anche se sono molti i precedenti all'estero, soprattutto in USA, qui in Italia è il primo caso.Anheuser-Busch InBev multinazionale con sede in Belgio e con un

fatturato di circa 20 miliardi di euro ha di recente acquisito il birrificio italiano Birra del Borgo nato nel 2005 nel Lazio. Birrificio già conosciuto in tutto il mondo per la qualità indiscutibile delle birre che fin ora ha prodotto.Questa cessione giustificata dal fondatore e mastro birraio Leonardo Di Vincenzo come un’opportunità per il marchio, per i lavoratori dell'azienda e per il mercato nazionale, non è stata vista di buon occhio da molte realtà italiane e non. Molti locali che da anni servono le birre di Borgorose le hanno cancellate dai loro listini, molti produttori hanno “lasciato a piedi” con dichiarazioni anche dure il loro ex collega (ex in quanto oggi ammini-stratore delegato di un marchio di una multinazionale e non più artigiano birraio), anche in Europa storici birrai e birrifici che con Birra del Borgo avevano collaborazioni e organizzavano eventi soprattutto in Belgio hanno escluso il birrificio laziale. La rete di relazioni brassicola verace, quella dura e pura insomma, prende le dovute distanze marcando ancor più forte la propria natura e i propri confini. Difficile dire se calerà la qualità, se la pro-duzione verrà delocalizzata. Anche se le ragioni del distacco di molti sono proprio queste, a mio avviso il “problema” è un altro.Quando beviamo una birra artigianale lo facciamo non solo per bere qual-cosa di buono, sano e vero ma anche per bere una storia. Una storia fatta di passione, ostinazione e abnegazione. Una storia fatta anche di sacrifici e a volte anche la storia di chi vuole creare rapporti di produzione ed econo-

mici altri da quelli esistenti. Passare notti insonni, vincere ansie e preoccupazioni (perché questo succede quando si decide di

lavorare per se stessi, con tutti i pregi della cosa) ha un costo che nessun prezzo al litro può sanare.

Rinunce che non possono essere quantificate in un valore che viene offerto per dare a qualcuno un pezzo della tua storia, della tua vita. Certo credo sia diffi-cile giudicare da fuori qualcuno che vende la pro-pria attività davanti a qualche decina di milioni di euro (si parla dai 10 ai 35 milioni per la cessione di Birra del Borgo) ma credo che per noi sarà sem-plice scegliere cosa bere, se bere una storia fatta di carne, ossa e sudore oppure se bere una strategia di

mercato di una multinazionale che con i suoi enor-mi utili ha deciso di provare a prendersi una fetta di

mercato che sta crescendo e oggi appartiene agli arti-giani che producono con passione e duro lavoro.

QUANDO BEVIAMO UNA BIRRA ARTIGIANALE LO FACCIAMO NON SOLO PER BERE QUALCOSA DI

BUONO, SANO E VERO MA ANCHE PER BERE UNA

STORIA

LA BIRRIFICAZIONE ARTIGIANALE È UN FENOMENO IN FELICE ASCESA, MERCATO E MULTINAZIONALI DI SETTORE SE NE SONO BEN ACCORTItesto e foto di Renato Marzorati

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EMANAVA UN ODORE DI LEGNO, RICORDO. NON ERA ORDINATA, SEMBRAVA ORGANIZZATA NEI DETTAGLI, MA IN MANIERA CAOTICA

ESTATE 2016

IL TEMPO DEL PIACERE, DELLA CONDIVISIONE E DELLO SCAMBIO TRA CULTURE, GENERAZIONI E GENERI PASSA ANCHE PER QUESTO PROGETTO DI CUCINA DI STRADA TRA I QUARTIERI DI MARSIGLIA di Andrea Bottalico fotografie di Cartacarbone e Davide Marconcini

BOUFFE DE RUE

Vivevo a Marsiglia sei anni fa. Lavo-ravo in una scuola elementare della Belle de Mai, un quartiere popolare alle spalle della stazione centrale Saint Charles. Una zona di vecchie fabbriche riconvertite in atelier per artisti, una lunga serie di palazzine basse, quelle con le ante delle fine-

