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NOVE BALESTRO-BELLISCIONI-BELLOCCHI-BOSCO-CALDERINI CERULLI-CINTI-FREDDI-GARBINI-LAPROVITERA-MARCHESINI MAZZONI-PARRANO-PEDICHINI-PEPARELLO-PRUDENZI PURI A.-PURI L.-RICCI-SEGA-SPANETTA-TAFANI-TIBERI-TIEZZI della Tuscia aperiodico di novelle e varia umanità ispirato a Fondato da Pier Luigi Leoni

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NOVE

BALESTRO-BELLISCIONI-BELLOCCHI-BOSCO-CALDERINICERULLI-CINTI-FREDDI-GARBINI-LAPROVITERA-MARCHESINI

MAZZONI-PARRANO-PEDICHINI-PEPARELLO-PRUDENZIPURI A.-PURI L.-RICCI-SEGA-SPANETTA-TAFANI-TIBERI-TIEZZI

della Tusciaaperiodico di novelle e varia umanità

ispirato a

SELEZIONE DI OPERE DEI NOSTRI COLLABORATORI

Fondato da Pier Luigi Leoni

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INDICE1 Silvano Balestro: ABBIAMO GIÀ PERSOTANTO, MA C’È ANCORA SPERANZA

3 Mirko Belliscioni: SUDHA

3 Laura Bellocchi: CAMBIO DI STAGIONE

4 Marianna Bosco: NEL TEMPO E NELLO SPAZIO (DON’T FORGET TO SMILE)

8 Laura Calderini: 2 MICROSTORIE A SPECCHIO DA 100 PAROLE CIASCUNA.SORPRESA “AL CAFFÈ”

9 Fausto Cerulli: MI STAVO, QUASI STANCO DI ME

9 Maria Virginia Cinti: ABITAVAMO I BOSCHI

10 Dante Freddi: INNAMORAMENTO

14 Igino Garbini: COSCIENZE LASSE

17 Andrea Laprovitera: LA NOTTE DI SAN LORENZO

18 Gianni Marchesini: TANTO VENTO

20 Maria Beatrice Mazzoni: NACHT UNDNEBEL, NIEMAND GLEICH...

23 Giulia Parrano: FOOTING

24 Luca Pedichini: LA STORIA DI FEBBRAIO

26 Giovanni Peparello: SILENZIO

28 Enzo Prudenzi: IL DESIDERIO DI KATIA

30 Antonietta Puri: L’APPUNTAMENTO

33 Loretta Puri: “LA BOTTEGA DE ‘R PORO RIZIERE”

34 Andrea Ricci: DISTORSIONI ARTISTICHE

36 Laura Sega: LA NOTTE DI SAN CLEMENTE

38 Angelo Spanetta: IL CIABATTINO DELLACAVA E LE SCARPE CHE SCRICCHIOLANO

CONIGLIO STUFATO CON SALSA DI CAPPERI, ACCIUGHE E ACETO

39 Tiziana Tafani: ULISSE

41 Mario Tiberi: VIVERE: UN TRANSITO TRAPASSATO E FUTURO NON ESISTENDO ILPRESENTE

42 Nadia Tiezzi: ORFEO

Associazione CulturalePier Luigi Leoni

presenta una iniziativaeditoriale senza scopo di lucroispirata alla celebre rivista di

Pitigrilli

Grandi Firme della Tusciaè stata fondata daPier Luigi Leoni

Impaginazione e Stampa:Controstampa srl - Acquapendente

Aprile 2019

RedazioneAssociazione Pier Luigi Leoni

Progetto graficoPier Luigi Leoni

FB associazione pierluigileoni

[email protected]

Questa pubblicazione è stata curata finoal numero otto da Letteralbar, circolo di

Orvieto che realizza iniziative culturali, inparticolare promuove la lettura e la scritturasia di testi letterari che di saggi di storia lo-cale e di cultura generale. Letteralbar ha af-fidato all’Associazione Pier Luigi Leoni la re-sponsabilità di Grandi Firme, immaginata ecreata dal nostro amico.L’ASSOCIAZIONE PIER LUIGI LEONI è statacostituita a ottobre del 2018 per tenere vivala memoria di Leoni e continuare la sua operadi promozione culturale. Lo spirito della pub-blicazione, le finalità, le persone impegnatesono le medesime. I soci, consapevoli dell’ap-partenenza storica dell’area orvietana allaTuscia, ambiscono, con questa rivista, a coin-volgere i Tusci dell’Umbria, del Lazio e dellaToscana in una operazione squisitamente edesclusivamente letteraria. L’assenza di ogniscopo di lucro garantisce che l’interesse per-seguito è soltanto la soddisfazione del piaceredi scrivere, di leggere e di essere letti. Il rife-rimento alla celebre rivista di Pitigrilli, che,dal 1924 al 1938, lanciò molti grandi scrittoriitaliani, vuole semplicemente sottolineare iltono delle composizioni pubblicate che, anchequando hanno contenuti drammatici o cultu-rali, nascono come divertimento degli autori.La rinuncia programmatica all’attualità de-termina la aperiodicità della rivista. Essa esceogni volta che è pronta, vale a dire ogni voltache un numero adeguato di autori s’incontracon le disponibilità di tempo e di mezzi finan-ziari del circolo.Gli autori non percepiscono compensi, se nondue copie della rivista, e conservano la pro-prietà dei diritti d’autore. Le spese di stampae di promozione sono coperte con contributi diestimatori. I redattori si ripagano esclusiva-mente con la soddisfazione di vedere la rivistaletta e apprezzata da qualcuno. L’intera rac-colta della rivista è pubblicata su orvietosi.itall’indirizzo https://orvietosi.it/2017/02/rac-colta-grandi-firme-della-tuscia/. Se altri gior-nali web avessero piacere di accogliere la no-stra raccolta ne saremmo felici.

EditorialeQuesto è il primo numero della rivistaGRANDI FIRME DELLA TUSCIA che nonè stato confezionato da Pier Luigi Leoni e dicui non è editore Letteralbar. D’ora innanzi sioccuperà della pubblicazione l’ASSOCIA-ZIONE PIER LUIGI LEONI, costituita dasuoi amici per continuarne l’attività di pro-mozione culturale. Si è costituita una piccolaredazione, aperta a chiunque voglia collabo-rare, per mettere insieme i racconti degli amiciche con noi percorrono questa esperienza “let-teraria”, persone che amano scrivere e condi-videre i loro racconti o pensieri o altro. Ab-biamo incontrato qualche difficoltà a raggiun-gere tutti i collaboratori di Pier Luigi che ani-mavano la rivista e qualcuno è rimasto fuori.Ci auguriamo di vederlo apparire sulla nostrastrada appena possibile perché, oltre aGRANDI FIRME, abbiamo molte idee e ini-ziative già programmate e il supporto di amicici renderebbe lieti. In questo numero nove sisono aggiunti alcuni giovani scrittori e questoci conferma che l’idea della rivista è buona eche si può allargare ulteriormente il numerodei collaboratori, magari entrando nellescuole. Vedremo. Intanto grazie a quanti con-tribuiscono a tenere vicina a noi la preziosapresenza di Pier Luigi. «Nel cogliere il fruttodella memoria si corre il rischio di sciuparne ilfiore» Conrad - La freccia d’oro. Speriamo chea noi non accada.

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Silvano Balestro

ABBIAMO GIÀPERSO TANTO,MA C’È ANCORA

SPERANZA

Sono tante le cose che abbiamo già perso,il sorriso sereno delle mamme e le tante ca-rezze che scaldavano tanto i nostri cuori.Ora le mamme e i padri sono sempre piùimpegnati nei tanti lavori, per necessitàeconomiche e altro; e nello stress che li per-vade non riescono più a dedicare tempoprezioso alla propria famiglia, per cui i figlisubiscono molto le loro assenze e tutta l’an-sia che consuma i loro genitori pesa moltoanche nella loro tranquillità.Abbiamo già perso tutto il grande candoredella natura nostra amica e la sua immensabellezza, tutti i suoi profumi e i coloriquando in primavera rallegravano tanto eci rendevano felici; perché, presi comesiamo nel correre per tutte le cose, non sap-piamo più apprezzare questo bene infinito.Abbiamo già perso il grande piacere dellostare insieme, a veglia di sera accanto alfuoco di un camino. A parte il suo calorescoppiettante, c’era sempre il grande caloreumano della gente e il suo tanto parlare.Tanti erano i racconti, a volte inventatialtre di verità assoluta, nati dalle espe-rienze passate durante il corso delle lorovite. Anche tanta saggezza veniva così tra-

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smessa a tutti coloro che esperienze nonavevano.In tutta quella bella atmosfera c’era latranquillità, perché avevamo la percezioneche gli amici e i vicini di casa al momentodella necessità erano pronti sempre a dartiuna mano, quindi l’ansia non si annidavain noi e la vita sorrideva di più. A quantestrette di mano io ho assistito, per sigillaretra la gente patti d’onore! anche questogrande valore si è perso, il valore dell’one-stà e del mantenere la parola data. Ognunodi noi, oggi, va sempre più di fretta, ci in-contriamo poco per parlare o per ricevere avolte una bella pacca sulle spalle come siusava una volta, di una persona sincerache, al solo contatto della sua mano ti fa-ceva sentire fiero di avere vicino qualcunoche ti stimava ed era pronto sempre a dartiuna mano e a incoraggiarti sempre di più.Quante belle cose che si sono perse per cor-rere dietro al denaro, che, se guadagnatoper vivere una vita decente va tutto bene,invece la maggioranza di noi non si è sa-puta accontentare di quello che aveva, e haprodotto tanti problemi anche all’altraparte che voleva e vuole vivere la propriavita sapendosi accontentare. Io penso chela vera ricchezza di un uomo sia sempre lasua famiglia e tutto l’amore che si riesce aesprimere nei sentimenti uniti al suo cuoree alla solidarietà umana. Io spero che ci siaancora tanto tempo e non bisogna perdernedell’altro in futili motivi, che fanno viverela propria vita meno della metà. Il nostrocielo è tanto azzurro e lo è per tutti. I nostriocchi possono vedere e godere di tutto lospazio che c’è, di una grande libertà e diuna pace che dà serenità completa. Credo

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anche che sarebbe senz’altro possibile, se cifermassimo a riflettere un poco di più guar-dandoci dentro bene, se tutti insieme par-lassimo di più, capire meglio. Se guardas-simo meglio gli occhi dei nostri figli, chesono tanto belli e sinceri, credo davvero chesarebbe possibile vivere molto meglio in-sieme a loro. Dovremmo prendere piùtempo per viverlo con loro, per stringerli dipiù sul nostro cuore, per dirgli e fargli ca-pire quanto li amiamo, che siamo tantofieri di avere dei figli come loro. Comunque,nonostante quanto scritto finora, penso checi siano ancora speranze in questa nostrasocietà, a detta di molti civile, piena di con-traddizioni, sempre immersa in conflitti neiquali non emerge mai la verità, la giustizia,la correttezza e la felicità di vivere. Pensoche ci sia ancora speranza per chi sa ancorabagnare le sue mani su i tanti fili d’erba ,quando la mattina sono impregnati di ru-giada, per chi sa camminare sulle zolle diterra appena arata e si ferma lì per annu-sare tutti i profumi, tutta la bella energiache fa vibrare ogni piccola parte di sé. C’èancora speranza per chi sa ascoltare il cin-guettio di tutti gli uccelli, quando sono involo a raso nello spazio immenso e in pienalibertà, quando posano poi le ali sullepiante rigogliose, per essere scaldati dal co-cente sole e le loro piume sono accarezzatedai venti profumati della primavera. Chi hala fortuna di saper vedere e apprezzaretutti i quadri che la natura sa dipingere puòdipingere le sue tele di tranquillità.C’è ancora speranza per chi sa bere acquafresca di sorgente a mani nude e rimanereseduto sul greto di un ruscello per fantasti-care e poi costruire barchette di legno per

farle navigare in libertà verso il mare. Cosi,uno può ritrovare tutto il bene che si è per-duto nel rincorrere tante cose piene di ten-sioni e può ripensare a tutta la saggezza cheè andata via.C’è speranza quando ci sdraiamo supini sudi un bel prato verde e pieno di fiori vario-pinti. Fermi, con il naso all’insù, a osser-vare la grande immensità del cielo, quandodi notte è pieno delle sue stelle, che brillanoper chi sa poi godere di tutto il loro splen-dore e così capire e ritrovare Dio.C’è speranza per chi sa osservare bene ilviso di un bambino e la sua ingenuità, il suosorriso. Per chi sa ascoltare attentamentequel vecchio che è rimasto in fondo alla via.Lui è pieno di saggezza e comprensione, divoglia di trasmettere tante cose, ma pur-troppo noi non sappiamo ascoltare più ne-anche noi stessi, quindi tutta la sua espe-rienza finirà in un grande mare di igno-ranza.C’è speranza per chi stringe i fili degli aqui-loni colorati e poi corre a perdifiato in spaziliberi per fare uscire pienamente il bambinoche è in ognuno di noi.Sì! c’è ancora tanta speranza, per chi sa ve-ramente amare e per chi con amore vive lapropria vita, con umiltà, onestà e rispetto,c’è veramente ancora tanta speranza di vi-vere bene il tempo che nostro Signore ci hadonato. Forza! c’è ancora speranza.

