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STORIA CONTEMPORANEA XIX. Guerra fredda e decolonizzazione di Federico Romero SOMMARIO: I «due blocchi» e il Terzo Mondo - Un nuovo equilibrio di potenze - Da alleati a nemici: nascita della «guerra fredda» - La strategia americana in Europa: aiuti economici e «contenimento» - Le elezioni del '48 in Italia - Il blocco di Berlino e la divisione della Germania - L'Europa occidentale e la garanzia americana - II blocco comunista e la sovietizzazione dell'Est europeo - La Jugoslavia e l'«ere- sia» di Tito - Le due Europe: equilibrio e stabilità - L'Urss potenza nucleare e la rivoluzione comunista in Cina - La guerra di Corea - Riarmo e alleanze militari: la Nato e il Patto di Varsavia - Antagonismo ideologico - Il 1956: la rivolta polacca e l'insurrezione ungherese - Un nuovo protagonista: il mondo non industrializzato - Gli anni quaranta e la definitiva decolonizzazione del continente asiatico - La questione palestinese: ritiro inglese e nascita dello Stato di Israele - La logica bipolare conquista il Medio Oriente - Fine dei colonialismo inglese e francese - La guerra di liberazione algerina - L'Africa sub-sahariana: una decolonizzazione convulsa - Nehru, Sukarno e Nasser: nascita del «terzomondismo» - II movimento dei paesi «non allineati» - Un nuovo terreno di contesa tra le superpotenze - L'orbita sovietica - L'ambito dell'egemonia americana - Il «muro» di Berlino e la repressione della «primavera di Praga» - Chruščëv e la «coesistenza pacifica» - Kennedy e la «nuova frontiera» - La crisi di Cuba: nascita della «deterrenza» - II modello americano: modernizzazione e democratizzazione - La guerra del Vietnam e lo scacco ameri- cano - Due giganti indeboliti - Gli accordi per il disarmo bilaterale e controllato - Uno scontro di ideolo - gie o un conflitto di interessi? - La guerra fredda dal cuore europeo allo scenario mondiale - Fine del bipolarismo e fine del Terzo Mondo. 1. Il problema Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale il sistema intemazio- nale si polarizzò intorno ai due grandi vincitori. Stati Uniti e Unione Sovietica. Tra il 1945 e il 1947 essi passarono dalla cooperazione antinazista a un reciproco antagonismo che divise l'Europa e altre parti del mondo in due blocchi di allean- ze reciprocamente impermeabili, via via sempre più armati e aspramente contrap- posti in un conflitto ideologico e geopolitico che si fermò solo sulla soglia dello scontro militare diretto. Gli equilibri strategici e le contrapposizioni ideologiche in Europa, sin dal do- poguerra, furono dunque profondamente segnati dalla preponderanza di questi due poli, americano e sovietico (bipolarismo). Sorge il problema se tale bipolari- smo sia stato pieno, o asimmetrico e squilibrato a favore degli Usa. La logica bi- polare si estese progressivamente anche a talune zone extraeuropee, apparendo ai contemporanei come uno scontro planetario tra Democrazia occidentale e Comu- nismo. È esatta questa percezione? O l'affermarsi di nuove nazioni indipendenti, 475 I «due blocchi» e il Terzo Mondo

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STORIA CONTEMPORANEA

XIX. Guerra fredda e decolonizzazione

di Federico Romero

SOMMARIO: I «due blocchi» e il Terzo Mondo - Un nuovo equilibrio di potenze - Da alleati a nemici: nascita della «guerra fredda» - La strategia americana in Europa: aiuti economici e «contenimento» - Le elezioni del '48 in Italia - Il blocco di Berlino e la divisione della Germania - L'Europa occidentale e la garanzia americana - II blocco comunista e la sovietizzazione dell'Est europeo - La Jugoslavia e l'«ere- sia» di Tito - Le due Europe: equilibrio e stabilità - L'Urss potenza nucleare e la rivoluzione comunista in Cina - La guerra di Corea - Riarmo e alleanze militari: la Nato e il Patto di Varsavia - Antagonismo ideologico - Il 1956: la rivolta polacca e l'insurrezione ungherese - Un nuovo protagonista: il mondo non industrializzato - Gli anni quaranta e la definitiva decolonizzazione del continente asiatico - La questione palestinese: ritiro inglese e nascita dello Stato di Israele - La logica bipolare conquista il Medio Oriente - Fine dei colonialismo inglese e francese - La guerra di liberazione algerina - L'Africa sub-sahariana: una decolonizzazione convulsa - Nehru, Sukarno e Nasser: nascita del «terzomondismo» - II movimento dei paesi «non allineati» - Un nuovo terreno di contesa tra le superpotenze - L'orbita sovietica - L'ambito dell'egemonia americana - Il «muro» di Berlino e la repressione della «primavera di Praga» - Chruščëv e la «coesistenza pacifica» - Kennedy e la «nuova frontiera» - La crisi di Cuba: nascita della «deterrenza» - II modello americano: modernizzazione e democratizzazione - La guerra del Vietnam e lo scacco ameri-cano - Due giganti indeboliti - Gli accordi per il disarmo bilaterale e controllato - Uno scontro di ideolo­gie o un conflitto di interessi? - La guerra fredda dal cuore europeo allo scenario mondiale - Fine del bipolarismo e fine del Terzo Mondo.

1. Il problema

Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale il sistema intemazio- nale si polarizzò intorno ai due grandi vincitori. Stati Uniti e Unione Sovietica. Tra il 1945 e il 1947 essi passarono dalla cooperazione antinazista a un reciproco antagonismo che divise l'Europa e altre parti del mondo in due blocchi di allean­ze reciprocamente impermeabili, via via sempre più armati e aspramente contrap­posti in un conflitto ideologico e geopolitico che si fermò solo sulla soglia dello scontro militare diretto.

Gli equilibri strategici e le contrapposizioni ideologiche in Europa, sin dal do­poguerra, furono dunque profondamente segnati dalla preponderanza di questi due poli, americano e sovietico (bipolarismo). Sorge il problema se tale bipolari­smo sia stato pieno, o asimmetrico e squilibrato a favore degli Usa. La logica bi­polare si estese progressivamente anche a talune zone extraeuropee, apparendo ai contemporanei come uno scontro planetario tra Democrazia occidentale e Comu­nismo. È esatta questa percezione? O l'affermarsi di nuove nazioni indipendenti,

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I «due blocchi»e i l Terzo Mondo

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e la loro ricerca di vie autonome allo sviluppo danno invece un senso autonomo ai conflitti extraeuropei, e delineano molti e diversi protagonisti in quello che si co­mincia a chiamare il Terzo Mondo, per distinguerlo dal Primo Mondo rappresenta-to dall'Occidente e dal Secondo Mondo dell'Est europeo? Composito e diversifica­to, il Terzo Mondo non riuscì mai a costituire una vera alternativa all'antagonismo bipolare, ma la sua stessa esistenza, e il suo complesso rapporto con un'economia internazionale in espansione, resero evidente che il sistema della guerra fredda non comprendeva, e tanto meno esauriva, l'intero scenario mondiale.

2. Il dopoguerra.

Nel 1945, dopo aver sconfitto le armate tedesche, l'Unione Sovietica era la principale potenza europea. Gli Stati Uniti avevano vinto la guerra in Europa occidentale e in Estremo Oriente, dominavano gli oceani, detenevano la bomba atomica* e disponevano di una soverchiante forza produttiva e finanziaria. La Germania e il Giappone, distrutti e occupati, non appartenevano più al novero delle potenze. La Gran Bretagna sedeva tra i vincitori ma aveva esaurito gran parte delle sue risorse imperiali, e doveva affidarsi all'aiuto americano; ancor più indebolita e ridimensionata appariva la Francia. L'Italia e gli altri paesi eu­ropei, travolti da una guerra più grande di loro, potevano solo concentrarsi su una difficile ricostruzione.

Sia gli Usa che l'Urss auspicavano un dopoguerra di reciproca collaborazione, e nella Conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) istituirono l'Organizza­zione delle Nazioni Unite (Onu) per creare, e dirigere, un sistema internazionale pacifico e cooperativo. Ma gli interessi vitali degli uni e dell'altra non erano facil­mente conciliabili; e le loro diverse visioni del mondo, per molti versi incompati­bili, resero ogni mediazione via via più difficile. Mosca intendeva garantirsi da un'eventuale rinascita di una Germania forte e nuovamente minacciosa, e voleva assicurarsi il controllo su un'Europa orientale riorganizzata da governi «amici» (cfr. la lezione XVI). I dirigenti sovietici, inoltre, diffidavano della superiore po­tenza americana e ritenevano necessario sviluppare un sistema socialista chiuso e il più possibile autosufficiente. Le élites* politiche ed economiche americane vo­levano invece un mondo di mercati* aperti, interconnessi e organizzati intorno al ruolo cardinale del dollaro. Washington, infatti, concepiva la sicurezza e la pro­sperità della democrazia americana solo in un ambito internazionale di democra­zie capitalistiche. Voleva perciò che le altre maggiori aree industriali del mondo - Europa occidentale e Giappone - risorgessero come parte integrante di tale siste-ma e non rischiassero invece di chiudersi nel nazionalismo* economico o di pie­garsi a una qualche forma di influenza sovietica. Quest'ultima si era già imposta in Europa orientale, e non vi era modo di contrastarla direttamente, ma il presi­dente Harry Truman e il suo governo non erano disposti a vederla ulteriormente estesa, ritenendo che la preminenza economica e strategica americana desse loro le leve per realizzare un simile, ambizioso disegno.