stre in legno scrostato dal vento di maestrale, cir-condate da altre palazzine da venti piani ciascuna, officine chiuse con le insegne sbiadite, bar di còrsi, cabili e centri scommesse. È il principio dei quar-tieri nord, dei Zup, come li chiamano in Francia, dove non lesinano mai con gli acronimi (Zona Urbana Prioritaria). Con la bicicletta ogni matti-na attraversavo il ponte che sancisce la divisione spaziale tra il centro e quel quartiere, poi quando finivo il mio lavoro a scuola tornavo indietro a pie-di, fermandomi in qualche bar, girovagando senza meta, allo sbando. Non mi dispiaceva la Belle de Mai, ma si trattava pur sempre del piacere di chi sa che da quel posto prima o poi sarebbe andato via. In uno di quei pomeriggi scoprii l’esistenza di una cucina associativa, non lontano dalla scuola in cui lavoravo. Fuori mi pare che c’era scritto pro-prio Kuizine. Dentro c’era gente indaffarata, quel pomeriggio. Entrai incuriosito da quel fermento, riconobbi una persona e subito fui cooptato.Erano i preparativi della bouffe de rue, il principio era molto semplice e me lo spiegarono in poche parole: si cucinava per un numero spropositato di persone, si decideva l’orario e una piazza, una zona, un luogo all’aperto dove portare l’armamen-tario e tutta la cibaria cucinata nel pomeriggio, e poi si mangiava in compagnia, tutti assieme ap-passionatamente. Chiunque aveva fame prende-va un piatto e si serviva. E in poco tempo la cena di strada diventava qualcos’altro, con musicisti e gente qualunque che si avvicinava per curiosità e per mangiare e bere con un’offerta libera. “Mettete quello che potete, prendete quello che volete”, più o meno funzionava così in quella zona temporane-amente autonoma adibita a trattoria a cielo aper-to. Alla fine di quelle cene di strada, pure il sazio credeva al digiuno. Quel pomeriggio non sapevo ancora cosa fosse la bouffe de rue e gli interventi di cucina di strada. Entrai dentro il locale ancora stordito dall’energia dei bambini lasciata qualche ora prima a scuola, salutai, mi dissero che c’era bisogno di una mano per cucinare un’infinità di roba. Mi colpii l’atmosfera accogliente e gli attrez-zi sul bancone posto al centro, tra i vari fuochi. Se è vero che “sono i ferri che fanno il masto”, allora in quella cucina chi cucinava sapeva farlo, pensai appena dentro. Era ben fornita, c’era tutto il necessario. Emanava un odore di legno, ricordo. Non era ordinata, sembrava organizzata nei detta-gli, ma in maniera caotica. Senza troppe cerimonie mi ritrovai a sbucciare le patate insieme agli altri intorno a un tavolo, mentre un bambino scriveva rime a fianco a noi e dal forno usciva un profumo di pane. Quella sera mi ritrovai in una piazza nei dintorni di Belsunce, a mangiare insieme ad alme-no duecento persone quello che avevamo cucinato tutto il pomeriggio in quella cucina.A distanza di anni, di passaggio a Marsiglia, ci sono ritornato insieme ad alcuni amici. Qualcosa era cambiato nell’aspetto. I due lunghi tavoli nel-la sala erano pieni di gente, una clientela fatta di vicinato, lavoratori, avventori abitudinari. Anche se il quartiere era rimasto più o meno uguale a se stesso, intorno Marsiglia aveva cambiato pelle. La designazione di capitale europea della cultura ave-va lasciato i segni nonostante le molteplici stratifi-cazioni di una città sporca dentro, che in definitiva non cambia mai, neanche se la (e)spelli. Vigeva come sempre la separazione dal centro, attraver-so quel tunnel della stazione ferroviaria. Sembra-va che stessero lavorando ai fianchi del quartiere,

Napoli avevo voglia di fare qualcosa di manuale”. Appena passato il testimone, il nuovo gruppo for-mato dalle ceneri della Kuizine iniziò a trascorrere il tempo nella cantina a cucinare e a pensare sul da farsi, nel rispetto dell’esperienza precedente a quella che avrebbero cominciato di lì a poco. Fin-ché il tempo non è passato. L’attenzione alla ge-ografia interna è stato uno dei primi aspetti che hanno considerato. “In cucina non esiste nessu-na gerarchia, ognuno fa qualcosa e chiunque può fare tutto passando da un ruolo all’altro. Il primo lavoro è stato creare un posto con meno barriere culturali. Abbiamo tolto i simboli politi-ci mentre facevamo i lavori; nulla in contrario, semplicemente togliendoli non li abbiamo rimes-si. Pensammo di ragionare non sulle immagini ma sui contenuti. La notizia della presenza di un italiano e una spagnola nella cantina poi fece il giro del quartiere e in poco tempo si parlava di un ristorante italiano nella Belle de Mai. Non pote-vamo fermarci a questa immagine di superficie un po’ esotica, non ci stava bene. La partecipazione degli avventori alla preparazione dei menù ha ri-solto il problema in maniera spontanea, era solo questione di tempo e di dedizione. In quei mesi iniziali, una cinquantina di persone si è messa dietro ai fornelli”.

concentrando l’attenzione sulle zone circostanti, sventrate e in procinto di essere aggredite da altro cemento che avrebbe allontanato i diseredati verso i margini.

