CONTRADDIRE IL SIMULACRO - LA TERRA TREMA

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CONTRADDIRE IL SIMULACRO RIFLESSIONI PER UNA CUCINA RECONDITA E DOMESTICA Rapporti di produzione BASSISSIMA TERRA Agricoltori CANTINE DELL’AVERNO Culture materiali LIGABUE E L’UVA FOGARINA n. 00 Primavera 2016/ euro 3,50 de La Terra Trema vini, cibi, cultura materiale

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CONTRADDIREIL SIMULACRO

RIFLESSIONI PER UNA CUCINA RECONDITA E DOMESTICA

Rapporti diproduzioneBASSISSIMA

TERRA

AgricoltoriCANTINE

DELL’AVERNO

CulturematerialiLIGABUEE L’UVA

FOGARINA

n.00

Primavera 2016/ euro 3,50 de La Terra Trema vini, cibi, cultura materiale

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PRIMAVERA 2016 EDITORIALE

IN QUESTO NUMERO

Produttori La vigna alla porta degli Inferi

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Riflessioni Contraddire il simulacro

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Rapporti di produzioneFinalmente birra artigianale?

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La Terra trema Esiti dalla tre giorni

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Rapporti di produzione Bassissima terra

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Narrazioni In alto i calici

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Cultura materiale Antonio e la leggenda dell'uva fogarina

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Scosse telluriche Mobilitarsi contro il glifosato

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Il bicchiere 16

Trimestrale di vini, cibi e cultura materialeanno 1, numero 0, primavera 2016in attesa di registrazione

Editore Associazione Culturale Antares, Frazione Castelletto 17, 20080, Albairate (Mi)Redazione Laura Alemagna, Paolo Bellati, Andrea Bottalico, Claudio Madella, Gabriele Moscatelli Hanno collaborato Giuseppe Caleffi, Matteo Isella, Renato Marzorati, Michele Marziani, Veronica Scotti

CADUTALIBERA

Primo numero. D’ora in poi sarà caduta li-bera. Questo progetto avrà materia, forma, linee su cui stendersi. Il disegno tracciato - all’inizio, alla maniera di uno schizzo - era

morfologia di un succedersi di desideri di rifles-sione. Sulla carta, oggi, quei desideri si sono fatti parole, tempo e spazio per tornare a ragionare, per approfondire questioni care, stassentire quali. La Terra Trema Edizione 2015, le nostre valuta-zioni a posteriori, a un passo dai dieci anni di lavoro. Edizione che ha messo in campo molte cose. Tra queste, volti e voci di braccianti giova-nissimi, migranti e non, esperienze che urlano di sfruttamento e miseria nell’Italia contempo-ranea, civile, moderna, performativa e sui fatti. Qui siamo ritornati su quelle voci, le abbiamo

Son 7 mila giorni che io vago qui dentroEntro tiro i dadi, al gioco mi sono perso…La testa rasata i boots ai piediIl primo palco il pogo adrenalina e occhiali scuriSaid are you ready, said are you ready to roll,Sì sono pronto scommetto quello che ho…

Casino Royale – Royale' Sound

riascoltate come un mantra più e più volte per non lasciare a quell’incontro l’inconsistenza del ricordo e basta. Ancora. Con la volontà di andare oltre, di supera-re e spingere, di scaraventare lontano, di stratto-nare altrove una produzione mediatica monocor-de, fuori dal mondo (e dentro le televisioni) che sta appiattendo la narrazione sul cibo, sul come consumarlo, abbiamo chiesto lumi a Michele Marziani. Sua una narrazione su cibo e ristorazione, un

guizzo saltando giù dal carro, come ci ha det-to, senza più volerne sapere di chef e di ma-ster chef. Ché oggi - invece - è privilegio, è enorme dono, prendersi il tem-po di cucinare per se stessi, per il proprio ambito vitale e fami-liare. Con crismi e cri-terio, ogni giorno che viene in terra.Ancora e ancora. Un viaggio a Napoli av-venuto per altri moti-vi - sebbene il motivo sia sempre quello - fino alle vigne di Cantine dell’Averno chiuse da vulcani e vulcanelli, vapori sulfurei e pano-rami antichissimi.Ancora, ancora e an-cora. La storia del come siamo finiti tra i gloriosi numi di vino e cibo, e quarant'anni di storia metropolitana come poche. Guardan-do il Duomo di Mila-no con occhi di pirati, dall’alto di un trattore,

Antares II, anno 2003. E Ligabue, Antonio. La sua storia di vino, cibo, bestie e contadini, pennelli e pitture a olio, don-ne, amicizie, anarchia e socialismo, lo scorrere di un fiume (il Po, grandissimo) e le genti e i paesi. Un brulicare rumoroso, continuo, come Fogarina che scende dalla bottiglia, a noi l’ha raccontato Giuseppe Caleffi, anima della Casa Museo Antonio Ligabue, e nei ritratti, Andrea Rossi. E ovunque nell’Almanacco, una costella-zione di immagini, ricette sconsiderate, pensieri piccolissimi, riflessioni ubriache che speriamo vi siano cari. Dateci riscontro. Prendete la penna, osate scriverci, tracciate le vostre linee, fatele di-ventare le nostre. Invitiamo ciascuno di voi alla caduta libera.

Fotografie Alice Selene Boni, Jacopo Loiodice, Luca Lusiardi, Renato MarzoratiIllustrazioni Laura Alemagna, Simone Massi, Andrea RossiProgetto grafico e impaginazioneClaudio MadellaStampato da Graphidea srlVia Fara, 35, 20124 Milanosu carta CyclusOffset 90gr, cert. FSC-C021878

info: [email protected]

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PRIMAVERA 2016LA TERRA TREMA

É passato qualche mese dalla nona edi-zione. Nella notte di chiusura saltavano all’occhio i numeri: oltre 7 mila le per-sone che avevano attraversato la mani-festazione nel corso dei tre giorni.La sensazione importante di una con-

quista enorme per la natura multiforme di quel pubblico partecipante: dentro e fuori il mondo del vino, moltissimo e pochissimo nel settore, consumati assaggiatori, palati più imberbi, curio-sità enorme, cognizione di causa e smisurata at-tenzione per l’agricoltura reale dei cibi e dei vini, per il lavoro di territorio di quel centinaio e più di produttrici e produttori invitati, per le realtà di diversa natura su cui si sono imbastiti gli incontri (quelle in contrasto a caporalato e bracciantato in primis). Fa piacere per questo definire La Terra Trema an-che festa, fiera contadina e festa popolare. Pieno manifestarsi di cultura materiale, di un quotidia-no agire, lavorare, rimuginare che si condensa e nella tre giorni gioisce. Celebrazione materiale, non adorazione di dèi, non religiosa devozione, ma confronto orizzontale di persone, tra recipro-cità e scambio. Dialogare, contrattare, toccarsi, guardarsi, saggiarsi, annusarsi.La Terra Trema è una matassa di linee che compo-ne quel disegno amanuense che siamo.Fughe, incroci, linee - che divergono pure - una progettualità complessa, stratificata (ancora poco indagata) che da un decennio si svolge, si attiva, attiva in autogestione assoluta. Questa autono-mia da finanze, da dottrine politiche, dalle maglie delle reti istituzionali, di fatto la rivendica nel momento in cui è concreta, svolta, davanti agli occhi, mettendo in campo competenze tecniche, cogni-tive, risultati di livello; attivando economie; facendosi avamposto metro-politano per le storie dei territori in resistenza che partecipano al progetto; fautrice di eccezionali trasformazioni sociali, economiche, culturali; rifles-sione aperta sulle infinite declinazioni del produrre e consumare cibo in Italia e fuori.Nel corso di questa edizione si sono avvicendate centinaia di storie, una marea narrativa perpetua che speriamo sia stata assordante fuori dalle nostre mura.Resta da soffermarsi su considerazioni e questioni emerse in quei giorni.Tra tutte: Le derive sommerse del lavoro in agricoltura, uno stato delle cose che a oggi porta l’Italia se non a parlare comunque a dimostrarsi - ancora - terreno di schiavismo e sfruttamento. L’incontro con le realtà pugliesi e lucane che contrastano il caporalato non ha fatto altro che mettere in chiaro questo, laddove ci fosse ancora da osti-

narsi a non capire. C’è una agricoltura bardata tricolore che uccide, sop-prime, umilia, che lucra sulla pelle di migranti e non solo, che fagocita e rigurgita schiere di vite umane. E “la raccolta” sfinente e assassina è la punta dell’iceberg. Sotto il quale c’è un modello produttivo infame, mo-dalità di distribuzione e commercializzazione aliene a ogni logica se non a quella del profitto.Nell’Italia della produzione di qualità, dei successi di Expo, dei nomi che tuonano universalmente di rinomati chef, di vini, cibi e cucina proposti a emblema, c’è ancora una materia prima che costa sangue, c’è un mondo parallelo abitato e brulicante che raccoglie e smista pagando sangue, gua-dagnando niente. C’è una questione di mercato, di profitto e c’è una que-stione di responsabilità troppo velocemente rigettata su agromafie e caporali e meno concentrata sui corridoi visibili, quelli percorsi dai grandi merca-ti – grande distribuzione organizzata compresa - che smistano, gestiscono, determinano i numeri e le destinazioni per prodotti che puntualmente ca-pitano sulle nostre tavole. Vale a dire: Non è narcotraffico, non passa per mercati illegali o per lo spaccio tra i vicoli.E non si ferma, subentra nelle vite e nella sorte dell’agricoltura tutta, nei dettami monopolistici della produzione e della distribuzione, nel perpetrare il ricatto su vendite e acquisti, nello strozzinaggio del prezzo al dettaglio, al quintale, alla cassa, al bancale.Considerare questo dunque: Se cibarsi, mangiare, degustare, cucinare, bere, se questo grande ambito – per forza di cose quotidiano - è realmente atto politico, se è cultura materiale sotto occhi e nasi, in bocca. Fare altrimenti e bloccare le fauci aperte della mercificazione atroce del cibo, farlo nelle cu-cine, in quelle altre, popolari, in quelle domestiche e familiari, nelle cucine dell’alta ristorazione, nei luoghi del commercio.Molto sta accadendo. Un forte contrappunto, tra consapevolezza e agire, che si muove e bene si diffonde in Italia e oltre. Negli spazi dell’autogestio-ne, nell’autorganizzazione cittadina e contadina, nella volontà di farsi limi-te e ostacolo insormontabile contro il mercato della massima resa, dell’in-dustrializzazione arida, omicida. Un farsi onda che travolge, con miriadi di altri flutti e frangenti. Un convergere e aggrovigliarsi di linee nella matassa speriamo sempre più viluppo, glorioso intrico riottoso.