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Un nuovo equil ibrio di potenze

Guerra fredda e decolonizzazione

Nell'immediato dopoguerra gli ex alleati si ritrovarono presto in disaccordo su tutte le principali materie di negoziato. Gli Usa e la Gran Bretagna contestavano la rigidità di un controllo sovietico sui governi dell'Europa orientale che a Mosca ap-pariva a invece legittimo e vitale per la propria sicurezza. La divisione in zone d'oc-cupazione militare della Germania - che ciascuno temeva di veder rinascere come soggetto indipendente e magari ostile, ma che gli occidentali non volevano neppu- re vedere sempre debole, e magari protagonista in futuro di un avvicinamento a Mosca - si trasformò gradualmente in vera e propria divisione amministrativa e poi politica tra una zona occidentale e una zona orientale; Berlino, che per quanto fosse situata all'interno di questa seconda parte era stata a sua volta divisa in zone assegnate agli occidentali e ai sovietici, divenne un punto di frizione tra gli uni e gli altri. Già nel 1946 Winston Churchill proponeva un'immagine di grande forza evocativa, quella della «cortina di ferro» fatta di tirannide e oppressione che stava scendendo a separare l'Europa dell'Est da quella dell'Ovest. In altre aree, come l'Iran e la Turchia, emersero nello stesso periodo contrasti che videro sovietici e americani impegnati in aspri dissidi diplomatici. Nella prima metà del 1947, men- tre i sovietici paventavano il rischio di un accerchiamento ostile, gli americani eri­gevano a pericolo centrale del dopoguerra quello di un'espansione dell'influenza sovietica, e si risolvevano a contrastarla con una ferma strategia di contenimento. Fu proprio quello l'anno in cui il termine guerra fredda fu introdotto dal giornali-sta americano Walter Lippmann, per stigmatizzare la condizione a cui avrebbe condotto l'emergente dottrina statunitense del contenimento: uno stato di tensione permanente tra Usa e Urss basato sul rifiuto di riconoscere la legittimità dell'av­versario e negoziare le divergenze di interessi per via diplomatica.

Risulta oggi poco credibile l'idea che i sovietici, intransigenti ma anche assai cauti, perseguissero un deliberato progetto di espansione. Ma i dirigenti americani contemplavano preoccupati l'accavallarsi di numerosi punti di crisi e instabilità, che essi temevano offrissero grandi opportunità potenziali per la diplomazia so­vietica. Invece della potenza tedesca, al centro dell'Europa vi era adesso un vuoto fatto di povertà, incertezza e possibile risentimento nazionalistico. In Francia e in Italia i conflitti politici ed economici della fase della ricostruzione potevano ac­crescere il ruolo di forti partiti comunisti (cfr. la lezione XX). La Grecia era attra­versata dalla guerra civile tra comunisti e destra monarchica. In tutta l'Europa oc­cidentale la carenza di valuta estera poteva soffocare la ripresa e indurre alla chiu­sura protezionista* delle economie nazionali. I capisaldi della visione internazio­nale americana potevano dunque essere salvaguardati solo con una forte mobilita­zione delle proprie risorse, politiche ed economiche, che consentisse di arginare e invertire queste tendenze disgregataci.

3. Il sistema della guerra fredda.

Il 12 marzo 1947 Truman annunciò che gli Usa sarebbero subentrati all'esau- sta Gran Bretagna nel fornire aiuti alla Grecia e alla Turchia, e motivò tale scelta

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Da al leatia nemici:nascita de l la«guerra fredda»

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in termini di principio. Nel mondo si confrontavano - egli disse - «due sistemi di vita alternativi». In Grecia, in Europa e nel Mediterraneo il comunismo andava fermato: gli Stati Uniti si impegnavano a «sostenere i popoli liberi che intendono resistere a tentativi di assoggettamento da parte di minoranze armate o di pres­sioni esterne». Tre mesi dopo venne l'annuncio di un progetto di imponenti aiuti americani ai paesi dell'Europa occidentale, l'European Recovery Program (Erp), più comunemente noto come Piano Marshall (cfr. la lezione XVIII). Esso si pre­figgeva di: 1) fornire i capitali e le materie necessarie ad alimentare la ripresa delle economie europee; 2) accrescere di conseguenza i livelli di produttività, di reddito e di occupazione; 3) integrare l'economia tedesca in un'area di scambi europea; 4) determinare una duratura interdipendenza dei mercati mondiali, in primo luogo di quelli euro-americani. Si trattava di una strategia del tutto inno­vativa se paragonata al precedente dopoguerra, quando gli Stati Uniti avevano scelto di ritrarsi dall'Europa e avevano svolto in modo parziale e insufficiente il loro compito di grande banchiere mondiale. Gli scopi economici del Piano Mar­shall si intrecciavano con quelli strategici del contenimento: il consolidamento di una robusta crescita economica avrebbe stabilizzato le nazioni europee, raffor­zando il consenso sociale e marginalizzando le opposizioni comuniste, cosi da contrapporre all'Urss la solidità di un'Europa prospera e fiduciosa sotto la lea­dership statunitense. All'Ovest i governi, i maggiori gruppi economici e sindacali e le forze poli-tiche non comuniste (sia conservatrici che democristiane o socialdemocratiche) accolsero l'iniziativa americana come un utilissimo sostegno finanziario, politi­co e psicologico alle proprie strategie di espansione economica e di consolida­mento nazionale. Alla polarizzazione internazionale tra due potenze e due siste­mi ideologici sempre più apertamente ostili corrispose a partire da quel momen-to anche una rigida partizione della geografia politica europea e della stessa vita interna delle società nazionali. Le elezioni italiane dell'aprile 1948, ad esempio, furono largamente giocate intorno alla scelta dell'adesione al Piano Marshall e al nascente blocco occidentale. La divisione dell'Europa stava prendendo corpo e i sovietici erano ora decisamente sulla difensiva: essi denunciarono il Piano come un tentativo di asservimento dell'Europa al capitale americano, e, nel­l'impossibilità di frenarlo, tentarono un'ultima carta per impedire almeno che le aree più ricche della Germania venissero integrate nell'Europa occidentale co­me nuovo Stato indipendente, e quindi per eliminare il perno del disegno ameri­cano. Il 24 giugno 1948 i sovietici bloccarono gli accessi alle zone occidentali di Berlino, aprendo la prima grande crisi della guerra fredda. Truman valutò che un ritiro da Berlino avrebbe reso vani i piani per la creazione di una repub­blica tedesca occidentale, indebolendo drammaticamente la strategia economica e politica del contenimento. Convinto che la preponderante forza americana avrebbe dissuaso i sovietici dal precipitare uno scontro militare, egli accettò la sfida e avviò un gigantesco ponte aereo per rifornire Berlino, aggirando il bloc­co terrestre dei sovietici. Undici mesi dopo l'Urss dovette cedere, togliendo il blocco. Il 23 maggio 1949 nasceva la Repubblica federale tedesca, che sarebbe

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La strategiaamericanain Europa:

aiuti economicie «contenimento»

Le e lez ioni de l '48 in Ital ia

Il bloccodi Berl ino

e la divisionede lla Germania

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divenuta il motore e l'epicentro del grande boom economico dell'Europa occi­dentale. Come contropartita, il 30 maggio l'Unione Sovietica costituì nella sua zona la Repubblica democratica tedesca. La divisione della Germania era un fatto compiuto.

La crisi di Berlino mostrò comunque i pericoli insiti in un antagonismo bi­polare sempre più acuto. Sia i governi europei che quello americano erano preoccupati della forza militare sovietica accampata nel centro dell'Europa. E anche la rinascita della Germania suscitava inquietudine tra i suoi vicini, a co­minciare dalla Francia. In un continente diviso e incerto, una garanzia america- na per la sicurezza dell'Europa occidentale parve l'unica soluzione all'enorme divario di potenza tra l'Urss e gli altri paesi europei. Il 4 aprile 1949 fu siglato il Patto Atlantico, che impegnava i firmatari (Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia e altri paesi europei: Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda e Portogallo) alla difesa reciproca. L'alleanza compattava lo schieramento occidentale assicurandogli la protezione militare americana, e completava l'architettura del contenimento installando gli Usa nel ruolo di po­tenza egemone in un'Europa occidentale politicamente stabilizzata e avviata a una robusta ripresa economica.

