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Denis Mack Smith Garibaldi, una grande vita in breve. Scansione di: Roy Peliz. Pag.1/ 119

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Garibaldi, una grande vita in breve.

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Capitolo 1.

IL TIROCINIO

1807-1834

Con tutti i suoi difetti, Giuseppe Garibaldi ha un suo posto ben fermo fra i grandi uomini del secolo decimonono. Ebbe una sua grandezza, in primo luogo, come eroe nazionale, come famoso soldato e mari naio, cui più che ad alcun altro si dovette l'unione delle due Italie.Ma oltre che patriota, egli fu anche grande internazionalista; e nel suo caso non era un paradosso.Liberatore di professione, combatté per la gente oppressa ovunque ne trovasse.Pur avendo la tempra del combattente e dell'uomo d'azione, riuscì a essere un idealista nettamente distinto dai suoi contemporanei di mente più fredda. Tutto quello che fece, lo fece con appassionata convinzione e illimitato entusiasmo; una carriera piena di colore e d'imprevisto ci mostra in lui uno dei più romantici prodotti dell'epoca. Inoltre, era persona amabile e affascinante, di trasparente onestà, che veniva ubbidita senza esitazioni e per la quale si moriva conten ti.La gente comune lo sentiva uno dei propri, perché egli era l'incarnazione dell'uomo comune.Tuttavia era anche un tipo affatto eccezionale, un autentico individualista e non conformista: si trattasse di religione, di modi di vestire, di abitudini personali o de gli eventi della sua straordinaria vita.Non è sempre facile seguire le tracce di Garibaldi, in parte proprio per quelle sue idiosincrasie di credenza e comporta mento. Intorno al suo nome si formarono molte leggende; consciamente o no, i suoi amici e adoratori tramandarono molte cose inventate.Perfino la sua autobiografia, dopo la prima pubblicazione in inglese a New York, apparve in numerose versioni divergenti. Temperamento diritto, privo di secondi fini, aveva però scarsa memoria: riscrisse sovente i suoi ricordi, talvolta con l'aiuto di scrittori professionisti come Dumas, che amavano un buon racconto quanto la verità. C'è di più.La sua carriera non è documentata co me quella di un uomo di Stato eminente.Non ci fu rono discepoli intimi ad annotare ogni sua mossa e pensiero, e le sue stesse lettere sono quelle di un estroverso che parla ostinatamente di tutto meno che di se stesso.Poca gente lo prese sul serio prima che oltrepassasse i cinquant'anni.I suoi eserciti di guerriglieri si dissolsero senza lasciare archivi e le sue battaglie non furono combattute secondo piani elaborati o preordinati, che sia possibile ricostruire.Garibaldi che pure impose sempre ai soldati il suo magnifico spirito, amava combattere sotto lo stimolo e secondo le esigenze del momento.Agiva per istinto e intuizione; i suoi successi e insuccessi tattici furono per lo più combinazioni estemporanee, che sfuggono alla presa della storiografia scientifica.I particolari sono dunque discutibili, o mancano addirittura; tuttavia l'impressione che rimane è netta: egli fu un personaggio così grandioso, che il tutto è più verosi mile delle parti.Semplicità e integrità genuine ne fanno una personalità a tutto tondo, pittoresca e degna d'ammirazione; e i grandi eventi legati al suo nome gli conferiscono un'importanza storica notevole.La vita di Giuseppe Garibaldi si estese dal 1807 al 1882.Non si sa molto della sua infanzia, che a suo dire non ebbe alcunché di straordinario.

Tuttavia, gli eventi principali nei primi anni di un uomo hanno sempre un certo interesse alla luce di quanto egli compie in seguito; anche senza andar troppo per il sottile, in genere vi si rintraccia qualcosa di quelle forze dominanti le quali concorrono poi alla complessa formazione della personalità umana.Nacque sul bordo delle Alpi, a Nizza, allora parte della Francia napoleonica e unitasi col Piemonte indipendente sotto la dinastia dei Savoia solo quando egli raggiunse i sette anni.La lingua nella quale crebbe fu il dialetto ligure locale; nei dintorni, seconda lingua era il francese.

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Più tardi si diede a parlare italiano; ma accento, grammatica e ortografia mostraron sempre che non gli veniva del tutto naturale.Questa situazione può in piccola parte spiegare la sensibilità ai confini nazionali e il patriottismo esagerato dei suoi anni maturi.I capelli biondi e gli occhi chiari, erano marroni, ma molti ammiratori vollero crederli azzurri, indicavano un'origine nordica e contribuirono a farne oggetto di venerazione per i meridionali di Napoli e della Sicilia, scuri di pelo e di pelle.Nizza era sul mare e il padre di Garibaldi era un marinaio figlio di marinaio; avevano il mare nel sangue. Erano mercanti e pescatori, umili ma non pove ri.Malgrado i loro forti sentimenti familiari come tutti i liguri si erano abituati per la povertà del retroterra a cercar fortuna oltremare; un fratello maggiore, Angelo farà bene all'estero e finì console a Filadelfia.La madre aveva un carattere dolce e Garibaldi giunse ad avere per lei una specie di culto.Lo avvol geva d'una tenerezza da lui stesso giudicata eccessiva; fu il ritratto di lei, non quello di una delle tre mogli, a pendere sempre sul suo capezzale.Nessuno avrebbe mai accusato Garibaldi d'essere un intellettuale; però egli non fu nemmeno un villano screanzato, come lo chiamavano i suoi nemici.I genitori avevano sperato che diventasse avvocato e perfino prete; i loro sforzi mal diretti gli suscitarono l'intima convinzione che l'educazione italiana fosse congegnata a fabbricare avvocati e preti piuttosto che buoni cittadini e soldati.Non dev'essere stato facile insegnar qualcosa a un tipo nomade come lui; tuttavia egli acquisì cognizioni matematiche, astronomiche e geografiche sufficienti a diventare un navigatore esperto, e sapeva abbastanza di storia e di letteratura per improvvisarsi maestro elementare due volte che rimase senza lavoro.Agli amici sem brava di ricordare che da ragazzo, sotto gli ulivi, se ne stesse per ore immerso nella lettura; da vecchio, teneva nei suoi pochi scaffali soprattutto i classici della letteratura mondiale.Aveva imparato tutti i canti dei contadini e dei marinai; ebbe sempre una certa passione per il canto popolare e per la recita zione di poesie commoventi. Fino ai quarant'anni il suo elemento fu il mare. Da ragazzo usciva a pescare ostriche e sardine con la rete a traino.Non ricordava quando avesse imparato a nuotare; è come se fosse nato anfibio; risulta che salvò almeno dodici persone in procinto d'annegare. La prima volta aveva otto anni, e certo questo gesto così precoce impresse subito a tutta la sua vita il ruolo dell'eroe.Le sue azioni e le sue fantasie mostrano che ebbe una specie di consapevole coazione all'eroi smo: voleva risollevare le vittime della sfortuna e dell'oppressione e rendere il mondo più libero e puro.Non era certo un istinto indegno o innaturale; ma i tempi non sembravano propizi.I genitori di Garibaldi furono dapprima restii a la sciargli prendere il mare.Una volta scappò verso Genova in un peschereccio con altri ragazzi e lo si dovette raggiungere e riportare a casa. Era così ca parbio e indisciplinato che alla fine la spuntò; e a soli quindici anni viaggiò fino a Odessa come mozzo. Ciò avvenne su di un brigantino da 225 tonnellate che, battendo bandiera russa, andava a prendere un carico di grano dal Mar Nero.Un altro viaggio ebbe luogo nel 1825: il ragazzo si recò con suo padre a Roma su di un barcone da trenta tonnellate, trainato dai buoi lungo il Tevere con un carico di vino.Rimasero nella città santa più di un mese, e la visita deve aver lasciato un'impressione profonda.Il pio genitore era in pellegrinaggio per l'Anno Santo; ma il ricordo più vivido di Garibaldi fu quello della Roma precristiana, testimonianza di quando la città era stata imperiale padrona di tutto il mondo conosciuto. La storia antica doveva diventare una sua passione; lo stesso si può dire del convincimento che si dovesse liberare la desolata Roma papale del 1825 dal governo clericale per farne la capitale di una nuova nazione italiana. Così la ribellione personale all'educazione pretesca si proiettò su di un piano più vasto.Fra il 1825 e il 1832 Garibaldi fu quasi sempre in viaggio verso il Mediterraneo orientale e il Mar

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Ne ro. Una volta a Costantinopoli si ammalò e dovette fermarsi; si mantenne per alcuni mesi come istitutore presso una famiglia.Tre volte, in quelle pericolose acque orientali, i pirati lo assalirono e predarono; ne ebbe anche una ferita, e fu questa la sua prima esperienza di guerra. Così divenne rude e apprese ad amare il rischio e l'avventura, la solitudine e i viaggi. Così si formò anche come marinaio, tanto che nel 1832 prese il diploma di capitano di lungo corso.I viaggi gli insegnarono a contare su se stesso e a sentirsi libero da tutti i governi; svilupparono la sua mentalità cosmopolita e gli assicurarono degli amici in molti paesi; gli permisero infine di vedere come i greci e altri popoli stessero conseguendo l'indipendenza nazionale dai logori imperi turco e austriaco, e come il suo paese non dovesse pertanto restare indietro.Garibaldi era uomo capace di forte sentire, facilmente influenzabile da ogni idea umana e generosa. Assai presto si lasciò prendere da una versione annacquata della dottrina di Saint Simon sulla fratellanza universale e l'abolizione delle classi.Fra tutte le forze dominanti della sua vita, l'idea della libertà e dell'unificazione d'Italia doveva però essere la più forte. Fu probabilmente durante un viaggio a Taganrog nel 1833 che egli s'imbatté in alcuni fra I primi discepoli di questa fede nuova e rivoluzionarla, e ne rimase affascinato. In quei tempi l'Italia era ancora divisa in qualcosa come otto Stati, tutti governati in maniera reazionaria e oscurantista.Generale e dominante in tutta la penisola era l'influsso dell'Austria; ma anche le dinastie italiane avversavano testardamente le nuove dottrine del liberalismo e del nazionalismo.Solo un piccolo gruppo di italiani erano sufficientemente scontenti e visionari per concepire una rivoluzione nazionale e la formazione di una repubblica italiana unitaria : loro guida era Giuseppe Mazzini, che per diffondere le sue idee aveva appena fondata la società segreta chiamata la Giovine Italia. Più tardi, nel 1833, nei sobborghi di Marsiglia, Garibaldi fu presentato a Mazzini in esilio e si iscrisse alla società. Giurò nel nome di Dio e dei martiri d'Italia di combattere contro l'ingiustizia, l'oppressione e la tirannia e di lavorare per una nazione italiana libera e una.Fu così iniziato nei sublimi misteri della patria: era il primo passo in una vita di rivoluzione, ed egli decise di fare quanto era in suo potere per servire la causa nel suo Stato, il Piemonte. Proprio perché ora si era fatto cospiratore, questo è un periodo oscuro nella storia di Garibaldi specie in quanto egli si servi di tre o quattro falsi nomi.Non era ancora un grand'uomo, le cui azioni sono notizie per tutti. Le successive divergenze con Mazzini gli fecero ricolorire i fatti: antedatò la conversione al nazionalismo e non rivelò di essersi abboccato col grande rivoluzionario. Più avanti raccontò anche di aver fatto il volontario nella marina piemontese come marinaio di prima classe per contribuire all'organizzazione di un'insurrezione nazionalistica, che si voleva far scoppiare a Genova nel 1834. Risulta che sia stato arruolato nel dicembre del 1833 per servire nella marina come recluta (marinaio di terza classe); vestì per alcune settimane la nera giacca a code e il cappello rigido dell'uniforme ufficiale.Ora è vero che all'inizio del 1834 ebbe luogo un debole tentativo insurrezionale; ma esso servì solo a mostrare che né Garibaldi né i suoi nuovi amici ave vano la minima idea di come si organizzi una cospirazione efficace.Egli ebbe la fortuna di riuscire a rifugiarsi sulle montagne, dopo che una fruttivendola di Genova lo aveva travestito da contadino. Impiegò dieci giorni a raggiungere Nizza per sentieri non frequentati e spaventò i suoi timorati e conformisti genitori col racconto di quanto era accaduto. Poi passò la frontiera francese, fu arrestato e fuggì, evitò infine un secondo arresto mettendosi a cantare canti popolari francesi. Nel frattempo a Genova era stato condannato a morte in contumacia per alto tradimento da quello stesso governo piemontese che avrebbe più tardi servito egregiamente. Ebbe così termine, non molto eroicamente, il primo incontro di Garibaldi con la politica rivoluzionaria. A ventisei anni era un ex lege, destinato a restare in esilio per tredici anni.A parte questo, nulla c'era in lui di notevole; né sembra possedesse allora l'impressionante e affascinante personalità degli anni a venire. Era un rozzo e onesto marinaio, abbastanza bravo nel

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suo mestiere, intraprendente e avventuroso, che si pregiudicava però la carriera con ingenui entusiasmi politici.I registri della leva di mare ce lo descrivono alto un po' meno di un metro e settanta, coi capelli rossastri fluttuanti sulle spalle. Si notava in lui una tal quale delicatezza femminile, gli piaceva fare spesso il bagno e dedicare attenzioni minute alle mani, ai denti, ai capelli: tutte cose che van messe a raffronto con la virile leggenda della sua successiva vita di rude soldato. Aveva le gambe leggermente arcuate, e invero solo il viso faceva impressione.Si è spesso usata per lui la parola bellezza perché aveva una bella fronte e il profilo d'una statua greca. Gli occhi erano scintillanti e fascinosi il suo sorriso avrebbe presto fatto perdere la testa anche a gente molto quadrata. Soprattutto, l'infanzia all'aria aperta gli aveva dato un'energia nervosa e una costituzione agilmente muscolosa capaci di sopravvivere a stenti e sforzi enormi.Di lì a non molto egli avrebbe avuto bisogno di tutta la forza, il coraggio e il fascino di cui poteva disporre.

Capitolo 2

RIO GRANDE

1835-1840

Garibaldi passò i primi mesi di esilio a Marsiglia vivendo della liberalità di un amico e svolgendo ogni tanto qualche lavoro occasionale su di un mercantile. Per un breve periodo fu anche al servizio del Bey di Tunisi Hussein, che tentava di riformare la sua marina sul modello europeo.Era una strana divisa per il liberatore Garibaldi; tanto che dopo uno o due mesi si imbarcò su di una nave turca diretta in Francia. Di ritorno a Marsiglia, fornì per alcuni giorni opera di volontario in un ospedale durante un'epidemia di colera.Era un'esistenza insoddisfacente, oscura e senza compenso: nel 1835 prese la gran decisione di evaderne, su di una nave francese, in Brasile. Molti italiani si erano abituati a considerare il Sud America come una terra promessa. Era cominciata la grande emigrazione che avrebbe quasi raggiunto il vertice di un milione all'anno; già interi villaggi lungo le coste genovesi si spopolavano perché la gente fuggiva la disoccupazione per cercare fortuna nel Nuovo Mondo.Garibaldi fu solo uno dei molti. Non tornò in Europa che nel 1848, quando ormai aveva passato metà della sua vita adulta in Sud America.Fu soprattutto in questo periodo che il suo carattere si formò. Imparò a vivere duramente, libero come l'aria, dettando legge a se stesso in un paese dove la natura era crudele e la vita a buon mercato. Era un mondo di pirateria e banditismo, dove rifugiati di tutte le nazioni europee si scontravano fra loro in un'atmosfera di delittuose rivalità e di superstizioni primitive.Combattere era un'occupazione normale; ognuno contava sul proprio brac cio destro perché ognuno era contro il prossimo. Apparentemente tutti esibivano un amore appassionato per la libertà, ma si trattava di una libertà anarcoide, che facilmente sfumava in faziosità e in spietata dittatura. Fra i ventotto e i quarant'anni Garibaldi visse dunque per lo più come corsaro e soldato di ventura in egoistiche lotte di parte che egli, nel suo innocente disinteresse, pensava servissero alla causa di una libertà pura e genuina.Fu una buona scuola di guerra, non certo di politica. Si abituò a vedere nei grandi proprietari delle pampas un tipo ideale di persona, e per il resto della sua vita ebbe sempre la tendenza a vestirsi e comportarsi come un caudillo alla testa dei suoi gauchos.Quando infine tornò in Italia come leader nazionale, questo costume ispano-americano fu spesso un fattore sia dei suoi trionfi che dei suoi insuccessi. Il risultato fu che la storia d'Italia subì grossi

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cambiamenti. A Rio de Janeiro Garibaldi non si immerse subito nella politica perché aveva l'animo ancora volto all'Europa. Si iscris se alla sezione locale della Giovane Italia e predicò la dottrina che tutti i popoli del mondo dovevano unirsi per combattere l'oppressione e rigenerare la razza umana. Nel gennaio del 1836, pochi giorni soltanto dopo l'arrivo, scrisse a Mazzini la sua speranza che la guerra di liberazione italiana sarebbe cominciata entro l'anno e chiese l'autorizzazione di muovere guerra privata alle marine piemontese e austriaca.Il rappresentante piemontese riferì che sulla casa dove questi radicali italiani si riunivano sventolava il tricolore rivoluzionario. Alcune navi piemontesi dentro al porto, aggiunse, si erano accordate di approfittare della situazione per affondare di nascosto qualsiasi imbarcazione dei rivoluzionari, il che a Rio poteva essere fatto impunemente.Un italiano aveva dato a Garibaldi quanto bastava a comprarsi un piccolo peschereccio, e così egli cominciò a commerciare in farina, zucchero e brandy su e giù per la costa. Ma era un affare misero.Mentre altri italiani si facevano una fortuna, lui non era abbastanza acuto per il commercio.Era troppo schietto, aveva troppa fiducia nella natura umana, e pro babilmente si annoiava anche troppo, per mettersi a posto in quel modo. Non aveva ancora trovato il suo mestiere. L'impero brasiliano era troppo esteso perché fosse facile governarlo come Stato singolo; la provincia più meridionale, il Rio Grande do Sud, cercava ora di rendersi indipendente. Primo presidente di questo Stato in scissione fu Benito Goncalves, che aveva per segretario un italiano amico di Garibaldi. In que sta infruttuosa guerra provinciale di liberazione la causa della libertà non aveva molto a che fare, e più tardi Garibaldi riconobbe di non aver mai provato una grande ostilità per il Brasile; ma allora non era ancora capace di vedere al di là delle simpatie e dedizioni immediate, e d'istinto riconobbe il tipo di vita per cui era tagliato.Vi era interessato un amico e la parola libertà correva su tutte le lingue: tanto bastava. Inoltre, Goncalves era un guerriero corag gioso e magnanimo, forse senza fortuna né successo, ma sotto ogni altro rispetto un modello perfetto da ammirare e imitare.Il Presidente era proprio un leader romantico e un eroe popolare da scolaretti persona di gusti umili, che di solito riusciva a soste nere la parte del cavaliere benevolo e cortese, buon cavallerizzo, pittoresco nel vestire, seguito entusiasticamente dai suoi uomini, insomma una perfetta immagine del Garibaldi di vent'anni dopo, e probabilmente la somiglianza non è del tutto accidentale.Nel maggio del 1837 una barca di venti tonnellate, non per nulla battezzata il Mazzini, si mise in mare dal Rio Grande per predare navi brasiliane, con una ciurma di sei uomini. Poteva sembrare l'istintiva reazione degli italiani in tempi duri, quando abbracciano la vita del pirata o quella del partigiano contro un governo oppressivo. Alcuni amici di Garibaldi, più abili negli affari e troppo sensati per darsi al brigantaggio, contribuirono a equipaggiare la spedizione.Per tre anni egli combatté contro il Brasile, poi per la maggior parte di altri sei anni contro l'Argentina. Era finalmente felice e padrone del suo destino. Scrisse che l'oceano era suo e che egli aveva preso possesso del suo elemento.Era una vita alla Robin Hood in difesa dei diseredati: un'esistenza dove avevano largo posto il coraggio, l'intraprendenza, un certo spirito cavalleresco, e dalla quale egli ricavò la calda ma non critica convinzione di trovarsi dalla parte della giustizia e della libertà. Può darsi che Garibaldi non sia stato troppo scrupoloso nell'identificare le navi che attaccava, ma almeno il bottino non era il suo scopo principale; il denaro non ebbe mai alcuna importanza per lui.A volte poteva essere ambizioso, bellicoso e pieno di rancore come qualsiasi altro caudillo, ma ingenerosità e crudeltà non appartenevano alla sua natura; non fu mai un indifferente freddo, in cerca di van taggi personali. Anzi era troppo romantico e idealista per fare il soldato di ventura e basta. La sua non fu mai un'ambizione volgare.Era il corsaro di Byron. Vita pericolosa, piena di colore. La prima preda fu un brigantino austriaco carico di caffè brasiliano; nei suoi ricordi, più tardi, Ga ribaldi affermò con orgoglio che si erano liberati cinque schiavi negri e che lui aveva rifiutato di accettare dei diamanti da un portoghese.

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Nel giugno del 1837, durante il primo serio combattimento della sua vita, ricevette una dolorosa ferita. Caduto un suo compagno, afferrò la barra del timone solo per essere mortalmente ferito (lo dice lui) da un proiettile che gli entrò nel collo sotto un orecchio e andò a fermarsi sotto l'altro.Prima che potesse raggiungere un medico a terra passarono dieci giorni; ma il suo fisico era di ferro e il suo cuore invincibile. Non molto dopo lo fecero prigioniero.Trovata una scusa per violare la parola data, evase; ma quando lo ripresero fu frustato, appeso per le braccia e portato per miglia su di un ronzino con le mani e i piedi legati, mentre le mosche gli pungevano la carne facendone una ferita sola. Anche se questi racconti furono caricati retrospettivamente, deve essere stata un'esistenza nella quale solo i più adatti sopravvivevano; l'artrite e i reumatismi deformanti dei suoi ultimi anni furono forse in parte le conseguenze di un modo di vivere così teso e stancante.Garibaldi ricordava il Rio Grande come uno dei più bei posti del mondo: il tempo passato riposando in una qualche estancia rimase fra le sue memorie più felici. Quanto più selvaggio era il paese, tanto più bello lo trovava: perfino i pantani e la giungla inattraversabile, dove a volte doveva salvarsi in fuga sotto la pioggia torrenziale, nutrendosi di sole radici.In tempi normali, a terra, egli e i suoi uomini vivevano di carne arrostita all'aperto. La cosa si adattava al suo temperamento vagabondo; può aver contribuito a farne un vegetariano negli ultimi anni. I loro nemici erano dieci volte più forti e meglio riforniti, ma per un uomo come lui questa era la vita e anzi aveva un gusto speciale.Amava trovarsi sempre in movimento e in attività, assieme a compagni coraggiosi che vivevano semplicemente e combattevano per quello che ritenevano giusto. Scrive di aver appreso con essi a disprezzare il pericolo e a combattere per la sacra causa della nazionalità.Nel 1838-39 la flotta di Rio Grande consisteva di due lance, la seconda comandata da un cittadino degli Stati Uniti, John Griggs. Tutti insieme, i loro effettivi ammontavano a circa settanta uomini, molti dei quali schiavi negri fuggiti dal Nord, con sette italiani.Questa ciurma cosmopolita io la trattavo con bontà, forse superflua, ignaro allora dell'indole umana.Per la prima volta Garibaldi scopriva con quanto poco travaglio potesse guadagnarsi l'obbedienza grazie al rispetto e all'affetto che la sua personalità naturalmente imponeva a tutti e a ciascuno. I brasiliani potevano impiegare trenta navi per bloccare quella esigua forza; una volta le due lance dovettero rifugiarsi entro terra, trascinatevi da cento coppie di buoi. Nel giugno del 1839 una delle due, troppo carica, andò persa in un fortunale. In quel momento Garibaldi si trovava in cima all'albero per cercare un porto d'emergenza e così se la cavò; ma sopravvissero solo quattordici uomini, e fra questi non c'era alcun italiano, non uno dei suoi intimi amici. Fu un colpo tremendo, tanto che sentendosi solo decise di cercar moglie. Ecco come descrive il suo stato d'animo: io non avevo pensato giammai al matrimonio e me ne credevo incapace per troppa indipendenza d'indole, e propensione ad avventurata carriera.Aver una donna, dei figli, sembravami cosa intieramente disdicevole a chi aveva consacrato l'intiera vita ad un principio. Ero rimasto in un isolamento completo, mi sembravo solo nel mondo. Non mi era rimasto uno solo di quelli amici del cuore, di cui si abbisogna in questa vita. Io passeggiavo sul cassero della Itaparica, ravvolgendomi in tutti quei ra gionamenti, e conchiusi finalmente di cercarmi una donna del cuore.E' questa la ragione per cui si mise a scrutare accuratamente le rive col cannocchiale; e un giorno, in questo strano modo, di colpo decise. Recatosi direttamente a terra, secondo quanto racconta egli stesso, rintracciò la donna che aveva scorta e si limitò a dirle: Tu devi essere mia!. Era una calma insolenza, che si adattava al carattere e al luogo. Solo una volta egli accennò pubblicamente a quanto era accaduto, e allora disse solo una parte della verità. Quello che non confessò mai fu che Anita era maritata, lo era da qualche anno; e che lui l'aveva portata via dopo aver accettato l'ospitalità del marito. Questo silenzio e alcune circospette affermazioni mostrano che più avanti negli anni egli si rimproverava di averla portata via a quel modo, verso la tragica morte in Italia.

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Anna Ribeiro da Silva era una bellezza dalla pelle cupa. Un ufficiale inglese di marina la ricordò come creola dotata di vera dignità spagnola. Doveva avere antenati indiani e portoghesi.Quelle navi ribelli al largo erano qualcosa di nuovo nella sua monotona vita; e siccome Garibaldi era già un eroe locale, possiamo assumere che, quando Anita s'imbarcò nell'ottobre del 1839 per combattere gli imperialisti brasiliani, non si trattò d'un ratto contro voglia. Molto si racconta del suo coraggio, della sua sopportazione, della sua feroce gelosia.Come altre donne nella stessa posizione, seguì il marito in guerra e prese parte a molti combattimenti, fino al punto che fu catturata e fuggì, con ogni sorta di privazioni. Il loro figlio maggiore, Menotti, nacque un anno più tardi nel 1842 si sposarono. Anita veniva dalla confinante provincia di Santa Catarina la cui non richiesta liberazione a opera dei repubblicani di Rio Grande era stata un po' troppo impetuosa. Gli abitanti di Santa Catarina non mi sero molto a ribellarsi a loro volta contro il dominio violento e dispotico di questi autoproclamati liberatori; era chiaro che preferivano le briglie allentate del distante benché reazionario Brasile. I repubblicani misero allora da parte tutto il loro affettato liberali smo, e a Garibaldi toccò il compito di mettere a sacco una delle città ribelli; fu una scena bestiale, che lo perseguitò poi fino alla morte. Questa era la dura scuola di guerra dove egli si formava. Rimase scandalizzato dal modo in cui i suoi uomini gli erano sfuggiti di mano, ubriachi, avidi di saccheggio, facile preda a un contrattacco nemico. Se Garibaldi divenne un grande generale, fu in gran parte perché imparò a valutare l'elemento morale; in quell'occasione ricevette una lezione utile e terribile. In questa guerra né gli abitanti né tanto meno i soldati trovavano molte cose per cui valesse la pena di combattere.Le diserzioni aumentavano rapidamente, specie ogniqualvolta diminuivano i pericoli immediati. La guerra civile, nel migliore dei casi è una cosa orrenda; e questo era lontano dall'essere il migliore dei casi. La causa della libertà, in modo affatto patente, era la maschera di bassi interessi e di fazioni in lotta per la conquista del potere. Perfino l'ingenuo Garibaldi perse le illusioni quando vide tradimenti e rivalità personali là dove aveva pensato di trovare una causa nobile e generosa.Una serie di vittorie brasiliane nel 1839-40 lo decise infine a lasciare il servizio del Rio Grande.De scrisse in seguito le ultime cruente scene della batta glia, con Anita in persona che sparava il cannone mentre membra e corpi mutilati, le vesti in fiamme, le volavano intorno nell'aria.Garibaldi comandante non eccelleva nelle sconfitte.Aveva pensato di combattere per il popolo contro la tirannia e il malgoverno, ma ora s'accorgeva che il popolo non stava dalla sua parte e che non erano soltanto i suoi avversari a conoscere tirannia e malgoverno. Non avrebbe mai servito un tiranno consapevolmente; ma le sue idee sulla tirannia erano troppo semplici per essere vere.Aveva sperato che questa fosse una guerra nazionale, secondo il desiderio di un Mazzini; ma la nazionalità si sperdeva nelle pampas, e ne era venuta fuori una guerra civile dove perfino gli italiani si trovavano da entrambi i canti. Non era più così facile pensare a se stesso come a un cavaliere errante, con l'innebriante sensazione di stare dalla parte del futuro.Pur essendo un sentimentale, un romantico, un Don Chisciotte, che poteva ingannarsi per lungo tempo, alla fine come tutti restava ferito anche lui dalle lame affilate della dura realtà.

Capitolo 3

MONTEVIDEO

1841 -1847

Nel 1841, per un breve periodo, Garibaldi provò a condurre ancora una volta la tranquilla

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esistenza di tutti. Il Brasile era vicino, sicché intraprese con la famiglia una lunga marcia verso Montevideo. Menarono con sé, secondo il costume del Paese, una mandria di quasi mille capi pensando di pagarsi le spese con pellame e carne e di avviare in tal modo qualche affare.Ben cinquanta giorni viaggiarono; ma Garibaldi, ignaro dell'arte di condurre il bestiame e candido per natura, si lasciò frodare dai mandriani che aveva assunto, tanto che pochissimi animali raggiunsero la meta.A Montevideo fece qualcosa come viaggiatore di commercio in commestibili e in tessuti; inoltre insegnò matematica e storia in una scuola, sembra con buoni risultati. La famiglia visse lì per sette anni e ad Anita nacquero altri tre bambini.Ma a lui personalmente una vita borghese non andava affatto, e la maggior parte di questi sette anni la passò combattendo per l'Uruguay contro il generale Rosas, tiranno che governava l'adiacente Argentina. Il coraggio di un piccolo popolo, che mostrava di opporsi all'aggressore e alla tirannia, destava un poetico entusiasmo in un uomo che mai seppe resistere al richiamo dello sforzo e della gloria.Anche qui, è difficile vedere per quali precise ragioni questa guerra si combattesse. Ma Garibaldi non stette a esaminare la situazione troppo da vici no, e riuscì presto a convincersi di lottare per l'umanità e la libertà in generale. I suoi scritti dell'epoca abbondano in sentiti riferimenti alla causa dell'umanità e della civiltà.Non era molto tempo che la repubblica dell'Uru guay si era dichiarata indipendente dall'Argentina, e già la guerra civile la lacerava.Al primo presidente Rivera era succeduto in maniera normale il presidente Oribe, che poi però Rivera aveva deposto. Costui come avviene, si giustificava in nome della li bertà e della costituzione ed è forse vero che molti liberali delle città all'inizio lo sostenevano, mentre i proprietari terrieri stavano in maggior parte per il suo rivale.Ma in sostanza d'altro non si trattava che di una nuova lotta fra fazioni, i blancos contro i colorados, con l'argentino generale Rosas che pescava nel torbido.E qui che incontriamo il colonnello José Garibaldi, come allora si firmava. Cercando intorno a sé un altro gigante cui contrapporsi, egli si arruolò per Rivera contro le forze di Oribe e Rosas.Nell'estate del 1842 gli fu affidato il primo compito: forzare il passaggio su per il fiume Paranà al comando di tre navi con trecento uomini. Con mezzi così esigui, era un'impresa pazzesca.La minuscola flotta doveva penetrare al di là di una squadra navale molto più forte, lungo batterie costiere, e procedere poi per qualcosa come cinquecento miglia in territorio nemico, talvolta sotto falsa bandiera, talvolta incagliandosi in acque sconosciute, nel tentativo di distruggere cammin facendo il commercio del nemico e sempre col rischio d'imbattersi nelle navi dell'irlandese ammiraglio Brown, che comandava la difesa.Le due parti si scambiarono abbondanti accuse di saccheggi e atrocità; probabilmente, dobbiamo modificare quello che Garibaldi racconta in difesa di se stesso e ammettere che gli atti di barbarie furono bilaterali. Nell'agosto del 1842 la spedizione fu irrimediabilmente presa in trappola da forze superiori. Parte degli uomini si dileguò col favore delle tenebre, lasciando gli altri in ancor più grave svantaggio. Dopo una gagliarda resistenza, egli dovette dar fuoco alle barche e rifugiarsi a terra con gli uomini che gli restavano.Di lì a pochi mesi il principale esercito del generale Rivera fu distrutto da Oribe. Ambizioni e rivalità private nel governo contribuirono anche stavolta alla sconfitta: era per Garibaldi una nuova lezione, se avesse saputo trarne frutto, di come questo tipo di guerre raramente aggiustino qualcosa che valga la pena. Certo cominciò a formarglisi una duratura diffidenza per i politicanti.Conservava quella fede sempliciotta che gli permetteva di gettarsi a capofitto in qualsiasi causa creduta giusta; ma sempre più insisteva nell'esibirsi in proprio, senza interferenze da parte dei civili e del governo.La guerra riprese nel 1844; ma i ricordi di Garibaldi erano imprecisi e non è facile stabilire la cronologia. Per difendere Montevideo si dovette ricorrere a misure d'emergenza. Furono liberati

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degli schiavi per farne soldati e gli stranieri della città furono riuniti in legioni straniere. La Legione italiana divenne la gioia e l'orgoglio di Garibaldi.Erano poche centinaia di uomini, e molti potevano prender servizio soltanto la sera, dopo aver sbrigato le loro normali occupazioni. Ma erano qualcosa di nuovo un po' come il nucleo del patriottismo italiano, e Garibaldi ne trasse nuove esperienze di comando, specie per quanto concerne l'organizzazione e la disciplina. La sua pratica disciplinare fu oggetto di critiche da parte di alcuni dei suoi uomini, ed egli stesso sapeva di essere un cattivo organizzatore.Doveva assolutamente diventare più accorto e più scaltro; cominciò ad apprendere che perfino la causa della li bertà e dell'umanità poteva aver bisogno di quella che ora egli chiamava la politica machiavellica. Fu in questo periodo che Garibaldi sviluppò i principi fondamentali di quel tipo di guerriglia che gli fu poi così proprio.Egli era essenzialmente un improvvisatore, anche se non disprezzava lo studio accademico della tattica, per esempio, aveva studiato da vicino le battaglie di Nelson e ne aveva tratto delle condusioni che raccomandava per l'applicazione pratica.Pensava che le qualità principali di un combattente fossero il coraggio e la capacità di prendere rapide decisioni sul terreno.Il miglior generale, diceva, è quello che vince, indipendentemente dalla scienza militare che possiede. Con truppe non addestrate di volontari, un generale deve dare molta importanza al morale. Deve ficcare nella testa dei suoi uomini l'indiscutibile convinzione che vincerà sempre. I codardi che scappano vanno fucilati a vista per fermare il panico che facilmente si impadronisce delle truppe inesperte; le vite umane non hanno alcun valore quando si è al servizio di una nobile causa. Il generale deve sorprendere sempre e non lasciarsi mai sorprendere. Le marce notturne siano per lui la regola, affinché l'entità delle sue forze resti celata al nemico e si eviti la calura del giorno. Più avanti negli anni Garibaldi affidò alla carta queste e altre formule militari favorite: le quali mostrano tutte, per chiari segni, una provenienza sudamericana.Nel 1843 egli era ancora a capo della flotta uruguayana quando, eccitato all'idea di guidare dei compatrioti, assunse anche il comando terrestre del la Legione italiana. Da principio ci furono collisioni e gelosie. Alcuni ufficiali giunsero al punto di cospirare per togliergli l'incarico; un certo colonnello Mancini fece passare al nemico un gruppo di disertori.Anche in fatto di qualità combattive ci volle del tempo prima che questi uomini inesperti e talvolta non del tutto rispettabili si abituassero alle difficoltà di una vita dura e strenua.Al primo scontro col nemico sciolsero i ranghi senza quasi sparare. aribaldi aveva ben altri problemi.Gli toccava di lottare contro l'azione diplomatica del console piemontese, che risentito da quelle manifestazioni di italianità cercava di far sciogliere la Legione.Nemmeno il governo lo sosteneva completamente; per un breve periodo egli fu agli arresti per violenze contro privati cittadini. Ma alla fine la sua piccola schiera si distinse per il grande valore e l'intraprendenza, e lui più di ogni altro; intanto diversi futuri generali dell'esercito italiano imparavano, in quell'ambiente d'improvvisati volontari, i rudimenti dell'arte militare.Compaiono adesso per la prima volta le famose camicie rosse, scelte forse perché il rosso era il colore della rivoluzione, ma più probabil mente perché si era intercettata una partita di indumenti destinati ai macellai di Buenos Aires.La pas sione per le vesti dai colori sgargianti è uno dei molti tratti pittoreschi di Garibaldi.A partire da questo periodo si trovano innumerevoli ritratti di lui: tal volta nell'uniforme della marina o dell'esercito, ma più spesso nella tunica rossa e nel costume da gaucho, che divenne più tardi il simbolo del nazionalismo italiano.Ancora più pittoreschi, a loro modo, furono i tocchi di coraggio e di cavalleria che ogni tanto smussavano le punte di una sordida guerra civile. Gari baldi amava il beau geste e sapeva apprezzarlo negli altri. Notò con piacere la magnanimità dell'ammiraglio Brown allorché alcuni infortunati marinai di Montevideo furono tratti in salvo e portati a riva con molti complimenti.

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In un'altra occasione le navi di Garibaldi furono drammaticamente sottratte a Brown per opera d'uno schifo battente bandiera britannica, che fece in tempo a infilarsi fra le opposte forze. Garibaldi in persona progettò un azzardatissimo colpo di mano, sbarcare nottetempo presso Buenos Aires e catturare Rosas a casa sua; ma non se ne fece nulla.Altrettanto tipico, benché di natura affatto diversa, fu il magnifico gesto di rifiutare pubblicamente parecchi generosi doni che Rivera aveva fatto a lui e alla Legione. Era loro orgoglioso dogma di non combattere per ricompensa materiale: essi si opponevano alla tirannia imperialistica dell'Argentina per patriottismo e umanità.Sfortunatamente, la causa non era degna di tanto campione e i membri del governo di Montevideo non avevano il suo disinteresse. Dietro le linee, divergenti fazioni lottavano per il dominio della capi tale. Il generale Rivera fu soppiantato ed esiliato in Brasile.Il rappresentante inglese riferiva che non c'era alcun gruppo sulla cui moralità politica si potesse contare, con la conseguenza che molta gente lasciava del tutto il paese.Rivera era stato più umano dei suoi rivali e forse anche meglio disposto verso il commercio straniero da cui la repubblica dipendeva. Ma contro di lui stavano la sua notoria malafede, la sua mancanza di probità nell'appropriarsi del pubblico denaro, i non scrupolosi mezzi da lui sempre impiegati per mantenere un influsso illegittimo sulla cosa pubblica. C'era da scegliere fra la padella e la brace. Afflitto da divisioni interne, nell'estate del 1845 il governo avviò trattative per un aiuto della Francia e dell'Inghilterra; alfine le due potenze intervennero per difendere i loro interessi e garantire l'indipendenza uruguayana contro l'Argentina.Congiuntamente a unità navali francesi e britanniche, nel mese d'agosto Garibaldi cominciò a respingere l'assedio nemico alla città. Al tempo stesso, convinto che l'intervento straniero fosse dovuto a interessi diversi da quelli degli abitanti locali, cercò privatamente di negoziare con alcuni comandanti nemici e di trovare la soluzione pacifica di una guerra tragica e infruttuosa.Falliti i negoziati clandestini, si spinse entroterra fino a quando trovò fiumi navigabili, sempre accompagnato da distaccamenti francesi e britannici. Lo aiutava anche un irlandese, Joseph Mundell, che reclutò una milizia locale e se ne servi per atti di brigantaggio. Non era un andare facile. Spesso gli uomini dovevano vivere di carne equina; erano costretti a imporre un pesante e impopolare tributo in denaro e provvigioni agli abitanti delle campagne attraversate.Nella Legione italiana ci fu di nuovo un piccolo ammutinamento in dicembre; ma i più si coprirono di gloria. Più tardi Garibaldi sostenne che in un centinaio di scontri lungo il Rio de la Plata non aveva conosciuto sconfitta.Il fatto d'armi più celebre avvenne nel febbraio del 1846 presso il fiume Sant'Antonio. Garibaldi guidava la sua piccola unità di circa duecentocinquanta uomini a prendere contatto con il grosso dell'esercito uruguayano, quando il nemico con un inganno gli fece accettare battaglia contro forze quattro volte superiori. La cavalleria fuggì; gli altri dovettero tener duro sotto un fuoco continuo da mezzogiorno fino a quando riuscirono a salvarsi, protetti dall'oscurità. Fu una vittoria del coraggio e della sopportazione, sotto il sole divampante e senza acqua da bere.Cadaveri di uomini e cavalli vennero ammassati a baluardo; i feriti a morte ebbero il coraggio di conti nuare a combattere. Ci furono trenta morti e moltissimi feriti; per rientrare alla base, gli esausti superstiti dovettero affrontare una marcia di quattro ore.Garibaldi si vantò orgogliosamente che non avrebbe rinunciato di appartenere alla Legione per tutto l'oro del mondo e rifiutò con ostentazione di essere promosso al prezzo di tanto sangue italiano. Nello stesso febbraio del 1846 la bilancia del potere a Montevideo si mosse ancora una volta e un colpo di Stato mise fine a quanto restava del governo parlamentare. Allora molti proprietari si persuasero che conveniva richiamare dall'esilio Rivera per restaurare un governo stabile.Così incoraggiato, l'ex presidente fece furtivo ritorno e si mise a osservare il corso degli eventi dal sicuro di una nave che si teneva al largo nel porto. Nell'aprile scoppiò un'insurrezione fra le truppe, ed egli fu invitato a sbarcare per soffocarla. Appena ripreso il potere riconferì ai suoi amici

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tutte le cariche importanti, militari e civili: la controrivoluzione si era compiuta.Garibaldi aderì al nuovo regime perché la causa dell'Uruguay era sempre buona e generosa; ma ora che la guerra perdeva sempre più il suo carattere di guerra per la libertà e il patriottismo, egli agiva di peggior voglia. Dovette scrivere per lamentarsi che la politica cittadina faceva dimenticare a tutti perfino di rifornire l'esercito di cibo e rinforzi. Come accadde spesso nella sua vita, la politica interferiva col guerreggiare e così gli piaceva sempre meno.La sua condotta della guerra soffriva anche per le interferenze diplomatiche, giacché ora la musica era degli inglesi e francesi, e da loro dipendeva la scelta fra la repubblica e l'invasione di Rosas.A servire una simile causa non c'era più da farsi molto onore e la prospettiva di un qualche eccezionale fatto d'armi era diminuita. Il rappresentante inglese a Montevideo riferì a Lord Palmerston che Garibaldi continuava a mostrare grande bravura e coraggio, e che, mentre il governo era pieno di corruzione e venalità, nel sussidio passato alla Legione italiana non si era mai trovato il minimo segno di peculato.Garibaldi era e sempre rimase integerrimo: anche allora che la sua famiglia conduceva una vita di stenti, le vesti gli cadevano a pezzi, la paga e le razioni giungevano invariabil mente in ritardo.Esitò ancora qualche tempo prima di ammettere pubblicamente la sua delusione. Poteva sempre dare una giunta alla propria credulità, e quella sua idea eroica e romantica della vita non si lasciava minare facilmente.Nemmeno quando nel 1847 vide Rivera sconfitto da Oribe in un'ennesima campagna e nuovamente in esilio, nemmeno allora cedette di colpo. La situazione politica continuava a cambiare, ma la difesa della capitale proseguiva. La sua fulminea carriera di forestiero non era certo ben vista fra gli ufficiali del luogo, che aspiravano ad alti gradi in Montevideo.Non era popolare fra i mercanti europei le cui merci sequestrava con la scusa di mantenere il blocco e che pertanto protestavano contro di lui presso il governo. Non aveva nemmeno la piena confidenza delle forze ausiliarie francesi e britanniche. I diplomatici europei avevano concluso che la guerra veniva fomentata artificialmente dalle rivali fazioni cittadine e che solo una pace di compromesso con l'Argentina avrebbe garantito l'indipendenza dell'Uruguay.Su loro consiglio il partito al potere cominciò a negoziare in tal senso; ma nell'agosto del 1847 la Legione italiana, per protesta, fece una dimostrazione armata che costrinse alcuni ministri a dimettersi. A osservatori estranei sembrò allora che Garibaldi con la sua Legione diventassero una delle tante fazioni, e ciò o per mera stupidità, o perché si lasciassero sfruttare da nascosti interessi, o forse anche perché i legionari temevano di restare senza lavoro se scoppiava la pace.Siccome ora i diplomatici avevano in pugno la si tuazione, sotto il loro influsso la guerra andò sgonfiandosi. C'era della discordia nella Legione italiana, i suoi effettivi diminuivano nella crescente incertez za del futuro, alcuni elementi erano tuttora avversi al comando di Garibaldi.Era tempo che egli riprendesse contatto con le cose d'Italia e cercasse altri campi di conquista, dove la giustizia fosse più since ramente gradita.

Capitolo 4

LA RIVOLUZIONE E ROMA

1848-1849

Durante gli anni di esilio Garibaldi non aveva di menticato l'Italia. Si era tenuto in contatto con Mazzini e aveva anche offerto di portare seicento uomini in Europa per la guerra rivoluzionaria se quegli avesse trovato i mezzi necessari. Il denaro non si trovava, ma i repubblicani d'Italia erano orgogliosissimi delle sue imprese americane.

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Lo erano perfino certi monarchici, alcuni dei quali nel 1846 gli fecero pervenire una spada d'onore.Intanto egli aveva imparato a destreggiarsi un pochino fra quei due così dogmatici partiti: la politica non doveva attraversargli la strada del ritorno in patria. Tentò al tempo stesso di far la pace col più grande nemico di Mazzini, Carlo Alberto re del Piemonte, supplicando invano che gli fosse perdonata la criminale cospirazione del 1834.Gli anni 1846-48 furono eccitantissimi per i patrioti e liberali italiani perché il papa e i governanti di Napoli, della Toscana e del Piemonte si lasciavano indurre a concedere riforme costituzionali e politi che. Nel 1847, preso da questo clima, Garibaldi arrivò fino al punto di scrivere a papa Pio IX una lettera rispettosa e filiale nella quale offriva i servizi suoi e della Legione.Non pervenendogli alcuna risposta dal Vaticano, tentò di farsi prendere al servizio del granduca di Toscana. Era ormai deciso a tornare comunque: mandò avanti Anita coi tre bambini a cercare sua madre a Nizza, mentre lui a Montevideo smetteva a raccogliere il denaro per finanziare il viaggio. Nell'aprile del 1848 fu finalmente in grado di prendere un passaggio di due mesi per l'Italia. Soltanto sessanta dei suoi seicento decisero da ultimo di accompagnarlo; due erano negri liberati con il suo aiuto. La nave recava anche i resti mortali della figlia Rosita, segretamente esumati di notte per esser por tati a riposare con quelli degli antenati.Durante il lungo viaggio, per un brutto incendio, la nave quasi affondò con tutta la ciurma.Ogni sera, al calar del sole, gli incalliti guerrieri cantavano in coro un inno patriottico. Ed era un canto italiano, non l'inno uruguayano che aveva tenuto alto il loro spirito durante la battaglia di Sant'Antonio. Tornavano per il Risorgimento d'Italia.Fu un grande giorno quando Garibaldi sbarcò a Nizza dopo tanti lunghi anni, specie perché Carlo Alberto aveva appena dichiarato la guerra all'Austria e l'invocato momento della redenzione nazionale sembrava alfine a portata di mano. La nave batteva bandiera montevideana per paura che altrimenti diventasse applicabile la sentenza di morte del 1834. Ma l'eccitazione popolare rese vane per fino le abituali regole di quarantena.A un banchetto in suo onore all'Hotel New York egli parlò (in francese) della speranza che gli austriaci venissero letteralmente cacciati dalla penisola prima della fine dell'anno.Si poté notare la cura che metteva nel parlar bene del re e nel non posare a repubblicano di schietta marca mazziniana. Imbaldanzito e stimolato da quelle accoglienze, Garibaldi offrì di nuovo di arruolarsi sotto Carlo Al berto. Si recò al regio comando, dove un freddo colloquio gli smorzò peraltro gli entusiasmi; il re dichiarò privatamente che l'impiego di quell'ex pirata e pregiudicato avrebbe disonorato l'esercito. La burocrazia piemontese ignorava le sue imprese d'America, mentre i politici diffidavano del suo radicalismo e i generali disprezzavano la sua mancanza di un regolare tirocinio militare.Nell'esercito piemontese pochissimi avevano una qualche esperienza di guerra (per non far paragoni con Garibaldi); ma tutti avevan frequentato l'Accademia e studiato sui libri ufficiali, e la loro gelosia mista a disdegno lo avrebbe perseguitato per tutta la vita. Gli dissero di andarsene a fare il suo mestiere di pirata nell'Adriatico. Quando questa offerta di combattere per il Piemonte fu rifiutata, il sospetto cominciò a diffondersi non infondatamente, che Carlo Alberto non combattesse affatto l'Austria per sentito patriottismo italiano.Si diceva che il suo principale movente era di ingrandire il suo regnuncolo piemontese alle spese di Milano e di Venezia; e che il movente secondario era di prevenire o controllare qualsiasi esplosione re pubblicana nel resto dell'Italia settentrionale. Agli occhi dei buoni radicali e patrioti né l'una né l'altra intenzione tornava certo a credito del re.Garibaldi si rivolse allora a Milano, che si era sollevata indipendentemente dal Piemonte e aveva scacciato la guarnigione austriaca per conto suo. Lo accolsero con bande e parate; quando ispezionò le truppe, Mazzini in persona portò un vessillo. Forzato a tenere un discorso, Garibaldi ringraziò il popolo per l'ovazione ma aggiunse che non era il momento di applaudire e chiacchierare. Ottennero abbondanza d'applausi ma non molto aiuto in fatto d'armi e provviste; Garibaldi fu fatto generale, ma i suoi uomini dovettero accontentarsi di uniformi austriache

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adattate. Ciò malgrado egli era molto eccitato: la liberazione del proprio paese dallo straniero era per lui la più bella, la più sublime di tutte le cose, una causa finalmente degna del suo fervore.Ma improvvisamente, dopo una settimana di grande aspettazione, il non molto efficace esercito di Carlo Alberto fu disfatto a Custoza e si ritirò dalla guerra. Milano, rimasta sola, era in una posizione insostenibile. Come spessissimo nel passato, gli italiani si erano mostrati divisi: monarchici e repubblicani, Torino e Milano, regolari e volontari. I piemontesi credevano di essere come liberatori, ma talvolta i contadini lombardi avevano aperto le dighe per inondare le campagne contro di essi. Nelle sue memorie Garibaldi lamentò che gli italiani fossero meno uniti della stessa ibrida gente del Rio Grande, e moralmente meno forti nell'avversità, altrimenti lo straniero non avrebbe più calpestato il loro suolo, ed essi avrebbero riacquistato la posizione che loro spettava fra le grandi potenze del mondo.Carlo Alberto non solo si ritirò, ma ordinò a Garibaldi di smobilitare. Costui però rivendicò il suo diritto di libero cittadino di continuare a combattere da solo, specie in quanto serviva Milano e non Torino. Benché lo scoraggiamento generale avesse raggiunto anche i suoi uomini, egli sfidò l'ordine regio di arrestarlo e si rifece alla dottrina mazziniana dell'insurrezione popolare.Disperato, esortò il popolo ad armarsi di falci e bastoni e a opporsi in qualsiasi modo all'armistizio. Trattò pubblicamente i piemontesi da codardi e traditori, intervenuti nella guerra solo per evitare che sfociasse in una vittoria politica dei repubblicani. Per circa dodici giorni Garibaldi da solo tenne in piedi una piccola guerra. Con un migliaio di uomini si impadronì di alcuni battelli a ruote sul Lago Maggiore e penetrò in territorio austriaco. Di fatto almeno una volta vinse la giornata dopo regolare battaglia.Ma era impresa futile, salvo che come protesta morale contro il marchio d'infamia che egli immaginava gli italiani si fossero attirati. Ovunque andasse gli toccava di esigere soldi e cibo, con il che certo non aumentava la propria popolarità. Diceva di avere il diritto di farlo perché a Milano era stato eletto duce dal popolo e dai suoi rappresentanti; quello stesso popolo, tuttavia, non voleva adesso unirsi a lui. Spesso non riusciva ad avere delle informazioni sul nemico nemmeno pagandole, mentre gli austriaci trovavano sul nemico spie e traditori fra quegli stessi lombardi che egli aveva sperato insorgessero. Una descrizione accurata della tattica seguita da Garibaldi richiederebbe moltissimi particolari. Semplificando si tende ad alterare le prospettive e a non tenere sufficiente conto del caso e dell'imprevisto, che ebbero un'importanza enorme. Più interessante è il fatto che, non foss'altro, quei pochi giorni mostrarono a Garibaldi che si poteva applicare alle condizioni italiane la lezione del Sud America.Le sue piccole unità, muovendosi rapidamente con bagaglio leggero, potevano dissolversi d'un tratto per le campagne e poi piombare inaspettate dalle colline a tagliare le linee di comunicazione. Egli sapeva che, in certe condizioni, dei volontari che difendevano il proprio paese possono tener testa a un esercito regolare. Ciò che loro mancava in addestramento poteva essere più che compensato dalla ferocia, l'accanimento e la sopportazione di chi combatte per se stesso.In quel momento però le condizioni erano sfavorevoli: la gente del popolo era altrettanto pronta a difendere la propria terra contro i nazionalisti rivoluzionari quanto contro i sovrani stranieri.Alla fine di agosto gli uomini di Garibaldi si erano ridotti a una trentina; del tutto esausto e con la malaria addosso, alla fine egli fuggì attraverso il lago in Svizzera, travestito da contadino. Il suo fallimento inferse un grave colpo all'assunto mazziniano che la gente del popolo fosse pronta a sollevarsi per la causa nazionale. L'impero austriaco, lungi dal rasentare la disintegrazione come diceva Mazzini, aveva stroncato la rivolta italiana con garbo perfetto.La prima guerra di liberazione, invece che una bella protesta, era stata peggio che inutile perché aveva indebolito il morale italiano e aperto più gravi divi sioni interne. Si erano rivelate tutte le debolezze del carattere italiano, tutti i frutti di una educazione retorica e di un modo di vivere molle: questo il giudizio dello stesso Garibaldi. Malgrado la sua rabbiosa disobbedienza al re, nel settembre del 1848 fu concesso a Garibaldi di tornare a Nizza.Lo ritroviamo che parla alla folla dal balcone della sua stanza preferita, questa volta a San Remo.