ESITI DALLA TRE GIORNI E OLTRE

LE POTENZIALITÀ ESPLICITE DI QUESTO PERCORSO, TRA TERRA, CIBI E VINI, MOVIMENTI E LOTTA, TERRITORI E CONSAPEVOLEZZAdi Laura Alemagna

CELEBRAZIONE MATERIALE, NON ADORAZIONE DI DÈI, NON RELIGIOSA DEVOZIONE, MA CONFRONTO ORIZZONTALE DI PERSONE, TRA RECIPROCITÀ E SCAMBIO

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PRIMAVERA 2016

CONTRADDIRE IL SIMULACRO

RIFLESSIONI INTIME DI UNO SCRITTORE PER UNA CUCINA

RECONDITA E DOMESTICA. PER UN PROGRESSIVO DISTACCO

DAL SIMULACRO DEL CIBO (E DEGLI UOMINI) DA ESPOSIZIONE

di Michele Marziani* fotografie di Jacopo Loiodice

Sono uno che ha smesso. E come tutti quelli che smettono vado preso un po' con le pinze. Non troppo sul serio. Quelli che finiscono la terapia con gli Alcolisti Anonimi o gruppi analoghi spesso li trovi che hanno sostituito il bicchiere pieno con quello vuoto. Stessa attenzione, stessa idolatria. Ma io ho smesso da solo. E non certo di bere. Quelli che abbandonano il fumo, guardano con disprezzo i rimasti con la sigaretta in mano e celebrano l'aver ritrovato fiato e olfatto e persa l'ansia da ta-

baccaio aperto. Ma io non è che ho lasciato proprio: ho fatto del cibo buono e del vino buono un fatto privato. Ho finito di recitare nei film porno, non di fare all'amore. Sono due cose diverse, magari simili nella tecnica, ma distanti nella sostanza. Avevo cominciato a scrivere di cibo e di vino prima che comparisse quella parolaccia impronunciabile: enogastronomia. Non esistevano i prodotti tipici, le persone che facevano le cose buone e fatte bene spesso sbarcavano il lunario a fatica e non avevano un brand, al massi-mo un'insegna. Nei ristoranti c'erano i cuochi e le cuoche. Poi i primi sono diventati chef, le altre hanno avuto almeno il pudore semantico di rimanere cuoche. Un punto in più per le donne.

AVEVO COMINCIATO PER TRE MOTIVIIl primo: un articolo di Giuseppe Fava. Sulla sua rivista I Siciliani, raccontava di donne vestite di nero, di salsicce focose e di vini densi alle pendici dell'E-tna. Lì avevo capito che si potevano usare i sapori per raccontare la terra, la gente, la vita. Secondo: facevo l'inviato in giro per l'Italia per una rivista di pesca sportiva (certo, esistevano pure quelle). Viaggiavo e mi spostavo raccontando ai let-tori dove andare a pescare. Nelle valli solcate da torrenti quasi sconosciuti, nei paesi affacciati su laghi dai nomi ignoti, nei luoghi più anonimi della nazione ma provvidenzialmente bagnati da qualche corso d'acqua. Visto che c'ero, dovevo mangiare. Questo rendeva il mio lavoro più curioso. Avevo avuto una nonna cuoca e uno zio protogourmand, uno che cercava i prodotti tipici prima che esistessero. Lo faceva per piacere. Si sarebbero divertiti in-sieme, lo zio Piero e Luigi Veronelli, ne sono certo. Insomma, per imprin-ting parentale ero curioso di quello che mangiavo. Ed essere in luoghi quasi dimenticati mi permetteva di scoprire l'essenza della cucina italiana, da sempre locale, regionale, dei prodotti e dei sapori che nascevano nel Mondo dei vinti di Nuto Revelli e finivano nelle vetrine di Peck a Milano. La città che si mangia tutte le terre intorno, in senso fisico non metaforico, è ben raccontata da Carlo Emilio Gadda in Le meraviglie d'Italia – Gli anni. Basta leggere Una mattinata ai macelli e Mercato di frutta e verdura. Non c'è biso-gno d'altro per capire la materia.Il terzo motivo per cui scrivevo di cibo era perché non ne parlava quasi nes-suno. E chi lo faceva aveva spesso motivi diversi dall'indagine e dal racconto. A me piaceva quel clima un po' carbonaro che aleggiava attorno alla cultura materiale italiana. Roba di poveri trasformata per la gioia dei ricchi. Lo sapevo bene: da ragazzo vendevo i funghi e le trote alla trattoria di un paese di mon-tagna perché se ne beassero i cittadini (non che non lo fossi, cittadino, ma mi piaceva mescolarmi con la gente che non lo era). I maestri capaci di trasformare la fatica contadina in delizia per le classi privi-

*Michele Marziani è uno scrittore. Ha pubblicato sei romanzi tra i quali Umberto Dei e Nel nome di Marco (Ediciclo), la raccolta di racconti Un ombrello per le anguille (Guido Tommasi Editore) e diversi libri di viaggio nella cultura materiale italiana. È direttore editoriale della casa editrice Antonio Tombolini. Tiene corsi di scrittura, workshop e laboratori di narrativa. La storia di Michele Marziani è intrecciata alla nostra, e a quella di chi si è imbattuto nelle sue narrazioni di viaggi, di luoghi, di sapori.

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RIFLESSIONI

gato un certo benessere o comunque l'idea di un certo benessere, anche alle campagne, alle monta-gne e a quelle botteghe marginali dove un po' scar-seggiava. Ha portato il marketing laddove c'era il mercato settimanale. Tutto questo ha trovato nuo-vi aggettivi e nuovi profeti. Non ultimi gli chef con le stelle. Ho spento l'ultima volta la televisione nel 2004 e non ne ho sentito, a venire, nessuna man-canza. Ho letto più libri, passato più tempo con i figli e con gli amici. E proprio mio figlio me li ha fatti vedere quelli di Masterchef, imitati da Mauri-zio Crozza, su YouTube. Pensando agli originali, la parodia credo che li renda più umani.

COME HO DETTO ALL'INIZIO, HO SMESSOUn pezzo alla volta. Prima ho chiuso l'ultima pagi-na che raccontasse di cibo e di vino. Poi non sono più andato al ristorante. Infine mi sono guardato dall'andare a mangiare fuori tout-court. Mi regalo solo una pizza ogni tanto; è un antico amore. Per

la socialità ho risolto invitando gli amici a cena. La salute ne ha guadagnato e ringrazia. Il portafogli pure. Con quello che risparmio posso permettermi di non andare al supermercato. Ho un contadino che mi porta le verdure a casa, quello che c'è va bene. Imparo da lui cosa cucinerò. Quando sono in città di mare vado al mercato, dai pescatori. Di carne ne mangio assai poca, ma ne conosco la filiera intera, non perché ci sia scritta su un fogliettino, magari sullo scontrino, ma perché sono andato a vedere dove e come crescono gli animali che mangio. Ne sono testimone. Non sempre sono sobrio: «Write drunk, edit sober» diceva Ernest Hemingway mentre Gino Veronelli soste-neva che «Il peggior vino contadino è migliore del miglior vino d’industria». Ecco, quello è il solco nel quale credo sia bello restare, col passo del vagabon-do e un sogno grande nel cassetto: Ritrovare certe osterie della memoria dove i vini non hanno nome ma fragranza, sul tavolo passano le cose del luogo, nella giusta stagione, le verdure sono quelle dell'orto, le carni sono di animali vissuti come si deve, di uccelli sparati al volo da un cacciatore poeta, i pesci quelli del mare o del fiume, a seconda di dove si trovi il locale. In cucina c'è una cuoca. Miracolosamente un cuoco. Si riconoscono entrambi dal grem-biule. E dalle mani in pasta. Un luogo così sarebbe già la rivoluzione.

legiate erano loro, i cuochi. Non quelli popolari delle vecchie trattorie agli in-croci delle strade, ma gli eredi di quelli arrivati direttamente dalle aristocrazie. Rimasti disoccupati dopo la Rivoluzione francese erano stati loro a inventare i ristoranti, nient'altro che specie di teatri dove mettere in scena il buon cibo. In fondo, credo, per molto tempo, l'alta ristorazione è stata alla necessità di mangiare fuori come il teatro borghese al teatro. Ce ne siamo accorti tardi che gli spettacoli cominciavano a degenerare: non abbiamo capito subito che dare un nome alle cose (denominarle Doc, Dop, Igp o in qualsiasi altro modo) le avrebbe private di sostanza. Non abbiamo compreso in tempo che contava più la rappresentazione della realtà. Che le rane non erano più espressione del territorio perché arrivavano dalla Turchia e non erano più cucina tipica, ma simulacro. Non abbiamo colto al volo che maturare i prosciutti nelle celle a temperatura e umidità controllata significa-va togliere per sempre valore e importanza all'aria dei luoghi di stagionatura. Non abbiamo compreso subito che il pollo era diventato cattivo non perché ci avesse annoiato ma perché era passato dall'aia agli allevamenti in batteria. Non abbiamo capito. Non ho capito. Così come ci sono sfuggiti di mano gli aggettivi: bastava un bravo, per un cuoco. Siamo arrivati al superbo, sublime, divino, magistrale, per uno chef. Sono diventati dei divi. Come con i calciatori abbiamo fatto finta di nulla quando li sentivamo sbagliare i congiuntivi. Mica occorre conoscere la lingua per far bene da mangiare, così abbiamo pensato. Senza immaginare che era il primo passo: Avremmo nominato ambasciatori di un paese trasformato in un grande teatro del gusto delle persone che tra acqua e sale non sanno con precisione quale delle due evapori.

NON CE L'HO CON I GRANDI NOMI DELLA CUCINANon è questo il problema. Ne ho conosciuti tanti: Qualcuno è davvero un gran-de artista, ma, come gli altri, viene considerato solo se si esibisce in modo che sembri un pagliaccio. I più, comunque, sono pagliacci che si credono artisti. Da anni mi accorgo che tutto quello a cui abbiamo dato un nome è diventato finto, un simulacro, una bugia. Nel cibo è successo quello che già stava av-venendo nel mondo del vino. Ed è accaduto in Italia, che pensavamo fosse il cuore della tradizione culinaria. Anche per il cibo valgono ormai le parole di Guy Debord in Panegirico: «La maggioranza dei vini, quasi tutti i liquori, e la totalità delle birre di cui ho evo-cato qui la memoria, hanno oggi completamente perduto il loro gusto, prima sul mercato mondiale, poi localmente: Con i progressi dell’industria, come col movimento di sparizione o rieducazione economica delle classi sociali che erano rimaste a lungo indipendenti dalla grande produzione industriale; e dunque anche per il gioco delle diverse legislazioni statali che vietano ormai quasi tutto ciò che non è fabbricato industrialmente. Le bottiglie, per con-tinuare a vendersi, hanno fedelmente conservato le loro etichette, e questa esattezza garantisce che le si possono fotografare com’erano; non berle». Al cibo, al cibo italiano, credo sia successo lo stesso. Tutto è merce e nulla di più. Come nel porno, appunto. Non che sia necessariamente brutto, può es-sere anche divertente. Io, però, del buon cibo, del vino contadino, della terra, della fatica e di quel mondo lontano dalla plastica mi ero innamorato. Non so se quello che è accaduto sia sbagliato o sia giusto. In fondo ha allar-

AVREMMO NOMINATO AMBASCIATORI DI UN PAESE TRASFORMATO IN UN GRANDE TEATRO DEL GUSTO, DELLE PERSONE CHE TRA ACQUA E SALE NON SANNO CON PRECISIONE QUALE DELLE DUE EVAPORI.