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Mirko Belliscioni

SUDHA

Sudha era un bambino che viveva in unagrande metropoli alla fine del 1800.Per vivere faceva il lustrascarpe, nelle sta-zioni, nei bar, nelle piazze ecc.Non aveva un compenso preciso, ma con-tava sulla generosità dei suoi clienti.Un giorno come tanti si ritrovò al calaredella sera senza un soldo in tasca. Pocoprima di riporre i suoi strumenti di lavoro,vide due piedi posarsi sul banchetto; imme-diatamente pensò che se nemmeno l’ultimoavventore avesse offerto nulla, avrebbe rea-gito malamente.Alla conclusione della lucidatura, l’uomo sialzò e fece per andarsene.Sudha iniziò a bofonchiare e poi a sbraitarea voce alta indicando le scarpe pulitissime.L’uomo pareva impacciato e non ribattevaagli insulti del ragazzo.Quando Sudha sfregò l’indice sul pollice,alludendo al pagamento, il proprietariodelle scarpe intese e tentò di spiegare cheera sordomuto.Si mise a frugare nelle sue tasche e diede algiovane l’equivalente di un anno di lavoro.Il ragazzo ebbe un sussulto e fece segno cheera troppo denaro, ma l’uomo con un dolcesorriso lo salutò.

Laura Bellocchi

CAMBIO DI STAGIONE

Non sono diventata grande per scelta mia,è successo un aprile un bel po’ di tempo fa,la genitrice apre la porta della camera esentenzia con crudeltà «quest’anno il cam-bio stagione lo fai da te con quelle mani cheti ritrovi da piedi alle braccia». Vivo gli au-tunni e le primavere con st’angoscia malce-lata e sfavorita dal fatto che ormai si passadal cappotto al costume, non c’è più mododi procrastinare, l’escursione termica tipiomba addosso senza darti un minimovantaggio. Oggi è quel giorno, quel giornomoscio come i glutei di Yoko Ono, in cui hoscoperto, dopo cicli e ricicli d’aerosol, cheil meteo è variabile, e morire di freddo al42esimo parallelo con una casa sopra latesta è da mentecatti, morire di caldo idem.C’è bisogno della lana e del cotone, delplaid e del pareo, doposci e infradito, tuttinella stessa anta. Apro l’armadio, prendocoscienza della catena montuosa di panniincalcolabili, li tiro fuori con ordine i primiotto secondi, poi la monotonia prende il so-pravvento, scavo come un cane da tartufi eli lancio dietro senza guardare traiettorie ebersagli. Passa il genitore uomo, guarda laquantità di vestiti buttati in ogni dove allarinfusa, guarda me: «Guadagni come unsoldato e spendi come un generale». L’ar-madio c’è, non ci sarà Narnia dietro, ma

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non perdiamo mai occasione per fare del ci-nema familiare.Quest’anno ho adottato la tecnica della se-parazione, come le lucertole con la coda, laroba che metto resta, quell’altra viaggiosolo andata nel secchio, senza rimuginarcisu. Bisognerebbe fare così anche con i rap-porti: i maglioni che volevi sempre metterema rigorosamente si macchiavano e a ognilavaggio ne uscivano più consumati, quelliche hanno perso di lucidità, quelli che in-dossi ancora bene ma che ormai hanno vis-suto il loro tempo, quelli che ti stannostretti e dentro ci respiri male, giù, rigoro-samente nei sacchi neri, perché tanto è pa-lese che andranno solo peggiorando.Poi con puntualità, a lavoro ultimato, si ri-presenta la mamma a dar voce alla mia co-scienza: «Non la buttare tutta sta roba,non si sa mai, magari la usi per stare incasa».In fondo si sapeva già, per quanto pos-siamo essere determinati, per quanto pos-siamo cercare la svolta, siamo nati per dareuna seconda possibilità.

Marianna Bosco

NEL TEMPOE NELLO SPAZIO(DON’T FORGET

TO SMILE)

La pioggia scrosciante nel buio della nottecontrastava con il crepitio rasserenante delfuoco acceso nel camino. Danny guardò lasua piccola accoccolata sul divano, e sor-rise. Era stato inquieto per tutto il giorno,strani pensieri lo agitavano e non riuscivaa tenerli a bada. Non riusciva a spiegarsiperché si sentisse così, come se avesse vogliadi tutto e al tempo stesso di niente. E in ef-fetti cosa poteva desiderare di più? Dopotanti anni di sofferenze poteva ben direi diaver finalmente trovato la sua strada. Maquella sera il suo spirito ribelle scalpitavadentro di lui…doveva fare qualcosa. Ri-tornò sul divano, prese Margot tra le brac-cia. «Dio, quanto è bella», pensò. Ognivolta vedere i suoi occhi illuminarsi guar-dandolo, lo sconvolgeva. Le parole gli usci-rono di bocca tutte d’un fiato senza render-sene nemmeno conto. «Scapperesti conme?». Margot lo guardò sbigottita, gliocchi grandi, la bocca socchiusa, presa allasprovvista da quella domanda inaspettata.Ma lui la conosceva bene, rise «Non guar-darmi così, so benissimo che dietro queituoi occhi furbi si è già aperto tutto unmondo di pensieri e domande. No non pen-

Per il lettore che sa leggere tutta la lette-ratura è contemporanea.

•Per trattare un argomento che cono-sciamo male ci serve un libro, mentre cibastano poche frasi per quello che ci è fa-miliare. L’ignoranza ci rende prolissi.

•Scrivere breve, per concludere prima diannoiare.

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sare, rispondi solo sì o no». «Scapperei conte certo. Farei tutto ciò che tu mi chiedessidi fare». D’un tratto sembrò che il battitoimpazzito dei loro cuori riempisse il silenziodella stanza. Stavano giocando ma Dannysapeva che aveva fatto quella domanda perun motivo ben preciso, qualcosa che glifrullava in testa da tempo a cui però ancoranon riusciva a dare una collocazione logica.Ma del resto niente più era stato logico daquando aveva conosciuto Margot. Leiaveva messo sottosopra tutto il suo mondocon la semplice determinata gioia di go-dersi ogni istante della vita. Ma a lei nondisse nulla delle sue inquietudini, vide dalsuo sguardo birichino che nella sua testastavano frullando già molte stravagantiidee. E già pregustava le risate fatte grazieai suoi delicati voli di fantasia... Così con-tinuò a chiedere «Allora, dove mi portere-sti? quale potrebbe essere il posto più belloin cui scapperesti con me?». Margot lasciòil caldo rassicurante del suo abbraccio perpoterlo guardare negli occhi «Devo deci-dere io? Ma di solito non è il cavaliere chesalva la dama e la porta via al galoppo?».Risero, adorava la sua piccola romantica.«Beh, sì, nelle favole antiche sì ma noi cimodernizziamo, potere alle donne, mi af-fido completamente a te, mia dolcissimaprincipessa». «Ok, ma non è difficile sce-gliere un posto, qualunque luogo sulla terraandrebbe bene. L’unica condizione è che lìdove ti porterei, io e te potremo essere sem-plicemente io e te. Tutto ciò che siamo eche nessuno riesce a capire». La guardòestasiato. «Lo sapevo che avresti rispostocosì, per questo lascio a te il compito di sce-gliere il nostro luogo perfetto. Io e te sem-plicemente, il nostro rifugio dal mondo».

Aveva conosciuto Margot due anni prima,nel caos calmo della sua precedente vita.Quello era stato il giorno della sua rina-scita. All’improvviso, da naufrago sballot-tato tra le onde qual era, trovò la sua scia-luppa di salvataggio, una piccola manotesa, a cui lui si era aggrappato con tutte lesue forze. Non la conosceva ma appena lavide capì che tutto ciò che credeva fosserotto per sempre si sarebbe riaggiustato.Da mesi continuava a tenere insieme i pezzidi un matrimonio andato in frantumi, lesue giornate erano incubi costellati di urla,litigi, recriminazioni e bugie, lo spettro diun amore finito che lo lasciava ogni giornopiù svuotato e sconfitto. E la sua paura piùgrande di non riuscire a capire come fareper uscire da quella vita. Aveva amatoquella donna? Se lo chiedeva tutti i giorni,si attaccava a brandelli di ricordi. Ogni ten-tativo lo portava solo a incatenati semprepiù a una vita non sua e a vedere lei tra-sformarsi in una donna arrabbiata e ostile.La disperazione lo portava sempre via dacasa, più lontano che poteva. Proprio inuno di questi suoi viaggi randagi incontròMargot, rimanendone subito colpito. Ri-mase a guardarla per un tempo che gli sem-brò infinito. Rideva spensierata, sembravanon le importasse di far vedere a tutti lasua esuberante allegria.Per Danny fu come una folgorazione,giorno dopo giorno veniva sospinto in quelparco dove l’aveva vista la prima volta. Isuoi piedi si muovevano come radiocoman-dati da una volontà che non sentiva sua.Quando la vedeva diventava inquieto escappava. Sapeva benissimo perché la suatesta reagiva così. Erano i sensi di colpa che

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lo tormentavano, la sensazione di fare qual-cosa di sbagliato nonostante tutto. Conti-nuare a raccontare bugie, far aumentare isospetti in sua moglie non riusciva più asopportarlo. Ma non sapeva nemmenocome fare per risolvere il problema. Avevachiesto consiglio a tutti si era buttato trale braccia di molte donne per avere con-forto, ma tutte le volte diventavano egoi-ste, gelose, pretenziose e lui scappava. Sisentiva un uomo in fuga, perennementebraccato dai suoi demoni interiori. Finchéun giorno successe, se la trovò davanti al-l’ingresso del parco, rimasero a guardarsiun po’ stupiti, e Danny si perse nel candoredei suoi occhi. Dimenticò se stesso e iniziòa parlare. Margot lo ascoltava senza aprirebocca. Del resto non sapeva come reagiredavanti a quello sconosciuto che le sorri-deva e le parlava. Pensò di scappare ma lesembrava che una forza misteriosa le in-chiodasse i piedi al suolo. Quel ragazzoaveva una luce strana sul viso, come unvelo che lo opprimeva e il suo cuore acce-lerò i battiti. Non poteva di nuovo, ci avevagià rimesso troppe volte il cuore. Ma primaancora che la sua testa potesse ragionare,quel suo pazzo cuore si era già aperto ad ac-cogliere tutte le emozioni e sensazioni chequella persona le stava trasmettendo. Erafatta così lei, “sentiva”. Sentiva tutto ciòche gli altri non sentivano e vedeva ciò chegli altri non vedevano. Tutti troppo sordi etroppo accecati dai propri personali inte-ressi. Lei prendeva senza volerlo tutto ciòche gli altri trasmettevano, tanto che ilpeso di tutte queste sensazioni spesso di-ventava insopportabile. Allora avrebbe vo-luto essere un’egoista e un’insensibile, ma

ancora una volta capì che quel ragazzoaveva un immenso bisogno di essere ascol-tato. In poco tempo divennero l’uno il con-fidente dell’altro. Ogni volta che avevanola possibilità di vedersi facevano uscire dailoro cuori tutto ciò che potevano. Final-mente consapevoli di non dover più tenerenascosto tutto quanto incendiava le loroanime. Avevano imparato a “sentirsi” cosìanche quando erano costretti a stare lon-tani e l’uno sentiva cosa stava provandol’altra. Margot ne rimaneva sopraffattaogni volta, la sua innata empatia non laaveva mai spinta fino a punti così estremi.Ma con lui era diverso, le aveva concesso diconoscerlo fin nel profondo della suaanima. A volte le bastava una parola dettain un certo modo per percepire il suoumore. E con il tempo aveva anche capitoquando era il momento di lasciarlo solo coni suoi demoni. Danny le aveva permessotutto questo perché aveva capito che dopotanto tempo poteva finalmente fidarsi dinuovo di qualcuno. L’aveva messa allaprova. Le aveva mostrato subito il suo latooscuro e sorprendentemente e lei non eraandata via, era rimasta, provando per luidolore e tenerezza. Prima ancora di dir-glielo lei aveva visto la sua parte migliore,lo aveva ascoltato oltre le parole. Parados-salmente però litigavano spesso per questosuo modo di essere. Danny avrebbe volutoche lei fosse meno coinvolta, che non si la-sciasse guidare solo dalle sensazioni delcuore, voleva che ogni tanto tirasse fuori unpo’ di sana cattiveria e spesso sentiva un in-vincibile desiderio di proteggerla. Avrebbevoluto che nessuno le facesse del male etroppo spesso temeva che sarebbe stato lui