L'Urss, per parte sua, reagì al dispiegarsi del contenimento americano in Oc­cidente con la brusca trasformazione della sua sfera d'influenza in un vero e pro­prio blocco di regimi comunisti tra loro sostanzialmente omogenei. Già nel mar-zo del 1948 un colpo di stato comunista aveva eliminato ogni pluralismo politico in Cecoslovacchia, dove il partito comunista aveva soltanto una maggioranza re­lativa dei consensi. Uguale sorte toccò peraltro alla Romania, all'Ungheria, alla Polonia, dove i comunisti rappresentavano solo delle minoranze. Quasi ovunque si procedette a unificazioni coatte tra questi e i partiti socialdemocratici. I sovie-tici potevano contare su alcune favorevoli correnti d'opinione* in ambienti non comunisti: la paura per un'eventuale ripresa tedesca sostenuta dagli occidentali, molto forte nei paesi come la Polonia o la Cecoslovacchia che avevano subito gli orrori dell'occupazione nazista, induceva a guardare all'Urss come a un naturale protettore attorno all'idea della solidarietà dei popoli slavi, diffusa anche in paesi come la Bulgaria. Ma l'elemento della coercizione fu assai forte. Anche l'Euro- pa orientale - come l'Urss degli anni trenta - conobbe la stagione delle grandi purghe fuori dai partiti comunisti e all'interno di essi, delle massicce repressioni basate su fantasiose accuse di tradimento costruite dai servizi segreti. L'intento era quello della sovietizzazione dei partiti comunisti da poco collocati al potere, cioè della loro reciproca omologazione, e della garanzia della loro piena subordi­nazione agli interessi di Mosca. Si procedette anche a un'integrazione delle eco­nomie dell'Europa orientale, la quale venne trasformata in un'area economica chiusa in cui fu avviata una rapida, massiccia industrializzazione. L'unica espe­rienza comunista a sottrarsi alla rigida obbedienza sovietica fu quella della Jugo­slavia guidata da Josip Broz, detto Tito, non a caso l'unico paese nell'Europa orientale a essersi liberato dall'occupazione nazista non per l'intervento dell'Ar- mata rossa ma in forza di una propria vittoriosa guerra partigiana. Tito avviò una

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L'Europaoccidentalee la garanz iaamericana

Il bloccocomunista e lasovie tizzaz ionede ll 'Est europeo

La Jugoslaviae l '«eresia»di Tito

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efficace opera di mediazione istituzionale tra le varie nazionalità che compone­vano la nuova Federazione jugoslava, e soprattutto tra le maggiori di esse, la ser- ba e la croata (in passato divise da feroci antagonismi), e si mostrò sempre più sospettoso nei confronti dell'egemonia sovietica. Seguì una clamorosa rottura con l'Urss (1948) che portò 1'«eresia» titoista a un'originalissima scelta neutrali- sta nel cuore dell'Europa.

Si trattava dunque di un'eccezione, cui va aggiunta quella dell'Austria e della Svizzera e, all'altro opposto del continente, della Finlandia e della Svezia. Alle soglie degli anni cinquanta l'Europa era rigidamente divisa in due aree separate e ostili, caratterizzate da strutture socio-economiche e sistemi politico-ideologici alternativi, e legate all'egemonia delle due grandi potenze. La guerra fredda era questo antagonismo tra due mondi, Est e Ovest, che si scrutavano diffidenti e si negavano ogni reciproca legittimità, percependo l'avversario come un'inconci­liabile minaccia per il proprio sistema di valori e, forse, per la propria sopravvi­venza: era una guerra simbolica totale. Per quanto antagonistica, la divisione della Germania e del continente aveva però reciso drasticamente i dilemmi geo­politici lasciati dalla seconda guerra mondiale. Nel sistema delle due Europe contrapposte, che nessuno avrebbe più davvero provato ad alterare, vi era perciò un'intrinseca stabilità. Era tuttavia un equilibrio delicato, esposto alle ripercus­sioni dei mutamenti che scuotevano il resto del mondo e delle modifiche che in­sorgevano nei rapporti di potenza tra Usa e Urss. Fu quindi un equilibrio che do­vette essere costantemente aggiornato e adeguato, con nuovi momenti di accre­sciuta tensione.

Il primo arrivò di lì a poco. Nell'agosto del 1949 l'Urss fece esplodere la sua prima bomba atomica, e il 1° ottobre i comunisti cinesi guidati da Mao Dzedong vinsero la lunga guerra civile, instaurando la Repubblica popolare cinese (cfr. la lezione XVII). Ai dirigenti americani ciò poneva una duplice, complessa sfida. L'Urss, grazie alla bomba atomica, poteva ora essere meno intimorita dalla pre­ponderanza militare americana, mentre il comunismo si affermava nel paese più popoloso del mondo ed estendeva la sua influenza negli immensi spazi del conti­nente asiatico. In realtà c'era una varietà di motivazioni nazionaliste e anticolo­nialiste nei comunisti asiatici che difficilmente poteva conciliarsi con gli interes-si sovietici; e si ponevano i presupposti di un secondo e maggiore conflitto infra-comunista (dopo quello jugoslavo) tra Cina e Urss, per ora potenziale ma desti­nato ad emergere chiaramente dopo un decennio. Gli Stati Uniti credettero inve-ce al pericolo di un unico movimento comunista di scala planetaria, e sin dal pe­riodo della guerra civile si contrapposero ai maoisti appoggiando il governo del Guomindang (il Partito nazionalista cinese), guidato da Chiang Kai-shek, anche quando questi - perduta la guerra - si ritirò nell'isola di Formosa (o, in cinese, Taiwan), sempre minacciando di ritornare in armi sul continente con l'appoggio dei suoi protettori americani. Fu la guerra di Corea a materializzare il pericolo di un'avanzata comunista sul nuovo grande fronte asiatico della rivalità bipolare.

Il 25 giugno 1950 il governo comunista della Corea del Nord, con il consenso di Stalin e Mao, attaccò il regime filo-occidentale del Sud contando su di una ra-

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Le due Europe: equil ibrio

e stabil i tà

La guerra di C orea

L'Ursspotenza nucleare

e la rivoluz ionecomunista in cina

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pida vittoria, e le sue truppe avanzarono con facilità. Gli Stati Uniti ritennero che una vittoria del Nord avrebbe distrutto la loro credibilità quale garante di governi amici e alleati, incrinando il contenimento in tutto il mondo. Truman ottenne dalle Nazioni Unite il mandato di respingere l'invasione e inviò subito un corpo di spe­dizione americano a combattere in Corea. Nel giro di pochi mesi poté poi passare all'offensiva, e l'esercito americano penetrò nel territorio del Nord con l'ambizio­ne di «liberarlo» dal comunismo. Ma ciò fece precipitare lo scontro con la Cina, che rovesciò contro gli americani un gran numero di «volontari» della sua Armata rossa. Qui si ebbe un clamoroso scontro interno allo stesso establishment statuni­tense: il comandante delle forze in campo, il generale Mac Arthur, voleva portare la guerra (aerea e terrestre) direttamente contro la Cina; più moderatamente il pre­sidente Truman voleva evitare un ulteriore allargamento del conflitto. Alla fine, nel 1951, il generale fu esonerato. Il fronte intanto ridiscese di nuovo verso il Sud, e dopo scontri sanguinosi la guerra si stabilizzò: nel 1953 si giunse final­mente a un armistizio che congelò - ancora fino ad oggi - la precedente divisione tra le due Coree.

La vicenda coreana ebbe profonde ripercussioni. In primo luogo essa estese definitivamente il conflitto bipolare al di fuori dell'Europa. Il contenimento di­venne una strategia anche asiatica, e comportò innanzitutto la ricostruzione acce­lerata del Giappone come baluardo occidentale. In secondo luogo divenne chiaro a tutti i protagonisti quanto grande fosse il pericolo di uno scontro diretto tra le superpotenze: nessuno avrebbe più cercato di valicare i confini delle sfere d'in­fluenza determinatesi nel 1945. Infine, la rivalità bipolare assunse un aspetto sem­pre più militarizzato. Gli Stati Uniti avviarono un riarmo massiccio per mantenere una netta superiorità nucleare sull'Urss e schierare grandi forze convenzionali in Europa e in Asia. L'Alleanza atlantica formò una sua organizzazione militare in­tegrata (la Nato, Organizzazione del trattato del Nord Atlantico), si estese al Me­diterraneo orientale con l'ingresso della Grecia e della Turchia (1951), e nel 1955 inglobò anche la Germania occidentale, che si dotava nuovamente di proprie for-ze armate. Il blocco sovietico diede vita, a sua volta, a una propria alleanza mili­tare: il Patto di Varsavia (1955).

Questa militarizzazione della guerra fredda portò entrambe le superpotenze a sviluppare poderosi apparati militar-industriali che ne condizionarono la vita in­terna in modi assai diversi ma comunque profondi. La spesa per gli armamenti di­venne una voce assai cospicua nei loro bilanci e, anche se su scala minore, in quelli dei loro principali alleati. Soprattutto, tra Usa e Urss si innescò una conti­nua corsa e rincorsa per la moltiplicazione e l'innovazione tecnologica degli ar­mamenti. A partire dalla metà degli anni cinquanta la crescita degli arsenali nu­cleari divenne impetuosa, dando presto vita a un sistema di deterrenza reciproca sempre più complesso e ambivalente: esso infatti dissuadeva dal ricorso alla guer-ra diretta proprio perché moltiplicava esponenzialmente gli effetti distruttivi che questa poteva comportare.