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PRIMAVERA 2016

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IN ALTOI CALICI

NEI 40 ANNI DI OCCUPAZIONE

APPENA COMPIUTI DAL LEONCAVALLO CI SONO INFINITI STRATI

DI STORIA NAZIONALE. GLI ULTIMI ANNI, POI,

RACCONTANO DI SVOLTE, INCONTRI E

NUOVE GESTA CHE CI RIGUARDANO

di Paolo Bellati

Nel 2003 sbarca al Leoncavallo un'idea, una festa, che a guar-darla oggi ha dello straordinario.Probabilmente, negli ultimi dieci, dodici anni, un progetto tra i più significativi e impattanti che le realtà autogestite e autor-ganizzate hanno saputo accogliere e realizzare per questo paese moribondo.

T/TERRA E LIBERTÀ / CRITICAL WINEIl Critical Wine di Luigi Veronelli. Il Critical Wine della Chimica di Vero-na, del Leoncavallo di Milano, del Magazzino 47 e di Radio Onda D’Urto di Brescia, del Forte Prenestino di Roma, del Folletto25603 di Abbiategras-so, dell'Intifada di Empoli, del Buridda di Genova, del Dordoni di Cremo-na… Luigi Veronelli, l’intellettuale, il giornalista, l’anarcoenologo. Una figura importante nel mondo dell’agricoltura e del vino. L’uomo che più di tutti ha saputo rivoluzionare e valorizzare la cultura materiale e l’enologia.In un pugno di giovani estremi e Veronelli l’intuizione per il nuovo secolo: Portare la campagna in città, nei centri sociali, negli spazi autogestiti, nei luoghi metropolitani per eccellenza, protagonisti e simbolo, in Italia, della cultura alternativa e conflittuale. Luoghi di contraddizioni, con moltepli-ci identità, tra marginalità e capacità di influenzare costumi, politiche e tendenze. L’incontro tra i vignaioli (i più conosciuti e famosi e quelli che lo diventeranno) e i giovani (e meno giovani) dei Centri Sociali. Uomini e donne di mondi così lontani si incontrano in spazi non neutri. Sono i primi giorni di dicembre del 2003 quando questa straordinaria avventura approda al Leoncavallo. C’è anche il resoconto di quei tre giorni. t/Terra e Libertà / Critical Wine, edito da DeriveApprodi (2004), è un libro che raccoglie soprattutto la te-oria, l’immaginario, le idee che stavano a fondamento di quell’esperienza: I dodici atti della sensibilità planetaria, i poeti della terra, le proposte e i consigli a venire. Da leggere, soprattutto per chi intende occuparsi di cibo, agricoltura e rivoluzione dei consumi.

«L’appuntamento milanese, denominato Fiera dei Particolari, diventa per dimensioni, successo, partecipazione, pietra miliare del

percorso. Tre giorni in cui centosettanta produttori, il massimo degli accoglibili, espongono e incontrano

in un clima oggettivamente incredibile. Nume-rosa la partecipazione di pubblico. Sembra

quasi che Milano decida di incontrarsi nello storico centro Sociale. Migliaia e miglia-

ia le persone che passano per osservare, degustare, partecipare attivamente ai dibattiti, e comunque presenziare a un appuntamento che ai più appare stori-co (…) succede di tutto: Unico il filo conduttore. Ognuno degli eventi or-ganizzati nei tre giorni, anche il più apparentemente ludico, porta in sé il seme dell’appartenenza al progetto t/Terra e libertà / Critical wine. Così, al di là dell’esposizione dei vignaioli pre-

senti, si alternano continuamente pre-sentazioni di particolari vini, di poeti della

terra, ma anche poeti (della parola), musi-cisti e letterati. Il serpente umano presente al

Leoncavallo è inoltre continuamente percosso

C’ERA L’ESPERIENZA FORTISSIMA E LE RELAZIONI DEI TRE ANNI PRECEDENTI.AVEVAMO IMPARATO CHE MONDI DIVERSI DANNO

SPINTE PROPULSIVE INIMMAGINABILI E COSÌ CI

SIAMO BUTTATI.

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NARRAZIONI

da intrusioni musicali, non invasive, ma perfettamente in tono con il resto della manifestazione.Ambiziosa inoltre è l’idea di avere la presenza di cinque grandissimi chef, pronti a calarsi nelle vesti di protagonisti prestando grande attenzione alla ricercatezza delle materie prime, realizzando accattivanti piatti, dalla qualità eccelsa a prezzo politico».Tra le migliaia di persone che arrivano al Leoncavallo in quei giorni ci sono anche dei giovani (e meno giovani) provenienti dalla provincia, animatori di un piccolo spazio occupato, un casello ferroviario lungo i binari ad Abbiategrasso, a 25603 metri dalla stazione di Milano Porta Genova. Abbiategrasso è un territorio a vocazione agricola, tra il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud Milano.Quelli del Folletto25603 oltre a essere animatori di uno spazio che riconduce alla storia dei centri sociali metropolitani sono anche agri-coltori, sono cresciuti in campagna, in famiglie contadine. Hanno letto Veronelli, Camporesi e Soldati. Hanno varcato le porte del Leoncavallo centinaia di volte, ma capiscono che stavolta è diverso, che insomma sta succedendo qualcosa di epocale.In quei giorni, tra fiumi di vino stringeranno legami importanti e soprat-tutto racconteranno dei centri sociali ai vignaioli e si faranno raccontare dai vignaioli di vini e territori. Pochi mesi dopo i folletti e le follette entre-ranno nel connettivo t/Terra e Libertà / Critical Wine. IL 29 NOVEMBRE 2004 MUORE LUIGI VERONELLINel febbraio 2005, ad Abbiategrasso, tra le vecchie mura del Circolo dei Contadini, il Folletto25603 organizza un evento che chiamerà La Terra Trema, invitando gli agricoltori della zona, i compagni del Critical Wine, alcuni vignaioli conosciuti al Leoncavallo e altri scoperti nelle prime ricer-che del connettivo. Sarà una scossa per il territorio e si intensificheranno le relazioni con le realtà agricole del Parco del Ticino e del Parco sud Mila-no con cui il Folletto condivideva da qualche anno una battaglia: fermare la superstrada Milano - Malpensa che avrebbe dovuto passare tra le cam-pagne abbiatensi devastandole. Anni prima avevano sfilato insieme agli agricoltori con i trattori. Cortei dove il trattore dei folletti e delle follette trainava un carro che sparava musica e voci da un impianto audio. Un trattore dove sventolava una bandiera con un Jolie Rouge, un Jolly Roger cucito dalle stesse mani che anni dopo confezioneranno roncole d’oro.Nel 2005 i compagni del Leoncavallo, della Chimica, del Folletto, del Ma-gazzino 47, di Radio Onda D’Urto e di DeriveApprodi realizzano la secon-da edizione della Fiera dei Particolari t/Terra e libertà/Critical Wine al Leoncavallo. Ci saranno altrettante Critical Wine in giro per l’Italia. Nel 2006 ad Abbiategrasso si tiene la seconda edizione de La Terra Trema.Sono anni in cui grazie a questi eventi si moltiplicano riflessioni intorno ai temi del cibo, della gastronomia, dell’agricoltura, sulla distribuzione, il consumo, le filiere, gli organismi geneticamente modificati, le relazioni sensoriali e gustative, il sapere e i sapori, il prezzo sorgente, l’autocertifi-cazione, il coproduttore, eccetera. Si elaborano proposte e progetti, mani-festazioni e incontri mai visti prima in Italia e in Europa. Si arriva anche a un punto in cui il connettivo t/Terra e libertà / Critical wine si scioglie, per ragioni diverse. Ognuno dei protagonisti di quella straordinaria espe-rienza racconterebbe questo passaggio con il proprio sguardo. Impossibile fornire qui una sintesi delle varie visioni.In quel momento per i folletti e le follette, che avevano condiviso, anima-to e attraversato quell’esperienza, matura forte il desiderio di dare conti-nuità, ma allo stesso tempo di sciogliere il vincolo. È così che, a partire dall’esperienza e le relazioni maturate nei tre anni precedenti, Leoncavallo e Folletto decidono di portare La Terra Trema a Milano.La prima edizione risale al 2007 e il 2015, anno in cui il Leoncavallo com-pie quarant’anni, l’evento arriva alla nona edizione. Negli anni ha preso forma e fatto grosse le spalle, ha portato avanti le sue progettualità e ha cominciato a guardare i frutti di quanto seminato: Una cultura del vino e del cibo che le cambiava intorno, che si faceva più consapevole e politica. L’esempio più forte è l’evoluzione negli anni della Cucina Pop del Leon-cavallo, una filiera di qualità che garantisce reddito ai piccoli produttori oltre che piacere a chi la frequenta. Filiera di qualità significa che i nomi degli stessi piccoli produttori, i vignaioli, li trovi tali e quali anche nelle forniture dell’alta cucina, della ristorazione d’élite. E questo vale pure per le Carte dei vini. Vignaioli sconosciuti che sono diventati tra i più cono-sciuti e riconosciuti del paese. Poi ci sono le enoteche nate sulla spinta dell’evento e mille altre iniziative indipendenti innescate dal progetto stes-so, capaci di far scoccare la scintilla. «La nostra non è una manifestazione del vino biologico, biodinamico,

naturale. Non assecondiamo mode o etichette, tendiamo a sconsacrarle perché lavoriamo su un altro fronte, lavoriamo sui vini di territorio, sulle storie delle persone, del loro lavoro, delle aziende, dei vini. L’artigianalità è una cosa scontata a questo punto, stiamo parlando di vini e cibi che sono frutto di lavoro materiale, di qualità e non di sfruttamento di persone, ma questo rimane solo una parte di ciò che rappresentano i vini e i cibi di territorio». La Terra Trema ha condizionato, trasformato e valorizzato l’agricoltura lo-cale e contadina di questo paese.In alto i calici!

