di Federico Romero - · PDF fileGuerra fredda e decolonizzazione Nell'immediato dopoguerra gli...
Transcript of di Federico Romero - · PDF fileGuerra fredda e decolonizzazione Nell'immediato dopoguerra gli...
STORIA CONTEMPORANEA
XIX. Guerra fredda e decolonizzazione
di Federico Romero
SOMMARIO: I «due blocchi» e il Terzo Mondo - Un nuovo equilibrio di potenze - Da alleati a nemici: nascita della «guerra fredda» - La strategia americana in Europa: aiuti economici e «contenimento» - Le elezioni del '48 in Italia - Il blocco di Berlino e la divisione della Germania - L'Europa occidentale e la garanzia americana - II blocco comunista e la sovietizzazione dell'Est europeo - La Jugoslavia e l'«ere- sia» di Tito - Le due Europe: equilibrio e stabilità - L'Urss potenza nucleare e la rivoluzione comunista in Cina - La guerra di Corea - Riarmo e alleanze militari: la Nato e il Patto di Varsavia - Antagonismo ideologico - Il 1956: la rivolta polacca e l'insurrezione ungherese - Un nuovo protagonista: il mondo non industrializzato - Gli anni quaranta e la definitiva decolonizzazione del continente asiatico - La questione palestinese: ritiro inglese e nascita dello Stato di Israele - La logica bipolare conquista il Medio Oriente - Fine dei colonialismo inglese e francese - La guerra di liberazione algerina - L'Africa sub-sahariana: una decolonizzazione convulsa - Nehru, Sukarno e Nasser: nascita del «terzomondismo» - II movimento dei paesi «non allineati» - Un nuovo terreno di contesa tra le superpotenze - L'orbita sovietica - L'ambito dell'egemonia americana - Il «muro» di Berlino e la repressione della «primavera di Praga» - Chruščëv e la «coesistenza pacifica» - Kennedy e la «nuova frontiera» - La crisi di Cuba: nascita della «deterrenza» - II modello americano: modernizzazione e democratizzazione - La guerra del Vietnam e lo scacco ameri-cano - Due giganti indeboliti - Gli accordi per il disarmo bilaterale e controllato - Uno scontro di ideologie o un conflitto di interessi? - La guerra fredda dal cuore europeo allo scenario mondiale - Fine del bipolarismo e fine del Terzo Mondo.
1. Il problema
Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale il sistema intemazio- nale si polarizzò intorno ai due grandi vincitori. Stati Uniti e Unione Sovietica. Tra il 1945 e il 1947 essi passarono dalla cooperazione antinazista a un reciproco antagonismo che divise l'Europa e altre parti del mondo in due blocchi di alleanze reciprocamente impermeabili, via via sempre più armati e aspramente contrapposti in un conflitto ideologico e geopolitico che si fermò solo sulla soglia dello scontro militare diretto.
Gli equilibri strategici e le contrapposizioni ideologiche in Europa, sin dal dopoguerra, furono dunque profondamente segnati dalla preponderanza di questi due poli, americano e sovietico (bipolarismo). Sorge il problema se tale bipolarismo sia stato pieno, o asimmetrico e squilibrato a favore degli Usa. La logica bipolare si estese progressivamente anche a talune zone extraeuropee, apparendo ai contemporanei come uno scontro planetario tra Democrazia occidentale e Comunismo. È esatta questa percezione? O l'affermarsi di nuove nazioni indipendenti,
475
I «due blocchi»e i l Terzo Mondo
Storia contemporanea
e la loro ricerca di vie autonome allo sviluppo danno invece un senso autonomo ai conflitti extraeuropei, e delineano molti e diversi protagonisti in quello che si comincia a chiamare il Terzo Mondo, per distinguerlo dal Primo Mondo rappresenta-to dall'Occidente e dal Secondo Mondo dell'Est europeo? Composito e diversificato, il Terzo Mondo non riuscì mai a costituire una vera alternativa all'antagonismo bipolare, ma la sua stessa esistenza, e il suo complesso rapporto con un'economia internazionale in espansione, resero evidente che il sistema della guerra fredda non comprendeva, e tanto meno esauriva, l'intero scenario mondiale.
2. Il dopoguerra.
Nel 1945, dopo aver sconfitto le armate tedesche, l'Unione Sovietica era la principale potenza europea. Gli Stati Uniti avevano vinto la guerra in Europa occidentale e in Estremo Oriente, dominavano gli oceani, detenevano la bomba atomica* e disponevano di una soverchiante forza produttiva e finanziaria. La Germania e il Giappone, distrutti e occupati, non appartenevano più al novero delle potenze. La Gran Bretagna sedeva tra i vincitori ma aveva esaurito gran parte delle sue risorse imperiali, e doveva affidarsi all'aiuto americano; ancor più indebolita e ridimensionata appariva la Francia. L'Italia e gli altri paesi europei, travolti da una guerra più grande di loro, potevano solo concentrarsi su una difficile ricostruzione.
Sia gli Usa che l'Urss auspicavano un dopoguerra di reciproca collaborazione, e nella Conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) istituirono l'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) per creare, e dirigere, un sistema internazionale pacifico e cooperativo. Ma gli interessi vitali degli uni e dell'altra non erano facilmente conciliabili; e le loro diverse visioni del mondo, per molti versi incompatibili, resero ogni mediazione via via più difficile. Mosca intendeva garantirsi da un'eventuale rinascita di una Germania forte e nuovamente minacciosa, e voleva assicurarsi il controllo su un'Europa orientale riorganizzata da governi «amici» (cfr. la lezione XVI). I dirigenti sovietici, inoltre, diffidavano della superiore potenza americana e ritenevano necessario sviluppare un sistema socialista chiuso e il più possibile autosufficiente. Le élites* politiche ed economiche americane volevano invece un mondo di mercati* aperti, interconnessi e organizzati intorno al ruolo cardinale del dollaro. Washington, infatti, concepiva la sicurezza e la prosperità della democrazia americana solo in un ambito internazionale di democrazie capitalistiche. Voleva perciò che le altre maggiori aree industriali del mondo - Europa occidentale e Giappone - risorgessero come parte integrante di tale siste-ma e non rischiassero invece di chiudersi nel nazionalismo* economico o di piegarsi a una qualche forma di influenza sovietica. Quest'ultima si era già imposta in Europa orientale, e non vi era modo di contrastarla direttamente, ma il presidente Harry Truman e il suo governo non erano disposti a vederla ulteriormente estesa, ritenendo che la preminenza economica e strategica americana desse loro le leve per realizzare un simile, ambizioso disegno.
476
Un nuovo equil ibrio di potenze
Guerra fredda e decolonizzazione
Nell'immediato dopoguerra gli ex alleati si ritrovarono presto in disaccordo su tutte le principali materie di negoziato. Gli Usa e la Gran Bretagna contestavano la rigidità di un controllo sovietico sui governi dell'Europa orientale che a Mosca ap-pariva a invece legittimo e vitale per la propria sicurezza. La divisione in zone d'oc-cupazione militare della Germania - che ciascuno temeva di veder rinascere come soggetto indipendente e magari ostile, ma che gli occidentali non volevano neppu- re vedere sempre debole, e magari protagonista in futuro di un avvicinamento a Mosca - si trasformò gradualmente in vera e propria divisione amministrativa e poi politica tra una zona occidentale e una zona orientale; Berlino, che per quanto fosse situata all'interno di questa seconda parte era stata a sua volta divisa in zone assegnate agli occidentali e ai sovietici, divenne un punto di frizione tra gli uni e gli altri. Già nel 1946 Winston Churchill proponeva un'immagine di grande forza evocativa, quella della «cortina di ferro» fatta di tirannide e oppressione che stava scendendo a separare l'Europa dell'Est da quella dell'Ovest. In altre aree, come l'Iran e la Turchia, emersero nello stesso periodo contrasti che videro sovietici e americani impegnati in aspri dissidi diplomatici. Nella prima metà del 1947, men- tre i sovietici paventavano il rischio di un accerchiamento ostile, gli americani erigevano a pericolo centrale del dopoguerra quello di un'espansione dell'influenza sovietica, e si risolvevano a contrastarla con una ferma strategia di contenimento. Fu proprio quello l'anno in cui il termine guerra fredda fu introdotto dal giornali-sta americano Walter Lippmann, per stigmatizzare la condizione a cui avrebbe condotto l'emergente dottrina statunitense del contenimento: uno stato di tensione permanente tra Usa e Urss basato sul rifiuto di riconoscere la legittimità dell'avversario e negoziare le divergenze di interessi per via diplomatica.