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stesso a fargliene. Tutte le volte che dovevaallontanarsi da lei o non poteva parlarle eraterrorizzato all’idea che lei potesse soffrireper causa sua. Ma non succedeva mai. Luitornava e lei era sempre lì ad accoglierlosorridendo, senza fare domande e senzachiedere spiegazioni. Nessuna donna maigli aveva dato così tanto senza pretenderenulla in cambio, anche perché non avevanonulla da chiedersi, tutto avveniva sponta-neamente. Margot amava stare ad ascol-tarlo, non lo aveva mai giudicato né criti-cato, ma aveva condiviso le sue sofferenze,gioito per i suoi successi. Le sue parole leaveva stampate a fuoco nel cuore. «Tuttociò che voglio è che tu riesca a trovare latua serenità, qualunque cosa tu decida difare per trovare la tua felicità». Si era resoconto che la sua felicità dipendeva da lei.In uno dei rari momenti in cui avevanoavuto la possibilità di stare insieme, leaveva chiesto un massaggio «Ho bisogno dite ora non deludermi». L’aveva vista arros-sire ed era scoppiato a ridere. L’aveva sen-tita sussurrare «Non ne sono capace e poiho mani troppo piccole, e non prendermi ingiro». Ed eccola la sua bambina farsi largotra il suo essere così unicamente donna. Lemani di Margot all’inizio tremanti inizia-rono a scorrere sulla sua pelle e il piacereche lui provava sotto la pressione delle suedita lo ritrasmetteva a lei attraverso i suoisospiri. Fu uno scambio di benessere reci-proco, un piacere intimo, profondo. Lui neera estasiato e lei non voleva più smettere.Rimasero in silenzio a lungo godendo l’unodell’altro molto più intensamente che seavessero fatto l’amore. Danny si risvegliò daquella magia preoccupato che la sua piccola

fosse stanca. Le sue mani erano diventatecaldissime ma non voleva smettere di sen-tire quel calore. Le disse di smettere per nonaffaticarla e rimase sorpreso da quel «no»di disappunto che uscì dalla sua bocca. MaDanny la prese tra le braccia «Non voglioche ti stanchi, basta ora sto bene». Tutte levolte che potevano quello era diventato illoro rituale d’amore, parole non dette matrasmesse da un cuore all’altro.Per la prima volta dopo tante disillusioni sisentiva pronto ad affrontare quel passo cheavrebbe dato una svolta alla sua vita. Losapeva che non poteva sopportare oltre, sa-rebbe impazzito e non voleva più sentire ilpeso delle colpe piegargli le ginocchia. Locapiva ogni volta che era costretto a la-sciare Margot. Tornava a casa e la gioia, lafelicità provate con lei svanivano di colpo,appena vedeva sua moglie aspettarlo caricadi odio. Sapeva di non essere più lui, odiavaquella casa, la rabbia e il malessere lo tor-mentavano sempre di più. Tutte le volteche tornava a casa si ripeteva come unkarma le parole che gli aveva regalato Mar-got: «Ricordati di sorridere, ricordati chehai qualcosa per cui vale la pena sorridere».Ed era vero, pensare ai momenti con lei glidava una forza infinita. Quella stessa forzache in quella notte di inverno lo avevaspinto a chiederle un po’ scherzando un po’seriamente «Scapperesti con me». Non cre-deva che lo avrebbe mai detto. Non credevache avrebbe mai messo di nuovo la sua vitanelle mani di una donna. Ma sapeva ancheche il più delle volte la vita porta a faredelle scelte che se anche apparentementeimprobabili, poi si rivelano azzeccate. Perquesto decise di dare a Margot questa pos-

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sibilità. Sentiva l’immenso amore di lei, sifidava. Tenendola stretta tra le braccia,sentendo il suo respiro calmo sul suo petto,aveva l’assoluta certezza che al di là deltempo e dello spazio, lei lo avrebbe con-dotto in un luogo dove non avrebbe più sof-ferto.

Laura Calderini

2 MICROSTORIEA SPECCHIO

DA 100 PAROLECIASCUNA.

SORPRESA “AL CAFFÈ”

«Un caffè macchiato grazie» dissi, e il miosguardo fu immediatamente catturatodall’immagine, riflessa nello specchio dietroil banco, della splendida ragazza che stavaentrando.Il cuore mancò di un colpo quando rico-nobbi quegli occhi e quelle labbra.Mi aggrappai alla tazzina, che il baristacon gli occhi appiccicati sulla scollatura inavvicinamento, mi aveva allungato distrat-tamente, ficcandoci dentro il mio improba-bile interesse. Tanto non mi riconosce, pen-sai.Il «Ciao Claudio» mi costrinse a tirar su ilmento e voltarmi verso quella voce nota,

«Ma sei davvero tu?!». Alla fine ce l’haifatta Mario, farfugliai mentre il gomitomancava l’appoggio.Portai la mia scollatura dentro al bar doveero appena entrata e notai subito losguardo che il cameriere ci aveva schiaffatosopra; «Ti piace eh? beh scordatelo piccoloidiota», pensai gonfiando ancor di più ilpetto.Finalmente ero riuscita a trovare la miaidentità e adesso ci stavo divinamente amio agio.Lo riconobbi subito e non resistetti, «CiaoClaudio, sì sono io … ma possibile tu nonriesca mai a pronunciare bene il mio nome?Marion, mi chiamo, Marion!» dissi garrulaafferrandolo al volo prima che cadesse abocca avanti e rivolgendo un sorriso sma-gliante al cameriere esterrefatto.

Scrivere sarebbe facile se la stessa frasenon apparisse alternativamente, a se-conda del giorno e dell’ora, mediocre oeccellente.

•Se non ha dignità, sobrietà, maniere fini,nessuna prosa ci soddisfa appieno. Allibro che leggiamo non chiediamo solotalento, ma anche buona educazione.

•Si deve leggere solo per scoprire ciò cheva eternamente riletto.

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Fausto Cerulli

MI STAVO,QUASI STANCO DI ME

Da lontano, un ubriacoCanta amore alle persiane.(Dino Campana- Canti Orfici)

Mi stavo, quasi stanco di me,posando in qualche quiete,mia vita con malcerto passo,e giustamente ero felicedi sapermi. Astuta miala sera aveva stelle comeferite, camminavo questacoscienza, quasi frecciaa colpire il silenzioche sempre mi si nega.Non sapevo le ruvideosterie. Bevevo vinoper pensarmi vivo.Lei mi soccorsedi un sorriso.

Maria Virginia Cinti

ABITAVAMO I BOSCHI

Al vecchio fontanile ritornammo ancorper giorni e giorni.Le cose di un tempo hanno lacrime dipaura dell’oblio.Allora avevamo il cuore carico di futuro.Abitavamo i boschi spargendo amore e seminando felicità.Le piccole cose di un tempo ci hannoormai abbandonato.Le limpide acque del nostro fosso nonscorrono più tra i sassi conosciuti ormai disordinati abloccarne il respiro.Allora il tempo infinito dinanzi a noi.Cento anni di promesse a venireNegli occhi il colore di un vermiglio tra-monto.Progetti, voli, sogni,il vento tra gli alberi in ascolto del cieloinviava suoni ancestrali.Al fontanile ci immergevamo nell’acquaceleste color del mare.Navigavamo affidati a grandi vele.Aprivamo le nostre ali.Il profumo delle violesi spandeva nell’aria, si mescolava ai no-stri amplessiAl fontanile un giorno arrivò un vecchiostanco con addosso il peso degli anni.Gli occhi grandi lo sguardo consegnato aun saggio compromesso con il tempo.

Solo da una lettura ininterrotta, ratifi-cata da una seconda lettura, può nascereun giudizio assennato su un libro.

•Ci sono individui che trattano l’universocon sufficienza professorale.

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Scolpito in quegli occhi la consapevolezzadi un destino già scritto.Un destino che voleva cambiare ognigiorno.come un acrobata in equilibrio su un filosospesonel ricordo resuscitato di chi lì si era giàamato.Leggero, lieve scorreva il tempo accarez-zando amori nascenti.L’acqua correva con il suo moto inces-sante.Costruiva tappeti d’erba giaciglio diamori intensi.Il vecchio nudi ci sorprese.Ci accarezzò con quegli occhi come duelaghi quasi a voler benedire un amoregià stato.

Dante Freddi

INNAMORAMENTO

Mariella stava allo sportello, in fila dietroun’altra persona. Uscì dal suo ufficio il di-rettore della filiale insieme a un cliente concui stava continuando a parlare prima diun saluto caloroso, che esprimeva la soddi-sfazione di chi ha concluso un buon affare.Mariella si voltò invitata dalla voce cono-sciuta e riconobbe subito il compagno dicinque anni di liceo, Mauro Gagliardi. Si in-crociarono gli sguardi, Mauro liquidò il suointerlocutore e si avvicinò a Mariella, chegli si stava andando incontro. Mariella Cortesi era entrata in banca, la fi-liale di Città della Pieve di Unicredit, pereffettuare un controllo dei movimenti e pa-gare la bolletta comunale sulla raccolta deirifiuti. Non si era mai attrezzata per fruiredel servizio on line, un po’ per pigrizia, unpo’ perché non ne aveva bisogno. Avevatempo. Il figlio frequentava ormai la primamedia e il lavoro di casalinga e quello di col-laboratrice alla pagina regionale di un quo-tidiano riusciva a organizzarli con de-strezza. Si occupava di cultura e generica-mente di “società”. Aveva ormai collega-menti con tutto il mondo culturale e del-l’associazionismo dell’Umbria, che gestivasenza troppe trasferte. Il marito, France-sco, era maggiore dell’esercito e lavorava aRoma, al Ministero della difesa. Era a casala sera, ma non sempre, per un suo impe-

Sono così numerosi i poeti che scrivonouna sola buona poesia che dobbiamoconsiderare queste poesie solitarie comeavventure di una poesia che si sbaglia dipoeta.

•Un libro che non abbia Dio, o l’assenzadi Dio, come protagonista clandestino, èprivo d’interesse.

•Ciò che non è complicato è falso.