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Nell'ottobre, con disgusto di Mazzini, fu eletto deputato ligure al parlamento di Torino, dove però non sedette mai. una arringa elettorale descrisse se stesso come rappresentante del popolo: non aveva da offrire che la sua spada, diceva, ma quella era dedicata al loro servizio. Questo il poco parlamentare linguaggio di Garibaldi, che si lasciava prender dalla retorica più facilmente di quanto gli piacesse ammettere. Gli applausi e i voti abbondavano, però questo non voleva dire che la gente intendesse sul serio di sacrificarsi e soffrire; erano forse pronti ad adoperare la spada di lui, non necessariamente a sguainare la propria.Egli si era ormai imposto all'opinione generale come personalità di gran rilievo, in una qualche misura al di sopra della legge, uomo di cui la sincera abnegazione, il reale e capace coraggio e perfino l'ostentazione senza dubbio splendevano fra gli inganni e i tradimenti del tempo.I suoi proclami, vi piaccia chiamarli lapidari o insipidi, colpivano nel segno e non suonano del tutto falsi. Non chiedete vittoria che a Dio e al vostro ferro; non isperate ne' vuoti simulacri, ma nella giustizia, non confidate che in voi. Chi vuole vincere, vince.Una mente così decisa e così semplice era già qualcosa. Terminata la guerra in Lombardia, Garibaldi noleggiò un vascello e partì con settanta uomini per la Sicilia in armi contro il governo borbonico di Napoli. Fu un capriccio improvviso, senza una parola di spiegazione agli stessi amici. In rotta per il sud fu preso da un altro capriccio: si fermò e raggiunse Firenze, nella speranza di ottenere il comando delle truppe dell'insorta Toscana contro il re di Napoli.Sollecitò pertanto il più intelligente e gentile dei popoli italiani e avanzò l'esca tentatrice di una Firenze possibile capitale. Da questo nuovo centro invitò tut ti gli italiani a insorgere contro i barbari in una spietata guerra di vendetta nazionale. Ma l'esca non era poi così attraente.Perfino il governo popolare e rivoluzionario della Toscana si sentiva a disagio con un simile tizzone tanto vicino. Non gli diedero alcun incarico militare ed egli per nutrire la sua truppa personale dovette contare su contributi privati.Solo quando si disse desideroso di combattere invece per Venezia contro l'Austria, il governo fiorentino, contentissimo di liberarsi a buon mercato di un seccatore che poteva essere pericoloso oltre che costoso, gli rese facile il reclutamento di nuovi volontari.Egli voleva agire ad ogni costo da qualche parte, se non si poteva in Sicilia o in Toscana magari a Venezia; e continuava a mandar fuori tumultuosi appelli, pieni di genericità patriottiche e di punti esclamativi. In questo periodo i suoi seguaci erano un misto di rissosi e di idealisti volti a un'Italia unita. Pochi venivano dalla sua Liguria, e non c'era quasi nessun piemontese o meridionale.Una compagnia doveva consistere di ragazzi fra i dodici e i quindici anni. Probabilmente la maggior parte era gente che, per ragioni politiche o altrimenti, doveva condurre un'esistenza vagabonda, con nulla da perdere e tutto da guadagnare nella violenza.Alcuni erano stati con lui in America e indossavano costumi da gaucho; prendevano al laccio gli animali erranti e se li arrostivano all'aperto. Quasi nessuno portava la camicia rossa, perché disprezzavano in qualsiasi tipo di uniforme il segno delle soldatesche regolari.Verso la fine del 1848 questo esercito estemporaneo passò più volte gli Appennini nel freddo intenso. Mentre muovevano al nord verso Venezia, giunse notizia dell'assassinio del ministro pontificio Rossi; Garibaldi pur non entusiasta degli assassini politici, questo lo gradì e ne trasse la decisione di rivolgersi a Roma.L'assassinio del ministro indusse il papa a rifugiarsi immediatamente presso il re di Napoli, e per questo improvviso atto d'abdicazione Roma entrò nel novero delle città rivoluzionarie.Marciando verso sud venivano accolti ovunque con musica e molti abbracci, ma era di nuovo un entusiasmo epidermico. Avevano troppo l'aspetto di una qualsiasi banda di briganti.Arrivati a Roma, Garibaldi ricevette il grado di colonnello, ma non il comando generale nel quale aveva sperato; e i suoi uomini dovettero lasciare la città per la campagna, dove costavano e spaventavano di meno. Nessuno avrebbe potuto indovinare che l'eroica difesa della Repubblica romana nei pochi mesi che seguirono avrebbe reso il nome di Garibaldi familiare in tutta Europa. Nel gennaio del 1849 egli fu eletto da Macerata de legato all'assemblea romana, dove lo si dovette

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trasportare di peso per via di un'artrite contratta nel ventoso Appennino.Lì sul Campidoglio, impetuoso come sempre, fu il primo a pronunciarsi in favore della costituzione di una Repubblica romana.I non pochi discorsi che allora tenne ce lo mostrano repub blicano senza compromessi e fedele all'idea d'uno Stato italiano unitario; ma certo erano pochi quelli che lo potevano seguire così presto e così lontano.Le sue esperienze nell'assemblea bastano a mostrare quanta poca esperienza egli avesse e come fosse disadatto a ogni forma di governo parlamentare. Si sentiva afflitto da tutti quei bei discorsi incondu denti.I deputati procedevano formalmente per le strade con la banda tricolore sull'abito da cerimonia; anche dentro alla Camera la prima cosa cui poneva no mente era la dovuta osservanza delle forme, che era il loro modo di avvertire l'importanza dell'occa sione.Garibaldi diceva loro che il popolo non bada va alle forme, ma solo alle decisioni e all'azione; tra scurato e soppraffatto, ne concluse che in futuro avrebbe dovuto rivolgersi direttamente al popolo e non solo ai suoi rappresentanti eletti in parlamento.Nel marzo del 1849 il Piemonte fece uno sconnesso tentativo di rinnovare la guerra contro l'Austria per riconquistare la propria posizione dominante in Italia. Garibaldi che nell'inazione mordeva il freno, offrì di nuovo la collaborazione dei suoi volontari; ma di lì a pochi giorni la disfatta di Novara costrinse Carlo Alberto alla resa e all'abdicazione.Anche la Toscana si ritrasse dalla rivoluzione e invitò il granduca a risalire sul trono. L'indipendenza rivoluzionaria fu conservata per qualche tempo ancora solo da Roma, da Venezia e dalla Sicilia. Mazzini raggiunse Roma in marzo e fu eletto dall'assemblea triumviro con pieni poteri per salvare la Repubblica.Fino all'aprile Garibaldi dovette trat tenere i suoi volontari qualche miglio fuori, a Rieti.Teoricamente gli era stato concesso di tenere in armi solo cinquecento uomini, ma di fatto ne aveva più di mille. Pertanto i fondi non bastavano, e i volontari a volte si misero a rubare e divennero un disturbo per tutti. Egli si lagnò presso i triumviri di non essere in grado di pagare i suoi partigiani e denunciò permalosamente il fatto che il governo repubblicano non si serviva a dovere dell'abilità da lui acquistata in cento battaglie.Era risentito perché i suoi veri meriti venivano celati sotto epiteti come pirata, contrabban diere, guerriglia; una volta minacciò di dimettersi se non gli venivano fatte le scuse per quegli insulti. La gente del popolo era troppo attaccata alla religione per provare entusiasmo verso la Repubblica; ma egli era sicuro del suo prestigio personale e domandava i pieni poteri di vagare a piacer suo coi suoi uo mini per l'Italia al fine di suscitare entusiasmo per la guerra. Erano pretese un po' eccessive. A Garibaldi non riusciva facile ubbidire, tanto che corse il rischio di farsi il nome di puntiglioso, arrogante e malfido. Alla fine di aprile Avezzana, tornato dagli Stati Uniti per assumere il ministero della guerra, nominò Garibaldi generale e lo richiamò a Roma per aiutare nella difesa. Più tardi Avezzana si vantò assai di questo gesto, perché molti erano spaventati di un personaggio così pericoloso e avevano chiesto che restasse del tutto al di fuori.Ma la situazione era veramente d'emergenza, in quanto Luigi Napoleone aveva fatto sbarcare un distaccamento di soldati francesi per sconfiggere la Repubblica e restaurare il papa.Il 30 aprile un attacco francese fu respinto con molte perdite, a gran sorpresa degli attaccanti.Il generale Avezzana dirigeva la difesa, ma chi si distinse fu Garibaldi in un tagliente scontro in mezzo ai fiori di primavera sulla collina del Gianicolo. Benché ferito, era ansioso di sfruttare subito la vittoria e lo dovette trattenere il Triumvirato, che sperava ancora di persuadere la Francia repubblicana alla neutralità. Di fatto, Luigi Napoleone aveva troppo bisogno dei voti cattolici in Francia per mettere il repubblicanesimo davanti alla religione, e in ogni caso stava già progettando di abolire la Repubblica francese per incoronarsi imperatore : era deciso a ingraziarsi i cattolici catturando Roma. Dopo questo fatto venne una tregua, coi garibaldini per lo più accantonati nei monasteri. Erano pro prio degli irregolari in tutti i sensi del termine; raccontano che talvolta prese

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loro il ghiribizzo di andare in processione coi mantelli da monaco e le candele.Si racconta anche di giochi brutali e di una caccia alle lettere d'amore fra le monache.Presto fu rono mossi di nuovo da Roma per fronteggiare una minaccia dal napoletano, e ai primi di maggio si combatté a Palestrina. Garibaldi parlò di vittoria, ma lo stesso fece il generale Lanza suo avversario. A Velletri avvenne uno spiacevole incidente che portò Garibaldi sulle soglie di un duello. Il generale Roselli era stato nominato comandante in capo al di sopra di Garibaldi perché romano e perché più sicuro disciplinarmente.Era certo un soldato di valore e coscienza; ma Garibaldi, che aveva più esperienza, se ne ebbe a male. Provocando uno scontro a Velletri, egli disubbidì chiaramente agli ordini di Roselli.C'era la giustificazione del successo, ma questo non fu poi così notevole come si pretendeva.Era nel ca rattere di Garibaldi premere sempre avanti senza badare al prezzo, spesso, sembra, senza nemmeno tener conto delle forze nemiche; egli mirava alla continua sorpresa, all'aggressione costante, ad avere sempre l'iniziativa e sfruttare subito ogni successo.Tutto ciò lo faceva troppo indipendentemente per essere un buon subalterno.Di qui venivano anche molte differenze con Maz ini e i civili di Roma. Mentre Garibaldi vedeva la rivoluzione con larghezza, Mazzini, nella sua mistica idea di una Roma cuore pulsante d'Italia, voleva concentrarsi sulla difesa della città. Richiamò quindi il contrariato Garibaldi dall'inseguimento dei napoletani perché ora c'erano forze spagnole a Gaeta e gli austriaci salivano nel centro, con un totale di quattro eserciti in formazione contro gli insorti. I francesi si erano accresciuti da sei a ventimila e invece di essere inferiori avevano ora una superiorità di più di due a uno. Garibaldi scrisse perentoriamente a Mazzini che voleva tenersi fuori di Roma per mettere in atto una rapida guerriglia fra le montagne; se doveva restare in città, lo avrebbe fatto solo o come dittatore coi pieni poteri, o come semplice soldato senza re sponsabilità di comando.Mazzini, disperato, rispose che trovava ovunque sfiducia e divisione, tanto che per il momento Garibaldi rinunciò alla minaccia e ri prese il suo posto nella difesa. Garibaldi credeva moltissimo nei poteri dittatoria li; anni dopo rimproverò causticamente a Mazzini che gli erano mancati sia le qualità del dittatore sia il coraggio di diventarlo.Quando la nave corre il peri colo di naufragare bisogna mettersi arditamente al timone, disse con la sua solita metafora nautica. Biasimò inoltre i triumviri per non essersi lasciati consi gliare dagli esperti militari e non aver seguito alcuna singola linea di condotta senza secondi pensieri e vacillamenti. Mazzini, con altrettanta e forse maggiore giustizia, accusò Garibaldi di disubbidienza e faziosità e di aver tentato di abbandonare la nave mentre stava affondando.Il generale era stato petulante, contenzioso e pieno di suscettibilità assurde; con le sue proteste e minacce non aveva reso certo più facile il compito di Mazzini.Questi due uomini con tante cose in comune a partire da quel momento non poterono mai pienamente intendersi. La natura di entrambi era troppo imperiosa e inflessibile perché vivessero amichevolmente insieme.Il principale attacco francese cominciò il 3 giugno; la Repubblica resistette a un mese di assedio.Per gli episodi più salienti ci sono molti diversi resoconti da far concordare, e l'eccitata atmosfera della lotta può essere resa solo da un esame minuto delle vicende tattiche.I difensori si trovavano in netto svantaggio: pochi di numero, male armati, con scarso addestramento e per di più nella passiva indifferenza di quasi tutti i romani, eccetto forse i trasteverini. Ma l'eroismo di quei volontari venuti da quasi tutta l'Italia, unendosi alla possente volontà di Mazzini e all'intuizione di Garibaldi, trasformarono in vittoria una causa che sembrava perduta. La possiamo chiamare una vittoria morale, se non altro perché abituò l'Europa a pensare che Roma sarebbe un giorno appartenuta all'Italia anziché al Vaticano.

Nel 1870 si mieté il raccolto che era stato seminato col sangue ventun anni prima. Garibaldi giganteggiò nella difesa con la sua contagiosa sicurezza. Fu un trionfo dello spirito sulla materia. Tuttavia la sua tattica non rimase senza cri tiche.Già il primo giorno, per infondere fiducia nelle truppe male addestrate, decise di respingere a tutti

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i costi l'attacco francese: mise ripetutamente in campo il fiore dei suoi uomini per prendere e riprendere Villa Corsini, ma solo un'unità per volta e sempre col suo metodo favorito dell'attacco frontale. Non si rendeva forse conto di avere di fronte soldati migliori che mai prima.Si era dato gran pena di istruire i suoi uomini negli assalti alla baionetta senza fuoco, ma ciò che andava bene contro i labili napoletani aveva minore efficacia contro i più risoluti e induriti francesi. Inoltre non aveva mai avuto occasione d'imparare come si usa l'artiglieria per sostenere l'attacco a un caposaldo.Perse in tal modo i suoi migliori ufficiali, cosa grave perché in quel genere di combattimenti tutto poteva dipendere dall'esperienza dei comandanti. Fra quei caduti ci furono molti dei più noti nomi di tutto il Risorgimento. Ancora il 25 giugno Garibaldi credeva ci fosse speranza. Roma, diceva, aveva scritto la più bella pagina della storia moderna. Ma la debolezza militare diventava ormai troppo evidente. Le parti si scambiarono: adesso Avezzana e Roselli volevano attaccare, mentre Garibaldi si era convinto che disciplina e morale erano troppo deboli. Mazzini criticò bruscamente tale prudenza e con scarso tatto se ne lamentò presso gli stessi subordinati di Garibaldi. Si aprì così una nuova discrepanza fra quei due capi radicali, la cui divisione era destinata ad avere conseguenze importanti per il futuro dell'Italia. Il 30 giugno fu chiamato in Campidoglio un Garibaldi che portava su di sé lo sfinimento e lo sporco della battaglia; l'assemblea sorse in piedi per salutarlo. Aveva la spada così piegata che non gli entrava bene nel fodero. Chiesta la sua opinione, dichiarò che la difesa non era più possibile; in tal senso si decise. Gli furono infine concessi i pieni poteri che aveva chiesto, col permesso di fare una sortita per mantenere in vita la rivoluzione ovunque potesse. Partì il 3 luglio.L'incaricato degli Stati Uniti, Lewis Cass, gli offrì un passaggio su di una corvetta, ma egli lo rifiutò mentre accettò invece un passaporto americano. I quattromila uomini pronti a seguirlo si unirono nella piazza davanti a San Pietro. Tutto quello che potevano aspettarsi egli disse, era il caldo e la sete di giorno, il freddo e la fame di notte.Per voi non vi è altra mercede che fatica e perigli, non tetto, non riposo, ma miseria assoluta, veglie strapazzose, marce eccessive, combattimenti ad ogni passo. Mazzini non si unì a loro; chiese a sua volta all'incaricato americano, suo amico e ammiratore, un passaporto, che ricevette col falso nome di George Moore. E nemmeno Medici, nemmeno molti altri che avevano combattuto per Roma col più grande valore, andarono con Garibaldi: la guerra, da un punto di vista realistico, era finita. Non diciamo l'unità, ma la stessa indipendenza d'Italia era ancora lontana.

Capitolo 5

FUGA ED ESILIO

1849-1854

La spettacolosa ritirata di Garibaldi da Roma è un finale adatto alla tragedia italiana del 1849.Sembra che egli abbia lasciato la città con la reale speranza di poter fare ancora della buona guerra. Caduta questa illusione, pensò di tener vivo un ultimo centro rivoluzionario nelle paludi e montagne dell'Italia centra le; ripiegò poi sull'idea di imbarcarsi su di una specie di repubblica galleggiante nell'Adriatico per veleggiare ovunque la libertà fosse alle prese con la tirannia.Credeva sempre nella fortuna, e davvero la fortuna era spesso dalla sua parte; ma nel mese di luglio, durante l'ardua e tormentosa marcia verso San Martino, queste belle speranze a poco a poco l'abbandonarono. Aveva inteso uscire da Roma per attaccare, ma la storia ha sempre chiamato la sua marcia una ritirata, e ritirata fu. Benché meno aperto di altri a considerazioni realistiche, difficilmente Garibaldi poteva evitare di sentirsi deluso per il modo in cui erano andate

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le cose.Aveva cominciato col fidarsi del papa prima e di Carlo Alberto poi ma l'uno dopo l'altro essi gli era no mancati. L'esercito piemontese era stato sconfitto due volte in maniera decisiva, Lombardia, Toscana e Napoli avevano ammainato a una a una la bandiera della rivoluzione.Era perfino in divario con Mazzi ni, che a sentir suo lo aveva abbandonato; per coro nare il tutto la gente del popolo, dalla quale tanto si era atteso, era senza entusiasmo se non attivamente avversa alla rivoluzione. Disperato, aveva scritto al la moglie Anita : Tu donna forte e generosa, con che disprezzo guarderai questa ermafrodita generazione di Italiani: questi miei paesani ch'io ho cercato di nobilitare tante volte e che si poco lo meritavano! E vero: il tradimento ha paralizzato ogni slancio coraggioso; ma comunque sia, noi siamo disonorati, il nome italiano sarà lo scherno dello straniero di ogni contrada. Io sono veramente sdegnato di appartenere ad una famiglia che conta tanti codardi... Anita lo aveva raggiunto a Roma negli ultimi giorni dell'assedio.Ora che era di nuovo un fuggiasco, insistette per cavalcare a suo fianco, benché fosse incinta di cinque mesi e la sua presenza potesse dar luogo a inconvenienti. Si tagliò i magnifici capel i neri e vestita da ufficiale intraprese quello che doveva essere il suo ultimo viaggio. Sapevano che lasciata Roma avrebbero dovuto fa e i conti con truppe austriache, francesi spagnole e napoletane.Di quando in quando, le città che attra versavano li accoglievano con onori regali; si udì perfino il grido Viva Garibaldi, re d'Italia!. Ma gli abitanti, anche quando mostravano gentilezza e simpatia, non provavano mai la tentazione di unirsi a quella spedizione inutile; alcune città sbarrarono anzi esplicitamente le porte.Coi pieni poteri conferiti gli a Roma, Garibaldi si sentiva autorizzato a requisire provviste, preferibilmente ai ricchi e ai monasteri, ma se necessario anche ai contadini. Non c'è da sorprendersi che quell'orda vagabonda venisse a volte considerata di predoni e accolta a fucilate.Garibaldi imponeva la pena di morte per furto altrettanto sommariamente che per codardia; raccontano che sparava a un uomo senza nemmeno perdere il tempo di togliersi il sigaro dalla bocca; ma non poteva impedire che i disertori rubassero e terrorizzassero la campagna con la scusa di appartenere al suo corpo. La diserzione era il problema principale.Per quanto a Terni si fossero aggiunti degli ausiliari ben addestrati al comando dell'inglese colonnello Forbes, ogni notte molti altri se la svignavano nell'oscurità. Era sempre più difficile scorgere uno scopo positivo nella sconsolata marcia e Garibaldi non poteva più imprimere nei suoi uomini quel senso di costante successo, su cui di solito contava perché avessero la volontà di vincere. Dopo sei giorni i quattromila erano duemilacinquecento. Egli notava con tristezza che disertavano soprattutto gli ufficiali, alcuni dei quali erano stati suoi compagni fin da quando combattevano insieme in Sud Ameri ca. Il fatto è che essi sapevano riconoscere una causa persa. Non si poteva farci niente, e il 31 luglio Garibaldi decise di accettare asilo temporaneo nella Repubblica neutrale di San Marino, deponendo le armi e sciogliendo la compagnia.Con duecentocinquanta uomini attraversò nottetempo le schiere austriache e dopo una marcia di quasi ventiquattr'ore raggiunse l'Adriatico. Si imbarcarono, ma il destino volle ancora che la maggior parte dei bragozzi fossero raggiunti e catturati in un vivido lume di luna. Furono passati per le armi alcuni prigionieri, fra i quali Ugo Bassi il barnabita in camicia rossa che era stato cappellano della Legione. A Garibaldi riuscì di salvarsi a riva, dove ebbe anche la fortuna di imbattersi in alcuni seguaci di Mazzini, i quali si presero cura di lui attraverso la loro organizzazione sotterranea. Anita era gravemente ammalata, lottava contro il collasso nella bruciante calura; Garibaldi vole va lasciarla al sicuro, ma la donna insistette per accompagnarlo.Travestito da manovale, la condusse via con un carretto sotto un ombrello, finché il 4 agosto ella morì nelle desolate paludi di Romagna. La successiva agiografia patriottica, di fronte al difficile compito di trovare un'eroina nella saga della rinascita nazionale, conferì a questa donna sudamericana una postuma beatificazione. Era persona brava e coraggiosa; ma non fu mai all'altezza della sua leggenda. Si fece solo in tempo a seppellirla affrettatamente nella nuda sabbia.Con gli austriaci alle calcagna, Garibaldi passò un altro mese in fuga riattraversando la penisola.

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Si rifugiava di casa in casa, andava per stagni e per pantani, mangiava talvolta nella stessa trattoria dei soldati che lo cercavano. Molti umili ma coraggiosi cittadini, presi da ammirazione e simpatia, aiutavano il suo passaggio; una volta un prete portò quell'empio fuorilegge attraverso un fiu me in piena. Non aveva denaro, ma non soffrì mai la fame e nessuno lo tradì.Finalmente, il 2 settembre, raggiunse la salvezza di un bastimento al largo della Toscana.Non si può dire che il governo di Torino fosse propriamente deliziato dal suo ritorno. Anzi, i posti di frontiera avevano ricevuto l'ordine che nessuno dei difensori di Roma, specialmente poi Garibaldi in persona, ottenesse di entrare in territorio piemontese; e c'era stata una pubblica dichiarazione, secondo la quale combattendo a Roma egli aveva perduto la cittadinanza. Però la difesa di Roma ne aveva fatto un eroe per tutti e il governo piemontese non osò ir rigidirsi.Fu arrestato ma trattato sempre con consi derazione; infine decisero di rimandarlo in America.C'era una fretta particolare perché il 16 settembre avrebbero avuto luogo le elezioni al parlamento ed era importante che Garibaldi non fosse eletto. Inoltre al parlamento una votazione di maggioranza aveva stabilito che il suo arresto ed espulsione violavano lo statuto. Lo si tenne quieto con la promessa di un sussidio per la famiglia. Gli concessero di visitare i suoi parenti per un giorno solo e alla condizione di non cercare pubblicità. Prese congedo dalla madre, che non avrebbe più rivista; i bambini furono messi a pensione presso amici.Quindi egli partì per altri quattro anni di frustrazione e d'esilio. Garibaldi non avrebbe potuto indovinare che si assentava per tanto tempo.Con la speranza che l'Ita lia avrebbe presto riavuto bisogno di lui, non voleva andarsene troppo lontano; e del resto c'erano ragioni politiche per non tornare a Montevideo. Purché andasse all'estero, al governo non interessava dove. Il 19 di settembre arrivò a Tunisi su di una cannoniera piemontese; ma il Bey non lo lasciò sbarcare, sicché fu riportato indietro fino all'isola della Maddalena, dove passò alcuni giorni tranquilli pescando, cacciando e giocando alle bocce.Nel frattempo fu chiesto al governo britannico se, data l'estrema difficoltà di allontanare il generale Garibaldi dagli Stati sardi in altro modo, non si potesse, con misura d'emergenza, concedergli asilo sulla parola a Gibil terra. Nei suoi tardi anni egli lamentò che non gli avevano permesso di sbarcare nemmeno lì. In realtà ci arrivò, e il governatore gli diede il permesso di trattenersi una settimana, fino alla partenza d'una nave per l'Inghilterra; Garibaldi rispose che non vo leva andare in Inghilterra né in America. Il governatore disse che purtroppo la fortezza non poteva ac cogliere rifugiati politici permanenti e propose come alternativa Tangeri. Qui fra i turchi posso vivere tranquillamente, fu l'acido commento di Garibaldi allorché una nave da guerra lo depositò a Tangeri. Per fortuna fu accolto, con diversi amici, dal console piemontese Carpenetti, anche lui ligure, il quale gli si mostrò ottimo compagno nei seguenti sei mesi.L'esule aveva avuto il permesso di portarsi dietro il cane, e tutti insieme andavano a pescare e cacciare, talvolta anche con il console britannico Murray. La caccia era il passatempo preferito di Garibaldi, che sempre la praticò con piacere. Passava anche lunghe ore a fabbricare vele, arnesi da pesca e sigari. Un'altra cosa che iniziò a Tangeri fu scrivere le sue memorie. Gli premeva di non sollevare scalpori e discussioni sugli eventi recenti, ma poteva almeno raccontare la storia della sua giovinezza e della sua carriera sudamericana. Fu questo il racconto pubblicato alcuni anni dopo dallo scrittore americano Theodore Dwight.Era un'esistenza noiosa per chi tanto amava l'azione. Pazientemente ma invano egli attendeva, nella speranza di essere chiamato a continuare il buon lavoro della liberazione nazionale. Manteneva se stesso e la famiglia a casa col solo piccolo sussidio del governo torinese perché non riuscì mai a conse guire un posto di capitano marittimo, cui aspirava.Col passare del tempo, di mala voglia concluse che doveva tentare la fortuna negli Stati Uniti, come tanti suoi compatrioti. Avrebbe potuto navigare sotto bandiera americana solo ottenendo la cittadinanza, e questa sembra essere stata la sua intenzione. Nel giugno del 1850 partì dunque per il Nuovo Mondo, lasciando con dispiacere a Murray il cane, che ne morì di dolore.Di passaggio a Liverpool subì un nuovo attacco di artrite, tanto grave che all'arrivo in America lo

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si dovette trasportare a terra insieme al bagaglio. La dolorosa malattia, progressivamente deformante, a tratti lo colpì per tutto il resto della sua vita.Subito dopo l'arrivo a New York alcuni italiani avviarono una sottoscrizione per armare una barca al suo comando. Sfortunatamente non si trovò abba stanza denaro ed egli dovette cercare altro lavoro. Non riuscendo ad assicurarsi un posto nell'amministrazione postale fece perfino un tentativo di arruolarsi come marinaio semplice.Un altro genovese, Meucci, gli diede allora lavoro come candelaio, e per parecchi mesi egli si specializzò nel fare lucignoli; il suo principale lo trattava come uno di casa e gli per metteva di andare a pescare a Long Island quando voleva. Sembra abbia sempre mandato quel che poteva dei suoi guadagni alla madre e ai figli, proprio come ogni altro emigrato italiano.La prospettiva di tornare in Italia recedeva forse col passare del tempo e col papa e gli austriaci che continuavano a rafforzarsi. In ogni modo, durante quei nove mesi del 1850-51 passati negli Stati Uniti, registrò l'intenzione di ottenere la cittadinanza e ricevette il passaporto. Della cittadinanza americana si vantò poi più d'una volta, ma di fatto non aveva mai completato le formalità e la sua naturalizzazione non era stata riconosciuta ufficialmente. Nella primavera del 1851 Garibaldi partì con un amico italiano in viaggio d'affari per il Perù, e per tre anni fece il marinaio. Di questo periodo si sa pochissimo, perché scrisse poche lettere e la sua vita fu per lo più scialba, oscura e senza memorie. Possiamo pensare che accrebbe di molto la conoscenza del vasto mondo e l'esperienza del comando.Jessie White, che lo vide spesso subito dopo, intùì che era stato il più triste periodo della sua vita, tanto che di rado ne parlava agli amici. Era più lontano che mai dai bam bini e dalla patria.Veleggiò fino a Panama, dove fu di nuovo colpito dalla malaria. Raccontò poi senza orgoglio che a Lima aveva attaccato briga con un francese (io poco accostevole di natura), era andato a cercarlo a casa e gliele aveva date di santa ragione; aveva addosso un'esacerbata irritazione contro la Francia, e doveva scaricarla. Nel Perù ricevette un comando da un genovese arricchitosi nelle miniere d'argento. La Carmen era una tre alberi a vele quadre, che egli guidava sotto bandiera peruviana; era diventato formalmente cittadino del Perù per poter assumere il grado di capitano.Guerzoni, in seguito segretario di Garibaldi che gli confessò privatamente molti episodi, dice che caricava grano; ma senza dubbio lesse male al posto di guano.Nel 1852 Garibaldi portò la Carmen in Estremo Oriente, toccando Hong Kong, Canton e Manila e rientrando lungo l'Australia e la Nuova Zelanda. A quanto egli racconta, durante questo viaggio studiò un libro inglese sui venti e il clima. Non seppe mai bene la lingua, e se ne dispiaceva; ma aveva comin iato a parlarla a New York.La climatologia era un argomento di cui si era sempre interessato: prima di levare l'ancora era stato in contatto con osservatori americani e aveva promesso di inviare loro pubblicazioni e informazioni che gli capitasse di scoprire. Lasciò nuovamente Lima con la stessa nave nel 1853, questa volta doppiando il Capo Horn e risalen do fino a New York e Boston.Passò altri quattro mesi negli Stati Uniti, poi rilevò il tre alberi Com monwealth, che apparteneva a un ricco italiano di Boston, e portò un carico in Inghilterra, ritoccando così l'Europa dopo un'assenza di più di quattro anni. In questo lungo periodo era riuscito a migliorare posizione e fortuna e anche ad allargare la sua esperienza nautica, poiché i vascelli oceanici erano assai più grossi di quelli che aveva conosciuto in giovinezza.Con i risparmi accumulati poteva ora propor si di raggiungere la famiglia a Nizza. Mortagli da poco la madre, doveva tentare di mettere su casa per i suoi figli.

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Capitolo 6

VITA PRIVATA

1854-1859

Garibaldi arrivò a Londra dall'America nel febbraio del 1854; solo alcuni inconcludenti bagliori illumina no quella breve visita. La cosa più inaspettata è che l'arcigno lupo di mare si fidanzò con una vedova della buona società, tale Mrs. Roberts. Un altro in contro affascinante, ma non descritto da alcuno, ebbe luogo quando il console degli Stati Uniti lo invitò a cena con il futuro presidente Buchanan. Londra era il grande asilo dei rivoluzionari internazionali; sicché egli vide non solo Mazzini, ma anche l'unghere se Kossuth, il russo Herzen e il francese Ledru-Rollin.Questi incontri lo rimbalzarono di colpo a viva forza nel mondo della politica.Mazzini aveva scritto a Garibaldi nella speranza di dimenticare le differenze passate e di accordarsi sull'organizzazione di una rivolta repubblicana in Sicilia. Personalmente, l'incontro fu cordiale. Ma Ga ribaldi si era fatto un po' cauto di fronte all'impetuosità e al rigido dogmatismo di Mazzini. Herzen attri buisce a Garibaldi queste parole: Io conosco le masse italiane meglio di Mazzini perché son sempre vissuto in mezzo ad esse. Mazzini conosce solo un'Italia intellettuale.Ora, le masse italiane non erano certo pronte per la Repubblica ideale sognata da Mazzini.Era in ogni caso follia offendere il Piemonte monarchico quando c'era ancora la possibilità che tutti gli italiani, radicali e conservatori, si unissero per una guerra d'indipendenza contro l'Austria.Quello che veramente importava era l'indipendenza nazionale, non la politica interna.Era un Garibaldi più moderato e piu politico di quanto si fosse mai visto prima. Voleva a tutti i costi ottenere il permesso di tornare a casa e non voleva offendere Torino.Primo ministro del Piemonte era adesso il conte di Cavour, leader dei liberali modera ti e nemico della rivoluzione. Cavour avversava profondamente Mazzini e la sua attività; ma teneva sempre l'occhio ben aperto, per portar via al leader repubblicano qualsiasi radicale dissidente che non ne riconoscesse più l'autorità. Dapprima esitò a per mettere il ritorno di Garibaldi e mise anzi in guardia la Gran Bretagna contro di lui, per timore che si stesse combinando qualche altro piano di rivoluzione italiana. Solo quando divenne chiaro che Garibaldi non mirava alla Sicilia Cavour permise che l'esule raggiungesse la famiglia, alla condizione di astenersi dalla politica.Garibaldi si portò prima a Newcastle, dove i lavoratori gli fecero omaggio di un'altra spa da d'onore; poi con un mercantile carico di carbone salpò per Genova nell'aprile del 1854.Appena rientrato, un altro attacco di reumatismo e artrite lo costrinse a far la cura dei fanghi ad Acqui. Ricompensò Cavour dissociandosi da Mazzini e af fermando (secondo quanto riferisce il rappresentan te inglese) che in futuro avrebbe combattuto solo per il Piemonte.I giornali mazziniani, con scarso tatto, resero allora di pubblico dominio la sua disobbedienza romana del 1849; nel respinger l'attacco egli rifiutò con fermezza di spiegare o confutare i fatti, e sperò di sistemare la faccenda semplicemente con lo sfidare a duello il generale Roselli.Scrisse irosamente ai giornali per avvertire la gioventù che la politica mazziniana delle insurrezioni continue altro non fa ceva che screditare la causa italiana. Nel 1855, quan do il Piemonte entrò nella guerra di Crimea al fianco della Francia e dell'Inghilterra, Mazzini gridò al tradimento del nazionalismo italiano e consigliò ai soldati di disertare; Garibaldi si trovò invece con quel ramo del radicalismo che vedeva di buon occhio il tentativo di far nuovamente sentire in Europa la voce dell'Italia. Mazzini non si lasciava però sgomentare da questi segni di divergenza. Sapeva quanto mutevoli e im petuose fossero le vedute politiche dell'altro; riteneva che non avrebbe mai cominciato cosa alcuna da solo, che aveva bisogno di mezzi già pronti; avrebbe seguito i repubblicani se questi agivano per primi, altrimenti i monarchici. L'analisi non era del tutto sbagliata. Repubblicani e monarchici avevano en trambi un po' di paura di Garibaldi, però erano pronti a disputarsi i suoi servizi; anche fuori dalla vita pubblica egli era un uomo considerevole.

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A giudizio di Garibaldi, naturalmente, i pacifici anni domestici che trascorse dal 1845 al 1859 erano privi di storia; ma l'osservatore vi trova motivo di grande interesse, anche se furono relativamente vuoti di eventi. Il 1854 lo passò in gran parte quietamente a Nizza, senza occuparsi o quasi di politica. Come tollerato doveva andarci piano; ed era prontissimo ad attendere che Cavour offrisse un programma d'azione al posto di quello, mancante, di Mazzini.La rigenerazione poteva aver luogo in circostanze del tutto imprevedibili, diceva; forse più presto di quan to la gente pensasse. Passò un mese di vacanze in Sardegna con Jessie White e la fidanzata Emma Roberts. Talvolta abbat eva diverse centinaia d'uccelli al giorno e i magnati del posto gli organizzavano cacce al cinghiale. Nel 1855 ricevette di nuovo dal governo il brevetto di ca pitano e per alcuni mesi riprese il traffico costiero.I fratelli Orlando, famiglia di radicali siciliani che stava fondando in Liguria i grandi cantieri Ansaldo, gli diedero il comando del Salvatore, il primo piroscafo a elica battente bandiera italiana.La prima impressione che Garibaldi fece a miss White fu quella di un semplice cortese gentiluomo, di poche parole, restio dall'andare in società. Si alzava sempre all'alba e perfino nella natia città di Nizza usciva la mattina per tirare alle pernici o anche ai pesci.Dormiva dopo colazione e si ritirava ogni sera alle otto. Odiava gli impegni sociali. Quando lo si aspettava a cena, molte volte non si presentava affatto e all'ultimo momento se ne anda va a giocare a bocce. Era anche gran giocatore di da ma, di rado sconfitto; ma non provò mai gli scacchi, perché diceva che ci vuol meno tempo a diventare un buon generale che un buon scacchista. Ogni tanto ascoltava musica, perché Mrs. Roberts era una brava pianista; ma sembra ne godesse solo quando ella avviava qualche melodia patriottica.Garibaldi aveva ormai quasi cinquant'anni e vole va sistemarsi. L'artrite lo rendeva disadatto alla vita di mare. I suoi bambini senza madre erano vissuti con amici che agivano da tutori.Quando nell'autun no del 1855 morì il fratello Felice, lasciandogli qual cosa, tale lascito insieme ai suoi risparmi gli permi sero di metter su casa per conto suo.Come per tanti altri italiani che avevano fatto fortuna nel Nuovo Mondo, comprarsi una fattoria in patria era per lui un istinto naturale; finì per scegliere la desolata isola di Caprera, dove alcuni appezzamenti erano in vendita assai a buon mercato. Caprera sta nel roccioso arcipelago della Maddalena, fra Corsica e Sardegna.Sul remoto orizzonte c'è l'Elba e l'altra romantica isola, Montecristo. La Maddalena era stata un luogo familiare per Nelson e lo stesso Garibaldi ci aveva già passato un breve periodo. Un posto così solitario e libero, nel mezzo della natura selvaggia, senza governi e regole cui obbedire, era una scelta da marinaio. Dumas racconta che Garibaldi, veleggiando accanto alle isole Juan Fernández, nel Pacifico meridionale, aveva chiamato Robinson Crusoe l'uomo più felice del mondo. Era dunque un antico sogno che si avverava.Una volta al mese da Genova un battello toccava Caprera, del resto completamente isolata salvo che per le aquile volteggianti sulle sue coste rocciose e frastagliate e per le capre selvatiche da cui prende il nome. La maggior parte dell'isola era nudo granito, deserto e scosceso, macerato dal vento e dalle onde. E' difficile rendersi conto delle delizie di un luogo dove l'uomo non ha mai preso dimora, diceva Vecchi, tanto profondi vi sono la pace e l'ininterrotto si lenzio. Nel 1855 Garibaldi poté acquistare metà dell'isola. Il resto apparteneva a un certo Mr. Collins, un inglese eccentrico e poco socievole che era vissuto vent'anni con la moglie in una capanna alla Maddalena.Si raccontavano di lui strane cose, per esempio che avesse navigato con Nelson e che fosse stato il valletto di una ricca dama, ora sua moglie; in ogni caso non erano buoni vicini e i loro animali irrompe vano di continuo nel giardino di Garibaldi. Anni dopo un altro inglese comprò la mezza isola di Collins e ne fece omaggio a Garibaldi. Caprera è oblunga, circa sei chilometri per quattro e mezzo. Diverse famiglie di pastori ci sono vissute in capanne e grotte naturali.C'è un'altura con una vista splendida, che Garibaldi contemplava in silenzio per ore e ore.E un'isola secca e sterile, molto ventosa, ma di clima temperato e aria salubre.Rozzi cespugli, rovi, ginepri e mirti crescevano sugli orli e negli interstizi della roccia; più tardi

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Trevelyan notò anche l'imbrèntine, la tamerice, la lavanda e l'asfodelo. C'era una sorgente d'acqua nel centro. Nessun vero porto per barche, anzi bassifondi e scogliere dappertutto; ma pesce in abbondanza, che permetteva a Garibaldi uno dei suoi più intensi divertimenti.Nei primi diciotto mesi egli fece a Caprera solo visite occasionali. Tre o quattro vecchi compagni d'ar mi, insieme all'ormai quindicenne figlio Menotti, lo aiutarono a costruire una casa con granito del posto e legno portato da Nizza; nel frattempo vivevano in tenda.La Casa Bianca era una costruzione a un piano nello stile di Montevideo, con quattro stanze e un tetto piatto per raccogliere l'acqua. Garibaldi si mostrò cattivo muratore, tanto che presto lo impiegarono solo a portare pietre. Si dovette far venire un capomastro e carpentiere esperto, che rivedesse il già fatto e dirigesse la tecnica della costruzione.Fu questo il luogo che a poco a poco Garibaldi tra sformò in fattoria, con vacche, cavalli, piccioni, pollame e api. Costruì un giardino e dei sentieri. Quando trovava terra sufficiente, piantava cereali e radici commestibili, trasportando talvolta la terra stessa. In altri luoghi faceva crescere meli, peschi, peri, mandorli e perfino canne da zucchero : voleva rendersi del tutto autosufficiente. Dovette scavare pozzi ed ebbe presto bisogno di un mulino a vento e di una macchina a vapore per pompare l'acqua. A lungo andare le spese si fecero considerevoli, poiché l'isola era sterile quanto selvaggiamente bella; per fortuna, gli amici all'estero non facevano che mandargli doni in denaro e in natura. Anche i visitatori si fecero sempre più frequenti.Era spesso lì la si gnora Deidery, attempata gentildonna che si occupa va della sua prediletta figlia Teresita, cercando di mitigare la noia provata da quella vivace bambina in un luogo tanto solitario.Alcuni altri amici stavano sempre a Caprera per i lavori all'aperto o come segretari per sbrigare l'enorme corrispondenza che più avanti cominciò ad arrivargli (il numero di lettere non affrancate si rivelò pernicioso per le sue sempre malferme finanze, tanto che egli fece degli appelli in proposito attraverso la stampa, pur rimborsandosi un poco col non affrancare a sua volta).Alla tavola di Garibaldi il cibo era sempre semplice e all'inizio non abbondante.Si mangiavano tordi e altri uccelli salati e fritti. C'erano verdure e fichi secchi, uva passa, formaggio. Due anni dopo, quando fece venire tre pastori a mezzadria, risultò che possedeva trenta capi di bestiame, un centinaio di pecore e circa altrettante capre. Ma più tardi si fece sempre più vegetariano; lo stretto contatto con la solitaria natura gli diede l'eccentrica credenza che gli animali e perfino le piante avessero un'anima cui non si doveva nuocere.Divenuto mezzo vegetaria no, rinunciò quasi interamente anche a bere; ma ri tenne il consueto gusto per i sigari. Nel 1856, prima ancora di essersi definitivamente sistemato nella nuova proprietà, Garibaldi tornò in Inghilterra per visitare Emma Roberts, della quale dopo due anni era ancora fidanzato ufficiale. Inten deva anche comprare con i resti del lascito fraterno un cutter per veleggiare fra Caprera e la civiltà.Non mancava nemmeno il movente politico: era in piedi una cospirazione, incoraggiata perfino dal Gabinetto britannico, per liberare certi prigionieri politici che il re di Napoli aveva sepolti vivi sullo scoglio di Santo Stefano. Per questo scopo il direttore del British Museum comprò a Hull un battello, lo Isle of Thamet, che Garibaldi avrebbe comandato; ma l'imbarcazione naufragò in ottobre al largo di Yarmouth e si dovette abbandonare il progetto.Fu notato che stavolta Garibaldi non si recò da Mazzini, per quanto fossero entrambi a Londra.Ma andò a stare presso il padre di Jessie White a Port smouth, dove deliziò i costruttori di navi esibendo la sua conoscenza dei più piccoli particolari dell'arte loro. Di ritorno in Italia, passò parecchi mesi navigando regolarmente di porto in porto col suo cutter carico di legname e carbone. In omaggio alla sua benefattrice e fidanzata l'aveva chiamato Emma; pescava circa quaranta tonnellate. Il diario di bordo contiene numerosi appunti matematici che mostrano come Garibaldi si interessasse ancora a problemi di algebra, trigonometria e simili.Quando nel gennaio del 1857 la nave andò distrutta da un incendio, la sua carriera come marinaio ebbe termine. La Casa Bianca era ormai pronta; non avendo altri mezzi di sussi stenza, egli si dedicò al duro lavoro dell'agricoltore, che gli avrebbe dato fino all'ultimo una così profonda

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soddisfazione. In questi dieci anni prima del 1859 Garibaldi dovette reprimere la sua natura e vivere da pacifico cittadino; come persona sola in possesso di una mode sta agiatezza, era chiaro che gli serviva una moglie. Il fidanzamento con Mrs. Roberts non sopravvisse alla visita in Inghilterra del 1856 e forse era sempre stato un po' inverosimile. Si trattava di una donna ricca e di talento, troppo, per quel poco socievole recluso di rozzo taglio; tanto che dopo due anni i figli di lei riuscirono a rompere la partita. In seguito Garibaldi disse che un mese da lei con tutti quei domestici e lo star su la notte e le cene che duravano due o tre ore, lo avrebbe ucciso.Egli era decisamente troppo poco cerimonioso e convenzionale per amare la delicata vita di società. Emma gli rimase amica; gli mandava piante e semi e anche buoni consigli perché si facesse più temperato in politica. Egli le affidò il secondo figlio, Ricciotti, che lei portò in Inghilterra a curarlo di una seria infezione alla gamba e dove il ragazzo rimase per frequentare la scuola a Liverpool. Di lì a non molto Ricciotti aveva dimenticato l'italiano al punto che Garibaldi scherzava sul fatto che ora potevano parlare insieme pochisimo.Un'altra donna che adorava Garibaldi era la contessa Maria Martini della Torre. Lo incontrò anche lei a Londra nel 1854, ma era già maritata. Alcuni anni più tardi vestì la camicia rossa e lo seguì in battaglia; i suoi giorni terminarono in un manicomio. Una voluminosa quanto devota corrispondenza arrivava da altre reali o presunte gentildonne d'ogni età e condizione; quell'uomo così celebre rispondeva a un'esigenza pubblica che fu poi soddisfatta per altre vie.Lettere ammirate e appassionate affluivano specialmente dall'Inghilterra. Non si esagera a dire che la causa del nazionalismo italiano divenne popolare in Inghilterra soprattutto grazie alla fascinosa popolarità di Garibaldi, il quale guadagnò in tal mo do al suo paese un punto per nulla ufficiale e tuttavia di grande importarlza politica.Fra le altre la duchessa di Sutherland e la moglie di Charles Seeley, deputato al Parlamento, gli scrissero lettere che i loro mariti difficilmente avrebbero approvate. Ai loro occhi egli era l'eroe romantico riuscito, che trattava le donne come fossero già emancipate e con una galanteria per nulla vittoriana. La distanza lo rendeva affascinante perfino per una donna sagace come Florence Nightingale, la quale contribuiva regolarmente ai suoi fondi.Questa attrazione delle donne ricche e nate bene per Garibaldi è una faccenda costante; ma la maggior parte di loro finiva per disincantarsi quando lui mostrava di essere rozzo, crudo e sgraziato. Le donne dalle quali ebbe dei figli furono tutte umili plebee: Anita, Battistina Ravello e Francesca Armosino. Battistina era figlia di un marinaio, povera, ignorante e per nulla graziosa.Andò a Caprera come serva e nel 1859 gli diede una figlia che ricevette il nome di Anita e divenne una creatura selvaggia e indomabi le.Si dice che egli pensasse allora di sposare Battistina; ma in quello stesso anno stava dietro, per scopo matrimoniale, ad almeno altre due donne. Fu il mo mento in cui andò a dissotterrare le ossa di Anita per procurarsi un certificato di morte che gli permettesse di ammogliarsi di nuovo. Una delle altre due candidate era la bella ed elegante baronessa Maria Espérance von Schwartz. Fu probabilmente, dopo Anita, la più importante donna della sua vita. Il padre era un banchiere tedesco tra sferitosi in Inghilterra; lei era nata a Londra e passa va per i nglese. Nel 1857, quando incontrò Garibaldi, aveva già perso un marito per suicidio e un altro per divorzio. Aveva trentasei anni e conduceva una cosmopolita vita da dilettante, scrivendo racconti ro mantici e di viaggi.Quando Espérance, o Speranza, come divenne per Garibaldi, visitò Caprera nel 1857, era probabilmente in cerca d'una nuova storia avventurosa.Aveva un'intensa e seria idolatria per gli eroi; era un po' fanatica e non poco nevrotica. Covava l'idea di per suaderlo a portare avanti l'autobiografia che giungeva allora solo al 1848; di fatto, i due contrattarono per un'edizione accresciuta in tedesco. Fu lei ad accompagnarlo nel viaggio in Romagna alla ricerca della tomba della moglie; tentò perfino, ma senza successo, di interessare i concittadini di lui a una pubblica sottoscrizione per un monumento all'intrepida e fedele Anita.Quando Speranza tornò a Caprera nel 1858, Gari baldi le propose di sposarlo; lo fece di nuovo l'anno dopo, sembra senza informarla della figlia avuta da Battistina Ravello. Ottenuto un rifiuto,

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il suo interesse si illanguidì un poco. Capitava le facesse il piacere di dettarle qualche casuale aforisma e dei versi, specie (dice lei) quando era di umore elagiaco o patriottico.Nel 1859 la mandò in missione in Sicilia a pren dere contatti con i rivoluzionari. Senza dubbio la donna esagerò l'importanza della missione; e non sembra sia riuscita a impressionarlo molto col racconto delle sue eroiche imprese. Tradusse a dovere in tedesco i ricordi; ma verso la fine di quello stesso anno egli chiese improvvisamente la restituzione del manoscritto, e senza nemmeno rispondere alle lettere di protesta della donna lo affidò ad Alexandre Dumas perché lo pubblicasse in francese, abbellendolo.Malgrado questo trattamento e perfino dopo che egli si ammogliò improvvisamente, nel gennaio del 1860, con la marchesina Raimondi senza affatto informarla, Speranza von Schwartz restò buona ami ca di Garibaldi e si assunse anzi l'educazione dell'intrattabile figlia Anita.Speranza era una donna intelligente, anche se un po' troppo fantasiosa, sicché le sue memorie ci offrono alcuni particolari interessanti sulla vita di Gari baldi a Caprera. Fin dalla sua prima visita descrisse la camminata di mezz'ora dallo sbarcatoio alle mura di granito della Casa Bianca.Ricordava particolar mente i cani da caccia di Garibaldi e i cimeli di guerra polverosi e arrugginiti, le bandiere e le armi di vari paesi che riempivano la sua stanza.Nella piccola biblioteca c'erano Shakespeare, Byron, Plutarco e La Fontaine, l'opera di Arthur Young sull'agricoltura, altri libri inglesi di navigazione e di arte della guer ra. Già nel 1857 nel giardino c'erano vigne, canne da zucchero, fichi e castagni; e si vedevano fumare molte carbonaie.Egli si lagnava con lei delle capre che rendevano difficile qualsiasi coltura, e tentava di disfarsene.Era una scena di semplice industriosità, un ambiente che a Garibaldi andava a pennello.Dopo la seconda visita ella aggiunse qualche tocco al ritratto. Garibaldi mungeva egli stesso le vacche. Come sempre andava subito a letto al calar del sole, e il suo era un letto molto duro.Parlava il francese perfettamente, ella disse; ma preferiva il nativo dialetto ligure. Notò anche che ora metteva gli occhiali per leggere il giornale. Per lei egli era un affascinante enigma, molto più raffinato del baldanzoso uomo d'azione che si era immaginata. Però i suoi aneddoti mostravano una mentalità ancora infantile, che compariva d'un tratto nel mezzo delle discussioni più serie e importanti. Viene in mente la scoperta di Jessie White: che non aveva umorismo.Soprattutto, non sapeva ridere di se stesso né permetteva che altri lo facesse. Se lei lo prendeva in giro per una frase troppo prediletta, lui stava tutto il giorno senza rivolgerle la parola. E questo un aspetto del carattere di Garibaldi che andò sovente inosservato.Gli adulatori che lo isolavano dal diretto contatto con il mondo tendevano anche a ingannarlo su se stesso; e alcuni di questi difetti, in genere, il mondo non li vedeva per via del suo comportamento benigno e cortese.Una strana cosa che disse a Speranza, s'era nel novembre del 1858, fu che di lì a poco sarebbe forse tornato in Sud America; Sacerdote, il più recente e accurato biografo di Garibaldi, conferma che anche stavolta era stato il governo piemontese a fargli intendere che avrebbe fatto bene a riprendere i suoi viaggi. Da tale destino lo salvò lo sviluppo di dram matici eventi.

Capitolo 7

LA QUESTIONE NAZIONALE

1856-1859

Negli anni 1859 e 1860 Garibaldi cessò di essere ciò che fino ad allora era via via stato, marinaio, pirata, agricoltore, rivoluzionario radicale, e divenne lo stilizzato eroe nazionale di innumerevoli testi di storia. Aveva appena passato i cinquant'anni. Nel tardo 1859 il ministro inglese Hudson si

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recò a visitarlo su suo invito; la sua prima impressione fu quella di un uomo alto circa un metro e settantadue, di aspetto soldatesco, dalle spalle larghe, il torace profondo e i fianchi sottili, che cammina lestamente, con grandi e miti occhi color nocciola e la voce profonda.Il viso, ruvido ma espressivo, era stato abbronzato e indurito dalla vita all'aria aperta, ed era lo specchio di un cuore gentilissimo e generoso, disse John Bright la prima volta che lo vide. Di maniere aperte e cortesi, senza alcuna presunzione evidente; aveva tuttavia, accanto a un'ingenuità infantile, anche il tono imperioso di chi è abituato a comandare e a essere ubbidito.Parlava poco, ma bene. Era semplice e diretto, invitava alla confidenza; al fascino della sua personalità non ci si poteva sottrarre. Un altro inglese che lo vide abbastanza quell'anno fu l'attaché militare colonnello Cadogan. Siccome l'influsso di Garibaldi in futuro poteva essere forte, era importante prendere conoscenza delle sue qualità; tanto che accurati commenti vennero inviati al governo di Londra. Come gli altri, anche Cadogan fu impressionato dal fascino reale di quelle maniere e di quella voce. Lo si paragonò a George Washington per la grande serietà dei propositi, la grande energia d'esecuzione, l'amore disinteressato per il proprio paese senza ambizioni personali. Tutti facevano commenti su q uesto magnanimo disinteresse.Garibaldi era profondamente sincero e possedeva un carattere semplice, con illusioni quasi puerili sulla natura umana. Abbiamo di nuovo un riferi mento all'aspetto infantile della sua mentalità.Le classi più povere lo chiamavano il padre d'Italia. Le sue idee, benché larghe e oneste, di rado si sollevano al di sopra delle trite generalità popolaresche.Ma forse proprio per questa ragione egli esercita su chi lo ascolta un influsso che un'intelligenza più coltivata potrebbe non riuscire a produrre. Il commento era incisivo e giusto.Garibaldi non aveva un carattere che si facesse notare per complicatezza; ma anche la monolitica integrità della gente semplice è talvolta venata da dedizioni rivali e contrarie.Nel 1859, riconosciamolo, egli era soprattutto un patriota che aveva appreso da Mazzini e dalla propria coscienza come la redenzione del suo paese diviso e arretrato fosse il più nobile dei fini.Ma era quasi altrettanto un internazionalista che non permetteva mai al patriottismo locale di oscurare l'affetto per l'umanità in genere. Nutriva profonda ammirazione per altri paesi, specie per gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Svizzera; i suoi pensieri correvano spesso a progetti di Stati Uniti d'Europa e di una utopistica condizione di pace e fratellanza universale.Un'altra contraddizione apparente è quella fra la continua adesione al repubblicanesimo come miglior forma di governo e la ferma lealtà di quasi tutta la sua vita verso la corona piemontese.Se Casa Savoia finì per trionfare su tutte le altre possibili soluzioni della questione italiana, per esempio, su quella repubblicana o di una penisola divisa o federata, lo si dovette a Garibaldi almeno quanto a chiunque altro.Al di sotto di tutti questi contrasti apparenti c'è un fatto costante: i princìpi fondamentali di Garibaldi erano ammirevoli e restavano fermi malgrado ogni sua instabilità o stravaganza pratica.Tutto il suo guerreggiare e tutta la sua attività politica poggiavano su di un saldo umanitarismo e su di un inflessibile amore per la libertà. Essenzialmente, lo si può chiamare radicale e democratico, perché questi termini descrivono qualcosa di tipico e di inalterabile nel suo carattere. Mazzini parlò di lui come della vivente incarnazione delle libertà popolari. Egli non usò mai la forma di cortesia con il Lei se non rivolgendosi a re Vittorio Emanuele; proibì espressamente, ogni volta che gli fu possibile, il degradante abito di baciar la mano a un uomo e l'uso ossequioso di titoli onorifici. Tutti gli uomini sono nati liberi e uguali agli occhi di Dio. Era l'archetipo dell'uomo comune; e gli uomini comuni da New York a Newcastle e a Palermo subito si riconobbero in lui, con l'aggiunta che egli aveva fatto strada, migliorando la condizione di tutti. Quasi letteralmente, divenne il loro santo protettore; troviamo perfino una stampa popolare che mostra un Garibaldi-Cristo con la mano alzata a benedire.I suoi tratti forti e benevoli coi capelli alla nazzarena contribuivano all'illusione; ci furono contadini che, vedendolo, credettero realmente in un'apparizione o in un secondo avvento. I movimenti nazionali del secolo decimonono avevano bisogno di un personaggio del genere,

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trascendente e idealizzato ma forte mente individualistico. La notorietà e l'éclat di Garibaldi furono un ingrediente essenziale nel guadagnare molta gente comune a una causa nazionale che sarebbe altrimenti sembrata remota e senza vantaggi, se pur la capivano.