IL MENÙ DEL GIORNOQuella volta il menù del giorno proponeva la zuppa. In cucina si davano da fare, continuava-no ad avvicendarsi persone di ogni provenienza, l’atmosfera restava familiare intorno al bancone. Dalla sala si vedeva bene ciò che accadeva vicino ai fuochi (come a casa di mia madre). Ai fornelli, tra le tante persone c’era Cosimo, napoletano tra-piantato a Marsiglia, un passato alle spalle come educatore a nord di Napoli. Cosimo mi aveva rac-contato che dal settembre 2013 la kuizine era sta-ta ripresa da un altro gruppo, la Cantine du Midi. Da allora lui passa tutto il tempo lì dentro insieme a Sonia di Siviglia e a tanta altra gente che si avvi-cina, partecipa e poi si allontana. Appena arrivato a Marsiglia, Cosimo ha vissuto dalle parti della Porta d’Aix, poi l’intuito l’ha portato a trasferirsi nella Belle de Mai con tutta la famiglia al seguito. “Il principio era ed è di fare da mangiare insieme, con attenzione ai prodotti. Poi ci sono le altre at-tività nel quartiere… volevo mischiare l’intervento sociale all’attività artigianale. Dopo l’esperienza a

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CUCINE POPOLARI

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Mi trovo a scrivere da Chikù a Scampia cir-condata da un turbine di attività. In que-sto spazio collettivo, “luogo multiforme di sperimentazione…” pedagogica, in-

terculturale, gastronomica, che piano piano sta prendendo la forma di visioni, idee e sogni che ci ispirano da tempo, accadono davvero molte-plici cose. Chikù è un ristorante italo/balcanico, più precisamente napoletano/romanì, il primo in Italia, in cui lavorano insieme un gruppo di dieci donne, italiane e romnì, che ormai da sei anni preparano piatti delle rispettive tradizioni gastronomiche, superandole e contaminandole. Abbia mo iniziato con i catering, cucinati in cu-cine del tutto improvvisate, nei campi rom, nelle case, sui bruciatori, nei forni a ghisa, e traspor-tati in treno, macchina o con il furgoncino da Napoli a Milano, da una brigata di signore molto attente alle decorazioni, all’accoglienza e quasi accudimento per tutti i destinatari dei servizi di volta in volta offerti, rigorosamente senza usare