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TESTATINAPRIMAVERA 2016

LA VIGNA ALLA PORTA DEGLI INFERI

LA VIGNA DI CANTINE DELL’AVERNO È CHIUSA IN UNA CALDERA CHE SI È FATTA LAGO. QUI I VINI SI PRODUCONO TRA VAPORI SULFUREI E STORIE SECOLARIdi Paolo Bellatifotografie di Alice Selene Boni e Luca Lusiardi

L'appuntamento con gli altri è alle 10 in Corso Vittorio Ema-nuele. Ho dormito ai Quartieri Spagnoli. Sono a Napoli da due giorni, gli amici di Napoli Monitor mi hanno invitato insieme a Rena-to Curcio, per presentare La Rivolta del Riso, un libro edito da Sensibili

alle Foglie nel 2015 che raccoglie la ricerca di so-cioanalisi narrativa fatta insieme a una quaranti-na di operatori sulle condizioni di chi lavora nelle imprese sociali e sul ruolo che queste, al di là del mito originario, oggi svolgono.La presentazione del libro è stata interessante, hanno partecipato parecchie persone e lavoratori del settore. Settore poco indagato con prospettive sul futuro piuttosto incerte, in una società dove sempre più persone si trovano a rapportarsi con servizi sociali pubblici, ma soprattutto privati, con uno stato sociale ormai liquefatto.

ATTRAVERSO I QUARTIERI IN SALITA. Sui muri mi accompagnano i disegni di Cyop&Kaf, attenuano la fatica e mi fanno sentire questi vicoli fraterni.Mi avevano avvisato la sera prima mentre mi spiegavano la strada: “Quando non avrai più fia-to sarai arrivato”. Così è stato. Arrivo nel luogo dell’appuntamento, prendo fiato e mi sento bene in questa mattina di sole, carico come dopo una passeggiata in montagna. Pochi minuti e arrivano gli altri in macchina e si parte.La prima scoperta. Napoli è vicina ai Campi Fle-grei, dove l’agricoltura è diffusa e la viticoltura è importante. Neanche venti chilometri e saremo già da Emilio, al Lago d’Averno.Il paesaggio è incredibile e i nostri accompagna-tori napoletani arricchiscono il breve viaggio con cenni storici e geologici. Questa è un’enorme zona vulcanica, nei secoli si sono succedute parecchie eruzioni, ci sono molti crateri spenti e alcuni an-cora attivi. Numerose sono le sorgenti e gli im-

gilio colloca qui la porta degli Inferi. Il tempo di intravedere il lago e siamo già alle Cantine dell’A-verno. Emilio lo troviamo intento a cucinare nella piccola cucina del suo suggestivo e semplice ristoro in legno. Porte e finestre in vetro consentono di godere del magnifico paesaggio, del lago e di quello che gli sta attorno.Il cuoco del ristoro è lo stesso Emilio, cucina mate-rie prime che coltiva in azienda o acquista da altri piccoli produttori del territorio. La cucina è pret-tamente di territorio e contadina. Pesce azzurro, verdure dell’orto, legumi e frutta del lago. Quasi mai carne.Oggi aspettano ospiti per pranzo, ci tuffiamo subi-to verso le vigne: “Qua la terra trema veramente! Venite che vi faccio vedere”.La famiglia Mirabella conduceva quest’azien-da dalla fine dell'Ottocento. Coloni, hanno sempre prodotto vino e lo vendevano a imbotti-gliatori e a privati. Dagli anni Ottanta in poi han-no prodotto solo uva per una cantina della zona, il vino prodotto era solo per uso familiare. Nel Duemila misero in vendita l’azienda, Emilio face-va altro ma il legame affettivo per quei terreni e per quell’azienda era forte, con il fratello e le rispettive mogli decisero di comprarla e di imbarcarsi in que-sta avventura. Coltivare, vinificare, imbottigliare.Il tempo di sistemare i vigneti, ristrutturare, at-trezzare la piccola cantina, organizzarsi e dal 2010 cominciarono a produrre con una propria etichet-ta. Nei pressi della cantina ci sono due splendidi ettari di proprietà, viti su terrazze ad anfiteatro sul lago. Un altro ettaro e mezzo in affitto a Pozzuoli.Ai campi Flegrei ci sono ventiquattro cantine. Un paio di queste sono grosse, con tanti appez-zamenti di terra, comprano uve e vino anche da terzi, alcune non hanno neanche terra, comprano e trasformano solamente.Come le Cantine d’Averno, che coltivano la pro-

pianti termali, in alcune zone sono visibili ai bordi delle strade i vapori solfurei, a Pozzuoli si vede il fango che bolle. Qui è diffuso il bradisismo (il suolo si alza e si abbassa di pochi centimetri ogni anno ma anche di qualche metro nel giro di una manciata di anni), un fenomeno che ha provo-cato lo sfollamento di interi rioni. Siamo in una zona sismica e spesso si avvertono scosse non solo percepite dai centri geosismici ma anche dalle per-sone che qui vivono. I nostri amici ci mostrano il paesaggio raccontando quello che sta sotto la terra e scherzando, ma mica tanto, ci dicono: “Lo vedete tutto questo? Un giorno non ci sarà più!”.

“QUA LA TERRA TREMA VERAMENTE!”. È la prima cosa che ci dirà Emilio accogliendoci.Arriviamo nei pressi del lago salato formato in un cratere spento.Il Lago d’Averno porta con sé leggenda e mito, Vir-

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TESTATINA AGRICOLTORI

Pozzuoli

Caserta

Napoli

Arco Felice Cantine dell'Averno

Lago Averno

Napoli

pria uva, che vinificano e imbottigliano, sono in sette, otto. Forti sono le criticità che rischiano di portare il territorio a non essere più zona agricola. Napoli è vicinissima, i prezzi delle terre qua sono molto alti, aleggia e a volte proprio si concretizza la speculazione edilizia, devota soprattutto al turismo e alla ricezione.In zona Emilio è un piccolo vignaiolo ma il suo

“Vigneto storico Mirabella” (nel versante nord orientale del lago) per quanto piccolo è il più grande come estensione, per gli altri, una miriade di piccoli appezzamenti di terreno. Non fatichiamo a credere che collocazione, espo-sizione e microclima qui siano unici e adatti alla viticoltura e anche all’orticoltura.

LA VIGNA È BELLISSIMA, IL PAESAGGIO SURREALE. In cima alla vigna, le rovine di un’antica costru-zione di epoca romana andata distrutta con un’eruzione vulcanica. Intorno a questa si apre un panorama letterario di antiche divinità, leggende, narrazioni mitiche. Si tratta di un antico complesso termale, molto grande, che utilizzava sorgenti d’acqua calda che ancora oggi attraver-sano il sottosuolo.Adalgisa, moglie di Emilio, ci raccon-ta che mentre scavavano tra le vigne hanno trovato una sorgente termale. Un tino di legno, un tavolino e un bic-chiere di Falanghina, è bastato poco per fare una sauna coi fiocchi.Il vigneto ha piante di circa ottant’anni, qualcuna anche di più.La vigna è quasi interamente a piede fran-co, la fillossera è arrivata, ma non ha mai fat-to danni importanti. I vitigni sono Piedirossso, Falanghina e Aglianico. Il vigneto si trova sulla base di Monte Nuovo, praticamente sull’ultima eruzione del 1538. In campagna tutte le lavorazioni vengono fatte a mano, compreso il diserbo. Non usano diserbanti e concimi chimici. I trattamenti sono quasi tutti fatti con rame e zolfo, a parte qualche trattamen-to con prodotti citropici e loco-sistemici.Nella piccola cantina, la vinificazione avviene in contenitori d’acciaio a temperatura controllata. Per far partire la fermentazione utilizzano dei lieviti selezionati. Hanno provato a far partire la fermentazione spontanea; la fermentazione par-tiva, ma non sono rimasti soddisfatti dal punto di vista organolettico. Producono quattro vini: due Falanghine e due Piedirosso. La Falanghina del vigneto del canneto (il vigne-to storico) l’affinano in barrique usate, per un

anno e altri sei mesi in bottiglia. Il Piedirosso del vigneto del canneto è affinato in botti grandi da venti ettolitri per un anno e poi sei mesi in botti-glia. L’altra Falanghina e l’altro Piedirosso di altri vigneti vengono affinati in acciaio e in bottiglia senza passaggi nel legno. In totale producono quindicimila bottiglie l’anno. Ci congediamo presto, rammaricati per il poco tempo a disposizione e con la promessa di tornare presto per conoscere meglio questo territorio, per goderci ancora questo angolo che non avevamo immaginato così magico; giusto il tempo di assa-porare una bottiglia di Falanghina Campi Flegrei dop Vigna del Canneto 2013. Buono! Non sa di violetta! Una goduria, facciamo proprio fatica ad alzarci dalle sedie nei pressi del ristoro col sole che ci scalda, il lago e le vigne sullo sfondo. A casa, con un’ottima pasta cucinata da Roberto – i pomodo-ri del suo orto – cerchiamo di consolarci ancora con una Bottiglia di Piedirosso dop Campi Flegrei 2013: Salute, in alto i calici! A Napoli, a Roberto, a Luca, ad Andrea, a Rubina, a tutta Napoli Moni-tor, agli operatori di Traparentesi onlus, a Emilio, a suo fratello, ad Adalgisa e ai Campi Flegrei. Ar-rivederci.

La Terra Trema l’ho conosciuta perché ho dei parenti di mia moglie che frequentano il Leoncavallo e loro mi hanno sempre parlato di questa manifestazione per cui… sono venuto!La cosa bella di quei tre giorni è che c’è un pubblico normale, quella è la cosa fondamentale, in altri posti ti rompi il cazzo, tutta questa gente che ha fatto sti mezzi corsi di sommelier e hanno tutti lo stesso approccio col vino. Un approccio che non è naturale, guarda che è brutta ‘sta cosa.Al Leoncavallo vengono ragazzi giovanissimi e anche persone adulte, ma non mi vengono a dire “profumo di violetta”, mi chiedono come lavoro, da dove vengo. Qua hanno fatto diventare il vino una cosa d’élite. Qua o arrivano quelli che pensano di sapere tutto perché hanno fatto quindici giorni di corso da sommelier o quello in imbarazzo che non dice nulla perché teme di fare una brutta figura. Tanti posti in Italia sono così, tante sono le persone che hanno questo approccio, persone che si avvicinano al vino naturalmente è difficile trovarle… ma La Terra Trema è bella, mi piace assai là.