La formazione d'Italia risultò in una vittoria degli intellettuali, dei liberali, delle classi medie; non certo degli ignoranti, che a stento sapevano il significato della parola Italia; non dei poveri, che ne sentirono la presenza solo in tasse e coscrizioni; non di quanti persero un ordine sociale paternalistico e protettivo per passare ad aspre competizioni dove falliva il più debole; non delle masse cattoliche, che videro il papa spogliato del potere temporale, i monasteri dissolti e le proprietà ecclesiastiche confiscate.Non c'è dubbio che il prestigio di Garibaldi fra la gente ordinaria contribuì a nascondere quello che stava realmente accadendo, finché fu troppo tardi per opporsi a esso. L'individualismo delle sue idee e azioni, in pratica, era anch'esso un'inattesa fortuna per la causa del nazionalismo.Retrospettivamente, l'unificazione italiana può sembrare pianificata e inevitabile; di fatto allora molte cose si decidevano un po' come venivano, e lungi anzi dallo sviluppare piani preconcetti, non c'era mai stata molta coordinazione e direzione intelligente.Fu dunque prezioso Garibaldi con quel suo spensierato prender la legge in mano senza calcolare il costo e le conseguenze; come fu preziosa la sua non critica ma intuitiva fiducia, incrollabile fino dal 1849, che l'Austria era un colosso di creta cadente a pezzi. Con una simile fede cieca e irragionevole e con il coraggio di assurdi convincimenti, un uomo può muovere le montagne o spostare una frontiera. Dall'altro canto Cavour, più tardi innalzato ad ar chitetto dell'unificazione nazionale, era invece rimasto scettico fin quasi all'ultimo istante. Ci voleva l'attività pericolosa e irresponsabile di gente come Garibaldi per convincerlo della praticità politica del nazionalismo.Cavour era capace di calcolare i costi e di paventare i pericoli; mentre Garibaldi cominciava una rivoluzione senza pensarci sopra, pronto a esser rinnegato se falliva o sfruttato dal governo se gli andava bene. Inoltre Cavour, quando alfine divenne nazionalista, in un certo senso era spaventato della cosa perché temeva che Garibaldi e i radicali monopolizzassero il nazionalismo rendendolo rivoluzionario in politica sia interna che estera. Per restare primo ministro e in un'Italia conservatrice, dovette in parte far proprio il programma di Garibaldi.Cavour e Garibaldi erano entrambi necessari ai successi del 1859-60.Le due ali del movimento nazionale, la conservatrice e la radicale, si trovavano di fatto in parziale alleanza, pur continuando a diffidare l'una dell'altra. Era in gran parte opera di Daniele Manin, veneziano esule a Parigi, il quale fondò la Società Nazionale per diffondere la dottrina secondo la quale rivoluzionari e monarchici dovevano formare un fronte unitario.Garibaldi si iscrisse alla società e Cavour si tenne in contatto. Già nel 1854 Garibaldi diceva che non avrebbe più dato il suo appoggio a sporadici moti mazziniani, ove mancasse quello della monarchia piemontese.Il Piemonte aveva un esercito di quarantamila uomini e risorse senza le quali sarebbe stato problematico riuscire; aveva inoltre un monarca ambizioso, il cui desiderio di espandere il Piemonte stesso poteva trasformarsi nel desiderio di creare una nazione affatto nuova, l'Italia unificata. Garibaldi insisteva pertanto che tutte le fazioni si unissero al Piemonte come all'elemento più forte nella penisola. Pur restando in teoria un repubblicano convinto, giudicava la società italiana ancora troppo arretrata e corrotta per la repubblica ed era pronto a servire fedelmente e senza riserve re Vittorio Emanuele. Questo fatto ebbe un'importanza enorme.Il nome di Garibaldi era già magico; la sua adesione alla strada intermedia della Società Nazionale fu un momento decisivo nella storia d'Italia.A partire dal 1856 il gran progetto di Cavour era una guerra contro l'Austria. Voleva acquistare al Piemonte le province austriache del Lombardo-Veneto, formando un forte regno di tutta l'Italia settentrionale. L'esercito piemontese era troppo piccolo per lo scopo; sarebbero servite un'insurrezione popolare e una brigata di volontari. Credendo io avessi conservato alcun prestigio nel popolo, il conte di Cavour, onnipossente allora, mi chiamò nella capitale e mi trovò certamente

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docile all'idea sua, scriverà più tardi Garibaldi. A Torino fu convocato la prima volta nell'agosto del 1856. Un testimone del loro primo incontro riferisce che Cavour, allegro e familiare, lasciò intendere che si preparavano grandi mosse per la ricostruzione d'Italia, a patto però che i radicali, con pazienza, evitassero ogni scoppio rivoluzionario prematuro.Tanto bastò a tener quieto Garibaldi, mentre proprio nel 1857 Mazzini e Pisacane architettavano diverse insurrezioni repubblicane abortite. Lo chiamarono di nuovo a Torino nell'agosto del 1859 e stavolta il messo lo trovò che mungeva le vacche di Caprera.Fu una fra le poche occasioni in cui egli vestì il convenzionale abito da cerimonia con cilindro e bastone, il tutto preso in prestito da un amico all'ultimo momento; di lì a non molto il suo pote re nel Paese fu tale che non ebbe più da osservare le formalità dell'etichetta.Rivide Cavour anche in dicembre, apprendendo altri particolari sul piano per far scoppiare una guerra nella successiva primavera: data una provocazione plausibile, l'aiuto francese sembrava assicurato e lui avrebbe avuto il comando dei volontari.Divenne subito, di tutto cuore, un entusiastico sostenitore del governo. Di lì a poco incontrò per la prima volta il re e ne rimase molto impressionato. Sperava che Vittorio Emanuele avrebbe comandato l'esercito personalmente, senza dar peso alla diffusa opinione che lo faceva del tutto incompetente come soldato. Garibaldi voleva si proclamasse una completa dittatura militare, in modo di por fine alle chiacchiere e alle beghe dei politicanti e del parlamento; e che dittatore fosse il re. La volontà nazionale ha già scelto il re come nostro duce supremo. E naturale che gli uomini politici di Torino vedessero le cose in maniera diversa: il potere regio avrebbe potuto estendersi solo a spese del parlamento. Il desiderio di una dittatura regia era un segno delle differenze che continuavano a sussistere fra Garibaldi e Cavour.L'amicizia dei democratici radicali era sinceramente voluta da Cavour: essi avrebbero accresciuto le sue forze, sostenendo lui apertamente avrebbero diminuito il pericolo di una rivoluzione mazziniana. Ma egli non aveva particolare simpatia o fiducia per il re e d'altra parte non voleva che Garibaldi si gonfiasse troppo.Quando si venne al punto, il numero dei volontari fu tenuto basso; Garibaldi non ebbe il comando su tutti; i migliori furono passati nelle truppe regolari; i restanti furono lasciati con moschetti di vecchio tipo e senza artiglieria e genio. Cavour era d'accordo col generale Lamarmora, ministro della Guerra, nel ritenere le formazioni volontarie politicamente pericolose e militarmente malsicure; inoltre i soldati regolari erano ansiosi all'idea che gli irregolari potessero emergere dalla guerra con troppo lustro. Il conte di Cavour era un aristocratico e un diplomatico; non si fidava delle forze popolari che lavorarono al suo fianco nel corso del Risorgimento, o non le capiva.Quando Mercantini scrisse il famoso inno dei volontari garibaldini, Cavour, nel gennaio del 1859, lo disse ridicolo perché di inni nazionali ce n'era già abbastanza.Egli era troppo realistico per apprezzare i motivi ideali; troppo pragmatico perché i grandi entusiasmi popolari gli piacessero, troppo conservatore e potente per riuscire non paternalistico e per sentirsi a proprio agio con le masse.Nel marzo del 1859, proprio mentre Cavour stava per provocare la non provocata aggressione austriaca che giustificò la guerra di liberazione, Garibaldi fu fatto maggiore generale dell'esercito piemontese ed ebbe la brigata volontaria dei Cacciatori delle Alpi. Si proibì la camicia rossa: gli uomini avevano pantaloni azzurri e giacche grigie; Garibaldi mise addosso i fronzoli da generale e smussò la bar ba, secondo il regolamento. Solo l'inevitabile sella americana, il poncho già bianco e il rosso fazzoletto da collo ammorbidivano l'effetto di tale nuova e poco caratteristica uniforme dai cordoni d'oro. I volontari erano il solito miscuglio di idealisti e ciarlatani, cavallereschi entusiasti che combattevano a fianco a fianco con reietti sociali.Molti erano studenti; alcuni cercavano solo eccitazione, avventure, eroismo; la gran maggioranza meritava ormai veramente il nome di garibaldini, seguaci di un culto nuovo e crescente.Ci furono solo pochi giorni per l'addestramento e la creazione di uno spirito di corpo; ma l'eterodosso Garibaldi dichiarava che due settimane bastavano a fare un soldato. Soltanto lui

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sapeva come mescolare gli ingredienti della sua ricetta. Mentre i regolari avevano il vantag gio della disciplina e dell'addestramento, Garibaldi conosceva assai meglio il valore dell'entusiasmo e il modo per instillarlo.Per quanto la sua professione fosse quella del soldato, egli era tutto meno che un militare di professione; appassionatamente eccitava all'azione volontaria, non rimunerata, al servizio di un ideale, gente che sapeva per cosa combatteva e amava le proprie idee. A modo suo e con originalità, era un comandante nato. Le sue esperienze, pratiche e remote dai libri di testo, gli avevano dato un'intuizione tattica che gli permetteva di valutare le situazioni con straordinaria rapidità. In un attimo riusciva ad adottare un piano che poi, giusto o sbagliato, applicava con la più grande risoluzione. Ogni pianificazione e organizzazione era tenuta il più semplice possibile, per consentire velocità e flessibilità; fu proprio questo il punto in cui l'esercito piemontese si mostrò, al confronto, meno efficiente. Egli sapeva conquistare combattendo l'iniziativa e mantenere poi la pressione; sapeva guadagnarsi la reputazione leggendaria che accompagna il successo continuato. Non si lasciò mai prendere dall'inquietudine.Soprattutto, non aveva paura di niente, come se non desse alcuna importanza alla morte o fosse davvero invulnerabile. Una tale fiducia in se stesso era contagiosa e gli assicurava la fiducia assoluta dei suoi uomini, che già lo amavano e ammiravano quale figura ideale e leggendaria.Poteva anche avere poche idee sue proprie; ma Guerzoni mette in chiara luce l'errore di chi lo credette una pedina nelle mani degli altri. La sua forza di carattere si imponeva invariabilmente a chiunque gli stesse accanto. Egli faceva di testa sua e raramente permetteva che un piano d'azione venisse turbato da nuovi pensieri o da opinioni altrui.Francesco Crispi, futuro primo ministro e grande amico di Garibaldi, diceva di non aver mai conosciuto alcuno dalla volontà così forte. Questa testimonianza di persona a sua volta inflessibile e dominatrice con vince in modo definitivo. Nel formare volontari l'idea originaria era stata che combattessero alla partigiana per disordinare l'esercito austriaco, intercettando le comunicazioni, rompendo i ponti, abbattendo i telegrafi, ardendo i depositi di vestiari, vettovaglie, foraggi, così l'ordine di Garibaldi del 1 marzo, prima che la guerra cominciasse.Primo scopo era incoraggiare la popolazione della Lombardia a sollevarsi. Dove l'insurrezione trionfi, la persona che più gode stima e fiducia pubblica assumerà il comando militare e civile. Intendeva guadagnarsi la popolazione abolendo le tasse alimentari, arruolare dieci coscritti ogni mille abitanti, prelevare cavalli, denaro, cibo eccetera, sempre rilasciando ricevuta.Avrebbe imposto la legge marziale, proibiti i giornali e messo inesorabil mente a morte i disertori.Questo primo progetto fu poi abbandonato, in parte perché l'idea garibaldina di una guerra d'insurrezione popolare allarmò Torino, in parte perché i fatti non giustificarono il diffuso assunto che gli ita liani anelassero ovunque a combattere per la propria libertà.Molti lombardi, per amore o per forza, face vano parte dell'esercito austriaco: lo stesso Garibaldi ammise che c'erano alcuni fra i migliori elementi della regione. Nei villaggi lombardi, gli austriaci non mancavano mai di italiani disposti a spiare i movimenti militari di Garibaldi.E comunque, quasi tutti coloro che credevano nel nazionalismo erano stati ripetutamente istruiti a evitare le insidie di una rivoluzione mazziniana per affidarsi invece alla conservatrice Torino e all'iniziativa piemontese. Sapevano che una rivoluzione popolare sarebbe stata malvista a Torino, e d'altronde mettersi a cacciare gli austriaci con l'esercito piemontese a due passi era un rischio non necessario; mentre se gli austriaci avessero vinto ancora una volta, sarebbe servito di non essersi compromessi in anticipo. Il tragico insuccesso del 1849 aveva reso i lombardi sospettosi delle intenzioni e delle capacità piemontesi.Così quando nel tardo aprile la guerra cominciò, i volontari non furono affatto impiegati a mettere in subbuglio la pianura lombarda, bensì a creare una diversione sull'estrema sinistra dello schieramento; mentre il grosso, costituito da 60.000 piemontesi e 120.000 francesi affrontava l'esercito austriaco. Garibaldi non aveva una divisione intera, ma solo tre reggimenti dimezzati, in totale circa 3.500 uomini. Mosse rapidamente, con marce notturne come sempre preferiva, e con

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tanta segretezza che nemmeno il suo capo di stato maggiore sapeva dove e perché.Un'unità così piccola e indipendente gli offriva il vantaggio di poter tranquillamente lasciare molto indietro le linee di comunicazione. Attraversò il fiume Sesia e poi il Ticino con più di una settimana di anticipo sui piemontesi; volontari in abiti borghesi lo precedevano ulteriormente, per esplorare il terreno. Chi è capace di impugnare un'arma e non l'impugna è un traditore, diceva il suo proclama : l'Italia co' suoi figli uniti, e purgata dalla canaglia dominazione straniera, in foglio a stampa posseduto dal Museo di Torino, ripiglierà il posto che la Provvidenza le assegnò tra le Nazioni. La diversione di Garibaldi non poteva dare grandi frutti, ma fu eseguita assai bene.A cose fatte è facile individuare uno o due errori; però, senza cavalleria né artiglieria, egli sconfisse gli austriaci a Varese il 24 maggio in uno scontro classico e aprì così la via al lago di Como.Fino a circa il 9 giugno restò tagliato fuori, senza notizie né rifornimenti. Nulla seppe dei movimenti piemontesi e francesi, fin quando apprese dai giornali che avevano vinto a Palestro il 31 maggio e a Magenta il 4 giugno. In quel momento aveva già attraversato l'Adda.Con miglior equipag giamento e sostegno o con tutti i volontari, come aveva chiesto e come riteneva gli avessero promesso, avrebbe potuto fare molto di più; la voce che Cavour e Lamarmora tentavano di trattenerlo e di diminuire la sua importanza non avrebbe allora acquistato fondamento. Il 9 giugno Garibaldi fu richiamato a Milano dal re. Si concessero decorazioni, ma in una maniera che causò molto malcontento fra i Cacciatori; né ci si curò di chiedere il suo parere.A partire da questo momento il suo gruppo non fu più indipendente e andò sommerso nell'avanzata generale: ruolo che egli non apprezzò mai molto. I volontari si erano comportati bene, ma non brillantemente. Egli provò grande vergogna quando in un piccolo scontro a Treponti i suoi uomini si ritirarono in preda al panico sotto gli occhi delle truppe regolari; con la solita stizza rimproverò al re di avergli sottratto il promesso aiuto apposta per diminuire il suo prestigio.Ma, come egli sapeva bene, quelle rozze soldatesche erano facili al panico improvviso.I suoi stessi proclami ce lo mostrano che cerca di ficcare in testa ai suoi uomini il sangue freddo e che rinfaccia loro gli allarmi ingiustificati. Scaricando i cannoni senza nemmeno vedere il nemico, spesso essi colpivano i loro stessi compagni.La disciplina era cattiva; persistevano nel portare troppo bagaglio personale; troppa gente abbandonava le file col pretesto di accompagnare i feriti. Una volta li dovette perfino sgridare per saccheggio e vandalismo. E chiaro che i Cacciatori non erano un corpo di combattenti ideale.In breve la guerra volse a una conclusione prematura. Dopo Magenta gli alleati persero il contatto col nemico e sprecarono tempo prezioso a ciondolare mentre gli avversari si riorganizzavano. Quell'avanzare troppo prudente e sconnesso mandava Garibaldi in bestia. A lui poi toccò di essere inviato nelle retrovie. I volontari, per via del reclutamento occasionale, erano raddoppiati o triplicati; la cosa poteva sembrare naturale e giusta a lui, ma senza dubbio destò sospetti politici al quartier generale e sollevò problemi di vettovagliamento che egli non era in grado di valutare.Il 24 giugno i due eserciti principali entrarono in uno scontro che nessuno dei due aveva progettato; fu così combattuta a Solferino una battaglia terribile, che non decise niente. A questo punto Luigi Napoleone si distolse dalla guerra, che per lui era andata avanti abbastanza; qualche settimana dopo, Cavour dovette di malavo glia piegarsi all'armistizio di Villafranca.La creazione di un regno troppo grosso e troppo forte alla frontiera meridionale non era negli interessi della Francia, e Napoleone indovinava che Cavour stava segretamente tramando per ottenere dalla guerra più di quanto fosse stipulato nel loro patto.

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Capitolo 8

CONTRO IL GOVERNO

1859-1860

L'armistizio del luglio 1859 desolò Cavour, che aveva contato di ottenere Venezia oltre alla Lombardia e di formare così un compatto regno su tutta l'Italia settentrionale. Ma Garibaldi acutamente ne vide i vantaggi. Aveva sempre temuto che Cavour volesse soltanto ingrandire il Piemonte nel nord invece di creare un'Italia totalmente unificata; presa Venezia, i settentrionali si sarebbero forse accontentati di aver cacciato gli austriaci dalla penisola.Il fine dell'indipendenza nazionale avrebbe allora potuto ostacolare quello della unità, il buono essere nemico del meglio. Garibaldi temeva inoltre l'alleanza di Cavour con l'autoritario e imperialistico signore della Francia. Erano gli italiani che dovevano liberarsi; altrimenti la Francia, dopo aver fornito loro sia la Lombardia che Venezia, avrebbe potuto con servare e anzi rinforzare il suo protettorato sul nord. Buttar fuori l'Austria per rimpiazzarla con un altro padrone non serviva a niente. I recenti eventi avevano fatto concludere a Garibaldi che gli italiani non erano ancora pronti o disposti a liberare se stessi.Si lagnò che quasi nessun meridionale si fosse unito ai volontari, i quali anche nel nord erano gente istruita, di città, indeboliti da una vita effeminata e non abituati a un'attività virile.Non avevano saputo resistere alle lunghe marce forzate e si lamentavano sempre del rancio. Sfavorevole era il paragone fra i suoi connazionali e gli spagnoli che, contro il primo Napoleone, avevano fatto di ogni casa un centro di resistenza. Gli italiani avevano troppo egoismo individuale e troppo poco amore per il loro paese. Nel corso del restante luglio Garibaldi subì un altro attacco reumatico e trascorse un periodo di riposo, leggendo i commentari di Giulio Cesare. Ma quando dal barone Ricasoli gli arrivò l'invito ad assumere il comando delle forze toscane, l'occasione era troppo buona per rinunciarvi. Si trattava di mantenere sotto pressione il centro e il sud, in modo che la configurazione di un'Italia ancora divisa non facesse in tempo a rendersi abituale e accettata. La guerra nel nord era stata il segnale per lo scoppio della rivoluzione nei ducati indipendenti dell'Italia centrale. A Firenze Ricasoli aveva scacciato il granduca e si era fatto dittatore virtuale; Farini aveva conseguito una simile posizione nel ducato di Modena; e Bologna con la provincia più settentrionale degli Stati pontifici aveva dichiarato anch'essa l'indipendenza da Roma. Tutti questi governi rivoluzionari si erano poi associati in una Lega centrale, invitando il generale piemontese Fanti a guidare i loro eserciti riuniti. Garibaldi arrivò in agosto come vicecomandante, un po' seccato di vedersi assegnata la parte del secondo violino anziché la melodia. Era suo compito salvaguardare la frontiera pontificia da ogni possibile controrivoluzione; ma Fanti gli diede anche la facoltà di marciare dentro ai territori del papa in aiuto di eventuali città, come Ancona, che si unissero alla rivoluzione.Era un ordine pericoloso da darsi a un nazionalista fervente come Garibaldi: tanto che ne risultò chiara una grave divergenza politica. Lo scopo principale di Ricasoli e Farini era soltanto di tenersi staccati dal resto dell'Italia centrale per unirsi al Piemonte e alla Lombardia nel nord; essi temevano che qualsiasi altra mossa nel centro avrebbe suscitato in Europa reazioni tali da impedire quell'unione. Garibaldi era utile perché il suo prestigio ne faceva un magnifico centro di attrazione di volontari che egli solo sapeva disciplinare e addestrare.Ma volevano servirsene solo come di uno strumento, e si allarmarono scoprendo che aveva idee politiche e militari divergenti sulla convenienza di estendere il movimento nazionale al di là della frontiera pontificia. Dal suo canto Garibaldi fece presto a scoprire che non si fidavano di lui e che la sua popolarità indipendente dava loro noia.Doveva tollerare un Fanti sopra di sé; ed era chiaro che i suoi subalterni erano stati istruiti all'eventualità di disubbidirgli. Ordini e contrordini si susseguivano inesplicabilmente in un'atmosfera di segretezza e sotterfugio. Era una situazione ambigua e imbarazzante, altamente

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esplosiva. Nelle Memorie Garibaldi si lagna amaramente della mancata occasione di invadere gli Stati pontifici e dei tortuosi intrighi che lo frustrarono. Anche il governo di Torino si era comportato malamente. Quando era stato da Vittorio Emanuele, questi gli aveva lasciato capire che avrebbe potuto spingersi avanti per conto suo, a patto di assumersene la responsabilità e di essere pronto a vedersi ripudiare se si mette va nei guai.Ma i rapporti del rappresentante britannico insinuano che il re non faceva altro che sfruttare Garibaldi nell'ambito d'un suo progetto per annettere la Toscana; prima metteva in guardia i diplomatici stranieri contro i garibaldini che stavano per estendere la rivoluzione all'Italia meridionale, poi prospettava la possibilità di controllarli solo mediante un'invasione piemontese della Toscana, che li fermasse. In tal modo sia il re sia Ricasoli tentavano di adoperare Garibaldi per i loro scopi; meritarono quindi pienamente le conseguenti difficoltà. Per complicare le cose, Ricasoli e Farini non avevano affatto le stesse vedute, e Fanti si sentiva obbligato un po' verso di loro e un po' verso il re. Questo serve a spiegare la duplicità di piani e gli ordini contraddittori che tanto inquietavano Garibaldi.Ricasoli non osava licenziarlo : aveva buone ragioni di temere che se il governo avesse toccato quell'idolo delle folle, sarebbe caduto in ventiquattr'ore. Nel tardo ottobre la posizione era così complicata che Garibaldi fu chiamato a rapporto a Torino dal re. Possiamo indovinare quello che venne detto, perché di ritorno a Rimini egli accelerò i preparativi per una rivolta e Guerzoni lo sorprese a progettare un'invasione generale.Ovviamente Vittorio Emanuele continuava a fare il doppio gioco, servendosi di Garibal di affinché l'Europa spaventata tollerasse delle an nessioni parziali e tuttavia lasciando che quel turbo lento suddito si prendesse tutta la responsabilità e i calci: il re guadagnava in entrambi i casi, perché avrebbe accettato qualsiasi conquista di una rivoluzione e sarebbe intervenuto a restaurare l'ordine se la rivoluzione fosse fallita.Per alcuni giorni il progetto d'invasione fu messo in opera contrabbandando armi attraverso la frontie ra, preparando navi e inviando piccoli gruppi di uomini a istigare l'insurrezione che doveva servire da pretesto. Poi tutto a un tratto Vittorio Emanuele, messo in paura dai diplomatici, si ritirò dall'irresponsabile impresa e inviò di fretta un altro generale a fermare i rivoluzionari proprio prima che passassero il Rubicone.Chiamato di nuovo a Torino alla metà di novembre, Garibaldi ubbidì e si dimise. Come al solito il re non solo espletava lui l'imbroglio, ma riusciva poi anche a farne ricadere la colpa sui suoi ministri e su Fanti. Capiva l'importanza di mantenersi personalmente leale e affezionato il vulcano della guerriglia, e per riuscirvi era pronto a far giostrare fra loro i suoi subordinati. Fino al quel momento il suo governo ufficiale aveva cooperato ragionevolmente con i rivoluzionari; il suo inganno personale lasciava ora tutti a malpartito.Il 19 novembre Garibaldi biasimò pubblicamente la miserevole volpina politica che per un momento turbava il maestoso andamento delle cose nostre e che con la frode gli aveva tolto la libertà di agire da generale della Lega centrale. Ma non attaccò il re, bensì solo i ministri.Anzi ingiunse al popolo di riunirsi intorno al coraggioso e fidato Vittorio Emanuele, che avrebbe indicato i tempi nuovamente maturi per la rivoluzione. Disse a Hudson : Il Re ha rischiato la vita per la causa italiana. Io lo amo e rispetto. E' un uomo di parola, la sua situazione politica è difficile e sfortunata. Egli me lo ha spiegato, e siccome è dell'avviso che la mia permanenza in Romagna potrebbe pregiudicare la causa della libertà in Italia, avrei mancato verso me stesso e verso il mio Paese se non avessi acceduto ai suoi desideri. Per tutto il resto del 1859 Garibaldi fu eccitabilissimo. Il nazionalismo italiano è culto e religione della mia vita intera. Aprì una sottoscrizione per un milione di fucili e un milione di uomini. In pubblici discorsi declamò che la nostra nazione tutta intera deve formare un esercito.I soldati regolari del Piemonte avevano mostrato di non bastare; e siccome i ministri avevano diffidato dell'elemento nazionale del paese, si era stati costretti a ripiegare sul vergognoso espediente di invitare eserciti stranieri. L'accusa era troppo vicina al vero per poter essere

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contraddetta. Il re reagì cercando di far sbollire quell'entusiasmo eccessivo e gli chiese di organizzare la guardia nazionale in Lombardia. Ma perfino questo piccolo segno di compiacenza regia verso un potenziale ribelle infuriò Cavour.Nel movimento nazionale si apriva una pericolosa scissione fra destra e sinistra e fra amministrazione e monarchia. La frustrazione di Garibaldi fu abilmente coltivata dall'opposizione di sinistra al parlamento torine se: si cercò di indurlo a formare una società che riu nisse per le elezioni tutti i piccoli gruppi opposti a Cavour.Dapprima il leader radicale rifiutò, spiegando che non era un parlamentare e che nessun raggruppamento politico gli era mai piaciuto se inferiore alla totalità della nazione.Poi però, cedendo a insistenze che sembrava venissero in parte dallo stesso re, il quale nutriva diversi risentimenti segreti contro Cavour, fondò la Nazione Annata, che ebbe vita breve.Cavour e Vittorio Emanuele si erano scambiati parole dure : per esempio, a proposito della firma apposta dal re all'armistizio, del matrimonio di sua figlia e della sua sconveniente vita privata.Un tipo come Garibaldi piaceva invece al re, perché era baldanzoso, franco, militaresco, aveva un forte senso di lealtà e non la sottile finezza e gli scopi indiretti dei politici.Garibaldi era sempre genuino e quello che diceva suonava vero anche quando era sciocco; mentre Cavour usava il parlamento per controllare il re, Garibaldi propugnava la dittatura regia per controllare il parlamento. Cavour era troppo borghese per il re, cui piacèva la gente in uniforme.Era anche troppo abile; il re aveva buone ragioni per preferire il carattere all'intelligenza.Per questo alla fine di dicembre il Re convocò nuovamente Garibaldi e, stando a quello che fu scoperto da terze parti come Massari e Hudson, parlò molto aspramente del suo primo ministro.Di qui anche l'origine in Garibaldi dell'infausta idea di poter sempre contare sul re contro il normale governo costituzionale del paese; o, ancor peggio, dell'idea che il re potesse gradire il giorno in cui egli si fosse opposto a quel governo e l'avesse rovesciato.La situazione ha una sua leggera e superficiale somiglianza con l'atteggiamento del nipote di quel re verso Mussolini prima della marcia su Roma, nel 1922.Alcuni giorni più tardi, nel gennaio del 1860, per fino il re prese parte all'ilarità generale su di un tragico e grossolano interludio nella vita di Garibaldi, il suo secondo matrimonio con la giovane marchesina Giuseppina Raimondi. La fanciulla aveva diciassette anni, lui cinquantadue.L'aveva incontrata nel giugno del 1859. Ricorda egli stesso che subito dopo averla conosciuta le si era dichiarato, in ginocchio presso un albergo sul lago di Como; ma lei non si era mostrata più entusiasta di Speranza; sicché, come egli dice, forte di quell'amor proprio e di quella dignità d'uomo, che non mi mancò mai in tale circostanza, io decisi di dimenticare quell'angelo!.Gli eventi successivi non sono chiari. Verso la fine dell'anno fu sorpreso nel ricevere una lettera più accomodante, suggerita forse dal marchese padre, che era un garibaldino entusiasta e cercava un buon partito per la figlia illegittima. Garibaldi rispose elencando diversi possibili ostacoli al matrimonio: primo, aveva appena avuto una figlia dalla serva, Battistina Ravello; secondo, il matrimonio poteva comportare una diminuzione della sua popolarità e con ciò un danno alla nazione nel caso di una futura guerra; poi l'età, la salute malferma, la povertà e il suo naturale malinconico non adeguato a giovine donna. La ragazza rispose che tutto ciò era già stato preso in considerazione. Verso la fine del 1859 Garibaldi era fuori a cavallo con Giuseppina quando il suo animale, imbizzarrito, lo portò via per molte miglia e gli fracassò la gamba destra contro un muro.Dovette passare tre settimane a letto presso il padre di lei. Questo rafforzò la faccenda, tanto che il 24 gennaio 1860 furono uniti in matrimonio nella cappella di famiglia.Appena terminato il servizio gli fu messa in mano una lettera e lo si vide diventar furioso.Chiese a lei una spiegazione sull'accusa contenuta nella lettera; quando gliela sentì ammettere, dalla rabbia alzò perfino le mani. Lei disse che aveva pensato di sposare un eroe, non un qualsiasi brutale soldato. In breve, egli se ne andò e non la vide più. Si sono date molte spiegazioni sulla drammatica e poco edificante scena. Quasi certamente la ragazza aspettava un bambino da uno dei suoi ufficiali. Ma il tempismo straordinario della lettera mostra che ci deve anche essere stata

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una sorta di calcolato intrigo. Egli pensò che qualcuno stava facendogli fare il pubblico zimbello, e questa era una cosa che non avrebbe mai perdonato.Garibaldi era volitivo in amore come in battaglia. I suoi rapporti con le donne furono tutt'altro che irreprensibili. Eterodosso in fatto di matrimonio, finì per sposare la terza moglie solo per via dei loro bambini. In uno dei suoi epigrammi piuttosto piatti e insipidi, scrisse che non riusciva a capire la gente che muore d'amore per una donna quando ce ne sono tante altre al mondo.Nel 1859 avrebbe potuto sposare tre donne diverse e la scelta che fece fu tragica. Ma il misterioso affare non poté stroncarlo rovinosamente come alcuni hanno creduto : si è voluto forzare un po' tutta la faccenda, mentre una o due ore più tardi Garibaldi era di nuovo sprofondato nella corrispondenza politica. Intanto il suo modesto tentativo di riunire l'opposizione parlamentare si era risolto in nulla, perché le varie fazioni non riuscivano a mettersi d'accordo; e nello stesso tempo crollò anche la connessa campagna per l'istruzione militare generale e per la Nazione Armata. La gente non dava segno di volersi iscrivere. I diplomatici a Torino, guidati da Hudson, erano preoccupati di un nome così provocatorio e si diedero da fare per impedire a quell'oca dalle buone intenzioni di arruolare nascostamente i suoi vo lontari in una guardia nazionale mobilitata per un qualche suo oscuro proposito. Un'altra spiegazione del fallimento della Nazione Armata ce la dà Guerzoni, il quale concluse che gli italiani non costituivano una nazione militare, con un latente spirito guerresco, come credeva Garibaldi; e che il sistema sociale prevalente non era tale da permettere l'esistenza di qualcosa di simile al landwehr tedesco o ai Rifle Volunteers inglesi.Chi la pensava così era egli stesso un ufficiale dei volontari, ferito nella campagna del 1859.Garibaldi non poteva accettare argomenti così disfattisti; ma ubbidiva sempre a Vittorio Emanuele, tanto che su richiesta del Re Galantuomo sciolse la Nazione Armata. Al tempo stesso lo apostrofò pubblicamente, chiedendo non libertà ma battaglie.Invitò tutti a contribuire al suo fondo per un milione di fucili, e sia il re sia Mazzini diedero qualcosa. Garibaldi stesso sottoscrisse per cinquemila lire, ma più tardi confessò di averne pagate solo mille, rimandando il resto a un momento futuro in cui gli capitasse di non essere al verde.Il governo permise che il fondo si costituisse perché un giorno, in tempo di guerra, avrebbe potuto essere utile; inoltre Garibaldi lo aveva accortamente affidato a due sostenitori di Cavour e i fucili erano tenuti accuratamente sotto chiave in depositi governativi.Ma a Torino nemmeno questa impresa non ufficiale, volta a incoraggiare una più vasta politica italiana, era popolare. La maggior parte dei contributi veniva da fuori Piemonte e con la somma raccolta si poté comprare solo qualche migliaio del progettato milione di fucili.Nel gennaio del 1860 Garibaldi non si era ancora fissato in quella rigida opposizione a Cavour e ai liberali conservatori del parlamento, che avrebbe reso tanto difficile il resto dell'anno.Scrisse a un amico che Cavour poteva fare molto di buono, a patto che mostrasse di desiderare sinceramente una nazione italiana e non solo una nazione di nucleo piemonte se.Perfino l'aperta sfiducia di Cavour per i volontari nella guerra del 1859 si sarebbe potuta perdonare, se ora egli avesse fatto affidamento sul popolo italiano anziché sulle manovre della diplomazia.Ciò che divise definitivamente i due uomini fu la decisione politica di Cavour che, se si voleva l'aiuto francese per ulteriori mosse in Italia, bisognava sacrificare a Luigi Napoleone la provincia di frontiera della Savoia e il luogo di nascita di Garibaldi, Nizza. Entrambi i distretti vennero ceduti in un accordo segreto del mar zo 1860.Come deputato eletto per Nizza, Garibaldi si recò furente al parlamento, facendo una delle sue rare apparizioni nell'avversa atmosfera di Torino. Sdegnando qualsiasi formalità parlamentare, proprio come a Roma nel 1849, tentò di sollevare subito la questione; ma fu costretto ad attendere una settimana. Alla fine parlò e disse che quella cessione di territorio nazionale era anticostituzionale perché Cavour aveva firmato l'accordo senza dire nulla ad alcuno e senza la più piccola discussione in parlamento. L'alienazione di una terra inerente all'Italia mostrava come l'idea di nazione non avesse alcuna importanza per il primo ministro.

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Costui trafficava i popoli in una manie ra che ripugna oggi al senso universale delle nazioni civili.Inoltre era un precedente pericoloso, atto a scuoter la fede del popolo nel futuro dell'Italia: negli interessi di un Piemonte ingrandito, Cavour sarebbe stato capace di alienare con altrettanta facilità la Sardegna o Napoli. Ciò che più tormentava Garibaldi era che la perdita di Nizza faceva di lui uno straniero nella sua patria. Nizza era italiana: anche Cavour lo aveva sostenuto, benché ora asserisse il contrario. Qualche cosa della storia del mio Paese la so pur io disse Garibaldi anche se molti ben sanno che io sarei forse più adatto a prendere una carabina che non a discutere alla presenza di onorandissimi uomini sapienti e profondi in ogni ramo degli umani conoscimenti.Sapeva almeno questo, che un plebiscito a Nizza era una frode, perché con minacce, corruzioni e azioni di polizia si poteva condizionare qualsiasi voto popola re. Cavour si serviva di forme e di una terminologia democratiche apparenti per nascondere la falsità del suo preteso liberalismo.In pratica tutto quello che Garibaldi poté fare fu di dimettersi dal parlamento per protesta contro il patto illegale e fraudolento. Un avventuriero inglese cercò di persuaderlo a compiere un colpo di mano su Nizza il giorno del plebiscito per rovesciare le urne; ma di fatto egli si contentò di chiedere all'ambasciatore degli Stati Uniti di usare il suo in flusso per fare di Nizza uno Stato indipendente. Quando l'ira gli fu passata, Garibaldi era ormai del tutto avverso a Cavour.Non importava che la cessione di Nizza e Savoia fosse il prezzo della connivenza francese all'annessione piemontese della Toscana e dei ducati centrali. La cosa era sbagliata in se stessa, era un delitto di lesa nazionalità. Cavour rendeva l'Italia schiava del patronato francese per di più della Francia di quello stesso tiranno Luigi Napoleone che aveva schiacciato la Repubblica romana del 1849. Garibaldi era altrettanto disgustato del parlamento. Vedeva in esso un istituto corrotto e codardo, nel quale interessi di gruppo, intrallazzi e brama di guadagni privati facevano dei deputati altrettante marionette nelle mani dell'onnipresente ministro. Il parlamentarismo torinese era anch'esso una frode, dove, l'influsso del governo aveva più volte comprato retrospettive indennità per le violazioni della costituzione.Si osservò che Garibaldi parlava ora il linguaggio di Cromwell. Era un segno pericoloso, specie in quanto lo stesso Cavour doveva riconoscere nel suo oppositore una delle più grandi forze in Italia: le varie idee sul modo di costituire la nazione potevano trovarsi di lì a poco in aperto conflitto.

Capitolo 9

LA PRESA DELLA SICILIA

1860

Un regno dell'Italia del nord era ormai virtualmente in atto con Piemonte, Sardegna, Liguria, Lombardia, Toscana, ducati centrali e una piccola parte degli Sta ti pontifici.Le regioni più importanti ancora fuori dell'unione erano Napoli, la Sicilia, Roma e Venezia, senza le quali il regno non si poteva considerare nazione. Fu nel 1860 che la conquista garibaldina del sud cambiò l'intera scena e diede esistenza a uno Stato panitaliano, con carattere e destino più mediterranei. Dal punto di vista del risultato pratico, fu la più grande impresa della sua vita.Pochissime persone, perfino in Italia, avevano considerato un simile sviluppo possibile e desiderabile: ma la sua determi nazione individuale procurò un sorprendente trionfo sugli uomini e sulle circostanze. All'inizio del 1860 egli era un patriota di professione, ossessionato dall'idea di unificare il Paese. Nel gennaio aveva asserito che, se il sud era pronto a insorgere, potevano contare sul suo aiuto, ma che voleva prima le prove di tale disposizione.Troppi patrioti prima di lui, soprattutto Bentivegna, Pisacane e i due Bandiera, eran periti per aver intrapre sa la liberazione di Napoli e della Sicilia e aver trovato i meridionali indifferenti.

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Benché impetuoso nell'azione, Garibaldi era cauto prima di iniziarla e raramente cominciava qualcosa per conto suo. Se ora esitava non era per la democratica convinzione che si dovesse prima consultare l'opinione meridionale: aveva appena detto all'ambasciatore degli Stati Uniti Daniel che talvolta la stessa libertà va forzata nei popoli per il loro bene futuro; era piuttosto per prudente ritegno dal correre rischi non necessari.Gli amici di Mazzini fecero del loro meglio per farglieli correre; fomentavano intanto la rivoluzione in Sicilia per convincerlo che si poteva fare.Contrario a compromettersi senza scampo, egli attese però altre quattro settimane per vedere se la rivolta si sviluppava con successo, mentre radunava uomini e materiali a Genova.Sfortunatamente i fucili acquistati con il Fondo del Milione furono sequestrati dal governo e Cavour rifiutò di autorizzarne il rilascio. Il colonnello Colt inviò un centinaio di quelle pistole che si erano dimostrate cosí efficaci nel Texas, e alcune nuove armi da fuoco a canna rigata giunsero dalle Officine del Commissariato britannico. Più importante fu il fatto che la fabbrica di armi Ansaldo sostenne nascostamente la spedizione di Garibaldi e lo incitò all'azione.La Società Nazionale mise a disposizione un migliaio di moschetti, ma si trattava di ordigni già a pietra focaia, rifatti, di canna liscia, ormai superati dall'esercito regolare. Erano arrugginiti e nove su dieci non sparavano, dice Garibaldi; ma questo imponeva quegli assalti alla baionetta di cui egli sapeva servirsi cosí bene.Il denaro venne a spizzico da molte fonti, fra le quali Lady Byron e il Duca di Wellington; i giornali erano pieni di sottoscrittori italiani in patria e all'estero. Somme particolarmente alte vennero dalle città di Parma e Pavia. Ciononostante non era facile organizzare i contributi privati e con un pretesto o con l'altro si dovettero contrarre molti debiti che non poterono mai esser saldati.Intanto i volontari si riunivano a Genova. Un osservatore notò che più della metà aveva meno di vent'anni. Molti erano studenti che speravano di evitare gli esami e contavano sulla riconoscenza della Patria per conseguire la laurea. Delle 1089 persone che componevano i Mille sbarcati in Sicilia, 163 erano di Bergamo e 154 di Genova, mentre all'altro estremo c'erano 11 romani e solo 7 torinesi. Presente anche il giovane Menotti Garibaldi.C'erano profughi speranzosi di tornare in Sicilia, poeti in cerca d'ispirazione, disoccupati senz'arte né parte, una certa quantità di ragazzi abbandonati e di teppisti; ma la maggior parte erano idealisti patrioti. Il più giovane aveva undici anni, il più vecchio aveva combattuto sotto Napoleone primo. Una dozzina di essi sarebbero diventati un giorno generali nell'esercito italiano, Crispi e Cairoli primi ministri. C'era anche una donna, l'amante di Crispi.Fu la più grande avventura di Garibaldi; pure, fin dall'inizio riuscì quasi per caso. Anche fra i suoi amici politici molti tentarono di trattenerlo da un'impresa tanto pazzesca, e alla fine di aprile egli stava quasi per rientrare a Caprera. Cavour non solo evitò qualsiasi incoraggiamento, ma si servì del suo potere per cercar di fermarlo e tentò poi di far nominare un altro capo, di cui si potesse maggiormente fidare; avrebbe usato volentieri perfino la forza per arrestare i Mille, se si fosse sentito più forte e se Garibaldi non si fosse allora trovato all'apice della popolarità. Alla fine le teste calde, Crispi e Bixio, prevalsero. Con rapida decisione il secondo s'impadronì di due vapori a pale da duecento tonnellate l'uno e venne a prendere Garibaldi a Quarto il 6 maggio.All'ultimo momento ci furon molti intoppi. Bixio aveva un ritardo di sei ore, mentre per tutta la notte gli altri si trattenevano penosamente al largo con mare grosso su piccole imbarcazioni.Non si trovarono le munizioni, poiché alcuni depositi erano stati saccheggiati durante l'imbarco. Ciò malgrado Gari baldi non esitò a ordinare che la spedizione prose guisse. Il tempo della prudenza era finito, ed egli non era il tipo da ripensarci ancora una volta. Nessuno sapeva chi esattamente si fosse imbarcato. Garibaldi indossò l'uniforme di generale per passarli in rivista prima di rimettersi l'abituale costume, cioè camicia rossa, pantaloni grigi, poncho bianco, cappello di feltro nero e fazzoletto da collo di seta, come ai giorni del Sud America.Alcuni avevano uniformi militari o marittime, ma la maggior parte era in abito civile: una screziata assemblea nella quale non mancavano nemmeno la veste ecclesiastica e l'abito da società

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del cittadino. Non era facile fare di una simile accozzaglia una forza coerente e disciplinata.Sui ponti affollati si scelsero in fretta gli ufficiali, e gli aiutanti di Garibaldi improvvisarono un'organizzazione, mentre egli scriveva un canto di guerra e cercava di adattarlo a varie melodie verdiane. Il viaggio per la Sicilia subì due interruzioni, la prima per rubare del carbone e la seconda per persuadere il colonnello comandante di Talamone a rischiare la carriera, concedendo loro munizioni. Fu qui che, avendo Garibaldi fermamente deciso per il programma Italia e Vittorio Emanuele, i repubblicani più tenaci se ne andarono. Più tardi egli rimproverò a se stesso di non aver avuto il coraggio di dichiararsi apertamente repubblicano; ma nel Sessanta era assai più realistico di quanto molti supponessero ed egli stesso amasse poi ricordare: la decisione di sostenere il re era allora naturale e politicamente giusta.In quel momento né lui né la maggior parte dei suoi uomini davan molta importanza a questioni di politica interna, purché si facesse l'Italia. A Talamone spedì via sessanta volontari per una diversione che facesse credere a un'invasione degli Stati pontifici.Non fu una mossa abile ed ebbe scarsi effetti, fuorché quello di far tentare in ritardo a Cavour di fermare la spedizione a qualsiasi costo. A Roma c'era una guarnigione francese, e Cavour non poteva permettersi di compromettere quell'alleanza con la Francia sulla quale fondava l'intera sua politica. Nemmeno Garibaldi seppe la destinazione precisa fino a quando i vapori furono al largo della Sicilia. Bisognava vedere se la rivoluzione era ancora in vita, e dove.Le due navi una volta persero contatto, e cercandosi l'una l'altra ebbero la fortuna di subire un ritardo che permise di evitare le navi da guerra napoletane intente a intercettarle.Al largo di Marsala le ciurme di due pescherecci furono catturate e usate da piloti; in due ore tutti erano sbarcati, proprio mentre la flotta napoletana era giunta a portata di tiro.I garibaldini s'impadronirono dell'ufficio telegrafico di Marsala e trasmisero falsi messaggi, mentre in municipio Garibaldi disse chiaro e tondo che chiunque non combatteva dalla sua parte era un traditore o un codardo. Gli abitanti del luogo non sapevano bene se fosse un liberatore ovvero un altro degli innumerevoli in vasori che avevano tormentato il loro sventurato paese.Si proclamava dittatore in nome di Vittorio Emanuele, re costituzionale d'Italia; e coi suoi dittatoriali poteri requisiva coperte, cibo e tutto il contante che riusciva a trovare in ogni comune.Altrettanto impopolare e senza dubbio meno efficace fu il suo editto per la coscrizione di tutti siciliani fra i diciassette e i cinquanta. Ma mentre in alcuni villaggi la gente scappava al suo arrivo, in altri cominciava a unirsi a lui come pochi avevano fatto nel nord.Infatti egli aboliva le tasse sul sale e sulla pasta e prometteva di dividere i latifondi e distribuire la terra. I membri siciliani della spedizione furono deliberatamente inviati a suscitare la rivolta dei contadini nell'interno; presto agli oc chi delle masse egli cominciò a essere una figura favolosa, di proporzioni eroiche. alleati inattesi si trovarono nel clero povero, che costituiva anch'esso una classe oppressa e forniva propagandisti eccellenti fra la gente comune.Uno di essi il francescano Fra Pantaleo, si unì ai Mille come cappellano. Il re borbone di Napoli aveva ventimila soldati per difendere Palermo; tanto per cominciare, un'unità di tremila uomini fu inviata sotto il generale Landi a schiacciare quella meschina e non molto promettente invasione.Le due forze si incontrarono a Calatafimi, vicino al famoso tempio greco di Segesta. Landi occupava una forte posizione, ma Garibaldi era deciso a rischiare tutto in un colpo solo.Che i siciliani lo seguissero o no, dipendeva dalla rapidità con cui egli avrebbe provato di essere quel duce invincibile che si diceva. Fu una battaglia senza ordine né disciplina.I pochi cannoni che potevano sparare aprirono il fuoco contro l'espresso comando di Garibaldi, poi ci fu una carica disorganizzata che i suoi squilli di tromba non poterono fermare né dirigere.Su per l'erto pendio andarono essi con disperato ardore, prendendo l'una dopo l'altra sette distinte terrazze con la punta della baionetta.Fu una vittoria del coraggio nudo, in quanto la tattica ebbe poco a che fare nella battaglia e Garibaldi scarso controllo sugli eventi. Ma non sembra gli sia mai capitato di poter perdere; era la prova che quell'irragionevole e fortuita bravura dava risultati pratici. Qui si fa l'Italia o si muore,

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raccontano abbia detto. In ogni caso il risultato fu conclusivo, primo perché aperse la strada verso Palermo e secondo perché convinse gli irregolari siciliani, spettatori da una collina adiacen te, che Garibaldi era uno che vinceva. Fu allora emessa un'esortazione generale: ognuno prendesse una falce, una scure, perfino un chiodo su di un bastone, e uccidesse le sentinelle borboniche, tagliando le comunicazioni e tormentando incessan temente il nemico.Non c'è dubbio che la cosa fu fatta, in innumerevoli modi non appariscenti, di cui spesso non si ha notizia; e fu cosa decisiva per la vittoria. I fuochi su tutte le colline spargevano intanto la notizia dell'insurrezione. Per impressionare l'uditorio, lo scettico Garibaldi attese alla messa e ricevette l'insegna di crociato all'altare. Serviva a guadagnare la confidenza locale, e comunque egli era un tipo troppo mistico per non trovare un qualche significato nella cerimonia. Per tre giorni i suoi uomini dovettero vivere all'aperto sotto la pioggia torrenziale. Vestiti di cose requisite, sembravano un reggimento di frati, giacché le case religiose erano la miglior fonte di materiale, anche se non sempre la più disposta. Marciavano tutta la notte per difficili sentieri montani, nascondendo così i loro movimenti e tenendo il nemico sempre sotto sorpresa.Una volta, per inganno tattico, ebbero l'ordine di ritirarsi di corsa; ma fu quasi un disastro per il morale degli irregolari siciliani. La sola speranza era di andare avanti e prendere in qualche modo Palermo, mostrando così che nulla poteva fermarli.Il destino dell'intera spedizione pendeva dal filo di un altro miracolo. Garibaldi disponeva di poco più di tremila irregolari miseramente armati con i quali attaccare una grossa città fortificata.Ma aveva prestigio, e il corag gio disperato di chi arrischia la vita per la cosa che valuta di più.In quei pochi giorni decisivi ebbe anche l'aiuto importantissimo della rivolta contadina, che terrorizzava la polizia e i soldati e obbligava il governo locale all'inazione.Dall'interno di Palermo, rappresentanti di un comitato rivoluzionario riuscirono a raggiungere il suo campo travestiti da ufficiali americani e gli diedero i piani della guarnigione. Tuttavia la coordinazione fu quasi impossibile. Si doveva improvvisare ogni cosa e i suoi uomini non erano tali da rispondere facilmente agli ordini e alla disciplina. La fortuna giovò all'audacia.Con ingegnose diversioni e servendosi abilmente di finti fuochi d'accampamento sulle circostanti colline, prese i borbonici di sorpresa. Quando attaccò, molti di essi stavano inutilmente cercandolo altrove. I restanti non erano pronti e non erano stati addestrati a combattere per le strade, tanto che dopo alcune ore di confusione Garibaldi si trovò in possesso della maggior parte della città.I primi segni di successo avevano gradualmente indotto la popolazione a partecipare zelantemente, a costruire barricate, a tirar fuori l'antico rancore dei siciliani per i napoletani, dei poveri verso i ricchi, dei governati contro i governanti.Il generale Lanza fu così costretto a chiedere a Sua Eccellenza il Generale Garibaldi di trattare l'armistizio a bordo di una nave da guerra britannica. Garibaldi tenne duro su termini migliori di quelli che gli venivano offerti, e con assurda smargiassata li ottenne. La guarnigione borbonica capitolò in modo sorprendente, alla condizione di poter rientrare per mare a Napoli.L'incredibile era accaduto; una pazzesca incursione alla filibustiera veniva giustificata dal successo. Per sei settimane Garibaldi poté far l'inventario della sua buona fortuna e preparare la mossa successiva. Il governo di Torino era ancor più stupito che felice per il fatto che egli aveva vinto all'Italia una nuova provincia senza provocare il temuto intervento diplomatico. Cavour inviò rapidamente un commissario ad annettere l'isola al Piemonte e provvide finalmente aiuti in denaro e munizioni. Il 10 giugno partirono sulla Franklin e sulla Washington rinforzi di tremila volontari agli ordini di Medici. Però Garibaldi, quantunque lieto dei necessari rinforzi, intendeva tenere in pugno la sua rivoluzione il più a lungo possibile. Non senza ragione temeva che, se la Sicilia fosse stata soggetta a un commissario piemontese, il governo non gli avrebbe forse concesso di portarla avanti. Quanto a lui aveva la ferma intenzione di proseguire, il più lontano e il più presto possibile, finché durava la buona fortuna: probabilmente a Napoli, se possibile a Roma, forse perfino a Venezia.Sarebbe stata per la Francia un'aperta sfida, che Cavour avrebbe dovuto prevenire non appena

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completata l'annessione della Sicilia al Piemonte. Garibaldi pertanto, pur riaffermando piena lealtà verso il sovrano, decise di conservare l'autonomia fino a quando non avesse potuto proclamare Vittorio Emanuele re della penisola unificata. Se i suoi sforzi fallivano, il governo di Torino avrebbe sempre potuto sconfessarlo.Fu la prima e unica esperienza di governo di Gari baldi. Come dittatore di Palermo occupava un appartamentino di tre stanze a Palazzo Reale. Era ormai per i siciliani un meraviglioso eroe, specie per la sua ovvia dedizione di uomo senza arie aristocrati che e senza settentrionale disdegno.Progetti di riforma del governo furono adombrati. Venne avviata una scuola diretta da un suo ufficiale, dove i monelli delle strade cittadine ricevevano rudimentali insegnamenti militari e di altre materie; egli stesso la visitava di frequente e teneva brevi lezioni di patriottismo e di condotta. Fece un volonteroso giro per i conventi locali, capitava che le monache, compresa la madre superiora, lo baciassero sentimentalmente ad una ad una, e ogni giorno gli mandavano in regalo canditi e ricami. Malgrado le sue idee religiose, Garibaldi fu abbastanza realistico per celebrare la festa locale di Santa Rosalia, visitando in pellegrinaggio la grotta della santa.Al pontificale nel Duomo giunse al punto di sedere sul trono reale in camicia rossa, rivendicando il legato apostolico tradizionalmente tenuto dai governanti di Sicilia. Quel miscredente notorio se ne stette là come difensore della fede, con la spada nuda mentre veniva letto il vangelo.Non c'è da meravigliarsi che il popolino gli attribuisse i magici poteri di chi è in diretta comunione con Dio. Il successo aveva moltiplicato il numero dei volontari.A parte i siciliani, c'era un contingente straniero composto per lo più di ungheresi e francesi e a distanza di poche settimane l'una dall'altra arrivavano per mare dal nord altre spedizioni.Un corri spondente di giornale straniero giudicò che in breve si era giunti a diecimila soldati di prim'ordine, la cui disciplina e assuefazione al combattimento miglioravano ogni giorno, capaci di marciare per cinquanta chilometri al giorno con poco cibo. Un esercito così raccogliticcio conteneva per forza alcuni elementi indegni; ma il comandante inglese Forbes lo stimava assai superiore alla media: Per sobrietà e buona condotta generale, questa formazione indisciplinata superava di gran lunga qualsiasi truppa regolare.Garibaldi fucilava senza pietà la gente anche soltanto se rubava uva, con la stessa facilità con cui li fucilava per diserzione alla presenza del nemico. Anche in fatto di vestiario continuava a esserci la più grande varietà; alcuni ufficiali non permettevano la camicia rossa, sostenendo a ragione che era un buon bersaglio e che rivelava la loro consistenza.L'eccentrica contessa Della Torre era arrivata in stivali e speroni, con tunica bianca intrecciata alla ussara e in più un cappello spagnolo piumato e una spada che cigolava sinistramente al cammino.C'era abbondanza di opera buffa; Dumas, dal canto suo, ci si sfrenò dando il suo contributo. Mentre lui seguiva eccitatissimo gli eventi per conto di un giornale parigino, il suo lussuoso panfilo, ben fornito di champagne e adorno di un'altra dama esotica che si divertiva a indossare l'uniforme di ammiraglio, serviva da fabbrica di camicie rosse.Nella prima fase Garibaldi aveva profittato largamente dell'aiuto dei contadini siciliani, insorti in vendette primitive e spesso atroci contro i proprietari terrieri e il governo borbonico.Più avanti nell'estate quegli stessi contadini, via via che la loro vita tornava naturalmente al normale corso, prosaico e pedestre, intuirono con tristezza e desolazione che dopo tutto Garibaldi non era un riformatore sociale con una soluzione magica per la loro eterna fame e miseria.Al contrario, lo troviamo perfino a reprimere nelle tenute di Nelson a Bronte un movimento comunistico che impediva il progresso militare. I contadini non erano veramente interessati a una guerra politica, ma solo a una loro guerra sociale che tagliava la politica di traverso; nell'impadronirsi di terra e di bestiame erano però così violenti e turbolenti, che perfino i più reazionari fra i latifondisti giunsero a scorgere nella protezione del dittatore radicale e della sua rivoluzione l'unica speranza di legge e di ordine.Fu un'immensa benché accidentale vittoria per la causa dell'Italia unificata, in quanto dal punto di vista politico i latifondisti erano la classe più solida e coerente. La loro graduale e spesso riluttante

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accettazione dell'insurrezione fu un evento decisivo nella storia italiana e contribuì a render possibile la successiva fase della sorprendente conqui sta.La resa di Palermo aveva permesso a Garibaldi di occupare quasi tutta la Sicilia, eccetto Messina e dintorni nell'angolo nord-orientale; gli serviva ora un'altra vittoria per consolidarsi e per assicurare un passaggio sicuro al continente. Il 20 luglio entrò ancora una volta in contatto col nemico. Avendo appreso che aspettava rinforzi fece un rapido attacco sulla città fortificata di Milazzo contro truppe meglio armate, che conoscevano il terreno. La battaglia ebbe sorti alterne per otto ore e i garibaldini soffersero le peggiori perdite fino ad allora, ottocento fra morti e feriti, quattro volte di più degli avversari. Fu un duro prezzo da pagare per la loro leggenda di invincibilità; ma avevano una fiducia assoluta in chi li guidava, e questi in cambio li condusse al successo. Dumas venne a riva dopo la battaglia e trovò il suo eroe che dormiva esausto sul nudo pavimento di pietra di una chiesa, con la sella americana per cuscino. Messina era una guarnigione troppo forte: le si dovette passare accanto.Il problema più urgente stava nel trasporto di più di diecimila uomini al di là dello stretto, sotto i cannoni dei forti e della marina nemici. Alcuni pensavano di costituire una testa di ponte a Salerno, ma dimenticavano che quasi non c'erano navi disponibili.Il gabinetto di Torino cercava di dissuaderli da qualsiasi traversata, perché temeva complicazioni con la Francia e l'avvicinarsi della rivoluzione su per la penisola; ma il re, privatamente, li incoraggiava a tentare la fortuna e a esser pronti a vedersi ripudiare se le cose andavano storte.Era un momento confuso e delicato; l'unico a sentirsi affatto sicuro di sé era Garibaldi.