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gnativo ruolo nel contrasto al terrorismo.«Non ti vedo da almeno una quindicinad’anni, ma sei come allora, la più bella delliceo», le disse Mauro stringendola con af-fetto ritrovato, sincero, mentre nella mentegli volavano veloci ricordi degli anni tra-scorsi a scuola. Si rese conto della banalitàdell’approccio e si scusò: «L’emozione di ve-derti non mi ha suggerito niente di meglio,ma sono davvero felice». «Ci si perde dopoessere cresciuti insieme, ma un attimo etutto è come allora, quando conoscevamotutto di noi e avremmo giurato che la vitanon ci avrebbe separati», rispose Mariella.La cassa si liberò e Mariella avanzò per ef-fettuare le sue operazioni, indecisa. «Ap-pena hai fatto vieni nel mio ufficio lì da-vanti». Lui non voleva che quella piacevolesorpresa finisse lì, e neppure lei.«Ma mi offri un caffè?».«Lo ordino subito al bar», rispose prontoMauro entrando nel suo ufficio e indicandodove l’aspettava, con il dito rivolto ripetu-tamente al pavimento, fermo davanti allasua porta.Qualche minuto dopo Mariella stava sullaporta dell’ufficio di Mauro, che la invitò aentrare e a sedersi. Si misero sulle due pol-troncine davanti alla scrivania, arrivò il ca-meriere del bar di fronte, che lasciò il caffèe chiuse la porta.«Non possiamo raccontarci una quindicinad’anni in pochi minuti e quindi devi pro-mettermi che ci rivedremo. Intanto: comestai?». «Direi bene. E anche tu, certa-mente. Sei elegante e in piena forma, più informa di allora». «Ti ringrazio, mi fa pia-cere, soprattutto detto da te, la ragazza piùdesiderata della scuola. Irraggiungibile. Ti

sbavavamo tutti dietro». «Ma tu come maiqui, a cinquanta chilometri da casa» ri-spose Mariella senza soffermarsi sui ricordi,«non c’erano posti più vicino?». «Mi hannoofferto la direzione di questa filiale e se lecose vanno bene potrei diventare dirigentee fare il salto, andarmene in qualche postopiù gratificante, Perugia, Siena, Grosseto,vedremo». Mariella era una donna attra-ente e la bellezza giovanile si era trasfor-mata in fascino prorompente, che aumen-tava in chi la conosceva per le sua naturalesimpatia. Era sempre a suo agio, tranquil-lizzava, non entrava mai in competizione einterveniva per dire l’opinione che avevasoltanto nelle discussioni in cui riteneva dipoter esprimere qualcosa. Oppure lasciavauna battuta e si ritraeva con dignità, ascol-tando con visibile e sincero interesse. Alta,fisico perfetto secondo canoni estetici og-gettivi, in pratica senza difetti. Bionda,labbra carnose, pelle bianca e liscia, truccosempre leggero, occhi neri, nerissimi, voceun po’ cupa, non frequente in una donna,che contrastava con la sua grazia.Sorseggiavano il caffè amaro, lentamente,con un po’ di imbarazzo. Mauro chiese delfidanzato Francesco e se fosse lui suo ma-rito, dato che la fede al dito dichiarava lostato. «Sì, sempre lui, da fidanzato storicoa marito storico. Siamo sposati da tredicianni, abbiamo un figlio di undici, la fami-glia classica. Lavoriamo, nostro figlio Clau-dio e Bartolomeo, il canotto, sono il centrodella famiglia. Noi viviamo intorno a loro.Bartolomeo è un Dalmata iperattivo e miimpegna più di Claudio, che è tranquillo,sereno, bravo a scuola, ubbidiente, gentile,bello, bellissimo». «Tutto te», allora, si av-

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venturò Mauro alludendo ovviamente allosplendore della ex compagna. «No», risposeFrancesca. «È alto come il padre, robusto,tonico, un piccolo marines. Certo assomi-glia anche a me, è biondo, ha gli occhi neri,i lineamenti del mio viso». «Me lo farai ve-dere questo tuo gioiello, perché penso chemi piacerà, sicuramente per la tua parte»,riprese Mauro chiudendo l’argomento “fi-glio” con bruschezza, come se volesse an-dare avanti e cambiare argomento.«Mauro, mi stai facendo molti compli-menti, sono quasi imbarazzata. In tantianni di liceo non mi hai mai detto cose cosìgentili. Sei davvero cambiato, gli annihanno spazzato via la timidezza che ti ren-deva tanto carino». «Quindi sono peggio-rato? se avessi saputo allora che ero carinomi sarei azzardato a mettermi in fila contutti i miei compagni che ti sbavavano die-tro». «Esagerato! erano normali pulsionigiovanili, correvate dietro a tutte, ma le ar-rivavate poche». «La più inarrivabile ecerto mai arrivata eri tu». «Sei sicuro?Pensi che io fossi del tutto insensibile a chimi corteggiava? anche io so innamorarmi».«Tu sai pensare a un uomo che non sia iltuo Francesco? Oggi mi diventi più umana.Cade il mito della rigorosa fedeltà che ti haaccompagnato per tutta l’adolescenza esorge quello di una splendida donna con lesue debolezze. Ci guadagni, sei ancora piùintrigante», rispose Mauro ingarzullito.Mariella si trovò in impaccio e gli sembròche Mauro avesse inteso le sue parole comel’autorizzazione a chiedergliela. «Ehi, noncapirmi male. Non ti sto proponendo dicorteggiarmi. Abbiamo vissuto insiemecinque anni e vorrei essere vista come sono,tutto qui».

«Scusa, scusa se ti ho dato l’impressione diflirtare, ma è proprio così. Sapere che haiuna debolezza, come tutti noi, mi apre unmondo, il tuo, in cui ho aspirato di entrareper tutti quegli anni di scuola».«Non mi risulta che tu abbia mai tentatodi avvicinarti a me!».«Perché eri lontana da tutti noi, eri troppobella, avevi un fidanzato più grande, unuomo, un militare d’assalto, tutto muscoli.Noi che possibilità avevamo!».«Io stavo sulle mie perché mi sentivo unapreda che volevate catturare e poi mostrarecome trofeo. Non era l’amore per Francescoa rendermi così difficile, ma il timore diperdere l’amore di Francesco». «Compli-cato?», concluse Mariella.«Un po’», intervenne Mauro.«Francesco è un uomo bello, ancora oggi,molto bello. Mi ama, è fedele, mi dà sicu-rezza, qualche volta addirittura mi adora.Con lui vivo tranquilla, mio figlio è sereno,ho libertà, la uso ma faccio di tutto per nonoffenderlo». Mauro non capiva bene cosaMariella volesse dire, ma gli piaceva la se-renità con cui stavano parlando della vita.Erano più complici di quando erano ra-gazzi, si trattavano con maggiore sfronta-tezza, oltre le barriere che Mariella si eracostruita allora.Decisero di rivedersi qualche giorno dopo,davanti a un caffè, di pomeriggio. Ricordidel passato e vita presente, aspettative,problemi, gioie, interessi. Si raccontaronola vita anche nei giorni successivi, in incon-tri sempre più frequenti davanti a un caffèo un apritivo. Finché Mariella consideròche dopo sette otto volte che li vedevano lìa parlare fitti fitti per ore, qualcuno

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avrebbe potuto pensare chissacché. Eanche Mauro ebbe la stessa preoccupa-zione. «Mi piace molto vederti e la chiac-chierata con te a fine giornata mi rilassa, laaspetto come conclusione positiva dellagiornata», disse Mauro quel lunedì davantia un orzo lungo e amaro. «Temo che qual-cuno pensi male, soprattutto perché tu seimolto conosciuta e ora anche io. Le chiac-chiere volano con facilità e non vorrei chearrivasse qualche voce a tuo marito. Tral’altro senza nessun motivo». «Sei molto at-tento, mi fa piacere. Tu sei scapolo, avrestisoltanto da guadagnare nella tua reputa-zione di maschietto vivace. A me mi fareb-bero a pezzi». «Possiamo vederci anchefuori dal paese. Una volta che vai a Peru-gia, potremmo pranzare insieme. Per menon ci sono problemi, mi organizzo facil-mente il lavoro». «Certo, possiamo vederciun po’ clandestinamente. Mi affascina que-sta innocente avventura», rispose Mariella.Stava nascendo un innamoramento ed en-trambi se ne rendevano conto, senza agireper opporsi. Erano già in quella fase in cuigli altri sono sfumati, i pericoli di romperequalcosa sembrano inesistenti, tutto è lo-gico e giustificabile. Quel giorno a Perugiapranzarono in una trattoria defilata, in unvicolo, ambiente simpatico, tante risate sucosa avrebbero pensato i paesani e suo ma-rito se li avessero visti. Poi fecero due passie si fermarono, appoggiati a un muretto dacui si vedeva tutta la valle. Stavano uno ac-canto all’altra, erano ormai consapevoli diessere innamorati e le loro labbra si incon-trarono naturalmente, prima sfiorandosi,poi in un bacio appassionato. «Ti amo»disse lui. «Ti amo», rispose lei. Mariella nei

giorni successivi non si fece vedere, né tele-fonò. Era innamorata, lo sentiva nei pen-sieri, nelle parole rivolte a lui che si ripetevacome una cantilena, nelle pulsioni che la fa-cevano vibrare. Lui pensava esclusiva-mente a Mariella e immaginava come si sa-rebbe comportato al primo incontro da vi-cino, la prima volta in cui avrebbe potutotoccare il suo corpo. Dopo qualche giornoMariella rispose a una chiamata di Mauroe si dettero appuntamento per vedersi lamattina successiva, per «capire», si eranodetti. Si fermarono lungo una passeggiataai piedi di Perugia, uscirono dall’auto e sisedettero su un muretto.«Lo so, sono innamorata di te e finché duraquesto sentimento che mi riempie staròbene soltanto se starò con te. Ma non possooffendere mio marito, non posso permet-tere che qualcuno sappia di noi e lo rac-conti, per superficialità, per invidia, percattiveria». «Per quanto mi riguarda nonlo saprà nessuno, puoi stare tranquilla, as-solutamente», rispose frettolosamenteMauro.«Come posso esserne sicura?» chiese lei. «Che vuoi, vuoi che ti firmi una cambiale?»« Sì, una cambiale da cinquantamila euro».«Ma dici davvero?»«Certamente. Non la metterò all’incasso,mai, a meno che non venga a sapere che hairaccontato a qualcuno di noi. Ti ricordi iPromessi Sposi, quando Manzoni raccontacome si vengono a conoscere le notizie.Tutti garantiscono di tacere, poi si rac-conta a un amico, ma di amici ciascuno neha più d’uno e così tutti sanno tutto. Lacambiale la intesterai alla mia commercia-lista, un’amica d’infanzia».

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Mauro non capiva se stesse scherzando omeno.«Ho avuto qualche amante, già da primadel matrimonio, già dai tempi della scuola.Persone che “amavo”, di cui ero innamo-rata, con tutte le conseguenze dell’amore.Quelle cambiali mi hanno garantito il silen-zio».Mauro rimase basito, imbarazzato, con-fuso. Per anni aveva avuto un’idea di Ma-riella che ora non corrispondeva affatto allarealtà. Anzi, tra sé e sé dette della “zoc-cola” alla vecchia compagna che gli spa-rava addosso senza impaccio questa nuovaimmagine.«Inizio un rapporto con qualcuno soltantose sono davvero innamorata, come lo sonodi te. Do tutta me stessa, come si fa con chiti gonfia la vita. Ma non voglio che rovinila quotidianità, la tranquillità, l’affetto chemi lega a Francesco. Voglio vivere con lui,ma non posso rifiutare l’amore che nasce,mi sconvolge, mi turba, mi sconquassa»raccontò Mariella senza imbarazzo, allon-tanandosi.«Aspetta, aspetta, vado dal tabaccaio acomprare la cambiale. Ti amo».

Igino Garbini

COSCIENZE LASSE

«C’è un bel posto libero! A destra, propriovicino al cancello grande! Che fortuna, dai,dai!», diceva Priscilla al fratello che stavaalla guida.«Il Signore, vede e provvede!» commentòVenturino dopo aver tirato il freno a mano.«Lascia perdere il Signore, sarà anche prov-vidente ma non fa il parcheggiatore, questosi chiama colpo di culo, chiaro! Qui in ge-nere non c’è mai posto» aggiunse.«Certo che ultimamente oltre ad essere vol-gare, sei diventata proprio puntigliosa,direi caustica. Devi sempre sindacare suogni parola, che palle! Insomma sei diven-tata una lamentona, se continui così faraila fine della zia Olga, signorina a vita», di-chiarò Venturino spazientito.«Tu pensa per te, Don, Venturino! Capiscoche nelle omelie la parola culo meglio nonusarla, evoca riferimenti imbarazzanti pervoi del clero, ma comprenderai che anche aquesta storia della provvidenza divina nonci crede più nessuno», rispose Priscilla, nontanto per iniziare una disquisizione teolo-gica sulla causalità ma per il piacere di pro-nunciare con intonazione provocatorio quel“don” che era stato ragione di tanto smar-rimento in famiglia.«Sì, scusa, parlando di te, lasciami dire, senon parlo scoppio… Avrò un caratteraccio,va bene, ma devo dirtelo. Ti rendi conto di

Ciò che importa non è la sordida penom-bra organica da cui l’idea scaturisce, mala sua dura punta di diamante.