Risulta oggi poco credibile l'idea che i sovietici, intransigenti ma anche assai cauti, perseguissero un deliberato progetto di espansione. Ma i dirigenti americani contemplavano preoccupati l'accavallarsi di numerosi punti di crisi e instabilità, che essi temevano offrissero grandi opportunità potenziali per la diplomazia sovietica. Invece della potenza tedesca, al centro dell'Europa vi era adesso un vuoto fatto di povertà, incertezza e possibile risentimento nazionalistico. In Francia e in Italia i conflitti politici ed economici della fase della ricostruzione potevano accrescere il ruolo di forti partiti comunisti (cfr. la lezione XX). La Grecia era attraversata dalla guerra civile tra comunisti e destra monarchica. In tutta l'Europa occidentale la carenza di valuta estera poteva soffocare la ripresa e indurre alla chiusura protezionista* delle economie nazionali. I capisaldi della visione internazionale americana potevano dunque essere salvaguardati solo con una forte mobilitazione delle proprie risorse, politiche ed economiche, che consentisse di arginare e invertire queste tendenze disgregataci.
3. Il sistema della guerra fredda.
Il 12 marzo 1947 Truman annunciò che gli Usa sarebbero subentrati all'esau- sta Gran Bretagna nel fornire aiuti alla Grecia e alla Turchia, e motivò tale scelta
477
Da al leatia nemici:nascita de l la«guerra fredda»
Storia contemporanea
in termini di principio. Nel mondo si confrontavano - egli disse - «due sistemi di vita alternativi». In Grecia, in Europa e nel Mediterraneo il comunismo andava fermato: gli Stati Uniti si impegnavano a «sostenere i popoli liberi che intendono resistere a tentativi di assoggettamento da parte di minoranze armate o di pressioni esterne». Tre mesi dopo venne l'annuncio di un progetto di imponenti aiuti americani ai paesi dell'Europa occidentale, l'European Recovery Program (Erp), più comunemente noto come Piano Marshall (cfr. la lezione XVIII). Esso si prefiggeva di: 1) fornire i capitali e le materie necessarie ad alimentare la ripresa delle economie europee; 2) accrescere di conseguenza i livelli di produttività, di reddito e di occupazione; 3) integrare l'economia tedesca in un'area di scambi europea; 4) determinare una duratura interdipendenza dei mercati mondiali, in primo luogo di quelli euro-americani. Si trattava di una strategia del tutto innovativa se paragonata al precedente dopoguerra, quando gli Stati Uniti avevano scelto di ritrarsi dall'Europa e avevano svolto in modo parziale e insufficiente il loro compito di grande banchiere mondiale. Gli scopi economici del Piano Marshall si intrecciavano con quelli strategici del contenimento: il consolidamento di una robusta crescita economica avrebbe stabilizzato le nazioni europee, rafforzando il consenso sociale e marginalizzando le opposizioni comuniste, cosi da contrapporre all'Urss la solidità di un'Europa prospera e fiduciosa sotto la leadership statunitense. All'Ovest i governi, i maggiori gruppi economici e sindacali e le forze poli-tiche non comuniste (sia conservatrici che democristiane o socialdemocratiche) accolsero l'iniziativa americana come un utilissimo sostegno finanziario, politico e psicologico alle proprie strategie di espansione economica e di consolidamento nazionale. Alla polarizzazione internazionale tra due potenze e due sistemi ideologici sempre più apertamente ostili corrispose a partire da quel momen-to anche una rigida partizione della geografia politica europea e della stessa vita interna delle società nazionali. Le elezioni italiane dell'aprile 1948, ad esempio, furono largamente giocate intorno alla scelta dell'adesione al Piano Marshall e al nascente blocco occidentale. La divisione dell'Europa stava prendendo corpo e i sovietici erano ora decisamente sulla difensiva: essi denunciarono il Piano come un tentativo di asservimento dell'Europa al capitale americano, e, nell'impossibilità di frenarlo, tentarono un'ultima carta per impedire almeno che le aree più ricche della Germania venissero integrate nell'Europa occidentale come nuovo Stato indipendente, e quindi per eliminare il perno del disegno americano. Il 24 giugno 1948 i sovietici bloccarono gli accessi alle zone occidentali di Berlino, aprendo la prima grande crisi della guerra fredda. Truman valutò che un ritiro da Berlino avrebbe reso vani i piani per la creazione di una repubblica tedesca occidentale, indebolendo drammaticamente la strategia economica e politica del contenimento. Convinto che la preponderante forza americana avrebbe dissuaso i sovietici dal precipitare uno scontro militare, egli accettò la sfida e avviò un gigantesco ponte aereo per rifornire Berlino, aggirando il blocco terrestre dei sovietici. Undici mesi dopo l'Urss dovette cedere, togliendo il blocco. Il 23 maggio 1949 nasceva la Repubblica federale tedesca, che sarebbe
478
La strategiaamericanain Europa:
aiuti economicie «contenimento»
Le e lez ioni de l '48 in Ital ia
Il bloccodi Berl ino
e la divisionede lla Germania
Guerra fredda e decolonizzazione
divenuta il motore e l'epicentro del grande boom economico dell'Europa occidentale. Come contropartita, il 30 maggio l'Unione Sovietica costituì nella sua zona la Repubblica democratica tedesca. La divisione della Germania era un fatto compiuto.
La crisi di Berlino mostrò comunque i pericoli insiti in un antagonismo bipolare sempre più acuto. Sia i governi europei che quello americano erano preoccupati della forza militare sovietica accampata nel centro dell'Europa. E anche la rinascita della Germania suscitava inquietudine tra i suoi vicini, a cominciare dalla Francia. In un continente diviso e incerto, una garanzia america- na per la sicurezza dell'Europa occidentale parve l'unica soluzione all'enorme divario di potenza tra l'Urss e gli altri paesi europei. Il 4 aprile 1949 fu siglato il Patto Atlantico, che impegnava i firmatari (Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia e altri paesi europei: Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda e Portogallo) alla difesa reciproca. L'alleanza compattava lo schieramento occidentale assicurandogli la protezione militare americana, e completava l'architettura del contenimento installando gli Usa nel ruolo di potenza egemone in un'Europa occidentale politicamente stabilizzata e avviata a una robusta ripresa economica.
L'Urss, per parte sua, reagì al dispiegarsi del contenimento americano in Occidente con la brusca trasformazione della sua sfera d'influenza in un vero e proprio blocco di regimi comunisti tra loro sostanzialmente omogenei. Già nel mar-zo del 1948 un colpo di stato comunista aveva eliminato ogni pluralismo politico in Cecoslovacchia, dove il partito comunista aveva soltanto una maggioranza relativa dei consensi. Uguale sorte toccò peraltro alla Romania, all'Ungheria, alla Polonia, dove i comunisti rappresentavano solo delle minoranze. Quasi ovunque si procedette a unificazioni coatte tra questi e i partiti socialdemocratici. I sovie-tici potevano contare su alcune favorevoli correnti d'opinione* in ambienti non comunisti: la paura per un'eventuale ripresa tedesca sostenuta dagli occidentali, molto forte nei paesi come la Polonia o la Cecoslovacchia che avevano subito gli orrori dell'occupazione nazista, induceva a guardare all'Urss come a un naturale protettore attorno all'idea della solidarietà dei popoli slavi, diffusa anche in paesi come la Bulgaria. Ma l'elemento della coercizione fu assai forte. Anche l'Euro- pa orientale - come l'Urss degli anni trenta - conobbe la stagione delle grandi purghe fuori dai partiti comunisti e all'interno di essi, delle massicce repressioni basate su fantasiose accuse di tradimento costruite dai servizi segreti. L'intento era quello della sovietizzazione dei partiti comunisti da poco collocati al potere, cioè della loro reciproca omologazione, e della garanzia della loro piena subordinazione agli interessi di Mosca. Si procedette anche a un'integrazione delle economie dell'Europa orientale, la quale venne trasformata in un'area economica chiusa in cui fu avviata una rapida, massiccia industrializzazione. L'unica esperienza comunista a sottrarsi alla rigida obbedienza sovietica fu quella della Jugoslavia guidata da Josip Broz, detto Tito, non a caso l'unico paese nell'Europa orientale a essersi liberato dall'occupazione nazista non per l'intervento dell'Ar- mata rossa ma in forza di una propria vittoriosa guerra partigiana. Tito avviò una
479
L'Europaoccidentalee la garanz iaamericana
Il bloccocomunista e lasovie tizzaz ionede ll 'Est europeo
La Jugoslaviae l '«eresia»di Tito
Storia contemporanea
efficace opera di mediazione istituzionale tra le varie nazionalità che componevano la nuova Federazione jugoslava, e soprattutto tra le maggiori di esse, la ser- ba e la croata (in passato divise da feroci antagonismi), e si mostrò sempre più sospettoso nei confronti dell'egemonia sovietica. Seguì una clamorosa rottura con l'Urss (1948) che portò 1'«eresia» titoista a un'originalissima scelta neutrali- sta nel cuore dell'Europa.