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SONO INTERNEVENUTI

FUNKY TOMATO (Puglia/Basilicata):Giulia Anita Bariwww.funkytomato.it

RADIO GHETTO (Puglia):Abdoul KoneSimone Cremaschiradioghettovocilibere.wordpress.com

PUNTO UVA (Emilia Romagna):Miguel Angel Sepulveda MolinaAmedeo PannunzioEnrico Donatipuntouva.org

IL LAVORO BRACCIANTILE IN AGRICOLTURA RACCONTATO DA TRE REALTÀ CHE IN UN CONTESTO DI SFRUTTAMENTO E ISOLAMENTO HANNO PROVATO A COSTRUIRE ESPERIENZE DI FILIERE E COMUNICAZIONE PARTECIPATE DI QUALITÀ. a cura della Redazione, illustrazioni di Andrea Rossi

BASSISSIMATERRA

Abbiamo invitato Funky Toma-to, Radio Ghetto e Punto Uva in occasione dell’ultima edizio-ne per discutere su alcuni temi che abbiamo particolarmente a cuore. Il principio alla base di questi incontri è che mol-te realtà che agiscono bene all’interno degli stessi raggi d’azione, rimangono poco co-

nosciute all'esterno. In un tempo malato come il nostro, incontrarsi, confrontarsi e conoscere pra-tiche differenti portate avanti da gruppi e persone che condividono con noi simili preoccupazioni, è un aspetto di vitale importanza. Quando ci siamo affacciati al mondo dell’agri-coltura abbiamo spesso gettato uno sguardo par-ticolare alla dimensione del lavoro. Da una parte c’è la specificità dei produttori e dei territori da

cui provengono, soprattutto in ambito vitivinico-lo. Dall’altra parte c’è l’aspetto delle condizioni di lavoro in agricoltura, a fornirci un metro di giudizio sulle dinamiche dello sfruttamento nei campi, laddove le forme della schiavitù contem-poranea e le tragedie si manifestano quotidiana-mente, sotto gli occhi e la complicità dei molti.Nell’anno di Expo, la retorica sull’agricoltura ha invaso l’immaginario collettivo, mentre in pochi hanno ragionato su quello che succedeva nei campi. L’incontro dell’ultima edizione è sta-to un momento per cominciare a riflettere anche su questo, cercando di affrontare una questione complessa, senza trarre conclusioni affrettate, ma creando uno spazio di dibattito in divenire. Un progetto, una radio e un’associazione: Quello che segue è più o meno ciò che è emerso nel corso dell’incontro.

***

Io sono Giulia, di Funky Tomato, lavoro per un’organizzazione umanitaria che si chiama “Medici per i diritti umani”, ci occupiamo di as-sistenza sanitaria e legale all’interno dei ghetti. Sto arrivando adesso da Rosarno, in Calabria, dove vivo circa sette mesi l’anno per seguire la raccolta delle arance. Ho appena finito di seguire la raccolta del pomodoro in Basilicata, nella zona dell’Alto Vulture.(Mostra delle fotografie) Anche quest’anno i la-voratori del pomodoro del Vulture Alto Bradano hanno soggiornato in queste baracche di plastica e legno. Quello che vedete è il ghetto di Boreano, vicino alla bellissima cittadina di Venosa, patria di Orazio. Questo è il ghetto di Mulini Matinelle, siamo sempre in Basilicata, qui abbiamo case del-la riforma agraria abbandonate e ripopolate ogni anno da circa un migliaio di braccianti che accor-rono in queste aree per la raccolta del pomodoro.Queste sono le condizioni in cui si vive, ecco le stanze, questo è un centro di accoglienza creato dalla regione Basilicata, è stata usata una struttu-ra pubblica, sono state divise e create delle piccole stanze, all’interno delle quali hanno soggiornato pochi lavoratori.Arriviamo al lavoro: questa è la squadra di ragaz-zi africani, stiamo parlando di persone che per la maggior parte hanno un regolare permesso di soggiorno, in particolare per protezione interna-zionale, rifugiati politici, protezione umanitaria, sussidiaria. Le principali nazionalità sono il Bur-kina Faso, il Mali, l’Africa subsahariana.Bins in italiano vuol dire bidoni. Ogni bins sono trecento chili di pomodoro da industria. La pian-ta viene strappata e poi scossa all’interno dei bi-doni affinché il pomodoro cada. In questo caso i lavoratori raccolgono tra i venti e i trenta bidoni al giorno, quindi fate il calcolo: trecento chili per venticinque bidoni al giorno come vengono re-tribuiti...? Ci sono situazioni più complicate, so-prattutto in Basilicata dove esiste il lavoro grigio: io formalmente ho una busta paga, però prendo la paga prevista dai contratti provinciali del la-voro. In realtà lavoro il doppio del tempo a metà dei soldi.In un sistema in cui l’ispettorato del lavoro non fa il suo lavoro, quest’anno sono leggermente au-mentati i contratti e gli agricoltori si lamentava-no, dicevano che erano vessati da questo sistema di controlli che effettivamente non c’era mai sta-to. D’altra parte lo stesso ispettore, nel momento dell’ispezione, senza l’ausilio di un mediatore che possa anche svolgere una funzione di informa-zione verso i lavoratori… quello che percepisce, le informazioni che lui avrà è che sì, noi abbiamo il contratto, noi abbiamo la busta paga. Il lavorato-re poi, dall’altra parte, vivendo in una condizione tale non è spinto a denunciare.

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QUELLO CHE VEDETE È IL GHETTO DI BOREANO, VICINO VENOSA, PATRIA DI ORAZIO. QUI ABBIAMO CASE DELLA RIFORMA AGRARIA RIPOPOLATE OGNI ANNO DAI BRACCIANTI

RAPPORTI DI PRODUZIONE

Da questa esperienza sul campo, unita all’espe-rienza di alcuni braccianti, quella di un sociolo-go e di alcuni agricoltori, è nata l’idea di Funky Tomato. Dopo anni passati all’interno dei ghetti abbia mo detto: Adesso il pomodoro lo producia-mo noi.Questo progetto parte da alcuni presupposti: La mancanza di manodopera italiana da una parte, le condizioni estreme di vita dei lavoratori, i bas-si prezzi imposti dai commercianti, dalla grande distribuzione, dalle multinazionali… l’aranciata Fanta, per esempio, è fatta dalle arance di Rosar-no. Adesso c’è una grande campagna che si chia-ma Filiera Sporca che sta iniziando a mettere le mani all’interno di questi sistemi.Le competenze degli agricoltori di mettere in atto per i propri prodotti dei processi di commercia-lizzazione e di comunicazione innovativi sono scarse. La difficoltà per i consumatori è di capire che cosa stanno mangiando. Dove abbiamo pro-dotto noi sono tutti territori di enormi latifondi di pomodoro industriale. Abbiamo messo in piedi questo progetto che prevede la creazione di squa-dre di lavoro, il prossimo anno si estenderà a di-versi luoghi. Si è creata una squadra composta da quattro persone, due del Burkina Faso, un ragaz-zo del Senegal e una ragazza italiana, che hanno lavorato sia alla raccolta che alla trasformazione del prodotto, in un’azienda che sta proprio in Ba-silicata, che le banche si stanno mangiando. Al fine di sostenere questa realtà e di essere anche portavoce, abbiamo preso in affitto il laboratorio all’interno di questa azienda e abbiamo messo in piedi una filiera trasparente e partecipata.Coloro che volevano comprare questo vasetto di pomodoro trasformato in maniera artigianale non avrebbero potuto acquistarlo dopo, a vaso ultimato. Se la filiera deve essere partecipata dob-biamo accollarci tutti i rischi della produzione, allora i clienti si sono fatti produttori e hanno acquistato il pomodoro nel momento in cui l’ab-biamo seminato. In questo modo abbiamo potuto sostenere i costi della produzione e avere un pro-dotto che fosse legale sia dal punto di vista del lavoro che della qualità.Tutto questo supportato da un apparato di comu-nicazione che ci ha portato a fare una campagna in giro per l’Italia, e spiegare, raccontare quello

che succedeva sui campi e perché si era deciso di produrre in questo modo.Da qui è nato Funcky Tomato. “Funky” perché è una musica che nasce dalla contaminazione. E poi nelle nostre campagne non si ascoltano più le pizziche, ma ci sono tanti smartphone che ripro-ducono musiche diverse.Per il prossimo anno stiamo elaborando un pro-tocollo di lavoro che verrà sottoposto agli agricol-tori, tutti quelli che vorranno partecipare verran-no sostenuti nelle spese d’investimento iniziali per produrre, sia economicamente che attraverso strumenti di comunicazione. Le aree investite sa-ranno la Sicilia, la Campania, la Piana del Sele, la Puglia e la Basilicata.

***

Io sono Abdoul di Radio Ghetto, vengo dalla Co-sta d’Avorio. Nel mio paese c’è il lavoro minorile, la Costa d’Avorio è il primo produttore mondiale di cacao. Da noi ci sono bambini che vanno a lavorare nei campi e che non vanno a scuola. Ci sono persone, associazioni e madri che cercano di indagare, ma il governo non vuole che queste cose vengano allo scoperto. Dai noi si dice che dove c’è un problema c’è una soluzione. Se non c’è problema non c’è soluzione. Qua c’è un pro-blema anche se alcuni fanno finta di non vederlo.Alcuni di noi hanno fratelli e sorelle che la mat-tina si svegliano alle cinque per andare nei cam-pi quindici, sedici ore al giorno, per guadagnare niente. Dobbiamo essere consapevoli di quello che facciamo. Nella mia famiglia non mangiamo

cioccolato perché sappiamo quello che c’è dietro. Tante persone non lo sapevano cosa c’è dietro la raccolta dei pomodori. Oggi l’hanno saputo e non possono più dire che non lo sapevano.La radio sono alcune persone, giovani che voglio-no sostenere i braccianti, dando la parola a chi non ha avuto la possibilità di parlare, divertirsi un po’ dopo il lavoro, ascoltare un po’ di musica.Il ghetto è isolato, in provincia di Foggia, in Pu-glia. È il luogo dove vivono più di 2 mila persone. C’è tutta l’Africa, è proprio un villaggio africano in Italia, è il luogo dove vivono i braccianti, brac-cianti di che cosa… la melanzana, il pomodoro, tante cose. Raccogliamo tante cose.Il ghetto è un luogo che per arrivare è già un pro-blema. Ci sono due pullman che vanno lì, uno la mattina presto, alle sei, se lo perdi devi aspetta-re mezzogiorno. Ti lasciano a quattro chilometri dal ghetto e poi devi andare a piedi se riesci ad arrivare, perché devi superare una montagna di spazzatura.E quando arrivi ci sono le baracche dei braccianti. Queste baracche misurano venti metri quadrati. Ci vivono in quaranta, cinquanta persone dentro, ci sono i materassi singoli, che tu paghi quaranta euro al proprietario, al caporale, e stai lì per tutta la stagione della raccolta.Nel ghetto non c’è nessuna sicurezza e nessun tipo di igiene, non c’è la luce, non c’è l’acqua po-tabile, non ci sono i bagni. Non c’è niente ma comunque ci sono i lavoratori.Ci sono questi market, dei caporali, che vendono i loro prodotti, perché siamo lontani dalla città ed è difficile camminare per andare e tornare. Per cui siamo obbligati a comprare queste cose nei loro negozi, che vendono al doppio dei prezzi normali. O vendono delle cose scadute che siamo obbligati a comprare perché non abbiamo scel-ta. Il Comune porta due cisterne d’acqua, una la mattina e una a mezzogiorno, per più di 2 mila persone. Se tu stai a lavorare non vedrai l’acqua potabile quel giorno.Voglio descrivere il lavoro… la raccolta. Siamo abituati a entrare in contatto con questi inter-mediari… gli agricoltori li chiamano dicendo: “Il mio campo di pomodori è pronto, vogliamo fare la raccolta domani o dopo domani? Ci sono cin-que, dieci camion che devono arrivare”. E lui lì