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come vai in giro, tu? Quei capelli appiccicatie rasati solo da una parte, rossetto cicla-mino, trucco pesante, quella canottierafuori taglia per far vedere meglio le addizio-nate al silicone. Ma dai! Poi quelle calze opantaloni, non saprei… Ma possibile chenon ti rendi conto che esponi sempre il tuocorpo in maniera provocatoria. Una volta tipresentavi in maniera molto più dignitosa».«Normalissimi pantaloni elasticizzati dafitness. Secondo te per venire al supermer-cato avrei dovuto mettere un vestito dasera? Sono uscita come mi trovavo quandomio hai telefonato».«Comunque i commenti di quei due chestavano riparando il banco surgelati te li seimeritati. Insomma non appari un giglio dipurezza, spingevi il carrello come una bal-lerina di samba, capisco che oggi parlare dipurezza in questo mondo di istinti e desi-deri disordinati è ormai fuori moda, ma…tu esageri».«Ma che avranno detto mai. Io tutti questicommenti pesanti non li ho sentiti pro-prio», rispose Priscilla pur avendo ascoltatoogni scurrilità.«Non posso ripetere per decenza. Ricordatiche la sessualità al di fuori dell’unione co-niugale è sempre inganno. Tu questi ra-gazzi li hai sollecitati alla turpitudine, hairisvegliato i loro istinti più infimi soltantoper il piacere di sentirti al centro della loroattenzione. Il tuo è comunque un abbiglia-mento che hai scelto con malizia, che porticon malizia e che quindi genera malizia».«Insomma vestirei da puttana, parlachiaro, dillo!»«Dai Scilla, basta. Mi sono permesso questicommenti perché ti voglio bene. Poi siamo

rimasti soltanto noi due in famiglia, siamorimasti soli in due o tre anni».«Sì, ma così esageri».«Comunque litighiamo la prossima volta…Dai, prendi le buste con la tua spesa nelportabagagli. Devo andar», le disse Ventu-rino rimanendo fermo sul sedile di guida.«Ma la macchina non me la lasci? Insommaio rimango sempre a piedi?».«Questa settimana non posso proprio la-sciartela, mi serve troppo. Per questo ti hoaccompagnato oggi al supermercato a farela spesa, per non farti portare pesi. Questigiorni mi devo anche occupare del solitocampeggio estivo diocesano».«Pensavo che me la lasciassi, non avevo ca-pito, ma poi la spesa l’hai fatta anche perte. Avevamo detto di utilizzare la macchinaa turno, una settimana io ed una te».«Certo, ho approfittato per comprare qual-cosa anch’io, per non perdere tempo. Poic’è ancora la macchina di papà, se ti serveprendi quella, è nuova. Da quando è man-cato è rimasta inutilizzata in garage».«Ma dove vado con quella? Arrivo a mala-pena ai pedali, non vedo bene dove finiscedavanti. Quando l’ho provata si sono accesetutte spie strane… dai non è per me».«Il sedile si regola con dei pulsantini inbasso a sinistra, con quelli fai tutto. Mal’assicurazione l’hai pagata?»«Mi pare di si. Ma scusa la macchina dipapà prendila tu, sembreresti così uno delVaticano. Tu sei stato sempre affascinatodalle gerarchie del clero. Ricordo quandovolevi vestire sempre la mia Barby da SantoPadre. Forse proprio a quel tempo avevi giàcominciato a fare un po’ di confusione.Molto prima di entrare in seminario».

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«Ma quella è la mia collarina? Ma fai atten-zione, guarda come l’hai ridotta!», dicevaVenturino dopo averla recuperata tra ipiedi della sorella.«Adesso è colpa mia? Ma perché te la toglisempre!» «L’avevo messa qui, nel vano portaoggettivicino allo stereo, per entrare al supermer-cato, come è finita sotto ai tuoi piedi».«Ma i preti non possono entrare nei super-mercati? La Coop non è un eros centre. Poianche se non la metti si capisce lo stessodalla faccia che sei un prete. Basta il tuocappellino da baseball con un pesciolino ri-camato per farti riconoscere, è chiaro checon quello in testa non appartieni ad uncircolo di pesca sportiva!»«La collarina è altra cosa, il cappello lo por-tano anche i papa boys, io ogni tanto latolgo e lo metto così, senza pensarci. Mi ir-rita un po’ il collo se non ho fatto bene labarba. Dai prendi le tue buste dietro chedevo andare» diceva Don Venturino ten-tando di pulire goffamente la collarina conun fazzolettino di carta.«Se non ti disturbo fratellino, potresti al-zare il tuo flaccido culone e venirmi ad aiu-tare a trovare la mia spesa tra questo ca-sino», disse Priscilla dopo aver alzato losportellone del disordinato portabagagli.«Le buste dove svetta la bottiglia di CocaCola non mi appartengono, mie soltantoqueste con pasta e frutt», dichiarò Ventu-rino spostandole tutte da una parte.«Mia anche questa e questa» disse Priscillasollevando una busta di prodotti a caloriezero ed una con il logo di un negozio dibiancheria intima dove facevano offerte asaldo.

«No questa qui è roba mia», affermò Ven-turino dopo aver dato una sbirciatina alcontenuto.«No, figurati, questa è roba comprata inquel negozio che sembra un sexy shop, tuttecose di gusto un po’ fetish ma vendonoanche qualcosa di passabile per stare incasa».«Ti dico che è roba mia», continuava a ri-petere il prete cercando di prendere il pos-sesso della busta in questione.«Guarda che dentro ci trovi tre tanga, treal prezzo di uno e un reggiseno a balcon-cino. Intimo da Maria di Magdala, direstevoi», rispose Priscilla divertita.«Da quando ti ha lasciato l’ultimo fidan-zato non sei più la stessa. Comunque nellabusta c’è roba mia. Anch’io ho compratoqualcosa a saldo in quel negozio», ammiseVenturino malvolentieri.«Hai comprato intimo supersexy per te?»,gli chiese Priscilla incuriosita.«Ho comprato delle canottiere per Rico,carine e a un prezzo ridicolo, sai come èfatto quello, se a lui non ci penso io, lui percarità… Solo palestra e motocicletta. Pertutti i giorni vanno più che bene».«No, non so come è fatto e non lo voglio sa-pere, l’ho sempre trovato ripugnante, tuDon Venturino invece lo sai bene moltobene come è fatto. Ma quali sono, di quelleblu da macho, come quelle dei sollevatori dipesi?» aggiunse sorridendo la sorellina ven-dicativa.«Sì, più o meno come quelle, ma costanoniente, il trenta in meno», aggiunse Ventu-rino preferendo spostare l’attenzione sullato economico mentre risistemava la col-larina.

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Andrea Laprovitera

LA NOTTEDI SAN LORENZO

È la notte di San Lorenzo. Ho sempre guar-dato il cielo e la luna con quel misto di emo-zione e sentimento, più come un poeta difine Ottocento che non come un uomo delterzo millennio. A sapere troppe cose siperde il senso dell’avventura e quel pizzicodi magia che dà sapore alla vita. Penso allagrandezza dei primi astronauti che, nel lu-glio del 1969, sono allunati (perché dire at-terrati non avrebbe senso) sul nostro satel-lite. Armstrong e Aldrin fecero i primi passisulla luna, mentre il povero Collins rimasenel Columbia in orbita lunare… così vicinae così lontana per lui. Cosa hanno conqui-stato e quello che hanno perso Armstronge Aldrin lo possono sapere solo loro,quando arrivi a toccare, a prendere unsogno poi, dopo la prima euforia, ti sentipiù povero. Preferisco guardare la Luna daquaggiù, illudendomi che sia sempre quelladei romantici, quella osservata dai fidan-zati e non quella senza acqua e vita de-scritta dagli scienziati. Così come ora, comeogni anno faccio ormai da moltissimotempo, ogni dieci di agosto vengo qui, suquesta collinetta, lontano dalle luci dellamia cittadina, per gustarmi per qualcheminuto la pioggia di stelle cadenti. Un mioamico, molto preparato in materia, qual-che anno fa, mi raccontò tutto su questo fe-

nomeno particolare, e io non gli avevo chie-sto nulla. Cercai di fermarlo, come detto inprecedenza, a me la cosa andava bene così,mi piaceva pensare, benché sapessi benis-simo che si trattava di semplici detriti la-sciati dal passaggio di una cometa, che fos-sero stelle. Non ci fu nulla da fare, il mioamico, toccato sul vivo di un argomento alui perfettamente noto, non esitò a sciori-nare tutta la sua vastissima cultura in ma-teria. Ho conosciuto quindi Perseidi, origi-nate dalla cometa Swift-Tuttle, dal nomedegli scopritori nel 1862. Non che la cometarisalga al 1862 è solo che Swift e Tuttle sesono accorti e lo hanno potuto dimostrarecon le loro osservazioni solo in quell’anno.La cometa è lì e transita tranquilla nellasua orbita, che interseca quella della Terra,tutti gli anni, perché l’universo sta lì damolto prima di noi. E insomma la cosa èandata avanti parecchio, il monologo astro-nomico del mio amico non conosceva soste,del resto quando ti ricapita di parlare distelle cadenti in giro. E così mi sono sorbitoil mio cappuccino, già perché eravamo albar, comodamente seduti su un tavoloesterno in una mattinata piacevole, caldama non soffocante con un’aria fresca cheproveniva da nord, insieme a un cornettoripieno di marmellata e crema. Mi sonodetto che una colazione del genere potevaanche valere il sacrificio di ascoltare quellalezione, in fondo anch’io ero un curioso, delresto per un paio d’anni avevo fatto anchel’abbonamento a Focus. Avevo comunqueperso un po’ d’attenzione, richiamato daqualche scollatura estiva forse troppo ge-nerosa per me, quando il dito inquisitoredel mio amico mi si parò davanti come se

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fossi di fronte al tribunale dell’inquisizione.«A proposito, lo sai perché si chiamanoanche “lacrime di San Lorenzo?».«No… non lo so» risposi quasi balbettandodi fronte a quella minaccia verbale.«Te lo dico subito. Stai a sentire allora.Narra la leggenda, perché qui non si parlapiù ovviamente di scienza, ma di fede».«Per me sono quasi la stessa cosa, anzicredo proprio che si completino a vicenda»dissi dopo aver ritrovato la tranquillità.«Uhm…secondo la leggenda si tratta dellelacrime del Santo versate in punto dimorte, che avvenne proprio la notte del 10agosto».«Chissà perché si preferisce ricordare ladata della morte…io avrei preferito ricor-dare il giorno della nascita di San Lorenzoe di tutti gli altri» risposi con calma.«Forse hai ragione, ma le lacrime si spieganocon il suo dolore e allora ha senso solo così».«Va bene, però non voglio sapere altro dellestelle cadenti e non mi ricordare nemmenola poesia del Pascoli, mi fa tanto ritorno ascuola e m’intristisce ancora di più. CiaoMario, torno a casa, ci vediamo presto». Losalutai senza grosso entusiasmo e senza for-nirgli il tempo necessario per una replica.Tra le altre cose quella fu l’ultima volta chevidi Mario, anche lui diventò una stella ca-dente qualche tempo dopo a causa di un in-cidente. Quando penso a lui mi viene semprein mente quell’ultimo incontro, io chescappo via e che gli do le spalle lasciandololì da solo. Che strana la vita, ci lascia semprecosì in sospeso, senza troppe spiegazioni.Eccola là! L’ho vista! La prima stella ca-dente di quest’anno. Mi emoziono ancora avedere questo spettacolo, anche se so che si

tratta di detriti, anche se un po’ di poesiagiovanile s’è persa per sempre, non possofare a meno di pensare che mi trovo difronte a uno spettacolo unico. Mi sdraio interra, metto le mani dietro alla testa, sentosotto di me l’accoglienza soffice dell’erbafresca, faccio un respiro profondo e vedoun’altra stella cadere e penso al mio amicoMario, chissà com’è felice lassù in mezzoalle sue stelle…

Gianni Marchesini

TANTO VENTO

Dal mio libro AH, PIPÌ!