Si trattava dunque di un'eccezione, cui va aggiunta quella dell'Austria e della Svizzera e, all'altro opposto del continente, della Finlandia e della Svezia. Alle soglie degli anni cinquanta l'Europa era rigidamente divisa in due aree separate e ostili, caratterizzate da strutture socio-economiche e sistemi politico-ideologici alternativi, e legate all'egemonia delle due grandi potenze. La guerra fredda era questo antagonismo tra due mondi, Est e Ovest, che si scrutavano diffidenti e si negavano ogni reciproca legittimità, percependo l'avversario come un'inconciliabile minaccia per il proprio sistema di valori e, forse, per la propria sopravvivenza: era una guerra simbolica totale. Per quanto antagonistica, la divisione della Germania e del continente aveva però reciso drasticamente i dilemmi geopolitici lasciati dalla seconda guerra mondiale. Nel sistema delle due Europe contrapposte, che nessuno avrebbe più davvero provato ad alterare, vi era perciò un'intrinseca stabilità. Era tuttavia un equilibrio delicato, esposto alle ripercussioni dei mutamenti che scuotevano il resto del mondo e delle modifiche che insorgevano nei rapporti di potenza tra Usa e Urss. Fu quindi un equilibrio che dovette essere costantemente aggiornato e adeguato, con nuovi momenti di accresciuta tensione.
Il primo arrivò di lì a poco. Nell'agosto del 1949 l'Urss fece esplodere la sua prima bomba atomica, e il 1° ottobre i comunisti cinesi guidati da Mao Dzedong vinsero la lunga guerra civile, instaurando la Repubblica popolare cinese (cfr. la lezione XVII). Ai dirigenti americani ciò poneva una duplice, complessa sfida. L'Urss, grazie alla bomba atomica, poteva ora essere meno intimorita dalla preponderanza militare americana, mentre il comunismo si affermava nel paese più popoloso del mondo ed estendeva la sua influenza negli immensi spazi del continente asiatico. In realtà c'era una varietà di motivazioni nazionaliste e anticolonialiste nei comunisti asiatici che difficilmente poteva conciliarsi con gli interes-si sovietici; e si ponevano i presupposti di un secondo e maggiore conflitto infra-comunista (dopo quello jugoslavo) tra Cina e Urss, per ora potenziale ma destinato ad emergere chiaramente dopo un decennio. Gli Stati Uniti credettero inve-ce al pericolo di un unico movimento comunista di scala planetaria, e sin dal periodo della guerra civile si contrapposero ai maoisti appoggiando il governo del Guomindang (il Partito nazionalista cinese), guidato da Chiang Kai-shek, anche quando questi - perduta la guerra - si ritirò nell'isola di Formosa (o, in cinese, Taiwan), sempre minacciando di ritornare in armi sul continente con l'appoggio dei suoi protettori americani. Fu la guerra di Corea a materializzare il pericolo di un'avanzata comunista sul nuovo grande fronte asiatico della rivalità bipolare.
Il 25 giugno 1950 il governo comunista della Corea del Nord, con il consenso di Stalin e Mao, attaccò il regime filo-occidentale del Sud contando su di una ra-
480
Le due Europe: equil ibrio
e stabil i tà
La guerra di C orea
L'Ursspotenza nucleare
e la rivoluz ionecomunista in cina
Guerra fredda e decolonizzazione
pida vittoria, e le sue truppe avanzarono con facilità. Gli Stati Uniti ritennero che una vittoria del Nord avrebbe distrutto la loro credibilità quale garante di governi amici e alleati, incrinando il contenimento in tutto il mondo. Truman ottenne dalle Nazioni Unite il mandato di respingere l'invasione e inviò subito un corpo di spedizione americano a combattere in Corea. Nel giro di pochi mesi poté poi passare all'offensiva, e l'esercito americano penetrò nel territorio del Nord con l'ambizione di «liberarlo» dal comunismo. Ma ciò fece precipitare lo scontro con la Cina, che rovesciò contro gli americani un gran numero di «volontari» della sua Armata rossa. Qui si ebbe un clamoroso scontro interno allo stesso establishment statunitense: il comandante delle forze in campo, il generale Mac Arthur, voleva portare la guerra (aerea e terrestre) direttamente contro la Cina; più moderatamente il presidente Truman voleva evitare un ulteriore allargamento del conflitto. Alla fine, nel 1951, il generale fu esonerato. Il fronte intanto ridiscese di nuovo verso il Sud, e dopo scontri sanguinosi la guerra si stabilizzò: nel 1953 si giunse finalmente a un armistizio che congelò - ancora fino ad oggi - la precedente divisione tra le due Coree.
La vicenda coreana ebbe profonde ripercussioni. In primo luogo essa estese definitivamente il conflitto bipolare al di fuori dell'Europa. Il contenimento divenne una strategia anche asiatica, e comportò innanzitutto la ricostruzione accelerata del Giappone come baluardo occidentale. In secondo luogo divenne chiaro a tutti i protagonisti quanto grande fosse il pericolo di uno scontro diretto tra le superpotenze: nessuno avrebbe più cercato di valicare i confini delle sfere d'influenza determinatesi nel 1945. Infine, la rivalità bipolare assunse un aspetto sempre più militarizzato. Gli Stati Uniti avviarono un riarmo massiccio per mantenere una netta superiorità nucleare sull'Urss e schierare grandi forze convenzionali in Europa e in Asia. L'Alleanza atlantica formò una sua organizzazione militare integrata (la Nato, Organizzazione del trattato del Nord Atlantico), si estese al Mediterraneo orientale con l'ingresso della Grecia e della Turchia (1951), e nel 1955 inglobò anche la Germania occidentale, che si dotava nuovamente di proprie for-ze armate. Il blocco sovietico diede vita, a sua volta, a una propria alleanza militare: il Patto di Varsavia (1955).
Questa militarizzazione della guerra fredda portò entrambe le superpotenze a sviluppare poderosi apparati militar-industriali che ne condizionarono la vita interna in modi assai diversi ma comunque profondi. La spesa per gli armamenti divenne una voce assai cospicua nei loro bilanci e, anche se su scala minore, in quelli dei loro principali alleati. Soprattutto, tra Usa e Urss si innescò una continua corsa e rincorsa per la moltiplicazione e l'innovazione tecnologica degli armamenti. A partire dalla metà degli anni cinquanta la crescita degli arsenali nucleari divenne impetuosa, dando presto vita a un sistema di deterrenza reciproca sempre più complesso e ambivalente: esso infatti dissuadeva dal ricorso alla guer-ra diretta proprio perché moltiplicava esponenzialmente gli effetti distruttivi che questa poteva comportare.
Gli anni del conflitto coreano furono quelli più «caldi» dell'intero arco della guerra fredda, e non solo per i combattimenti che devastarono la peni-
481
Riarmo e al leanzemil itari: la Natoe i l Pattodi Varsavia
Antagonismoideologico
Storia contemporanea
sola asiatica. Con il timore che il conflitto potesse generalizzarsi, i due blocchi furono attraversati da un clima di mobilitazione e preparazione alla guerra. L'antagonismo ideologico e simbolico divenne rovente, e la demonizzazione dell'avversario raggiunse il suo culmine. L'Urss promosse, con i suoi alleati e sostenitori, un'ampia campagna contro la volontà di guerra che essa attribuiva alle ambizioni imperiali del capitalismo americano. E all'interno del suo blocco esasperò il terrore repressivo contro ogni forma di vero o presunto dissenso. L'Occidente viceversa si autorappresentò come impegnato in una lotta mortale per la sopravvivenza della democrazia contro le mire del totalitarismo comunista, al quale si attribuiva - in una distorta ma suggestiva analogia - lo stesso intreccio tra struttura dittatoriale e vocazione aggressiva della Germania nazista. Negli Stati Uniti, in particolare, la mobilitazione ideologica conobbe la sua stagione più rabbiosa e oscura con le inquisizioni anticomuniste promosse dal senatore Joseph McCarthy (da qui il termine maccartismo), che comportarono una circoscritta ma sostanziale limitazione delle libertà politiche e civili per chi non aderisse al patriottismo della crociata anticomunista.
Dopo la fine dei combattimenti in Corea, tuttavia, con lo stabilizzarsi di un bipolarismo militarizzato in Europa e il subentrare di una certa consuetudine a una rivalità ormai quasi decennale, la tensione venne gradualmente scemando. Nella seconda metà degli anni cinquanta la guerra fredda non era più l'emergenza dovuta al disvelarsi di un pericoloso antagonismo, l'insorgere di una se-rie di crisi, la costruzione di sistemi di potenza inediti e dalle ripercussioni imprevedibili. Divenne anzi gradualmente un dato di fatto, un intreccio ormai abbastanza rodato di relazioni ostili ma anche regolate da tacite norme reciprocamente accettate. Insomma un sistema duraturo e stabilizzato che andò incontro, almeno per ciò che riguardava l'Europa, a un'evidente normalizzazione, per quanto nel campo sovietico persistessero conati di rivolta all'esterno dei regimi comunisti e tentativi di riforma dall'interno di essi: un intreccio che si verificò nella Polonia e nell'Ungheria del 1956. Nel caso più clamoroso, quello ungherese, fu l'esercito sovietico a intervenire direttamente per schiacciare la ribellione, riportare l'ordine precedente, arrestare il leader comunista riformatore Imre Nagy che sarebbe poi stato impiccato. In Occidente grandi furono le proteste, mentre i fatti mettevano radicalmente in discussione anche presso l'opinione di sinistra l'idea di un'Urss liberatrice dei popoli, che si era affermata nel corso della seconda guerra mondiale. In pratica però nessuna reazione si ebbe dalle potenze occidentali, perché le sfere d'influenza erano riconosciute, la divisione del continente accettata, e nessuno pensava di contestarne la sostanziale intangibilità.