Gli anni del conflitto coreano furono quelli più «caldi» dell'intero arco della guerra fredda, e non solo per i combattimenti che devastarono la peni-

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Riarmo e al leanzemil itari: la Natoe i l Pattodi Varsavia

Antagonismoideologico

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sola asiatica. Con il timore che il conflitto potesse generalizzarsi, i due bloc­chi furono attraversati da un clima di mobilitazione e preparazione alla guer­ra. L'antagonismo ideologico e simbolico divenne rovente, e la demonizza­zione dell'avversario raggiunse il suo culmine. L'Urss promosse, con i suoi alleati e sostenitori, un'ampia campagna contro la volontà di guerra che essa attribuiva alle ambizioni imperiali del capitalismo americano. E all'interno del suo blocco esasperò il terrore repressivo contro ogni forma di vero o pre­sunto dissenso. L'Occidente viceversa si autorappresentò come impegnato in una lotta mortale per la sopravvivenza della democrazia contro le mire del totalitarismo comunista, al quale si attribuiva - in una distorta ma suggestiva analogia - lo stesso intreccio tra struttura dittatoriale e vocazione aggressiva della Germania nazista. Negli Stati Uniti, in particolare, la mobilitazione ideologica conobbe la sua stagione più rabbiosa e oscura con le inquisizioni anticomuniste promosse dal senatore Joseph McCarthy (da qui il termine maccartismo), che comportarono una circoscritta ma sostanziale limitazione delle libertà politiche e civili per chi non aderisse al patriottismo della cro­ciata anticomunista.

Dopo la fine dei combattimenti in Corea, tuttavia, con lo stabilizzarsi di un bipolarismo militarizzato in Europa e il subentrare di una certa consuetudine a una rivalità ormai quasi decennale, la tensione venne gradualmente scemando. Nella seconda metà degli anni cinquanta la guerra fredda non era più l'emer­genza dovuta al disvelarsi di un pericoloso antagonismo, l'insorgere di una se-rie di crisi, la costruzione di sistemi di potenza inediti e dalle ripercussioni im­prevedibili. Divenne anzi gradualmente un dato di fatto, un intreccio ormai ab­bastanza rodato di relazioni ostili ma anche regolate da tacite norme reciproca­mente accettate. Insomma un sistema duraturo e stabilizzato che andò incon­tro, almeno per ciò che riguardava l'Europa, a un'evidente normalizzazione, per quanto nel campo sovietico persistessero conati di rivolta all'esterno dei regimi comunisti e tentativi di riforma dall'interno di essi: un intreccio che si verificò nella Polonia e nell'Ungheria del 1956. Nel caso più clamoroso, quel­lo ungherese, fu l'esercito sovietico a intervenire direttamente per schiacciare la ribellione, riportare l'ordine precedente, arrestare il leader comunista rifor­matore Imre Nagy che sarebbe poi stato impiccato. In Occidente grandi furono le proteste, mentre i fatti mettevano radicalmente in discussione anche presso l'opinione di sinistra l'idea di un'Urss liberatrice dei popoli, che si era affer­mata nel corso della seconda guerra mondiale. In pratica però nessuna reazio­ne si ebbe dalle potenze occidentali, perché le sfere d'influenza erano ricono­sciute, la divisione del continente accettata, e nessuno pensava di contestarne la sostanziale intangibilità.

Fuori dall'Europa tutto era invece in movimento, ed era sugli altri continenti - l'Asia in particolare - che si andava concentrando l'attenzione delle superpoten-ze. Sullo scenario mondiale irrompevano infatti grandi trasformazioni che apri­vano un nuovo fronte, assai mutevole e composito, per il loro sedimentato anta­gonismo.

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Il 1956:la rivolta

polaccae l'insurrezione

ungherese

Guerra fredda e decolonizzazione

4. La decolonizzazione.

In una carta dei primi anni sessanta la geografia politica del mondo appariva irriconoscibilmente mutata rispetto a quella del 1945. Allora le nazioni sovrane rappresentate all'Onu erano state 51, e tra queste solo 9 asiatiche e appena 3 afri­cane: gran parte dell'Asia meridionale, varie zone del Medio Oriente e quasi tutta l'Africa erano ancora sotto il dominio dei grandi imperi coloniali della Gran Bre-tagna e della Francia, o di quelli minori di Olanda, Belgio e Portogallo (cfr. la le­zione X). Ma nel 1965 solo quest'ultimo resisteva ancora, quelli belga e olandese erano scomparsi e degli imperi francese e britannico rimanevano solo alcune mi­nuscole, simboliche vestigia come Hong Kong, restituita poi alla Cina nel luglio 1997. Dal loro sgretolarsi erano emerse grandi e piccole nazioni indipendenti: gli Stati sovrani membri dell'Onu erano già divenuti 120, e di questi ben 70 in rap­presentanza di nazioni asiatiche o africane.

In meno di due decenni, il mondo non industrializzato era cioè emerso sulla scena mondiale come inedito protagonista, e sotto diversi profili. Un crollo dei tassi di mortalità - dovuto alle migliori condizioni economiche, igieniche e sani­tarie - aveva innanzitutto innescato un imponente boom demografico* che au­mentava il peso relativo delle popolazioni dell'Asia, dell'America Latina e del­l'Africa. In diversi casi, queste aree conoscevano processi di industrializzazione e urbanizzazione che le allontanavano dalla tradizionale economia rurale. Soprat­tutto, si trattava di paesi che emergevano come attori politici indipendenti, in se­guito alla decolonizzazione, nel sistema mondiale. In Asia la crisi degli imperi co­loniali si era manifestata con chiarezza già nel corso della seconda guerra mon­diale, quando la cacciata di tutti gli europei dal Sud-est asiatico, ad opera del Giappone, aveva evidenziato la vulnerabilità del colonialismo europeo. I principi di libertà e autodeterminazione democratica esaltati dalla coalizione bellica delle Nazioni Unite, inoltre, ne avevano grandemente diminuito il precedente alone di legittimità. Soprattutto, le forze nazionaliste e indipendentiste uscivano rafforzate vuoi dalla resistenza ai giapponesi, come in Malesia o in Indocina, vuoi dall'irro­bustirsi di borghesie commerciali in quelle aree, come l'India o il Medio Oriente, dove le esigenze di mobilitazione bellica dell'impero britannico avevano stimola-to la crescita della produzione e dell'attività commerciale locale.

Al termine del conflitto mondiale, le rivendicazioni d'indipendenza si trasfor­mavano in pressante azione politica proprio mentre le potenze imperiali dovevano ridefinire il proprio futuro in un contesto di drastico ridimensionamento delle loro risorse finanziarie, militari e politiche. Già nel 1946 divenivano indipendenti la Siria e il Libano francesi, mentre in Indocina il dominio di Parigi veniva sfidato da una guerra d'indipendenza che sarebbe poi giunta alla vittoria nel 1954. Tra il 1945 e il 1949 fallivano i tentativi olandesi di resistere all'indipendenza dell'In­donesia. E nel 1947 la decolonizzazione conosceva la sua più cospicua e emble­matica vittoria sull'impero britannico, quando il movimento nazionale guidato da Gandhi sfociava nell'indipendenza dell'India e del Pakistan, cui seguirono quella di Ceylon e della Birmania nel 1948. Nel 1950 - con la sola eccezione dell'Indo-

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Un nuovo protagonista:i l mondo nonindustrial izzato

Gli anni quarantae la de finitivadecolonizzaz ionede l continenteasiatico

Storia contemporanea

cina francese ancora in guerra - l'Asia intera era ormai libera dal dominio colo­niale europeo, e due grandi nazioni, la Cina comunista e la democrazia indiana, si affacciavano come nuovi, importanti protagonisti sulla scena internazionale.

Negli anni cinquanta lo scenario principale del processo di decolonizzazione si spostava nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Qui, il variegato ma vigoroso nazionalismo delle popolazioni musulmane, dall'Iran al Marocco, si scontrava con le residue, e ultime, resistenze franco-britanniche. Ma la rilevanza strategica ed economica di questa zona ricca di petrolio, e cosi vicina all'epicentro della ri­valità bipolare, attivava anche una complessa interazione con il crescente attivi­smo delle due superpotenze. In Palestina gli inglesi, che detenevano il potere in forza di un «mandato» della Società delle Nazioni, avevano grande difficoltà a controllare il conflitto tra popolazioni arabe autoctone ed ebrei stabilitisi in quelle terre secondo i dettami del nazionalismo ebraico (o sionismo) per il quale gli ebrei di tutto il mondo dovevano rientrare nella «terra promessa», la Palestina ap­punto; tra essi, numerosi i sopravvissuti dell'orrendo genocidio* nazista, che ave­vano una ragione di più per cercare una nuova patria. Allorché l'Onu decretò la spartizione della Palestina in due entità statuali separate (ebraica e araba), i britan­nici si ritirarono e gli ebrei - dopo aver proclamato lo Stato di Israele - riuscirono a battere sul campo un'eterogenea coalizione araba, ottenendo cosi una sistema­zione territoriale assai più favorevole di quella prevista dall'Onu (1948-49). Que­sta soluzione, con la conseguente espulsione di quasi un milione di arabi palesti­nesi autoctoni, fu sentita come una grande ingiustizia dal risorgente nazionalismo arabo - che si sarebbe affermato nel 1953 in Egitto, con la proclamazione della repubblica ad opera dei militari capeggiati da Gamal Abdel Nasser - e lo radica-lizzò in senso antioccidentale, sovrapponendo un conflitto regionale quasi insolu­bile a quello globale tra le superpotenze.