...In fondo all’osteria, sotto il disegno di-pinto sul muro dal compianto pittore Scioc-chino che raffigurava l’oste rubicondo can-terino seduto su una botte, cinque giri di sal-sicce intorno al collo, un fiasco in una mano,nell’altra un grande vassoio sovrastato daun tacchino fumante immerso nelle patatee in terra piccoli animali domestici, salami,prosciutti, capicolli oltre a un piatto volantedi frittelle di San Giuseppe, un giorno a set-timana, il giovedì, sedeva il sòr Paride ritto,immobile, appoggiato alla spalliera dellasedia, con le due mani sovrapposte al suo ba-stone, il vasto cappello sempre in testa, l’in-sondabile sorriso davanti alla sua bottigliadi Aleatico di Viceno.

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Settimio lo osservava aspirando la serenitàche quell’uomo emanava e non riusciva a ca-pacitarsi come il suo sorriso felice, accogliente,la postura ardita, avessero potuto concepireuna sera di Settembre di gettarsi giù dallaRupe e per di più dalla parte più alta.Paride, data l’età e la mole appesantita,prima sedette sul muro, poi girò il suocorpo con fatica e quando il bastone glipendolò nel vuoto, si lasciò andare per es-sere trattenuto dopo pochi metri da unramo di fico selvatico, che ne crescono resi-stenti e coriacei nei cretti della Rupe, e ri-mase intrigato nella medesima posizioneseduta con la quale era partito, serafico ederetto, tra i rami intrecciati dell’albero.Qualcuno scese appeso alle corde, lo im-bracò, tagliò i rami del fico e il sòr Paridevenne tirato su come un tronco d’alberocon il suo sorriso da ebete felice, per laprima volta senza il suo cappello, poichéquello arrivò dopo di lui essendosi infilatotra l’ordito dei rami. Un giorno di Novem-bre che la nebbia s’arrotolava come unagarza sui selci della Cava, il sòr Paride ri-tornò all’osteria e riprese il suo posto sottoil disegno dell’oste con le note sopra la testae sorrideva, rigido e composto come uncomprensivo tutore dell’ordine. Restò inquella posizione con gli occhi che, come di-ceva Settimio, «Guardavano tutti e nonguardavano nessuno» anche quando, primacon titubanza poi con più rapido avanzaredi sedie, la maggior parte dell’osteria gli sifece appresso nella stessa maniera con laquale un branco di lupi circonda la preda.Ci fu un grande silenzio per un lungo tempointorno al sòr Paride fino a quando unasedia si staccò dal cerchio. Era Peppe il

Santo, di mestiere sellaio, un uomo moltoreligioso che aveva aperto un negozio a Or-vieto, ma scendeva spesso all’osteriad’Aronne. Gli si avvicinò, quasi a sfiorarlo.Gli disse qualcosa che nessuno sentì, madalla fila di sedie qualcuno urlò: «Vocee».Peppe il Santo allora si scostò un po’, alzòla testa e, con voce più alta domando: «SòrParide, ma ditice ‘n po’...Oh, se non ce vo-lete risponde, per carità, non ce rispondete,ma noe sémo tutte curiose de sapé ch’aves-sivo provato, ch’avessivo sentito dentro devoe nel mentre de quel volo ch’éte fattodove ‘n miracolo de Cristo ha voluto che vefermasse, grosso come sete, ‘no sterpo de fi-cona». Il sòr Paride scese lo sguardo versoPeppe il sellaio e per un attimo accentuò ilsuo sorriso assestandosi sulla sedia per er-gersi in un aspetto più solenne. Ma nonparlò. Per dieci minuti l’osteria di Aronnepiombò negli abissi del silenzio come in unrito religioso quando, muta e intensa, la co-munità va per stringersi al suo sacerdote.Peppe il Santo allora si alzò in piedi e, chi-nandosi verso di lui con la sua voce affet-tuosa che celava una palese pretesa di imi-tare Mosè, così gli parlò: «Sòr Paride, cheve fate pregà? Non ce lo volete dì, allora?Dunque, che vòle dì, che a noe non ce vo-lete bene? Dite insomma, che sentimentoavete avuto, ch’avete sentito dentro de voestesso durante quel volo fino a quando nonve sete intrigato la pe’ la ficona?».Il sòr Paride tirò fuori il petto, guardò ilsoffitto, a lungo, tutte le sedie avanzaronoall’unisono serrandosi addosso a lui e lui,con quella sua insospettabile voce acuta difemminuccia esclamò: «Tanto, tanto,tanto, tanto».

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« Ma tanto che, sòr Paride?».«Tanto, tanto».«A fregna sòr Pà, ma tanto che?».«Tanto vento su pe’ le carzone».Un vociare deluso e ululante serpeggiò perla sala e tutti si alzarono dalla sedia per ri-tornare con ampi scrolli di capo ai propriposti concordi nel ritenere che se un cri-stiano gode nel sentì ‘l vento su pe’ le car-zone non è che s’ha da buttà pe’ forza giùdalla Rupe e che ‘l sòr Paride, nonostantequell’aspetto sapiente che metteva sogge-zione, in realtà non capiva un cazzo, nem-meno quant’era lungo e che se la ficona nonl’avesse fermato alla fin fine non avrebbefatto ‘n sordo de danno.

Maria Beatrice Mazzoni

NACHT UND NEBEL,NIEMAND GLEICH...

“Nacht und Nebel, niemand gleich”Quella voce cosi’ gutturale, fredda, priva diemozioni, senza colore...Il dott. Johann Wasserman, nel suo eleganteufficio di Berlino ascoltava agghiacciato.Di fronte a lui un uomo scuro e tarchiatoriannodava il nastro e di nuovo premeva iltasto del registratore per farglielo ascoltareancora e ancora.Paziente 777, registrazione dell’11 settem-bre 1975 ore 10 am Nacht und Nebel, nie-mand gleich ...niemand gleich.Il paziente 777 ...certo era sua la voce.Il dottor Wasserman era pallido e spauritocome se non capisse, le pupille dilatate, lemani scosse da un tremito convulso. All’investigatore Perez, giunto apposita-mente dal Cile per indagare sul caso, nonsfuggivano certo i linguaggi del corpo.«Dunque, Dottore, Lei non sa proprio dicosa si tratti».Il dottore era sempre più spaurito.«No ...sì. Ma credevo…»«Cosa credeva…cosa?»Ora Perez era inclinato verso il dottor Was-serman e lo fissava dritto negli occhi az-zurri come a sfidarlo a parlare. L’investiga-tore si era fatto cupo.«Come spiega che abbia parlato a me e nona lei? Sarebbe stato più normale dato che si

Colto è l’uomo che non trasforma la cul-tura in professione.

•Di fronte a un pensiero ostile, il pensieroreazionario non si irrigidisce in un rifiutoindignato. Anzi, cerca di assimilarlo, sapen-dosi capace di nutrirsi di succhi velenosi.

•Per il lettore che sa leggere tutta la lette-ratura è contemporanea.

•Per trattare un argomento che cono-sciamo male ci serve un libro, mentre cibastano poche frasi per quello che ci è fa-miliare. L’ignoranza ci rende prolissi.

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esprime in un ottimo tedesco... non è vero?»Il dott. Wassermann si passò una mano trai capelli come a scacciare i pensieri. Chiuseun attimo gli occhi, ritrovò un po’ di calmae con rassegnazione cominciò.«Il paziente 777 ...Il paziente 777 era una donna sudameri-cana di una bellezza esotica e calda.L’avevano trovata nel giardino, mezza af-fumicata e totalmente sotto choc, unica so-pravvissuta al rogo dell’ospedale psichia-trico di cui per settimane avevano parlatoi giornali.Poi indagini, ricerche, pettegolezzi. Tuttosi era spento nella dimenticanza.La donna misteriosa non aveva elementiidentificativi se non il tatuaggio sulla spallache coincideva col numero di una cartellaclinica mezza bruciata.La cartella 777, dove a malapena si leggevanumero e riferimenti vaghi a qualche pato-logia oscura.Dopo la ricostruzione dell’ospedale il dott.Wasserman era stato chiamato a dirigere lastruttura al posto del suo predecessore, ildott. Kurt Van Kassel, arso nel rogo in-sieme ai suoi pazienti.Wasserman era stato allievo e amico di VanKassel ed ed era deciso a fare chiarezza.Non credeva possibile che il brillante neu-rologo fosse impazzito improvvisamentefino a suicidarsi appiccando il fuoco all’in-tero ospedale.Né la paziente 777 poteva aiutarlo: la memo-ria se ne era andata del tutto da quella crea-tura stupenda, se mai ne aveva avuta una.Ormai in ospedale la chiamavano Lindaper il suo aspetto sempre curato.Il dott. Wasserman era affascinato dalla

sua figura minuta e scura, un vero gioiellodi bellezza latina.Pian piano si era innamorato di lei e in queltragico giorno di luglio ne era fatalmenteconsapevole.«Cosa è accaduto di particolare quel gior -no?» chiese Perez, interrompendolo.Wasserman si riscosse come tornando allarealtà da un incubo. Stava sudando freddo.«Niente. Era un anno esatto»«Un anno da cosa?» incalzò Perez.Wassermann sospirò: «Dall’incendio».Ormai lo scopo della sua vita, oltre a riabi-litare il nome dell’amico e collega, era cu-rare Linda e sposarla.Gli altri pazienti venivano visitati veloce-mente ogni mattina, le loro cartelle clinichescarabocchiate in fretta. Poi era il momentodel paziente 777. Con lei faceva lunghe pas-seggiate in giardino, incantato dalla sua fre-schezza, dalla soavità del suo aspetto e ad-dirittura dal suo ostinato silenzio.Linda sembrava fidarsi completamente dilui ma non poteva o non voleva dire nulladel suo passato.La sua vita doveva essere ancora avvoltadai fumi dell’incendio.Lui, Johan Wasserman, avrebbe avuto pa-zienza e tenacia. Da qualche giorno lei loguardava in modo diverso e lui aveva il so-spetto di essere ricambiato. Sapeva cheamava anche se non sapeva chi.Quella sera era deciso, non gli importavachi fosse stata Linda in passato. Sarebbestata la Signora Wasserman. E al diavolotutto il resto!Finito il giro delle visite serali andò a cer-carla in giardino.Linda osservava il tramonto e sembravanon essersi accorta della sua presenza.

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Decise di restare a contemplarla: così silen-ziosa e assorta tra terra e cielo sembravauna statua greca; la perfezione del suo pro-filo, delle sue forme era straordinaria.Il sole cominciò a calare piano piano facen-dosi sempre più rosso. Al dottore sembravanon aver mai visto nulla di simile.Ora il colore del cielo si allargava come unachiazza di sangue.«Continui» intimò Perez.Il dott. Wassermann si era bloccato. I suoiocchi guardavano oltre il detective, oltre lepareti della stanza e ancora oltre, forse nelmistero della vita e della morte.«La prego, dottor Wassermann, è impor-tante per le indagini».«Le indagini» ripeté macchinalmente ildottore.Poi i suoi occhi accecati di dolore si tuffaronoin quelli scuri di Perez come a cercare aiuto.«Indagini su chi? e a che scopo? Se le di-cessi che il dott. Van Kassel era un satani-sta e un nazista fanatico su chi indaghe-rebbe ora che è morto?».«Capisco. Certo anche questo per lei deveessere stato un gran dolore».Wassermann scosse la testa:«Non ho mai creduto a Dio né tantomenoa... ad altro. E non ero d’accordo con VanKassel e la sua “soluzione finale”. VersoKurt Van Kassel provavo solo ammirazioneprofessionale e naturalmente affetto».Perez chinò la testa a raccogliere le idee:«Mi scusi ma vorrei concentrarmi sul pa-ziente 777».Wassermann non ascoltava:«Io lo prendevo in giro, capisce? per le suefantasie. Diceva che Hitler non era morto.Che avrebbe palesato la sua presenza an-cora. Che mi sarebbe venuto a prendere».