Capitolo 10

DITTATORE DI NAPOLI

1860

La conquista della Sicilia lasciava metà della popolazione dell'Italia geografica ancora fuori della nazione italiana che si stava rapidamente formando e consolidando; lo stretto di Messina era il primo impedimento a ogni ulteriore progresso. Senza adeguati trasporti (per non dire una marina), Garibaldi era chiuso dalla flotta napoletana, più grossa perfino della piemontese.In aggiunta ai suoi dieci-quindici mila uomini, il leader radicale Bertani ne aveva raccolti altri ottomila nel nord per un movimento a tenaglia attraverso gli Stati pontifici.Nell'insieme era la forza più grande che Garibaldi avesse mai comandato, e i problemi di rifornimento e organizzazione si facevano gravi. Come sempre, egli non aveva in testa alcuna idea preordinata e lasciava che le circo stanze gli suggerissero una strategia, pronto ad afferrare il momento con energia e abilità. Nel frattempo faceva di testa sua, forte della cieca fiducia di ufficiali e soldati nel suo giudizio e nella sua fortuna.Il 30 luglio, dopo che la battaglia di Milazzo l'aveva portato a distanza giusta per intervenire, ordinò a Bertani di sferrare alla frontiera settentrionale degli Stati pontifici l'attacco che fin dal maggio erano andati approntando. Questo forzò il governo torinese a prendere finalmente posizione, poiché l'azione minacciava un urto immediato con le truppe francesi a Roma.Cavour mise di colpo il veto a ogni ulteriore reclutamento di volontari e costrinse Bertani a portare il suo esercito personale verso l'area siciliana, politicamente meno pericolosa.Garibaldi venne in Sardegna per incontrare Bertani, ma non giunse in tempo a dirottare quella separata spedizione e a creare un secondo fronte. L'intero episodio è un esempio delle serie difflcoltà di coordinazione che doveva affrontare, ora che la scacchiera si era fatta più intricata e complessa. Di ritorno allo stretto di Messina, portò innanzi il piano per uno sbarco generale in

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Calabria con desti nazione Reggio. Vi aveva già inviato un calabrese di nome Musolino, che cercava senza successo di seminare la discordia nelle guarnigioni borboniche.Era importante tenere il nemico in stato d'incertezza. Siccome Cavour si era deciso a mostrare nuovi segni di attività ostile, era essenziale far presto; bisognava tenersi in movimento, semmai acquistando impeto. Per ingannare la marina avversaria, numerose imbarcazioni furono mandate verso occidente a fare il giro dell'isola, e quando si ripresentarono a Taormina una piccola forza mobile salì su di esse con rapida segretezza.Era il 18 agosto; le trenta miglia della traversata furon percorse di notte, senza intercettazione.C'erano circa sedicimila soldati a difesa della Calabria, mentre l'unità di attacco di Garibaldi constava di soli tremilacinquecento uomini. Egli marciò impavidamente su Reggio, la bombardò dalle colline e costrinse la guarnigione alla resa due giorni dopo essere sbarcato.Allora il grosso dei garibaldini fece a sua volta la traversata e la marcia trionfale su per il piede d'Italia ebbe inizio. Ci fu tanto panico generale che gli avversari non fecero mai in tempo a rimettersi in sesto. Garibaldi poté perfino lasciare indietro i suoi uomini e andare in avanscoperta quasi da solo, forte della favolosa nomea che ormai lo circondava.I soldati nemici gettavano le armi e spesso uccidevano selvaggiamente gli ufficiali. Alla fine di agosto si erano arresi in diecimila. Fu un'ininterrotta corsa di quattrocentocinquanta chilometri nella calda estate, con uomini febbricitanti e grosse difficoltà in fatto di rifornimenti.Ma Garibaldi aveva scoperto che Cavour stava tramando un suo colpo rivale su Napoli, contro la rivoluzione quanto contro i Borboni; bisognava fare in fretta, se si voleva che Napoli servisse da base per proseguire su Roma. Con illimitato coraggio e non comune intuizione militare, Garibaldi andò innanzi a spron battuto. Si stimava che intorno a Salerno ci fossero quarantamila soldati borbonici, e Garibaldi era pronto a una battaglia campale; ma le sue mosse erano troppo rapide e il morale degli avversari trascurabile. Perfino i ministri e generali napoletani avevano cominciato a mutare partito, accettando regali da Cavour. Il 7 settembre Garibaldi entrò a Napoli con una mezza dozzina di compagni, dopo aver coperto l'ultimo tratto da Salerno sul primo tronco ferroviario costruito in Italia. Aveva lasciato del tutto indietro il suo esercito e i soldati borbonici erano ancora nella fortezza della città; ma quando egli, diretto al suo albergo, passò in piedi dentro una carrozza aperta, in vece di sparargli presentarono le armi.Fu forse la più bella ora della sua vita; i cittadini, quando si rivolse loro in piazza dal balcone, lo acclamarono freneticamente. Napoli era la più grossa città d'Italia, capitale della sua più vasta regione, terza fra le grandi città eu ropee. Garibaldi la governò da dittatore per due mesi mentre preparava l'ultima e decisiva battaglia contro il re Francesco, ritiratosi lungo la strada di Roma.Sembra che solo alcune dozzine di napoletani si siano uniti all'ormai ragguardevole esercito di Garibaldi; tuttavia non è forse così paradossale che la città gli rivolgesse la più grande ovazione della sua vita, tanto che il comitato per le accoglienze restò spazzato via dall'entusiasmo generale.In momenti del genere egli si mostrava nella luce migliore. Con gran cura si affrettò a venerare lo scrigno di san Gennaro, protettore della città ed ebbe di lì a poco la soddisfazione di apprendere che il sangue si era miracolosamente liquefatto, come ad approvare la sua vittoria.La prima sera gli applausi proseguirono fino a tarda notte : quando una camicia rossa apparve a mimare Garibaldi addormentato, tutti di colpo tacquero e andarono a casa in punta di piedi.La seconda notte egli presenziò all'opera nel teatro San Carlo; in risposta agli applausi, gridò dal palco Viva Vittorio Emanuele e l'intero uditorio gli fece eco. Andava bene come divertimento, come spettacolo e come politica. La breve dittatura di Garibaldi fu una completa novità per Napoli : una parentesi coloritissima e quasi di sogno della sua storia. La sua audace legislazione mise poca radice e non sopravvisse alla sua partenza. Introdusse schemi sperimentali di riforma sociale, libera educazione e costruzioni ferroviarie; tentò perfino di abolire il gioco d'azzardo, benché la natura umana e il peso della storia e della geografia fossero contro di lui.Ciò che aveva visto nell'estremo meridione lo aveva sbigofflto di fronte ai risultati del privilegio e dei monopoli clericali. Permise pertanto ai protestanti di costruire alfine delle chiese; una marea di

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Bibbie del Diodati gli fu per così di re alle calcagna. Disciolse le case dei gesuiti e ne nazionalizzò le proprietà; quando l'arcivescovo si rifiutò di cantare un Te Deum per avallare la tangibile benedizione del santo, fu punito dell'insulto con l'esilio immediato. In politica il dittatore si accollò il pregevole ma difficile compito di conservare un equilibrio di forze fra sinistra e destra.Nominò segretario il radicale Bertani, ma scelse i ministri fra i conservatori moderati vicini a Cavour. Per parecchi giorni lavorò con l'assunto che radicali e conservatori potessero ormai accordarsi perlomeno sulla questione nazionale.Aveva buone ragioni per credere che il re avrebbe sostenuto la rivoluzione finché questa continuava ad aver successo; e i prodigiosi eventi di Sicilia e di Napoli facevano sembrare non troppo azzardato un ul teriore tentativo su Roma.Militarmente, era legittimo meditare l'invasione degli Stati pontifici; se alle forze di Garibaldi si fossero uniti tanti napoletani quanti siciliani, l'esercito borbonico non avrebbe forse potuto fortificarsi a Capua, così come non lo aveva potuto in Calabria.Ma politicamente, era perlomeno rischioso sfidare tutta la potenza del cattolicesimo nel suo punto focale, specie coi soldati francesi a guarnigione di una parte della stessa città di Roma.Era peraltro diffusa l'aspettazione che il papa stesse per lasciare il Vaticano e che il potere temporale fosse per finire: e ciò non solo a Napoli, ma anche a Roma e nei circoli governativi di Torino. Il rappresentante inglese a Napoli pensava che l'idea di Garibaldi, di avanzare ulteriormente, fosse pura follia; ma si deve ammettere che il suo sbarco a Marsala non era apparso impresa meno disperata. Certo era stata soltanto una fiducia in sé spinta fino all'assurdo quella che gli aveva permesso di conquistare al nuovo Stato italiano già metà della penisola.Garibaldi era così convinto e così fiducioso in Vittorio Emanuele, che il suo primo gesto a Napoli fu quello di trasferire la marina napoletana al Piemonte. Quello che aveva in mente erano le navi di cui avrebbe avuto bisogno per l'operazione anfibia su Roma.Deve aver creduto che Cavour non potesse più opporsi al torrente del sentimento nazionale; non indovinò che il primo ministro aveva ora un suo opposto piano, altrettanto audace, per impadronirsi di un movimento che era stato già abbastanza a lungo sotto gli auspici della sinistra radicale. Più tardi Garibaldi si condannò per aver perso in tal modo l'iniziativa: era stato troppo occupato nel combattere per concentrarsi dovutamente sulla politica. La maggior parte dei capi radicali italiani era ora a Napoli: dal milanese Cattaneo, che voleva una repubblica federale, allo stesso Mazzini giunto dall'Inghilterra, cui non fu concesso di prender parte attiva negli affari.Crispi e Bertani speravano ancora di usare il sud come trampolino per continuare la rivoluzione.Nemmeno ora riuscivano a persuadersi che Cavour fosse un nazionalista convinto, perché opponendosi alla partenza dei Mille, all'attraversamento dello stretto e alla presa di Napoli egli aveva mostrato per chiari segni un atteggiamento disfattista e indegno di fiducia.Sembrava loro che gli eventi del 1860 avessero fino a quel momento dato ragione a Garibaldi e torto a Cavour, giustificando un movimento nazionale popolare che nulla doveva alla diplomazia e ai mercanteggiamenti governativi con lo straniero; era doveroso che il movimento popolare continuasse. Malauguratamente il re aveva ragioni sue proprie per far giocare Garibaldi contro Cavour, aumentando quelle divisioni. Era sempre restio nelle pastoie costituzionali; per la maggior parte dell'anno aveva lavorato alle spalle dei suoi ministri e incoraggiato Garibaldi a provocarli. Se Garibaldi vinceva, il re avrebbe aumentato enormemente in potenza e territorio; se perdeva, la Corona poteva sempre rifiutare di assumersi delle responsabilità; e Garibaldi capiva e perfino accettava tale equivoca situazione. All'ini zio dell'anno Vittorio Emanuele si era spinto fino al punto di dire a uno dei suoi generali che avrebbe preferito Garibaldi a Cavour come primo ministro. Ora, in settembre, mandò un messaggio privato direttamente a Napoli; la risposta del dittatore fu, primo, di chiedere pubblicamente le dimissioni di Cavour, secondo, di muovere all'attacco degli Stati pontifici. Aveva ragione di credere che questi fossero i desideri regi.Tuttavia Cavour, ora che le crepe non si potevano più nascondere, minacciò di dimettersi e di rendere manifesto il doppio gioco del re, lasciandolo ad affrontare le sue responsabilità.

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In tal modo Vittorio Emanuele fu costretto a rinunciare alla sua politica doppia e ambigua; messo di fronte a una scelta, decise sensatamente di allinearsi con la politica più moderna dei suoi ministri, che aveva un così preponderante sostegno parlamentare.Il modo drammatico in cui Cavour, dopo tanto tempo, ritolse infine l'iniziativa ai rivoluzionari, con sistette nell'invadere egli stesso dal nord le regioni pontificie dell'Umbria e delle Marche.Luigi Napoleone venne abilmente convinto a permetterlo, col pretesto che la cosa serviva a fermare l'avanzata di Garibaldi. Era una mossa audace e conclusiva.Passava accanto a Roma senza toccare il papa, soddisfacendo così la Francia; acquisiva al tempo stesso quel che restava degli Stati pontifici e tutta l'Italia meri dionale già conquistata da Garibaldi.Di un colpo solo ciò metteva fine alla rivoluzione, eliminando il pericolo che la pressione radicale si facesse sentire a Torino. Fu solo presentandolo come atto antirivoluzionario che Cavour rese non solo Napoleone ma anche i conservatori piemontesi acquiescenti alla drammatica novità dell'unione nord e sud. Le cose si erano messe in modo tale, che Garibaldi dovette fermarsi prima dell'arrivo dei piemontesi: quando tentò di spingersi oltre Napoli trovò quarantamila nemici fermamente attestati al di là del fiume Volturno.Nel mezzo di settembre i volontari subirono il loro primo e unico rovescio dell'anno a Caiazzo, mentre Garibaldi era temporaneamente assente. Era stato costretto a lasciare le linee per comporre degli screzi politici che i seguaci di Cavour stavano provocando in Sicilia.Uno dei suoi generali tentò scioccamente di forzare un saliente sul fiume e perse nel tentativo duecentocinquanta uomini; non posse deva le doti di Garibaldi come capo e come tattico.La valle del Volturno era nota per le sue febbri mortali. I garibaldini avevano poche tende e non erano preparati all'umidità dell'autunno e alle fredde notti dell'inverno imminente.Gli ospedali, come allora potevano essere, rigurgitavano di casi di malaria e reumatismo.Terminato il periodo delle rapide vittorie di movimento, il morale scricchiolava, per ché una condotta di guerra più statica non si addice va a quegli uomini, che del resto non avevano arti glieria per bombardare fortezze come Capua e Gaeta.In ogni caso, un esercito di volontari tendeva sempre a disunirsi con la fine della stagione di campagne. Erano stanchi di una vita di durezze e di gloria, specie ora che le durezze aumentavano e la glo ria diminuiva; inoltre si sapeva che l'esercito piemontese stava avvicinandosi per togliere le re stanti castagne dal fuoco. Malgrado tutto ciò, in così avverse condizioni, all'inizio di ottobre Garibaldi conseguì sul Volturno una grande e complicata vittoria.Comandava molte più truppe che mai più nel la sua vita, un totale assai superiore ai trentamila.Era nuovo anche il fatto che si trattava di una battaglia difensiva, non delle semplici e rapide schermaglie da lui preferite. Al contrario doveva tenere, con forze inferiori, una lunga linea di circa venti chilometri contro un nemico deciso a riprendere Napoli prima che arrivassero i piemontesi. La lotta durò due giorni. Ci furono più di trecento morti da entrambe le parti, ma i garibaldini tennero duro e presero più di duemila prigionieri.Molta gente aveva creduto che Garibaldi fosse incapace di assumersi una battaglia campale di tanta ampiezza, che fosse solo un guerrigliero la cui tattica non poteva adattarsi alla guerra vera e propria. Gli scettici furono confusi da questa vittoria di eccezionale importanza. Napoli era salva.I politici e gli storiografi ufficiali di Torino, per ragioni politiche, cercarono di sminuire il successo di Garibaldi ed esagerarono per contrasto la modesta vittoria dei piemontesi a Castelfidardo, su forze pontificie assai inferiori. Il re intendeva rilevare il governo da Garibaldi, sicché era importante costruirgli un prestigio e diminuire quello di Garibaldi stesso; grandi sforzi furon rivolti a questi due fini, ma con successo solo parziale.Nel resto dell'ottobre Garibaldi dovette starsene sulla difensiva. Si dichiarò felice che il re fosse in arrivo con l'esercito del nord per conquistare parte dei domini papali.Pur sospettando fortemente delle intenzioni politiche del governo torinese, per fortuna non sapeva che Cavour stava ordinando di attaccare se necessario i garibaldini e di buttarli in mare.Erano ordini inutili, perché egli aveva molto più buon senso di quanto Cavour avesse mai

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ammesso, e la guerra civile era lontana dalla sua mente.Quando i generali e gli ufficiali del nord arrivarono, riconobbe di buona grazia la sua sconfitta e fece del suo meglio per render loro facile il compito, benché si sapesse che Cavour aveva accuratamente scelto come governatori di Napoli e della Sicilia quella mezza dozzina di persone che per ragioni personali e politiche eran più nettamente avverse al leader radicale.All'inizio di novembre Garibaldi rinunciò formalmente alle sue conquiste, dopo che un plebiscito si era pronunciato a stragrande maggioranza per una Italia unificata sotto la sovranità costituzionale di Vittorio Emanuele. La maggior parte delle leggi e delle riforme di Garibaldi venne abrogata, i suoi appalti per lavori pubblici disdetti, le sue nomine annullate, per esempio, Dumas perse l'ambitissima sovrintendenza agli scavi di Pompei.Fosse o no per gelosia della popolarità di Garibaldi il re non comparve alla parata d'addio dei volontari, organizzata in suo omaggio. Vittorio Emanuele prese subito a malvolere i suoi nuovi sudditi e preferì folleggiare con la sua amante e uscire a caccia ogni giorno, piuttosto che abbassarsi allo stancante dovere di salutare le folle in attesa. Ci furono scortesie da tutte le parti.Il re nominò Garibaldi generale a tutti gli effetti e gli offrì terre e ricchezze; ma l'altro rovinò la notizia della nomina dicendo che non si lasciava comprare da compensi materiali.Un giorno ci sarebbe stato di nuovo bisogno della rivoluzione ed egli doveva conservare la propria indipendenza e reputazione intatte ed esenti da ogni coloritura ufflciale.Quando il 9 novembre Garibaldi partì sulla Washington, la stampa ufficiale restò deliberatamente muta. Egli salpò all'alba, per evitare dimostrazioni, ma almeno le navi straniere nella baia salutarono la sua partenza. Fu una rinuncia bella e dignitosa, perché malgrado numerose irriverenze egli era deciso a non sollevare alcuna difficoltà.Si sentiva molto sollevato di esseresi nuovamente liberato della vita pubblica, con le sue torbide fatiche. Con qualche provvista e un po' di semi per il suo orto, tornò così all'oscura e solitaria povertà di Caprera.

Capitolo 11

LA POLITICA DELLA NUOVA ITALIA

1861-1862

Per facilitare la sua partenza da Napoli, il re aveva fatto credere a Garibaldi che ci sarebbe stato di nuovo bisogno di lui nella prossima stagione di campa gna, di lì a quattro mesi.Il generale assicurò pertanto i volontari, come pure l'ammiraglio britannico quando andò a salutarlo, che nel prossimo marzo avrebbero ripreso le armi insieme all'intera nazione.A Napoli aveva anche concesso a Mazzini un colloquio di addio, nel quale i due rivoluzionari discussero sulla possibilità di estromettere Cavour durante l'inverno e di avviare un'altra guerra contro l'Austria per Venezia. Con questo nel fondo della mente, il dittatore delle Due Sicilie tornò nel frattempo a quelli che amava chiamare i vigneti e i campi sulla nuda roccia di Caprera.Si notò che sembrava felice come uno scolaretto in partenza per le vacanze. Appena sbarcato mise in libertà i suoi due cavalli da battaglia. Diede a un bracciante l'uniforme di generale; più tardi una signora inglese trovò l'uomo che scavava patate in quello strano costume, e glielo comprò.La sua presenza trasformò presto Caprera in una specie di attrazione turistica; ogni venerdì il vapore postale arrivava alla Maddalena con delle visite.Al cuni volevano autografi, altri lavoro; viaggiavano a quella volta inviati segreti di Mazzini e del re, socialisti russi, ammiratori, ciarlatani ed entusiasti di ogni tipo.Sembrava che le noie e gli intrighi della vita pubblica facessero del loro meglio per perseguitarlo.

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Ma egli cercava di non lasciarli interferire col lavoro della fattoria, e la gente che veniva a sciupare il suo tempo era spesso liquidata sui due piedi.Preferiva dedicarsi a produrre cibo per la sua casa; aveva anche l'idea immaginaria di costruire una fortuna ai figlioli vendendo granito. Come Cavour, Garibaldi nell'agricoltura trovava riposo e ispirazione; nelle dichiarazioni fiscali figurava sempre agricoltore.Lo si trovava a zappare (la vanga faceva poca presa nelle sottili zone terrose) o a frantumare il granito e a erigere muretti contro le incursioni delle capre selvatiche.I visitatori si divertivano sentendo che aveva battezzato gli asini Pio IX, Francesco Giuseppe e Luigi Napoleone, i cavalli Marsala e Calatafimi.Una visita più utile del con sueto fu quella fattagli nel 1861 dall'inglese Robert Webster, giardiniere di professione, mandatogli da gente desiderosa di aiutarlo.Garibaldi soleva tenere un libro dei conti con gli acquisti e le vendite.In quelle pagine lo vediamo che pota, innesta, concima, cerca di controllare le greggi, importa olivi, semina il trifoglio solo quando la luna è calante.C'erano anche uccelli selvatici da cacciare; i suoi amici hanno descritto spedizioni fatte ogni due o tre giorni, nelle quali fiocinava da un canotto. Era una vita tranquilla e felice, anche se non prospera. I primi anni dopo il 1860 furon quelli della maggior voga e notorietà di Garibaldi.Il ministro degli Stati Uniti Marsh scrisse nel 1861 al suo governo che, pur non essendo altro che un individuo solitario e privato, in questo momento egli e in sé e per sé una delle grandi potenze del mondo. Le sue fantastiche vittorie seguite dalla quasi al trettanto fantastica abdicazione per una vita umile e oscura facevano sì che si parlasse di lui come di un personaggio di Plutarco.Colui che aveva governato da solo più di mezza Italia, spesso non possedeva nemmeno di che cambiarsi e non rifuggiva dal lavarsi da sé la camicia. Gli amici si servivan di lui come sarto, giacché nei suoi viaggi aveva imparato a tagliare e provare a occhio ed era sempre pronto con un ago..Talvolta l'umiltà e l'orgoglio si accompagnano: in Garibaldi l'amalgama suonava vero.Questo il segreto dell'irresistibile fascino di cui parla il comandante Forbes: poiché, a differenza di Vittorio Emanuele e di Cavour, egli era chiaramente un uomo onesto e genuino, senza scopi nascosti. Di qui la sua capacità di mettere insieme dal nulla e come per miracolo eserciti temporanei e di fare poi a meno della solita disciplina; egli aveva per natura in se stesso ciò cui si obbedisce. Senza dubbio in tanta ammirazione c'era spesso un qualcosa che rendeva assai sospettoso qualsiasi vero liberale.Mazzini, diviso fra disapprovazione e gelosia, commentava che era politicamente pericoloso e moralmente indegno per gli italiani di gettarsi ai piedi di un dittatore; ma lo stesso Mazzini provò invidia quando diciassettemila persone di Brighton offrirono un penny a testa per un dono al suo ex allie vo. Gli eccessi d'ammirazione erano talvolta perfino morbosi.Cavour, con scaltro umorismo, mandò una volta a Londra diversi ciuffi autentici dell'eroico crine affinché venissero distribuiti con cura ai fedeli; secondo una storia forse apocrifa, lo stesso Garibaldi ebbe a dire a Lady Shaftesbury che i capelli gli stavano ricrescendo e che appena possibile gliene avrebbe mandato un po'. Si legge in un resoconto giornalistico che un anziano ufficiale stava di guardia in piedi accanto a lui e gli ripettinava i capelli via via che ogni visitatrice aveva ricevuto il pedaggio. Era una forma ripugnante di culto degli eroi, quella delle aristocratiche dame straniere che gli tendevano l'agguato per un bacio e andavano in cerca della sua stanza per raccogliere ritagli di unghie e capelli dal pettine; tanta adulazione avrebbe potuto anche andargli alla testa, non meno pericolosamente delle continue esortazioni segrete del re all'azione rivoluzionaria.Il guaio era che adesso Garibaldi sapeva di essere una potenza nel paese.Un celebre futuro ministro degli Esteri italiano, che aveva servito con lui come volontario nei Cacciatori, osservò che era già considerato dal popolino quasi come il capo di una nuova religione.In Lombardia le donne avevano sollevato i figli affinché li benedicesse.Nel sud aveva comandato un esercito di quasi quarantamila uomini, era stato trattato da semidio dai contadini e dalla plebe napoletani, li aveva sentiti palpitare ai suoi fiammeggianti discorsi.

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Non solo si era messo sullo stesso piano di Cavour e dei politici; ma più di una volta aveva anche osteggiato la loro politica e dettato la loro condotta. Era eccitato al sentirsi un donatore di regni, già più di ogni altro meritevole della ricostruzione d'Italia; era sicuro che fosse suo destino di completare il regno con la conquista di Roma e di Venezia.Nel 1861 l'amministrazione torinese si trovava nella spiacevole situazione di avere in lui un personaggio che poteva rimproverarle qualcosa e un aperto ribelle all'intero sistema di governo.Cavour e il parlamento avevano fermato la sua rivoluzione, ed egli si era pubblicamente vendicato affermando che i deputati erano dei vili e i ministri troppo poco convinti della nazionalità italiana.Nelle sue memorie aveva duramente affermato che nel parlamentarismo italiano c'era troppa corruzione perché eserci tasse un influsso salutare sulla vita pubblica.In seguito tale opinione divenne un pericoloso luogo comune sia fra i progressisti che fra i conservatori; per il momento era un'eresia, ancor più pericolosa e offensiva.Così come Cavour sapeva maneggiare il parlamento e si sentiva più forte rivolgendosi a esso, Garibaldi capiva il popolo e si sentiva più forte quando la folla rispondeva in coro alle sue fiorite e retoriche domande. Fra Garibaldi e le masse c'è una sorta di intima comunione spirituale che è davvero elettrizzante, disse un corrispondente di guerra in Sicilia; quella stessa retorica che poteva suonare ampollosa per i calmi estranei, s'intonava benissimo alla fervida immaginazione del sud.Senza dubbio Garibaldi era riuscito a conquistare l'immaginazione dei meridionali; retrospettivamente la sua dittatura, quasi senza veri motivi, assunse le proporzioni di una età dell'oro. Al paragone, il governo parlamentare dopo il 1861 era prosaico e piatto; e quando in seguito non riuscì a risolvere la questione meridionale, la cosa servì a generare un reale contrasto fra i princìpi e la pratica.Non si trattava del mero conflitto fra un Cavour costituzionale e un Garibaldi dittatoriale.Le differenze fra i due erano più sottili e differenziate, tanto che Garibaldi riusciva perfino a presentarsi al parlamento per accusare seccamente Cavour di violare la costituzione.Benché Cavour credesse fermamente nelle forme parlamentari, i suoi nemici sostenevano che ciò avveniva solo perché gli era facile manipolare un parlamento sottomesso fino a fargli accettare la sua virtuale dittatura. D'altro canto Garibaldi benché dittatoriale per temperamento, non aveva né l'ambizione né l'intelligenza per fare il Mussolini.Non essendo in alcun senso una persona astuta, Garibaldi aveva idee politiche confuse.Era giunto alla conclusione che per fare dell'Italia una grande potenza e per costringere gli italiani a deporre le loro diversità e a vivere in mutua tolleranza, solo violenza e coercizione sarebbero bastate. Questa però non era affatto mancanza di fede nella libertà.Paradossalmente, un governo forte doveva servire a imporre libertà e tolleranza.In Inghilterra, suo Stato modello, la vera libertà poteva esistere senza eccessive interferenze governative, e tanto meglio. Ma in Italia egli temeva che Cavour volesse una specie di governo pseudocostituzionale come quello di Luigi Napoleone, sotto il quale la libertà era vuota finzione.All'inizio del 1861 si tennero le elezioni generali per il primo parlamento del nuovo regno d'Italia e Cavour ottenne una grande maggioranza.Dapprima Garibaldi rifiutò ovunque di presentarsi, convinto com'era che uomini più abili e sottili avrebbero sempre vinto quando si trattava di manipolare elezioni e assemblee. Ma il malessere del meridione, che andava sempre accrescendosi lo persuase infine a lasciarsi nominare a Napoli, dove fu eletto quasi senza opposizione.Il suo programma era concordia e unità nazionale, tanto che tentò perfino di costringere il governo a permettere il ritorno di Mazzini dall'esilio.Finché i ministri accettavano il nazionalismo rivoluzionario, era con essi. Io non mi curo che il ministero si chiami Cavour o Cattaneo (assai preferibile il secondo); ciò che mi preme e che devono esigere inesorabilmente gli italiani tutti, si è che il 1 marzo 1861 trovi Vittorio Emanuele alla testa di cinquecentomila soldati. Ma Cavour, irretito nella diplomazia, non poteva avere ulteriore commercio con quella pericolosa forma di guerra nazionale popolare e preferiva appoggiarsi all'aiuto diplomatico francese. Così Gari baldi fu portato all'opposizione.

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Era sicuro che Luigi Napoleone non fosse affatto ansioso di vedersi alla frontiera meridionale un'Italia unita e antipapale.Un vero e proprio urto fra i due ebbe luogo allorché Cavour congedò i garibaldini rimasti a Napoli. Invece di essere trattati con onore, i volontari veni vano considerati una seccatura politica, specie perché l'esercito regolare era geloso del loro successo e della loro disciplina e carriera più facili. Molti di essi, per la causa nazionale, avevano rinunciato alla famiglia e ai propri normali mezzi di sussistenza, e ora venivano trattati più severamente dei soldati borbonici da essi sconfitti.Avrebbero potuto essere utilissimi all'Italia nella lunga guerra civile ora scoppiata nel sud contro il governo del re; e invece venivano rimandati frettolosamente a casa, ovvero si permetteva che emigrassero per combattere nella guerra civile americana.Il 18 aprile 1861 Garibaldi superò un dolorosissimo attacco di reumatismo, quanto bastava per recarsi in parlamento e sollevarvi l'intera questione del suo esercito volontario.Entrò fra i deputati vestiti di scuro in un costume per nulla parlamentare: camicia rossa, mantello bianco e in più un sombrero spagnolo. Come commenta Guerzoni, questo gusto di presentarsi in abiti strani si addiceva abbastanza alla sua indipendenza e originalità di carattere; ma in quell'occasione sembrò grottesco e volutamente provocatorio.Fortunatamente per Cavour, l'atmosfera sobria e arcigna del parlamento torinese giocava molto a favore del conservatorismo. I ministri avevano ricominciato a sospettare che il re sostenesse quel potenziale ribelle e che fosse imminente un col po di Stato.Quella volta il generale Fanti fece un discorso lungo e scialbo per giustificare il modo in cui aveva trat tato i volontari. Ci fu poi un'irosa e sgarbata risposta di Garibaldi che accusò perfino Cavour di provocare una guerra fratricida nel sud.Il Primo ministro, pallido di rabbia, chiese di essere protetto da un simile insulto; l'atmosfera si caricò subito di elettricità.La seduta venne disordinatamente sospesa, dopo di che Garibaldi si scusò, sperando che Cavour avrebbe mutato parere e salvato i volontari.Ma quegli rifiutò ogni compromesso. Comprendeva che si trattava di un punto cruciale, non solo fra due politiche, ma anche fra due contraddittorie teorie del governo; e si sentiva sufficientemente forte in parlamento per essere inflessibile.Garibaldi si dichiarò profondamente insoddisfatto e venne acclamato dalla galleria.Ciò nonostante i voti furono contro di lui, 194 a 79. Poi avvenne che il generale Cialdini pubblicò uno scritto incredibile, nel quale sparlava malamente di Garibaldi su tutta la linea, dalla politica al comportamento e al modo di vestire. Sembrava una deliberata provocazione a duello, ma per fortuna Garibaldi era troppo sensato e bonario.Rispose semplicemente e tranquillamente che aveva ogni diritto di dire la sua in parlamento e che avrebbe continuato a scegliersi il vestiario finché non gli avessero detto che non viveva in un paese libero.Per insistenza del re ebbe poi un incontro con Cavour; i giornali ufficiali lasciarono inaccuratamente credere che c'era stata una riconci liazione. In realtà Cavour non aveva ceduto di un pollice. Il Primo ministro era ormai malato, schiacciato da tutti i problemi della ricostruzione, tanto che non molte settimane dopo quel pasticcio giunse a improvvisa e tragica morte.Una grave febbre aveva eluso i medici fino al punto che essi poterono solo cavargli sangue fino a che non ne veniva più. La morte del conte di Cavour fu una calamità che lasciò l'Italia senza alcun uomo con metà soltanto della sua chiarezza mentale e della sua abilità tecnica; i suoi colleghi erano dei mediocri, e tutte le fila della politica erano state nelle sue mani.Con uomini come quelli al potere era evidente che per qualche tempo non sarebbe stata possibile alcuna altra mossa per Roma o Venezia; così Garibaldi si ritirò ancora una volta a Caprera.Abraham Lincoln gli offrì allora il comando di un corpo d'armata degli Stati settentrionali; Garibaldi arrivò fino al punto di chiedere al re il permesso di accettare, e di ottenerlo.Si rivolse a Lincoln con ammirazione sincera: l'America, che aveva insegnato la libertà ai padri, apriva di nuovo un'ora solenne al progresso umano e faceva sì che ci si chiedesse con tristezza come mai la vecchia Europa non trovava intelletto e cuore per rivaleggiare con lei.

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Al tedesco Karl Blind disse che l'America avrebbe dovuto accrescere la sua potenza in modo di agire da freno e antidoto alle potenze aristocratiche e tiranniche d'Europa.Ma rispose con arroganza che sarebbe andato a combattere per Lincoln solo a due condizioni: che ottenesse il comando supremo e che la schiavitù venisse formalmente abolita.Era già stato ingannato da politicanti e ufficiali superiori e non aveva alcuna intenzione di rimettersi nelle condizioni di non essere padrone di se stesso.A questo punto la cosa cadde, anche se l'anno dopo, quando l'esercito federale ne aveva ormai meno bisogno, Garibaldi tornò a offrire i suoi servigi.L'abolizione della schiavitù era uno dei progetti umanitari tanto cari al riformatore radicale. In Sud America si era piccato di affrancare tutti gli schiavi in cui si fosse imbattuto.Era una sua idea fissa che anche gli italiani dovessero smettere di inchinarsi e strisciare davanti all'autorità, altrimenti sarebbero divenuti irrimediabilmente gobbi. L'uomo è libero.Deve sempre guardare il cielo. Nei primi anni dopo il 1860 Garibaldi si interessò a numerosi quanto generici progetti di emancipazione e di riforma. Si rivolse fra l'altro con successo al re perché alcuni individui condannati alla pena capitale venissero graziati e nel 1862 firmò una petizione perché tale pena venisse abolita del tutto.Nei successivi venti anni incoraggiò sempre la formazione di società di mutua assistenza fra lavoratori, convinto com'era che la futura grandezza dell'Italia stesse soprattutto nelle classi lavoratrici. Gli abbienti avevano il fondamentale dovere di migliorare le condi zioni dei poveri per diminuire il pericoloso abisso fra le due classi.In questo egli si mostrò assennato, in confronto all'andazzo generale della sua generazione e delle successive: lui, ingenuo in politica, mise istintivamente il dito su quella che sarebbe probabilmente stata la causa principale della instabilità governativa e degli interni contrasti da allora fino ai nostri giorni. Un altro campo cui volse sempre più il suo zelo riformatore fu la religione, via via che andava maturando la sua particolare eterodossia.Era sacrilegio credere nella religione di Roma e in quella che chiamava la satanica razza dei preti votati a tenere l'Urbe isolata e l'Italia divisa. La vera religione era quella del Cristo, la religione dell'umanità, com'egli finì per chiamarla più frequentemente poggiante sull'uguaglianza di tutti gli uomini e sul sacerdozio di tutti i credenti.Intorno al 1861 andava anche delineandosi la sua credenza utopistica in una comunità di nazioni senza frontiere, dove tutti gli uomini appartenessero a una sola famiglia e le guerre fossero impossibili. Inviò alle grandi potenze un ingenuo memorandum sulla creazione di una unione federale europea e la promozione di una vasta rigenerazione della politica quale il genio del secolo domanda. Nel nuovo mondo così immaginato, gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni e alla miseria dei popoli per esser prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell'industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell'erezione delle scuole che torrebbero alla miseria ed alla ignoranza tante povere creature....Queste dottrine di pace e fratellanza universale, pur mostrando la sanità del suo cuore, erano tutte un po' oscure e indistinte. Di fatto egli era un nazionalista, e per di più bellicoso, convinto che fosse del tutto giusto violare la pace dell'Europa per fare l'Ita lia.Questi inconciliabili estremi, egli li teneva insieme per mezzo di una ulteriore stravaganza: le nazioni dovevano aiutarsi fra loro affinché ciascuna conseguisse il suo giusto posto al sole, dopodiché guerre e dispotismi sarebbero cessati per sempre sulla terra.

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Capitolo 12

SARNICO E L'ASPROMONTE

1862

In Italia, radicali e conservatori fremevano del pari per l'acquisto di Roma e Venezia, con mezzi puliti o sporchi che fosse, e a furia di insistere stavano co stringendo l'Europa a considerare la cosa inevitabile. Nell'aprile del 1861, rispondendo a una comunica zione niente meno che del ministro degli Esteri bri tannico, Garibaldi scrisse che, pur odiando la guerra, riteneva che solo un conflitto armato potesse portare a compimento l'unificazione e sperava che la vittoria fosse ormai questione di mesi.Tutta l'Europa sem brava matura per una esplosione nazionalistica con tro i sorpassati imperi compositi d'Austria e di Fran cia, ed egli era convinto non meno fermamente di Mazzini che all'Italia spettasse per disegno divino la missione di innestare il detonatore.I rivoluzionari radicali non lo sapevano, ma negli ultimi mesi della sua vita Cavour aveva contrabban dato grosse partite di armi nei Balcani per una futu ra guerra contro l'Austria; e quando i britannici lo avevano colto sul fatto, aveva protestato con indi gnazione la propria innocenza, accusando i radicali.Cavour non aveva la minima inclinazione a pro muovere una guerra rivoluzionaria in Italia, ma era egli stesso un vero garibaldino quando si trattava di metter fuoco alle case altrui.Il governo era più avventato e meno calcolatore di quanto si credesse; al contrario, Garibaldi era più circospetto e politico della sua reputazione.Fu quanto scrisse al segretario di Stato Seward il rap presentante degli Stati Uniti, confermando che Gari baldi mostrava una consumata prudenza e non avrebbe rischiato se non in circostanze favorevoli.Una dichiarazione politica rilasciata a Caprera nel giugno del 1861 stabiliva che i rivoluzionari dovevano assumersi qualsiasi impresa di probabile successo, a patto che il successo fosse veramente probabile; nel frattempo era meglio attendere che la opinione pubblica si stancasse dell'inettitudine e in decisione dei politicanti ortodossi. Per il resto dell'anno si abbaiò senza mordere.Quando dei simpatizzanti di Melbourne gli manda rono un'ennesima spada d'onore, egli colse l'occa sione per insultare i codardi e gli incompetenti che non volevano procedere alla piena unificazione na zionale.Circolava la voce che progettasse di andare alla conquista di Fiume sull'Adriatico, si pensi al 1919 e a D'Annunzio.Ricevette a Caprera la visita del socialista tedesco Lassalle, che voleva farlo aderi re al progetto di una generale rivoluzione europea.Egli restò tranquillo, senza pronunciarsi mentre le organizzazioni di volontari continuavano a racco gliere armi e sottoscrizioni per il giorno in cui la sua bandiera venisse nuovamente issata.Nel dicembre del 1861 Garibaldi fece una rapida visita a Torino; nei circoli governativi si osservò con allarme che era venuto per un'udienza privata col re.All'inizio del 1962 il primo ministro Ricasoli, certa mente per pressione della Corte, mandò a Caprera il senatore Plezza, sotto pretesto di una spedizione di caccia, col messaggio che il governo era nuovamente desideroso di collaborare con lui.Ma subito dopo ttorio Emanuele licenziò bruscamente l'intrattabi le Ricasoli perché non aveva sufficiente deferenza per il trono.Il successivo primo ministro Urbano Rattazzi era un sottile uomo di corte, assai meno scrupoloso e più accomodante.Garibaldi lasciò di nuovo l'isola, stavolta per realizzare apertamente una campagna ufficiale per

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l'addestramento del popolo alle armi.Era stato invitato espressamente dal governo, e si può essere certi che non si sarebbe mosso di casa se non si fosse aspettata qualche nuova impresa di par ticolare importanza.A Torino vide subito sia il ministro che il re e si mostrò pienamente soddisfatto di quanto essi gli avevano detto in privato.A Genova poi senza che il governo si opponesse, presiedette un congresso che rappresentava tutti i gruppi nazionalisti democratici d'Italia; mancava il solo Mazzini, presente però in ispirito e che scrisse per attirare l'attenzione di Pal merston su quell'imponente assemblea del fiore del patriottismo italiano.E quasi certo che il governo si era impegnato a dare a Garibaldi un milione di lire per una spedizione contro l'Austria nei Balcani.For se con questo lo si voleva tenere occupato lontano dall'Italia; forse era parte di un piano convergente su Venezia: non lo sappiamo.In ogni modo Garibaldi con rinnovata confidenza, percorse clamorosamente la Lombardia esortando quasi con impudenza gli studenti universitari e perfino gli scolaretti a far pra tica di combattimento negli intervalli dei loro studi, e insegnando ovunque la sua tecnica dell'insurrezio ne popolare.I due tragici equivoci del 1862 a Samico e in Aspromonte non hanno ancora ricevuto una piena spiegazione.Agiva Garibaldi direttamente per il governo? O agiva indirettamente, per esser poi ri conosciuto o rinnegato a seconda del successo conse guito? Owero agiva soltanto per conto suo? Qua lunque sia l'interpretazione giusta, il gioco di Rattazzi fu sleale e provocatorio.La campagna di Garibaldi era fatta su invito e a spese del governo.Egli la intraprese circondato da deputati e ministri, vivendo nella casa di un senatore e andando a cena da principi di sangue reale.A Milano era ospitato niente meno che dal governatore della regione, il quale osservò con gran cura che nelle strade lo accla mavano, mentre all'Opera il gran mondo gli tributa va solo qualche scarso applauso.A Cremona fece perfino visita al vescovo.Ovunque andasse, sindaci e prefetti gli offrivano banchetti ufficiali e tenevano incandescenti discorsi patriottici.Gli andò alla testa, questa incandescente atmosfera; e gli diede la illu sione di sentire il polso della nazione, mentre in realtà tutti i discorsi e gli applausi per Venezia e per Roma erano solo rumore e furore, che nulla signifi cavano.Forse Rattazzi non aveva previsto l'effetto dell'isterismo popolare su di un temperamento vul canico.In nessun modo Garibaldi era uomo da ac contentarsi di discorsi e acclamazioni vocali: il go verno si accorse di avergli dato un assegno in bianco che egli poteva presentare per l'incasso quando, do ve e come voleva.Alla fine di aprile arrivò a Trescore per un sog giorno di tre settimane, ufficialmente per curare con le acque la sua infermità; lì si riunirono i suoi soste nitori.Un aiutante del re gli fece visita.Furono in viati messaggi a Torino per il denaro promesso e si fece un tentativo di trovare prestiti in Inghilterra; nel frattempo degli agenti battevano le città dell'Ita lia settentrionale, raccogliendo vestiario e sottoscri zioni.In una riunione segreta Garibaldi compì il passo inconsueto di consultare i suoi luogovernoaenenti.Esibì loro un elaborato progetto per prendere Venezia me diante uno sbarco in Dalmazia, e li assicurò dell'ap poggio governativo in caso di successo.Fu una riu nione tempestosa, perché alcuni dei convenuti temevano i compromessi di un così

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equivoco aiuto governativo e sospettavano un intrigo per spingere Garibaldi fuori d'Italia verso la distruzione.La plau sibile opinione generale era che il governo avesse concertato con la Francia di sacrificarlo in una diver sione remota mentre Luigi Napoleone avrebbe intra preso la guerra preparata dai francesi sul Reno.Jessie White racconta che la maggioranza era con tro di lui perché temeva ci si sentisse legati alla Fran cia imperialistica e preferiva attendere che dall'inter no di Venezia venisse segno che il popolo era pronto per una guerra di liberazione popolare meno napo leonica e più garibaldina.Ma al mondo e allo stesso Rattazzi la riunione era apparsa come una compatta e pericolosa concentra zione di garibaldini entusiasti.Senza dubbio il go verno aveva sperato che egli agisse con minor osten tazione e non presentasse come ovvia la complicità governativa.Ora si allarmò.Intorno alla metà di maggio avvenne pertanto che la casa di Garibaldi fu improvvisamente circondata e il colonnello Nullo con un centinaio di volontari arrestati a Samico.Sia che la Francia avesse stornato la sua guerra, o Rat tazzi compreso che stava giocando col fuoco, o vari dicasteri lavorato in diverse direzioni senza sapere l'uno dell'altro, fatto si è che l'equivoco fu fatale e finì nel sangue.Rattazzi, accusato in pubblico, af fermò ambiguamente che il milione di lire doveva servire soltanto a incoraggiare l'emigrazione.In pri vato, ammise al ministro britannico di aver tentato di spingere i volontari nei Balcani scoprendo poi che volevano muovere su Venezia.Fu una confessione imbarazzante, che lo incriminava.Garibaldi era furente perché una buona speranza andava perduta e perché, avendo lasciato confidare nella connivenza governativa, si trovava screditato di fronte al proprio partito.Parlando sui morti nella chiesa di S. Fermo a Como vide la folla singhiozzare e poi urlare Roma e Venezia; egli stesso, spiegaz zando il cappello, si lasciò sopraffare dalla commo zione e non riuscì a continuare.In una lettera al par lamento, era troppo irato o troppo spaventato per recarvisi di persona, sostenne appassionatamente che il governo lo aveva tirato fuori dal ritiro di Ca prera per preparare una nuova mossa per l'unifica zione e che Rattazzi aveva poi esitato, arrestando i volontari con il falso pretesto che stessero per inva dere il Tirolo.Vero o falso, il governo prima usò tutto il suo potere per evitare un'inchiesta parlamentare su quanto era avvenuto, poi lasciò discretamente ca dere l'accusa e rilasciò i prigionieri; ma l'antica frat tura fra sinistra e destra era stata nuovamente spa lancata.Gli amici di Garibaldi pensavano che egli dovesse ora rompere apertamente con Rattazzi e forzare il re a definire uniformemente i limiti alla sua libertà d'azione.Ci furono invece altri colloqui e altre assi curazioni private, dopo di che egli tornò quietamen te a Caprera con tutto il materiale per un altro e più grave equivoco.Il governo era stato scosso dall'epi sodio di Samico e si sentiva troppo debole e in posi zione troppo falsa per essere propriamente fermo con lui.Alla fine di giugno Garibaldi lasciò improvvisa mente Caprera per la Sicilia. Andiamo verso l'igno to, esclamò nella sua miglior vena dannunziana.Di fatto, pur dicendo di non avere ancora intenzioni ag gressive, era sul punto di far rivivere la pericolosa prassi del marciare su Roma; e sorge di nuovo il dif ficile problema della misura in cui godesse di inco raggiamento ufficiale.Sir James Hudson pensava per esempio che Rat tazzi lo avesse inviato deliberatamente in Sicilia co me a ponte di passaggio per i Balcani e a parziale compenso di quanto era appena accaduto in Lom bardia.Un grande amico di Garibaldi era stato giu sto allora nominato governatore della Sicilia.

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I comi tati garibaldini non mancavano di fondi, e un osser vatore notò che si era comprata tutta la flanella rossa disponibile sul mercato.In Sicilia stanziavano forti contingenti di truppa, che avrebbero potuto facil mente fermarlo se ne avessero ricevuto l'ordine.Ma egli non venne fermato.Faceva frequenti allusioni al sostegno privato del re, e i dinieghi ufficiali non fu rono mai tali da impedire si pensasse che il re gli permetteva di far finta di prendere le armi contro il suo stesso governo.Sul battello che lo portava in Sicilia con il suo se guito nessuno oltre a Garibaldi sapeva dove stessero andando o a quale scopo, forse perché erano state delle indicazioni premature che avevano portato alla tragedia di Samico.Guerzoni, che era con essi, più tardi argùì che da principio l'unico movente di Gari baldi fosse di adoperare la propria popolarità fra i si ciliani per sedare la loro indignazione contro il go verno della nuova Italia; in particolare, che intendesse smorzare i rimpianti per i Borboni e il de siderio di autonomia insulare.Secondo questa ipote si il progetto di avanzare su Roma fu il risultato e non la causa della visita in Sicilia.E peraltro più pro babile che numerose idee non molto chiare gli si stessero macinando insieme nella mente.Dopo l'arrivo a Palermo ci fu ogni giorno una sca rica di discorsi e di proclami.I siciliani erano eccitati al ritorno del loro eroe e liberatore e ripensavano con nostalgia agli affascinanti giorni del 1860.Egli disse agli studenti universitari che era stanco dell'ozio in cui lo tenevano.Il 30 giugno affermò dal balcone del municipio che Roma sarebbe presto diventata italia na; il 2 luglio nel Teatro Garibaldi il pubblico fece una grande ovazione per Roma e Venezia, al che egli si infiammò e raddoppiò la violenza del linguaggio.Ricordò all'uditorio che nei plebisciti che avevano costituito l'Italia nel 1860 si era votato per un'Italia unita--vale a dire che il voto era stato condizionale e la sovranità sarebbe tornata al popolo se il governo non avesse presto conquistato Roma e Venezia.Era una giustificazione teorica della ribellione.Da Palermo partì per visitare i luoghi delle sue battaglie, e ovunque al passaggio la calca in delirio gli gettava fiori.A Trapani proibì che il pubblro gli tirasse la carrozza, cosa degradante per un popolo li bero; ma non protestò quando a Marsala sorse il gri do Roma o morte, anzi lo riprese e restitùì alla fol la.Continuarono a richiamarlo al balcone.Eccitandosi sempre di più, definì Luigi Napoleone un ladro rapace e usurpatore, che agiva solo per in grandire la sua famiglia. Napoleone fuori, fuori!, gridò; e la folla ripeté: Fuori, fuori.Poi gridò Ro ma è nostra, e la folla rispose per le rime.Il giorno seguente fra Pantaleo celebrò la messa nella cattedrale piena come un uovo.Il sermone ri guardava Roma e Venezia.Chiamato dal predicato re, Garibaldi alzò la mano verso l'altare e fece il giu ramento: Roma o morte; a cominciare dal sindaco e dal corpo municipale, il motto riecheggiò attraver so la chiesa.Di ritorno a Palermo Garibaldi non chiese più con sigli, né il seguito osò dargliene.Le accoglienze rice vute gli facevano pensare che l'intera isola fosse pronta a scoppiare in fiamme.La rivoluzione era in atto.Da un momento all'altro dispose di tremila vo lontari, molti vestiti di stracci che andavano a chie dergli il pane, gli altri per lo più giovani ardenti e ir riflessivi; tutti presi però dalla magia della sua personalità fino al punto di sentirsi dalla parte degli angeli e, insieme, dei grossi battaglioni.A questi segni di aperta ribellione Rattazzi si com portò nuovamente da uomo imbarazzato e incerto.