Se l'Urss cercava, con parziale successo, di diventare un interlocutore privile­giato del nazionalismo arabo, gli Stati Uniti erano invece mossi da impulsi con-traddittori. Culturalmente propensi a sostenere l'emancipazione dal retaggio colo­niale e le ambizioni di modernizzazione* dei nuovi regimi, essi tuttavia ne teme­vano il radicalismo, che poteva danneggiare gli interessi economici occidentali e offrire nuovi spazi all'antagonista sovietico. In Iran, ad esempio, la nazionalizza­zione dell'industria petrolifera decisa nel 1952 dal governo riformatore di Mossa-deq suscitava l'ostilità non solo dei suoi proprietari britannici, ma anche degli americani che, temendo un neutralismo suscettibile di offrire spazi all'Urss, face­vano intervenire i servizi segreti (la Cia) per riportare il controllo del paese, e del petrolio, nelle mani della monarchia filo-occidentale dello scià Muhammad Reza Pahlavi. Ancor più intricata la situazione del mondo arabo. Nel 1956, quando Londra e Parigi, d'intesa con Israele, risposero con l'intervento militare alla deci­sione di Nasser di nazionalizzare il canale di Suez, gli Stati Uniti condannarono i propri alleati europei, facendone fallire l'impresa tardo-coloniale. Ma da allora in poi essi assunsero un ruolo di guardiani della stabilità in un Medio Oriente sem­pre più visto attraverso le lenti della rivalità bipolare. Insieme a Israele, le monar-chie tradizionaliste (Giordania e Arabia Saudita) divenivano il pilastro della pre-

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La questionepalestinese :

ritiro ingle see nascita

de l lo Statodi Israe le

La logica bipolareconquista

i l Medio O riente

Guerra fredda e decolonizzazione

senza occidentale, mentre i regimi radicali di Siria, Egitto ed Iraq si appoggiava­no vieppiù all'Urss per un sostegno tecnico e militare.

La spedizione di Suez segnava comunque la fine del colonialismo europeo e del ruolo imperiale di Francia e Gran Bretagna, da allora definitivamente ridotte alla funzione di medie potenze nella sola area europea. L'adattamento era però tutt'altro che indolore, in particolare per la Francia. Suez giungeva a ridosso della sconfitta militare subita nel 1954 a Dien Bien Phu, che la estrometteva dall'Indo­cina, e intorno ai dilemmi della decolonizzazione la repubblica francese conosce­va una profonda crisi. Parigi riusciva a negoziare una transizione relativamente indolore delle sue colonie africane, che negli anni sessanta divenivano Stati so­vrani connessi alla metropoli in un'area economica e culturale francofona. Nel 1956 anche il Marocco e la Tunisia erano divenuti indipendenti. Ma nel principa­le possedimento coloniale, l'Algeria, l'intransigenza dei numerosi coloni europei e dell'esercito francese diedero vita a una sanguinosa guerra di repressione del movimento di liberazione nazionale.

La durezza della guerra di Algeria merita una riflessione a parte: conquistata nel 1830 da Carlo X (cfr. la lezione II), l'Algeria aveva successivamente accolto anche numerosi profughi dell'Alsazia e Lorena, le due regioni di confine strappa-te alla Francia dalla Prussia con la guerra del 1870 (cfr. le lezioni V e VI). L'Alge­ria rappresentava dunque molto di più di una colonia: per il milione di coloni, molti dei quali vi avevano impiantato importanti attività economiche, era una pro­vincia francese, un pezzo di «madrepatria», e per loro l'emancipazione degli otto milioni di algerini era inaccettabile. La «battaglia di Algeri» (1957) rappresentò lo scontro culminante del conflitto: la resistenza degli algerini fu piegata solo do­po nove mesi, con l'impiego di forze speciali che ricorsero ai metodi più brutali per sedare la rivolta.Dal 1954 al 1962, anno dell'indipendenza, l'Algeria fu cosi teatro dell'ultimo, cruento conflitto della decolonizzazione: esso assurse a emblema di un processo mondiale ormai trionfante. Nei primi anni sessanta, infatti, anche quasi tutta l'A­frica sub-sahariana giungeva all'indipendenza. Oltre a quelle francesi, anche le colonie britanniche divennero Stati sovrani con una transizione relativamente pa­cifica. Spesso rimasero all'interno del sistema del Commonwealth, anche se con maggiori aperture, rispetto agli Stati francofoni, ai mercati mondiali e ai capitali americani. Le eccezioni furono il Kenya, la cui indipendenza (1963) venne dopo la sanguinosa repressione britannica della rivolta contadina dei Mau-Mau (1952-56), e la Rhodesia del Sud, dove i coloni bianchi si separarono da Londra nel 1964 per instaurare un sistema di apartheid razziale (simile a quello sudafricano) che si sarebbe protratto fino al 1979. Convulsa e violenta fu invece la fine del­l'impero belga: la nascita della nuova Repubblica del Congo (1959) fu infatti ac­compagnata da conflitti interni nei quali agirono i rimanenti interessi europei, ma anche le rivalità globali tra le due superpotenze. A metà degli anni sessanta del mondo coloniale restavano i soli possedimenti portoghesi in Africa (Angola, Mo­zambico e Guinea Bissau), dove comunque operavano forti movimenti di guerri­glia che avrebbero conquistato l'indipendenza dieci anni più tardi.

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Finede l colonial ismoinglese e francese

La guerradi l iberaz ionealgerina

L'Africasub-sahariana: unadecolonizzaz ioneconvulsa

Storia contemporanea

5. Il Terzo Mondo.

L'arrivo di nuovi attori indipendenti - dalla Cina all'Egitto, dall'Indonesia al­l'India - in un sistema internazionale che fino a vent'anni prima era stato plasma-to e dominato dagli imperi europei, e che era adesso definito dall'antagonismo tra Est e Ovest, innescava ovviamente dinamiche inedite. I protagonisti delle rivolu-zioni anticoloniali volevano in primo luogo affermare la propria legittimità e combattere la cultura - ancora preminente negli organismi internazionali - della tutela delle nazioni più «avanzate», ovvero più ricche, sulle popolazioni «meno progredite». Nella gran parte dei casi, essi intendevano inoltre costruire la propria autonomia dai due grandi blocchi politico-militari e sottrarsi al rischio di venire coinvolti in una guerra. Riunitisi a Bandung, in Indonesia, nell'aprile 1955, i go­verni di 29 paesi asiatici e africani condannarono ogni forma di oppressione colo­niale e contrapposero alla rivalità bipolare il principio di una cooperazione pacifi-ca tra i popoli (cfr. la lezione XXI). Ispirati soprattutto dal leader indiano Jawahar-lal Nehru, dall'indonesiano Akmed Sukarno e da Nasser questi paesi delinearono quindi uno schieramento, ancorché molto diversificato e informale, di nazioni ac­comunate dalla necessità di tradurre la propria recente indipendenza in effettiva autonomia e, soprattutto, capacità di sviluppo economico.

Sorgeva cosi l'immagine di un Terzo Mondo che riusciva a far sentire la sua voce quanto più avanzava la decolonizzazione. Nel 1960 l'Onu condannava uffi­cialmente il colonialismo e negli anni seguenti, con il consolidarsi di una mag­gioranza numerica di nazioni del Terzo Mondo, essa divenne un ambito vieppiù importante di discussione dei problemi del sottosviluppo e della disparità di ri­sorse tra Nord e Sud del mondo. La carenza di risorse finanziarie, produttive, tecnologiche ed educative era infatti il problema centrale che guidava l'azione di quei paesi. Ma essa erigeva anche un limite essenziale alla loro influenza e alla loro autonomia.

I paesi del Terzo Mondo potevano infatti dichiararsi estranei ai blocchi: taluni, come l'India, riuscirono ad attuare un'effettiva equidistanza. A partire dalla con­ferenza di Belgrado del 1961 lo schieramento sorto a Bandung (cui si era aggiun-ta la Jugoslavia di Tito) si presentò come un vero e proprio movimento di paesi «non allineati», che alla logica della rivalità tra Est ed Ovest opponevano l'auspi-cio di una collaborazione pacifica tra Nord e Sud per lo sviluppo economico e so­ciale. Ma molti di essi, come il Pakistan filo-occidentale, si posizionavano co­munque nell'orbita economica e militare di una delle superpotenze. Altri, come la Cina comunista (che pure negli anni sessanta si allontanava decisamente da Mo­sca) vedevano il non-allineamento come uno strumento per contrastare l'Occi­dente e gli Stati Uniti. Soprattutto, ogni paese doveva contemperare il desiderio di autonomia con il bisogno di accedere ai mercati, ai capitali, alle tecnologie e, in molti casi, agli armamenti che solo le potenze industrializzate potevano fornire. La denuncia della dipendenza economica* che era subentrata al dominio colonia-le del recente passato connotò perciò negli anni sessanta la cultura dei movimenti e dei governi più radicali del Terzo Mondo. Ma raramente essa riusci ad alterare

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Nehru, Sukarnoe Nasser:

nascita de l «terzomondismo»

Il movimentode i paesi

«non al l ineati»

Guerra fredda e decolonizzazione

la realtà del divario di risorse e della conseguente subordinazione ai meccanismi dei mercati internazionali o a quelli degli aiuti, ovviamente condizionati, che po­tevano provenire dalle superpotenze.