Perez capì che doveva mostrarsi risoluto: «Il paziente 777... la prego, torni in sé. Cisono di mezzo cose grosse. La signora sem-bra implicata nel colpo di stato del mioPaese. Lei capisce... i servizi segreti... mache fa…ride?»Wassermann era passato da un sentimentoall’altro e rideva come a imitare uno deisuoi pazienti più strani.L’ispettore lo lasciò fare. Doveva esseremolto penoso per lui andare fino in fondo.«Capisco che vedere la donna amata inda-gata per spionaggio deve essere terribile» silimitò a farfugliare confuso.«Spionaggio» ripeté il dottore fermandosi.«Ma lei che ne sa?» e riprese a ridere finchénon crollò riverso contro lo schienale dellapoltrona.«Ah, se sapesse. Anzi, ora saprà. Ormainon importa. In fondo ha ragione il pa-ziente 777: niente e nessuno c’è più».Perez ammutolì.«Nessuno?»Wassermann sorrise sornione ammiccandoironico«Beh qualcuno… c’è».La ragazza era ancora in piedi nella stessaposizione ma non somigliava più al pa-ziente 777.I suoi abiti bianchi portavano ora macchierosse. I suoi capelli neri erano diventativerde rame e la sua figura si stava alzando,le spalle sembravano montagne che copri-vano le ultime luci della sera. Quando sivoltò verso di lui, il volto accigliato portavalunghi baffi, occhi malvagi e una voce,quella voce, gutturale, profonda. Eraquella del dott. Van Kassel:«Nacht und Nebel, niemand gleich. Micredi ora, Johan?»

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«E lei, Perez, mi crede?» ringhiò assermannriemergendo dalla foschia come un vampiro.Ma Perez era svenuto.

Giulia Parrano

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Caterina, la prima volta che lo vide correresullo stradone, stava alla finestra, e guar-dava la via. La sola via, quello stradone,che passava tra le case rurali, ormai quasitutte vuote, e che poi si perdeva in sentieri,nella campagna sempre più abbandonata.Dall’altra parte della via, qualche orto eraancora coltivato; quello di Giacomo era ilpiù bello. Giacomo era tornato, dopo tantianni passati da emigrato, e curava il suoorto giardino con amorosa sollecitudine.Lì per lì, quella figura che correndo era ap-parsa sulla stradone in una tuta verde, can-giante oro, l’aveva molto sorpresa perché,come dire, senza occhiali… le era sembratoun grosso dorato insetto. Uno scarabeo, perla precisione, che sì, l’aveva meravigliata,ma dati i tempi ! Ansiosa inforcò gli oc-chiali «O signore! Ma è solo un ragazzo. Macome diamine è vestito! Sembra propriouno scandalandoro!», esclamò. Lui l’avevasentita e lanciandole un rapido indifferentesguardo continuò a correre, avvolto nellasua tuta verde cangiante oro.Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica, dopoquel primo incontro Caterina lo vedeva ar-rivare di corsa dal fondo dello stradone. E

ogni volta che lo vedeva comparire, lei pen-sava alla sua infanzia, allo scarabeo verdedalle ali dorate, lo scandalandoro, a cui le-gava una zampetta a un filo, perché nonscappasse via, incantata dal meravigliososmalto verde oro delle piccole ali, che vibra-vano sotto il sole di Maggio. Il ragazzo cor-reva, correva per i sentieri, per le carrarecce,sull’ asfalto. Insomma, con uno sguardofisso perso chissà dove, correva sempre dap-pertutto. Giacomo invece quando lo vedevaarrivare, alzava un momento gli occhi daicespi di insalata, scuotendo la testa. Nonriusciva a capire. Non si capacitava di tantosudore e fatica, che gli sembrava insensata.Lui sì che aveva faticato, nelle fabbriche dicittà nebbiose, durante lunghi turni alle ca-tene di montaggio, sempre con la speranzadi poter tornare a casa.Da qualche giorno un rumore, il rumorepotente di un motore, lo distoglieva fre-quentemente dalla cura dell’orto. Giacomoalzava la testa, con un’ansia curiosa, ma ilrumore era così diffuso che non capiva daquale parte venisse. Poi lo vide apparire.All’improvviso. Era un trattore enorme,tanto che l’uomo, lassù nella cabina, a Gia-como sembrava piccolo piccolo, come die-tro la finestra, all’ultimo piano di un pa-lazzo. Spazzava via con arroganza e forzatutto quello che trovava davanti: cancel-lava greppi con i timidi raponzoli, sradi-cava castagni, abbatteva ulivi, soffocandoil respiro antico e lieve di quella terra, la-sciando dietro di sé una spianata boccheg-giante, dove lenti, ma inesorabili, avanza-vano alberelli estranei a quella terra, mapronti alla sua conquista. Erano uno ac-canto all’altro, tutti uguali, soldati di unesercito crudele e ottuso. Giacomo e Cate-

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rina erano ammutoliti, mai nella loro certonon breve vita avevano visto cancellare,così rapidamente, la loro storia. Le pochepersone giovani che ancora vi abitavano, la-voravano nella cittadina vicina e non torna-vano che la sera. Loro erano soli. Per unsacco di tempo rimasero lì, immobili, mutesentinelle uno accanto all’altra, con il cuorepieno d’amarezza a guardia di quell’orto, ul-timo ritaglio della loro anima. Poi Caterinacon le spalle un po’ più curve e la testa un po’più bassa, senza poter parlare, chiusa dalgroppo che le serrava la gola, tornò a casa, echiuse le finestre sbattendo le imposte.Solo lui, il ragazzo, sembrava non avveder-sene. Correva e correva, su sentieri cancel-lati, su carrarecce ferite dalle ruote enormi.Correva ancora e ancora, con l’occhio unpo’ fisso e lo sguardo nel vuoto. Finché in-ciampò in una radica che affiorava dallaterra, scampata da un albero strappato viafrettolosamente. Cadde a faccia in giù conil naso nel fango. Giacomo che lo vide,mentre stava legando mazzetti di ravanelli,e non poté trattenere un sorrisetto malignomentre borbottava tra sé e sé «Finalmente!È arrivato al traguardo».

Luca Pedichini

LA STORIADI FEBBRAIO

Appena chiusa la porta ho la sensazione diaver sbagliato tutto.I passi si diluiscono verso l’uscita ed apparela luce.Forte del mio nuovo giorno, rido delle vali-gie, dei cuscini e delle frasi scritte sul frigo-rifero, perché fanno parte di una scena vis-suta ed abbandonata in quel teatro logorodella mia ex.Adesso senti che aria nei polmoni, che passisicuri, che fuga di ironia solo per aver sba-gliato tutto.E se lo avessi saputo prima avrei sbagliato me-glio e di più. E poi via, non si può mica starea guardare ogni minima cosa che non va.Sai che c’è? Anche questa è andata.Per anni, giorno dopo giorno, ero il prota-gonista di un film di fantascemenza e nonme accorgevo.Ho sbagliato con il lavoro, le vacanze nonsono state mai come quelle dei Vip, la pastaè scotta, la pancia è troppa, il sesso è poco,la zia, lo zio, non guardare, non parlare.Anni dei migliori anni passati come unservo della gleba, ma Spartaco ha spezzatole catene!Oh ma non me ne sono accorto, devo averpasseggiato a lungo. Il tramonto è qui e sonoancora a vagare con la mente sul passato.Corri, corri, cosa ti va di mangiare stasera? Vo-glio cibarmi di tutto quello che non c’era prima.

Scrivere sarebbe facile se la stessa frasenon apparisse alternativamente, a se-conda del giorno e dell’ora, mediocre oeccellente.

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Dopo quel muro, subito a sinistra ci sta quellocale che lei detestava e chissà poi perché.Lì mi vedo bene. Seduto lì, in quel posto.Avrei giurato che fosse ancora presto mal’ombra corre lunga avanti a me.Ma quanti passi ho fatto costeggiando que-sto muro? Ma che strano non è mai statotanto lungo.Tra poco dovrei scorgere l’insegna del lo-cale, mi aspetta vino rosso, calore e magarimusica, euforia e incontri.Eppure avrei giurato che questo muroavesse una fine.Ah! eccola la luce rossa e vivida! sento giàil profumo di arrosto e vino.Ma questa non mi sembra musica, assomi-glia di più ad un sibilo e la luce è così av-volgente che mi perdo in essa ed il profumoè come di peli bruciati e sono i miei.Con lo stomaco pieno ma senza aver man-giato nulla, bloccato non so su cosa, riaprogli occhi e non sono in quel locale.La pupilla gira in cerca di una camerieraquando l’essere opaco si affaccia ai miei occhi.Avrei giurato che fosse ancora presto ma iltempo che percepisco è lontano dai miei passi.«Chi sei?» mi chiese parlando un correttoitaliano senza pause.«Ma come chi sono? Liberami, io cercavosolo un ristorante».Lo guardo meglio e li vedo: due in unocome se un’offerta stellare fondesse due es-seri in un unico corpo.«Chi siete? Cosa volete da me?».Mi iniettano la risposta direttamente nellamente grazie ad uno strumento filiformeche mi attraversa il naso.Non soffro più ma ho dimenticato tutto ciòche mi legava ad un indefinito tempo prima.

Appena chiudo la bocca la sensazione diaver sbagliato tutto torna di nuovo.Quattro occhi di vetro cosmico mi osservanomentre il mio corpo si tende e resta rigido.Il doppiomo consulta dentro di me. Losento che fruga.Polmoni, viscere, ed è bello quando toccala mente.Esili e veloci le sue dita come su di una ta-stiera di alabastro ma sono io il pianoforte.Probabilmente a quest’ora saprà tutto dime. Di quei segreti inconfessabili, delle miepoesie, di dove sono passato ieri e del mioamato lavoro.Un sibilo richiama l’essere e la sua esplora-zione termina come la conclusione dellaformattazione di un hardisk. Mi sento comeuno sciacquone prima di essere tirato.Poi il dolore mi spacca le ossa come il pesodi una vita intera.Anche il respiro porta dolore come unaesperienza di miseria ed inquinamento.«Stai per morire in questa dimensione».Sono le parole del doppiomo prima di to-gliere la sonda.È appena un momento dopo ed ho le chiaviin mano. «Caraaaa sono a casa!».

mr.malox10022019

Se non ha dignità, sobrietà, maniere fini,nessuna prosa ci soddisfa appieno. Allibro che leggiamo non chiediamo solotalento, ma anche buona educazione.