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Licenziò il governatore.Vennero affissi, ma subito stracciati, dei proclami contro i volontari: molti pub blici ufficiali pensavano che i ribelli lavorassero se gretamente per il re.Forse lo temeva lo stesso Rat taZzi altrimenti come mai i suoi ordini furono così vaghi ed esitanti? E come mai non vennero usati i soldati per fermare la marcia di quel bellicoso eserci to privato? Un'altra non infrequente spiegazione è che la maggior parte dei rappresentanti governativi fosse assente per le vacanze estive! In ogni modo, i volon tari poterono attraversare quasi liberamente l'isola.A chiunque sbarrava loro il passo veniva mostrato un misterioso documento con un grosso sigillo rosso in scatola di metallo, e in tal modo ottenevano di passare.A Catania i soldati regolari mostrarono le calca gna senza sparare un colpo e si rinchiusero nel ca stello, lasciando Garibaldi governatore virtuale del la città per tre giorni, mentre si raccoglievano altre provviste.I consoli stranieri riferiscono che dispone va di moltissimo contante.Gli premeva di precisare che la spedizione non era contro il re ma solo contro i ministri del re, i quali ingannavano e compromet tevano il sovrano e provocavano la guerra civile in Italia per procacciarsi la benevolenza di Luigi Napo leone.Benché il porto di Catania fosse controllato da na vi da guerra, Garibaldi poté impadronirsi di due mercantili, imbarcare parecchie migliaia di uomini e attraversare lo stretto senza incontrare resistenza.Da Torino era giunto alla marina il seguente ordine: Agite a seconda déll'occasione, ma tenete sempre in mente il bene del vostro re e del paese.L'unica condusione è che il ministro fosse volutamente vago nell'attesa di vedere se Garibaldi aveva successo.Quando in seguito gli andò male, quei poveri co mandanti navali dovettero prendere su di sé la colpa e dimettersi per non esser stati capaci di interpretare l'oracolo.L'atteggiamento di Rattazzi era complesso e ambi valente.Rifuggiva dall'usare la violenza contro un personaggio così popolare, specie in Sicilia, dove i sentimenti autonomistici e il rancore verso il nord erano tanto forti e profondi; si aggrappava nuova mente all'estrema speranza di far accettare al ribelle un passaggio per l'America., e intanto cercava so prattutto di usare quanto stava accadendo per far le va sulla Francia: la rivoluzione del sud, diceva, pote va essere fermata solo se il governo del re veniva lasciato libero di occupare Roma.Era un tentare la politica di Cavour senza il suo genio.L'attuale Pri mo ministro riuscì solo a compromettere il governo senza conseguire lo scopo, mentre in circostanze si mili il suo predecessore aveva conseguito lo scopo senza nemmeno compromettersi.Anche il re era implicato, e i suoi intrighi non solo venivano alla luce ma ricadevano sulla sua testa.Ammise privatamente che i garibaldini avevano eseguito ordini suoi fino a un certo punto.Adesso per lui erano andati troppo lontano, ma era difficile fermarli senza provocare una grossa rivoluzione, sicché era forse meglio permettere che tentassero la sorte.Avrebbe guadagnato se ce la facevano, e forse sarebbe riuscito a non perder troppo con una loro sconfitta.Il re e Rattazzi erano così entrambi vittime della propria malafede, del proprio malgoverno e di una malriposta fiducia nella Francia.Luigi Napoleone non riusciva a decidere se ritirare o no le truppe da Roma e liberarsi dall'ingrato compito di difendere il papa.Mentre egli continuava a vacillare, era difficile per Torino prendere una qualsiasi decisione.Giunti però i volontari in Calabria, l'opinione cat tolica francese si fece rumorosamente sentire e

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l'im peratore decise che non ci dovevano più essere titu banze.Approssimandosi Garibaldi a Napoli, lo stesso Rattazzi si spaventò: tutto il sud ardeva ormai di ribellione e la guerra civile locale, che in certi mo menti aveva impegnato fino a novantamila uomini nel regno ex borbonico, risultava ulteriormente ag gravata.L'anno precedente era stata proclamata la legge marziale; la stampa era soggetta a una pesante censura e si prendevano misure urgenti per control lare quella che si presentava come una controrivolu zione dei meridionali contro il nuovo governo del nord.Nel frattempo l'esercito regolare a Napoli, e nessuno più del generale Cialdini, da molto tempo attendeva l'occasione di misurarsi con Garibaldi; una colonna volante ebbe ora l'ordine di sorprender lo e dar battaglia.La vittima designata non ne sape va ancora nulla.I suoi uomini mancavano di cibo e sotto la pioggia battente mangiavano patate crude rubate nei campi.I pastori del luogo li evitavano co me banditi, e banditi in un certo senso erano.Non avvezzi alle lunghe marce, si trascinavano senza sa perlo in circolo, sfatti e con i piedi piagati.Si disse che le guide li ingannavano, ma più probabilmente Garibaldi era in ribasso.Le truppe regolari furono così in grado di sorprenderli.Il 29 agosto ebbe luogo in Aspromonte quello che Cialdini nel suo rapporto ebbe la faccia tosta di chia mare un duro combattimento.Durò solo un dieci minuti.Lo sbrindellato esercito dei volontari non si aspettava che dei compatrioti aprissero il fuoco e aveva l'ordine di non sparare, tuttavia il gruppo co mandato da Menotti fu incapace di restar tranquillo senza rispondere.Sette soldati e cinque volontari fu rono uccisi.Dovettero mirare deliberatamente a Ga ribaldi in persona, giacché fu colpito due volte.Ma lamente ferito al malleolo, egli sedette, accese un sigaro e con calma disse di amputare subito se neces sario.Venne emesso un breve comunicato sulla sua resa, e di questo egli si offese.E straordinario, ma non riusciva ancora a vedere se stesso come ribelle e immaginava con piena sincerità di essere un coman dante indipendente o un cittadino del mondo, che avendo rinunciato a tutte le normali obbligazioni dello Stato poteva negoziare in proprio e doveva es sere trattato con onore.Affatto diverse erano però le idee di Cialdini.Fu una difficile discesa di quindici ore, giù per il versante montano, fino allo stretto dove Scilla guar da a Cariddi.Lungo tutta la notte, con una sola bre ve sosta nella capanna d'un pastore, il prigioniero fe rito venne sballonzolato dolorosamente.Arrivati alla costa, chiese con sicumera di essere messo su di una nave inglese, ma il suo catturatore lo fece issare come un bue a bordo di una cannoniera italiana.Passandogli accanto, Garibaldi fece il saluto a Cial dini, ma questi non degnò di rispondere.Si trattava di un traditore che aveva messo in pericolo la strut tura stessa dello Stato.L'eroe aveva perso lo stato di grazia.Alcuni suoi compagni, che avevano disertato dall'esercito per unirsi a lui, furono fucilati subito senza processo: Cialdini dimenticava volutamente che in circostanze simili la diserzione era stata quasi incoraggiata.E di contro, le truppe vittoriose in quello scontro meschi no e unilaterale furono ricompensate con settantasei medaglie al valore, e il colonnello comandante fu fatto generale, per tacere di molte altre promozioni.Il resto d'Italia non era però altrettanto orgoglioso della faccenda.I proclami regi vennero stracciati, ci furon schiamazzi e fischi, e per esempio a Messina la gente

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impedì che la banda suonasse nei giardini pubblici.Fu una reazione pubblica esasperata ma inutile.Quanto a Garibaldi, non aveva ottenuto né Roma né la morte.La sua fiducia nel re era scossa: certo non ci sarebbe stato bisogno di aprire il fuoco e poi di fucilare dei volontari al servizio del proprio paese.Molto maggiore era però l'imbarazzo del governo.Si doveva spiegare perché non lo avevano fermato in Sicilia, e decidere che fare del prigioniero.Il gabinetto dapprima voleva processarlo per al leggerire le accuse di complicità ministeriale; ma si obiettò che in un processo con giuria egli sarebbe stato assolto, a meno di svolgerlo nell'antigaribaldi na Torino.Rattazzi propose il tribunale militare, ma questo avrebbe sottratto all'amministrazione il so stegno popolare.L'intera questione fu abbandonata allorché un misterioso pezzo di carta comparve in una riunione del gabinetto; senza dubbio questo si gnifica che nel caso di un pubblico processo la certa connivenza del re avrebbe ricevuto una non deside rata pubblicità.Così il ribelle e traditore venne man dato libero senza condanne, anzi, perfino con un'aura di approvazione popolare, e si sentì pertan to incoraggiato a ripetere la ribellione in un favore vole momento del futuro.Né l'opinione pubblica né le persone importanti nei circoli governativi presero in considerazione quanto la cosa potesse nuocere all'educazione politica del paese.Garibaldi aveva subìto una frattura multipla al malleolo interno del piede destro.Era addirittura incerto se potesse sopravvivere.Il viaggio per mare a Genova era stato un lungo tormento, specie perché a bordo non c'erano medicine appropriate; il piede gli si gonfiò tanto, che per molte settimane nessuno seppe di sicuro se il proiettile era ancora nella ferita.L'amputazione venne presa in considerazione più volte.L'interesse mondiale era così alto, che ben ven titré chirurghi vennero da OgIU luogo per visitarlo, fino a che un medico francese riuscì infine a trovare il proiettile, che venne estratto dopo ottantasette giorni.Ammiratori inglesi di Garibaldi pagarono mille ghinee a un certo dottor Partridge per due visite al paziente.Lord Palmerston, il primo ministro, contri buì alla somma, e lady Palmerston inviò un letto pie ghevole per invalidi che si mostrò utilissimo.A Lon dra, scene obbrobriose si svolsero in Hyde Park allorché un'ostile plebaglia irlandese si abbandonò a eccessi gridando: No a Garibaldi! Per sempre il pa pa!.Ma nella comoda Inghilterra protestante, i cat tolici irlandesi rappresentavano una sbavatura di follia indegna di considerazione.Da tutto il mondo giungevano a Garibaldi ferito fiumi di sigari e di lettere; la stoffa tinta del suo san gue era una reliquia di cui si faceva tesoro.Egli era un personaggio pubblico, forse in quel momento la persona vivente più conosciuta e più amata del mondo.

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Capitolo 13

INGHILTERRA

1864

Ci vollero anni prima che la ferita di Garibaldi, dalla quale continuavano a emergere pezzetti d'osso, si ci catrizzasse. Forse in seguito egli non fu più lo stesso, fisicamente come moralmente.Non era facile dimenticare l'Aspromonte. Gli fu restituita la spada e un'amnistia fu accordata a tutti i volontari eccetto quelli che avevano disertato dall'esercito.Si dà un'amnistia solo a chi si considera colpevole, commentò Garibaldi; ma la colpa stava solo nell'aver fallito e compromesso il governo; la rivoluzione in sé non era sbagliata, tanto che le potenze costituite le avevano dato ogni possibile esempio e incitazione. A partire da questo momento si insinuò nelle opinioni di lui una nota nuova di petulanza; nel poema autobiografico che compilò da invalido costretto a letto non risparmiò nemmeno il re.Passò il 1863 portato in giro per Caprera su un'ele gante poltrona a ruote offerta da ammiratori stranie ri. Aveva la mano destra così paralizzata dall'artrite che spesso non riusciva a firmare.Il fatto che una sottoscrizione da lui aperta per aiutare i feriti dell'Aspromonte suscitasse scarso entusiasmo non giovò certo a calmargli l'animo. Si dimise con ostentazione dal parlamento, fornendo la scusa che trovava particolarmente spiacevole l'imposizione di un'aspra legge marziale sulle regioni meridionali, della cui annessione si sentiva responsabile.In ogni caso non si sentiva mai a suo agio nelle grosse riunioni pubbliche; con la sola eccezione dei congressi di lavoratori, perché, come egli scrive, fra la gente semplice si sentiva veramente a suo agio.Dal doloroso giaciglio cominciò a meditare una qualche fulgida impresa che lavasse la macchia dell'onore suo e dell'Italia.Scrisse quanto gli sarebbe piaciuto andare a combattere per la causa della li bertà in America, del quale Paese io sono cittadi no, e si rivolse all'Inghilterra perché aiutasse gli Stati americani del nord contro gli schiavisti.In buona salute, sarebbe quasi certamente andato a combattere per la Polonia contro la Russia: venne ro a Caprera emissari polacchi, e in Polonia alcuni garibaldini andarono a morire.E paradossale trovare Garibaldi a sostenere che ormai non ci dovevano più essere guerre e conquiste e che le armi andavano trasformate in mietitrici: nel lo stesso momento, egli continuava a esortare tutti gli italiani affinché affilassero le spade.Era la scom pigliata logica del suo particolare tipo di nazionali smo, che credeva in una guerra per porre fine alle guerre.Egli patrocinava un nazionalismo generaliz zato, non soltanto quello della nazione italiana.Avrebbe combattuto altrettanto prontamente per l'indipendenza della Germania, disse; e se l'Italia avesse a sua volta minacciato l'indipendenza degli Stati confinanti, sarebbe stato con dispiacere ma sen za fallo dalla parte degli oppressi.Con ingenuità, ma sinceramente, immaginava che le guerre sarebbero scomparse se tutte le nazioni fossero state libere; su questo fondamento, diversi suoi luogotenenti ven nero spediti a studiare la possibilità di avviare rivo luzioni in Transilvania e in Galizia.Nel 1864 Garibaldi si recò per la quarta volta a vi sitare l'Inghilterra.Fu un evento celebre, perché pri ma era sconosciuto e ora famoso.A Londra c'era già stato uno spettacolo musicale su Garibaldi; i biscotti Garibaldi e certe bluse chiamate Garibaldies erano di gran moda.L'Inghilterra non aveva forse fatto molti sacrifici per il Risorgimento, ma abbondò in un entu siasmo causato e concentrato principalmente su quel singolo uomo.Ormai assai poco popolare negli am bienti governativi italiani, in Inghilterra egli era an cora l'uomo che aveva conquistato mezza Italia al suo re.

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I corrispondenti dei giornali gli avevano dato la caccia; Thackeray gli aveva chiesto di scrivere un pezzo per il Cornhill Magazine, da lui diretto; va ri comitati e organizzazioni avevano fatto a gara per assumersi una sua visita in Inghilterra.Cittadini pri vati quasi cingevano d'assedio la sua casa.Alcuni di questi visitatori inglesi si accontentavano di fargli fe sta; altri provavano interesse per le sue idee sulla temperanza o sull'educazione dei lavoratori; altri ancora volevano consigliargli di lasciare il partito d'azione.In particolare i protestanti, guidati da Lord Shaftesbury, lo consideravano un'arma inviata da Dio contro il papa e uno strumento eccellente per la loro propaganda.Quando nel marzo del 1864 Garibaldi lasciò im provvisamente Caprera per l'Inghilterra, la notizia sorprese e scosse moltissimo gli italiani.L'attacco a Cavour, l'avventura dell'Aspromonte, il disprezzo per il parlamento come luogo inadatto a un uomo onesto erano tutte memorie recenti; mentre i grandi servizi da lui resi erano in dimenticanza oppure ve nivano attribuiti dagli storiografi ufficiali dello Stato ad altre persone.In politica interna, proprio in quel momento, l'equilibrio era instabile.E se Garibaldi in Inghilterra avesse raccolto denaro per un qualche nefasto proposito? Se vi avesse ricevuto un'acco glienza interpretabile come approvazione del partito democratico? Parlando a stranieri egli già si era la mentato che il governo imprigionava i suoi amici e limitava la sua libertà di parola.Simili accuse all'estero non avrebbero certo giovato all'ammini strazione.Non è facile scandagliare i precisi moventi del viaggio.Il suo segretario ci informa che poche deci sioni furono da lui studiate e considerate come que sta; ma egli rese dichiarazioni contrastanti, e mostrò di non sapere bene cosa mai sperasse di fare.Alcuni ebbero l'impressione che il governo britannico lo avesse invitato; altri che volesse prendere visione dei metodi agricoli inglesi; altri ancora che pensasse uti li alla salute un viaggio per mare e un mutamento di clima.Il dubbio più importante riguarda l'eventuale pre senza di una qualche grossa intenzione politica.Shaftesbury, che glielo chiese di punto in bianco, cre dette di comprendere che non aveva obiettivi politici e intendeva semplicemente ringraziare gli inglesi per il loro incoraggiamento al nazionalismo italiano.Però Guerzoni, che lo scortava, afferma categorica mente che molte idee politiche continuavano ad agi targlisi in testa.Garibaldi andava parlando di assi curare l'aiuto inglese alla Grecia, alla Polonia e a Venezìa, e di sfruttare la questione dello Schleswig Holstein per mobilitare qualche appoggio in favore della Danimarca contro l'Austria.Palmerston era de cisamente preoccupato di possibili disegni politici tanto che fece forti pressioni su tutti gli organizzatori inglesi: era importante rendere la visita di Garibaldi puramente privata, e io insisto che con la scusa del la salute egli rifiuti tutti i pranzi ufficiali, ai quali di rebbe cose sciocche mentre gli altri ne deriverebbero di nocive.Garibaldi invero tentò di evitare le dimostrazioni politiche; ma era un uomo troppo importante perché la sua visita fosse soltanto privata.Era una mistura di eroe, santo, capo nazionale, re senza corona della gente comune.La Peninsula and Orient Steamship Company, uno dei cui direttori era suo grande am miratore, dirottò appositamente un postale per im barcarlo a Caprera.Arrivando a Southampton in una piovosa domenica, trovò una folla enorme che gridava cchurrà agli ordini del sindaco.Mentre at traccavano Garibaldi sventolò il berretto e nel suo zoppicante inglese disse di essere vènuto a ringra ziare la gente per la sua simpatia.Il primo passo fu di andare a stare con un parla mentare nell'isola di Wight.Ricevette colà le visite di Shaftesbury e di Mazzini. e lì Tennyson, Poeta Lau reato, gli fece piantare

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un albero commemorativo e lo ascoltò recitare la sua poesia preferita, I Sepolcri di Foscolo.Su richiesta dell'ammiraglio Seymour si recò anche a visitare la base navale di Portsmouth, portatovi in un panfilo dell'Ammiraglia, e l'intera squadra inscenò manovre a fuoco per lui soltanto.Quando partì per Londra, gli fu riservato un treno speciale.Si reputa che le strade della capitale fossero tappezzate pressappoco da mezzo milione di perso ne; la folla aveva atteso tutta la mattina.Non si era mai visto nulla di simile; furono certamente le acco glienze più trionfali mai ricevute in Inghilterra da al cun visitatore.La carrozza impiegò sei ore per per correre un giro di tre miglia dalla stazione alla casa del duca di Sutherland, dove egli prese dimora.La processione era composta tra l'altro da associazioni di mutuo soccorso, società per la temperanza, uomi ni politici radicali e organizzazioni sindacali, dal Working Men's Garibaldi Demonstration Commit tee (Comitato dei lavoratori per le dimostrazioni a Garibaldi), nonché dal corpo privato di pompieri del duca.Herzen osservò che non ci furono affatto le abituali scene degli ubriachi e dei borsaioli: il popolo sentiva che quello era un festeggiamento tutto suo.Fu un episodio straordinario e memorabile.Alcuni personaggi importanti disapprovavano l'intera faccenda.La regina per esempio si disse quasi vergognosa di governare una nazione capace di simili follie; il rlmess> considerò la cosa volgare e plebea; Karl Marx, la cui idea di rivoluzione era af fatto diversa da quella di Garibaldi giudicò quanto vide un miserabile spettacolo d'imbecillità.Quasi unico fra i Tories, Disraeli rifiutò tutti gli inviti a co noscere quel pirata.Luigi Napoleone provò disgusto e preoccupazione, ritenendo che Garibaldi fosse sta to chiamato dal governo ir.glese perché servisse di minaccia all'Europa.Lord Clarendon, testimone del corteo trionfale, rassicuro l'imperatore.Era stato un grande spettacolo: Grande perché opera esclusiva delle classi lavoratrici, che guardavano a Garibaldi come a un vero eroe in quan to egli si era sollevato dalla loro stessa condizione... e in quanto era povero.Il popolo aveva mantenuto l'ordine per conto suo, senza l'aiuto di polizia o soldati, felice di condurre il proprio eroe alla casa di un duca e di vederlo preso per mano dall'aristocrazia.Per due settimane Garibaldi vittima innocente dei politici e dell'aristocrazia che lo trasformavano in di vo, fu alla moda nella stagione londinese.Quando visitò la Camera dei Lords, i vescovi gareggiarono per l'onore di una breve conversazione con lui.Si recò due volte all'opera.Florence Nightingale, che nemmeno con la monarchia andava d'accordo, lo supplicò di visitarla in incognito.In un ricevimento civico alla Guildhall egli bevve alla lo?nng cup, la tra dizionale coppa comune e ricevette la cittadinanza onoraria.Il futuro Edoardo VII, allora principe di Galles, si affrettò a Londra per visitarlo, sfidando la contrarietà della regina.Garibaldi cenò con Gladsto ne e pranzò con Lord John Russell, ministro degli Esteri.Prese la prima colazione al Reform Club e si vide offrire un banchetto nei lussuosi ambienti di Fi shmongers' Hall.Durante un pranzo in suo onore la banda delle Guardie del Corpo di Sua Maestà suonò musica patriottica italiana; una volta stupì tutti fu mando senza badarci nel salotto privato di una delle prime dame del paese.Tutte queste azioni erano pre rogative di una persona privilegiata.Perfino il Primo ministro, con la ferma intenzione di sottoporlo a un vero e proprio esame e di

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dargli qualche non richiesto consiglio politico, gli offrì una cena.I due ebbero un'ora di conversazione a quat tr'occhi, dalla quale Garibaldi emerse rosso in volto perché Palmerston aveva raccomandato di ritardare la rivoluzione a Venezia e lui replicato che non era mai troppo presto per rompere le catene degli schia vi, ovunque ce ne fossero.Quasi tutti gli eminenti personaggi pubblici d'In ghilterra sembravano intenti a respirare quel vento di follia.Garibaldi, a dispetto della gran noia e dell'avversione per ricevimenti e lunghi pasti pub blici, conservò pazientemente una posa da attore.In solitamente garbato e perspicace, era al tempo stesso l'eroe dal cuore sincero e il cortese gentiluomo, con giusto mezzo fra modestia e dignità.E tutto ciò per ché si poteva sempre sperare che la causa italiana si procacciasse simpatia e forse anche qualcosa di più grazie alla sua reputazione personale.Fece pertanto tutto ciò che stava bene fare.Si recò a Windsor e visitò Eton, dove i giovani gentiluomini lo accolsero con tre salve d'applausi.Ispezionò aziende agricole modello, declinando però il dono di un aratro a vapore che sarebbe stato inadoperabile sulle rocce di Caprera.Depose una corona sulla tom ba di FOSColo a Chiswick.Come tutti i visitatori dell'Inghilterra, andò alla birreria di Barclay e Perkins e bevve ai lavoratori del mondo, irritando alcuni dei suoi ospiti ufficiali, che non erano operai o che avversavano i liquori.Posò per ritratti, sculture e fotografie.Così il culto di lui crebbe e si moltiplicò: dalle aristocratiche maritate che appoggiandoglisi al braccio professavano amore imperituro, alle serve di Stafford House che vendevano bottiglie di acqua sa ponata del suo catino.In tutte le occasioni possibili egli lusingava i suoi ospiti, lodandone la politica e l'amore della legge e della libertà e proclamandosi inglese per cuore e fiero di esserlo.Ma questa vita artificiale di salotti e pranzi in realtà dispiaceva e a lui e ai suoi'sostenitori radicali; tanto che a volte se ne liberò in un modo che ai suoi ospiti d'alto lignaggio fece sospettare un qualche lo sco progetto.Alcuni radicali inglesi avevano sempre mirato a trasformare la sua visita in una dimostra zione popolare contro Luigi Napoleone e il conser vatorismo locale.Avevano in antipatia il modo in cui era stato catturato e soffocato dall'atmosfera stantia della Londra alla moda, e lo trovarono più che pron to quando gli consigliarono di evadere dalle strettoie della prassi ufficiale.Garibaldi andò così a vedere al cuni dei primi leader sindacali; risulta che in un di scorso dichiarò di desiderare più forti legami coi la voratori comuni, la classe a cui ho l'onore di appartenere, perché mi piace essere chiamato fra tello degli operai in ogni parte del mondo.Gli am bienti ufficiali non avrebbero trovato di che eccepire; ma non fu così quando al Crystal Palace egli fece im prudenti riferimenti a una guerra contro la Francia, o quando ricevette la visita di una deputazione da nese, poiché allora la frontiera danese era il luogo geografico più sensibile e vi si stava svolgendo una guerra che facilmente avrebbe potuto compromette re il resto dell'Europa.In seguito assicurò Speranza von Schwartz che in realtà si era recato in Inghilterra per ottenere aiuti ai danesi dello Schleswig-Holstein contro l'invasione austriaca e prussiana.Ciò dovette creare un grosso imbarazzo al governo britannico.Ebbe varie conversazioni con Mazzini; a una cena privata, cui presero parte i più celebri agitatori euro pei in esilio, brindò alla sua salute con un discorso che diceva tutta la sua ammirazione e il suo affetto per il vecchio rivoluzionario.Nessuno seppe che co sa mai potessero aver macchinato quei due nel loro incomprensibile dialetto genovese.

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Certamente Pal merston se ne preoccupò e cercò d'informarsene.Garibaldi spiegò che, se avesse trovato Mazzini nella prosperità, avrebbe evitato ogni equivoco col non vederlo; ma, trovatolo nell'avversità, non poteva di sfarsene.Veramente generoso, ma forse non del tutto politico.Quando Garibaldi lasciò improvvisamente l'In ghilterra per Caprera, la cosa fu rinfacciata al gover no britannico: si disse che esso aveva disapprovato i suoi rapporti coi radicali e con le classi inferiori e le sue pericolose trattative a favore della Danimarca e contro la Francia.Ma la faccenda è più complicata.Molti possenti gruppi erano stati avversi al suo viaggio inglese fin dall'inizio.Luigi Napoleone si era spaventato quando egli aveva fatto visita al peri coloso agitatore Louis Blanc.Il corpo degli amba sciatori, con la sola eccezione dei rappresentanti de gli Stati Uniti e della Turchia, aveva boicottato l'inte ro giro.In particolare l'ambasciatore italiano, supe rato in questo solo dall'austriaco, aveva chiaramente mostrato la disapprovazione del suo governo, e mol ti rispettabili cittadini italiani a Londra avevano se guito il suo esempio.Alcuni liberali inglesi, per esempio Gladstone, che era in stretto contatto con Torino, erano certa mente addolorati per le sue inclinazioni mazziniane; sia Gladstone che i protestanti erano poi afflitti per via della sua fede attenuata.I cattolici, attraverso il futuro cardinale Manning, proclamarono il loro di sgusto quando l'arcivescovo di Canterbury presen ziò a un ricevimento in onore di quel rappresentan te della rivoluzione socialista in Italia e di teorie che non ho bisogno di dèscrivere.Manning spiegò che nel dire questo non voleva farsi sostenitore dell'asso lutismo; tuttavia tutti i cattolici si sentirono obbligati a rimostrare quando ministri e pari onorarono senza vergogna il campione dell'unità italiana, causa per duta e malvagia.Il governo britannico, già sorpreso dall'imprevisto entusiasmo popolare, subiva dirette pressioni politi che affinché la visita non continuasse troppo a lungo o con troppe libertà.Da Francia, Belgio e Italia giun gevano piccanti proteste.La stessa regina Vittoria rinfacciava ai ministri i favori concessi a uno che si era apertamente ribellato al proprio governo.La protesta principale veniva dall'Italia, naturalmente.Henry Elliot scrisse da Torino della estrema irrita zione e fastidio ivi provati che non si poteva spe rar di placare.Di fatto le accoglienze inglesi a Gari baldi indebolivano il governo italiano, e per di più in un momento delicato in cui gli osservatori stranieri andavano descrivendo l'intensa inimicizia fra sini stra e destra nella politica italiana.Vittorie dell'op posizione in alcune elezioni marginali vennero attri buite a tali accoglienze.Lo stesso per i diffusi schiamazzi studenteschi contro i nuovi regolamenti d'esame, che proprio in quel momento costringeva no a chiudere le università su e giù per l'Italia. Il governo è indubbiamente malfermo, e tutto ciò che va male viene ora attribuito al modo in cui Garibaldi è stato ricevuto. Per tutte queste ragioni Palmerston non fu certo troppo contento quando venne annunciato che Gari baldi aveva accettato quasi cinquanta inviti da altre città inglesi per ripetere i successi londinesi e che al tri inviti ancora stavano venendo.I liberali, per esempio il Regius Professor di storia moderna dell'Università di Oxford, avevano preparato ovun que elaborati programmi per il trionfale giro delle province.La reazione ufficiale fu che ulteriori visite si sarebbero risolte in una delusione e, insieme, in un motivo di continua ansietà politica.Certamente una mezza dozzina di grosse città provinciali gli sarebbe ro bastate, tanto più che dal punto di vista medico si diceva che la sua salute già risentisse dello sforzo.Lo stesso Gladstone, Cancelliere dello Scacchiere, fu messo in causa per persuadere Garibaldi a

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limita re il giro nelle province.Il delicato compito fu svolto malamente.A parte le difficoltà linguistiche, Glad stone era troppo compito ed educato per essere per fettamente chiaro.Garibaldi credette di capire che la sua presenza non era più desiderata e decise im provvisamente di lasciare senz'altro l'Inghilterra.Lo pregarono di ripensarci, ché non quella era stata l'in tenzione; ma egli non cedette.A lungo andare aveva compreso che lo sperato sostegno politico non ci sa rebbe stato; era esausto di far tardi la notte e annoia to di un'attività sociale della quale capiva poco; gli dava ora molta noia il sospetto di poter riuscire di peso o perfino di destare diffidenza coi suoi disegni rivoluzionari.Un altro fattore secondario fu che a Menotti e al resto del seguito Londra non piaceva.Erano stati al loggiati separatamente in un modesto albergo e alla maggior parte dei festeggiamenti nessuno li aveva invitati.Spesso riuscivano a vedere Garibaldi solo in quanto egli si alzava alle cinque e mezza, tre ore in anticipo sul primo appuntamento.Forse questo aiu ta a comprendere come mai Guerzoni e gli altri dif fusero all'estero l'oltraggioso sospetto che gli inglesi lo avessero spinto ad andarsene, benché allora egli avesse pubblicamente negato la cosa.Mantenne un solo impegno, quello di visitare in Cornovaglia il colonnello Peard, suo vecchio compa gno d'armi.Lungo il percorso ci furono scene fanta stiche,; con le stazioni ferroviarie piene di folla che endeva da un'intera notte.Dalla Cornovaglia rila sciò una dichiarazione piena di lodi per la legalità, l'ordine e la libertà trovati in Inghilterra, per il senso di sicurezza del paese e per essere il suo esercito mondo ancora di quella lebbra dei tempi moderni che porta il tristo nome di militarismo.Dopo que sto gentile addio salpò da Fovvey, salutato dai canno ni, e il panfilo del duca di Sutherland lo riportò nel Mediterraneo.Senza dubbio la visita non aveva portato ad alcun risultato positivo o pratico; ma non si poteva negare che sotto ogni altro aspetto il suo successo era stato strepitoso.E un episodio bizzarro e chiarificatore della sua vita, che apre anche curiose prospettive sulla vita dell'Inghilterra vittoriana.

Capitolo 14

LA GUERRA PER VENEZIA

1865-1866

Un'altra ragione per la quale Garibaldi lasciò con tanta fretta l'Inghilterra fu che Vittorio Emanuele gli mandava messaggi concernenti una nuova guerra di liberazione contro l'Austria.Un colonnello prima e poi addirittura un generale erano giunti a Londra per invitarlo a compiere una spedizione in Galizia, prendendo l'Austria alle spalle. La proposta era stramba; una spedizione del genere aveva poche possibilità di successo e gli altri capi radicali gliela sconsigliarono vivamente.Mazzini in particolare aveva già sperimentato l'impostura delle macchinazioni regie.Sapeva che Vittorio Emanuele era più largo in idee grandiose che in aiuti pratici, e che di solito sotto l'apparenza superficiale di un di sinteressato patriottismo si nascondevano mire egoi stiche o

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dinastiche.Probabilmente, i moventi del re erano più d'uno.Senza dubbio intendeva allettare Garibaldi a lasciar l'Inghilterra, dove stava riscuotendo un trionfo trop po alto ed eclissando lo stesso trono. Un suddito così potente era pericoloso in Inghilterra; inviato nell'Eu ropa orientale, avrebbe probabilmente perso qualco sa della sua reputazione e smesso di dare tante noie.Si poteva contare che Garibaldi, alla più piccola assi curazione della Corte, avrebbe prontamente assunto la responsabilità di agire, cedendo poi ogni eventua le conquista e accettando di essere rinnegato in caso di fallimento.Per un tipo irresponsabile come Vitto rio Emanuele, avere un servitore ubbidiente nel prender le botte e nel passare i guadagni era una ten tazione troppo forte; di qui quasi nacque una nuova tragedia.n re stava di nuovo tentando una politica distinta da quella dei suoi ministri.Bramava di essere qual cosa di più di un monarca costituzionale, non mero simbolo ma vero e proprio leader, e forse il succes so di Garibaldi era andato alla testa anche a lui.Vit torio Emanuele si era già scontrato con la maggior parte dei suoi ministri sulla delimitazione dei poteri sovrani.Parecchi primi ministri erano stati licenziati di punto in bianco senza far appello al parlamento, e c'erano state numerose minacce di dimissioni.Era un punto debole e dolente della costituzione.Ovun que in Europa si passasse dalla monarchia assoluta a quella limitata, il periodo di transizione comportava difficili aggiustamenti che richiedevano moltissimo tatto, una ferma tradizione e una diffusa educazione alla prassi politica, tutte cose che nell'Italia di allora scarseggiavano.Subito dopo il rientro di Garibaldi, nel maggio del 1864, lo stesso misterioso colonnello Porcelli che era stato a trovarlo a Londra si presentò con un altro messaggio privato del re.Di quanto i due si dissero non trapelò parola; ma i principali garibaldini ven nero immediatamente convocati a Ischia per un con siglio di guerra.Garibaldi in persona salpò per l'iso la col panfilo del duca, rimasto a sua disposizione.Il luogo dell'incontro, in parte, fu scelto perché egli de siderava fare i bagni di fango per l'artrite.Era pro prio malato, doveva chiedere alla gente di non fargli visita; per ragioni di salute si era anche dimesso dal grado di gran maestro della massoneria.Forse l'esperienza inglese, dopo tutto, era stata troppo pe sante.I luogotenenti si mostrarono caparbiamente av versari a qualsiasi idea di rivoluzioni fuori d'Italia.Gli ricordarono che il re aveva i suoi interessi, che non sempre erano quelli del paese. Si progettava per esempio di trovare un trono nei Balcani al secondo genito del sovrano, il duca d'Aosta (lo stesso che nel 1870 divenne re di Spagna), e così i rivoluzionari avrebbero potuto trovarsi a fare da rampino in un mero intrigo dinastico.Per impedire a Garibaldi di assumersi il progetto galiziano, qualcuno lasciò tra pelare l'imbroglio ai giornali, e il re in gran fretta fe ce cadere l'intera faccenda.Tale provocata indiscre zione giornalistica costò il posto al segretario di Garibaldi Guerzoni, la cui reazione fu di battersi in duello con l'agente regio Porcelli.Dopo di ciò Garibaldi visse per qualche tempo ab bastanza tranquillo a Caprera.Possedeva ora un panfilo tutto suo, elegantemente attrezzato, il Prin cess Olga, costruito a Covves con legno di teak e rega latogli da ammiratori inglesi.Ma non aveva i mezzi per mantenerlo né, ormai, salute e inclinazione per i viaggi in mare.La barca si rovinava all'ancora, tanto che dopo alcuni anni la vendette al governo, con grande profitto (disse) di un intermediario.Le dichiarazioni rese nei successivi diciotto mesi mostrano che le sue idee e i suoi interessi restavano pressoché invariati, pur facendosi più taglienti e aci di nell'espressione.

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Deplorava spesso le tristi condi zioni d'Italia, dopo tutte le belle speranze nutrite.Era una storia di povertà in patria, di vergogna e umiliazione all'estero; gli italiani venivano educati miserevolmente e nel fisico erano inferiori alla razza tedesca. Il giorno in cui i contadini saranno educati nel vero, i tiranni e gli schiavi saranno impossibili sulla terra, questa la sua speranza per il futuro, ma era una prospettiva remota.Intanto non si occupava del parlamento e tentava di impedire che la sua candidatura facesse strada.I suoi pensieri immediati si appigliavano sempre alla liberazione nazionale: se non di Venezia dall'Au stria, allora magari di Nizza dalla Francia.Nel 1865 la sua inquietudine era giunta al punto che pensava di andare a combattere per l'indipendenza messica na contro l'imperatore Massimiliano: intuiva un alter ego nel rivoluzionario Benito Juárez, da cui qualche anno dopo prese il nome Benito Mussolini.Ci fu una speciale richiesta da lui fatta al re: che gli concedesse i pieni poteri di governare il sud come aveva fatto prima che Cavour lo mandasse via da Napoli, nel novembre del 1860.Qui veramente ave va messo il dito sul punto più cruciale.Dopo il 1860, il tentativo di governare il sud dalla remota Torino aveva prodotto una continua guerra civile e un dif fuso desiderio di riconquistare l'indipendenza sici liana e napoletana.Il governo era più odiato di quanto lo fossero stati i Borboni; e il giorno in cui fosse scoppiata una guerra contro l'Austria, ci sareb be stata in tutto il meridione una reazione catastrofi ca.La profezia non era lontana dal vero.Natural mente il re aveva buone ragioni per non osare di nominare quel pericoloso individuo dittatore virtua le del sud; e tuttavia, nel 1860 Garibaldi aveva mo strato come un idealista pittoresco e generoso potes se godervi di affetto e fedeltà meglio dei piatti burocrati che lo avevano sostituito.Nel 1866 giunse il giorno lungamente atteso di un'altra guerra per togliere Venezia all'Austria.Il morale italiano aveva un gran bisogno di una vitto ria importante, che suggellasse e giustificasse la ri voluzione nazionale.Per tale scopo la produzione di armamenti era divenuta la prima voce nelle spese nazionali, e al paese veniva imposto un tremendo onere di tasse pur di suscitare la transeunte euforia del successo militare.Era un punto dolente che la Lombardia fosse stata un dono di Luigi Napoleone, Napoli e la Sicilia di Garibaldi la Toscana e la Roma gna di quegli italiani centrali che avevano insistito per essere annessi.C'era ora gran bisogno di un fatto d'armi straordinario, che sancisse nell'Italia una grande nazione e trasformasse così in poesia la prosa della vita nazionale.Nel 1866 si era infine potuto profittare della riusci ta provocazione alla guerra di Bismarck.Questi ba dava solo ad affermare la supremazia della Prussia sull'Austria in Germania; ma un alleato che divides se le forze nemiche gli fece piacere.L'Austria offrì di cedere subito Venezia se l'Italia fosse restata fuori dalla guerra; ma il governo, che aveva in mente di conquistare Trieste, dove si parla italiano, e anche il Tirolo, rifiutò.Si tenne deliberatamente Garibaldi fuori del quadro il più a lungo possibile.Gli dissero che avrebbe comandato di nuovo un corpo di volon tari; ma fino all'ultimo momento lo costrinsero a re stare a Caprera, in modo che non interferisse meno mamente nell'organizzazione degli uomini che pur doveva comandare o nei piani strategici.Alcuni sostennero in seguito che l'intera prepara zione e condotta della guerra fu così difettosa, che la scelta di un piano strategico piuttosto di un altro non aveva alcuna importanza.Il re preavvisò segre tamente Garibaldi a Caprera che i volontari sareb bero stati probabilmente sbarcati sulla costa dalma ta, dal momento che tale progetto rispondeva al piano di campagna germanico e attirava i volontari stessi.L'idea di un comando remoto e indipenden te, nel quale non avrebbe dovuto collaborare con al tri

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generali e fare i conti con uno schema più vasto, piaceva a Garibaldi.Inoltre preferiva una guerra ri voluzionaria e contava su di una ribellione slava contro l'Austria nel settore adriatico.Senza perder tempo, si diede a preparare carte strategiche e a in viare gente che organizzasse la rivoluzione sul po sto.Ma poi il piano fu mutato all'improvviso e gli or dinarono di andare nel rlrolo.Il generale Lamarmo ra, ora primo ministro, decise di non rischiare cosa alcuna che somigliasse a una guerra d'insurrezione popolare e di non badare affatto ai piani strategici te deschi.Voleva che l'Italia combattesse la sua propria guerra e puntasse ogni cosa su di un attacco frontale al quadrilatero di fortezze su cui l'Austria impernia va il suo potere nell'Italia settentrionale.In seguito quasi nessuno giustificò tale decisione.Il 10 giugno, proprio prima dello scoppio della guerra, Garibaldi ebbe il permesso di lasciare Capre ra.Era molto eccitato all'idea di combattere ancora.Tagliò nuovamente, secondo i regolamenti, gran par te della barba e dei capelli.Lo avevano convinto che si potevano riunire almeno centomila volontari, ma Lamarmora gliene concesse solo 35 000, dei quali quasi la metà fu trattenuta nel tallone d'Italia, lonta nissimo dal fronte.Ebbero il permesso di vestire la camicia rossa, ma anche stavolta le loro armi erano inferiori a quelle dei regolari, pezzi da museo, si disse; e le lungaggini nel reclutamento e nell'orga nizzazione portarono Garibaldi a pensare che c'era no di nuovo ragioni politiche per le quali non si vo leva che gli irregolari rubassero gli applausi della ribalta.L'esercito volontario andava ormai identifi candosi con la sinistra e i regolari con la destra con servatrice cui apparteneva lo stesso generale Lamar mora.Garibaldi stabilì il quartier generale a Salò, sul Garda.Ci furono grandi difficoltà per mettere di colpo in sesto i volontari raccogliticci, nominare gli ufficiali, creare un'amministrazione, dar vita agli in dispensabili regolamenti.Tutti dovettero studiare, almeno nei rudimenti, la speciale natura della guer ra irregolare.In ogni reggimento, con gli uomini più rapidi e audaci, si formarono gruppi di arditi che sarebbero andati avanti per conto loro a tagliare ferrovie e installazioni elettriche dietro le linee ne miche.Le istruzioni emesse ci mostrano quello che si do veva imparare.Il più grosso pericolo per le unità vo lontarie sta nel contagio del panico improvviso; chiunque mostra paura deve essere subito preso a calci.Negli scontri di piccoli gruppi ci si impegni so lo con grande cautela, perché perfino le piccole rotte possono risultare disastrose per il morale; a nessun costo si lascino indietro feriti che il nemico possa fa re prigionieri.I volontari hanno sempre bisogno di conoscere la ragione di ogni cosa: gli ufficiali devono spiegare con cura il come e il perché dei successi e delle sconfitte.Istruzioni accurate e frequenti impri mano nella testa di tutti che le perdite più gravi si patiscono fuggendo dal nemico, mentre i valorosi vincono sempre e ne muoiono pochi.Gli irregolari imparino ad attaccare non in massa, ma in formazio ne aperta.Si impadroniscano sempre di una qualche altura dominante prima di attaccare una posizione fortemente difesa.L'equipaggiamento sia perfetta mente pulito e gli uomini di tutti i gradi prendano frequenti bagni nel lago.Numericamente, gli italiani erano molto superiori alle forze che l'Austria poteva usare sul fronte meri dionale, ma erano poveri in fatto di equipaggiamen to e di comandi.Il re si riteneva uno stratega nato e a volte interferì troppo.I due comandanti, Cialdini e Lamarmora, erano intensamente gelosi l'uno dell'al tro e spesso agirono in proprio senza coordinazione.

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La concezione strategica fondamentale era quasi cer tamente sbagliata: si istihlì un fronte lungo e disper so contro fortezze dalle quali il nemico poteva facil mente scegliere dove concentrarsi.Dopo qualche finta preliminare, l'attacco austriaco fu sferrato sulla sinistra italiana.Nel giro di pochi giorni una piccola sconfitta a Custoza fece barcollare indietro l'esercito italiano di quasi cinquanta chilo metri senza che nemmeno lo inseguissero, lasciando scoperta l'intera Lombardia.Fu un colpo terribile per lo spirito della truppa.A ciò fece seguito una di sfatta navale a Lissa, colpevole affare anche questo, nel quale dodici corazzate furono battute da sette e il mero numero venne surclassato da un'abilità infini tamente più grande e dalla migliore disciplina.Gari baldi, ammiraglio esperto, ebbe parole amare.Il ma teriale umano degli equipaggi italiani era ottimo, ma gli ufficiali venivano scelti con nepotismo da una classe privilegiata.Caso tipico quello dello stesso co mandante a Lissa, ammiraglio Persano; che ora fosse incriminato davanti al Senato e che i suoi pari gli to gliessero grado e stipendio, era una scarsa consola zione.La sola memorabile vittoria italiana del 1866 la ot tenne Garibaldi: cosa tanto più notevole, in quanto non era più il veemente capitano ma un uomo ormai anziano afflitto dai reumi, e inoltre costretto da una leggera ferita a dirigere le operazioni da una carroz za.Nemmeno i suoi uomini erano più gli stessi.Do po il 1860 i migliori generali volontari erano entrati nell'esercito regolare; i quadri e la truppa avevano ricevuto solo pochi giorni di disciplina.Mancavano di cappotti contro il freddo e la pioggia montani e di armi precise a canna rigata, tanto che il nemico, pra tico di guerra alpina, li considerava un giocattolo da ridere.Ma questa volta i garibaldini erano superiori di numero, e il loro coraggio era sempre lo stesso.Inoltre l'Austria, pesantemente sconfitta dai prussia ni a Sadovva, non aveva voglia di fare l'aggressiva sul fronte meridionale.I volontari riponevano in Ga ribaldi una fiducia completa e cieca.Uno di essi dis se che nella sua voce gentile e insinuante stava la piena autorità di un Cesare, e che mai nessuno usò rispondergli o contraddirlo.Alcuni criticarono privatamente la sua direzione della campagna alpina, soprattutto perché aveva permesso agli avversari di imporre il loro piano.Ma su un terreno di quel tipo aveva poco spazio per ma novrare; e resta il fatto che spinse indietro gli au striaci, giungendo a dominare le due valli che dal Garda conducono a Trento.Il suo senso tattico fu de cisivo, specialmente nella presa del villaggio di Bez zecca.Benché dalla carrozza non potesse osservare dovutamente il terreno, il suo arrivo pose immediato rimedio a una situazione difficile; intuì subito dove piazzare l'artiglieria e quali fossero i punti più im portanti da occupare.Fermò così un'avanzata au striaca giù per la valle e anzi aprì la via verso il Tiro lo.Proprio in quel momento i prussiani chiusero la guerra, dalla quale avevano ottenuto tutto ciò che volevano, lasciando l'Italia a uscirne quanto meglio potesse.Come risultato l'Italia ebbe Venezia; ma l'Austria, non volendola cedere a un nemico così convincente mente sconfitto a Custoza e a Lissa, la diede con sde gno alla Francia, che la passò a Vittorio Emanuele come merce di seconda mano.Si dovette abbando nare ogni speranza su Trieste e Trento e la frontiera italiana nordorientale restò apertissima e impossibi le a difendersi.Il tutto risultò in un inutile spreco di vite umane, perché l'Austria aveva offerto Venezia prima che la guerra cominciasse.Il regno appena co struito fu pervaso da un senso di facile umiliazione, specie quando, proprio nel culmine della disfatta, ministri e generali cominciarono a disputare in pub blico di chi fosse la colpa.

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Nemmeno Garibaldi se ne esentò. Era già in vista di Trento quando gli avevano detto che c'era l'armistizio e che doveva retrocedere, e nel suo brevissimo stile aveva risposto: Obbedisco.Ma il giorno stesso, il 9 agosto, mise fuori un caustico proclama ai volontari, nel quale biasimava i suoi superiori per quanto era accaduto e raccontava il trattamento gesuitico patito, le non mantenute promesse di rifornimenti adeguati, l'animosità politica contro le sue forze irregolari.Ciò che più lo feriva era che i villaggi alpini non si erano sollevati, come aveva sperato, per aiutarlo a cacciare gli austriaci. Si poteva forse perdonare a Venezia di non aver mostrato segni di eccitazione all'approssimarsi dei liberatori, perché era sotto guarnigione austriaca; ma nemmeno nel silenzio delle campagne c'era stata alcuna azione, nemmeno contro soldati nemici isolati che scappavano in fretta carichi di bottino. Sembrava che l'ultima cosa voluta dal popolo fosse proprio un'Italia libera e rigenerata: tanta apatia mostrava che non valeva quasi la pena di forzarlo alla libertà. Non un solo contadino si era presentato volontario per combattere. Evidentemente la classe italiana più vigorosa e lavoratrice, che era di gran lunga anche la più numerosa, si considerava neutrale o addirittura dalla parte del nemico.

Capitolo 15

LA SCONFITTA DI MENTANA

1867

Il successivo capitolo della storia di Garibaldi contie ne una delle sue poche sconfitte militari, tanto più penosa perché a opera della Francia e del papato. Nel 1867 aveva sessant'anni.Nei due anni precedenti la chioma gli si era sensibilmente ridotta e im biancata; il suo pallido viso rifletteva dolore, soffe renze e a detta di alcuni una specie di invecchiamento precoce.Ma vestiva sempre nello stesso identico mo do, con l'inevitabile blusa rossa e il berretto ricamato che qualcuna fra le sue amiche gli regalava ogni anno. A dispetto delle apparenze, il suo spirito era eccitabile e focoso come sempre. All'inizio del 1867 lasciò di nuovo Caprera per fare la campagna elettorale in favore di amici della sinistra.Voleva che i vecchi rappresentanti fossero spazzati via, giacché la vergogna di Custoza e di Lissa era certo connessa alla corruzione e alla servilità parlamentari. Era strano trovarlo tanto interessato alle elezioni; ma di lì a poco si capì che la campagna gli serviva di pretesto per suscitare entusiasmo alla conquista di Roma.I suoi amici candidati tremavano al pensiero di quello che da un momento all'altro egli poteva dire, perché la faccenda di Roma era diventata una sua ossessione.Sfortunatamente gli italiani erano debitori di Venezia alla Prussia, quasi il ritornello della sua canzone, e solo un travolgente movimento popolare avrebbe lavato via la mortificazione della sconfitta; solo una insurrezione nata in Italia avrebbe mostrato che la nazione era qualcosa di desiderato e di desiderabile, e non un mero portato artificiale delle circostanze e del concerto europeo. Questo il messaggio che Garibaldi trasmise in ogni città dalla finestra o dal balcone del suo albergo; e le caldissime accoglienze ricevute gli fecero erroneamente credere che tutti attendessero la sua parola. In quegli stessi discorsi la sua animosità politica contro il Vaticano andava mescolandosi a interessanti frasi riguardanti una nuova rivelazione e religione naturale del Cristo, che faceva a meno di preti, altari e dottrine.Sembra che anche in questo trovasse buon pubblico; gli applausi gli diedero l'illusione di iniziarne una rinascita religiosa con se stesso come profeta, una religione nella quale tutti avrebbero istintivamente aiutato gli sventurati e combattuto contro i tiranni politici e spirituali.La cosa si fece ridicola quando egli presunse di battezzare nel nome del Signore i pargoli che gli

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venivano sottoposti; e tuttavia pochissimi gli risero in faccia. Che potesse abbandonarsi a tale comportamento dice molto in favore del suo prestigio; ma è anche significativo il fatto che il piccolo elettorato di persone abbienti fosse pronto a eleggere lui ma non qualcuno fra i sei candidati che egli raccomandava. Rattazzi, l'uomo dell'Aspromonte, tornò al potere come primo ministro. Lo scopo immediato di Garibaldi non era religioso ma politico: cacciare il papa da Roma.Ricordava alla gente che nella Roma rivoluzionaria del 1849 l'assemblea repubblicana eletta gli aveva concesso i pieni poteri, in virtù dei quali protestava ora contro la pestilenziale istituzione, il papato. Contro la negazione di Dio governante l'Urbe venivano invocate la giustizia e la legge internazionale, e il governo del papa era audacemente dichiarato illegale.Que sto nel marzo del 1867. Ricciotti Garibaldi ricevette allora l'ordine di raccoglier denaro nella protestante Inghilterra; un fondo per campagne militari ebbe un grosso contributo dal ricco finanziere Adriano Lemmi, che aveva sotto sotto la maggior parte delle insurrezioni mazziniane.Un proclama ingiunse a tutte le patriote di rimettersi a fare camicie rosse. Si stabilirono contatti con i comitati rivoluzionari di Roma e i romani furono rimproverati per non essere insorti alcuni mesi prima, allorché le guarnigioni francesi erano state ritirate.Nel giugno una deputazione da Roma si recò addirittura a visitare Garibaldi. Credulo come sempre, egli non penetrò al di là della loro fiorita retorica e si contentò di assumere che quei pretesi rivoluzionari parlassero sul serio.Poteva sempre credere ciò che voleva credere, e spesso non teneva conto del tipo di persona con cui trattava. Nella sua mente si formò così la convinzione che il popolo volesse a ogni costo una guerra rivoluzionaria per Roma. Ai primi di settembre, Garibaldi comparve improvvisamente a un congresso tenuto a Ginevra dalla Lega internazionale per la pace e la libertà.Chi fece con lui il viaggio attraverso la Svizzera notò che era un po' sorpreso e ferito di non ricevere dimostrazioni popolari più ferventi: benché sempre modesto e dimesso per natura, si era abituato ormai agli applausi come a un diritto. Questa volta la Svizzera non gli piacque.Evidentemente, fra protestantesimo e cattolicesimo non c'era dopo tutto molto da scegliere.Nemmeno il congresso gli piacque molto; si fermò solo quanto bastava per tenere ai delegati un'affrettata conferenza sulla soluzione di tutti i problemi del mondo, poi sloggiò lasciando dietro di sé un iroso bisbiglio di controversie e di indignazione.Ai congressisti disse che i loro scopi dovevano essere, primo, distruggere ovunque il dispotismo; secondo, abolire la guerra; terzo, introdurre la democrazia come solo rimedio efficace contro la guerra stessa. Bisognava dare una fine legale al papato, e il congresso doveva adottare la religione di Dio... intendo... la religione della verità e della ragione: il che significava supplire al sacerdozio delle rivelazioni e della ignoranza col sacerdozio della scienza e dell'intelligenza.Per giudicare delle controversie fra nazioni, si doveva formare una società internazionale i cui membri andavano scelti democratica mente nel popolo.Garibaldi non si aspettava forse che un simile programma venisse approvato; ad ogni modo, non attese nemmeno che fosse discusso. Si sentiva sempre fuori posto nelle assemblee, dove lo circondavano uomini più abili, loquaci e raziocinanti di lui.Era di nuovo tempo di gesta, non di parole; e si stava preparando l'insurrezione per la presa di Roma. Anche per la spedizione che portò a Mentana, la misura della complicità governativa è difficile a stabilirsi; ma merita di essere discussa, perché l'intera faccenda mostra negli ambienti ufficiali un grado d'incompetenza e irresponsabilità tale che la condotta di Garibaldi ne esce in gran parte spiegata e giustificata. A un amico egli disse che non avrebbe mai osato marciare su Roma con forze così piccole se non vi fosse stato spinto da emissari del governo italiano; lo avevano assicurato che alcuni spari in aria sarebbero bastati a provocare la rivoluzione, e che l'esercito italiano ne avrebbe tratto pretesto d'invasione per restaurare l'ordine.Questa la versione di Garibaldi forse esagerata o forse frutto di una costruzione seminconscia; qual siasi cenno fattogli poteva facilmente essere abba stanza vago per portarlo, con o senza intenzione, a un equivoco. Certo si è che la politica del governo apparve esitante e contraddittoria

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non meno che ai tempi dell'Aspromonte. Senza dubbio Rattazzi avrebbe favorito e forse anche sostenuto una rivoluzione spontanea a Roma; ma non poteva essere entusiasta di una invasione garibaldina, che avrebbe permesso all'Europa di parlare di insurrezione prefabbricata.Forse il Primo ministro sottovalutava la determinazione di Garibaldi e riteneva che in caso di necessità il governo avrebbe sempre potuto imporsi e fermare la rivolta. Forse cercava solo di guadagnar tempo per vedere come andava a finire. Forse, ancora, temeva la forza dell'opinione pubblica e di sembrare un burattino della Francia se si fosse opposto troppo apertamente al movimento nazionale. E lo stesso generale Cialdini a dirci che in quel momento le condizioni dell'opinione pubblica rendevano impossibile qualsiasi governo che non venisse prima a patti con Garibaldi. Comunque un veto reciso di Rattazzi non ci fu, e certo ci fu anzi una certa tiepida connivenza. Uno dei primi ufficiali di Garibaldi visitò più volte privatamente il capo della polizia e sembra ne abbia ricevuto l'assicurazione che il governo poteva sostenere una rivoluzione.Alcuni dei fucili di Garibaldi venivano dai magazzini governativi, con l'ovvio permesso delle autorità. Si sospetta che Elliot non sbagliasse di molto quando scriveva:

Gli uomini di governo italiani mostrano una gran mancanza di coraggio nell'occuparsi di questi progetti; sono così spaventati dell'accusa di reprimere l'ardore dei patrioti, che finiscono per lasciarsi tirar dentro in una sorta di mezza confidenza, la quale li fa sembrare partecipi di progetti che in realtà disapprovano. Non hanno ancora scoperto il modo di mettere le mani nella pece conservando le dita pulite.Una volta di più, era un tentativo di seguire la po litica di Cavour senza la sua finezza. Garibaldi non tenne alcun conto di quelle oscillazioni. Ritenne che il governo non volesse né potesse fermarlo e che tutte le indicazioni contrarie fossero fumo per ingannare il resto dell'Europa.Aveva ragionato esattamente così nel 1860 partendo con i Mille, e gli era arriso un grande successo; dopo tante ripetizioni, tutta la complicata farsa diventava qualcosa di familiare.Questa volta però le cose si misero male, perché Rattazzi era troppo sottile e mutevole per tenere una condotta consistente. Nelle primissime ore del 24 settembre Garibaldi fu arrestato a non molte miglia dalla frontiera pontificia. La notizia fu accolta da tumultuose proteste, specie in quanto l'arresto violava l'immunità di un deputato. Rinchiuso ad Alessandria, la vittima riuscì ad arringare le sue guardie e fu da esse salutato col grido A Roma!.Jessie White andò a visitarlo in prigione, recandogli la tinozza portatile che nella fretta egli aveva abbandonata e che era diventata uno dei suoi più indispensabili effetti personali.Egli le consegnò irose lettere di prote sta, nelle quali reclamava naturalizzazione e protezione sia dalla Gran Bretagna che dagli Stati Uniti e dichiarava di non voler restar cittadino di un paese il cui governo si comportava così male. Il prigioniero fu spedito in gran fretta a Caprera : Rattazzi non osava sottoporlo a un processo, ed era noto che le malsane prigioni di Alessandria valevano una sentenza di morte. L'isola era in quarantena per colera, sicché sfuggirne non sarebbe stato facile. Ma per esser del tutto sicuri, nientemeno che nove navi da guerra passarono alcune settimane a imporre il blocco e non era piccola parte della marina ita liana.Senza dubbio l'intenzione principale di Rattazzi nell'ordinare una così stretta custodia non fu di porre fine alla rivoluzione, ma piuttosto di provare all'Europa che eventuali altre insurrezioni negli Stati pontifici erano spontanee, disponendo Garibaldi di un forzato alibi.Le lettere e il diario di Crispi mostrano che sotto quel falso atteggiamento il governo continuò a passare denaro per l'organizzazione dei volontari. Una insurrezione spontanea avrebbe permesso al re di passare la frontiera con la scusa di conservare legge e ordine.Garibaldi doveva saperlo, tanto che contribuì dando l'istruzione segreta che il putsch continuasse senza di lui sotto la guida del figlio Menotti. Al principio di ottobre diverse bande irruppero in territorio pontificio; ma i romani restarono imperturbabili, rendendo così incredibile l'intera faccenda. La notizia era tremenda, e Rattazzi se avesse potuto si sarebbe probabilmente tirato indietro; ma era troppo tardi. I fratelli Cairoli con la loro banda di contrabbandieri erano al di là della frontiera. E Garibaldi, che sia Crispi sia Rattazzi volevano a Caprera per salvare le

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apparenze, ricevette da altra fonte parola che il governo rinunciava e gli consigliava di evadere per capeggiare personalmente la rivolta. La sola speranza dei rivoluzionari era ormai quella di compromettere l'amministrazione. Si poteva forse forzare il governo a invadere i territori pontifici per sostenere la rivolta o magari per schiacciarla e poi annettersi le nuove province.Dell'evasione da Caprera Garibaldi era particolarmente fiero, più che di altre e maggiori imprese della sua vita. Lemmi pagò una piccola imbarcazione che si trascinò dietro il blocco a un'isola vicina. Garibal di, con la barba tinta di nero e un amico a impersonarlo camminando con le grucce sulla terrazza, passò durante una tempesta accanto alle navi da guerra in attesa e raggiunse la casa di Mrs. Collins alla Maddalena, dove trascorse la notte.Una lunga cavalcata e un viaggio in barca sulla rotta di Montecristo, e raggiunsero una carrozza che li aspettava nei pressi di Livorno. Il 20 ottobre era a Firenze, recentemente successa a Torino come capitale nazionale e sede del governo. Nessuno osò mettergli le mani addosso, nemmeno quando si rivolse alla folla davanti a Santa Maria Novella. In un provocatorio discorso citò gli Stati Uniti come esempio di nazione che aveva gloriosamente combattuto per diventare la più libera e potente del mondó. L'Italia si aspetta che ognuno compia il suo dovere, affermò con le parole di uno degli eroi che più amava, Nelson. Un osservatore commentò che ciò malgrado i fiorentini non si lasciarono commuovere. Attendevano tutti di vedere se il governo era con lui.E difficile dubitare che di tali eventi Rattazzi intendesse servirsi per ricattare Luigi Napoleone a lasciar entrare l'Italia in Roma. Il suo argomento grossolanamente sofistico era che il papa non disponeva di un esercito adeguato a fronteggiare quelle continue rivoluzioni, mentre un governo italiano a Roma ci sarebbe riuscito facilmente.Per dimostrare che la Roma papale era pronta alla rivoluzione e inoltre per conservarsi l'aiuto parlamentare di Crispi e della sinistra, il Primo ministro aveva approvato per metà l'ormai già avvenuta piccola invasione di Menotti e dei Cairoli. Una volta cominciata la rivoluzione, Rattazzi non poteva però procedere a rovescio senza compromettere la sua astuta manovra.Non arrestò più Garibaldi, e Luigi Napoleone, vedendo che gli italiani facevano il doppio gioco, annunciò il ritorno delle truppe francesi a difesa del papa. Rattazzi non riuscì a decidere se subire o sfidare l'opposizione francese, e allora il re subentrò ancora una volta al governo con una politica sua. Vittorio Emanuele non aveva certo il calibro del re dittatore : era meschino, dedicava tempo ed energia a interessi privati e personali. Ma l'illusione di governare lo solleticava.Quando Luigi Napoleone rimandò le truppe a Roma, il re, lo confidò egli stesso al rappresentante britannico Paget, volle tentare di coprire l'accaduto collaborando coi francesi contro Garibaldi.In altri tempi avrebbe combattuto contro la Francia; ma ora il suo esercito era troppo debole, almeno diceva lui. Passò pertanto oltre ai suoi dilazionanti ministri, dando ordini precisi per l'arresto di Garibaldi. Rattazzi si dimise. Se dobbiamo credere a quel che disse a Paget, avrebbe preferito una guerra contro la Fran cia piuttosto che contro Garibaldi.Ma di fatto non osava andare né avanti né indietro e poteva ora tirarsi fuori con la scusa di non assumersi la responsabilità dell'imposizione regia. Il re, come sempre nei momenti difficili, prese come primo ministro un militare, prima Cialdini e poi Menabrea. Rattazzi, che non aveva avuto il coraggio di farlo lui stesso, sembra abbia consigliato a Cialdini di arrestare subito Garibaldi.Invece Cialdini ricorse a un colloquio con Garibaldi nella casa di Crispi il quale disse in seguito al parlamento che solo la disorganizzazione dell'esercito aveva impedito al Primo ministro designato di ordinare alle forze nazionali l'immediata marcia su Roma.Prima che si potesse costituire un nuovo governo passarono otto giorni di crisi politica, durante i quali Garibaldi visse affatto indisturbato, mentre tutto faceva credere nell'appoggio segreto delle autorità. L'occasione fu perfetta. Mentre il popolo lo acclamava davanti all'albergo fiorentino, egli scivolò via dalla porta posteriore e raggiunse un treno speciale che Crispi teneva pronto a partire per la frontiera papale. Da ultimo fu emanato l'ordine d'arrestarlo, ma Crispi lo mise in guardia e la cosa servì solo a fargli passare più in fretta la frontiera per unirsi a Menotti.Iniziata la marcia su Roma, venne emesso un patetico proclama contenente la presunta

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informazione che nella città santa si erigevano le barricate. Questo il piano; ma l'insurrezione romana, che secondo gli ordini doveva coincidere con l'invasione, si mostrò cosa assai meschina.Gregorovius, allora a Roma per dare l'ultima mano alla sua grande storia del medioevo, ebbe l'impressione che un temporale fosse bastato a disperderla. Gli abitanti dello Stato pontificio non sembravano eccessivamente ansiosi di sottoporsi alle più alte tasse dei sudditi di Vittorio Emanuele. I nazionalisti attribuivano la cosa a una depressione portata da secoli di governo clericale, ma il papa ne condudeva che i suoi sudditi fossero sinceramente soddisfatti.In entrambe le interpretazioni c'e probabilmente del vero. Quell'esercito invasore non si comportò meglio degli altri, sicché non ci si deve forse meravigliare di così tiepide accoglienze.Era inevitabile che una forza reclutata con tanta fretta comprendesse anche stavolta persone di varia qualità e provenienza. I loro sentimenti democratici erano talvolta di impedimento alla disciplina, specie quando li guidavano giovani ufficiali senza esperienza.Alcuni erano di quei cafoni e disoccupati buoni a nulla, che in vari momenti storici contribuiscono a gonfiare le schiere dei combattenti, che siano condottieri, fascisti o in certi casi partigiani.Garibal di riconobbe pubblicamente questo fattore e i vergognosi atti commessi. Non era più in grado di fermare un crollo del mo rale. C'erano le solite proteste sul rancio scarso e sul tempo.L'invasione era stata tanto rinviata che dopo il primo scontro quei soldati improvvisati ed esausti non ebbero più dove riposare se non nel fango. Un altro crudele scherzo del destino volle che si scontrassero con un secondo gruppo di volontari non autorizzati, i quali agivano indipendentemente e giunsero al punto di tagliare la linea ferroviaria da cui i garibaldini dipendevano. Verso la fine di ottobre sopraggiunse la notizia dello sbarco francese.Per coronare la cosa, il nuovo Primo ministro, generale Menabrea, sconfessò formalmente Garibaldi e annunciò che l'esercito nazionale avrebbe fatto massa coi francesi contro di essi.Le truppe italiane oltrepassarono la frontiera per restaurare l'ordine. Questo fu il colpo più duro, che fece moltiplicare le diserzioni fra gli indisciplinati franchi tiratori.Garibaldi ebbe il successo iniziale di prendere la roccaforte di Monterotondo; ma non poteva rimediare alla mancanza di un piano e a un sistema di rifornimenti improvvisato e lacunoso.Questo lo svantaggio di essere un grande tattico senza essere altrettanto grande come stratega e ufficiale di stato maggiore. L'aiuto di una ribellione a Roma continuava a difettargli e i contadini non lo informavano dei movimenti nemici, sicché mancava solo l'arrivo delle truppe francesi per rendere la situazione del tutto insostenibile.Enrico Cairoli, nel tentativo di introdurre armi in Roma per via ferroviaria e fluviale, incontrò una mor te eroica proprio sotto le mura della città; ma l'eroismo non bastava. L'unica cosa sensata sarebbe stata ritirarsi ma Garibaldi era in vista di Roma e sdegnava di abbandonare il campo senza combattere. La battaglia di Mentana ebbe luogo il 3 novembre.Il nemico era assai più numeroso, ed egli stesso confessò che i suoi uomini non combatterono bene; era un compito in sé disperato. I francesi ebbero due morti, i pontifici trenta; i garibaldini persero solo 1.600 prigionieri. Fu una vittoria della mitraglia e dei nuovi chassepots che sparavano dodici volte al minuto. Per lo meno così dissero i francesi volendo che il mondo apprezzasse la forza della loro nuova arma. Ma tennero segreto che in quella loro prima grande prova i nuovi fucili avevano mostrato di incepparsi e scaldarsi troppo per essere impugnati, tanto che si era dovuto sostituirli quasi tutti e ripararli a fondo.Garibaldi riuscì a oltrepassare di corsa la frontiera italiana con gli uomini che gli restavano.Come deputato e (putativo) cittadino americano, riteneva ingenuamente che non si sarebbe presa alcuna misura contro di lui; spedì anzi un tipico telegramma con l'ordine che un vapore lo attendesse per riportarlo a Caprera. Ma la polizia ltaliana fermò il suo treno speciale, e resistendo egli all'arresto lo strappò di forza dal sedile. Così l'oltraggio si aggiunse all'ingiuria.Malgrado un ulteriore appello al console degli Stati Uniti, lo tennero in custodia per tre settimane.Sembra che Menabrea sperasse di indurlo a incriminare Rattazzi; ma Garibaldi non disse nulla.Ebbe al contrario l'arroganza di far chiedere dai suoi avvocati i danni per l'ingiusto arresto e la

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punizione di coloro che l'avevano perpetrato.Per evitare al governo ulteriori guai, offrì nuovamente di lasciare l'Italia; ma fu di nuovo deciso che la pubblica opinione non avrebbe tollerato né un processo né l'esilio; l'iroso mormorio della folla giunse perfino alle orecchie del re attraverso le spesse mura del Palazzo Pitti.Si possono immaginare i sentimenti di Garibaldi. Aveva cominciato la marcia su Roma tre volte, e il governo lo aveva sempre incoraggiato per metà e poi abbandonato.Questa volta si servì della brutta parola tradimento : la monarchia lo aveva venduto alla Francia e una cricca di politicanti servili e vigliacchi stava trascinando la nazione nella melma.Bisogna ammettere che l'intero episodio ritardò di molto l'educazione del paese a un governo liberale e responsabile. Garibaldi diede libero corso alla sua indignazione anche contro Mazzini, ritenendo, a torto, che l'esule lontano avesse incoraggiato i volontari a disertare.Il capo repubblicano non aveva approvato le spedizioni garibaldine del 1862 e 1867, prevedendone il fallimento; e la dottrina mazziniana sosteneva in teoria che i romani dovevano sollevarsi a libertà da soli, altrimenti ne erano indegni. Fino al 1865 Garibaldi aveva scritto di Mazzini con gentilezza e gratitudine, malgrado le loro molte differenze.In cerca ora di un capro espiatorio, cominciò a dire cose tanto crudeli quanto false. Il risentimento per i fatti del 1867 non lo abbandonò mai. Forse se ne sentiva un po' responsabile egli stesso.Nelle memorie passò rapidamente oltre agli anni 1862 e 1867, preferendo occuparsi delle sconfitte dell'esercito nazionale a Custoza e a Lissa piuttosto che delle sue.Per difendersi mise in evidenza come i politici italiani avessero disapprovato la spedizione del 1867 solo perché negativa, così come avevano approvato quella del 1860 solo perché positiva: il che era cattiva morale e cattiva politica. Per Garibaldi le due spedizioni stavano sullo stesso piano: entrambe un buon gioco d'azzardo.

Capitolo 16

CONTRO PAPATO E IMPERO

1868 – 1871

Per tre anni Garibaldi rimase quasi sempre in ritiro a Caprera come prigioniero virtuale.Nel 1868 fece nuovamente la scena di dare le dimissioni col pretesto del fallimento della brutale politica governativa a Napoli e in Sicilia. Per il resto si ritrasse però dalla politica attiva, preferendo curare il giardino e allevare i figli.Ogni tanto la ferita al malleolo gli si riapriva. Anche i reumatismi si erano fatti più gravi.A volte doveva camminare con le grucce e non riusciva a dare la mano alla gente o perfino ad apporre la propria firma. E notevole che dopo Mentana, come già dopo l'Aspromonte, i suoi giudizi su uomini e cose divennero più pepati.Biasimava apertamente il papa, Mazzini e perfino Vittorio Emanuele, ma soprattutto il parlamento e l'infame sistema di governo italiano. Ciò poteva in parte riflettere cattive condizioni di salute, ma sorgeva ancor più da una delusione profonda e duratura.Si era dimostrato candido nel ripromettersi la soluzione di tanti problemi da un'Italia unificata, e un candido infatti egli era.Non era però il suo un cinismo generale; entusia smo e compassione per la gente comune non gli si erano affievoliti; ebbe parole gentili e comprensive per molti, fra cui l'ex re borbonico di Napoli in esilio.Alberto Mario racconta che nella vita privata egli fu fino all'ultimo il più cordiale e amabile degli uomini.

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Ma la sua fiducia negli uomini politici e pubblici si assottigliava sempre più: li vedeva tutti impegolati nello stesso brodo.Uscì anche dalla frammassoneria perché non era, come la sua innocenza aveva spera to, strumento della moralità e del progresso popola re.Era per natura la persona che ondeggia violente mente da un'estrema illusione a una delusione altrettanto estrema; e benché nei risultanti vituperi non ci fosse mai molta malizia, sentiva profonda mente e non attenuava certo le parole.Risultato immediato della vittoria pontificia a Mentana fu che l'antidericalismo di Garibaldi si in tensificò.Aveva sempre combattuto contro la Chiesa e come ammiratore di Voltaire avrebbe potuto pren der per motto écrasez l'infdme.I genitori lo avevano chiamato Giuseppe da un santo del calendario: ma egli diede ai figli i nomi di un patriota italiano (Menotti), di antichi romani (Manlio e Clelia), di liberatori umanitari (Lincoln e John Brown).Spezzare i vincoli dell'oppressione de ricale era per lui requisito assoluto per qualsiasi svi luppo nell'educazione morale e politica del paese.Aveva senza dubbio una natura religiosa, benché nella sua religione sofismi e ingenuità abbondassero.Rifuggiva dall'ateismo, dall'indifferenza e dal mi serabile materialismo.Dio esiste, diceva, perché una fabbrica mi annun zia un architetto; una macchina in moto mi annunzia un meccanico.Il moto e l'armonia dei mondi mi an nunziano un Regolatore.Ma non poteva credere nel Dio vendicativo, iracondo e crudele dei preti.I soli sacerdoti che poteva ammettere erano i Galilei i Keplero, i Newton, veri ministri di Dio.Usava dire che il dero cattolico sarebbe stato impiegato meglio nel prosciugamento delle paludi pontine.n maggior male del cattolicesimo era che il papa, legato a Roma e al potere temporale, teneva l'Italia disunita.Col Sillabo degli errori del 1864, la Chiesa si era formalmente impegnata a non scendere mai a patti col liberalismo.Inoltre il dominio ecclesiastico sul sistema educativo accentuava le cose ultraterrene a scapito della scienza, dell'educazione fisica e dello sviluppo di una coscienza sociale verso i poveri.A differenza di Cavour, anch'egli anticlericale ma in senso ben diverso, Garibaldi sarebbe stato felice di vedere il papa accettare l'offerta britannica di la sciare l'Italia per Malta o per qualche altra località ancora più remota.Né poteva prestar fede all'idea dell'infallibilità di un uomo che, come tutti gli altr, si sarebbe presto decomposto.In alcuni casi Garibaldi perse addirittura la testa contro il Vaticano; di rado sosteneva le sue idee con moderazione.Diceva che il governo di Roma altro non era dhe il governo di Satana.Allorché in Roma due rivoluzionari furono condannati a morte, con rabbia fece la vana minaccia di uccidere per rappre saglia due preti in ogni città italiana.Verso il 1870 queste escandescenze si fecero più frequenti.Rive dendo le sue memorie sostitùì Dio con Provvidenza e l'onnipotente con la fortuna o l'infinito.Sarebbe facile mostrare in tutti questi argomenti superficialità e confusione; ma essi rivelano un aspetto del suo ca rattere e debbono ricevere la preminenza che meri tano.Fra il Sessanta e il Settanta si sviluppò un culto di Garibaldi che, come già si disse, lo portò a credersi una specie di antipapa in grado di battezzare la gen te.L'opinione dei più concorda nel non ritenerlo va nesio; ma naturalmente, al di sotto dell'esterna umiltà, c'era un'enorme fiducia in se stesso; e l'entu siasmo popolare senza precedenti da lui

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destato ave va spesso ingannato la sua mente non molto sottile e critica.L'inganno era aiutato dal fatto che difettava di senso umoristico.Era un uomo di umore allegro, possedeva un sorriso radioso; ma è difficile sorpren derlo a ridere, e Jessie White scoprì che non riusciva mai a comprendere le barzellette.Egli giunse ad ac cettare la sua propria leggenda perché credeva trop po facilmente in quello che il prossimo asseriva di credere.n culto di Garibaldi crebbe quasi a sostegno della fiducia nazionale, perché le sue vittorie risaltavano nettamente sulla lugubre successione di sconfitte mi litari dal 1848 al 1866.Un altro aspetto essenziale del suo carattere è che la gente era portata a fantasticare su di lui, a farne la proiezione sovrumana di eventi eroici, epici, leggendari.La gente che lo circondava era naturalmente portata all'adorazione degli eroi; alcuni, come Dumas e la baronessa von Schwartz, erano anche autori di romantiche storie.Di qui la frequente elusività del Garibaldi reale, l'esorbitazio ne del culto di lui e il fatto che egli stesso si sentisse incoraggiato a credersi di una struttura leggendaria.A fomentare il mito si conservavano molte reli quie, per esempio le sue camicie rosse (si può cre dere, più di quante avesse mai indossato) e intimi at trezzi domestici delle stanze in cui aveva dormito, il proiettile che gli aveva trafitto il malleolo e perfino la lettiga sporca di sangue sulla quale lo avevano portato giù dall'Aspromonte.La figlia più giovane, Clelia, racconta come ne conservasse religiosamente i capelli e i ritagli di unghie.Illustrazioni popolari di Garibaldi sostituirono immagini regie e perfino divi ne in molte umili capanne e alcune stampe lo mo strano addirittura crocifisso e ascendente al cielo.Nel Meridione gli si attrbuivano comunemente po teri magici o divini; troviamo un romano che atten deva il suo ritorno in terra come secondo Cristo.A Napoli e in Sicilia, dove più del novanta per cento della popolazione era analfabeta, venne subito ingrandito in un idealizzato simbolo del millennio, e questa sua immagine è andata consumandosi fino ai nostr giorni nei manifesti elettorali perché accapar ra voti e può essere compresa anche dagli ignoranti.Dopo il Sessanta comparvero catechismi e pre ghiere a stampa che ci danno un'idea della presa da lui ormai esercitata sull'immaginazione popolare.Sono blasfemi e di cattivo gusto, ma questi erano difetti che abbondavano nel garibaldinismo; e senza dubbio sia per Garibaldi che per i suoi amici c'era talvolta in essi qualcosa di più di uno scherzo inele gante e deteriore.Una preghiera, prescritta per uso quotidiano, si volgeva a lui come al padre del po polo:

Nelle caserme e sui campi di battaglia sarà fatta la Tua volontà.Dacci le nostre munizioni quotidiane.Non in durci nella tentazione di contare il numero dei nemici.Ma liberaci dagli austriaci e dai preti.Un catechismo conteneva domande e risposte di questo genere:

D.Come compensa Garibaldi coloro che amano l'Ita lia? R. Con la vittoria.D.Cosa si ottiene vincendo? R. La vista di Garibaldi in persona e ogni genere di pia cere senza dolore.D.Quali sono le tre distinte persone in Garibaldi? R. Il padre della nazione, il figlio del popolo e lo spirito della libertà.D.

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Come si fece egli uomo? R. Prese un corpo e un'anima proprio come noialtri, nel ventre benedetto d'una donna del popolo.D.Perché si fece uomo? R. Per salvare l'Italia.C'era poi l'ingiunzione a pregare frequentemente il salvatore.Un nuovo decalogo includeva comanda menti come:

Onora la patria, affinché tu possa viverci per sempre.Non uccidere, se non nemici d'Italia.Non fornicare, se non contro i nemici d'Italia.Non desiderare il territorio nazionale altrui.Nell'ozio forzato del 1868 Garibaldi cominciò a scrivere il suo primo romanzo, Clelia, regalando in tal modo ai suoi detrattori una nuova arma contro se stesso.Scrisse in tutto tre romanzi, compreso uno sui Mille in Sicilia, è interessante vedere che secondo lui la spedizione aveva bisogno degli ornamenti del la poesia.Aveva intuito che il mercato pei romanzi storici di Manzoni, Dumas e Hugo era buono, e sic come dei suoi scritti occasionali la gente parlava sempre in maniera perlomeno educata, decise di ten tare una strada che sperava fruttuosa.Fu vittima una volta di più della propria onestà e candore e dell'adulazione altrui.Racconta schiettamente che le sue ragioni per scri vere erano, primo, guadagnarsi da vivere e allonta nare il timore della fame; secondo, ricordare agli ita liani i loro morti gloriosi e stimolare la gioventù del paese a un rinnovato sforzo; terzo, vivere sulle ali della fantasia, sola vita romantica concessagli in quel forzato ritiro.Pensava anche di raggiungere attra verso il romanzo un più vasto pubblico per le sue critiche alla Chiesa, ritenendo che questa fosse la sua vocazione principale di fronte alla scomunica eccle siastica del liberalismo e del nazionalismo italiano.Pur avendo scoperto quanto fosse facile sbagliare ri costruendo a memoria tutti gli eventi di una batta glia, si riteneva competente come storico; ma confes sava onestamente di dubitare delle proprie capacità di romanziere, e solo un urgente bisogno personale e nazionale lo istigava a tale attività.I romanzi non hanno interesse se non per quel po' di luce che gettano sul carattere di Garibaldi.Sono storie romantiche d'amore e di eroismo, piene come ci si può attendere di retorica, ingenuità e digressio ni.Le trame sono scialbe e insieme poco credibili, poveramente ravvivate da storie di incesti e di amori peccaminosi all'interno del Vaticano.E appena necessario aggiungere che una dozzina di editori stranieri rifiutarono di accettare Clelia.Garibaldi riusciva meglio nei proclami, cui più si addiceva uno stile forzato, declamatorio e pomposo.Le sue pensées erano meno immediate e con ciò meno dense e acute di quanto egli forse immaginava; vi si trovano succinte considerazioni sul governo, l'ani ma, la donna e via dicendo.Del suo poema autobio grafico in endecasillabi meno si dice e meglio è.Sa peva tirar fuori poesie francesi e italiane con una tal quale facilità; e possedeva un po' di quella rude arte dell'improvvisazione che ancor oggi capita di incon trare fra la gente di campagna italiana; ma la qualità dei versi è bassa.Fra l'altro la metrica denuncia una pronuncia italiana imperfetta e la grammatica è di fettosa.A Filadelfia il fratello maggiore soleva consi gliarlo di mettersi a studiare a fondo l'italiano, ma Garibaldi riconobbe che sotto questo profilo era sta to uno scolaro indifferente.Le Memorie sono il suo scriHo migliore perché ri flettono una partecipazione personale reale; però so no a loro volta guarnite di digressioni e di tirate po lemiche.Come osservò Giuseppe Abba a proposito della sua conversazione, la memoria di Garibaldi era

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povera e malfida.Riscrisse le Memorie parecchie vol te ed è pertanto possibile vedere come i vari ricordi venivano trasfigurati dallo svolgimento di eventisuccessivi.Le versioni più tarde si fecero sempre più critiche verso la monarchia, Mazzini e la Chiesa.Al cune delle scene più audaci e avventurose, che se condo molti tornavano a suo pieno credito, furono tagliate via dalla cosiddetta edizione definitiva del 1872; si usa pertanto preferire le versioni precedenti, a ragione o a torto che sia.Nel 1870 gli italiani si trovarono inaspettatamente in possesso di Roma.La guerra franco-prussiana aveva costretto Luigi Napoleone a ritirare le sue truppe protettrici: l'esercito italiano inventò un pre testo per l'invasione e il 20 settembre spazzò via una resistenza pontificia appena accennata.E abbastanza notevole che Garibaldi non provò eccitazione; non aveva parte personale nella lotta e deplorava che l'impresa culminante dell'unificazio ne nazionale si fosse realizzata a caso, per la porta di servizio.Si trovava allora a Caprera e stava prenden do in considerazione di dare una mano alla Francia contro quella stessa Prussia che rendeva alla fin fine possibile la presa di Roma.Era un'ironia, ulterior mente aggravata dal desiderio di combattere proprio per la Francia, il paese che lo aveva battuto nel 1849 e nel 1867.La Francia aveva ora a sua volta subìto a Sedan una catastrofica disfatta, suscitando così l'ine sauribile simpatia che egli teneva in serbo per i cal pestati e gli oppressi.Era inoltre entrata nelle sue buone grazie politiche per aver rovesciato l'impera tore instaurando il migliore di tutti i governi, la Re pubblica.Egli smise pertanto facilmente di parlare di pace universale e si gettò invece nella fase di una grande conflagrazione europea.Dichiarò che gli scopi della sua guerra alla Prussia erano la giustizia e la causa dell'umanità, cose entrambe complicate ed elusive che egli immaginava di poter identificare a vista.Fa parte del fascino di Garibaldi che di rado si lasciasse prendere da dubbi su cose del genere.Non badava al prezzo, ma agiva, pronto se necessario a morire.Quando per la prima volta offrì ciò che resta di me alla Repubblica francese, nessuna risposta venne.Il governo non ne era particolarmente ansioso, e in ogni caso la sua offerta deve aver avuto un tono di degnazione.Ma non era facile lasciarlo perdere; la guerra per la Francia repubblicana contro l'aggres sione della Prussia imperialista, dal suo punto di vi sta, era la più importante della sua intera vita.Combattere per una nazione diversa dalla pro pria è un buon esempio di quella natura impetuosa e generosa che molti ricordarono come la più pre minente caratteristica di Garibaldi; riflette inoltre l'amore un po' donchisciottesco del travolgente bel gesto, anch'esso in carattere.Credeva in tutto ciò che sentiva dire sulla brutalità dei prussiani nell'uc cidere prigionieri e bruciar vivi i franchi tiratori; aveva un inesausto amore per la vita di battaglia fra compagni in armi.Nella solitaria Caprera si sentiva messo in disparte e dimenticato, mentre i conserva tori monopolizzavano e degradavano tutta la vita pubblica italiana.Cadute le obiezioni, egli eluse la marina italiana e raggiunse Marsiglia, dove lo attendevano grandi ac coglienze.L'opinione pubblica apprezzava l'Eroe dei Due Mondi anche quando non lo apprezzavano i go verni.Un imbarazzato Gambetta cercò di gettargli del fumo negli occhi con un piccolo gruppo di alcu ne centinaia di volontari, ma egli minacciò di tornar sene a casa.La cosa non avrebbe fatto un buon effet to, sicché con qualche difficoltà gli trovarono un co mando più grosso: circa cinquemila uomini, la cosid detta Armata dei Vosgi.

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Menotti e Ricciotti, ormai verso i trenta, ebbero entrambi comandi di brigata in tale forza essenzialmente irregolare.Il padre veniva bistrattato dai generali francesi, che avversavano in lui il dilettante, lo straniero e il recente nemico; i ri sentimenti reciproci continuarono a rendere molto difficile l'integrazione di quel gruppo anomalo nel resto del sistema difensivo.L'azione militare di Garibaldi sul fronte orientale ebbe un effetto più simbolico che pratico sul corso della breve e non molto importante campagna.Egli era stanco e vecchio (aveva ormai passati i sessanta tré), camminava col bastone e spesso non riusciva a montare a cavallo.Questo non gli impedì di contare come sempre su di una strategia offensiva fatta di ra pidità, decisioni improvvise e temerità sfrontata: era l'unica che conosceva.Questa volta, per cambiare, aveva di fronte un generale di prima classe; tuttavia non gli andò male.Si può perfino sostenere che, sia per intuizione tattica sia per esecuzione, primeggiò notevolmente sui colleghi francesi.Ma combatteva una causa persa fin dal principio: nei primi mesi del 1871 i tedeschi imposero l'armistizio.Appena termi nata la guerra, il generale italiano fu eletto all'As semblea Nazionale francese in Bordeaux.Può sem brare strano che un uomo così avverso a qualsiasi parlamento accettasse di far parte di una legislatura straniera.Per amor della forma, egli voleva far regi strare un voto pubblico in favore del repubblicanesi mo, non potendo farlo in Italia; e gli premeva di mo strarsi solidale contro il nuovo imperatore germani co proprio allora proclamato a Versailles.Si sentiva anche in obbligo di sostenere la causa degli italiani feriti o resi orfani al servizio della Francia.Arrivò nel febbraio a Bordeaux, eletto in sei posti differenti.Le proposte furono tempestose, poiché i rappresentanti erano più posati e meno sentimentali dell'elettorato.Per i deputati si trattava tuttora di un rivoluziona rio, che in più era straniero, anticlericale perfino so cialista.Quando si rese conto che gli schiamazzi gli impedivano di farsi sentire, tornò subito a Caprera con tutta la dignità di cui fu capace.La sua istintiva valutazione della vuotaggine del governo parlamen tare dopotutto non si era dimostrata molto erronea.Fu Victor Hugo a parlare in sua difesa un mese do po, insinuando che l'animosità contro Garibaldi era dovuta al fatto che egli era stato l'unico generale di parte francese non sconfitto nella recente guerra, l'unico a impadronirsi di una bandiera tedesca.Lo stesso Victor Hugo fu ridotto al silenzio per tale pub blica indiscrezione; e ando anch'egli in esilio, disgu stato di tanta ingratitudine.L'intervento di Garibaldi non era stato apprezza to. Ciò malgrado l'episodio indica la genuinità del suo internazionalismo. Egli restava fondamental mente un nazionalista, ma l'oggetto del suo naziona lismo era la liberazione dei popoli e non certo l'in grandimento patriottico.Il patriottismo non bastava.Libertà e indipendenza erano stati suo scopo sovrano fin dalla prima lotta per il Rio Grande: la libertà individuale e nazionale di esistere con un minimo di forza da un lato e un minimo di umiltà dall'altro.Ogni volta che era receduto in qualche modo da tali princìpi, non era stato per sua deviazione o cattiva volontà, ma solo per una certa ottusità o per difetto sa analisi.Garibaldi era forse un po' sciocco, ma in nessun modo un impostore.

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Capitolo 17

LA POLITICA DEGLI ULTIMI ANNI

1872-1881

Nella vecchiaia Garibaldi non cessò mai di essere un riformatore. Il vago sansimonismo della gioventù semmai gli si accentuò, senza peraltro farsi molto meno vago, in quanto era nella sua natura sentire piuttosto che pensare e la sua intelligenza non fu mai acuta. Il suo stesso entusiasmo aveva tanto sapore solo perché egli pensava e vedeva in superficie.Florence Nightingale non aveva messo molto a nota re che non capiva a fondo le cause stesse per cui combatteva; ai suoi quesiti, egli rispondeva sempre con astrazioni speciose e confuse.Sarebbe però fuori posto criticarlo per questo, perché l'idealismo che abbacina era il nucleo interno e il segreto del suo successo.Tale idealismo si accompagnava a una cer ta misura di buon senso, senza le complicazioni del la sottigliezza e dell'artificio, ma talvolta anche senza finezza nell'afferrare e giudicare.Nella sua tarda vita Garibaldi continuò a mandar fuori manifesti dichiaranti guerra alla guerra e pro paganti la sua dottrina della sovranità popolare.Cri ticava costantemente il governo per la trascuranza che faceva il deserto in Sardegna e in Sicilia e per aver imposto l'aspra tassa sul macinato, che ricade va sulle classi più povere, le meno in grado di sop portarla.Appollaiato in mezzo alla società italiana come su di un'alta vetta, nel suo libero esilio di vo lontario Robinson Crusoe, divenne ancor meno conformista e più eccentrico, al di là di ogni critica, legge a se stesso.Non appena il termine socialista entrò nell'uso cor rente, se lo appropriò pur senza avere alcuna idea approfondita del suo significato.Nel 1880 scrisse al giornale radicale n Secolo per spiegare che il mio repubblicanesimo differisce da quello di Mazzini, es sendo io socialista.Differenza senza dubbio genui na: Mazzini aveva perfino detto che avrebbe preferi to assistere al ritorno degli austriaci in Italia piuttosto che al trionfo del socialismo e alla creazio ne di amare divisioni fra gli italiani.Però, quando constatiamo cosa mai Garibaldi intendesse con quel termine, la differenza non appare tanto grossa.Il suo socialismo non aveva molto di rivoluzionario; forse, in parte, egli sfoggiava il vocabolo perché era felice di urtare con esso i mazziniani da un lato e i compia centi conservatori del parlamento dall'altro.Garibaldi cominciava con l'assumere che alle diffi coltà sociali dell'Italia si potesse rimediare con la buona volontà, non essendo esse il portato di alcuna legge rigida o inalterabile, nel suo sistema c'era po co posto per il peccato originale.Egli conosceva la gente comune assai più di Maz zini e simpatizzava con essa assai più di Cavour e degli altri leader dell'Italia unificata; comprendeva le masse, e ne era compreso, per eredità, ambiente e temperamento.Secoli di storia disgraziata avevano installato in Italia l'abito mentale di tener divisi i go vernanti dai governati, generando un senso di sfidu cia, come se gli interessi dei cittadini fossero diame tralmente opposti a quelli delle classi governanti.Garibaldi avanzò pertanto la dottrina nuova e inac cettabile che bisogna amare la gente per governarla: governatá con amore, essa risponderebbe con vero entusiasmo.Questo atteggiamento era sembrato funzionare nel breve periodo della dittatura napole tana, quando insieme ai suoi ministri aveva gover nato senza prendere stipendi e quasi senza polizia; certo la mancanza totale di un simile atteggiamento aveva qualcosa a che fare con il fallimento dei suoi successori.

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Era un socialismo del cuore, non della mente.Nel 1875 scrisse al sindaco di Napoli che gli sarebbe pia ciuto visitare la grande capitale meridionale, non per ammirarne le bellezze, ma per entrare nei tuguri e nelle cantine senz'aria dove i poveri si arrangiavano a vivere in un qualche modo.Al sindaco consigliò di non aiutarli coll'elemosina che alimenta la miseria e distrugge la indipendenza del cittadino; quei mise ri avevano bisogno di lavoro.Era compassione au tentica, e per di più buon senso; e ciò in un campo dove né buon senso né compassione erano partico larmente abbondanti in quell'epoca.Garibaldi stesso ammeHe di non essersi mai senti to a suo agio nelle discussioni di alta politica; ma in fatto di problemi di riforma sociale interna parlava per conoscenza diretta e sentita.Le sue proposte era no a volte un po' peregrine, ma di rado oscure o irri levanti.Per esempio, voleva cambiare il sistema edu cativo in modo che perfino al livello primario la gen te imparasse non solo l'alfabeto, ma anche materie tecniche utili per un mestiere.In un piccolo villaggio cercò di trovare chi si assumesse un settimanale da distribuire gratis al popolo: doveva essere piccolo, per tenere basse le spese, e stampato a caratteri gros si per essere letto con facilità; doveva impiegare un linguaggio semplice e popolare e contenere solo al cune idee, per non risultare troppo pesante alle men ti semplici.Ma l'atteggiamento generale dei governi e anche della Chiesa era che la stampa fosse uno strumento pericoloso che era meglio riservare a po chi e l'istruzione una merce preziosa da razionare e limitare preferibilmente a soggetti letterari e non tec nici.Possiamo misurare la vastità degli interessi e delle simpatie di Garibaldi prendendo come campione le sue dichiarazioni degli anni 1872-73.Pur sufficiente mente realistico per capire che non si poteva ancora conseguire il suffragio universale, egli chiese peral tro una riforma elettorale che estendesse il diritto di voto a qualcosa di più del due per cento di italiani allora autorizzati a votare e conferisse in tal modo un maggiore influsso sulla politica ai cittadini ordi nari.Chiese l'aconfessionismo totale, in modo che la Chiesa cattolica perdesse il suo privilegiato mono polio.Voleva sopprimere le corporazioni religiose; introdurre l'istruzione obbligatoria e gratuita, ma laica; abolire ogni tassa su articoli di prima neces sità, come il sale e la farina, e applicare una singola tassa sul reddito, proporzionale alla ricchezza indi viduale (imposta unica col logico principio dell'ap plicazione progressiva).Nella maggior parte di tut to ciò, egli stava dalla parte del futuro.Lo troviamo al tempo stesso chiedere che il dirit to di riunione e la libertà della stampa cessino d'es sere una menzogna.Buon democratico, insisteva che i titoli si dovevano abolire sul serio.Sperimenta to generale di volontari, chiedeva la sostituzione del la coscrizione e dell'esercito permanente con una meno costosa milizia cittadina.Sperava anche che lo Stato si assumesse l'organizzazione del lavoro.Era no tutte proposte tipiche dell'opposizione di sinistra al governo conservatore dei successori di Cavour.n senso pratico di Garibaldi appare anche nel suo socialismo, in quanto egli si serviva pochissimo delle richieste essenzialmente teoriche che, diceva, veni vano avanzate da tutti i leader dell'internazionale operaia, eccetto gli inglesi.I dottrinari commettevano l'errore di concentrarsi su insipide generalità come l'emancipazione dei la voratori, la lotta del lavoro contro il capitale, la collettivizzazione della terra e degli strumenti di produzione.Di tali astrazioni egli non sapeva proprio cosa farsi.Nella sua vita privata aveva scoperto quanto è difficile regolare su di un fondamento soltanto teorico cose come le condizioni del lavoro e il mantenimento di un fondo.

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I politici si dedicassero pertanto a sollevare di fatto la condizione dei diseredati, con il proponimento di migliorare la società umana con progressi graduali ed attuabili...Invece di cullare le masse con codeste massime, irrealizzabili, guidarle sul sentiero pratico, a raggiungere le aspirazioni pratiche, senza far loro perdere molto tempo per trascinarle a un cataclisma sociale che nessun di noi vorrebbe testimoniare.A differenza di Mazzini, Garibaldi apprezzava la Comune parigina del 1870, in parte sotto l'influsso del fatto che in Francia solo la fazione rivoluzionaria aveva veramente gradito il suo intervento militare contro la Germania.Aderì formalmente anche all'In ternazionale socialista; ma disse di avere appartenu to a essa fin dai primi giorni in Sud America, dal che si ricava che intendeva qualcosa di diverso dagli al tri aderenti in genere.Dichiarò specificamente di non essere avveso al possesso di capitali e alla prati ca dell'eredità, e che non desiderava confiscare la proprietà altrui solo perché più grande della pro pria; tutto ciò che voleva era che le persone anche molto povere venissero trattate bene e che il sistema fiscale non pesasse su di loro.Il suo socialismo, in somma, era fatto di fratellanza, umanità, giustizia, li bertà per tutti; non di eguaglianza (se non nel senso di eguaglianza di opportunità).Era un socialismo con qualcosa di diverso: poggiava non sulla lotta di classe, ma sulla minimizzazione della tensione fra capitale e lavoro.Non era rigido né dottrinario. E quando il lavoro avrà capitale diceva Garibaldi es so passerà dalla parte dei padroni dimodoché vi sarà continua defezione e guerra continua. In questa credenza egli era più saggio e percettivo di molti della sua generazione.Con tali idee avanzate, era inevitabile diventasse un leader non ufficiale dei lavoratori; il biografo Sa cerdote, è senza dubbio nel giusto quando gli riven dica un grande influsso sullo sviluppo dei movi menti democratici e di sinistra in Italia.Molte orga nizzazioni, come la Lega della Democrazia e il Fa scio dei Lavoratori, inclusero il suo nome tra i fondatori.Quando il moltiplicarsi di tali istituti di venne un ostacolo al progresso, egli cercò di fondere in un singolo fascio tutte le organizzazioni di lavora tori tutti i corpi democratici i razionalisti, i fram massoni, le società di mutua assistenza e simili, che avevano per scopo il miglioramento della condizio ne umana.Era sperare troppo, specialmente in Italia.Non appena Garibaldi passava dalla diagnosi all'applicazione di un rimedio politico, la sua ine sperienza e il suo utopismo si facevano fin troppo ovvi.Non aveva una comprensione sottile e non an dava immune da quanto criticava negli altri: l'inca pacità di scendere dai voli retorici della fantasia alle dure minuzie quotidiane.In Italia non ci furono quasi leggi di riforma socia le, almeno fino a parecchi anni dopo l'alba del nuovo secolo.Le dassi governanti non avevano interesse a creare restrizioni a se stesse; anzi, uno dei loro obiet tivi nel corso del Risorgimento era stato di liberarsi dalle catene morali e legali imposte alla libera inizia tiva dal feudalesimo e dalla Chiesa.L'opposizione radicale, dal canto suo, andava troppo nel visionario e nel teorico per costituire uno stimolo appropriato verso una riforma del costume e della morale.Le divisioni fra le varie fazioni dei par titi radicali e socialisti erano poi un ulteriore ostacolo sul sentiero della riforma sociale, e hanno continuato a esserlo fino ai nostri giorni.Le divisioni nell'ambito della sinistra erano un ca ratteristico prodotto dell'individualismo e dell'anar chismo che in ogni tempo hanno scompaginato la politica italiana.Mazzini e Garibaldi, per esempio, vicini com'erano, tuttavia erano profondamente in capaci di conciliare le loro nature e i loro programmi altamente individualistici.Mazzini vedeva in Gari baldi un dittatore potenziale, un socialista, un igno rante, un uomo dalla

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faccia leonina e stupida, così disse a John Morley nel 1864.L'immagine è eccessi va, ma non irriconoscibile.Dall'altra parte, Garibaldi vedeva in Mazzini un dottrinario, un inflessibile personaggio, un uomo infallibile che non tollera os servazioni da chicchessia, il quale insisteva nel gio care soltanto il proprio gioco, sprecava risorse in in numerevoli piccole insurrezioni, ma non aiutava quelle guidate dagli altri: Egli è uomo a grandi teo rie, non a pratica.Parla sempre del popolo, e non lo conosce.E significativo che Garibaldi non presenziò ai fu nerali di Mazzini nel 1872 e anzi perseguitò con le sue invettive il leader repubblicano fin nella tomba.Uomo solitamente generoso, si abbassò fino al punto di chiamare il più grande dei nazionalisti uno degli ostacoli sulla via dell'unificazione italiana.Parlava dell'uomo da cui aveva cominciato a imparare come essere italiano.Fu una notevole mancanza di com prensione e di simpatia in persona che di rado difet tava almeno di quest'ultima; ma Mazzini era un coa bitante intrattabile, e pochi dei suoi compagni riuscirono a non staccarsi prima o poi da lui.Un altro bersaglio della malevolenza di Garibaldi era la monarchia.In precedenza si era implicitamente fidato del re; in uno stadio successivo aveva accusato nel re l'individuo fuorviato dai cattivi consiglieri; la medesima persona veniva ora messa alla berlina co me responsabile principale di tutti gli insuccessi, e in più come colui che aveva nascosto la cosa sotto la dot trina della responsabilità ministeriale.Nell'edizione delle Memorie del 1872 molti riferimenti più favorevo li a Vittorio Emanuele furono tagliati via.La monar chia era vista all'opera per interessi egoistici e dina stici, non per quelli della nazione.Si metteva in guardia il re che le monarchie non sono eterne e pos sono essere rovesciate se non fanno nulla per merita re l'affetto della gente comune.Il comportamento politico di Garibaldi dopo il 1870 presenta aspetti acidi, petulanti e cattivi.Era sta to elettó a tutti e otto i parlamenti dopo il 1860 eccetto uno, ma raramente aveva occupato il seggio.Intere legislature si erano svolte senza che egli comparisse, e in tutta la sua carriera aveva fatto non più di una doz zina di interventi in parlamento.Talvolta inviava im periosamente dei messaggi da leggere in sua assenza.Da Caprera si emanavano laconici comunicati, solita mente a censura del governo per le tasse eccessive, le troppe spese, l'ossequienza a Stati stranieri; giacché il popolo, quando aveva sostenuto i plebisciti per l'uni ficazione nazionale, non aveva certo votato in favore di quelle esazioni e di quel servilismo; in altre parole, c'era stata la violazione di un contratto, e ciò poteva perfino sciogliere i sudditi dalla obbedienza alle leggi e alle istituzioni del paese.Ormai lasciava Caprera solo raramente, il che ren de ancora più interessante il suo arrivo a Roma nel 1875.Era la prima volta dopo il 1849, sicché la sua ap parizione destò grande eccitamento.Sembra che le spese fossero state in parte pagate da contributi dei la voratori milanesi.Nell'inevitabile discorso, arrivato al suo albergo, disse che, non essendo oratore, sarebbe stato breve; e mantenne la parola.Fece visita al re e ri cevette i ministri, senza dubbio curiosi di apprendere che mai avesse in serbo per loro.Il futuro cancelliere imperiale tedesco, principe von Bulow, lo incontrò spesso in quei giorni e registrò che aveva begli occhi gentili e maniere molto semplici.C'era in lui qualcosa d'ingenuo, di sognante e insieme di eroico.Garibaldi presenziò al parlamento per firmare il registro, dove dichiarò l'occupazione di agricolto re.Tenne un discorso sulla marina, raccomandando la costruzione di navi corazzate più grandi e più

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for ti.Ma risultò che il suo interesse principale in altro non risiedeva che in un progetto per incanalare e di rottare il Tevere.A Roma c'erano inondazioni ogni anno, veramente pericolose ogni vent'anni circa.A volte due terzi della città antica restavano allagati, e ne risultavano sempre delle estati poco salubri.Ri cordò che la malaria aveva colpito lo stesso re e ave va ucciso una delle figlie di Cobden e una delle sue.Per mezzo di una piccola deviazione del letto del Te vere si potevano controllare le inondazioni e i panta ni malarici e uno dei più grandi fiumi d'Italia poteva esser restituito alla navigazione di grosse navi fin quasi alla capitale.Roma avrebbe potuto riprendere a poco a poco e per la terza volta la funzione di gui da della civiltà.Garibaldi si recò di persona a scandagliare il fiu me e in un modo o nell'altro si diede un gran daffare intorno al progetto presentato.Un suo discorso sull'argomento fu assai applaudito; scrisse inoltre (o vi mise la firma) lunghi articoli sui giornali, che ven nero letti con passione.Ma sorsero obiezioni tecni che e finanziarie, ed egli non stava abbastanza bene per prender parte a tutte le discussioni.Di lì a non molto aveva già fatto ritorno a Caprera, ancor più frustrato dalla lentezza, gli intrighi e i nascosti inte ressi che sembravano appannaggio indispensabile di un governo parlamentare.Nel 1876, prima che Garibaldi lasciasse Roma, la bilancia del potere politico mutò radicalmente per la prima volta, e la sinistra andò al governo col suo vecchio amico Agostino Depretis, che nel Sessanta era stato governatore della Sicilia sotto di lui.Il sog giorno nella capitale lo aveva riempito di debiti, sic ché prese pretesto dal cambio dell'amministrazione per accettare alfine il grossc, dono che aveva sempre rifiutato dal parlamento fino a quando era rimasto in ufficio il partito di Cavour.Ma un anno di governo della sinistra lo convinse che i politici erano tutti della stessa razza.Depretis si mostrò a sua volta infido, corrotto, stravagante: ora che era al potere, abbandonava la precedente politi ca di riforma, lustrava servilmente come tutti gli al tri i gradini del trono e nascondeva tale tirannica au tocrazia sotto la sottile maschera delle forme costituzionali.Fu una nuova crudele disillusione.Benché eletto di nuovo, Garibaldi disse agli elettori che per lui era ormai inutile comparire mai più in parlamento.La tirannia incorreva nei suoi fulmini sotto qual siasi guisa: questo va affermato molto chiaramente prima di esaminare le sue ripetute difese della ditta tura come sistema di governo più adatto all'Italia nel suo attuale stato di sviluppo.Egli diceva che la ditta tura non era lo stesso della tirannia; aveva cattiva fa ma per colpa di despoti come Cesare, come il ma chiavellismo per via di certe accidentali associazioni di parole.In realtà Fabio, Cincinnato e Machiavelli stavano fra le grandi glorie d'Italia; e non si doveva dimenticare che anche un Cesare aveva pur trovato il suo Bruto.Il periodo più bello della storia d'Italia si era svolto durante la dittatura; in altri paesi, un Washington e un Bolìvar erano stati secondo lui dit tatori di fatto anche se non di nome.D'altro canto un regime parlamentare poteva essere soltanto il para vento di una forma di dispotismo certo non meno ri pugnante perché nascosta.Garibaldi aveva una profondissima sfiducia istin tiva per il tipo di persona che viene eletta al parla mento.A Roma nel 1849, a Torino nel 1860 e 1861, a Bordeaux nel 1871 e poi di nuovo a Roma nel 1875, i parlamentari gli erano sempre stati contro.C'era fra lui e loro una differenza radicale in fatto non solo di princìpi e di preparazione, ma anche

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di tecnica, poi ché egli non era abile nell'oratoria e nell'intrigo di corridoio.Le ragioni per le quali egli e i deputati si temevano a vicenda erano dunque buone; ed egli si sentiva molto più forte e importante rivolgendosi al popolo dal balcone che a pochi eletti.Un abile avvo cato gli dava la sensazione di essere stupido, e que sto non poteva tollerarlo rsé perdonarlo.In Inghilterra e in Svizzera il sistema rappresenta tivo serviva mirabilmente, perché lì la gente poteva dire che il governo le apparteneva e non che lei ap parteneva al governo; in Italia era una prostituzione peggiore del più aperto dispotismo.Anche in Ame rica era rimasto scandalizzato vedendo rappresen tanti che guadagnavano voti offrendo da bere alla gente.Senza dubbio la democrazia parlamentare era una forma di governo ideale, o addirittura l'ideale asso luto; ma in una situazione di emergenza una demo crazia a basso livello di educazione politica poteva mancare della concentrazione di potere necessaria a salvare lo Stato.Mentre Maometto Il assaliva Bisanzio, nella città cinquecento uomini disputavano se nella comunio ne si dovesse o no adoperare il pane non lievitato; il risultato fu il crollo di una intera civiltà.Garibaldi ne concludeva che la dispersione della sovranità in una pluralità di persone era pencolosa.Aveva causato la rovina della prima repubblica francese.Avrebbe po tuto provocare una frattura nella nazione italiana egli notava per esempio il pericoloso perpetuarsi di sentimenti autonomistici e separatistici in Sicilia.L'Italia mancava di quanto egli chiamava in francese un robuste et redoutable faisce2u.Negli anni successivi, molto dopo che egli si era per la prima volta servito di quella frase, l'ultima parola doveva acquistare un diverso e più noto rimbombo; né si può fare a meno di sospettare che Garibaldi avrebbe trovato nel fasci smo molte cose da ammirare, almeno durante il pe riodo centrale della dittatura mussoliniana.La sua ricetta politica fondamentale era semplice.Fino a quando la società non fosse divenuta meno corrotta ed egoistica, c'era bisogno di una dittatura temporanea.Un dittatore potrebbe difendere lo Sta to dall'esterno e purgarne all'interno le impurità.Sa rebbe eletto dal popolo per un periodo di soli due anni, durante i quali spedirebbe a casa i deputati.I parlamentari parlano e parlano senza far nulla, e tal volta sono il sentiero lungo il quale un tiranno sale al potere; pertanto il popolo, una volta trovata la perso na giusta, non deve rischiare di interferire nuova mente nel governo fino a quando non maturi il tem po di eleggere un successore.E abbastanza ironico che Garibaldi raccomandas se in tal modo un tipo di governo assai simile a quel lo per cui aveva tanto biasimato Luigi Napoleone; credeva di tracciare fra despota e dittatore una lim pida linea distintiva, che in realtà era spuria e illuso ria.L'argomento che ci sarebbe stato il controllo co stituzionale della rielezione era facile, ma consistente come il chiaro di luna.Che in una nuova era di pace nessun dittatore avrebbe violato la libertà della sua o di altre nazioni, era semplice a dirsi; ma la nozione era fantastica! stravagante e irrealistica.Ci voleva poco ad asserire che il dittatore doveva es sere onesto; e se non lo era? Garibaldi rispondeva a puntino che se si sceglieva un uomo disonesto, voleva dire che il paese non me ritava un buon governo; ma non serviva molto ag giungere che è più facile trovare un uomo onesto che non cinquecento.Aveva naturalmente in testa una persona come lui, e della sua onestà personale non si discute.Quando prescrive che il dittatore non ha bisogno di essere abile perché di abilità può trovarne quanta ne vuole nei suoi ministri, quello che dipinge è di nuovo un autoritratto del dittatore delle Due Sicilie. Lo troviamo che confessa a un giornale di Madrid di possedere anche lui una buona

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dose di presunzione e di avere commesso la sua parte di errori; era infatti consapevole di molte fra le sue limitazioni, fra le quali non figuravano però l'ipocrisia né l'in sincerità.Come osservò Bandi, Garibaldi aveva la dittatura nel sangue proprio perché il tipo di impresa che gli era capitato di comandare aveva sempre avuto biso gno di decisioni rapide e indiscusse e di cieca fiducia in un capo. Razionalizzando le proprie esperienze, egli tirò fuori quelle notazioni politiche generali. Non dobbiamo prenderle troppo sul serio: non costituiscono un contributo notevole alla scienza politica. Ma gettano luce sulla struttura della mente di Garibaldi e su di una tendenza latente nei partiti di sinistra in Italia.