Fuori dall'Europa tutto era invece in movimento, ed era sugli altri continenti - l'Asia in particolare - che si andava concentrando l'attenzione delle superpoten-ze. Sullo scenario mondiale irrompevano infatti grandi trasformazioni che aprivano un nuovo fronte, assai mutevole e composito, per il loro sedimentato antagonismo.
482
Il 1956:la rivolta
polaccae l'insurrezione
ungherese
Guerra fredda e decolonizzazione
4. La decolonizzazione.
In una carta dei primi anni sessanta la geografia politica del mondo appariva irriconoscibilmente mutata rispetto a quella del 1945. Allora le nazioni sovrane rappresentate all'Onu erano state 51, e tra queste solo 9 asiatiche e appena 3 africane: gran parte dell'Asia meridionale, varie zone del Medio Oriente e quasi tutta l'Africa erano ancora sotto il dominio dei grandi imperi coloniali della Gran Bre-tagna e della Francia, o di quelli minori di Olanda, Belgio e Portogallo (cfr. la lezione X). Ma nel 1965 solo quest'ultimo resisteva ancora, quelli belga e olandese erano scomparsi e degli imperi francese e britannico rimanevano solo alcune minuscole, simboliche vestigia come Hong Kong, restituita poi alla Cina nel luglio 1997. Dal loro sgretolarsi erano emerse grandi e piccole nazioni indipendenti: gli Stati sovrani membri dell'Onu erano già divenuti 120, e di questi ben 70 in rappresentanza di nazioni asiatiche o africane.
In meno di due decenni, il mondo non industrializzato era cioè emerso sulla scena mondiale come inedito protagonista, e sotto diversi profili. Un crollo dei tassi di mortalità - dovuto alle migliori condizioni economiche, igieniche e sanitarie - aveva innanzitutto innescato un imponente boom demografico* che aumentava il peso relativo delle popolazioni dell'Asia, dell'America Latina e dell'Africa. In diversi casi, queste aree conoscevano processi di industrializzazione e urbanizzazione che le allontanavano dalla tradizionale economia rurale. Soprattutto, si trattava di paesi che emergevano come attori politici indipendenti, in seguito alla decolonizzazione, nel sistema mondiale. In Asia la crisi degli imperi coloniali si era manifestata con chiarezza già nel corso della seconda guerra mondiale, quando la cacciata di tutti gli europei dal Sud-est asiatico, ad opera del Giappone, aveva evidenziato la vulnerabilità del colonialismo europeo. I principi di libertà e autodeterminazione democratica esaltati dalla coalizione bellica delle Nazioni Unite, inoltre, ne avevano grandemente diminuito il precedente alone di legittimità. Soprattutto, le forze nazionaliste e indipendentiste uscivano rafforzate vuoi dalla resistenza ai giapponesi, come in Malesia o in Indocina, vuoi dall'irrobustirsi di borghesie commerciali in quelle aree, come l'India o il Medio Oriente, dove le esigenze di mobilitazione bellica dell'impero britannico avevano stimola-to la crescita della produzione e dell'attività commerciale locale.
Al termine del conflitto mondiale, le rivendicazioni d'indipendenza si trasformavano in pressante azione politica proprio mentre le potenze imperiali dovevano ridefinire il proprio futuro in un contesto di drastico ridimensionamento delle loro risorse finanziarie, militari e politiche. Già nel 1946 divenivano indipendenti la Siria e il Libano francesi, mentre in Indocina il dominio di Parigi veniva sfidato da una guerra d'indipendenza che sarebbe poi giunta alla vittoria nel 1954. Tra il 1945 e il 1949 fallivano i tentativi olandesi di resistere all'indipendenza dell'Indonesia. E nel 1947 la decolonizzazione conosceva la sua più cospicua e emblematica vittoria sull'impero britannico, quando il movimento nazionale guidato da Gandhi sfociava nell'indipendenza dell'India e del Pakistan, cui seguirono quella di Ceylon e della Birmania nel 1948. Nel 1950 - con la sola eccezione dell'Indo-
483
Un nuovo protagonista:i l mondo nonindustrial izzato
Gli anni quarantae la de finitivadecolonizzaz ionede l continenteasiatico
Storia contemporanea
cina francese ancora in guerra - l'Asia intera era ormai libera dal dominio coloniale europeo, e due grandi nazioni, la Cina comunista e la democrazia indiana, si affacciavano come nuovi, importanti protagonisti sulla scena internazionale.
Negli anni cinquanta lo scenario principale del processo di decolonizzazione si spostava nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Qui, il variegato ma vigoroso nazionalismo delle popolazioni musulmane, dall'Iran al Marocco, si scontrava con le residue, e ultime, resistenze franco-britanniche. Ma la rilevanza strategica ed economica di questa zona ricca di petrolio, e cosi vicina all'epicentro della rivalità bipolare, attivava anche una complessa interazione con il crescente attivismo delle due superpotenze. In Palestina gli inglesi, che detenevano il potere in forza di un «mandato» della Società delle Nazioni, avevano grande difficoltà a controllare il conflitto tra popolazioni arabe autoctone ed ebrei stabilitisi in quelle terre secondo i dettami del nazionalismo ebraico (o sionismo) per il quale gli ebrei di tutto il mondo dovevano rientrare nella «terra promessa», la Palestina appunto; tra essi, numerosi i sopravvissuti dell'orrendo genocidio* nazista, che avevano una ragione di più per cercare una nuova patria. Allorché l'Onu decretò la spartizione della Palestina in due entità statuali separate (ebraica e araba), i britannici si ritirarono e gli ebrei - dopo aver proclamato lo Stato di Israele - riuscirono a battere sul campo un'eterogenea coalizione araba, ottenendo cosi una sistemazione territoriale assai più favorevole di quella prevista dall'Onu (1948-49). Questa soluzione, con la conseguente espulsione di quasi un milione di arabi palestinesi autoctoni, fu sentita come una grande ingiustizia dal risorgente nazionalismo arabo - che si sarebbe affermato nel 1953 in Egitto, con la proclamazione della repubblica ad opera dei militari capeggiati da Gamal Abdel Nasser - e lo radica-lizzò in senso antioccidentale, sovrapponendo un conflitto regionale quasi insolubile a quello globale tra le superpotenze.
Se l'Urss cercava, con parziale successo, di diventare un interlocutore privilegiato del nazionalismo arabo, gli Stati Uniti erano invece mossi da impulsi con-traddittori. Culturalmente propensi a sostenere l'emancipazione dal retaggio coloniale e le ambizioni di modernizzazione* dei nuovi regimi, essi tuttavia ne temevano il radicalismo, che poteva danneggiare gli interessi economici occidentali e offrire nuovi spazi all'antagonista sovietico. In Iran, ad esempio, la nazionalizzazione dell'industria petrolifera decisa nel 1952 dal governo riformatore di Mossa-deq suscitava l'ostilità non solo dei suoi proprietari britannici, ma anche degli americani che, temendo un neutralismo suscettibile di offrire spazi all'Urss, facevano intervenire i servizi segreti (la Cia) per riportare il controllo del paese, e del petrolio, nelle mani della monarchia filo-occidentale dello scià Muhammad Reza Pahlavi. Ancor più intricata la situazione del mondo arabo. Nel 1956, quando Londra e Parigi, d'intesa con Israele, risposero con l'intervento militare alla decisione di Nasser di nazionalizzare il canale di Suez, gli Stati Uniti condannarono i propri alleati europei, facendone fallire l'impresa tardo-coloniale. Ma da allora in poi essi assunsero un ruolo di guardiani della stabilità in un Medio Oriente sempre più visto attraverso le lenti della rivalità bipolare. Insieme a Israele, le monar-chie tradizionaliste (Giordania e Arabia Saudita) divenivano il pilastro della pre-
484
La questionepalestinese :
ritiro ingle see nascita
de l lo Statodi Israe le
La logica bipolareconquista
i l Medio O riente
Guerra fredda e decolonizzazione
senza occidentale, mentre i regimi radicali di Siria, Egitto ed Iraq si appoggiavano vieppiù all'Urss per un sostegno tecnico e militare.
La spedizione di Suez segnava comunque la fine del colonialismo europeo e del ruolo imperiale di Francia e Gran Bretagna, da allora definitivamente ridotte alla funzione di medie potenze nella sola area europea. L'adattamento era però tutt'altro che indolore, in particolare per la Francia. Suez giungeva a ridosso della sconfitta militare subita nel 1954 a Dien Bien Phu, che la estrometteva dall'Indocina, e intorno ai dilemmi della decolonizzazione la repubblica francese conosceva una profonda crisi. Parigi riusciva a negoziare una transizione relativamente indolore delle sue colonie africane, che negli anni sessanta divenivano Stati sovrani connessi alla metropoli in un'area economica e culturale francofona. Nel 1956 anche il Marocco e la Tunisia erano divenuti indipendenti. Ma nel principale possedimento coloniale, l'Algeria, l'intransigenza dei numerosi coloni europei e dell'esercito francese diedero vita a una sanguinosa guerra di repressione del movimento di liberazione nazionale.