Negli anni sessanta diversi governi del Terzo Mondo perseguirono delle strate­gie per uno sviluppo pianificato del proprio potenziale agricolo e la costruzione di un apparato industriale capace di sostituire le importazioni dai paesi più ricchi. Essi tentarono di negoziare collettivamente sia crediti e aiuti internazionali a bas­so costo, sia un accesso più libero ai mercati avanzati, ma ottennero assai meno di quanto avessero bisogno. Solo i produttori di una risorsa strategica come il petro­lio riuscirono, nei primi anni settanta, a riunirsi in un organismo (l'Opec) capace di alzarne sensibilmente il prezzo, garantendosi cosi un forte afflusso di capitali. Tra gli esperimenti di industrializzazione e modernizzazione ebbero ben maggio-ree efficacia quelli, realizzati in particolare da alcuni paesi asiatici legati all'Occi­dente, come la Corea del Sud o Taiwan, che miravano non tanto a sostituire le im­portazioni quanto a bilanciarle con forti esportazioni industriali sui mercati più ricchi. In entrambi i casi la fuoriuscita dal sottosviluppo, avviatasi negli anni set­tanta, sarebbe avvenuta non tanto grazie all'autonomia economica quanto a un'in­terdipendenza via via più stretta con i capitali e i mercati del ricco Occidente. Nel corso degli anni sessanta, ad ogni modo, la sfida posta dall'emergere del Terzo Mondo condizionò e trasformò la rivalità tra le due superpotenze, che intraprese­ro una vera e propria gara - incentrata sui diversi percorsi di sviluppo che l'una e l'altra potevano offrire - per ancorare alla propria orbita strategica ed economica le nuove nazioni indipendenti. L'irrompere della decolonizzazione parve inizial­mente aprire un terreno più favorevole all'Urss: fin dai tempi di Lenin la sua ideologia rivoluzionaria predicava l'autodeterminazione anticoloniale; il suo mo­dello di economia pianificata* sembrava allora potesse ottenere notevoli successi. L'affacciarsi prepotente dei sovietici nel campo tecnologico con la realizzazione della prima navicella spaziale (lo Sputnik, nel 1957) e con il lancio del primo uo­mo nello spazio nel 1961 (Jurij Gagarin), parve un fatto simbolico del riequilibrio tra Occidente e Oriente. Più concretamente, le forniture sovietiche di armamenti potevano risultare essenziali per i regimi antioccidentali, come quelli nazionalisti arabi di Siria ed Egitto, o come quello rivoluzionario guidato da Fidel Castro che si impose a Cuba, nel 1959, contro una corrotta dittatura militare sostenuta dagli americani.

Gli Stati Uniti, d'altro canto, apparivano spesso alle nuove nazioni, in partico­lare quelle sorte attraverso una rivoluzione, come gli eredi della tradizione impe­riale europea, e non solo per affinità culturale. Sostituitisi agli europei come po­tenza egemone, garanti della stabilità dei mercati mondiali, e guidati dalla priorità del contenimento antisovietico, essi osteggiavano i movimenti indipendentisti quando questi comprendevano rilevanti componenti comuniste o comunque mi­nacciavano, per il loro radicalismo socio-economico, gli interessi finanziari e commerciali dell'Occidente. Tra il 1949 e il 1954, ad esempio, Washington aveva sostenuto la guerra francese in Indocina, e si rifiutò poi di riconoscere il movi­mento vittorioso del Viet-minh, a guida comunista, e di accettare l'accordo inter-

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Un nuovo terrenodi contesa trale superpotenze

L'orbita sovie tica

L'ambitode l l 'egemoniaamericana

Storia contemporanea

nazionale di Ginevra che prevedeva la riunificazione del Vietnam attraverso libe­re elezioni, preferendo invece appoggiare il regime anticomunista insediatosi nel Vietnam del Sud. L'indiscussa egemonia statunitense sull'America centrale e lati­na, inoltre, pareva sintomatica della dipendenza neo-coloniale dei paesi meno svi­luppati dal sistema capitalistico delle imprese multinazionali. L'ostilità di Wa­shington alla rivoluzione cubana, in particolare, cristallizzò per tutti gli anni ses­santa l'immagine antagonistica di un ordine imperiale statunitense contrapposto all'aspirazione terzomondista a uno sviluppo indipendente.

L'ascesa di un Terzo Mondo composito, diversificato e anche sostanzialmente diviso al suo interno, ma che tentava di costituire un'alternativa di non allinea­mento e di sviluppo autonomo, apriva cosi nuovi terreni alla rivalità bipolare e schiudeva una nuova dimensione per una guerra fredda in cui insorgevano, intan­to, anche significative mutazioni strategiche e culturali.

6. Rivalità globale e distensione.

Nel 1961 Berlino fu teatro dell'ultima crisi europea della guerra fredda. Dopo un minaccioso confronto tra i due blocchi, la costruzione del «muro di Berlino» sigillò ermeticamente l'area di influenza sovietica, ma chiarì anche che l'esisten­za di due Germanie e due Europe era ormai riconosciuta da tutti. Dieci anni dopo i due governi tedeschi si sarebbero legittimati reciprocamente, e nel 1975 i due blocchi avrebbero siglato gli accordi di Helsinki, che sanzionavano gli assetti eu­ropei sedimentatisi nel trentennio precedente. Era il culmine di un processo di di­stensione* tra Est ed Ovest che si era lentamente evoluto per oltre un decennio: da epicentro della guerra fredda l'Europa si era tramutata in area di coesistenza (armata, ma pacifica e stabile) tra i due blocchi. Se le forze della Nato e del Patto di Varsavia si fronteggiavano sempre in minacciosa allerta, a cavallo della «corti­na di ferro» erano iniziati contatti e limitati scambi commerciali. All'apice di un eccezionale boom economico, i governi occidentali erano saldi e fiduciosi. All'Est il controllo sovietico era rigoroso. Sembrò per un attimo incrinare questo stato di cose la «primavera di Praga», esperimento anticonformista e riformatore guidato nel 1968 dal segretario del partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubcek. Ma l'aggressione delle truppe del Patto di Varsavia portò alla drammatica ever­sione dei governo di quel paese e a un ritorno alla situazione precedente, nono­stante le poco convinte proteste occidentali. Anche la raffigurazione pubblica del­l'antagonismo era profondamente mutata. Al posto della terrorizzante propaganda sulla calata dei cosacchi in San Pietro vi erano adesso le fantasmagoriche avven­ture di James Bond, che trasponevano in innocuo spettacolo l'unico aspetto anco­ra bellicoso che sopravviveva della guerra fredda europea, la battaglia clandestina tra gli apparati di spionaggio.

La rivalità tra le due superpotenze non era affatto scomparsa, si era però diver­sificata, trasferendo le sue più aspre frizioni in aree extraeuropee, e si era simulta-neamente concentrata in una massiccia corsa agli armamenti nucleari che la di-

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Il «muro»di Berl ino

e la repressionede lla «primavera

di Praga»

C hruščëv e la «coesistenza

pacifica»

Guerra fredda e decolonizzazione

stensione cercò di regolamentare e, magari, di rallentare. Lo scenario strategico aveva iniziato a mutare dalla fine degli anni cinquanta, quando la costruzione dei primi missili intercontinentali, insieme alla continua moltiplicazione delle testate nucleari disponibili, aveva delineato la possibilità della distruzione rapida e mas­siccia del territorio delle due superpotenze. L'Urss aveva ormai abbandonato la dottrina della «guerra inevitabile» tra capitalismo e comunismo, e il suo leader Nikita Chruščëv invocava una «coesistenza pacifica» che evitasse il pericolo di guerra; ma che al tempo stesso prospettava una nuova, più estesa sfida sul piano dei sistemi socio-economici. Nell'offrire il modello sovietico dello sviluppo pia­nificato ai paesi emergenti del Terzo Mondo, e nel vantare i successi industriali e tecnologici dell'Urss, Chruščëv prometteva di superare e «seppellire» il capitali­smo nell'arco di vent'anni. La Cina comunista stava inoltre entrando in competi­zione con Mosca per proporsi come guida di una rivoluzione radicalmente antica­pitalistica nel Terzo Mondo.

La convinzione di essere di fronte a una sfida di portata mondiale, incentrata sui problemi dello sviluppo e delle risposte che ad essi venivano date, era vivissi-ma nella presidenza di John Kennedy (1960-63), che additava l'obiettivo di una «nuova frontiera» di crescita a cui l'America doveva guidare l'intera economia mondiale per ancorare le nuove nazioni asiatiche e africane all'Occidente. Il con­tenimento diveniva cosi compiutamente globale: lo si perseguiva con nuovi pro­grammi di aiuti per lo sviluppo (come l'«Alleanza per il progresso», rivolta all'A­merica Latina, e i «Corpi della pace» che inviavano giovani tecnici nel Terzo Mondo); con l'impegno militare a sconfiggere la guerriglia rivoluzionaria; e, infi­ne, con un massiccio ampliamento e ammodernamento dell'apparato nucleare in­teso a perpetuare la superiorità americana sull'Urss.

In questo contesto giunse la crisi dei missili a Cuba, nell'ottobre del 1962. Ostili fin dall'inizio alla rivoluzione cubana (che ritenevano emblematica di un indipendentismo anticapitalista passibile di estendersi ad altri paesi latino-ameri­cani) gli Stati Uniti avevano tentato di isolarla e poi di rovesciarla organizzando un fallito sbarco di esuli anticastristi alla Baia dei Porci, nel 1961. Castro si era le­gato sempre più all'Urss, da cui otteneva forniture commerciali e garanzie difen­sive. Nell'estate del 1962 i sovietici iniziarono a installare nell'isola anche missili capaci di bombardare gli Stati Uniti con ordigni atomici. La crisi scoppiò quando Kennedy intimò all'Urss di ritirare quei missili, impose un blocco navale intorno all'isola e allertò le forze americane per un'invasione di Cuba che avrebbe potuto scatenare lo scontro tra le superpotenze. Dopo giorni di grandi tensione, in cui il mondo davvero temette di precipitare in una guerra nucleare, Chruščëv accettò di smantellare i missili in cambio dell'impegno americano a non invadere Cuba e a ritirare alcuni missili della Nato dall'Italia e dalla Turchia.