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PRIMAVERA 2016

COSA FACCIAMO NOI... IN REALTÀ MOLTO POCO. OGNI GIORNO CI SVEGLIAMO, MONTIAMO LA NOSTRA ANTENNA E INIZIAMO LE TRASMISSIONI.

nel ghetto ha le squadrette e gli dice: “Domani dobbiamo andare a lavorare”. Noi che non ab-biamo squadra siamo obbligati ad alzarci alle tre di mattina, andiamo a fare la fila sui bordi della strada e lì ci sono dei furgoncini che aspettano e così il caporale arriva e dice: “Salite, voglio ven-ti persone o trenta, quaranta o cinquanta”. Per un furgoncino che è per dieci persone. Salgono venti trenta persone che stanno strette, e le por-tano. Sul luogo di lavoro non c’è nessun tipo di sicurezza, non ci sono gli stivali, i guanti, niente. A volte compriamo noi i guanti dai cinesi a un euro e cinquanta, che durano una giornata e poi sono da buttare via. Porti delle scarpe, porti qual-cosa per andare a lavorare. E non ti fanno sapere mai quanto prendono a cassone dal proprietario, ti dicono solamente che il cassone è tre euro o tre euro e cinquanta, o se vuoi lavorare per ora, un’ora tre euro sicuramente. Devi lavorare più o meno dodici ore al giorno. Inizi alle cinque a vol-te, fino alle sei del pomeriggio. E dopo ti portano a casa. E quando arrivi a casa devi cercare l’acqua. Se stai lavorando a ore il proprietario italiano ini-zia a gridare: “Non devi fermarti!”. Ti lasciano mezz’ora di riposo, alcuni ti lasciano riposare, altri no. Tante volte abbiamo ricevuto i carabi-nieri per i controlli. Vedono bene che non hai contratto, che non hai niente. Ti guardano solo il permesso di soggiorno e vanno via. C’era un al-tro sistema ancora, ti facevano fare dei contratti falsi, comunque qualcosa di scritto, un nome che non è neanche il tuo e ti fanno firmare. Ti dicono che quando vengono i carabinieri devi presentare questo e devi dire che ti chiami così e basta; i ca-rabinieri vedono tutto, che non va bene e che ci sono le cose false, e dicono va bene tutto a posto, e vanno via. Poi quando arrivi a casa, fai la doccia e tutto, riprendi la vita normale, sei stanco morto e devi riposarti un po’.

*** Io sono Simone, di Radio Ghetto. Il ghetto di Rignano ha la caratteristica di essere grosso, di essere lì da tempo, per cui è come una piccola città con un sacco di servizi. È difficile rendere l'idea ma hai le discoteche, i bar, il supermercato, i ristoranti. Hai una serie di cose che troveresti in una città normale.In realtà la maggior parte dei ghetti dove vivono i braccianti che lavorano in agricoltura non sono così; sono case sperdute, penso che a Rosarno la situazione sia peggiore. A Rignano si creano si-tuazioni tipo gente che viene in vacanza a trovare gli amici e passa due settimane al ghetto.Molto spesso nella politica la questione viene af-frontata in maniera superficiale, urlando contro il caporalato, sequestrando i beni, puntando tut-to sul caporalato e poco altro. Ma questa situazio-ne nel sud è dovuta a vari fattori.Primo, le politiche sull'immigrazione mettono una parte della popolazione in una condizione estrema di ricattabilità. Non sono solo i migran-ti irregolari a essere ricattabili ma anche quelli regolari, per come è strutturato il nostro permes-so di soggiorno, nel momento in cui perdi il tuo lavoro dopo sei mesi scade il permesso. E spesso la gente che viene a lavorare è lì per guadagnare soldi per pagarsi il permesso di soggiorno presso un altro datore di lavoro.Il secondo fattore riguarda le filiere agricole e come sono strutturate. Quest'estate ho incon-trato due giornalisti di Al-Jazeera che hanno in-tervistato anche gli agricoltori, chiedendo loro se fossero coscienti della situazione. E la risposta che puntualmente viene fuori poi è che neanche questi agricoltori ce la farebbero a pagare i brac-cianti un prezzo giusto, perché il pomodoro gli viene riacquistato a prezzi ridicoli dalle multina-

zionali e dalla grande distribuzione.Terzo, le condizioni abitative di chi viene a lavora-re nella raccolta. Una massa di persone in estate devi metterla da qualche parte, e questo crea una situazione ulteriore di ricatto perché le persone vengono completamente segregate rispetto al resto della popolazione, e le uniche persone con cui riescono a interagire sono i caporali, perché sono le uniche integrate sul territorio, in grado di collegarli con i vari servizi, con i datori di la-voro. Questo crea ulteriore segregazione perché la gente vive lì, non parla una parola d’italiano per mesi, non vede una faccia di persona bianca a parte l'agricoltore che gli dice ti ho pagato, devi lavorare… L'altro problema è quello del collegamento: C'è l'agricoltore che ha bisogno di molte persone per raccogliere da un giorno all'altro e non è in grado di prenderle una per una e dirgli di lavorare per lui, quindi il caporale fa da intermediario diretto perché è in grado di raggruppare grosse quantità di persone in breve tempo, ed effettivamente offre un servizio utile in un certo senso, perché prende la gente dai posti, li trasporta facendogli pagare cinque euro, che a volte è un prezzo molto alto, a volte è il prezzo che farebbe pagare un'azienda pubblica, e copre questo vuoto strutturale che c'è di intermediazione, e che difficilmente può essere risolto toccando solo un tassello. Per cui faccio passare l'assunzione dai centri che creo in città, però poi tutta la gente vive nei ghetti e nessu-no può arrivare a sapere dove andare a lavorare. Piuttosto creo degli alberghi diffusi in cui met-to tutte le persone che arrivano per l'estate, così non hanno il problema dei caporali, della crimi-nalità organizzata che controlla la situazione, ma in realtà non ci sono i caporali per cui nessuno può lavorare perché non sa come raggiungere il datore di lavoro… Spesso sui giornali si vedono questi ghetti come il primo passaggio di un percorso d’integrazione per un migrante che arriva in Italia, si ritrova lì, fa questo lavoro il primo anno, o per una o due stagioni, e poi sale verso l'alto, riesce a trovare un lavoro in una fabbrica al nord, e poi riesce ad andare in Germania o chissà dove. In realtà ab-biamo incontrato molte persone quest'estate che sono in Italia da sei o sette anni, hanno perso il lavoro, vivere nella città grosse è impossibile per-ché devi pagarti l'affitto, perché non hai lavoro, perché è un ambiente ostile in cui non conosci nessuno, e quindi alla fine ti ritiri al sud, sei in una comunità di persone che ti sono amiche, tro-vi più o meno lavoro, paghi quaranta euro per tre mesi per dormire, che alla fine non è tanto para-gonato a un affitto in una casa al nord. Quindi tante persone arrivano giù anche dopo anni che sono vissute in questo paese. Oppure le seconde generazioni, ci sono tanti ragazzi, figli di immi-

grati, che sono qua da un certo tempo, che fini-scono la scuola e poi trovare un lavoro è molto duro, per cui la raccolta è un’opzione percorribile.Cosa facciamo noi... In realtà molto poco. Ogni giorno ci svegliamo, montiamo la nostra an-tenna e iniziamo le trasmissioni. È un formato assolutamente libero, nel senso che quello che cerchiamo di fare è mettere musica, intervenire, far prendere parola al maggior numero di perso-ne possibile. Abbiamo un generatore che serve a far funzionare la radio, è una delle poche fonti di elettricità del ghetto a cui potersi attaccare per ricaricare il telefonino. Abbiamo questa enorme massa di persone a ricaricare il telefono, e la ra-dio in questo modo diventa una sorta di piazza del villaggio, un punto di aggregazione, in cui tut-ti son lì a chiacchierare, ad aspettare che si liberi una presa, a litigare per le prese. Abbiamo molte persone che passano, e noi volontari abbiamo la fortuna di essere lì tutto il giorno per fare la radio e non per lavorare, stiamo lì e tiriamo in mezzo tutti, gli chiediamo da dove vieni, oggi non hai trovato lavoro, hai lo smartphone? Vuoi mettere una canzone? E questo di solito è il primo pas-saggio. E poi magari riusciamo a intervistare la persona che abbiamo conosciuto e man mano durante la stagione si crea un gruppo che insieme porta avanti la radio.Quest'anno stiamo cercando di vederci tutti un paio di volte, i braccianti che hanno fatto la ra-dio durante l'estate, i volontari, e cerchiamo di creare un momento di assemblea, se ci sono dei problemi possono essere discussi, ci sono delle informazioni utili da dare, per esempio il medico che non viene oggi ma viene domani. Da qual-che anno, ogni settimana ad agosto registriamo due puntate, una in italiano e una in francese, che vengono poi ritrasmesse in Italia e in Nord Africa, raccontando la vita del ghetto, il lavoro, la vita in Italia.