plastica, pur dovendo trasportare decine di chili di piatti e bicchieri, fiori freschi, pane fatto a mano e peperoncini per rendere bella la tavola. I piatti napoletani – rosticceria, paste al forno, parmigiane di melanzane, pastiere - insieme a quelli balcanici / romanì – musaka, sarme, gibanica, pogaca, cevapci – sono scelti a seconda della stagionalità dei prodotti, talvolta adattati per palati sempre più vegetariani o intolleranti, con risultati squisiti e sorprendenti, oppure trasformati in piatti nuovi, in cui i prodotti locali campani diventano protagonisti di ricette serbe e macedoni. La cucina è davvero un potente veicolo di superamento dei pregiudizi: di fronte a un piatto profumato e appetitoso non ci chiediamo da dove provengono le mani che lo hanno cucinato, se appartengono alla minoranza più discriminata e ghettizzata d’Europa o se riposano nel quartiere di periferia più stigmatiz-zato d’Italia, in un rione popolare o in un campo “abusivo”. La Kumpania, l’impresa sociale delle donne rom e italiane di Scampia, nasce come una intuizione, un piacere, una sfida: mettere insieme le donne, colonne portanti di intere comunità, potenziare passioni e talenti, costruire un gruppo di lavoro che at-traverso pratiche quotidiane di convivenza e il fare insieme possa emanciparsi su un piano professionale e personale ed essere modello ed esempio collettivo di comunità interculturale e autosostenibile. Oggi abbiamo una cucina professionale, frutto di anni di progettazione e di premi di “innovazione sociale”, in cui la lotta contro le discriminazioni – di genere, etniche e sociali – prosegue il suo cammino, in uno spa-zio in cui si rispetta l’etica del lavoro, la partecipazione reale e attiva dell’intero gruppo, la crescita perso-nale e collettiva. Uno spazio laboratoriale in cui bambini e giovani trovano spazio e accoglienza, in cui le anime pedagogico-culturali di chi rom e… chi no e gastronomico-professionali de La Kumpania, hanno trovato un punto di unione, di azione e riflessione, in cui affermiamo l’autocostruzione, l’attenzione e la cura per il nutrimento sano, l’apprendimento permanente, la possibilità di partecipare attivamente al processo di costruzione di una comunità eticamente orientata. La maggioranza femminile della compa-gine, che a volte infastidisce alcuni interlocutori, è un altro punto di forza che va sottolineato anche per il valore simbolico che porta con sè. La sfida di Chikù continua incessante per il raggiungimento di una stabilità economica in questo sud in cui i dati ufficiali sulla disoccupazione fanno spavento e le prospet-tive di sviluppo sono del tutto insufficienti se non inesistenti, in cui sono pochissimi gli investimenti co-raggiosi in territori complessi e problematici. Continua la nostra sfida per affermare una cucina sana, di qualità, aperta a nuovi sapori, per diventare un punto di riferimen-to cittadino e abbattere le barriere (mentali) tra centro e periferia, per dimostrare che la convivenza pacifica tra persone provenienti da paesi e storie differen-ti rappresenta l’unico futuro possibile per i territori e le città in cui tutti viviamo. Da Chikù si può pran-zare e cenare tutti i giorni, incontrarsi sul-le terrazze, fare presen-tazioni di libri, assem-blee di quartiere, feste di compleanno, con-certi, letture per grandi e bambin*, laboratori musicali, manuali, di cucina; naturalmente continuiamo a portare i nostri piatti in tut-ta Italia con il nostro furgone per qualunque tipo di evento e per tutti i gusti.

La ristrutturazione del locale contribuì a eliminare ogni diceria. Gli affezionati all’inizio si sentirono a disagio come i cristiani a cui togli la croce da un muro, ma nel tempo si acclimatarono, mentre altri nel quartiere si accorsero della presenza della cantina. In fondo il principio era uguale, semplice ma non banale: la cantina era un luogo di aggre-gazione in cui poter mangiare e cucinare insieme agli altri. La finalità era entrare in contatto con il quartiere, con i produttori. Cosimo e gli altri del gruppo iniziarono anche a organizzare un mercato con i prodotti di base, mettevano le tavole e i ban-chi attaccati alle pareti e la cantina si trasformava in un luogo di scambio. Sfogliando le pagine di un mensile indipendente di critica sociale portato avanti da vecchi amici in quella città, ho trovato un articolo dedicato pro-prio alla Cantina che termina in questo modo, con le parole di Cosimo. “Quando sei ai fornelli, espri-mi le tue emozioni del momento, come quando prepari dei piccoli piatti per una serata tra inna-morati. Hai voglia di piacere, di raccontare la tua storia personale. E più sei sincero, meglio sarà. In tal modo perpetui lo spirito di quelli che stavano lì prima di te, trasmetti una memoria, un gusto, una passione per la vita. C’è dell’arte là dentro, o piuttosto dell’artigianato. Il mio sogno è d’insegnare ai miei figli come cuci-nava mia madre, mia nonna. Uno dei miei ricordi più belli è il giorno in cui sono stato accettato dal-le donne della mia famiglia nella cucina, sul loro territorio, e non come spettatore, ma come parte-cipante attivo”.

I NUOVI PROGETTIOggi in cantiere c’è il progetto di una drogheria, mentre a fianco alla cantina un altro locale ospita associazioni che organizzano corsi di lingua fran-cese, un giornale di quartiere e altre attività. Dodici gruppi informali che orbitano intorno alla cantina si ritrovano dietro ai fornelli per autofinanziarsi, come le donne nordafricane che mettono i soldi da parte per la patente di guida. I gruppi comuni-cano, interagiscono senza forzature, si trasmetto-no una conoscenza spontanea. “Così s’impara, ma non si capisce chi impara cosa e da chi. Può venire uno e mi chiede di fargli vedere come si fa la pizza fritta, o viceversa io chiedo a un altro di farmi ve-dere come cucina un piatto delle isole Comore. Sai a Marsiglia come funziona. Poi ci sono i laboratori specifici organizzati dai produttori artigianali di pane, formaggio, prodotti fermentati…”. Nel corso degli anni le cose sono semplicemente accadute, un gruppo si è formato e ha iniziato a cucinare per gli avventori, a organizzare laboratori. “La cucina è un attrezzo per comunicare cose che teoricamente… cioè alla fine noi continuiamo a interrogarci sull’accesso all’alimentazione. Come ci nutriamo? In che modo ci comportiamo per saziarci? Penso che siano necessarie delle strategie per ridurre il divario tra la qualità e l’accesso, inve-ce di considerare il cibo come una performance. A Marsiglia per fortuna non c’è questo sciacallaggio sul cibo. Ci sono dei luoghi genuini dove si mangia benissimo, ma è meglio non pubblicizzarli troppo, altrimenti li inguaiamo”.