La durezza della guerra di Algeria merita una riflessione a parte: conquistata nel 1830 da Carlo X (cfr. la lezione II), l'Algeria aveva successivamente accolto anche numerosi profughi dell'Alsazia e Lorena, le due regioni di confine strappa-te alla Francia dalla Prussia con la guerra del 1870 (cfr. le lezioni V e VI). L'Algeria rappresentava dunque molto di più di una colonia: per il milione di coloni, molti dei quali vi avevano impiantato importanti attività economiche, era una provincia francese, un pezzo di «madrepatria», e per loro l'emancipazione degli otto milioni di algerini era inaccettabile. La «battaglia di Algeri» (1957) rappresentò lo scontro culminante del conflitto: la resistenza degli algerini fu piegata solo dopo nove mesi, con l'impiego di forze speciali che ricorsero ai metodi più brutali per sedare la rivolta.Dal 1954 al 1962, anno dell'indipendenza, l'Algeria fu cosi teatro dell'ultimo, cruento conflitto della decolonizzazione: esso assurse a emblema di un processo mondiale ormai trionfante. Nei primi anni sessanta, infatti, anche quasi tutta l'Africa sub-sahariana giungeva all'indipendenza. Oltre a quelle francesi, anche le colonie britanniche divennero Stati sovrani con una transizione relativamente pacifica. Spesso rimasero all'interno del sistema del Commonwealth, anche se con maggiori aperture, rispetto agli Stati francofoni, ai mercati mondiali e ai capitali americani. Le eccezioni furono il Kenya, la cui indipendenza (1963) venne dopo la sanguinosa repressione britannica della rivolta contadina dei Mau-Mau (1952-56), e la Rhodesia del Sud, dove i coloni bianchi si separarono da Londra nel 1964 per instaurare un sistema di apartheid razziale (simile a quello sudafricano) che si sarebbe protratto fino al 1979. Convulsa e violenta fu invece la fine dell'impero belga: la nascita della nuova Repubblica del Congo (1959) fu infatti accompagnata da conflitti interni nei quali agirono i rimanenti interessi europei, ma anche le rivalità globali tra le due superpotenze. A metà degli anni sessanta del mondo coloniale restavano i soli possedimenti portoghesi in Africa (Angola, Mozambico e Guinea Bissau), dove comunque operavano forti movimenti di guerriglia che avrebbero conquistato l'indipendenza dieci anni più tardi.
485
Finede l colonial ismoinglese e francese
La guerradi l iberaz ionealgerina
L'Africasub-sahariana: unadecolonizzaz ioneconvulsa
Storia contemporanea
5. Il Terzo Mondo.
L'arrivo di nuovi attori indipendenti - dalla Cina all'Egitto, dall'Indonesia all'India - in un sistema internazionale che fino a vent'anni prima era stato plasma-to e dominato dagli imperi europei, e che era adesso definito dall'antagonismo tra Est e Ovest, innescava ovviamente dinamiche inedite. I protagonisti delle rivolu-zioni anticoloniali volevano in primo luogo affermare la propria legittimità e combattere la cultura - ancora preminente negli organismi internazionali - della tutela delle nazioni più «avanzate», ovvero più ricche, sulle popolazioni «meno progredite». Nella gran parte dei casi, essi intendevano inoltre costruire la propria autonomia dai due grandi blocchi politico-militari e sottrarsi al rischio di venire coinvolti in una guerra. Riunitisi a Bandung, in Indonesia, nell'aprile 1955, i governi di 29 paesi asiatici e africani condannarono ogni forma di oppressione coloniale e contrapposero alla rivalità bipolare il principio di una cooperazione pacifi-ca tra i popoli (cfr. la lezione XXI). Ispirati soprattutto dal leader indiano Jawahar-lal Nehru, dall'indonesiano Akmed Sukarno e da Nasser questi paesi delinearono quindi uno schieramento, ancorché molto diversificato e informale, di nazioni accomunate dalla necessità di tradurre la propria recente indipendenza in effettiva autonomia e, soprattutto, capacità di sviluppo economico.
Sorgeva cosi l'immagine di un Terzo Mondo che riusciva a far sentire la sua voce quanto più avanzava la decolonizzazione. Nel 1960 l'Onu condannava ufficialmente il colonialismo e negli anni seguenti, con il consolidarsi di una maggioranza numerica di nazioni del Terzo Mondo, essa divenne un ambito vieppiù importante di discussione dei problemi del sottosviluppo e della disparità di risorse tra Nord e Sud del mondo. La carenza di risorse finanziarie, produttive, tecnologiche ed educative era infatti il problema centrale che guidava l'azione di quei paesi. Ma essa erigeva anche un limite essenziale alla loro influenza e alla loro autonomia.
I paesi del Terzo Mondo potevano infatti dichiararsi estranei ai blocchi: taluni, come l'India, riuscirono ad attuare un'effettiva equidistanza. A partire dalla conferenza di Belgrado del 1961 lo schieramento sorto a Bandung (cui si era aggiun-ta la Jugoslavia di Tito) si presentò come un vero e proprio movimento di paesi «non allineati», che alla logica della rivalità tra Est ed Ovest opponevano l'auspi-cio di una collaborazione pacifica tra Nord e Sud per lo sviluppo economico e sociale. Ma molti di essi, come il Pakistan filo-occidentale, si posizionavano comunque nell'orbita economica e militare di una delle superpotenze. Altri, come la Cina comunista (che pure negli anni sessanta si allontanava decisamente da Mosca) vedevano il non-allineamento come uno strumento per contrastare l'Occidente e gli Stati Uniti. Soprattutto, ogni paese doveva contemperare il desiderio di autonomia con il bisogno di accedere ai mercati, ai capitali, alle tecnologie e, in molti casi, agli armamenti che solo le potenze industrializzate potevano fornire. La denuncia della dipendenza economica* che era subentrata al dominio colonia-le del recente passato connotò perciò negli anni sessanta la cultura dei movimenti e dei governi più radicali del Terzo Mondo. Ma raramente essa riusci ad alterare
486
Nehru, Sukarnoe Nasser:
nascita de l «terzomondismo»
Il movimentode i paesi
«non al l ineati»
Guerra fredda e decolonizzazione
la realtà del divario di risorse e della conseguente subordinazione ai meccanismi dei mercati internazionali o a quelli degli aiuti, ovviamente condizionati, che potevano provenire dalle superpotenze.
Negli anni sessanta diversi governi del Terzo Mondo perseguirono delle strategie per uno sviluppo pianificato del proprio potenziale agricolo e la costruzione di un apparato industriale capace di sostituire le importazioni dai paesi più ricchi. Essi tentarono di negoziare collettivamente sia crediti e aiuti internazionali a basso costo, sia un accesso più libero ai mercati avanzati, ma ottennero assai meno di quanto avessero bisogno. Solo i produttori di una risorsa strategica come il petrolio riuscirono, nei primi anni settanta, a riunirsi in un organismo (l'Opec) capace di alzarne sensibilmente il prezzo, garantendosi cosi un forte afflusso di capitali. Tra gli esperimenti di industrializzazione e modernizzazione ebbero ben maggio-ree efficacia quelli, realizzati in particolare da alcuni paesi asiatici legati all'Occidente, come la Corea del Sud o Taiwan, che miravano non tanto a sostituire le importazioni quanto a bilanciarle con forti esportazioni industriali sui mercati più ricchi. In entrambi i casi la fuoriuscita dal sottosviluppo, avviatasi negli anni settanta, sarebbe avvenuta non tanto grazie all'autonomia economica quanto a un'interdipendenza via via più stretta con i capitali e i mercati del ricco Occidente. Nel corso degli anni sessanta, ad ogni modo, la sfida posta dall'emergere del Terzo Mondo condizionò e trasformò la rivalità tra le due superpotenze, che intrapresero una vera e propria gara - incentrata sui diversi percorsi di sviluppo che l'una e l'altra potevano offrire - per ancorare alla propria orbita strategica ed economica le nuove nazioni indipendenti. L'irrompere della decolonizzazione parve inizialmente aprire un terreno più favorevole all'Urss: fin dai tempi di Lenin la sua ideologia rivoluzionaria predicava l'autodeterminazione anticoloniale; il suo modello di economia pianificata* sembrava allora potesse ottenere notevoli successi. L'affacciarsi prepotente dei sovietici nel campo tecnologico con la realizzazione della prima navicella spaziale (lo Sputnik, nel 1957) e con il lancio del primo uomo nello spazio nel 1961 (Jurij Gagarin), parve un fatto simbolico del riequilibrio tra Occidente e Oriente. Più concretamente, le forniture sovietiche di armamenti potevano risultare essenziali per i regimi antioccidentali, come quelli nazionalisti arabi di Siria ed Egitto, o come quello rivoluzionario guidato da Fidel Castro che si impose a Cuba, nel 1959, contro una corrotta dittatura militare sostenuta dagli americani.