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Vorrei iniziare dicendo che cosa non è Punto Uva. Non siamo un’azienda, non abbiamo una strut-

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RAPPORTI DI PRODUZIONE

tura, non abbiamo personale che lavora per noi, non siamo una cooperativa, se saremo bravi lo diventeremo. Non siamo neanche un ufficio di collocamento, normalmente ci chiamano attra-verso il nostro sito per sapere se abbiamo bisogno di potatori, usiamo il più efficiente ufficio di col-locamento in Italia che è il passaparola. Non sia-mo una squadra di calcio, siamo sì una squadra, abbiamo giocatori stranieri, andiamo su e giù per il campo ma non siamo una squadra di calcio. Punto Uva è un’associazione di potatori auto-nomi che cerca di portare avanti un lavoro di partecipazione, responsabilità condivisa e intra-prendenza. Come braccianti agricoli è capitato, spesso, di dover lavorare in nero e sottopagati. Siamo tutti potatori. L’idea dell’associazione è nata potando le vigne. Era sempre successo che tra noi qualcuno trovava lavoro e chiedeva agli altri di unirsi per creare delle piccole squadre e la-vorare insieme, finché a un certo punto abbiamo pensato di riunirci sotto un unico nome, per tre finalità principali, la prima era formalizzare que-sto passaparola, la seconda era quella di avere più potere contrattuale nei confronti dei proprietari delle aziende, quindi cercare di avere condizioni lavorative migliori, per riuscire ad avere dei con-tratti, a prendere poi la disoccupazione agricola, i contributi, una paga migliore, questo poi è diven-tato uno dei punti principali; terzo, far rivalutare il mestiere del potatore manuale come elemento fondamentale nella filiera della produzione del vino, non come semplice bracciante agricolo ma come vero e proprio coproduttore della bottiglia

di vino finale. È nata questa idea, siamo stati dal commercialista a vedere quale poteva essere la forma che poteva rappresentare il nostro gruppo, inizialmente abbiamo pensato alla cooperativa, abbiamo subito visto che era inarrivabile, non avevamo i fondi necessari per stare dietro a quel tipo di spesa. Tra una cosa e l’altra è rimasta la figura dell’associazione, un tramite per poter es-sere considerati un gruppo, un veicolo per poter organizzare corsi di formazione sulla potatura, per farci riconoscere. Rimane il fatto che il pro-prietario dell’azienda deve fare contratti al singo-lo lavoratore, ci ha aiutato effettivamente per più potere contrattuale. L’associazione è nata formalmente il 30 luglio, all’inizio abbiamo cominciato ad accogliere tutti i potatori della zona (tra Casigno, Valsamoggia, Appennino Bolognese, Bologna) che volevano riunirsi, a un certo punto abbiamo chiuso le iscrizioni perché non c’era troppo lavoro ma l’in-tenzione è di riaprire per cercare di continuare a darci una mano a vicenda e cercare di tutelarci… una storia di bracciantato già vista.Parlando fra di noi abbiamo pensato: perché non certificare che il lavoro è stato fatto bene dalle persone che l’hanno fatto, che sono state trattate bene dal “padrone”, dal produttore?L’idea ci è venuta in mente guardando una botti-glia di vino, con due o tre bollini sopra, il bollino del biologico, il bollino dei produttori di vino di una determinata zona, e abbiamo pensato perché non facciamo un bollino per il lavoro etico, che dica che il produttore ha trattato bene i lavoratori e che i lavoratori hanno lavorato con coscienza, facendo le cose a regola d’arte, in modo da consi-derare il lavoro non più alla stregua di schiavismo ma come una collaborazione tra il produttore e i lavoratori “collaboratori”? L’idea è di provare a creare una rete che all’inizio si occupi di creare un disciplinare che faccia in modo che un prodotto ottenga il bollino per il lavoro etico assegnato dai lavoratori. È un’idea che si potrebbe anche esten-dere ai produttori di pomodori e ai lavoratori del-la filiera del pomodoro, in generale ai braccianti agricoli... creare una collaborazione tra braccianti e produttori che garantiscano condizioni etiche per la terra, per i lavoratori e per il prodotto.

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Noi di Funky Tomato ci siamo messi in rete con due realtà pugliesi. È un bollino di garanzia che

si chiama SfruttaZero e riguarda tutte le realtà che producono il pomodoro garantendo i diritti dei lavoratori e gli standard di qualità di un certo tipo. C’è stato un primo tentativo di esperimen-to quest’anno. Purtroppo è l’esperimento che sta facendo anche il governo. Dico purtroppo perché ci sono molte lacune in quello che sta facendo: le regioni, la Puglia e la Basilicata, hanno avviato un bollino etico per le imprese. La Puglia cosa ha fat-to l’anno scorso? Ha detto: “Dobbiamo risolvere questo problema dei ghetti e del lavoro mal pa-gato, quindi creiamo una task force…”, una task force che aveva mille obiettivi tra cui creare delle tendopoli che funzionassero… e produce un bol-lino etico di qualità per le aziende che si fossero iscritte e avessero cercato i lavoratori attraverso i centri per l’impiego, che avessero trasmesso le giornate di lavoro all’Inps. A queste aziende sa-rebbe stato dato questo bollino etico e un sussi-dio economico di un certo ammontare di euro per ogni lavoratore. La cosa è che nonostante si arrivasse per ogni lavoratore a un contribu-to di cinquecento, seicento euro, hanno parte-cipato al bando solo tre aziende di cui due di Libera. Questo ci dice quanto è più convenien-te schiacciare il lavoro dei lavoratori piuttosto che accedere a bonus elargiti dalla Regione. È ottima l’idea che siano i lavoratori a decreta-re la possibilità per quel prodotto di avere quel bollino. Noi abbiamo fatto questa etichetta tra-sparente in cui lasci vedere la percentuale che viene data al lavoro di raccolta, la percentuale per la trasformazione e la percentuale per la commercializzazione.

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Noi di La Terra Trema abbiamo ragionato spesso sulla certificazione, sulla questione del bollino, soprattutto sulla certificazione di tipo produtti-vo. Per i produttori che fanno parte del nostro circuito non sono le denominazioni a parlare per loro, ma le autocertificazioni e la relazione diretta che si è innescata tra di noi. Così oggi sappiamo molto dei produttori. Rispetto al lavoro non si può fare lo stesso errore fatto con le certificazioni alimentari e agricole. Poi arriva l’istituzione e l’istituziona-lizzazione del marchio con connessa monopo-lizzazione della certificazione stessa. Ma questo è un argomento che meriterebbe di essere ap-profondito meglio...

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RAPPORTI DI PRODUZIONE

FINALMENTEBIRRA

ARTIGIANALE?

Vogliamo approfittare di questa novità nel mondo della birra per elaborare una riflessione critica sui vecchi fermentati di cereali. Da pochi giorni, anche per la legge italiana, esiste la “birra artigiana-le”. Dagli anni Novanta infatti, periodo di nascita dei primi piccoli birrifici italiani, a oggi, nessuna azienda italiana che produce birra poteva definire il suo prodotto “artigianale”. Questo con grande

favore alle industrie e ai grandi marchi che vedevano il loro prodotto conside-rato commercialmente come quello di un piccolo artigiano. Le caratteristiche che un birrificio e una birra devono rispettare per poter definire il proprio prodotto artigianale riguardano l'indipendenza economica e legale da altri birrifici, indipendenza che riguarda anche strutture e attrezzature. Per quanto riguarda il prodotto in sé, non deve essere pastorizzato o microfiltrato; infine la produzione annua non deve superare i 200 mila ettolitri.

Riguardo il primo pun-to possiamo notare pregi e difetti. Questa normativa garantisce la “non artigianalità” per birrifici che vendo-no quote o che siano stati comprati da gran-di birrifici industriali, ma la stessa normativa permette a un piccolo birrificio con quote ac-quistate da distributori di bevande o da azien-de operanti in altri set-tori di essere definito artigianale. Una nota positiva è che se un birrificio non è incline a queste caratteristiche non può denominare nessun suo prodotto artigianale. Quindi un birrificio produce in modo artigianale o no. La normativa non prevede la produzione nello stesso stabili-mento o sotto lo stes-so nome societario di prodotti artigianali e non artigianali. Ri-guardo il limite pro-duttivo, la normativa prevede un massimale molto alto ma la qua-lità di un prodotto è da riscontrarsi nel me-todo produttivo e non nella quantità in cui viene prodotto. Con i dovuti limiti.Una grossa mancanza

che la normativa nazionale presenta è il mancato controllo negli ingredien-ti. Infatti in Italia viene definita birra (artigianale o no) una bevanda che contiene almeno il 60 per cento di malto d'orzo o di frumento. Per quanto riguarda la restante percentuale, nulla garantisce il non utilizzo di succedanei o prodotti chimici come conservanti e stabilizzanti se non la fiducia che il consumatore ha nel produttore.Manca ancora un’agevolazione (come succede in molti altri paesi)

sull'accisa (tassa sulla produzione di alcool da cui il vino per esempio è esente) dei piccoli produt-

tori che si trovano una tassazione superiore rispetto alle grandi industrie, venendo

tassati sul mosto prodotto (che subisce delle perdite durante la fermentazio-ne e il condizionamento) invece che sul prodotto confezionato. Tirando le somme, questa normativa migliora sensibilmente il panorama legislativo italiano, ma come spesso accade non basta per garantire ciò che noi consumiamo. Per tutto ciò

bisogna continuare a seguire i meto-di tradizionali: conoscenza e fiducia nel

produttore locale.

VIENE DEFINITA BIRRA UNA BEVANDA

CHE CONTIENE ALMENO IL 60

PER CENTO DI MALTO D'ORZO O DI FRUMENTO

ANCHE IN ITALIA LA BIRRA ARTIGIANALE È STATA RICONOSCIUTA PER LEGGE. UN COMMENTO SUGLI ASPETTI POTENZIALI E CRITICI DI QUESTA NOVITÀ testo e foto di Renato Marzorati

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PRIMAVERA 2016 CULTURA MATERIALE