Capitolo 18

SGUARDO RETROSPETTIVO, CONCLUSIONI E FINALE

1881-1882

Con l'acquisto di Roma nel 1870 il Risorgimento sembrava compiuto. Se non teniamo conto di Trento e Trieste, che l'Italia si prese dopo il 1918, né del vasto impero che secondo Crispi e Mussolini doveva essere lo sviluppo logico della unità nazionale, la nazione era completa. Del Risorgimento Garibaldi era stato uno dei più importanti promotori; le sue vedute retrospettive su di esso debbono pertanto interessarci.In tutta la sua vita aveva creduto nel nazionalismo come solvente universale dei mali del mondo.Siccome l'unificazione italiana aveva comportato una guerra contro l'oppressivo governo dell'Austria, egli aveva assunto che il nazionalismo desse la mano alla liberazione e con ciò al liberalismo. Non gli era venuto in mente che una nazione, la quale aveva combattuto l'oppressione altrui, potesse a sua volta essere tentata a opprimere.Ogni paese liberato avrebbe certamente creduto nella libertà come in un bene per sé stante, si sarebbe sentito direttamente interessato a liberare altri popoli e ad aumentare le libertà del proprio. L'Italia faceva al caso. Garibaldi aveva creduto con altri che l'arretratezza economica e sociale del paese fosse dovuta principalmente alla cattiva volontà delle vecchie dinastie locali, e che il nuovo ordine avrebbe inevitabilmente arrecato, con un'assai maggiore prosperità, l'emancipazione della povera gente dalla sua vita di dure fatiche senza profitto.Era chieder troppo; non si poteva così facilmente assoggettare la natura dei luoghi e degli uomini alla ragione, a leggi fatte dagli uomini stessi.Di qui la totale delusione di Garibaldi di fronte alla nazione fatta, anche se non dobbiamo dimenticare che in lui lo stato di salute contribuiva a esasperare il pessimismo. Tutt'altra Italia io sognava nella mia vita, scrisse nel 1880: non questa miserabile all'interno ed umiliata all'estero ed in preda alla parte peggiore della nazione. Guardandosi intorno altro non vedeva che apatia, e discordia e immoralità in ogni aspetto della vita. I giornali erano corrotti, e così le elezioni, il parlamento stesso, la magistratura, l'amministrazione, le forze armate.Il re si serviva dell'esercito non come di una protezione dello Stato, ma per proteggere se stesso da una nazione indignata; il parlamento serviva a tenere l'Italia marcia e con ciò facilmente governabile. In un discorso elettorale Garibaldi disse che il re aveva deliberatamente ristretto i diritti del popolo e ridotto i suoi sudditi a un livello di vita più basso di prima, tanto che ormai solo un dittatore dal polso d'acciaio avrebbe potuto rimettere le cose a posto.Ne concluse che la stirpe italiana doveva essere caduta in declino dopo quei grandi giorni dell'antica Roma, dei quali tanto gli piaceva leggere. Non disponendo di alcun termine di paragone sugli aspetti peggiori di altri paesi, dipinse con i colori più cupi quelli meno presentabili del proprio. Il New York Herald aveva quasi certamente ragione nel dire che gli emigranti italiani

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erano i più sporchi e i meno civili e onesti.Il fatto stesso che tanta gente si sentisse spinta a emigrare suonava profonda condanna della situazione reale. L'Italia era un paese dove i ricchi prosperavano e tutti gli altri erano in miseria.I ricchi controllavano il governo ed erano così in grado di piegare a proprio favore le imposte sia nazionali che locali; essi soltanto possedevano il suffragio e tutte le leve segrete del potere.Il risultato era che il grave fardello dell'unificazione nazionale ricadeva su coloro che da essa traevano il beneficio minore e che, comunque, non erano in condizioni di sostenerlo.Al tempo stesso crescevano le spese della Corte e delle pensioni civili, adoperate dal governo come strumento abituale di corruzione politica. (Ma chissà se nel fare quel bilioso esame gli venne in mente che anche lui godeva di una pensione).Si teneva in piedi un enorme esercito a un costo tale, che non era mai possibile pareggiare il bilancio. Mentre gli svizzeri pagavano l'equivalente di nove lire a testa per esser governati bene, gli italiani ne pagavano cinquanta per essere governati in maniera indescrivibilmente cattiva.Una nave in difficoltà si mette subito a mezza razione, così scrisse Garibaldi in una delle sue note al parlamento; ma gli italiani sprecano sempre più le loro poche risorse via via che si avvicinano alla rovina. Il quadro era troppo fosco per esser vero; tuttavia, malgrado la molta ingenuità e semplicioneria, con l'onestà e il senso comune egli si portava vicino a verità che restavano nascoste a gente più abile e meglio informata.Non era soltanto che l'unificazione poteva risultare ingiustificata se le masse non ne traevano vantaggio; era che, se non si faceva qualcosa per convincere i contadini che sotto il nuovo regime nazionale essi avevano più da guadagnare che da perdere, l'orologio poteva perfino tornare indietro a una terribile controrivoluzione. Uomo del popolo, Garibaldi non respirava l'aria rarefatta della Corte e del parlamento, così remota dall'odore dei sudati panni.Come ben pochi politici italiani, vedeva istintivamente che bisognava investire di una posta sociale, e convertire così in una forza di conservazione, quel novanta per cento di italiani che lavoravano la terra come contadini; altrimenti essi avrebbero messo in pericolo la struttura stessa dello Stato. Era tale mancanza di approvazione popolare, egli concludeva, che aveva fatto perdere all'Italia buona parte delle sue battaglie durante il processo dell'unificazione.La Lombardia gliel'aveva vinta la Francia; Venezia e Roma, la Prussia. I contadini, spina dorsale del paese, combattenti vigorosi e duri, al Risorgimento erano stati piuttosto avversi che favorevoli.Molto entusiasmo popolare, per tacere di un aiuto attivo da parte dei locali, egli in persona lo aveva trovato solo in Sicilia e Calabria; la gente del popolo non aveva visto gli eserciti italiani come liberatori. Per lo più l'entusiasmo era riservato ai discorsi, non all'azione.Aveva spesso visto con i suoi stessi occhi come i contadini si rallegrassero quando gli austriaci rioccupavano un luogo dopo un breve interludio di liberazione nazionale. Checché dicessero gli storici patriottardi d'Italia, l'amministrazione austriaca, priva d'immaginazione ma efficiente e onesta, trattava con una sua giustizia rude, ma almeno non con ottusa ingiustizia.Il nuovo Regno d'Italia, d'altro canto, rappresentava non solo un fisco più esoso ma, peggio ancora, i proprietari terrieri e i padroni. Erano queste le sole persone, appartenenti alle classi più alte, che avessero di che lagnarsi dell'Austria sul terreno pratico: le stesse persone che dopo il Sessanta avevano monopolizzato il governo e costruito poi una mitologia patriottica atta a raddolcire e giustificare retrospettivamente il movimento di liberazione nazionale.I contadini erano pertanto i primi a disertare dall'esercito italiano; lo facevano non appena una guerra cominciava ad andare male.Nel sud dopo il Sessanta erano stati in rivoluzione continua; l'incessante guerra contro il brigantaggio, che tratteneva a Napoli metà dell'esercito italiano, era in realtà una guerra contro braccianti disoccupati e affamati, rifugiatisi sulle colline in protesta contro il nuovo ordine.Costoro rispondevano al malgoverno rifiutando di pagare le tasse e di accettare l'arbitraria delimitazione del terreno comune a opera dei loro proprietari.Come ultima risorsa, chi non poteva permettersi il viaggio per l'America poteva trovarsi di fronte

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all'alternativa di affiliarsi alla camorra, associazione criminale segreta, o di scappare in montagna e darsi alla macchia, in aperta guerra con la società. Tutto ciò era di cattivo augurio per l'avvenire d'Italia; ma non molti lo capivano chiaramente come Garibaldi.Di politica estera era molto meno pratico, e qui le sue idee negli ultimi anni furono meno consistenti e interessanti. In precedenza era stato un grande conquistatore, pirata e filibustiere; ne venne che gli eredi del garibaldinismo, per esempio i suoi stessi figli e nipoti, agissero talvolta come se la lezione essenzia le della sua vita stesse soltanto nella conquista.Crispi e poi Mussolini fecero gran sfoggio di garibaldinismo, con la pretesa che nel mettere in piedi un vasto impero africano continuavano il buon lavoro del loro predecessore.Ma questa era soltanto una metà di Garibaldi per ché egli aveva sempre simpatizzato con chi combatte per la libertà: in Polonia, a Creta, in Grecia, in Danimarca, nell'Uruguay e ovunque altrove. Senza dubbio, convinto dell'italianità dell'Istria e di Trieste, riteneva che fosse giusto combattere per averle; ma sotto ogni altro rispetto gli austriaci sconfitti erano da trattarsi ora come fratelli; asserì anzi ripetuta mente che l'Italia non doveva usurpare l'indipendenza di altri popoli.Questo stesso diritto di ogni nazione alla libertà era stato l'unica giustificazione dell'Italia nella sua iniziale lotta contro l'Austria. La vera grandezza della Nazione non deve cementarsi sull'abbassamento e sulla miseria delle vicine, scrisse alla stampa nel 1880.Se l'Italia si fosse messa sulla via dell'oppressione, egli avrebbe perfino preso le armi contro il proprio paese. Parimenti non sapeva che farsene del colonialismo, che mette il prestigio prima del benessere. Le colonie fuori patria costano denaro, bisogna sostenerle con eserciti costosi e continui rischi di guerra. L'unico colonialismo ragionevole cui potesse pensare era quello fatto nella stessa Italia, piena di paludi da prosciugare e terra incolta da dissodare e irrigare. Impiegando il denaro in Italia, le centinaia di mi gliaia di emigranti avrebbero trovato lavoro in patria e arricchito se stessi e il paese. Come tutto ciò era più saggio della successiva politica di imperialismo africano e balcanico, che portò alla bancarotta e all'umiliante sconfitta! Lungi dall'essere uno sfrenato militarista come i garibaldini del ventesimo secolo, il loro prototipo si fece sempre più pacifista.Non aveva dubbi che, fin quando i problemi veramente importanti per l'Italia restavano economici, si dovesse dare un grosso taglio al bilancio militare.Un esercito permanente era un lusso, un peso troppo grave per un paese così povero; inoltre portava via dai campi troppi lavoratori per impiegarli senza reddito e faceva così dipendere l'Italia da nazioni straniere in fatto di derrate, contri buendo al deterioramento della nostra razza.Al governo piaceva di tenere il paese sotto un'artificiale minaccia di guerra, per inculcare l'abitudine dell'obbedienza e tenere tranquilla l'opposizione; poteva in tal modo conservarsi un esercito che serviva a frenare le libertà interne. Uno dei progetti favoriti di Garibaldi negli ultimi anni fu quello dell'arbitrato internazionale e di una Lega delle Nazioni.Nel 1862, dalla prigione, aveva mandato un memoriale all'Inghilterra per spingerla a inaugurare gli Stati Uniti d'Europa, comprendenti almeno i quattro grandi Stati atlantici.Nel 1872 scrisse a Bismarck per chiedergli di appoggiare un progetto di arbitrato e raccomandò caldamente l'esempio offerto dall'America e dall'Inghilterra. Nei paesi anglosassoni l'opinione pubblica si mostrava onnipotente e riusciva sempre a impadronirsi di ogni reale progetto di miglioramento e così a diffonderlo.Avrebbe voluto poter dire lo stesso dell'Italia.Garibaldi era molto ansioso di legittimare la famiglia messa su con Francesca Armosino, la donna venuta a Caprera vent'anni prima come governante degli altri suoi figli. Nel 1879 si recò ancora una volta a Roma per cercare di ottenere l'annullamento dell'assurdo matrimonio contratto nel 1860 con la marchesina Raimondi. Com'era nel suo carattere, si era messo in testa che il re potesse e volesse scioglie re il matrimonio con un tratto dittatoriale di penna; ma il re, che aveva difficoltà del genere a casa sua, rispose di non poter abrogare la legge in favore di un singolo suddito, per quanto grande. Garibaldi s'indignò, e altrettanto si afflisse che un suo vecchio amico dei Mille, il Primo ministro Benedetto Cairoli, non facesse passare in parlamento uno speciale decreto di nullità. Crispi allora lo aiutò a portare il caso in tribunale, ma il processo andò male.

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A quanto sembra tuttavia dietro le quinte, con discrezione, furono fatte delle pressioni: tanto che, malgrado le proteste di alcuni eminenti avvocati, la Corte di Appello emise una seconda sentenza nella quale si riconoscevano ragioni sufficienti per l'annullamento. Garibaldi sposò debitamente Francesca proprio prima di morire e in tal modo Clelia (nata nel 1867) e il prediletto Manlio (nato nel 1873) poterono prendere il suo nome. Clelia sopravvisse fino a dopo la seconda guerra mondiale e ci lasciò alcuni particolari sugli ultimi anni del padre. Molti parenti della moglie andavano e venivano a Caprera. Ricciotti passò qualche tempo in America e in Australia; Menotti a Roma e Teresita a Genova vissero con le rispettive famiglie. Clelia dice di non aver mai visto suo padre senza la camicia rossa; quando scopriva di aver più di due camicie regalava la terza.Fumava un gran numero di forti sigari toscani e quando si tratteneva alzato a scrivere beveva molto caffè raddolcito col miele, per rispar miare lo zucchero.A tavola c'era più acqua che vino, ed ella lo ricor dava a mangiare scampi crudi su giornali al posto della tovaglia. Semplicità e mancanza di qualsiasi indulgenza verso se stesso e di qualsiasi pompa, que ste qualità erano tipiche dell'uomo. Sémbra fosse un fanatico dell'acqua fredda.Immerse Clelia appena nata nel bagno sotto gli occhi terrorizzati della madre; in seguito amava mettere lei e gli altri bambini sotto la pompa. C'è da chiedersi se tale trattamento spartano, applicato a se stesso, non abbia favorito i suoi dolori reumatici.Vivendo sempre accanto al mare, i bambini crebbero anfibi proprio come lui; ed egli desiderava che il figlio più giovane seguisse la tradizione familiare diventando marinaio.Era una famiglia orgogliosa, che non si piegava a nessuno. Un'altra scena ricordata da Clelia è quella del sindaco della Maddalena, venuto a portar via il corpo di un figlio morto di Garibaldi perché la solitaria Caprera non aveva cimitero legale. La madre minacciò di sparare al funzionario, che si ritirò in gran fretta, lasciando che si facessero una loro illegale tomba di famiglia.Garibaldi aveva preparato per sé una pira funebre, deciso a morire secondo il grande stile romano, senza doversi conformare ad alcuna convenzione o regola dei mortali. Nella morte come nella vita intendeva dettar legge a se stesso ed essere padrone della propria anima.Col passare degli anni la solitudine e gli acciacchi lo resero più malinconico; ma ritenne sempre il temperamento sereno e Clelia non lo vide mai seccato o di malumore.Passava il tempo badando alle sue terre o leggendo e scrivendo; svolgeva qualche lavoretto di falegnameria per riparare vecchi mobili e si curava da solo il vestiario con forbici e ago.Talvolta, specie quando era lì Teresita a suonare il piano, si poteva udire la sua voce baritonale in qualche aria favorita di Verdi e Donizetti. Era ormai troppo rattrappito per lavorare attivamente nella fattoria. Guerzoni dice che circa un terzo dell'isola era reso fertile, ma probabilmente esagera. Fino al 1870 Garibaldi era uscito regolarmente ogni mattina, sempre in camicia rossa e cappello a larga tesa, con forbici e coltelli alla cintura, per potare e innestare gli alberi.C'era al massimo una decina di acri a cereali, ma né questi né i cosiddetti vigneti valevano il denaro speso per essi, tanto piccolo era il raccolto. C'erano alcune macchine venute dall'Inghilterra, non meno di centocinquanta capi di bestiame e quattrocento pecore, e un gran numero di tettoie, stalle, colombaie e alveari. Guerzoni ci informa anche della biblioteca.Garibaldi leggeva un po' di tutto, senza essere in alcun senso un gran lettore; e probabilmente scriveva più di quanto leggesse. Aveva la mente propensa per natura alla scienza fisica e possedeva numerosi trattati di matematica e agricoltura.Era particolarmente appassionato di storia greca e romana. Anche Voltaire era un autore favorito.Ma soprattutto gli piaceva la poesia, specie quella patriottica; accanto al suo letto di morte si trovò un Foscolo aperto. Non fu mai ricco. I risparmi il lascito del fratello, le svariate pensioni governative e i molti doni rice vuti da tutte le parti del mondo, ogni cosa disparve nel pozzo senza fondo di Caprera, nel tentativo di trasformare una superficie granitica in fattoria produttiva.Per vent'anni vi profuse denaro, guadagnandovi ben poco oltre alla soddisfazione e all'autonomia.Ci fu un momento in cui si parlò molto della sua povertà, tanto che egli dovette protestare pubblicamente spiegando che si era sempre adattato a quello che possedeva e che gli piaceva fare

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così. I figli non condussero una vita molto agiata, specie Ricciotti, che si abbandonò con scarsa saggezza a pesanti speculazioni immobiliari a Roma. Talvolta essi tendevano a rivolgersi a lui per aiuti, e alcuni mem bri della famiglia giunsero al punto di sfruttare pub blicamente la sua povertà.Quando il governo, con un'opposizione di soli venticinque voti, gli offrì una pensione, dapprima rifiutò orgogliosamente, dicendo che non si sarebbe lasciato corrompere dal governo al prezzo di un ulteriore impoverimento del paese e che non voleva vergognarsi di incontrare i veri poveri.Quando finalmente accettò da Depretis una grossa somma, lo fece in seguito a notevoli pressioni, giacché il governo temeva che i creditori gli facessero far bancarotta esponendo il paese all'accusa di ingratitudine. Gli ultimissimi anni di Garibaldi furono fatica e dolore per lui e per gli amici.Piedi e mani crudelmente contorti dall'artrite, poteva muoversi solo in poltrona a ruote.Una volta volle a tutti i costi recarsi a Milano; ma in pubblico apparve immobile e prostrato su di un giaciglio, e un ministro in parlamento descrisse la scena del suo arrivo come se si fosse trattato del catafalco di un santo operante miracoli. Il colorito cinereo e la barba bianca di quel fantasma impressionarono vivamente i cittadini allineati lungo le strade : per essi egli era di già l'intrepido eroe di una lontana leggenda. I medici gli consigliarono di lasciare Caprera per un clima più caldo, ma egli rifiutava : il mare e la solitudine gli erano troppo cari.Solo dopo esser stato duramente scosso da una caduta accettò di recarsi a Napoli per ragioni di salute; lo dovettero sollevare con la gru disteso nel letto. Visse per qualche tempo nella villa Maclean a Posillipo, dove vennero fiumi di persone per terra e per mare a vederlo e a render gli omaggio. Dopodiché decise ostinatamente di visitare la Sicilia per il sesto centenario dei Vespri siciliani, quando nel 1282 i siciliani si erano sollevati contro il dominio francese in un'ardente giornata di massacri. Sarebbe stata una bella occasione per ridestare lo spirito nazionale, che egli giustamente temeva assai debole, specie nell'estremo meridione.La folla di Palermo restò mortalmente silenziosa allorché quella figura pallida, muta e rigida fu trasportata per le strade. Era già entrato nella coscienza popolare dei siciliani come uno degli innumerevoli conquistatori che avevano arricchito e impoverito l'isola.Nei teatri dei burattini e nei rustici intagli in legno colorato, cominciava già a confondersi con il Saladino, Riccardo cuor di Leone e altri modelli del remoto passato. Nel sud già correva la leggenda che non fosse lo stesso Garibaldi venuto nel 1860.Osservandolo la gente mormorava che, con la sua camicia magica, il vero Garibaldi non poteva esser soggetto alla morte. Poco dopo, di ritorno a Caprera, morì quietamente il 2 giugno 1882, all'età di settantaquattro anni e undici mesi. Si era chiamato un giovane medico della marina da una nave vicina per curarlo del catarro bronchiale che gli rendeva difficile la respirazione, ma nulla si poté fare. Alcuni piccoli uccelli, cui soleva dare cibo, vennero ad appollaiarsi sull'orlo della finestra; quasi l'ultima cosa che disse fu che forse si trattava degli spiriti dei suoi due bimbi scomparsi e raccomandò che si avesse cura di loro dopo la sua morte.Il defunto aveva espresso sovente il desiderio di essere cremato su di un'alta pira di legno, come un eroe omerico. Nel testamento aveva ingiunto alla moglie di non informare le autorità della sua morte finché la cosa fosse compiuta. La donna doveva pre parare gli aromatici legni di aloe e mirto di Caprera. Si doveva ornare il cadavere con la camicia rossa e bruciarlo all'aria aperta, come una sfida. Le polveri poste in una bottiglia di cristallo dovevano essere sepolte sotto il suo ginepro favorito. Una successiva appendice precisava che ci sarebbe stato bisogno di molta legna per il rogo. Ma i dignitari romani, da lui sempre esecrati in vita, non volevano essere defraudati di un bel funerale e si vendicarono di lui morto. Con un'aggiunta di ironia, si sostenne che la cremazione avrebbe offeso la sensibilità religiosa del popolo. Le autorità, sostenute dai figli, fecero in tempo a esautorare la moglie. Fu seppellito con incongruenza alla presenza di duchi, ministri e deputati; alcuni superstiti dei Mille portarono il feretro. Il mondo ebbe l'ultima parola contro di lui.La sua ultima parola fu un testamento politico. Legò in eredità a figli e amici l'amore per la libertà e per il vero. Ripudiò esplicitamente l'estremo servizio di quello che egli chiamava l'atroce nemico del genere umano, il clero cattolico. Condannò ancora una volta i mazziniani come nemici d'Italia,

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di poco migliori dei preti. Raccomandò di nuovo ai suoi compatrioti di scegliere l'uomo più onesto d'Italia ed eleggerlo dittatore. Solo allorché gli italiani fossero maggiormente educati alla libertà, e il paese meno minacciato dall'esterno, solo allora il governo dittatoriale doveva cedere il posto a un governo repubblicano regolare. Questo in breve era un limpido riassunto di quan to un soldato dalla mente semplice ma dal grande cuore aveva appreso nel corso di una intera vita de dicata a un ideale.

APPENDICE

Questa appendice documentaria raccoglie diciassette testimonianze sulla vita di Garibaldi di scrittori, giornalisti, militari, uomini politici stranieri, più una lettera di Vittorio Emanuele a Cavour, sempre su Garibaldi.Tutti i documenti qui riprodotti tranne due, sono tradotti per la prima volta in italiano.

Una testimonianza di Alexandre Dumas.Tra i capi che collaborarono alla difesa di Montevideo, e che saranno compensati dalla riconoscenza non già di una sola città, ma di un'intera nazione, citiamo innanzi a tutti Giuseppe Garibaldi. Giuseppe Garibaldi, bandito dall'Italia, dove aveva combattuto per la libertà; bandito dalla Francia, per aver voluto combattere a favore della medesima causa; bandito dal Rio Grande per aver contribuito a fondare una repubblica, venne a offrire i suoi servigi a Montevideo.Vogliamo tentare di fare conoscere ai nostri contemporanei, dandone un ritratto sia fisico che morale, un uomo di tanta fama che non lo si è potuto attaccare se non ca lunniandolo.Fisicamente, Garibaldi è un uomo di 38 anni, di media statura, dalle membra ben proporzionate, con capelli biondi e occhi azzurri, naso fronte e mento greci, vale a dire vicini quanto è possibile al vero modello della bellezza. Porta la barba lunga.La sua tenuta ordinaria consiste di un abito ben aderente al corpo, privo di ogni insegna militare.Ha momenti pieni di grazia; la voce, di una dolcezza senza limiti, ricorda un canto.Nelle circostanze ordinarie della vita è piuttosto distratto che attento, e sembra un calcolatore anziché un uomo d'immaginazione; ma pronunciate davanti a lui le parole "indipendenza" e "Italia", ed eccolo risvegliarsi come un vulcano, gettare fiam me ed eruttare lava.Non si è mai visto Garibaldi portare un'arma, tranne che in combattimento; al momento dell'azione afferra la prima spada a portata di mano, butta il fodero e si scaglia contro il nemico.Nominato nel lB42 comandante della piccola flotta di Montevideo, egli sostenne nelle acque del Paranà un aspro combattimento contro forze tre volte superiori; quindi, resosi conto che era impossibile prolungare la re sistenza, tirò in secco quelle che non chiameremo le sue navi, ma piuttosto le sue barche, vi appiccò il fuoco e alla testa del suo equipaggio si presentò tra i primi alla difesa di Montevideo.Il ministro della Guerra, Pacheco y Obes, comprese all'istante il proscritto Giuseppe Garibaldi.Questi due uo mini non ebbero bisogno che di vedersi per intendersi, e il loro primo incontro segnò l'inizio di una di quelle amici zie così rare nell'epoca attuale.Montevideo, già assediata da terra, fu bloccata sul mare dalla flotta di Rosas.Il mini stro della Guerra volle organizzare sul mare una resisten za analoga a quella che aveva già approntata a terra e, sebbene la repubblica non disponesse che di piccoli bat telli, arrivò, con l'aiuto di Garibaldi a mettere in opera questo progetto.E in effetti non erano trascorsi due mesi che quattro piccoli bastimenti inalberanti la bandiera uruguayana presero il mare per combattere la flotta di Rosas, comandata dall'ammiraglio Brown...L'8 febbraio l846 il generale Garibaldi, alla testa di 200 italiani, si imbatte in 1200 uomini di Rosas

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(tra cui 400 fanti) al comando di don Servando Gomez.Che cosa fece Garibaldi? Qualsiasi comandante, anche il più valoroso, in una situazione del genere si sarebbe limitato a guada gnare qualche scontro là dove la linea di difesa era miglio re.Non Garibaldi egli e i suoi 200 uomini attaccano i 1200 soldati di Rosas e dopo cinque ore di lotta furiosa la fante ria nemica è distrutta, la cavalleria demoralizzata si ritira e Garibaldi resta padrone del campo di battaglia.Sempre il primo in combattimento, Garibaldi era pure sempre il primo a tentare di attenuare le sofferenze pro dotte dalla guerra.Se talvolta compariva negli uffici governativi era sem pre per sollecitare o la grazia per un cospiratore o degli aiuti a favore di una persona colpita dalla sventura.E all'intervento del generale Garibaldi che don Miguel Molina y Haedo, condannato dalle leggi della repubblica, dovette nel 1844 la propria salvezza.A Gualeguaychu Garibaldi cattura il colonnello Villagra, uno dei più feroci tra gli ufficiali di Rosas, ma lo lascia immediatamente libero, insieme a tutti i suoi uomini.A Ytapevy si incontra con il colonnello Lavalleja e lo sconfigge; l'intera famiglia del colonnello cade nelle sue mani.Egli forma immediatamente una scorta costituita dagli stessi prigionieri e rinvia al colonnello i suoi familiari con una lettera piena di cortesia e di generosità.Ripetiamo ancora una volta che per tutto il tempo in cui sono stati a Montevideo, Garibaldi e la sua famiglia hanno vissuto nella più completa povertà.Egli non ebbe mai altre scarpe oltre a quelle militari, e assai spesso i suoi amici furono costretti a ricorrere a sotterfugi per sostituire i suoi abiti ridotti in pezzi con indumenti nuovi.Signori giornalisti che avete trattato Garibaldi da capitano di ventura, scrivete a Montevideo; scrivete agli uomini di governo, ai commercianti, alla gente del popolo, e apprenderete che in questa repubblica di cui voi repubblicani, patrocinate l'abbandono, nessun uomo è mai stato stimato tanto universalmente.[Alexandre Dumas.

Garibaldi in Sud America.Quando lavoravo a Montevideo come diplomatico con incarichi speciali, sono stato per due anni in costante contatto con quest'uomo notevole.In qualità di comandante in capo della marina di Montevideo, egli era stato posto dal governo agli ordini degli ammiragli inglesi e francesi.I vascelli delle squadre unificate inglesi e francesi erano quasi tutti troppo grandi per poter navigare in alcuni degli affluenti del Rio de la Plata, e quindi la flottiglia di Montevideo risultò in molte occasioni utilissima nella difesa della Banda Oriental dalle ripetute invasioni delle forze di Rosas.Al fine di render la flottiglia efficiente fu necessario rifornire Garibaldi di armi, munizioni da guerra ed equipaggiamento navale, oppure dei mezzi per pro curarsi tutto ciò...Incoraggiato dalla reputazione che già allora Garibaldi godeva non solo come uomo d'armi, ma per qualità di onore e di integrità, decisi di prendere tutti gli accordi con lui personalmente.Naturalmente all'inizio, quando avevo scarsa conoscenza ed esperienza di questo degno uomo, una certa diffidente cautela mi consigliava di controllare in vario modo i suoi resoconti e di accertare per via indi retta che le forniture venissero amministrate a dovere.I risultati della mia indagine non avrebbero potuto essere più soddisfacenti, anche per quanto riguarda i pareri di persone a lui ostili, desiderose di sostituirlo nei suoi inca richi, estremamente gelose dello straniero Garibaldi e in teressate ad avversarlo per ragioni sia personali che na zionali.Ogni prova si risolveva a suo favore, e l'esperienza successiva mostrò l'eccellenza del suo giudi zio e la prudenza dei suoi consigli.Anzi, gli ammiragli in glesi e francesi dovettero più volte rammaricarsi di avere in un primo

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tempo diffidato di lui e trascurato i suoi sug gerimenti.Garibaldi usava venire da me genearalmente di sera, sempre avviluppando nel suo poncho o mantello, che no abbandonava per tutta la durata della conversazione.Era una strana abitudine.In seguito venni a sapere la ragione di questo suo venire sempre dopo il calar delle tenebre: il fatto era che non aveva i mezzi per acquistare una lampa da per il suo uso privato, e quindi utilizzava finché pote va la luce del giorno per scrivere i suoi ordini, mappe ecc.Da me veniva a lavoro finito.Inoltre teneva sempre ad dosso il suo poncho per nascondere lo stato pietoso degli abiti, perché letteralmente non aveva di che procurarsi degli indumenti decenti.La paga e i rifornimenti che avrebbe dovuto ricevere non gli arrivavano mai, se non in misura irrisoria.Il governo era spesso costretto a sospen dere tutte le paghe, accumulando enormi debiti, perché l'interno della Banda Oriental era occupato quasi intera mente dall'esercito invasore di Rosas...Proprio in questo momento, mentre Garibaldi era in condizioni di quasi povertà, Rosas gli fece le avances più pressanti, offrendogli non soltanto il comando della flotta di Buenos Ayres, con considerevoli appannaggi, ma an che un dono di 30.000 dollari d'oro, da versarsi immediatamente.Ma queste profferte non tentarono minilnamen te Garibaldi, che mantenne il suo comando per tutto il tempo del mio soggiorno nel Rio de la Plata, e anche dopo che fui sostituito da Lord Howden, il quale in seguito do veva esprimere nel parlamento britannico un'opinione fa vorevolissima su di lui.Garibaldi possiede una qualità eccezionale e della massima utilità: è capace insieme di comandare e di agi re, sia in mare che a terra, ed è un marinaio eccellente, con grandi conoscenze nautiche.I genovesi e i sardi posti sotto il suo comando dividevano queste caratteristiche, sebbene fossero, data la loro formazione, più marinai che soldati.Io potrei citare molti esempi dell'audacia di que sto valoroso comandante, come anche della sua abilità e prudenza.L'estrema modestia dei suoi modi tranquilli e alquanto riservati colpiva coloro che lo vedevano per la prima vol ta, e che nella maggior parte dei casi si erano formati di lui un'opinior.e completamente sbagliata.Naturalmente cortese, umano e gentile, egli sa come mantenere discipli nati i suoi uomini e ottenere l'obbedienza.Di lui nessuno ha mai saputo che abbia colto alcuna delle molte opportu nità di vantaggio personale, anche lecito, che gli si presen tavano.Non solo: egli ha pure sempre rigorosamente vie tato ai suoi uomini il saccheggio e ogni altra forma di cattiva condotta.William Gore Ouseley, ministro britannico in Uruguay, relativi agli anni 1845-47.Ricordi del Rio de la Plata. I Blancos [dell'Argentina] avevano soprannominato Garibaldi El Diablo per quella che sembrava la sua ubi quità: spesso, dopo uno dei consueti violenti attacchi da vanti a Montevideo, calata la sera, quando i suoi movi menti erano protetti dall'oscurità della notte, egli si imbarcava con un centinaio di uomini su una veloce go letta, risaliva il fiume in territorio uruguayano, sbarcava a Santa Lucia o a Colonia (ambedue assediate, come Monte video, dagli eserciti di Rosas) e vi compiva ai danni degli avamposti nemici fuori delle città imprese simili a quella che abbiamo appena descritto parlando della capitale.Il nome di Garibaldi era divenuto un elemento di forza della causa dei Colorados, giacché aveva già terrorizzato le forze imperiali brasiliane nel Rio Grande do Sul, una provincia confinante con la Banda Oriental che era insorta pochi anni prima.Garibaldi, esiliato in questa regione dalla sua natìa Genova, aveva condotto sino a quel mo mento una vita tranquilla come padrone di un battello per il trasporto di merci lungo la costa; ma lo

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spirito generoso che doveva portarlo nei giorni futuri a impegnarsi per il riscatto delle nazionalità oppresse era solo addormentato in lui, e non aspettava che l'occasione opportuna.La qua le arrivò a Porto Alegre (Rio Grande).Nella popolazione di questa provincia esisteva urla for te componente spagnola, niente affatto disposta a subire passivamente l'imperialismo portoghese mentre, poche miglia più a sud, i suoi compatrioti godevano di istituzio ni repubblicane.Costoro quindi si levarono in armi per li berarsi dal dominio brasiliano.Il commercio ne risultò paralizzato, e il futuro eroe di Roma e Marsala dovette trovare difficile continuare a usare la sua nave, rimanendo costretto a una situazione di ozio forzato; e di quest'ul timo si dice che è il padre di tutti i vizi.Che le cose siano andate così oppure no, è evidente che gli istinti guerrieri di Garibaldi non potevano essere compressi più a lungo, ed egli entrò arditamente nel conffitto, il quale doveva al la fine esaurire le risorse dell'impero prima che questi riu scisse a vincere.Mentre era impegnato in questa lotta, Garibaldi corteg giò e conquistò la bellissima Anita, una creola che aveva tutti i fascini delle senoritas della vecchia Spagna.Ella era, secondo le abitudini del suo paese, una splendida amaz zone, ed era uno spettacolo memorabile vederla galoppa re accanto al marito quando la legione italiana, banda in tesh, rientrava dopo aver assolto il lavoro della giornata dalle linee esterne in Montevideo alla piazza della città, dove poi si scioglieva e ognuno era libero di recarsi al proprio alloggio.Garibaldi era allora nel pieno vigore del la virilità, con una coroporatura robusta che aderiva al ca vallo facendone un centauro.Aveva capelli e barba lun ghi, a quell'epoca di color bruno scuro, con venature rossicce la barba.Sereno in volto, labbra strette a denotare una forte volontà, sguardo fermo e penetrante.Di statura media, nell'insieme la sua figura appariva esemplare per un capo di truppe irregolari.Indossava un'ampia tunica scarlatta, e sulla schiena si distendeva un fazzoletto dai colori vivaci, annodato intorno al collo.Un cinturone da cavaliere, con appesa la spada, lo stringeva alla vita, e nel le fondine della sella teneva un paio di pistole.In testa aveva l'identico cappello di feltro nero piumato che por tavano tutti i suoi soldati.Quanto alle origini della camicia rossa garibaldina, esse risalgono alla necessità di vestire nel modo più economico possibile la legione di nuova formazione.Era infatti accaduto che una ditta commerciale di Montevideo offrisse generosamente al governo, a prezzi ridotti, una partita di camicie di lana rossa inizialmente destinate al mercato di Buenos Ayres (ora chiuso a causa del blocco); l'occasione era stata giudicata troppo buona per essere trascurata, e l'acquisto era stata effettuato. Queste camicie sarebbero dovute andare agli operai dei Saladeros (grandi stabilimenti per la macellazione e la salatura del bestiame a Ensenada e in altri luoghi delle province argentine) : esse erano buoni indumenti invernali, e inoltre il loro colore serviva a mascherare il sangue che finiva addosso a questi uomini nel loro lavoro.[Contrammiraglio della Marina inglese H.F. Winnington.]

La ritirata da Roma. 2 luglio 1849.Una folla vasta e plaudente circondava i resti del valoroso esercito quando lasciammo Roma.Io e altri dieci soldati a cavallo costituivamo la retroguardia, e fummo gli ultimi a oltrepassare le porte. Fu un momento amaro. Più volte arrestai senza rendermene conto il mio focoso cavallo, quasi costretto a volgermi indietro verso le torri e i palazzi della città eterna. Ma infine padroneggiai i miei sentimenti e allentai le briglie a Moretto. Presto raggiunsi Garibaldi, che galoppava su e giù lungo la colonna incitando a muoversi più in fretta.Continuammo a marciare ininterrottamente in completo silenzio dalle dieci di sera alle sette della mattina successiva. Non era permesso fumare, e gli ordini venivano passati sussurrando.

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Con questa velocità e segretezza il generale intendeva acquistare in partenza un buon vantaggio e farci raggiungere rapidamente le montagne.Le nostre pattuglie a cavallo sorvegliavano l'area sul fianco destro, e un'avanguardia (pure a cavallo) si spingeva tal volta parecchie miglia in avanti.3 luglio.Alle sette del mattino avevamo raggiunto le colline, dove ci venne incontro plaudente la popolazione di Tivoli. La truppa trovò cibo già preparato; a questo scopo il generale aveva mandato avanti alle due del mattino un ufficiale con un distaccamento a cavallo...La nostra cavalleria fu posta dapprima sotto il comando del maggiore Muller e del maggiore Migliazzo. Erano quattrocento uomini valorosi, quasi tutti ex dragoni.Più tardi il comando del reparto passò al colonnello Bueno, un sudamericano che mi sembrò persona frivola ed egocentrica. I cavalli erano buoni ma l'equipaggiamento insufficiente.Privi di addestramento e dell'equipaggiamento necessario, questi soldati avrebbero potuto difficilmente reggere una carica condotta da una cavalleria regolare, ma erano indispensabili per procurare i rifornimenti di cibo mentre noi continuavamo la marcia.Essi si assunsero pure la maggior parte del faticoso lavoro dei servizi di informazione e di spionaggio. Senza questa unità di cavalleria avremmo dovuto trovare la nostra strada in mezzo alle colonne mobili dell'esercito austriaco e francese, e talvolta impegnare battaglia al mero scopo di ottenere informazioni. La nostra artiglieria consisteva di un piccolo pezzo da campagna e di un affusto trainati da quattro cavalli.Se una città si fosse mostrata ostile, sarebbe stato un gran vantaggio poterla spaventare tirando un paio di colpi. Inoltre era utile far cre dere al nemico che avevamo dell'artiglieria con noi...Avevamo moneta cartacea per pagare la truppa e acquistare provviste, ma soltanto per quattro settimane. Inoltre in Toscana questa moneta romana non aveva corso legale, e perciò Garibaldi la cambiò in moneta metallica nelle città più grandi, come Terni e Todi.Più tardi il deprezzamento di questa cartamoneta doveva comportare perdite considerevoli per quelle comunità...4 luglio.Ieri abbiamo marciato per un'ora e mezza verso sud, per far credere che Garibaldi avesse deciso di prendere quella direzione. Al tramonto piegammo bruscamente a destra, attraverso i campi, e a mezzanotte bivaccavamo presso un corso d'acqua.Eravamo di nuovo vicini a Tivoli, nascosti in un avvallamento del terreno. Con movimenti di questo tipo il nostro accorto generale riuscì sempre, lungo tutta la nostra pericolosa marcia, a ingannare il nemico. Soltanto il generale e io sapevamo dove ogni volta la marcia ci avrebbe condotto; e spesso neppure io sapevo quale sarebbe stata la tappa successiva.Io ero il responsabile della sicurezza della colonna, e avevo stabilito alcune regole semplicissime.Quando ci trovavamo sulle strade principali mandavo davanti e dietro di noi a una distanza di tre o quattro miglia, unità a cavallo. Su ogni fianco della colonna si collocavano numerosi distaccamenti, di fanteria o di cavalleria a seconda delle caratteristiche del terreno...Una parte delle truppe a cavallo rimaneva spesso arretrata per un'ora o due dopo che ci eravamo mossi. Le salmerie le spedivamo avanti, se possibile, di un'ora di marcia, con una scorta speciale.Assai di rado accendevamo fuochi la notte. Di solito avevamo due periodi di marcia nella giornata, uno dalle due alle dieci del mattino e l'altro dalle cinque alle otto o anche alle dieci della sera. Nelle soste ci accampavamo in luoghi ben provvisti d'ombra e d'acqua.Il rancio era pronto al più tardi alle due del pomeriggio, in modo da poter ripartire alle cinque.Spesso la seconda marcia si prolungava sino a notte inoltrata, con grave appesanti mento del mio lavoro. Il pane non lo si poteva avere tutti i giorni, ma era raro che mancassero vino e carne.Quest'ul tima usavamo arrostirla, adoperando un ramo verde come spiedo.Non avevamo né grassi né sale, eppure questo cibo, di stile americano, era estremamente gustoso.5 luglio

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Questo pomeriggio alle sette abbiamo fatto il punto sulla marcia della giornata, e Garibaldi ha tenuto ai suoi uomini un discorso breve ma efficace.6 luglio.Le salmerie e gli animali da carico si sono mossi a mezzanotte; il resto della colonna li ha seguiti alle due e mezza del mattino, e per tutta la giornata abbiamo avuto una marcia eccellente. Le parole del generale hanno operato meraviglie. I soldati lo temono tanto quanto lo amano.Essi sanno benissimo che Garibaldi è capace di farli fucilare senza neppure perder tempo a togliersi il sigaro di bocca. Il generale conosce soltanto due punizioni: un biasimo e la morte..7 luglio.Durante la difesa di Roma avevo avuto molte occasioni di ammirare la fermezza di Garibaldi nel dirigere una battaglia e la rapidità e la precisione con cui sapeva cogliere i particolari.Ora potevo osservare tutti i giorni la sua eccezionale abilità in materia di sicurezza e di servizi di informazione. Egli se l'era fatta in lunghi anni di guerra combattuta con truppe leggere dai movimenti rapidi, e per queste cose era probabilmente un maestro senza rivali in tutto il mondo.La sua energia era sconfinata. Quando lasciavamo l'accampamento il suo primo lavoro consi steva nel trovare le guide e nel dare istruzioni a quegli ufficiali che si occupavano di cercare le informazioni sui movimenti del nemico e di trovare le vettovaglie per la giornata.Spettava a me sorvegliare la partenza della colonna principale, mentre il generale e sua moglie raggiungevano a cavallo l'avanguardia per impartire gli ordini necessari.Spesso egli si spostava in avanti di parecchie miglia, in modo che noi avevamo tempo in abbondanza per schierarci o per impegnare il nemico in azioni diverse. Di staccamenti ora piccoli ora più grandi venivano da lui in caricati di proteggerci il fianco.Spesso Garibaldi cavalcava all'indietro sino alla retroguardia per controllare come l'intera colonna stava muovendosi.10 luglio.Alcuni potrebbero credere che il carattere avventuroso del nostro modo di vivere e l'eccezionalità del la nostra situazione stimolassero una certa familiarità tra Garibaldi e i suoi ufficiali, ma in realtà ciò non accadde mai, neppure con uomini come Marocchetti e Sacchi, compagni fidati che avevano combattuto con lui in Ame rica. Anche costoro si avvicinvano al generale con il più grande rispetto, e ognuno si sarebbe considerato felice di sentirsi rivolgere a lui parole amichevoli, o anche soltanto affabili. Tutti i consigli, tutte le buone idee, da qualsiasi parte provenissero, erano benvenuti, ma ogni osservazione troppo insistente trovava orecchie sfavorevoli.Io non ho mai visto un solo caso di disobbedienza, o anche di semplice trascuratezza nell'eseguire un suo ordine. l san gue caldo dei soldati italiani veniva agevolmente quietato dalla sua calma inflessibile. Garibaldi, molti l'hanno già osservato, era nato per comandare.La sua eccezionale frugalità, la robustezza del fisico, l'ardore impetuoso del temperamento (che gli veniva dal suo paese), l'inalterabile serenità di spirito che aveva appreso in America: tutto si combinava insieme a conferirgli un'autorità sopra i suoi uomini che sembrava rendere possibile ogni impresa...11 luglio.Il nemico non riusciva mai a tener dietro ai nostri movimenti, tanta era l'abilità con cui Garibaldi guidava le nostre marce. Non si partiva mai alla stessa ora; si operavano improvvisi mutamenti di direzione; oggi si faceva una marcia e domani due; la retroguardia veniva lasciata ferma dietro di noi; si prendeva d'improvviso una strada principale solo per abbandonarla un'ora più tardi; si effettuavano inaspettatamente marce lunghissime, combinate con tre o quattro piccole; si facevano lunghi e tortuosi giri là dove sarebbe stato possibile usare una scorciatoia; si mettevano in circolazione informazioni false (per esempio si faceva credere che avevamo ordinato razioni per 6.000 uomini): tutto ciò faceva parte del suo gioco.Anche il nostro modo di accamparci, secondo ogni apparenza così strano e disorganizzato, mirava a dare alla popolazione locale una falsa idea della nostra forza.

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Quasi mai Garibaldi fece acquartierare la truppa in città o villaggi, e anche questo contribuiva non poco a confondere le nostre tracce. Non solo le marce, ma anche le misure di sicurezza variavano continuamente. Le postazioni avanzate non venivano mai organizzate due volte nello stesso modo: oggi si adoperavano due compagnie, domani tre, e il giorno successivo magari una soltanto.In una certa situazione egli sceglieva di sfoggiare grandi unità, in un'altra le teneva nascoste, e talvolta l'unica nostra guardia era costituita da poche pattuglie a cavallo.Così facendo confondevamo gli austriaci e li rendevamo prudenti, con il risultato che ci era più facile eluderli. Oggi, 11 luglio, Garibaldi ha deciso di costituire piccoli gruppi aggiuntivi di partigiani allo scopo di ingannare il nemico. Cucelli è stato mandato con una compagnia verso Perugia, Amero con un'altra verso Foligno, mentre Isnardi conduceva i suoi uomini in direzione di Orvieto. Tutti avevano l'ordine di muoversi rapidamente, anche se con prudenza, di fare prigionieri e di ottenere informazioni agendo sotto ogni rispetto come bande partigiane.L'ammonimento finale fatto da Garibaldi a questi soldati era che la loro salvezza stava essenzialmente nel cambiare continuamente posizione, al punto da non passare mai una notte intera nello stesso posto...14 luglio. Presso Orvietol !'atteggiamento amichevole di Garibaldi persuase un uomo a fidarsi di noi e a farci da guida. Questo rassicurò un gruppo di pastori, che ci si av vicinò per soddisfare la sua curiosità.Con questa gente il generale sa comportarsi in modo da ottenere sempre risultati eccellenti.In pochi minuti fanno a gara di cortesie con lui e gli raccontano ciò che sanno del nemico e delle sue intenzioni. Ricordo che egli usava dire: Di che avete paura? Vi parlo forse in tedesco? Forse vi derubiamo o mettiamo a fuoco le vostre proprietà? Combattiamo per voi o contro di voi? Non siamo noi vostri compatrioti?. Quando tornammo i soldati stavano già preparando da mangiare; avevano ucciso parecchi buoi del nostro gregge, e a Todi avevamo avuto del pane. Oggi è mancato in vece il vino. Un soldato era stato catturato mentre rubava un pollo a una donna di questo povero villaggio, ed è stato giustiziato oggi.Quando i colpi risuonarono Garibaldi si alzò e disse ai soldati attoniti, che non erano al corrente dell'accaduto: Ecco come io punisco i ladri! Combattiamo per la libertà, o non siamo che dei predoni? Siamo qui per proteggere il popolo o per opprimerlo?.La truppa gridò: Evviva Garibaldi!, e sono certo che urlò più forte proprio chi aveva appena mangiato anche lui un pollo rubato. Sfortunatamente era ogni giorno più evidente che non erano stati gli elementi migliori dell'esercito della repubblica romana ad aggregarsi alla nostra colonna, e che il morale e la disciplina dei nostri uomini non venivano certo favoriti da un modo così complicato e tortuoso di procedere. C'erano due soli rimedi possibili: o tornare sui nostri passi, o affrettarci alla costa e dare ai nostri soldati una speranza tangibile...Gli abitanti di Orvieto ci chiusero le porte in faccia e inviarono una delegazione a proibirci l'ingresso in città. Essi erano però pronti a darci tutto il vino, il pane e la carne che volevamo; il generale rinviò indietro la delegazione senza degnarla di una sola parola...31 luglio.La repubblica di San Marino giace su un enorme spuntone di roccia levantesi perpendicolarmente sulla pianura. Ufficiali e soldati si fecero avanti ad ammirare uno spettacolo così bello.Il generale fermò qui la nostra retroguardia, e condusse quindi la sua colonna (forte ora di soli 1.800 uomini) nella stretta valle che ci separava dal rialzo roccioso e da questa repubblica indipendente. Intanto si ordinava alla cavalleria di penetrare nel territorio sanmarinese dal lato opposto della valle (ciò significava compiere un'illegalità, ma vi eravamo forzati da considerazioni tattiche). Il generale con poche compagnie salì verso la città. Il governo di San Marino accettò immediatamente di farci passare per il suo territorio e di rifornirci di cibo.Come fummo di ritorno alla colonna principale udimmo alcuni colpi e ci lanciammo a tutta velocità, nonostante il sentiero fosse sassoso e pericoloso. La colonna era in piena fuga, inseguita

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da un gran numero di compagnie austriache lungo la gola che gira intorno al rialzo roccioso di San Marino e risale sulla strada per Rimini. Raggiungemmo il pendìo e riconoscemmo subito Anita, la moglie del generale, che, sola, tentava di frenare il panico facendo sibilare la sua frusta e gridando ai soldati di fermarsi. Neppure uno dei suoi compagni aveva il coraggio di starle vicino.Essa si unì rapida a Garibaldi e, furiosa per questa fuga codarda, guidò la nostra colonna verso la città.Era evidente che non c'era più nulla da fare con truppe che erano state sfinite dalle marce e dalla fatica. I loro stivali erano quasi tutti in pezzi.La maggior parte degli ufficiali era stanca di una guerra che offriva così poche speranze, e i loro cavalli e muli erano esausti. Sembrava assai miglior partito tornare a casa piuttosto che finire con una cattura, che appariva inevitabile. Inoltre il generale sarebbe stato personalmente più sicuro senza i soldati, poiché chiaramente noni poteva più contare su di loro in uno scontro col nemico; e tuttavia non era possibile abbandonarli senza disonore.Così egli spiegò la sua posizione ai rappresentanti del governo, dicendo loro di essere pronto ad abbandonare le armi a San Marino in cambio della promessa austriaca di lasciar tornare a casa in pace i suoi uomini. Un inviato del governo portò questa proposta al comandante austriaco.Intanto Garibaldi pubblicava l'ordine seguente:San Marino, 31 luglio 1849.Noi siamo giunti sulla terra di rifugio, e dobbiamo il miglior contegno ai generosi ospiti: così avremo meritata la considerazione che è dovuta alla disgrazia perseguita.Da questo punto io svincolo da ogni obbligo i miei compagni, lasciandoli liberi di tornare alla vita privata, ma rammento loro che l'Italia non deve rimanere nell'obbrobrio, e che meglio è morire che vivere schiavi dello straniero.Garibaldi.Dapprima gli austriaci rifiutarono di trattare, ma la sera stessa chiesero un abboccamento col generale. Garibaldi non accettò, preferendo far concludere una tregua in suo nome dai rappresentanti di San Marino, certo com'era che essi avrebbero fatto del loro meglio per ottenere condizioni vantaggiose. La nostra impresa, che era cominciata nella repubblica romana, finiva nella repubblica di San Marino. Io spero che le ragioni del nostro insuccesso siano ormai chiare a chiunque capisca di faccende militari. Per trenta giorni la nostra colonna di tre o quattromila uomini aveva combattuto ininterrottamente.Non avevamo avuto a disposizione alcuna base operativa, né alcun territorio che ci offrisse un rifugio, anche solo momentaneo. A questo punto le nostre speranze di successo erano praticamente nulle, e perciò non avevamo altra scelta che di scioglierci.Dopo che avevamo sopportato marce continue, giorno e notte, le colonne nemiche cominciavano a tallonarci. Ogni giorno il nostro numero diminuiva e il morale si indeboliva; persino gli ufficiali disertavano. Prima che Garibaldi congedasse formalmente i suoi soldati, la colonna si era già disintegrata di fatto.[La testimonianza è dell'ufficiale svizzero Gustav von Hoffstetter]

L'esilio negli Stati UnitiTristi ricordi accompagnarono il campione dell'Italia nel Nuovo Mondo.La moglie morta, il sentimento pa triottico offeso, l'esilio dalla terra per cui aveva così a lun go lavorato e sofferto, gli arti tormentati da dolori conti nui dovuti ai prolungati disagi, i compagni prediletti banditi o uccisi: egli sembrava essere sopravvissuto a tut to ciò che fa cara la vita, tranne che alla prospettiva, lonta na, di morire per il suo paese.E tuttavia la sua salvezza aveva avuto del miracoloso, ed egli deve aver sentito che era conservato in vita per un grande scopo.I suoi compa trioti di New York, tra i quali molti avevano provato il lo ro sincero attaccamento alla causa che egli aveva tanto a cuore (con loro c'erano Avezzana e Foresti), gli diedero un benvenuto fraterno.

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In terra straniera l'aspettavano una casa e degli amici; ma, pur ricambiando con sincerità l'affetto manifestatogli, Garibaldi mantenne con fermezza quello spirito d'indipendenza che gli era così caratteristi co.Appena la sua salute si fu parzialmente ristabilita, gimpegnò in un'attività regolarmente retribuita, lavoran do in una manifattura impiantata da un altro italiano; e quando le forze gli tornarono in pieno, assunse il coman do di un vascello mercantile.Fu durante questo periodo del suo esilio che vedemmo per la prima volta Garibaldi in occasione di una riunione a casa di Felice Foresti, a New York, tenuta allo scopo di decidere come utilizzare dei fondi raccolti per la causa ita liana prima della sfortunata conclusione della rivoluzione del 1848.La maggior parte dei presenti apparteneva al co mitato che si era incaricato di mettere insieme il denaro, e di parecchi di loro erano note le sofferenze e le fatiche pa tite per l'Italia.Furono discussi diversi progetti, e fu subi to deciso di utilizzare il denaro sia per venire in aiuto agli indigenti che per promuovere, anche se indirettamente, il benessere di coloro per cui era stato raccolto.La nostra attenzione fu attratta dal comportamento si lenzioso e riservato di una persona seduta in un angolo della stanza.Era di statura media, con un aspetto franco e bonario e uno sguardo singolarmente risoluto: una di quelle facce che uniscono alla modestia e al candore una volontà inflessibile, in cui le prime due qualità menziona te sono segnalate dall'espressione ingenua della bocca e dalla modestia dell'atteggiamento, e la terza dalla fronte aggrondata e dall'occhio fermo e concentrato.L'ampiezza delle spalle e del torace, insieme a una cert'aria di coman do nella posizione del capo, davano una impressione di potenza e autorità; la dolcezza, schiettezza e gentilezza del tratto conquistavano immediatamente la simpatia.Relativamente alla maggioranza degli italiani noi notammo in quest'uomo una grande semplicità e franchezza. Egli ispirava fiducia all'istante. Nessuno poteva non riconoscere nella sua fisionomia i segni di una nobilità naturale. Si avvertiva immediatamente in lui, come per una in fluenza magnetica, una perfetta virilità, una vocazione che faceva appello a grandi energie fisiche, convinzioni originali e tenaci, elevatezza di sentimenti, spirito indomi to, serietà di volontà, forza di propositi e disinteresse per sonale.Questo giudizio trovò conferma quando arrivò per lui il momento di esprimere le sue idee, cosa che fece con una modestia pari all'autorevolezza e alla capacità di persua sione.Senza la vivacità superficiale e i modi esagerati così comuni al temperamento italiano, egli rivelava una forza latente tanto più impressionante per il contrasto che face va con i discorsi prolissi ed esagitati dei suoi compatrioti.La calma dell'atteggiamento, la relativa lentezza del gesti re, il carattere quasi sassone dei capelli e della barba lo fa cevano sembrare un europeo del nord piuttosto che un la tino; e tuttavia era, nello sguardo, nella voce e nel tratto schiettamente italiano.La sua nazionalità si faceva ancora più evidente nell'improvvisa anche se controllata emozione che traspariva nelle sue parole e nella sua espressione quando parlava (o sentiva parlare) dell'Italia. In quei momenti la tranqullità dell'uomo s'incrinava, la riservatezza cedeva all'espansività, il silenzio si faceva eloquente.[North American Review, (Boston 1861), L'articolo non firmato, ma certamente di Henry Theodore Tuctrerman, si riferisce agli anni 1850-51.