LA SFIDA DI CHIKÙ

CHI ROM E... CHI NO L’associazione Chi rom e… chi no nasce a Scampia nel 2002.

Chi rom e… chi no ha radicato la sua azione attraverso interventi culturali, pedagogici e sociali, lavorando intorno all’idea della città come luogo di condivisione e crescita collettiva, pensando alla periferia come spazio laboratoriale di pratica politica da portare avanti con i suoi abitanti: bambini, giovani, adulti, famiglie rom e napoletane. Tra il 2003-2004, in piena faida di camorra, decidemmo di esplorare Scampia con un gruppo di giovani rom e non rom, di uscire per strada sfidando ostilità e pregiudizi, per catturare le bellezze oscurate del quartiere e dei suoi abitanti e raccontare una storia differente. L’idea della trasformazione degli spazi pubblici è stata portata avanti attraverso l’autocostruzione con gli abitanti rom di una baracca “abusiva”, spazio autogestito e autofinanziato in uno dei campi non autorizzati di Via Cupa Perillo, luogo ai margini dei margini. La baracca è diventata nel tempo "spazio pubblico e culturale" della città, luogo di incontro, confronto e crescita collettiva, in cui sperimentare e condividere con gli abitanti del campo e del quartiere, pratiche pedagogiche, di politica attiva, di disobbedienza civile e organizzata. Gli interventi che negli anni hanno preso forma nella baracca e in altri spazi del quartiere - Gridas , Auditorium, Vele, Lotto P e altri rioni - spesso autofinanziati, sono rivolti all’infanzia – laboratori di carnevale, colonie estive, doposcuola, percorsi all’interno delle scuole – agli adolescenti – inchieste sociali, murales di strada, il decennale progetto pedagogico teatrale Arrevuoto, sostegno alla formazione – agli adulti, in particolare le donne – supporto legale, percorsi di alfabetizzazione, sostegno all’inserimento lavorativo, realizzazione e pubblicazione di inchieste, produzione di documenti e di materiali di controinformazione. Il 17 novembre 2014 s’inaugura il primo ristorante italo – rom di Napoli e d’Italia, Chikù Gastronomia Cultura Tempo libero, sopra l’Auditorium di Scampia, che mette insieme le due anime – Chi rom e… chi no e Kumpania. Il connubio tra le due organizzazioni, la continua contaminazione tra persone, idee, provenienze geografiche e patrimoni esperienziali, lo colloca in una dimensione di sostenibilità e sviluppo di idee e progetti dal carattere innovativo e visionario.

SCAMPIA, IL SAPORE DOLCE DI UNA PERIFERIA TRA FETTE DI GIBANICA E PASTIERAdi Emma Ferulano

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IN QUELL’ANNO IN ITALIA L’ARTUSI PARLAVA ALLE CUCINE BORGHESI. IN MESSICO, EMILIANO ZAPATA CONIÒ E PRATICÒ IL MOTTO TIERRA Y LIBERTAD

IL RISO, LA PANISCIAED EMILIANO ARTUSI

Il titolo è un veronelliano, tourbillon di senso e significato, nel calderone della cultura materiale.Di che cosa vogliamo parlare? Dove sta il bandolo di questa ma-tassa gastronomica?Artusi è un cognome illustre, divenuto per metonimia “il” libro su cui si è costruita la tradizione culinaria popolare italiana. Una tradizione alla Hobsbawn, inventata di sana pianta: le par-late, le costumanze, le cucine e anche le iperboli immaginative d’Italia furono (e forse, fortunatamente, sono) geneticamente contro l’ingombrante e nefasto concetto di identità.