La risoluzione della crisi parve premiare la fermezza americana, resa credibile da una superiorità strategica ancora cospicua, e convinse l'Urss ad avviare un programma decennale di riarmo per giungere a un'effettiva parità. Ma fu evidente che lo sviluppo degli arsenali nucleari svuotava di ogni razionalità strategica l'i­potesi di una guerra: ognuna delle superpotenze poteva infatti devastare il territo-

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Kennedye la «nuovafrontiera»

La crisidi Cuba: nascitade l la «de terrenza»

Storia contemporanea

rio avversario anche dopo aver subito un attacco nucleare di sorpresa. Prendeva cosi forma una deterrenza basata sulla capacità di «distruzione reciproca assicura­ta». Dal 1963 Washington e Mosca iniziarono a negoziare norme di controllo sul­le armi nucleari volte a stabilizzare questo precario «equilibrio del terrore».

I rapporti tra le due superpotenze perdevano l'asprezza del decennio preceden­te e iniziavano a contemplare anche il riconoscimento di alcuni essenziali interes­si reciproci: il dialogo diplomatico avviava la ricerca di un modus vivendi che sa­rebbe sfociato nella distensione dei primi anni settanta. Ciò non escludeva, co­munque, una persistente rivalità, in particolare per l'influenza nelle aree del Terzo Mondo in rapida trasformazione. Negli anni di Kennedy e poi di Lyndon Johnson (1963-68) gli Stati Uniti elaboravano una vera e propria teoria dello sviluppo che postulava, per ogni paese, un'evoluzione non solo economica - attraverso l'indu­strializzazione e il rapporto con i mercati mondiali - ma anche politica, sociale e culturale verso una struttura democratica di tipo occidentale. Questo percorso di modernizzazione avrebbe dovuto condurre le nuove nazioni indipendenti a inte­grarsi positivamente nella continua espansione del capitalismo su scala mondiale, dando cosi forza e fondamento a un contenimento globale che pareva tanto più impellente quanto più le rivoluzioni indipendentiste sembravano aprire spazi di influenza per i rivali sovietici e cinesi.

Ma per affermare questo disegno di nation building e di modernizzazione oc­cidentale bisognava contrastare, ed eliminare, le componenti radicali, se non di­rettamente comuniste, che potevano guidare le nuove nazioni e i movimenti di li­berazione verso sbocchi ben diversi. In taluni paesi ciò fu fatto da regimi naziona­li, spesso dominati dai militari: in Indonesia, nel 1965, il generale Suharto ster­minò un forte movimento comunista; in Brasile e in altri paesi dell'America Lati­na le tensioni della modernizzazione furono governate autoritariamente da regimi militari. Vi erano situazioni, però, in cui solo l'intervento americano pareva capa­ce di garantire la sopravvivenza di regimi filo-occidentali deboli e scarsamente radicati nella società nazionale. Fu questo intreccio di fiducia in una modernizza­zione anche guidata dall'esterno e di ansia per le sorti del contenimento globale a condurre gli Stati Uniti alla lunga guerra in Vietnam.

L'inefficace e impopolare governo del Vietnam del Sud era sfidato, nei primi anni sessanta, da molte opposizioni e da un forte movimento di guerriglia (Viet­cong) sostenuto dal governo comunista del Nord Vietnam. Kennedy e Johnson vi­dero il conflitto come un test della «credibilità» internazionale della potenza ame­ricana. Interpretarono l'aspirazione alla riunificazione di un Vietnam indipenden­te non come un moto nazionalistico ma come un disegno d'espansione del comu­nismo, diretto da Cina e Urss, che avrebbe potuto poi estendersi a tutto il Sud-est asiatico. Essi impegnarono quindi gli Usa a difesa del regime del Sud. A partire dal 1964-65, quando iniziarono i bombardamenti del Nord Vietnam e l'uso mas­siccio di truppe statunitensi nel Sud, il conflitto divenne una devastante guerra su larga scala in cui l'America arrivò a schierare oltre mezzo milione di soldati.

L'imponente presenza americana non riusciva però a consolidare (e tanto me­no a «modernizzare») uno stato sudvietnamita privo di solide basi autonome, né a

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Il mode lloamericano:

modernizzaz ione edemocratizzaz ione

La guerrade l Vie tnam

e lo scaccoamericano

Guerra fredda e decolonizzazione

sconfiggere militarmente una guerriglia di vaste proporzioni. Invece di venir riaf­fermata, la credibilità americana si logorava in un conflitto prolungato che persi-no gli alleati europei ritenevano inutile. In America, il costo umano e finanziario di una guerra che pareva negare il suo stesso scopo (per «salvare» il paese dal co­munismo se ne distruggeva il territorio, il tessuto sociale e parte della popolazio­ne) suscitava un'opposizione crescente. All'inizio del 1968 - in occasione del ca-podanno cinese, il Tet - la guerriglia e i nordvietnamiti lanciarono un'offensiva generale che ridicolizzò l'ostentato ottimismo dei generali americani, e il consen­so interno alla guerra di Johnson evaporò. Il suo successore Richard Nixon (1969-74) prese atto dell'impossibilità politica di perseguire la vittoria e adottò una strategia di «vietnamizzazione» del conflitto, volta a districare gli Usa dalla guerra ma a garantire la sopravvivenza del regime anticomunista del Sud. Dopo massicci bombardamenti (estesi anche alla Cambogia e al Laos) e difficili nego­ziati con Hanoi, nel 1973 gli Stati Uniti ritirarono le proprie truppe. La debolezza del Vietnam del Sud non poteva però venire ovviata neppure dagli aiuti economi­ci e militari di Washington, e nel 1975 l'esercito di Hanoi dilagò nel Sud, riunifi­cando il paese sotto il governo comunista del Nord.

Nei primi anni settanta gli Stati Uniti mostravano parecchi segni di una dimi­nuita capacità di egemonia mondiale: la sconfitta vietnamita; la lacerante crisi in­terna ad essa collegata; il discredito che circondava la potenza americana; la sva­lutazione del dollaro (1971-73) dovuta anche alle spese belliche, e la ridefinizione di un sistema economico mondiale in cui Europa e Giappone erano ormai forti concorrenti; l'emergere di un cartello di produttori (l'Opec) che rialzava il prezzo del petrolio. L'Urss, dal canto suo, incoraggiata dalla debolezza americana, stava ormai raggiungendo la parità strategica in campo nucleare, vedeva finalmente le­gittimata la divisione dell'Europa e si arricchiva di valuta con il rialzo dei prezzi petroliferi. Ma anche la sua potenza sperimentava limiti consistenti. Il suo model­lo economico incentrato sull'industria pesante si mostrava scarsamente capace di innovazione. Il dissidio con la Cina (ora dotata di armi nucleari) era divenuto aperta ostilità, con scontri di frontiera nel 1969; e il dialogo avviato tra Pechino e Washington nel 1972 esponeva il Cremlino al rischio di un pericoloso accerchia­mento. Al di fuori dei suoi confini tradizionali, poi, l'influenza sovietica si rivela­va assai flebile: le sconfitte dei suoi principali interlocutori arabi, Siria ed Egitto, durante le guerre con Israele nel 1967 e nel 1973 la estromettevano da un Medio Oriente dove gli Usa continuavano a essere arbitri della scena diplomatica.

Per entrambe le superpotenze, l'urgenza di stabilizzare il sistema della reci­proca deterrenza nucleare si intrecciava perciò con le crescenti difficoltà di un bipolarismo sempre più eroso da mutamenti storici che ne riducevano la cen­tralità, moltiplicando il numero e il peso di altri attori internazionali. Persegui­re una effettiva distensione poteva quindi facilitare, in modi diversi ma specu­lari sia per Washington che per Mosca, la ricerca di nuove soluzioni che rinsal­dassero in chiave aggiornata il loro potere internazionale. Sulla base di questa parziale convergenza di interessi le due superpotenze inaugurarono, con il ver­tice di Mosca tra Nixon e Brežnev (1972), una breve stagione di collaborazio-

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Due gigantiindeboliti

Gli accordiper i l disarmobilateralee control lato

Storia contemporanea

ne che non eliminava la rivalità, ma tentava di contenerla, incanalandola in una definizione della stabilità mondiale d'interesse comune. Gli accordi SALT e ABMsugli armamenti strategici sanzionavano una sostanziale parità ponendo un tetto al tipo e al numero (comunque altissimo) di missili dispiegati: si consolidava la deterrenza reciproca e la competizione militare si concentrava sulla qualità del­l'innovazione tecnologica. Alcuni accordi commerciali aprivano la strada a forti importazioni russe di grano americano e prefiguravano un cointeresse a scambi, anche tecnici e culturali, più ampi. Gli accordi di Helsinki del 1975, che sanci­vano lo status quo dell'Europa divisa, offrivano poi al blocco sovietico il rico­noscimento a lungo cercato e delineavano una prospettiva di potenziale coope­razione per la sicurezza. Peraltro, la dinamica della rivalità nelle aree extraeuro­pee non veniva in alcun modo regolamentata o depotenziata, anche se gli Stati Uniti si attendevano una sorta di autocontenimento dei sovietici. E sarà proprio questa grande area lasciata scoperta dagli accordi di distensione a riaccendere, alla fine degli anni settanta, una nuova stagione di aspro antagonismo.