Un omaggio di George SandNon fui sorpresa di vedere in quei giorni il ritratto di Garibaldi nelle case dei pii montanari del Velay e delle Cevenne. Questo avventuriero illustre, che appena poco tempo prima certi spiriti timorosi rappresentavano come un bandito, figurava là in mezzo alle immagini dei santi.E perché no? Perché non dovrebbe trovar posto tra i protettori della povera gente, lui che ha

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annunciato al po polo italiano una nuova fede? Osservate se la sua parola non ricorda quella dei primi cristiani! Dalla sua bocca non escono argomentazioni politiche, né le teorie materialisti che dell'interesse personale. Io vi porto, egli dice, il pe ricolo, la fatica e la morte; vi predico la salvezza dell'ani ma e non una vita tranquilla.Levatevi e seguitemi!.Ecco ciò ch'egli dice ai contadini italiani, ed essi si levano e marciano, obbedendo all'appello dell'entusiasmo.E c'è chi afferma che il tempo dei miracoli è finito!...Senza dubbio i re di Sardegna e Cavour hanno visto in lui, se non qualcosa di più, almeno qualcosa di diverso da tutti gli altri eroi che potevano opporre (e che di fatto so no riusciti a opporre) al nemico della patria.Essi hanno scorto in Garibaldi ciò che il popolo aveva già visto, e cioè una sorta di cavaliere del tempo antico, un apostolo dell'emancipazione e un iniziatore.Ed è per questo che gli hanno affidato la missione adatta al suo destino presti gioso, al suo fascino immediato, all'attrattiva della sua pa rola ispirata e della sua nobile fisionomia, alla capacità trascinatrice della sua fede patriottica.Incaricato di solle vare il popolo contro l'Austria e di annunciare la buona novella incalzando il nemico, egli giuoca un ruolo che non ha alcun precedente nella storia: fa la rivoluzione a vantaggio di una dinastia, e lo fa consapevolmente, lutamente, lealmente, senza essere né ingannato né ingan natore. Sono i pensieri intimi, è l'opera morale di Garibaldi che maggiormente impressionano.In questo momento i suoi successi sono su tutte le bocche, e questa figura poetica, che si giova di tutto il fascino delle realtà ignote, ha con quistato i cuori e le fantasie dei francesi.Noi non ne siamo sorpresi.Garibaldi non rassomiglia a nessuno, e in lui vi è qualcosa che fa riflettere.Gli sciocchi possono attribuire la sua fama alla giovinezza, alla bellezza; qualcuno dice allasua forza fisica, altri alla voce stentorea, altri ancora alla corporatura tarchiata o alla teatralità dell'abbigliamento.Ma fortunatamente nulla di tutto ciò è vero oggi, eppure il suo prestigio è ancora vivo.Garibaldi veste in modo conveniente al suo grado militare, non è più nella prima giovinezza, e nella sua fisionomia c'è più nobiltà e sere nità che bellezza; il suo aspetto non è quello di un gigante né di un bandito; egli appare piuttosto una natura delica ta ed eletta in cui l'anima regna sul corpo conferendogli la propria potenza.Ha la voce dolce, il tratto modesto, i mo di distinti, una grande generosità e un'immensa bontà ac compagnate a una risolutezza inflessibile e a un incrolla bile spirito di giustizia.E un uomo fatto per comandare, ma attraverso la persuasione: non può governare che de gli uomini liberi.Egli esercita su di loro soltanto i diritti sacri della parola data e ricevuta.C'è nel suo rapporto con i soldati qualcosa di entusiastico e di religioso che non ha riscontro nelle truppe regolari, e che forma uno dei feno meni più singolari dei nostri tempi, in mezzo a una guer ra guidata da calcoli sapienti e da una disciplina severa.Ebbene, questo piccolo esercito di partigiani che marcia per proprio conto, preoccupato soltanto di vincere o mori re, non ha intralciato né ostacolato neppure una volta i piani dell'armata regolare alleata; tutto al contrario, Gari baldi, circondato dai suoi eroi invincibili, a un tempo audaci come leoni e astuti come volpi, ha perseguito i suoi scopi a suo modo...[George Sand]

Il giudizio di un ufficiale ingleseHo reso visita, su sua richiesta, al generale Garibaldi, e la cordiale accoglienza ricevuta mi ha fornito una buona occasione di studiare la personalità e le diverse caratteristiche di quest'uomo

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notevole, e soprattutto di sottoporre a verifica tutto ciò che avevo sentito della sua sconfinata popolarità e dell'immensa influenza da lui esercitata spe cialmente sulle popolazioni dell'Italia centrale, che si rias sume nell'appellativo, attribuitogli dalle classi inferiori, di padre dell'Italia.Io do al semplice fatto di quest'appellativo un'impor tanza maggiore di quella data da altri, perché esso sottoli nea in maniera immediata quelle peculiari virtù e qualità che hanno guadagnato a Garibaldi la posizione da lui ora detenuta tra i suoi compatrioti, e che molto significano quanto alla sua possibilità di mantenerla.Garibaldi era precedentemente noto in Italia e nel mondo come un repubblicano intransigente, temerario ed entu siasta, distinguibile solo per coraggio personale e talento militare dai più corrotti elementi del movimento quarantottesco italiano.A quel tempo erano relativamente pochi seppure esistevano, coloro che lo conoscevano per ciò che ora è sulla bocca di tutti, vale a dire come un patriota since ro e devoto e come un onest'uomo.Egli è stato paragonato, non impropriamente, a Wa shington, e in tutto ciò che riguarda l'amore disinteressa to per il proprio paese, l'assenza di ambizione personale, la serietà dei propositi e l'energia nell'azione, pochi paral leli storici potrebbero essere più felici.Identiche sono le virtù dei due uomini e la causa che hannG difeso; diverse invece la loro istruzione e le loro capacità intellettuali, ele mento che non può essere rilevato se non attraverso la sua incidenza sulla situazione attuale.Gentile e misurato di modi, lento ponderato e appropriato nel parlare, è difficile a un primo incontro evitare di attribuire a Garibaldi un livello di istruzione e di finez za intellettuale superiore al reale, o comunque a quello che si ricava da quanto si sa della sua storia, delle sue origini ed esperienze.Ma una conoscenza ulteriore rende evidente che la sua cultura è modesta e che le sue idee, se pur aperte e oneste, difficilmente si elevano al di sopra dei luoghi comuni generici e banali.Ma forse proprio da ciò deriva che egli esercita sui suoi uditori un'influenza quale un cervello più coltivato può non riuscire a realiz zare.Aggiungete una voce di fascino singolare e dei modi che convincono della sincerità delle sue parole, e si può agevolmente comprendere come non vi sia alcuna esage razione nell'affermare che egli è in grado di condurre i suoi seguaci dovunque, e di ottenere da loro qualsiasi cosa.Io mi sono reso personalmente conto di tutto ciò in occasione di una visita resa dal generale Garibaldi agli avamposti, nel corso della quale indirizzò un breve di scorso ai soldati.Questi si affollarono intorno al quartier generale della brigata gridando evviva per tutto il tempo in cui egli vi si trattenne. E impossibile rendere appropriatamente l'impressione del tono familiare e paterno, e tuttavia dignitoso, delle poche parole che Garibaldi pronunciò, e dell'entusiasmo che produssero...Una completa indifferenza per i propri bisogni personali accompagnata da una generosità senza limiti per quelli altrui; una semplicità d'animo caratterizzata da illusioni quasi di fanciullo sulla natura umana, che neppure la sua dura esperienza di vita ha potuto distruggere: ecco le qualità che gli vengono attribuite, e che chiunque ne sono convinto, sarebbe pronto a riconoscergli solo che venisse ammesso all'intimità della sua vita quotidiana.Da una lettera del colonnello George Cadogan, addetto militare britannico, a Lord John Russell, ministro britannico per gli Affari esteri (31 ottobre 1859).

Una conversazione a ParigiGaribaldi è un buon marinaio disse l'ammiraglio Bouet, probabilmente anzi miglior marinaio che generale. Suo padre era un pescatore di Nizza, ed egli ha passato sul mare i primi vent'anni della sua vita. Credo che la sua spedizione abbia fatto vela dapprima in direzione di Tunisi, dirottando poi a nord verso Marsala. Cavour ha scelto la via di mezzo, cosa alla quale non è abituato disse il principe [Gerolamo Napoleone].Avrebbe dovuto o fermare Garibaldi o dargli cinquemila uomini; comportandosi come ha fatto, ha

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gettato su di sé e su mio suocero [il re Vittorio Emanuele] l'intero discre dito per aver favorito la spedizione. I reazionari non l'avrebbero biasimato né odiato di più se le avesse fornito un aiuto effettivo. La popolarità di Garibaldi a Parigi aggiunse Bouet è enorme.I suoi ritratti scompaiono appena messi in circo lazione.Alcuni miei servitori sono stati l'altro giorno a un matrimonio borghese; non si parlava che di Garibaldi, persino gli sposi sembrava non pensassero ad altro. Io non credo disse MacMahon [maresciallo di Fran cia, comandante dell'esercito francese nella campagna lombarda del 1859] che egli sarà mai un generale.Gli manca la necessaria ampiezza di vedute; non è in grado di fare previsioni di lungo termine, né, conseguentemente, di lavorare in funzione di risultati lontani nel tempo e nel lo spazio. Ma è un ammirevole "partigiano". Quando era in Italia con i suoi quattromila uomini [nel 1859] una delle sue spie gli riferì di aver scoperto, a un paio di leghe di di stanza, un corpo di truppa austriaco, forte di tremila uo mini, che ignorava di esseregli vicino e poteva quindi essere colto di sorpresa e tagliato fuori. Costui era un traditore: era stato inviato dagli austriaci (che erano in realtà dodicimila) per persuadere Garibaldi ad attaccarli.Con la sua consueta impetuosità egli cadde nella trappola, marciò contro gli austriaci e si accorse solo quando fu loro vicino che le forze nemiche erano assai superiori alle sue e che erano preparate a riceverlo. La maggioranza dei comandanti si sarebbe ritirata, con la conseguenza che sa rebbero stati inseguiti, raggiunti e distrutti. Garibaldi invece attaccò gli austriaci con un vigore tale che questi pensarono che la loro spia li avesse ingannati, e che in realtà i garibaldini fossero più forti. Garibaldi li stanò dalle loro posizioni e li inseguì per un paio di miglia, finché si resero conto della sua forza reale e gli si volsero contro; ma a questo punto i garibaldini, agili e liberi nei movimenti, si misero in salvo sulle montagne. Egli batterà i napoletani più facilmente di quanto non abbia fatto con gli austriaci concluse il principe. E non credo che i romani riusciranno a fermarlo, nepppure con Lamoricière. [Nassau William Senior, Conversations with Prince Napoleon, in [The Fortnightly Review], 1879, .La conversazione si data 24 maggio 1860.

Rapporto da Palermo, di Henry Adams.Garibaldi aveva appena finito di pranzare, e sedeva presso una finestra d'angolo conversando con quattro o cinque visitatori, gentiluomini e signore palermitani. Quando entrammo si alzò, ci venne incontro e strinse la mano a ciascuno di noi mentre, a turno, gli venivamo presentati.Indossava la camicia rossa, proprio identica a quella di un pompiere, priva di ogni contrassegno militare o del grado. I suoi modi sono, come certo sapete, assai cortesi e cordiali, senza aver nulla di volgare o di demagogico. Egli conversò con ognuno di noi e sempre con perfetta naturalezza: nessun tono oratorio e nessuna affettazione, A questo proposito, ci fu un episodio che mi colpì.Ero seduto presso di lui, e quando il capo del nostro gruppo gli disse che avevo fatto tutto il viaggio da Napoli apposta per vederlo, mi prese la mano ringraziandomi co me se gli avessi fatto un favore. E così che conquista la gente. Parlava soprattutto in francese, perché il suo ingle se non è molto buono. Quanto ai suoi discorsi non contenevano nulla di particolarmente interessante, almeno quelli da me ascoltati direttamente.Altri potranno riferire la conversazione svoltasi se riterranno che valga la pena di riportare cose che non venivano dette a questo scopo. Ma ciò era solo la metà della scena. In mezzo alla stanza sei o sette uomini stavano cenando a un tavolo rotondo. Costoro erano veri eroi da romanzo. Due o tre portavano la camicia rossa; gli altri erano in borghese.Uno indossava una giacca da ussaro vecchia e sporca; un altro era un prete, con la sua tonaca nera.Mangiavano e bevevano con grande appetito, senza badare a noi. Il prete soprattutto aggrediva con violenza il suo pasto. Costui è un bel tipo, devotissimo a Garibaldi. E uno splendido prodotto della chiesa militante. Io l'ho visto molte volte camminare in gran fretta per la strada, con una croce nera in mano. Ha un volto strano e inquieto, tutto passione e istinto.

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Gli altri erano famosi ufficiali garibaldini: un bel gruppo di capi pieni di energia e di vigore.In conclusione mi trovavo ad assistere personalmente a uno dei grandi eventi dei nostri giorni.Era tutto perfetto: c'era Palermo, la città siciliana insorta, con le sue barricate, le sue strade in rovina segnate dalla guerra; c'era giù nella piazza il popolo armato e urlante, la musica dell'inno nazionale e i cannoni della rivoluzione; c'erano i comandanti guerriglieri che avevano rischiato vita e fortune per uno scopo che neppure il nemico più malevolo poteva chiamare egoistico; e c'era il grande Dittatore, che sarà ancora onorato come un eroe, e, chissà, forse venerato come un dio quando noi e le nostre piccole speranze e ambizioni staremo già da alcuni secoli riposando sottoterra. Forse il cielo sa perché tra tutti gli uomini a lui soltanto è stata concessa l'immortalità.Quanto a me, credo che tra Garibaldi e Cavour quest'ultimo sia di molto il più grande dei due; eppure è probabile che l'Italia futura adorerà la memoria di Garibaldi limitandosi a rispettare quella di Cavour. Mentre egli se ne stava seduto ridendo, chiacchierando, scuotendo la barba grigio-rossiccia e fumando il suo sigaro, mi sembrava di sentire per lui tutto il rispetto e l'ammirazione che si debbono al migliore degli amici, ma al tempo stesso mi saliva dentro una protesta contro il destino. Quando andammo via ci strinse di nuovo la mano, salutandoci con la più grande gentilezza. Quando fummo giù nella piazza, facendoci strada in mezzo alla folla, ci fermammo un momento per guardarlo un'ultima volta.Stava appoggiato alla balaustra del balcone, davanti alla finestra, fumando tranquillo il suo sigaro e osservando la folla sottostante, agitata e urlante. Sembrava appena avvertire il chiasso e la confusione, e appariva nella-sua camicia rossa come l'incarnazione dell'essenza e del genio della rivoluzione, come in effetti egli è.[The Boston Courier, 10 luglio 1861, citato in ..The American Historical Review, XXV, gennaio 1920, che si riferisce al 9 giugno 1860, è di un corrispondente d'eccezione, lo scrittore americano Henry Adams.]

La battaglia di MilazzoQuesti straccioni in camicia rossa, che a prima vista facevano una impressione pessima, avevano in realtà molte di quelle buone qualità che spesso hanno messo in grado dei soldati improvvisati di prevalere su più solide organizzazioni.Un moschetto o una carabina, una sessantina di cartucce, una borraccia d'acqua e, nella maggior parte dei casi uno zaino vuoto: ecco l'equipaggiamento del garibaldino.Ufficiali addetti al vettovagliamento in uniformi sfarzose non ce ne sono, e tuttavia ogni tanto i rifornimenti di pane e carne arrivano; di disciplina non c'è che l'ombra, ma tutti sono animati da una fiducia illimitata nei capi e soprattutto in Garibaldi di cui si può dire che esercita sui suoi uomini un potere personale totalmente senza riscontro tra i comandanti moderni, i quali sono troppi disposti a mettere da parte la persuasione per affidarsi alla paura.La fede di questi uomini ricchi di fantasia nel loro capo ha qualcosa di superstizioso: tutto quello che egli dice è giusto; dovunque egli compaia, lì la vittoria è certa. Questo atteggiamento, combinato con un totale disprezzo (e per quanto riguarda i siciliani con un odio implacabile) per i napoletani, è stato la vera ragione dei successi di Garibaldi, e di vittorie conquistate in spregio sovrano di tutte le regole della tattica militare, così come sono state definite da Jomini e da altri trattatisti dell'arte della guerra. Questi scrittori sembrano dimenticare che ogni comandante vittorioso ha creato una propria personale arte della guerra, mentre l'uomo di routine se ne sta invariabilmente attaccato alle norme come uno scarabeo sta immobile sotto la campana di vetro...Garibaldi era sempre nel più folto della mischia, sigaretta in bocca e bastone da passeggio in mano, rincuorando le sue guide e i suoi carabinieri genovesi con la consueta serena espressione sul volto calmo e bonario, come se stesse facendo una scampagnata di ventiquattr'ore invece di guidare i suoi uomini a una lotta mortale da cui dipendeva il destino del suo paese.Di corporatura robusta ma armoniosa, questo paladino dell'Italia si distingue dai suoi uomini soprattutto per la modestia dei modi e dell'aspetto. Sebbene abbigliato vagamente da marinaio

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(camicia rossa, pantaloni grigi, cappello floscio, ampio fazzoletto a vivaci colori svolazzante sulle spalle), il suo esteriore è scrupolosamente pulito e ordinato. I suoi modi sono gioviali eppur di gentiluomo. Nel suo modo di parlare c'è qualcosa di limpido e di affascinante al massimo grado, e si rimane immediatamente persuasi di trovarsi di fronte a un uomo che può fare tutto ciò che dice, e della cui guida, in mare come in terra, ci si può interamente fidare.Nessuna meraviglia quindi che i suoi uomini muovano sempre di nuovo all'attacco con tanta fiducia là dove forse truppe ordinarie esiterebbero.Fa caldo : Medici si è visto il cavallo morire sotto, Cosenza è stato colpito al collo; ma il generale rimane alla testa delle sue guide (comandate da Missori) e dei carabinieri genovesi, che si comportano sempre ammirevolmente. Improvvisamente una batteria di tre pezzi apre il fuoco su di loro da venti passi, a mitraglia. La micidiale scarica ferisce leggermente Garibaldi uccide il cavallo di Missori e il maggiore Breda, lasciando saldo sulle sue gambe soltanto Statella con pochi uomini. Contemporaneamente Malenchini, che aveva respinto l'avanguardia napoletana verso Santa Marina, non riusciva a raggiungere il villaggio, poiché la strada era interamente spazzata dall'artiglieria nemica. I garibaldini erano di nuovo bloccati su tutta la linea.Garibaldi raccolse allora le forze per un nuovo attacco.La riserva, consistente nel reggimento inglese appena arrivato, comandato dal maggiore Wyndham e forte di 150 uomini, fu mandata a tentare di sfondare in direzione di Santa Marina; il resto (200 uomini agli ordini di Dunne) ebbe l'ordine di avanzare e cercare di conquistare la batteria sul fianco, mentre Missori, Statella e i superstiti del loro reparto tentavano lo stesso movimento sul lato opposto. Avanzando sotto la copertura di un muro e di una trincea, Dunne condusse i suoi uomini alla batteria, dove si trovò davanti, con suo sbigottimento, Garibaldi in persona, che si buttò nella mischia. Piombarono sulla batteria, e dopo un brevissimo combattimento con i fanti ne mici i cannoni erano presi; e stavano per essere trascinati via quando i napoletani tentarono di riprenderseli con una carica di cavalleria.Gli uomini di Dunne, non ancora abituati al fuoco, si comportarono ammirevolmente, ma furono scacciati dalla batteria, dove il loro colonnello fu buttato a terra e calpestato dalla cavalleria lanciata al galoppo, non senza aver prima colpito il comandante ne mico.I garibaldini si dividono sui due lati della strada, con le spalle contro il muro e i cespugli di fichi d'India, e aprono un fuoco convergente sulla cavalleria. Questa fu la lotta decisiva della giornata, e arrivò vicina a costare a Garibaldi la vita, e con essa la vita dell'Italia.Timoroso di spingersi troppo innanzi, e preso tra due fuochi, il comandante napoletano si fermò e cercò di ritirarsi; ma Garibaldi, Missori, Statella e un pugno di guide gli sbarrarono la strada.Invitato ad arrendersi dall'ufficiale napoletano, l'eroe di Varese rispose afferrando di scatto le briglie del suo cavallo e disarcionandolo.Tre o quattro soldati spalleggiarono il loro ufficiale; uno fu ferito da Garibaldi Missori ne uccise due e colpì il cavallo di un terzo, Statella ne uccise un altro. Il sanguinoso combattimento fu concluso da Missori, che con la quarta pallottola della sua rivoltella uccise un terzo nemico.Il resto della cavalleria si ritirò e fuggì lasciando i cannoni nelle mani di Garibaldi.Gli uomini di Medici si trovarono di nuovo a reggere l'urto maggiore della battaglia, e nonostante le pesanti perdite si comportarono assai bene. Alcune delle case furono valorosamente difese; ma i napoletani si battevano come una truppa ormai sconfitta, e tendevano evidentemente a ritirarsi gradualmente verso il castello. La ritirata veniva coperta dalla fortezza con un intenso fuoco di fucileria e di granate, ma ciononostante gli eroi garibaldini conquistarono una posizione dopo l'altra, e alle quattro del pomeriggio erano arrivati all'ingresso del castello.Nel frattempo una parte degli uomini di Medici e la compagnia di Peard, seguendo il Marina, avevano raggiunto, sul lato orientale della penisola, le alture sul mare presso il castello, e si erano sistemate vicino a un vecchio mulino a vento.Da qui dominavano completamente le fortificazioni settentrionali di Milazzo, e aprirono un intenso fuoco di fucileria sulla guarnigione nemica.

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Non si poteva fare di più causa la mancanza di cannoni pesanti; il castello non poteva essere scalato, sia per l'altezza delle mura che per la posizione estremamente favo revole.Furono elevate barricate a tutte le uscite della città, in modo da essere preparati a respingere qualsiasi tentativo di sortita; quindi ufficiali e soldati, ugualmente sfiniti, si buttarono a terra ai loro posti per passare la notte. Garibaldi la testa appoggiata a una sella, se ne sta sotto il porticato di una chiesa, presso il centro del Marina. La vitto ria era costata cara: non meno di 750 garibaldini erano fuori combattimento. Dopo la battaglia uno dei suoi generali chiese a Garibaldi di stilare un bollettino; ed ecco la sua caratteristica risposta: No. Se faccio una descrizione della battaglia sono costretto a dire che alcuni hanno fatto meglio di altri. Scrivetene una voi se volete; e la cosa migliore che possiate dire è che l'azione cominciò all'alba, e che a sera la città era in nostre mani. Tra Garibaldi e le masse c'è una specie di profonda consonanza di spiriti, che è elettrizzante al massimo grado.Esse guardano al generale come a una sorta di intermediario tra se stesse e la divinità.[Charles Forbes, The Campaign of Garibaldi in the Two Sicilies, London 1861].

La presa di NapoliFacendoci strada attraverso una folla di monaci, preti e contadini, fummo introdotti in una piccola stanza in cima

alle scale.Da una parte c'era un gruppo degli ufficiali più intimi di Garibaldi già occupati a togliersi di dosso la pol vere, che copriva le loro facce con uno strato spesso quasi un pollice; sull'altro lato, di fronte alla finestra, in piedi davanti a uno specchio rotto, stava Garibaldi in persona.Indossava la camicia rossa e pantaloni grigi, aveva sotto il braccio un cappello calabrese ed era intento a pettinare i suoi lunghi capelli con un movimento lento e meditato.Sembrava non prestare la minima attenzione alla babele di suoni che lo circondava, e noi rimanemmo per buoni cinque minuti in piedi accanto a lui senza che si accorges se della nostra presenza.Quando finalmente si voltò e ci vide sorrise, ci strinse la mano e ci fece sedere.Cominciò quindi a parlare in una strana mescolanza di francese e in glese, pur continuando tutto il tempo a pettinarsi.Gli di cemmo che eravamo venuti dall'Inghilterra per assistere al suo ingresso in Napoli; gli parlammo della simpatia che l'Inghilterra nutriva per lui e infine, cosa più concreta, gli riferimmo tutte le notizie che avevamo raccolto a Napoli sui movimenti delle truppe e del re ecc.Gli accennammo dei progetti francesi su Napoli, ed egli affermò di esserne pienamente al corrente...Garibaldi ci informò quindi che non aveva obiezioni a che ci aggregassimo al suo seg uto, purché indossassimo regolarmente la camicia rossa.Aggiunse che data la va rietà delle persone (talvolta di dubbia provenienza) che costituivano il suo piccolo esercito, portare questo caratte ristico indumento era per stranieri quali noi eravamo la sola garanzia contro i furti.Lanciati così nella nostra bre ve carriera di garibaldini, facemmo presto conoscenza con alcuni degli altri: un gruppo eterogeneo ma interessante.C'erano Turr ed Eber, ambedue ungheresi; Dunne e Dow ling, inglesi, con Frank Vizetelli, giornalista; Cosenz, Sta gnetti e Gusmaroli, italiani; e, leggera come una foglia in mezzo a questi uomini rudi, la bellissima contessa de la Torre, vestita da ussaro ma con una semplice camicia di lino grezzo.Essa era venuta con i garibaldini da Palermo, assolvendo soprattutto le funzioni di vivandiera del reg gimento.L'entusiasmo per la causa e per il suo paese, combinato con la giovinezza e con una figura snella,

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ne facevano una persona estremamente attraente.Ma non c'era molto tempo per le chiacchiere, perché il giorno suc cessivo era stata ordinata l'entrata a Salerno.Le truppe napoletane avevano evacuato la città la notte precedente: vale a dire 5000 bavaresi si erano ritirati davanti a 500 ca labresi e alla magia del nome di Garibaldi (un uso accorto del telegrafo aveva grandemente contribuito a ottenere questo risultato, giacché si era provveduto a esagerare il numero e a moltiplicare le posizioni tenute dalle truppe garibaldine, il grosso delle quali era in realtà ancora indie tro di sessanta o settanta miglia).Era una vera commedia, che si può spiegare soltanto con la completa demoralizza zione dei mercenari che difendevano (così inefficacemen te) il re Ferdinando...n giorno successivo (7 settembre 1860) è di quelli che non dovrebbero mai impallidire nella memoria di Napoli e dei suoi abitanti.Esso registrò un evento assolutamente senza precedenti nella storia: l'occupazione di una capi tale e l'assunzione del suo governo da parte di un pugno di uomini che portavano con la loro la speranza e la li bertà, scacciando la tirannia e la disperazione.Il vecchio sovrano era partito poche ore prima, limitandosi a lasciare alcune migliaia di soldati nelle due fortezze e a dare l'ordine a quelli di S. Elmo di bombardare la città all'arri vo del Liberatore.Ma non anticipiamo.Una delegazione della Guardia nazionale arrivò da Napoli durante la not te, recando un energico appello del Comitato rivoluzio nario; quindi Garibaldi decise di entrare nella capitale, e in treno! Egli era stato palesemente assai rallegrato e sol levato alla notizia che non ci sarebbe stata resistenza ar mata, sia perché aspirava sinceramente a evitare spargi menti di sangue, sia, come disse egli stesso, per il suo desiderio di mostrare all'Europa che egli entrava nella città non con la forza, ma per volontà e in mezzo agli ap plausi del popolo.E in effetti applaudirono persino i lazzaroni (gli elementi più ignoranti e turbolenti della popolazione), che erano stati sino allora i seguaci servili dell'assolutismo.Ma essi erano stati conquistati dagli sforzi fatti da Liborio Romano, il quale, pur figurando tra i ministri di Ferdinando, aveva hvorato a preparare il terreno per l'avvento della libertà.Fu approntato un treno speciale per portare Garibaldi da La Cava, circa tre miglia a nord di Salerno, a NapoLi.Il treno partì alle no ve del mattino, e noi avevamo trovato posto a bordo.Erano soltanto quattro-vetture, e con Garibaldi non c'era no, oltre a noi, che tredici persone del suo stato maggio re.I tetti e tutti gli spazi liberi erano affollati di Guardie nazionali.Il treno procedeva lentamente, e trovammo le popolazioni di Torre del Greco, Portici e Resina accalcate in massa sui binari, sicché dovemmo fare numerose fer mate per evitare di travolgere questa folla urlante di uo mini, donne e bambini.levvelyn Ashley (allora segretario di Lord Palmerston, primo ministro britannico), A Garibaldi Reminiscate, in The National and English Review>, London 1899,

Napoli dopo la partenza di Garibaldi.Per questo popolo [i napoletanil dalla immaginazione vivace, amante degli spettacoli, che si ubriaca di gesti e di parole e che come i greci discorre volentieri in piazza, Garibaldi era stato il sovrano ideale: accessibile e familia re con tuttl, si prestava a ricevere ovazioni e abbracci, si mostrava a tutte le ore ai balconi del palazzo, nelle stra de e sulla spiaggia, dava ascolto alla folla e le risponde va; persino al campo, sotto la tenda, permetteva che la povera gente andasse a lui, e aveva per tutti gli infelici parole commosse ispirate alla carità e proclamanti l'uguaglianza degli uomini.Egli aveva insomma conqui stato questo regno non tanto con la spada quanto con i sentimenti

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(vorrei dire con il calore delle sensazioni) che ispirava.Non dico che Vittorio Emanuele non sia stato desiderato, o che non fu accolto a Napoli con entusia smo: egli era anzi adorato come un simbolo.Ma per que sto popolo infantile e impressionabile i simboli devono rivestire forme che lo attirino e affascinino, e Vittorio Emanuele ha sempre sdegnato ogni ciarlatanismo e tea tralità nella sua vita pubblica.Noi amiamo questa sem plicità nella grandezza, ed essa è bastata a conquistare gli spiriti nell'Italia settentrionale e centrale; ma il Mez zogiorno aveva bisogno di meno serietà e più slancio.Nel corso di questo suo primo soggiorno a Napoli il re non s'è mostrato abbastanza al popolo, e ne ha stimolato la curiosità senza soddisfarla.Infine, egli non ha dispie gato a sufficienza né sfarzo regale né pompe guerriere.I soldati dell'esercito regolare italiano hanno prodotto sul la folla le stesse impressioni del loro sovrano; preoccupa ti solo della disciplina e del dovere, essi si sono mescola ti poco alla cittadinanza, che ha ben presto rimproverato a questi coraggiosi, pur suoi liberatori non meno dei ga ribaldini, una certa rudezza di conquistatori.Neppure le loro uniformi sono piaciute ai napoletani, perché ricor davano troppo quelle dell'esercito borbonico, mentre l'abbigliamento dei volontari, libero, pittoresco e magari un po' teatrale, li aveva incantati.Restava ancora a Na poli un gran numero di garibaldini sbandati, incerti se dovessero tornarsene a casa o se sarebbero stati assorbiti nell'esercito italiano; ormai senza più nulla da fare, li si vedeva a tutte le ore nei viali e nei caffé, e quando scop piava una lite tra loro e i soldati piemontesi, il popolo se la prendeva sempre con questi ultimi.Tuffi i rancori e tutti i malumori ricadevano sul governo regolare.La re sistenza di Gaeta pesava sugli affari pubblici, e si accusa va la nuova amministrazione dei disagi che ne derivava no a Napoli. Se Garibaldi fosse rimasto tra noi diceva il popolo l'avrebbe fatta finita con Francesco.Questo era profondamente sbagliato e ingiusto...Finché il Dittatore era stato a Napoli, nessun opposito re aveva osato mostrarsi: la rapidità degli avvenimenti li aveva come fulminati.Da qui la credenza popolare che Garibaldi andando via aveva portato con sé la pace e la prosperità del regno.In conclusione, la città era pervasa da un'atmosfera cupamente triste che colpiva tutti gli os servatori; i canti, le grida patriottiche, i cortei alla luce delle torce erano svaniti quasi istantaneamente.Confesso che la mia fantasia di poeta partecipava alle sensazioni popo lari.La Napoli del re non aveva più per me il fascino di Garibaldi: erano scomparsi quella spontanea agitazione, quell'allegro brusio, quella visibile emozione di un intero popolo liberato e felice.[Louise Colet, L'Italie des Italiens, Paris 1863, La descrizione si riferisce agli umori della città nel novembre del 1860.Vittorio Emanuele a Cavour.Napoli 22 novembre 1860....Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgra devolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo questo personaggio non è affatto così docile né così one sto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete.Il suo ta lento militare è molto modesto, come prova l'affare di Ca pua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l'infame furto di tutto il denaro dell'erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s'è circondato di cana glie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa.Vorrei poter dire che il problema posto dalla liquidazione del suo eser cito non mi ha causato le più gravi difficoltà, ma non è co

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sì.Io sapevo perfettamente ciò che occorreva fare, e mi sa rei sentito capace di farlo personalmente perché mi sarebbe stato più facile che a chiunque altro; ma il generale Fanti, bravissima persona, ma che mi ha dato molti motivi di lagnanza in questa campagna, in questo affare non ha salvato in alcun modo le forme necessarie e ha scontenta to tutti.Se non fossimo intevenuti io e la maggior parte dei generali di Garibaldi avremmo avuto un'insurrezione armata e sarebbe stato necessario versare del sangue.Questi sventurati, che a torto o a ragione credevano di aver fatto grandi cose, sono stati trattati come cani.Fanti li trattava in pubblico con sovrano disprezzo (l'ho visto malmenare dei mutilati che chiedevano l'elemosina).In una parola, è cosa troppo lunga per scriverne e dovrei dir vi troppe cose.Ma sappiate che ne ho sofferto immensa mente.Noi abbiamo considerato i fatti assai ingiustamen te, perché a Torino le cose si vedono troppo da lontano; ma se foste stato tra loro come me, se aveste visto l'alle gria e la buona volontà con cui andavano a battersi, se aveste visto, come a me è successo, milleottocento di lo ro mutilati (a Napoli e a Caserta, senza contare la Sicilia), forse avreste provato i miei stessi sentimenti e avreste elo giato il valore di questi sventurati, quello stesso valore che Fanti metteva in ridicolo in pubblico.Ciò che occorre va fare tutti lo sapevano, compresi i soldati di Garibaldi, i quali erano pronti a subirlo; ma si sarebbe dovuto salvare l'apparenza della loro dignità militare.Ora la situazione è al punto che tra i generali di Garibaldi e Fanti non c'è alcuna possibilità di intesa, su nulla.Disso luzione completa del corpo di spedizione, la quale porta con sé rancori profondi, che potranno ancora far danno.So no desolato di dover dire tutto questo, ma scrivo esatta mente quello che penso, e credo di non sbagliarmi...[Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi cinque lettere inedite, a cura di L. Mondini, in Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti, agosto 1960]

La visita in Inghilterra del 1864Londra ha visto di rado uno spettacolo più straordinario o più commovente.L'eroe in camicia rossa e mantello grigio-azzurro, da lungo tempo associato nella mente del po polo a tante vicende emozionanti di cui si era udito il rac conto, si recava in carrozza dalla stazione ferroviaria di Vauxhall alla Stafford House, il più illustre dei palazzi privati della capitale, in mezzo a una folla immensa che bloccava le strade e riempiva di ansiosi spettatori le fine stre, i balconi e i tetti. Per cinque ore Garibaldi fu travolto da ondate tumultuose di curiosità appassionata, di gioia e di entusiasmo.E questa accoglienza più che regale non veniva fatta a uno dei nostri amati principi o a un nostro capitano vittorioso, ma a uno straniero, al liberatore di un popolo straniero.Alcuni erano affascinati dal suo coraggio di combattente e dalla sua pittoresca figura di eroe di stampo antico; molti dal nemico giurato del grande papa.Ma ciò che infiammava i cuori dei più era il pensiero del soldato che aveva combattuto per la libertà umana. Il mondo occidentale attraversava uno dei suoi momenti generosi.In quei giorni la gente era idealista, e la demo crazia era consapevole dei comuni interessi e della comu ne fratellanza.Un'Europa liberale era allora una forza reale e non un sogno.Tra coloro che videro allora Garibaldi per la prima volta dirà Gladstone quasi vent'anni più tardi siamo in molti a non poter mai dimenticare l'effetto meraviglioso prodotto in tutti gli spiriti dalla semplice nobiltà del suo

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contegno, dai suoi modi e gesti.Oltre alla sua magnifica onestà, all'ampia e anzi universale simpatia che suscitava, a quell'affascinante semplicità di maniere che non lo ab bandonava mai e a quella gentilezza innata che sembrava accompagnare tutti i suoi atti, io vorrei ricordare tra tutte le altre qualità di Garibaldi la sintesi che in lui si realizza va, con contraddizione soltanto apparente, ma in effetti va armonia con la sua personalità, tra un fiero coraggio e il più profondo e delicato senso di umanità.Gladstone mi parlò una volta del generale italiano come di una del le sintesi più riuscite di una profonda e inalterabile sem plicità d'animo con un completo autocontrollo.John Morley, The Life of William Ewart Gladstone, London 1903, Gladstone fu poi primo ministro, e Morley ministro del governo inglese.L'arrivo nella Francia meridionale.Egli è finalmente arrivato: il comandante, il più roman tico eroe del nostro secolo, l'uomo più famoso del pianeta, il capo più sicuro di vivere nel cuore delle future genera zioni, un uomo la cui leggenda, lui vivo, ha già la soli dità di quella di Wallace e Guglielmo Tell.I più severi sto rici del futuro non potranno negare né la realtà dei suoi successi né l'originalità della sua figura.Chi dirà che Ga ribaldi non è stato coraggioso, disinteressato, resistente alle sofferenze, insomma un don Chisciotte vivente, con tutte le belle e nobili qualità che Cervantes aveva attribui to al suo eroe, e giusto quel tanto della sua semplicità d'animo che è necessario per farsi amare? Un don Chi sciotte vivente! Lo ripeto in tutta serietà e rispetto; ma c'è una differenza tra i due: mentre il padrone di Sancio lotta va contro i mulini a vento e in concreto non produceva al cun bene, il Chisciotte italiano ha assalito lancia in resta una dinastia tirannica e l'ha distrutta al di là di ogni possi bilità di ripresa.E vero che in seguito si è battuto contro il potere temporale del papato senza successo; ma se quell'avventura non ha scardinato il mulino a vento, cer tamente l'ha scosso, e questo ha poi finito col crollare.Quando questo eroe è venuto tra noi, camminando at traverso la stazione verso il suo modesto calesse a un solo cavallo potemmo vedere assai chiaramente il suo volto alla lucé dei lampioni.Era un volto pallido e serio, assai più simile a quello di uno studioso o di un filosofo che a quello di un eroe dalle grandi imprese.Gridammo alto Viva Garibaldi!, ma egli rispose, con un tono di estrema gravità e tristezza: Viva la repubblica francese!.Pen sammo che avrebbero potuto dargli un paio di cavalli e fargli un'accoglienza solenne con torce e musica, ma quel la semplicità armonizzava abbastanza bene con il suo ca rattere e le sue abitudini, e anche con le pesanti angosce del momento.E difficile per dei protestanti immaginare il genuino or rore con cui i preti e le associazioni religiose di una vec chia città vescovile francese, svegliandosi una mattina del novembre 1870, debbono aver udito che questo Garibaldi, che da lontano sembrava loro una roccia confitta nel profondo del mare, oppure Satana messo in catene dopo ravvento del regno di Dio, era ora in carne e ossa in mez zo a loro...Non solo i sentimenti del clero erano scatenati contro Garibaldi ma anche gente scarsamente sensibile all'odium theologicum aveva per lui una fortissima antipatia nazio nale.Una persona che ha conosciuto molte nazioni ha detto che non c'è nulla che una nazione odi come un'altra nazione. Molti francesi hanno sentito come un'offesa al loro orgoglio nazionale il fatto che un italiano pensasse di aiutarli nell'ora del pericolo; e come nessun generale francese voleva servire agli ordini di Garibaldi, così la pubblica opinione lo giudicava un intruso presuntuoso, assurda mente convinto, per il fatto di aver battuto pochi misera bili napoletani in una impresa di nessuna importanza cui solo il suo carattere romantico aveva dato fama, di poter sconfiggere i grandi eserciti di Germania, davanti ai quali tanti generali francesi erano stati costretti a ritirarsi disa strosamente.

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[Philip Gilbert Hamerton, Round my House]Notes on Rural Life in France in Peace and War, London 1876.

L'espulsione dall'Assemblea francese.La verifica dei poteri era arrivata ai deputati algerini. L'elezione di Gambetta a Orano e di Mocquard a Costantina fu convalidata. Quanto all'elezione di Garibaldi a Orano, il relatore ne propose invece l'annullamento, sulla base dell'argomento che egli non era francese.Calorissimi applausi a destra. Il presidente: Metto l'annullmento ai voti.Qualcuno desidera prendere la parola?. Sì, io, disse Victor Hugo. Si fece un silenzio profondo.Victor Hugo parlò in modo ammirevole, con una calma indignazione, se le due cose potessero stare insieme. Il Moniteur riporterà le sue parole esatte; io mi limito a riassumerle: La Francia ha attraversato un periodo terribile, da cui è uscita sanguinante e vinta.L'Europa ha fatto da spettatrice vigliacca.La Francia ha sempre sposato la causa dell'Europa, ma nessun re, nessuna potenza s'è mossa in suo aiuto. Un uomo solo è intervenuto, che costituiva però, da solo, una potenza.La sua spada, che aveva già li berato un popolo, voleva salvarne un altro.Egli è venuto, ha combattuto....No! No!, grida la destra infuriata. Egli non ha com battuto! E volano insulti contro Garibaldi.Io non voglio offendere nessuno risponde Victor Hu go. Ma di tutti i generali francesi impegnati in questa guerra Garibaldi è il solo che non sia stato sconfitto! Si scatena la tempesta: si grida All'ordine! All'ordi ne!.In un intervallo tra due esplosioni, Victor Hugo ripren de: Io chiedo la convalidazione dell'elezione di Garibal di.Le grida della destra si fanno ancora più violente:All'ordine! All'ordine! Noi vogliamo che il presidente richiami all'ordine Victor Hugo!...Hugo ottiene il silenzio con un gesto della mano e dice: Faccio la vostra volontà; anzi, vado anche oltre. Tre settimane fa avete rifiutato di ascoltare Garibaldi oggi rifiutate di ascoltare me.Ebbene, io rassegno le mie dimissioni. Stupore e costernazione a destra.

La partenza da MarsigliaE finita: Garibaldi ha lasciato il suolo di Francia. Chi ne gioisce di più: i prussiani o i francesi della pace a ogni costo? Credo che l'intera popolazione di Marsiglia si sia levata all'alba. Le stanze di Garibaldi si sono riempite all'in verosimile appena sono state aperte le porte.L'ho visto a un'ora assai mattutina: stava scrivendo e firmando qual cosa, e si rallegrava all'idea che l'indomani avrebbe rivi sto Caprera.Mi ha incaricato di speciali commissioni a favore dei feriti spagnoli, greci e italiani. Possiamo incontrarci di nuovo tra quindici giorni, disse. Sì, se verrò a Caprera, risposi. Alle nove salimmo sulle carrozze, che dovevano procedere a passo d'uomo per la folla che riempiva le pur larghe strade di Marsiglia. La Guardia nazionale e i soldati tentavano di far muro intorno alla carrozza di Garibaldi ma le loro file venivano rotte continuamente. Un lavoratore urlò: Se ne va la nostra ultima speranza!. E un altro: Ed essi ne sono contenti!. Chi fossero questi essi non disse.Mille voci gridarono: Viva Garibaldi, e da uno si sentì: Viva la repubblica!.Garibaldi rispose: Viva la Francia repubblicana. Come ci avvicinammo alle banchine le carrozze vennero separate. Scendemmo in una processione trionfale. Nessuno di noi si curava della folla; ma ormai erano arrivati gli ultimi momenti.Appena salimmo a bordo fu dato l'ordine di tenere dietro la folla; e fu una saggia precauzione, perché più volte c'era stato da temere che le murate della nave venissero strappate via.Egli ci abbracciò uno a uno, e nessuna di quelle indurite camicie rosse, i suoi genovesi può vantarsi di non aver pianto. Alcuni singhiozzavano forte. Anche Garibaldi aveva gli occhi pieni di lacrime. Noi rimanemmo a guardarlo dalla banchina mentre la nave faceva marcia indietro; poi

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scomparve lentamente alla vista. Tutto è grigio e senza senso, nulla più importa. Non mi sono mai sentito così depresso. A Napoli egli ci aveva salutato nel medesimo modo, ma eravamo in Italia, ed era in vista l'appuntamento a Roma. Ora siamo in Francia, stranieri in terra straniera, nel senso più forte di que ste parole.[The Daily News, 22 febbraio 1871].

Un necrologio del Times.Garibaldi è morto.L'incantesimo legato al suo nome è stato in parte infranto dal prolungarsi della sua vita al di là di ogni possibile operosità; ma il personaggio meriterà di essere studiato anche dopo che la fredda analisi critica avrà fatto tutto quanto occorre per spogliarlo dell'aura scintillante di cui l'entusiasmo popolare l'aveva rivestito. In primo luogo, questo eroe di cento battaglie è stato impropriamente considerato soltanto un guerriero, e si è resa probabilmente scarsa giustizia alle sue qualità di ca po. Garibaldi non era uno statega.Egli sapeva poco (e si preoccupava meno) di organizzazione, equipaggimento o disciplina; non badava ai mezzi di trasporto né ai proble mi del vettovagliamento.Si limitava a marciare alla testa di un pugno di ufficiali, voltandosi appena a vedere se la truppa lo seguiva.Non ebbe mai un capo di stato maggio re competente...Garibaldi era un tattico, e sarebbe stato capace di diri gere onorevolmente un esercito che gli fosse consegnato alla vigilia della battaglia bell'e pronto, ben armato, adde strato e condotto.Aveva lo sguardo sicuro, la rapidità di decisione e la prontezza di risorse di quell'enfant gaté de la victoire che fu il suo concittadino Massena [il maresciallo di Napoleone].Il volontario lombardo Emilio Dandolo, cita to da Dumas, così dipingeva il suo comandante: All'av vicinarsi del nemico Garibaldi cavalcava sino al punto d'osservazione più elevato, esaminava col cannocchiale il terreno per ore, in un silenzio meditativo, quindi piomba va sull'avversario, impostando l'azione su una ben elabo rata combinazione di movimenti che traeva profitto di tutte le circostanze favorevoli...Come in guerra, così in pace.Nelle sue lunghe passeg giate dei momenti liberi, e ancor più nella solitudine di Caprera, Garibaldi leggeva moltissimo, accumulando una massa di conoscenze male assimilate di cui il misticismo utopistico di Mazzini e gli stravaganti paradossi di Victor Hugo costituivano gli ingredienti principali. Ma gli man canvano i rudimenti di base, in politica come nel mestiere delle armi.Correva alle conclusioni senza affaticarsi sulle argomentazioni intermedie.Rozze nozioni di democrazia, comunismo, cosmopolitismo e positivismo si mescolava no nel suo cervello e si urtavano l'un l'altra in una confu sione senza speranza, trascinandolo in contraddizioni di cui non era cosciente, a dispetto di tutti gli sforzi da lui fatti per mantenersi coerente. Nei momenti autocritici sembrava riconoscere le sue deficienze intellettuali la sua istruzione imperfetta, la facilità con cui consentiva alla propria fantasia o al consiglio di amici pericolosi di passa re oltre a ogni ponderato giudizio; ma era capace di met tere da parte in un istante ogni cautela e fare discorsi scri vere lettere, presiedere assemblee, arringare moltitudini, parlare con la più spavalda sicurezza di ciò che meno comprendeva, e infine di far arrossire per l'imbarazzo gli amici col suo tono enfatico, incisivo e perentorio, con le sue rozze teorie e le sue affermazioni avventate, come quando a Ginevra, a uno dei congressi della Società per la pace, davanti a un uditorio fanaticamente calvinista, si stemò la questione se san Pietro fosse mai stato a Roma con queste parole: E un problema futile, perché posso as sicurarvi che persone come Pietro non sono mai esistite.Ma con un cuore come quello di Garibaldi un uomo può ben consentire al suo cervello qualche distrazione. In qualità di ardente patriota, come tutti gli italiani erano quando non avevano patria,

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Garibaldi non ha mai trali gnato, e anche se ha sbagliato ha riparato ai suoi errori e li ha espiati prima che potessero sviluppare le loro conse guenze peggiori.Fate scrivere la biografia di Garibaldi al suo peggior nemico, e vi apparirà pur sempre come il più sincero, il più disinteressato e il meno ambizioso degli uo mini.Egli non si è limitato a rifiutare per lunghi anni con coerenza assoluta, ogni ricompensa e distinzione, ma ha schivato e temuto il clamore della folla, ed è stato distur bato e disgustato, rimanendo sconvolto e sgomento dalla degradante venerazione di cui era fatto oggtto, in alto e in basso, dovunque comparisse.In piedi o seduto, accoglieva con severo cipiglio le donne, gli uomini e perfi no i preti che in Calabria lo salutavano come il nostro Messia! o il nostro Redentore!; o, in Lombardia, le ma dri che gli tendevano i figlioletti appena nati perché li bat tezzasse (Nessun'altra mano porterebbe altrettanto sicu ramente con sé la benedizione di Dio).A Londra fuggì quasi dalle belle signore ansiose di vedere come si com portasse di fronte alla celebrità un vero leone.Garibaldi era un personaggio genuinamente leonino: nobile e dignitoso, improvviso il lampeggiare dell'ira, prontezza al perdono, assenza di ogni rancore, malignità o grettezza.Anche il selvaggio Leonardo Millan, che [in Brasile] aveva imprigionato, percosso e torturato Garibal di senza ragione, quando a sua volta cadde in potere di quest'ultimo e tremava per la propria vita, poté andarse ne illeso.L'unica vendetta di Garibaldi consisté nel guar darlo fisso negli occhi in modo da fargli intendere ch'era stato riconosciuto e giudicato indegno dell'odio di un ve ro uomo.In Garibaldi l'amore prevaleva largamente sull'odio.Quali che siano le follie o anche i delitti commessi in suo nome, si può tranquillamente sfidare il mondo a trovare un solo gesto meschino, una sola azione crudele o anche una sola parola deliberatamente scortese, che possano ve nire imputati a lui personalmente.A dispetto delle pro prie convinzioni intransigentemente repubblicane, egli ri spose con una totale devozione a Vittorio Emanuele e alle offese e ai maltrattamenti subiti a opera del governo del re.Quale che fosse la sua assimilazione dei moderni con cetti filosofici, in fede in oio rimase in lui inalterata.Sfor tunatamente la sua fiducia negli uomini, e nelle donne trascendeva ogni limite ragionevole.E doloroso ma dove roso annotare come la sua facile credulità lo intrappolasse nel matrimonio-beffa con la contessa Raimondi (una gio vane signora di alto rango), avvenuto a Como durante la campagna del 1859 [in effetti nel gennaio 1860]; ed è ma linconico ma istruttivo ricordare lo spettacolo che fornì a Roma nel 1874, quando fece la prima comparsa con la nuova moglie [il matrimonio era avvenuto nel 1870] e un seguito di bambini, frutto dei suoi rapporti con la gover nante dei nipotini...I veterani che portò con sé da Montevideo [nel 1848] un battaglione genovese che l'amico Augusto Vecchi ave va contribuito ad arruolare, e i legionari lombardi co mandati da Manara erano tutti uomini di valore speri mentato, ben addestrati all'uso delle armi, avvezzi ai disagi e alle privazioni.Essi costituirono il nucleo centrale della forza garibaldina durante tutte le campagne.Il resto era una massa informe di gente reclutata a casaccio in tut te le parti d'Italia, che veniva o se ne andava quasi a pro prio piacimento.Ragazzi delle università, giovani di fa miglie nobili e ricche, artigiani poveri delle città, forti contadini e braccianti delle campagne, avventurieri senza fe de, disertori dall'esercito e tutti marciavano in di sordinate compagnie, come soldati falstaffiani, al comando di ufficiali e sottoufficiali improvvisati; ma tutti o almeno la maggior parte, erano totalmente disinte ressati a ogni questione di paga o di promozioni e soppor tavano con rassegnazione i lunghi digiuni e le marce pe santi, chiedendo soltanto di essere portati di fronte al nemico.Ed era raro che si rendessero colpevoli, come sol dati, di eccessi o di infrazioni alla disciplina

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quando erano sotto il controllo diretto di Garibaldi o dei suoi amici fida ti.L'effetto che la presenza dell'eroe aveva su costoro era sorprendente.Una parola pronunciata dalla sua voce chiara, sonante come l'argento, elettrizzava anche la per sona più sorda e ottusa.Un suo ordine non veniva mai di scusso, mai disatteso.Nessuno se lo faceva ripetere o chiedeva spiegazioni. Indagare in che modo occorre dare l'assalto a quella posizione non è compito tuo; tu devi so lo andare a prenderla. E così avveniva.Nella costell'ione di circostanze favorevoli a cui è sta to dovuto il trionfo della causa italiana nulla si è rivelato più provvidenziale di quest'uomo singolare, di questo ffconquistatore misterioso (come fu chiamato) e del pre stigio quasi mitico che circondava i suoi fatti d'arme, i quali del resto erano successi tanto straordinari da mette re a tacere ogni critica e da apparire al mondo attonito nella luce di eventi soprannaturali.Quando nel 1848 49 il fiero valore dell'esercito piemontese soccombette a Custo za e a Novara, per gli errori dei generali, davanti all'inva sore austriaco, fu cosa memorabile che dei semplici citta dini smentissero gloriosamente, agli ordini di Garibaldi, il vecchio detto insultante secondo il quale gli italiani non si battono, non solo difendendo le mura di Venezia e Ro ma, ma anche (fuori dalle porte di quest'ultima città) in crociando le baionette con i migliori soldati della Repubblica francese e immolando le proprie vite con una generosità degna dell'antica razza guerriera le cui tracce erano mescolate alla polvere che calpestavano.Di quel tri ste periodo che umiliò le speranze italiane si salvarono soltanto, memoria sacra, Garibaldi e Roma; e Garibaldi e quanti erano sopravvissuti degli eroi di Roma parteciparono in prima fila a quella più felice prova del 1859 60 che espiò gli antichi errori e riparò ai precedente disastri.L'emancipazione finale del paese ha congiunto per sem pre i tre nomi di Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi; ma se la prima e la seconda figura di questo trio sararmo certamente oggetto di studio approfondito, di esaurienti indagini e di un giudizio che stabilisca l'esatto valore del la loro opera storica, la terza farà appello all'immagina zione come una realtà di leggenda (analoga a quella di Guglielmo Tell), come un qualcosa di favoloso, dalla na tura inafferrabile.

Fine

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