Il nostro racconto parte dal lontano 1820, fine novembre, quando un pescatore di Gual-tieri, tale Carlo Simonazzi, re-candosi nella golena del Po, nota, sulla riva sinistra dell'af-

fluente Crostolo, una vite piena d'u-va, ancora “eccezionalmente rigo-gliosa, tutta carica di sani e numerosi grappoli di uva nera”. Meravigliato di tale prodigio - siamo a fine novem-bre! - e con curiosità contadina, de-cide di trapiantarla nei suoi terreni, rendendo partecipi della sua scoperta altri contadini.E così inizia la leggenda dell'uva fo-garina, un uvaggio che già dal ritro-vamento porta dentro di sé un alone di sacro e misterioso: uva resistente al gelo, donata ai gualtieresi dal fiu-me Po, soprattutto di qualità orga-nolettiche uniche per quel periodo: «Color rosso rubino vivacissimo, schiuma rossissima, limpido alla perfezione, ricco di quel suo specia-le profumo aromatico che sta tra il lampone e il ribes, con un'acidità fissa grandissima su 13, 14 gradi per litro, preziosissimo tipo per taglio per rianimare e vinificare vini scialbi e bassi, o anche per vini eletti ma man-canti di acidità».Dopo anni di prove si capisce che il terreno che la fogarina predilige è proprio quello del suo ritrovamento, quello golenale soggetto alle piene del Po. Il buon vino, si sa, nasce dalla qualità dell'uva, dal terreno, dall'e-sposizione al sole, dal sudore di chi la produce. Ma forse non solo, c'è altro, che solo Luigi Veronelli poteva comprendere.Ci racconta Gino Veronelli che tornando a far visita a un vignaiolo – lui sì, camminava la terra - notò che aveva recintato il vigneto. Ne chiese il motivo e si sentì rispondere: “Sai Gino, di notte vengono ragazzi e scopano nel vigneto, quindi... ho preferito chiudere”.“Guarda”- gli rispose Gino - “che stai sbaglian-do, ho la presunzione di credere che se due ragazzi fanno l'amore nel vigneto, quell'anno l'uva darà certamente un vino migliore”. E guardate l'esem-pio che porta per spiegare la resistenza dei barolo di Monforte. Nientemeno che l'eccidio milanese dei Catari perpetrato nel lontano 1028: “Ne son passati di secoli. I miei contadini hanno compiu-to miliardi di gesti sulla terra delle vigne e nelle cure dei vitigni. Per secoli e secoli la terra ha fatto suo l'orrore di quell'evento milanese che si rivela nell'assaggio del vino”.Il Po, nella bassa reggiana, non portò solo la fo-garina ma, verso la fine dell'Ottocento, idee che parlavano di giustizia, di libertà, di socialismo e anarchia e gli uomini, contadini, braccianti o scarriolanti che fossero, di queste discutevano nel-le pause di lavoro sotto al piantedi (fino a pochi anni fa i filari di vite erano nella Bassa a pergola e intervallati da piante che sorreggevano i pali, of-frendo così nell'estate la desiderata ombra). Così la fogarina condivise questi ideali e divenne un vi-tigno ribelle.Grazie alle sue caratteristiche la fogarina comin-ciò a essere esportata in tutta Italia, finanche in Francia, contaminando e mescolandosi a tanti vini, meticciandoli possiamo dire. E chi, se non i grandi idealisti, contaminano con le proprie idee le società che vogliono rivoluzionare? Come pote-va nascere un vino come il “Rosso unito” che, mi spiega Claudio Solito, “nasce da un progetto tra viticoltori provenienti da territori lontani ma vi-

ANTONIO E LA LEGGENDA DELL'UVAFOGARINAGUALTIERI, UNA CINQUANTINA DI CHILOMETRI DA REGGIO EMILIA, ARIA DI FIUME E SOCIALISMO, TERRA DI UOMINI E VINI ALIENI ALLE REGOLE di Giuseppe Caleffiillustrazione di Andrea Rossi

cini nei valori e nel modo di sentire, che vogliono confrontarsi, rompere stereotipi culturali e affer-mare la superiorità della sola e unica madre terra”, senza il precedente della fogarina?Quella sua schiuma “rossissima” è un segno pre-ciso, e provate a stapparla: la fogarina, come tutte le persone libere, non ama essere rinchiusa, per cui se dalla cantina nelle calde giornate estive sentire-te dei botti, tranquilli, è la fogarina che fuoriesce dalla bottiglia, così come farà quando andrete a berla in compagnia. E qui gustatevi il momento in cui il vino, ormai libero, vi si offre. Naturalmente con i bicchieri pronti.E durante il fascismo, qual è, caso unico, quella cooperativa che non subisce la traumatica chiusu-ra? Sì, proprio la “Cantina Sociale fra produttori di uva fogarina”.Nel febbraio 1945 è il pittore Antonio Ligabue che, invitato a cena in un’osteria locale dal comandan-te tedesco, gli rompe una bottiglia di fogarina in testa. “Quell'atto di giustificata violenza e di legit-timo risentimento morale non fu solo un'esplo-

sione di protesta occasionale d'un animo violento perverso o pazzoide, ma fu un grido di ribellione al grido di continue imposizioni che la sua sensibile natura non riusciva a tol-lerare”.A Gualtieri, dopo la guerra, Cele-stino Caleffi segue la zia Giovanna aderendo al movimento anarchico e la vita della casa cambia. Da tutta Italia giungono militanti: Santo Pol-lastro, Aurelio Chessa, Nibbi, Furlotti sono alcuni dei nomi che a tutt'oggi ricordo. E con quale vino accompa-gnavano le interminabili discussioni, i ricordi, le vicende dei compagni e le canzoni che, io bambino e senza capirne il senso, spesso chiedevo di riascoltare? Già lo immaginate: con il lambrusco e fogarina vinificato da Celso Caleffi, che diceva che a casa sua si doveva bere il suo vino.Strani personaggi questi anarchi-ci descritti spesso come terroristi, violenti, ma che io vedevo arrivare sempre con prodotti tipici, vino e poi caterve di giornali e libri.La fogarina, poi, è l'unico vitigno ad avere una canzone dedicata, probabil-mente scritta dal compagno Cachi, al secolo Scansani Vasco, già autore della “Bella Ciao delle mondine” che ci rac-conta: “E come è bella l'uva fogarina e come è bello saperla vendemmiar, a far l'amor con la mia bella a far l'a-more in mezzo al prà”. Ricordando ciò che raccomandava Veronelli all'a-mico contadino e questo amoreggiare nei prati, comprendiamo la bontà del vino che ne deriva. Purtroppo, però,

la storia ci insegna che fino a oggi alla rivoluzione è sempre seguita la restaurazione e a questo desti-no non sfugge il nostro vitigno. L'acido tartarico viene prodotto chimicamente e la fogarina non è più richiesta. Per poter sopravvivere, come tutti i ribelli, deve nascondersi, e la fogarina lo fa riu-scendo a mimetizzarsi fra i filari di vite, aiutata in questo da quei contadini che non possono resiste-re al suo gusto inconfondibile.È grazie a questo suo sopravvivere in clandestinità che nel 1997 sono riuscito a trovarla e a procede-re agli innesti che hanno permesso a mio cugino Alberici Amilcare prima e alla Cantina Sociale poi di vinificarla.Nel 1919 Antonio Ligabue arriva a Gualtieri: non portato dal Po, ma perchè espulso dalla Svizzera. Altri “cavalieri erranti”, molti anni prima subi-rono la stessa sorte. Ci consegnarono una can-zone, “Addio Lugano bella” e un momento unico d'affermazione libertaria, ma anche con Ligabue qualcosa di grande si prepara. Lui è solo, senza il sostegno di compagni, italiano di madrelingua te-desca, catapultato in una situazione drammatica, il dopoguerra di Gualtieri. Aiutato dal mondo con-tadino che lo ospita nei fienili, ma non capito dal paese, che lo deride per quelle sue incomprensibili tradizioni svizzere e per l'ostinazione di presentarsi come grande artista. Ligabue, esasperato, si rifugia nella Golena, la stessa che abbiamo visto fornire l'habitat alla fogarina, preparare le lotte del bien-nio rosso. La golena per Ligabue è però esilio dalle persone, rifugio alle incomprensioni; vive in un casotto, deposito d'attrezzi, con l'unica compa-gnia degli animali che vivono e con i quali riesce a dare e ricevere quella comprensione-affetto che l'uomo gli rifiuta. Qui pone le basi della sua arte: sarà attraverso i suoi quadri che, millenni dopo Esopo, usando gli animali come simboli, parlerà agli uomini.

info www.museoligabue.it

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SCOSSE TELLURICHEPRIMAVERA 2016

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La stavo aspettando con ansia quella sera.

Così stava venendo a cena da me. Una pasta un po' sofisticata, ma avevo

preso quello splendido vino che proveniva dalla terra dove stava lei. Brillava

perfettamente tra quei calici poveri e tra quella poca e vecchia luce,

era perfetto.Non avevo ancora finito di sparecchiare

che stavamo già facendo l'amore tra i bicchieri e i piatti,

facendo cadere forchette.Quella bottiglia avanzò e la finii io il giorno dopo. C'erano dei

numeri dietro che indicavano qualcosa tra il dove e il

quando era stato fatto il vino, che controllai come facevo

da piccolo in autostrada quando guardavo le targhe e facevo dei conteggi astratti.

Avevo un attimo di vuoto, seguito da un sorriso che

non portava mai a niente. Mi faceva felice però.

I numeri quella sera erano tanti.

Cercai di dimenticarli. O forse ne diedi altri io.

Il 31 dicembre è scaduta l’autorizzazione all’utilizzo del Glifosato in Europa. La Commissione Europea è chiamata – a breve – a rinnovare o meno l’autorizzazione per altri quindici anni. Una serie di articoli, inchieste e ricerche scientifiche negli ultimi tempi hanno aumentato

la pressione dell’opinione pubblica su questa sostanza che è alla base di quasi tutti gli erbicidi in commercio.Da qualche tempo circola in rete una petizione che invito a firmare in massa, innanzitutto in quanto cittadini prima che consumatori o produt-tori di derrate agricole.Ma non era di questo che volevo parlare.Credo infatti che firmare una petizione non basti più. Così come non ba-stano le tante “opinioni” espresse in questi giorni, a cominciare da quella di Carlo Petrini di Slowfood dalle pagine de La Repubblica.Credo che questa battaglia sul Glifosato interroghi, infatti, il senso pro-fondo del nostro lavoro di agricoltori e debba farci rispondere più ap-profonditamente a una domanda divenuta cruciale: può andare avanti un'agricoltura europea in mano a lobby e lobbisti, in cui le decisioni fon-damentali su cosa e come coltiviamo vengono prese senza alcun proces-so veramente democratico?

Questa è la partita in gioco.E in questa partita le tante associazioni del vino naturale europee, sempre così pronte a far nascere nuove fiere e nuovi spazi di mercato, non pos-sono restare silenziose e non caricarsi di un ruolo importante.

Questa è l’occasione.L’occasione per andare in massa a Bruxelles, per esempio, a far sentire le ragioni di un intero movimento. Per una volta si prenderà un treno o un auto o un aereo non per andare all’ennesima degustazione ma per fare qualcosa di giusto per il pianeta e per i cittadini.Proviamoci, almeno.È necessario costruire velocemente una piattaforma sul tema della messa al bando del Glifosato in Europa, unendo tutti i vignaioli naturali e cercan-do di portare una massa critica laddove i burocrati europei sono chiamati a prendere una decisione.

Corrado Dottori, La Distesahttp://ladistesa.blogspot.it/2016/03/call-for-action-against-glypho-sate.html

MOBILITARSI CONTRO IL GLIFOSATO