Gli Stati Uniti, d'altro canto, apparivano spesso alle nuove nazioni, in particolare quelle sorte attraverso una rivoluzione, come gli eredi della tradizione imperiale europea, e non solo per affinità culturale. Sostituitisi agli europei come potenza egemone, garanti della stabilità dei mercati mondiali, e guidati dalla priorità del contenimento antisovietico, essi osteggiavano i movimenti indipendentisti quando questi comprendevano rilevanti componenti comuniste o comunque minacciavano, per il loro radicalismo socio-economico, gli interessi finanziari e commerciali dell'Occidente. Tra il 1949 e il 1954, ad esempio, Washington aveva sostenuto la guerra francese in Indocina, e si rifiutò poi di riconoscere il movimento vittorioso del Viet-minh, a guida comunista, e di accettare l'accordo inter-
487
Un nuovo terrenodi contesa trale superpotenze
L'orbita sovie tica
L'ambitode l l 'egemoniaamericana
Storia contemporanea
nazionale di Ginevra che prevedeva la riunificazione del Vietnam attraverso libere elezioni, preferendo invece appoggiare il regime anticomunista insediatosi nel Vietnam del Sud. L'indiscussa egemonia statunitense sull'America centrale e latina, inoltre, pareva sintomatica della dipendenza neo-coloniale dei paesi meno sviluppati dal sistema capitalistico delle imprese multinazionali. L'ostilità di Washington alla rivoluzione cubana, in particolare, cristallizzò per tutti gli anni sessanta l'immagine antagonistica di un ordine imperiale statunitense contrapposto all'aspirazione terzomondista a uno sviluppo indipendente.
L'ascesa di un Terzo Mondo composito, diversificato e anche sostanzialmente diviso al suo interno, ma che tentava di costituire un'alternativa di non allineamento e di sviluppo autonomo, apriva cosi nuovi terreni alla rivalità bipolare e schiudeva una nuova dimensione per una guerra fredda in cui insorgevano, intanto, anche significative mutazioni strategiche e culturali.
6. Rivalità globale e distensione.
Nel 1961 Berlino fu teatro dell'ultima crisi europea della guerra fredda. Dopo un minaccioso confronto tra i due blocchi, la costruzione del «muro di Berlino» sigillò ermeticamente l'area di influenza sovietica, ma chiarì anche che l'esistenza di due Germanie e due Europe era ormai riconosciuta da tutti. Dieci anni dopo i due governi tedeschi si sarebbero legittimati reciprocamente, e nel 1975 i due blocchi avrebbero siglato gli accordi di Helsinki, che sanzionavano gli assetti europei sedimentatisi nel trentennio precedente. Era il culmine di un processo di distensione* tra Est ed Ovest che si era lentamente evoluto per oltre un decennio: da epicentro della guerra fredda l'Europa si era tramutata in area di coesistenza (armata, ma pacifica e stabile) tra i due blocchi. Se le forze della Nato e del Patto di Varsavia si fronteggiavano sempre in minacciosa allerta, a cavallo della «cortina di ferro» erano iniziati contatti e limitati scambi commerciali. All'apice di un eccezionale boom economico, i governi occidentali erano saldi e fiduciosi. All'Est il controllo sovietico era rigoroso. Sembrò per un attimo incrinare questo stato di cose la «primavera di Praga», esperimento anticonformista e riformatore guidato nel 1968 dal segretario del partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubcek. Ma l'aggressione delle truppe del Patto di Varsavia portò alla drammatica eversione dei governo di quel paese e a un ritorno alla situazione precedente, nonostante le poco convinte proteste occidentali. Anche la raffigurazione pubblica dell'antagonismo era profondamente mutata. Al posto della terrorizzante propaganda sulla calata dei cosacchi in San Pietro vi erano adesso le fantasmagoriche avventure di James Bond, che trasponevano in innocuo spettacolo l'unico aspetto ancora bellicoso che sopravviveva della guerra fredda europea, la battaglia clandestina tra gli apparati di spionaggio.
La rivalità tra le due superpotenze non era affatto scomparsa, si era però diversificata, trasferendo le sue più aspre frizioni in aree extraeuropee, e si era simulta-neamente concentrata in una massiccia corsa agli armamenti nucleari che la di-
488
Il «muro»di Berl ino
e la repressionede lla «primavera
di Praga»
C hruščëv e la «coesistenza
pacifica»
Guerra fredda e decolonizzazione
stensione cercò di regolamentare e, magari, di rallentare. Lo scenario strategico aveva iniziato a mutare dalla fine degli anni cinquanta, quando la costruzione dei primi missili intercontinentali, insieme alla continua moltiplicazione delle testate nucleari disponibili, aveva delineato la possibilità della distruzione rapida e massiccia del territorio delle due superpotenze. L'Urss aveva ormai abbandonato la dottrina della «guerra inevitabile» tra capitalismo e comunismo, e il suo leader Nikita Chruščëv invocava una «coesistenza pacifica» che evitasse il pericolo di guerra; ma che al tempo stesso prospettava una nuova, più estesa sfida sul piano dei sistemi socio-economici. Nell'offrire il modello sovietico dello sviluppo pianificato ai paesi emergenti del Terzo Mondo, e nel vantare i successi industriali e tecnologici dell'Urss, Chruščëv prometteva di superare e «seppellire» il capitalismo nell'arco di vent'anni. La Cina comunista stava inoltre entrando in competizione con Mosca per proporsi come guida di una rivoluzione radicalmente anticapitalistica nel Terzo Mondo.
La convinzione di essere di fronte a una sfida di portata mondiale, incentrata sui problemi dello sviluppo e delle risposte che ad essi venivano date, era vivissi-ma nella presidenza di John Kennedy (1960-63), che additava l'obiettivo di una «nuova frontiera» di crescita a cui l'America doveva guidare l'intera economia mondiale per ancorare le nuove nazioni asiatiche e africane all'Occidente. Il contenimento diveniva cosi compiutamente globale: lo si perseguiva con nuovi programmi di aiuti per lo sviluppo (come l'«Alleanza per il progresso», rivolta all'America Latina, e i «Corpi della pace» che inviavano giovani tecnici nel Terzo Mondo); con l'impegno militare a sconfiggere la guerriglia rivoluzionaria; e, infine, con un massiccio ampliamento e ammodernamento dell'apparato nucleare inteso a perpetuare la superiorità americana sull'Urss.
In questo contesto giunse la crisi dei missili a Cuba, nell'ottobre del 1962. Ostili fin dall'inizio alla rivoluzione cubana (che ritenevano emblematica di un indipendentismo anticapitalista passibile di estendersi ad altri paesi latino-americani) gli Stati Uniti avevano tentato di isolarla e poi di rovesciarla organizzando un fallito sbarco di esuli anticastristi alla Baia dei Porci, nel 1961. Castro si era legato sempre più all'Urss, da cui otteneva forniture commerciali e garanzie difensive. Nell'estate del 1962 i sovietici iniziarono a installare nell'isola anche missili capaci di bombardare gli Stati Uniti con ordigni atomici. La crisi scoppiò quando Kennedy intimò all'Urss di ritirare quei missili, impose un blocco navale intorno all'isola e allertò le forze americane per un'invasione di Cuba che avrebbe potuto scatenare lo scontro tra le superpotenze. Dopo giorni di grandi tensione, in cui il mondo davvero temette di precipitare in una guerra nucleare, Chruščëv accettò di smantellare i missili in cambio dell'impegno americano a non invadere Cuba e a ritirare alcuni missili della Nato dall'Italia e dalla Turchia.
La risoluzione della crisi parve premiare la fermezza americana, resa credibile da una superiorità strategica ancora cospicua, e convinse l'Urss ad avviare un programma decennale di riarmo per giungere a un'effettiva parità. Ma fu evidente che lo sviluppo degli arsenali nucleari svuotava di ogni razionalità strategica l'ipotesi di una guerra: ognuna delle superpotenze poteva infatti devastare il territo-
489
Kennedye la «nuovafrontiera»
La crisidi Cuba: nascitade l la «de terrenza»
Storia contemporanea
rio avversario anche dopo aver subito un attacco nucleare di sorpresa. Prendeva cosi forma una deterrenza basata sulla capacità di «distruzione reciproca assicurata». Dal 1963 Washington e Mosca iniziarono a negoziare norme di controllo sulle armi nucleari volte a stabilizzare questo precario «equilibrio del terrore».
I rapporti tra le due superpotenze perdevano l'asprezza del decennio precedente e iniziavano a contemplare anche il riconoscimento di alcuni essenziali interessi reciproci: il dialogo diplomatico avviava la ricerca di un modus vivendi che sarebbe sfociato nella distensione dei primi anni settanta. Ciò non escludeva, comunque, una persistente rivalità, in particolare per l'influenza nelle aree del Terzo Mondo in rapida trasformazione. Negli anni di Kennedy e poi di Lyndon Johnson (1963-68) gli Stati Uniti elaboravano una vera e propria teoria dello sviluppo che postulava, per ogni paese, un'evoluzione non solo economica - attraverso l'industrializzazione e il rapporto con i mercati mondiali - ma anche politica, sociale e culturale verso una struttura democratica di tipo occidentale. Questo percorso di modernizzazione avrebbe dovuto condurre le nuove nazioni indipendenti a integrarsi positivamente nella continua espansione del capitalismo su scala mondiale, dando cosi forza e fondamento a un contenimento globale che pareva tanto più impellente quanto più le rivoluzioni indipendentiste sembravano aprire spazi di influenza per i rivali sovietici e cinesi.