Ma ai tempi dell’epopea nazionale, ogni invenzione a tema diveniva utile e necessaria. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie di Pellegrino Artusi fu precisamente questo: un grandio-so tentativo di codifica di una cucina italiana inesistente. Nel formarla ex novo, l’Artusi richiamava, in un paziente e forse inconsapevole lavo-ro filologico, elementi, aromi, colori che potessero colpire la sensibilità materiale di ogni possibile futuro “italiano”. Era rivolta a tutti, purché si sapesse “tenere un mestolo in mano” ed indipendentemente da dove ci si trovasse, posto che si appartenesse a quella classe borghese in ascesa che avrebbe accompagnato l’Italia verso il Novecento (e i suoi alterni baratri). Oggi conosciamo un altro Artusi. Di nome fa Emiliano. Il rimando, senza mediazioni, è a quell'altro Emiliano, nato nel Morelos. Capeggiò rivolte contadine formidabili, in seno alla rivoluzione messicana, quella del 1910. In quegli anni in Italia l’Artusi parlava alle cucine borghesi. In Messico, Emiliano Zapata, contadino anarchico del Sud, coniò e praticò il motto Tierra y libertad. Zapata, dopo combattimenti feroci che opponevano i peones all’esercito del dittatore Porfirio Diaz, si unì alle armate rivoluzionarie del Nord e con Pancho Villa entrò a Città del Messico. A Pancho Villa, già seduto sulla poltrona presidenziale, che gliela offriva in condivisione, prima di

tornarsene per sempre al campo, rispose brutalmente: “¡Hay que quemar-la!”. Bisogna bruciarla.

Emiliano, che mestiere fai?Dire agricoltore è restrittivo. Un ruolo confinato, mentre io i confini li su-pero ogni giorno. Dalla terra passo al mulino, i miei amici migliori sono cuochi, una volta al mese vado al mercato.Ma cosa sono, lo so. Sono un contadino. Perché il contadino si arrangia a fare un po’ di tutto: coltiva e segue il campo, raccoglie i prodotti, si occupa della loro trasformazione e conservazione, sa fare il formaggio, sa come si taglia bene la carne, cura l’orto…Si chiama Cascina Artusi, l’azienda agricola che porta avanti con sua so-rella e suo cognato, a Cerano, in provincia di Novara.Producono riso (anche farine di riso di varie tipologie) e carni bovine e suine, nonché salumi. Coltivano foraggi e cereali per l’alimentazione del bestiame.

Il novarese. Terra di riso, di risaie e di risotti.L’Artusi (Pellegrino) voleva strappare la buona cucina alle elitarie mense nobiliari e formare una classe media nazional-cuciniera. Si diceva contro i “cuochi di baldacchino”, oggi tristemente tornati tanto in auge. Introdusse scientemente diverse ricette a base di riso (il risotto alla mila-nese, in ben 3 versioni), cereale allora salito da pochi decenni alle ribalte gastronomiche italiane.

Cascina Artusi produce un riso d’eccellenza che è il Carnaroli Gran Riserva. Parliamo della sua produzione, a partire dal campo.Anche se in molti luoghi si sta dif-fondendo la coltivazione asciutta, qui le lavorazioni avvengono tutte in acqua.Il trattore passa in risaia per creare uno strato di fango che imperme-abilizza il fondo. Poi, con 10 cm di acqua, si semina. Il riso vien gettato a spaglio, con lo spandisale. Dopo 10 giorni inizia a germinare. A quel punto parte la prima nutrizione mi-nerale: azoto e potassio (il riso è una

LA CUCINA, INEVITABILE, QUOTIDIANA, È TERRENO BUONO A FAR EMERGERE MATERIA BASILARE, AD ESEMPIO MEMORIA STORICA, COSCIENZA, LOTTA SOCIALE di Simonetta Lorigliolafotografie di Laura M. Alemagna e Cascina Artusi

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COME FARLAIngredienti per 4 persone200 grammi di fagioli borlotti300 grammi di verza1 costa di sedano1 carota1 cucchiaio di passata di pomodoro densa1 pezzo di cotenna di maiale (facoltativo)1 cipolla bramata1 salam d’la duja di circa 200 grammi (di Cascina Artusi!)350 g di riso Carnaroli (il Gran Riserva Cascina Artusi!)1 bicchiere di buon vino rossoolio d’oliva Extra Verginesale marino integrale