Ma a metà del decennio il sistema mondiale parve per un momento imboccare una strada che contemplava un inedito intreccio di mutamento e stabilizzazione. Per un verso, il bipolarismo formalmente paritario e meno antagonistico codificato dalla distensione sembrò rimpiazzare la guerra fredda con una cooperazione fondata sul mutuo riconoscimento di sfere d'influenza inviolabili (in Europa). Per un altro, il relativo indebolimento delle superpotenze, l'emergere di nuovi forti poli economici e l'imporsi di un Terzo Mondo che ancora agiva in modo relativamente unitario nei consessi internazionali parve dischiudere l'orizzonte di un sistema mondiale multi-polare, in cui l'asse Est-Ovest avrebbe potuto essere sostituito dalla collaborazione - o dall'antagonismo - tra Nord e Sud sui problemi dello sviluppo globale.

7. Conclusioni.

La controversia sulle origini e la dinamica della guerra fredda è del tutto aper­ta. Alcuni storici la riconducono alla inconciliabilità tra due sistemi ideologici d'ambizione universale, quello del comunismo sovietico affermatosi nel 1917 e quello del liberal-capitalismo americano, che vedevano nell'altro una minaccia storica alla propria sopravvivenza. Altri, invece, la imputano soprattutto al contra­sto d'interessi geopolitici in relazione al futuro di una Germania distrutta e di un'Europa indebolita e sconvolta. Ci sono studiosi che, con maggiore precisione, propongono di riferire il termine solo al periodo 1947-63, poiché nei decenni suc­cessivi il sistema bipolare perse quel connotato di intensa bellicosità - sia pure non spinta fino allo scontro militare diretto - che l'aveva caratterizzato in prece­denza. In questa chiave, il successivo processo di distensione costituirebbe allora un superamento di quel rapporto di negazione simbolica reciproca, tipico appunto di una condizione di guerra, che costituiva l'essenza della guerra fredda.

All'interno della cultura liberal (radicale e progressista) statunitense, soprattut­to sotto lo stimolo intellettuale dei movimenti di opposizione alla guerra del Viet-

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Uno scontrodi ideologie

o un confl i ttodi interessi?

Guerra fredda e decolonizzazione

nam, si è sviluppata dagli anni sessanta una storiografia revisionista, che ha indivi­duato nell'espansionismo economico americano - volto ad aprire i mercati interna­zionali alle proprie esportazioni di merci e capitali - il responsabile o il correspon­sabile della guerra fredda; i più insistono invece sul ruolo della strategia staliniana, che affidava la sicurezza dell'Urss al ferreo dominio sull'Europa orientale e alla debolezza dell'Europa occidentale. E se l'antagonismo tra due potenze nucleari at­tribuì alla guerra fredda un carattere potenzialmente apocalittico, alcuni sottolinea­no invece quanto fu proprio la reciproca capacità di infliggere distruzioni massicce che dissuase dal ricorso alle armi, facendo così della guerra fredda un lungo perio­do di tensione ma anche di pace per l'Europa e tra le due superpotenze.

L'antagonismo della guerra fredda era nato nell'Europa dell'immediato dopoguerra perché là, nel vuoto lasciato dal tracollo delle potenze europee, si confrontavano due ipotesi di sicurezza internazionale incompatibili. Quel­la di Stalin si fondava sull'estensione di una influenza sovietica non negozia­bile fino al centro del continente: essa comportava il dominio sui paesi del­l'Est e un notevole grado di insicurezza per quelli dell'Ovest, data l'assenza di ogni efficace contrappeso. Quella statunitense affidava invece alla «pre­ponderanza» della potenza americana (Leffler) la riorganizzazione di un si­stema capitalistico mondiale che integrasse i principali poli industriali iso­lando il blocco sovietico nell'arco dei suoi confini. La rivalità geopolitica e la reciproca negazione ideologica erano quindi fattori inestricabili di un an­tagonismo che si assestò intorno alla partizione dell'Europa. In tono assai ostile per un decennio, e più moderato negli anni successivi, questo bipolari­smo stabilizzò l'Europa divisa in una «lunga pace» (Gaddis) che la deterrenza nucleare rese tanto pericolosa quanto indispensabile. Le superpotenze estesero presto la logica del confronto bipolare anche in altre aree, tentando di control­lare e incanalare le trasformazioni innescate dalla decolonizzazione e dalla lot-ta delle nuove nazioni indipendenti per un proprio autonomo sviluppo. Tanti conflitti locali furono cosi inaspriti e ampliati fino a divenire guerre devastan­ti: alla «lunga pace» europea corrisposero molte guerre che. in trent'anni, cau­sarono quasi 20 milioni di vittime, per lo più in Asia. L'allargamento su scala mondiale della guerra fredda ne ampliò il carattere fortemente militarizzato, e rivelò i fondamentali squilibri insiti in un bipolarismo decisamente asimmetri­co. L'Urss poteva dominare l'Europa orientale e giungere negli anni settanta, dopo un ventennio di costosa rincorsa, a una sorta di parità nucleare con gli Usa. Ma gli Stati Uniti godettero in tutto il periodo della preminenza politica mondiale, di un'influenza assai più estesa e articolata nei continenti extraeuro­pei e di una robusta superiorità militare. Soprattutto, essi ebbero sempre un in-colmabile vantaggio economico. Le economie pianificate del blocco sovietico crebbero velocemente fino a metà degli anni sessanta, ma restando sempre un'area chiusa e sostanzialmente isolata. Gli Stati Uniti invece, oltre a essere più ricchi e tecnologicamente avanzati, erano al centro di un'economia mon­diale di mercato* che comprendeva le aree più sviluppate del globo (il Nord America, l'Europa occidentale e il Giappone: in questo trentennio essi crebbe-

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La guerra freddadal cuore europeoallo scenariomondiale

Storia contemporanea

ro a ritmi straordinari) e che integrava, pur in modo assai disuguale, anche l'A­merica Latina, il Medio Oriente, l'Africa e l'Asia meridionale.

Era a fronte di questa ben più ramificata influenza degli Usa e dell'Occidente che le rivoluzioni del Terzo Mondo e il movimento dei non allineati parvero assu­mere, fino ai primi anni settanta, un carattere di alternativa al sistema bipolare. Esse chiedevano uno spostamento di risorse dall'antagonismo militarizzato Est-Ovest al sostegno allo sviluppo lungo l'asse Nord-Sud; e spesso si scontravano con quell'interdipendenza dei mercati di cui gli Stati Uniti erano i garanti. Ma proprio le domande di sviluppo si mostrarono quelle a cui l'Urss era meno capace di dare risposte positive. Il suo modello di industrializzazione pianificata e auto­sufficiente, pur inizialmente efficace in termini quantitativi, cominciava proprio nei primi anni settanta a mostrare quell'atrofia che ne avrebbe poi segnato il de­clino. Viceversa l'Occidente finì per essere l'interlocutore principale - anche se spesso, come si è visto, dopo passaggi aspramente conflittuali - dei processi di crescita delle economie e delle nazioni del Terzo Mondo: a causa della schiac­ciante superiorità delle sue risorse produttive e finanziarie (ancora alla fine degli anni sessanta circa il 70% del prodotto mondiale era concentrato in Europa occi­dentale e negli Stati Uniti); per la ramificazione dei suoi legami commerciali, fi­nanziari e anche socio-culturali con le élites sia dell'America Latina che dell'Asia e dell'Africa post-coloniali; e per il maggior dinamismo dei suoi sistemi di produ­zione, di consumo e di innovazione tecnologica.

Nell'interazione con questo diffuso vigore della civiltà dei consumi di matrice occidentale, dell'innovazione tecnologica e della globalizzazione* produttiva e fi­nanziaria, alcuni poli di un Terzo Mondo che si andava ormai rapidamente diver­sificando costruirono a partire dagli anni settanta dei loro imprevisti percorsi di crescita e di inserimento nel mercato mondiale. E proprio questa dinamica (che coinvolge protagonisti cosi diversi come l'India o l'Opec, la Cina comunista o l'Indonesia) a portare nell'arco di quindici anni alla fine della guerra fredda. Alla fine del bipolarismo si giunge, tra il 1989 e il 1991, non tanto per una «vittoria» degli Usa sull'Urss, quanto per la globalizzazione di un'economia di mercato par­ticolarmente dinamica proprio in zone cruciali di quello che fino ad allora era sta­to il «sottosviluppo». Se gli Usa, insieme al Giappone e all'Europa occidentale, sono stati gli interlocutori cruciali di tale processo, l'Urss viceversa si è trovata vieppiù relegata in un isolamento stagnante che ha finito per vanificarne le ambi­zioni di potenza e per portare il suo stesso sistema ideologico e geopolitico alla dissoluzione. Guerra fredda e decolonizzazione sono cioè stati due fili di un com­plesso intreccio storico che ha trasformato il mondo contemporaneo in modo ben diverso da quanto l'una e l'altra di quelle dinamiche potesse singolarmente fare.

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