Ma per affermare questo disegno di nation building e di modernizzazione occidentale bisognava contrastare, ed eliminare, le componenti radicali, se non direttamente comuniste, che potevano guidare le nuove nazioni e i movimenti di liberazione verso sbocchi ben diversi. In taluni paesi ciò fu fatto da regimi nazionali, spesso dominati dai militari: in Indonesia, nel 1965, il generale Suharto sterminò un forte movimento comunista; in Brasile e in altri paesi dell'America Latina le tensioni della modernizzazione furono governate autoritariamente da regimi militari. Vi erano situazioni, però, in cui solo l'intervento americano pareva capace di garantire la sopravvivenza di regimi filo-occidentali deboli e scarsamente radicati nella società nazionale. Fu questo intreccio di fiducia in una modernizzazione anche guidata dall'esterno e di ansia per le sorti del contenimento globale a condurre gli Stati Uniti alla lunga guerra in Vietnam.
L'inefficace e impopolare governo del Vietnam del Sud era sfidato, nei primi anni sessanta, da molte opposizioni e da un forte movimento di guerriglia (Vietcong) sostenuto dal governo comunista del Nord Vietnam. Kennedy e Johnson videro il conflitto come un test della «credibilità» internazionale della potenza americana. Interpretarono l'aspirazione alla riunificazione di un Vietnam indipendente non come un moto nazionalistico ma come un disegno d'espansione del comunismo, diretto da Cina e Urss, che avrebbe potuto poi estendersi a tutto il Sud-est asiatico. Essi impegnarono quindi gli Usa a difesa del regime del Sud. A partire dal 1964-65, quando iniziarono i bombardamenti del Nord Vietnam e l'uso massiccio di truppe statunitensi nel Sud, il conflitto divenne una devastante guerra su larga scala in cui l'America arrivò a schierare oltre mezzo milione di soldati.
L'imponente presenza americana non riusciva però a consolidare (e tanto meno a «modernizzare») uno stato sudvietnamita privo di solide basi autonome, né a
490
Il mode lloamericano:
modernizzaz ione edemocratizzaz ione
La guerrade l Vie tnam
e lo scaccoamericano
Guerra fredda e decolonizzazione
sconfiggere militarmente una guerriglia di vaste proporzioni. Invece di venir riaffermata, la credibilità americana si logorava in un conflitto prolungato che persi-no gli alleati europei ritenevano inutile. In America, il costo umano e finanziario di una guerra che pareva negare il suo stesso scopo (per «salvare» il paese dal comunismo se ne distruggeva il territorio, il tessuto sociale e parte della popolazione) suscitava un'opposizione crescente. All'inizio del 1968 - in occasione del ca-podanno cinese, il Tet - la guerriglia e i nordvietnamiti lanciarono un'offensiva generale che ridicolizzò l'ostentato ottimismo dei generali americani, e il consenso interno alla guerra di Johnson evaporò. Il suo successore Richard Nixon (1969-74) prese atto dell'impossibilità politica di perseguire la vittoria e adottò una strategia di «vietnamizzazione» del conflitto, volta a districare gli Usa dalla guerra ma a garantire la sopravvivenza del regime anticomunista del Sud. Dopo massicci bombardamenti (estesi anche alla Cambogia e al Laos) e difficili negoziati con Hanoi, nel 1973 gli Stati Uniti ritirarono le proprie truppe. La debolezza del Vietnam del Sud non poteva però venire ovviata neppure dagli aiuti economici e militari di Washington, e nel 1975 l'esercito di Hanoi dilagò nel Sud, riunificando il paese sotto il governo comunista del Nord.
Nei primi anni settanta gli Stati Uniti mostravano parecchi segni di una diminuita capacità di egemonia mondiale: la sconfitta vietnamita; la lacerante crisi interna ad essa collegata; il discredito che circondava la potenza americana; la svalutazione del dollaro (1971-73) dovuta anche alle spese belliche, e la ridefinizione di un sistema economico mondiale in cui Europa e Giappone erano ormai forti concorrenti; l'emergere di un cartello di produttori (l'Opec) che rialzava il prezzo del petrolio. L'Urss, dal canto suo, incoraggiata dalla debolezza americana, stava ormai raggiungendo la parità strategica in campo nucleare, vedeva finalmente legittimata la divisione dell'Europa e si arricchiva di valuta con il rialzo dei prezzi petroliferi. Ma anche la sua potenza sperimentava limiti consistenti. Il suo modello economico incentrato sull'industria pesante si mostrava scarsamente capace di innovazione. Il dissidio con la Cina (ora dotata di armi nucleari) era divenuto aperta ostilità, con scontri di frontiera nel 1969; e il dialogo avviato tra Pechino e Washington nel 1972 esponeva il Cremlino al rischio di un pericoloso accerchiamento. Al di fuori dei suoi confini tradizionali, poi, l'influenza sovietica si rivelava assai flebile: le sconfitte dei suoi principali interlocutori arabi, Siria ed Egitto, durante le guerre con Israele nel 1967 e nel 1973 la estromettevano da un Medio Oriente dove gli Usa continuavano a essere arbitri della scena diplomatica.
Per entrambe le superpotenze, l'urgenza di stabilizzare il sistema della reciproca deterrenza nucleare si intrecciava perciò con le crescenti difficoltà di un bipolarismo sempre più eroso da mutamenti storici che ne riducevano la centralità, moltiplicando il numero e il peso di altri attori internazionali. Perseguire una effettiva distensione poteva quindi facilitare, in modi diversi ma speculari sia per Washington che per Mosca, la ricerca di nuove soluzioni che rinsaldassero in chiave aggiornata il loro potere internazionale. Sulla base di questa parziale convergenza di interessi le due superpotenze inaugurarono, con il vertice di Mosca tra Nixon e Brežnev (1972), una breve stagione di collaborazio-
491
Due gigantiindeboliti
Gli accordiper i l disarmobilateralee control lato
Storia contemporanea
ne che non eliminava la rivalità, ma tentava di contenerla, incanalandola in una definizione della stabilità mondiale d'interesse comune. Gli accordi SALT e ABMsugli armamenti strategici sanzionavano una sostanziale parità ponendo un tetto al tipo e al numero (comunque altissimo) di missili dispiegati: si consolidava la deterrenza reciproca e la competizione militare si concentrava sulla qualità dell'innovazione tecnologica. Alcuni accordi commerciali aprivano la strada a forti importazioni russe di grano americano e prefiguravano un cointeresse a scambi, anche tecnici e culturali, più ampi. Gli accordi di Helsinki del 1975, che sancivano lo status quo dell'Europa divisa, offrivano poi al blocco sovietico il riconoscimento a lungo cercato e delineavano una prospettiva di potenziale cooperazione per la sicurezza. Peraltro, la dinamica della rivalità nelle aree extraeuropee non veniva in alcun modo regolamentata o depotenziata, anche se gli Stati Uniti si attendevano una sorta di autocontenimento dei sovietici. E sarà proprio questa grande area lasciata scoperta dagli accordi di distensione a riaccendere, alla fine degli anni settanta, una nuova stagione di aspro antagonismo.
Ma a metà del decennio il sistema mondiale parve per un momento imboccare una strada che contemplava un inedito intreccio di mutamento e stabilizzazione. Per un verso, il bipolarismo formalmente paritario e meno antagonistico codificato dalla distensione sembrò rimpiazzare la guerra fredda con una cooperazione fondata sul mutuo riconoscimento di sfere d'influenza inviolabili (in Europa). Per un altro, il relativo indebolimento delle superpotenze, l'emergere di nuovi forti poli economici e l'imporsi di un Terzo Mondo che ancora agiva in modo relativamente unitario nei consessi internazionali parve dischiudere l'orizzonte di un sistema mondiale multi-polare, in cui l'asse Est-Ovest avrebbe potuto essere sostituito dalla collaborazione - o dall'antagonismo - tra Nord e Sud sui problemi dello sviluppo globale.
7. Conclusioni.
La controversia sulle origini e la dinamica della guerra fredda è del tutto aperta. Alcuni storici la riconducono alla inconciliabilità tra due sistemi ideologici d'ambizione universale, quello del comunismo sovietico affermatosi nel 1917 e quello del liberal-capitalismo americano, che vedevano nell'altro una minaccia storica alla propria sopravvivenza. Altri, invece, la imputano soprattutto al contrasto d'interessi geopolitici in relazione al futuro di una Germania distrutta e di un'Europa indebolita e sconvolta. Ci sono studiosi che, con maggiore precisione, propongono di riferire il termine solo al periodo 1947-63, poiché nei decenni successivi il sistema bipolare perse quel connotato di intensa bellicosità - sia pure non spinta fino allo scontro militare diretto - che l'aveva caratterizzato in precedenza. In questa chiave, il successivo processo di distensione costituirebbe allora un superamento di quel rapporto di negazione simbolica reciproca, tipico appunto di una condizione di guerra, che costituiva l'essenza della guerra fredda.