Metti a bagno i fagioli la sera prima. In una capace pentola in 3 litri d’acqua fredda metti a cuocere i fagioli con la verza tagliata (privata del torsolo), la carota e il sedano a tocchetti e la passata. Porta a bollore, copri e lascia cuocere a fuoco minimo per 15 minuti. Aggiungi il pezzo di cotenna (facoltativo). Continua la cottura per circa 1 ora e mezza. È importante che la consistenza sia sempre liquida: all’occorrenza aggiungi acqua bollente. Alla fine regola di sale.In una pentola bassa e larga rosola in due cucchiai d’olio il salame ripulito e sbriciolato e la cipolla finemente tritata. Unisci il riso, fallo tostare, sfuma con il vino. Porta a cottura il risotto versando via via la minestra con i fagioli. A cottura ultimata la paniscia deve riposare 2 o 3 minuti, coperta da un panno di cotone o lino inumidito.Questa versione (tra le mille esistenti) prevede la cotenna come facoltativa e l’olio d’oliva (al posto dello strutto) per il soffritto: alleggerisce la preparazione e la rende godibile anche in stagione non fredda.

DA ABBINARE(suggerito da Emiliano Artusi e da noi assaggiato)Ghemme Anno Primo 2008 Antichi Vigneti di CantalupoGhemme è una DOCG di piccolissima estensione che raggruppa pochissime aziende. Una chicca territoriale. Il Ghemme 2008 (annata da favola!) Cantalupo - da pure uve nebbiolo - è color del granato acceso e ti avvolge subito in un abbraccio balsamico, pungolandoti con note leggermente speziate (sì, pungola: è il chiodo di garofano!). Lo sentirai, in bocca, caldo (la marasca matura), rigoroso (la liquirizia) ed elegante (il tè nero). I vigneti del Ghemme 2008 Cantalupo si appoggiano sulle colline moreniche formate in epoca interglaciale dal Monte Rosa. Il risultato non può che essere una raffinata mineralità. E questo Ghemme 2008 la racconta e la esprime al meglio.

CULTURA MATERIALE

Novara

Magenta

Ticino

Vigevano

Cerano Abbiategrasso

Cascina Artusi

Torino

pianta potassofila). A 40 giorni si passa campo per campo a controllare le erbe infestanti. Solo dove è necessario pratichiamo il diserbo. Non si fanno trattamenti a calendario. E interveniamo con prodotti specifici, per colpire infestanti specifiche. A luglio si dà il secondo apporto di potassio.

Non hai pensato di convertire la produzione al biologico?Ci penso eccome. Il biologico però richiederebbe un impegno lavorativo che in questo momento per noi non è sostenibile. Ci vorrebbe un terzo fratello!Ci penso e non lo escludo. Ora siamo in regime di agricoltura sostenibile. Facciamo le cose ragionando, e mai in automatico.Per esempio dopo la trebbiatura (che avviene nella seconda metà di settem-bre) lavoriamo il terreno per fare il sovescio: seminiamo leguminose per evitare il dilavamento dei nitrati in falda, per mantenere la biodiversità e per concimare il terreno in modo naturale.

Dal campo passiamo alla trasformazione.Il riso viene lavorato a pietra nelle speciali sbramatrici tipo amburgo che in cinque dolci passaggi spogliano il chicco, senza rovinarne la superficie. In seguito viene stoccato in un silos di legno, costruito da mio nonno negli anni Ottanta, in cui si mantiene a temperatura costante: anche a luglio lo senti bello freddo. Viene lasciato stagionare per un anno. Il riso, dopo la raccolta, se non trattato, continua a “respirare” evolvendosi e migliorando le sue caratteristiche. I conoscitori di riso (anche nelle regioni asiatiche) sanno che il migliore è quello lavorato fresco, e poi invecchiato. Durante questa fase l’amilosio presente nel chicco si stabilizza, divenendo meno solubile, il che consentirà una maggiore tenuta di cottura e una mi-nore dispersione dei nutrienti.È un riso nato anche dal confronto con amici cuochi, che necessitavano di un prodotto ad alta tenuta di cottura. Non si può sbagliare un risotto da queste parti perché significa perdere un cliente!

Come si conserva nel legno, per un anno, senza deteriorarsi? Questo riso non viene trattato con nessun insetticida. Durante lo stoccag-gio lo tiro fuori due volte, arieggiandolo e facendolo passare dal pulitore. In questo modo interrompo il ciclo riproduttivo di eventuali farfalline, senza utilizzare alcun trattamento aggiuntivo. Noi abbiamo scelto di farlo. Ov-viamente questo processo non è compatibile con la produzione industriale: troppo complicato e troppo costoso…

LA PANISCIA, IL GUSTO DELLA DIATRIBA Emiliano conosci la paniscia?