All'interno della cultura liberal (radicale e progressista) statunitense, soprattutto sotto lo stimolo intellettuale dei movimenti di opposizione alla guerra del Viet-
492
Uno scontrodi ideologie
o un confl i ttodi interessi?
Guerra fredda e decolonizzazione
nam, si è sviluppata dagli anni sessanta una storiografia revisionista, che ha individuato nell'espansionismo economico americano - volto ad aprire i mercati internazionali alle proprie esportazioni di merci e capitali - il responsabile o il corresponsabile della guerra fredda; i più insistono invece sul ruolo della strategia staliniana, che affidava la sicurezza dell'Urss al ferreo dominio sull'Europa orientale e alla debolezza dell'Europa occidentale. E se l'antagonismo tra due potenze nucleari attribuì alla guerra fredda un carattere potenzialmente apocalittico, alcuni sottolineano invece quanto fu proprio la reciproca capacità di infliggere distruzioni massicce che dissuase dal ricorso alle armi, facendo così della guerra fredda un lungo periodo di tensione ma anche di pace per l'Europa e tra le due superpotenze.
L'antagonismo della guerra fredda era nato nell'Europa dell'immediato dopoguerra perché là, nel vuoto lasciato dal tracollo delle potenze europee, si confrontavano due ipotesi di sicurezza internazionale incompatibili. Quella di Stalin si fondava sull'estensione di una influenza sovietica non negoziabile fino al centro del continente: essa comportava il dominio sui paesi dell'Est e un notevole grado di insicurezza per quelli dell'Ovest, data l'assenza di ogni efficace contrappeso. Quella statunitense affidava invece alla «preponderanza» della potenza americana (Leffler) la riorganizzazione di un sistema capitalistico mondiale che integrasse i principali poli industriali isolando il blocco sovietico nell'arco dei suoi confini. La rivalità geopolitica e la reciproca negazione ideologica erano quindi fattori inestricabili di un antagonismo che si assestò intorno alla partizione dell'Europa. In tono assai ostile per un decennio, e più moderato negli anni successivi, questo bipolarismo stabilizzò l'Europa divisa in una «lunga pace» (Gaddis) che la deterrenza nucleare rese tanto pericolosa quanto indispensabile. Le superpotenze estesero presto la logica del confronto bipolare anche in altre aree, tentando di controllare e incanalare le trasformazioni innescate dalla decolonizzazione e dalla lot-ta delle nuove nazioni indipendenti per un proprio autonomo sviluppo. Tanti conflitti locali furono cosi inaspriti e ampliati fino a divenire guerre devastanti: alla «lunga pace» europea corrisposero molte guerre che. in trent'anni, causarono quasi 20 milioni di vittime, per lo più in Asia. L'allargamento su scala mondiale della guerra fredda ne ampliò il carattere fortemente militarizzato, e rivelò i fondamentali squilibri insiti in un bipolarismo decisamente asimmetrico. L'Urss poteva dominare l'Europa orientale e giungere negli anni settanta, dopo un ventennio di costosa rincorsa, a una sorta di parità nucleare con gli Usa. Ma gli Stati Uniti godettero in tutto il periodo della preminenza politica mondiale, di un'influenza assai più estesa e articolata nei continenti extraeuropei e di una robusta superiorità militare. Soprattutto, essi ebbero sempre un in-colmabile vantaggio economico. Le economie pianificate del blocco sovietico crebbero velocemente fino a metà degli anni sessanta, ma restando sempre un'area chiusa e sostanzialmente isolata. Gli Stati Uniti invece, oltre a essere più ricchi e tecnologicamente avanzati, erano al centro di un'economia mondiale di mercato* che comprendeva le aree più sviluppate del globo (il Nord America, l'Europa occidentale e il Giappone: in questo trentennio essi crebbe-
493
La guerra freddadal cuore europeoallo scenariomondiale
Storia contemporanea
ro a ritmi straordinari) e che integrava, pur in modo assai disuguale, anche l'America Latina, il Medio Oriente, l'Africa e l'Asia meridionale.
Era a fronte di questa ben più ramificata influenza degli Usa e dell'Occidente che le rivoluzioni del Terzo Mondo e il movimento dei non allineati parvero assumere, fino ai primi anni settanta, un carattere di alternativa al sistema bipolare. Esse chiedevano uno spostamento di risorse dall'antagonismo militarizzato Est-Ovest al sostegno allo sviluppo lungo l'asse Nord-Sud; e spesso si scontravano con quell'interdipendenza dei mercati di cui gli Stati Uniti erano i garanti. Ma proprio le domande di sviluppo si mostrarono quelle a cui l'Urss era meno capace di dare risposte positive. Il suo modello di industrializzazione pianificata e autosufficiente, pur inizialmente efficace in termini quantitativi, cominciava proprio nei primi anni settanta a mostrare quell'atrofia che ne avrebbe poi segnato il declino. Viceversa l'Occidente finì per essere l'interlocutore principale - anche se spesso, come si è visto, dopo passaggi aspramente conflittuali - dei processi di crescita delle economie e delle nazioni del Terzo Mondo: a causa della schiacciante superiorità delle sue risorse produttive e finanziarie (ancora alla fine degli anni sessanta circa il 70% del prodotto mondiale era concentrato in Europa occidentale e negli Stati Uniti); per la ramificazione dei suoi legami commerciali, finanziari e anche socio-culturali con le élites sia dell'America Latina che dell'Asia e dell'Africa post-coloniali; e per il maggior dinamismo dei suoi sistemi di produzione, di consumo e di innovazione tecnologica.
Nell'interazione con questo diffuso vigore della civiltà dei consumi di matrice occidentale, dell'innovazione tecnologica e della globalizzazione* produttiva e finanziaria, alcuni poli di un Terzo Mondo che si andava ormai rapidamente diversificando costruirono a partire dagli anni settanta dei loro imprevisti percorsi di crescita e di inserimento nel mercato mondiale. E proprio questa dinamica (che coinvolge protagonisti cosi diversi come l'India o l'Opec, la Cina comunista o l'Indonesia) a portare nell'arco di quindici anni alla fine della guerra fredda. Alla fine del bipolarismo si giunge, tra il 1989 e il 1991, non tanto per una «vittoria» degli Usa sull'Urss, quanto per la globalizzazione di un'economia di mercato particolarmente dinamica proprio in zone cruciali di quello che fino ad allora era stato il «sottosviluppo». Se gli Usa, insieme al Giappone e all'Europa occidentale, sono stati gli interlocutori cruciali di tale processo, l'Urss viceversa si è trovata vieppiù relegata in un isolamento stagnante che ha finito per vanificarne le ambizioni di potenza e per portare il suo stesso sistema ideologico e geopolitico alla dissoluzione. Guerra fredda e decolonizzazione sono cioè stati due fili di un complesso intreccio storico che ha trasformato il mondo contemporaneo in modo ben diverso da quanto l'una e l'altra di quelle dinamiche potesse singolarmente fare.
Testi citati e opere di riferimento
Bairoch, P., Lo sviluppo bloccato, Torino 1976. Bairoch, P., Economics and World History:
Myths and Paradoxes, London 1993. Calchi Novati, G.P., La decolonizzazione, Torino 1983.
Calchi Novati, G.P., I paesi non allineati dalla Conferenza di Bandung a oggi, in Storia del- l'età presente, Milano 1985.
Crockatt, R., The fifty Years War, London 1995.
494
Fine de l bipolarismo
e finede l Terzo Mondo
Guerra fredda e decolonizzazione
Di Nolfo, E., Storia delle relazioni internazio- nali 1918-1992, Roma-Bari 1994.
Ellwood, D., L'Europa ricostruita, Bologna 1994.
Ferro, M., Histoire des colononisations, Paris 1994.Flores, M., L'età del sospetto, Bologna 1996.Gaddis, J. L., The Long Peace: Inquiries into
the History of the Cold War, New York 1987.Garthoff, R., Detente and Confrontation, Wa-
shington 1985.Kardelj, E., Le radici storiche del non allinea-
mento, Roma 1976.Leffler, M., A Preponderance of Power: Natio-
nal Security, The Truman Administration and the Cold War, Stanford 1993.
Pinzani, C., Da Roosevelt a Gorbaciov, Firenze 1990.
Querini, G., Sviluppo economico e arretratezza. Milano 1979.
Reynolds, D. (a cura di), The origin of the Cold War in Europe, New Haven 1994.
Romero F., L'impero americano, Giunti, Firen-ze 1996.
Walker, M., The Cold War and the Making of the Modern World, London 1993.
Wilber, C. K. - Jameson, K.P. (a cura di), The Political Economy of Development and Un-derdevelopment, New York 1992.
Zubok, V. - Pleshakov, C., Inside the Kremlin's Cold War, Cambridge 1996.
495