E come no! Un piatto tradizionale di Novara e Vercelli, realizzato in due differenti ricette il cui confronto genera ancora oggi diatribe infinite e gare all’ultimo respiro. Questo ci dice una cosa sola: è un piatto simbolico, importante.La paniscia racchiude la storia del Piemonte e del riso, la costruzione del Canale Cavour, il duro lavoro, ma anche la soddisfazione di un raccolto che ti dà da vivere, la bonifica delle zone depresse e così via… È un pezzo di storia. Un piatto che è una terra. Con il riso al centro. Non è un classico risotto, non è una minestra, non è un timballo. È una pietanza che, come molti piatti poveri delle cucine regionali italiane, è una summa gustativa e nutritiva. La sua origine si perde fin dentro il Medioevo quando una simile vivanda veniva realizzata con il panìco, cereale simile al miglio. I Romani lo utilizzavano per realizzare zuppe e pane. Oggi è destinato a becchime per uccelli. Altri dicono che paniscia derivi da paniccio, lo scarto di lavorazione del riso che veniva dato da portare a casa ai lavoratori delle risaie che vi aggiungevano quel che avevano a farne un piatto unico e bastante per se stesso. Come è sano che sia, l’origine non è importante. Ognuno di questi racconti ci dà la misura del valore antropologico del piatto. La cucina evolve con chi la realizza, e arriviamo alla paniscia di oggi, che tutte quelle storie ancora snocciola tra piatto e immaginazione.Non una, ma mille panisce, potremmo dire. Ricette si perdono tra contrade e famiglie. Nel novarese è diffusa quella che contiene il salam d’la duja. Un piccolo salame a grana media che, dopo essersi asciugato per almeno 20 giorni, viene riposto nel grasso di maiale in cui viene stagionato da un minimo di 2 mesi fino a un anno. Cascina Artusi lo produce, con la carne dei suini allevati in azienda.

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ESTATE 2016

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Era come quando fai l'ultimo sorso dell'ennesimo calice e ti devi svegliare presto il giorno dopo, che mi sentivo quel pomeriggio.Quel tremendo senso del dovere che ti tiene sobrio e vigile, cosciente del fatto che lo sbaglio sarebbe quello di prenderne un altro.Dall'altra quella irrefrenabile voglia di berne altri sedici di bicchieri, di saltare sopra il bancone, slacciandoti la camicia, di chiamare uno shot per tutti i presenti lanciando occhiate maligne alla più carina delle tre ragazze presenti.Non mi sono mai slacciato la camicia, ma mi sentivo così: avevo appena deciso di raggiungerla dall'altra parte del mondo.

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CAMPANIA• POZZUOLI (NA),Cantine dell’Averno via Vicinale San Filippo 13

LOMBARDIA• ABBIATEGRASSO (MI), Folletto 25603, via Lattuada

• MILANO, Archivio Primo Moroni - Calusca City Lights c/o CSOA COX18, via Conchetta 18Cucina Pop c/o Leoncavallo Spazio Pubblico Autogestito, via Watteau 7Pianoterra, via Federico Confalonieri 3 Vinario 11, via Federico Confalonieri 11

• MONZA, Alessandro Gerosa c/o Arci Scuotiventovia Monte Grappa 4b

• ROSATE (MI), Cascina Contina

MARCHE• CUPRAMONTANA (AN),Azienda olivitinicola Giulia Fiorentini via Manciano 13

• S.BENEDETTO DEL TRONTO (AP), Trattoria da Rita, via Piemonte 1

PIEMONTE• CALAMANDRANA (AT), Azienda Agricola La Virandavia Maestra 22

• CAPRIATA D’ORBA (AL), Cascina Gentile, cascina Gentile 11

• LA MORRA (CN), Azienda agricola Curto Marcofrazione Annunziata – borgata Ciotto 59

• VALGRANA (CN), Azienda agricola biologica Roberta Capanna, frazione Cavaliggi 59

SICILIA• PARTINICO (PA),Azienda biologica Simeti Taylor contrada Bosco Falconeria

• PETROSINO (PA),Dos Tierras, via Michele Angilleri 90

TOSCANA• RADICONDOLI (SI), Ammos, via Garibaldi 12

TRENTINO• TENNO (TN), Agritur Tenno Bio Naturavia dei Laghi 53

VENETO• VALGATARA DI MARIANO DI VALPOLICELLA (VR), Azienda Agricola Aldrighetti Lorenzo e Cristoforovia del Muratore 3

I NODI DI DIFFUSIONE