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Giovanni Peparello

SILENZIO

Roberto Longari, anni 47, viveva in viaGiulio e Corrado Venini a Rovereto, zonanord di Milano. Una sera tornò a casa dallavoro e uccise la moglie. Alla polizia rac-contò che l’aveva sposata per amore el’amava tuttora, ma che non stava maizitta. «Per quanti ricordi ho di lei» disseagli inquirenti, «in questi 15 anni di matri-monio, non ce n’è un momento in cui è riu-scita a star zitta». Qualche momento dopoaverlo detto, si accorse di quanto già glimancasse. Scoppiò a piangere a singhiozzi,perché quello che aveva fatto era irrepara-bile. Gli inquirenti si mossero a pietà e glioffrirono una bottiglia d’acqua frizzante eun caffè delle macchinette. Uno di loro uscìdalla stanza e andò a chiamare il procura-tore, non potendo credere di riuscire a ca-varsela con così poco tempo. Tutti convintie contenti, dimenticarono di fargli firmarela confessione. Roberto Longari, rifocillatoa dovere, bevuto un bel sorso d’acqua friz-zante, pensò che forse, tutto sommato, nonmeritava l’arresto. Era già abbastanza pen-tito e avrebbe sofferto nell’altra vita per ilpeccato commesso. Oltretutto la moglie glimancava tantissimo e già questa era unabella punizione. Così, quando rientrò il po-liziotto, lui rifiutò di firmare la confessionee chiamò il suo avvocato. L’avvocato erabiondo e abbronzato, dai lineamenti squa-

drati e giovanili, sebbene avesse forse l’etàdi Roberto Longari stesso, e arrivò cor-rendo con una valigetta. Trovando il suoassistito chiuso in una stanza, circondatodagli inquirenti allibiti, minacciato dai loroindici puntati, l’avvocato spalancò la portaper porre fine al sopruso. Ne seguì un bat-tibecco piuttosto animato, in cui RobertoLongari piangeva, l’avvocato urlava e gliinquirenti strepitavano con la confessionein mano. Uomo d’un pezzo e dal dia-framma d’acciaio, l’avvocato sovrastò levoci altrui e iniziò una perorazione tal-mente stentorea da costringere gli altri adascoltarlo. Lentamente i poliziotti si quie-tarono. Solo Roberto Longari mugugnava,prorompendo ogni tanto in singhiozzi stra-zianti.«Se…se un uomo» disse l’avvocato «se unuomo di 47 anni… se un uomo di 47 annicome il qui presente Longari Roberto, alto,bello, piazzato, tornito dagli anni, abbat-tuto o meglio scoraggiato, infiacchito daicasi della vita, tra cui un ufficio che non lorealizza né dal punto di vista umano né daquello professionale, tra cui una moglie, so-prattutto una moglie, sebbene moglieamata nondimeno mogliettina noiosa, tracui una vita in genere solitaria, in genere»dico «perché comune a una specie primache appannaggio di un singolo, torna acasa, nella casa che egli paga con il sudoredella fronte, torna in questa casa stretta,nella metafora e nel realissimo stipite dellaporta, costretto ad abbassarsi per nonspazzolare con i capelli ormai canuti il pol-veroso intonaco, e trova sua moglie, primaamata ma noiosa, improvvisamente morta,dal collo spezzato come un fuscello, da

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pressa elettrica più che da mani, da unenergumeno ignoto che si è introdotto incasa con la forza, o che forse lei conosceva,e le ipotesi si affastellano aggiungendo oltreal dispiacere il trauma di sempre nuove sco-perte, ed egli impazzito dalla rabbia e daldolore, resosi conto repentinamente diquante furono le parole non dette, quellesemplici parole che avrebbero salvato unrapporto, e resosi conto in sovrappiù diquanto aspre, venefiche, sordide fossero leparole dette, normali insulti coniugali cuitutti, dopo 15 anni di amorevole matrimo-nio, siamo volenti o nolenti costretti, si fac-cia prendere dallo sconforto, da un im-mondo senso di colpa, quasi dostoevski-jano, e intendo il Dostoevskij di Ivan Ka-ramazov e non quello celestiale di Myskin,e chiami la polizia sbraitando “sono statoio”, per poi rinsavire nel momento in cui ilmaggior pondero si sia squagliato sulla suacoscienza, una coscienza non dico pulitama onesta, non pura ma tutto sommatolimpida, in cui dalla superficie, intorbiditaoggi solo dalle lacrime di questo pove-r’uomo, si possa vedere ogni asperità mi-nima del fondo, e rinsavendo si renda contodi essere sì peccatore, agli occhi del buonDio che tanto ci arrovella con la sua sem-plice esistenza, forse anche agli occhi delSanto Stato, ma per peccatucci minimi, ve-niali, come un parcheggio non pagato, undivieto di sosta, un limite di velocità nonrispettato, un pensiero impuro! signori unmicroscopico pensiero impuro!, peccatoresì ma mai, e dico mai, mai, mai assassino,e se anche la scientifica trovasse tracce nelcollo esile, spezzato, quasi tirato come dipollo, delle mani possenti del qui convenuto

di sua spontanea volontà Longari Roberto,mani simili anch’esse a una pressa elettricama non per ciò assassine, vi faccio notarel’errore logico, vi richiamo alla mente quelgigante buono della famosa pellicola ame-ricana Il Miglio Verde, di cui Roberto Lon-gari ha, se non le abilità lenitive e magiche,di cui comunque ci riserviamo di interrom-pere il giudizio in una epochè rispettosadella consapevolezza che, per quanta partenoi conosciamo del creato, tanta e piùparte ci sfugga, almeno, dicevo, di questogigante Roberto Longari ha l’occhio bo-vino e rorido di lacrime, di pentimento si-gnori?, o forse di profonda sofferenza neiconfronti del male ingiusto?, dello scandalodel male?, lo si vedrà agli occhi del Signoree del Giudice del Tribunale, un brav’uomo,ne sono certo, mani gigantesche ma cheforse, e dico forse, limitandomi a esprimereun’opinione, una legittima opinione, forsestrinsero ululando dal dolore l’esile collo giàspezzato dell’amata e berciante moglie, lodico comunque perché la conoscevo, va am-messo per dovere di cronaca, era una donnaestenuante, nella vana speranza che, tantopiù forte fosse la stretta dell’amato, tantopiù l’amata ripigliasse vita, colore, vigore,come col bacio tradizionale di un principe,mai nemmeno immaginato così gigante ebuono…».A questo punto Roberto Longari, saltatoaddosso all’avvocato, gli torse il collo conuno schiocco secco. Impotenti furono i po-liziotti che assistettero alla scena.

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Enzo Prudenzi

IL DESIDERIODI KATIA

Il desiderio di Katia di starsene qualche orada sola divenne un’esigenza che la facevasoffrire e nello stesso tempo sperare. «Seriesco a isolarmi da tutto e da tutti, almenoper un giorno, forse riordinerò le mie idee,e metterò a punto i miei programmi ri-prendendo lo slancio per affrontare un’al-tra tappa della mia vita». Questa ipotesiaveva finito per diventare una convinzione.Tra le scimmie che si agitavano e saltella-vano nella sua mente riuscì ad afferrarneuna per la coda e a trattenerla. Sapeva cheper fermare un pensiero occorre determina-zione e delicatezza, altrimenti ti rimane inmano la coda e la scimmia scappa via e nonsai se e quando ti ricapiterà a tiro.Così Katia decise di passare una giornatain città, fare acquisti, non pensare. Niente di più adatto per sentirsi sola, Katialo sapeva per esperienza, che tuffarsi inmezzo a una folla di sconosciuti; di genteche ti distrae dal pensare alle persone cheordinariamente costituiscono il tuo pros-simo; compresi i familiari e gli amici. In-tanto sono tutti schedati in un cassettodella memoria con relativi gusti.Katia scese dal treno munita di un carrelloper la spesa che le faceva compagnia comeun cane al guinzaglio. Attraversò la piazzaantistante e si tuffò nel dedalo di vie.

Si dedicò a guardare un po’ distrattamentele vetrine passando da un marciapiede al-l’altro.Appena imboccato il Corso, passando al-l’ombra di alti palazzi, immersa nella folla,Katia riuscì a concentrarsi sui suoi pro-blemi, tanto da rinviare gli acquisti allapasseggiata di ritorno, che si sarebbe con-clusa verso l’inizio del Corso stesso quando,col carrello appesantito dalle compere,avrebbe preso l’autobus per la Stazione.Già sapeva che il primo dei suoi problemi,in quella fase della vita, era il suo stato didonna nubile non più giovanissima. Il suocarattere indipendente e i suoi modi decisiavevano tenuto lontani i corteggiatori…era arrivata però ad un punto in cui dovevadecidere se affrontare la maturità da sola ocercarsi un compagno.Attorno a quel problema gravitavano, peruna legge universale, tutti gli altri pro-blemi.Risolto il primo, in un modo o nell’altro, glialtri avrebbero trovato il loro nuovo as-setto.Camminava sovrappensiero, ma il fatto ap-purato che la gente non la degnasse che dipoca attenzione, cominciava a darle più im-barazzo di quando, al suo paese, giovanedonna non bellissima, ma pur sempre gio-vane e donna, era radiografata da maschie femmine. Gli uni per verificare quantoKatia fosse ancora desiderabile, le altre pervalutarne l’abbigliamento, i capelli e, ciòche particolarmente le incuriosiva, l’espres-sione del volto.A un certo punto il programma mentaledel suo viaggio le parve poco felice e si sentìtroppo sola e con una gran voglia di ripar-

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tire. La scimmia che l’aveva illusa e l’avevatrascinata lì la sogguardava beffarda.Con senso pratico, Katia si riprogrammòper portare a termine rapidamente gli ac-quisti e tornare al paese per cercare la con-centrazione nella sua camera o nelle pas-seggiate in campagna.Scorse con la coda dell’occhio l’insegna diun ristorante in una traversa e s’accorse diavere fame.Il locale era colmo e il cameriere si scusò:«Siamo al completo, ma se ha la pazienzadi aspettare appena si libera un posto lafaccio accomodare… mi scusi comunque,mi sta chiamando un cliente… torno su-bito».Il cameriere ritornò poco dopo da Katia:«Quel signore col quale ho appena parlatoè seduto solo a un tavolo da due. La invitaad accomodarsi al suo tavolo… chiara-mente… è ovvio... se lei gradisce».«Va bene!» acconsentì la donna col pigliodi una che sa come fronteggiare tali situa-zioni.Lo sconosciuto attese in piedi che Katia se-desse e si presentò.Lei si presentò a sua volta e lo ringraziòdella cortesia.L’uomo riprese il suo pasto senza interes-sarsi alla commensale, se non sorridendoleappena quando i loro sguardi s’incrocia-vano.Katia mise all’opera tutte le sue antennefemminili e, senza darlo a vedere, anzi, fin-gendo di guardare altrove, ne scrutava ogniespressione del volto e ogni movimento delcorpo.Solo le donne riescono a osservare senzadarlo a vedere.

Era indubbiamente una bella persona!«Credo proprio che non mi sposerò mai»,rifletteva Katia, «se di fronte a un uomomolto bello e gentile non ho alcuna vogliadi attaccare discorso».L’uomo finì il suo pasto, tirò fuori unapenna a biro e scrisse poche parole su un to-vagliolino di carta; ripiegò il tovagliolino elo consegnò a Katia con un mezzo inchino,dicendo: «La prego di leggerlo quando saròuscito» e la salutò cordialmente.Katia, rimasta sola al tavolo, aprì il tova-gliolino sul quale c’era un numero di cellu-lare e le seguenti parole: «Lorenzo Viviani- 35 anni - ingegnere elettromeccanico -NON IMPEGNATO».Katia ripose il tovagliolino nella borsetta eil giorno dopo chiamò.

Scrivere breve, per concludere prima diannoiare.

•Si deve leggere solo per scoprire ciò cheva eternamente riletto.

•Solo da una lettura ininterrotta, ratifi-cata da una seconda lettura, può nascereun giudizio assennato su un libro.

•Un libro che non abbia Dio, o l’assenzadi Dio, come protagonista clandestino, èprivo d’interesse.

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Antonietta Puri

L’APPUNTAMENTO

Il mio cuore batteva forte. Sentivo il rombodel sangue nelle orecchie, mentre dai vetridella finestra, seminascosta dalla tenda,scrutavo il sentiero che attraverso un mor-bido pendio saliva verso casa, un cottage incima alla collina, circondato di abeti. Delviottolo vedevo solo l’ultimo tratto che per-correva una breve curva, mentre il resto eranascosto da un boschetto di querce che ave-vano da poco gettato le prime foglie di unverde tenero al posto delle vecchie, del co-lore della terra, che formavano ai piedi deitronchi un manto compatto bucherellatoqua e là dagli anemoni selvatici. Il silenzioregnava nell’aria sospesa.Ed ecco che lo vidi arrivare: guardai l’oro-logio che avevo al polso e vidi che erano lesei del pomeriggio. Prima ne scorsi la capi-gliatura scura, il volto esangue e la sciarpa,rossa come le labbra, che gli avvolgeva ilcollo, poi ne notai le spalle forti e il bustoappena un po’ piegato nella salita e infinemi apparve nella slanciata figura intera,delicata e salda. Si fermò, come esitandoper un attimo ed io mi ritrassi, per nonfarmi vedere e non dargli l’impressione chefossi in preda all’ansia e al timore che nonvenisse.Il sole era basso sull’orizzonte e una lievefoschia ingrigiva l’imminente crepuscolo.Accesi la lampada da tavolo nel soggiorno

che rischiarò la stanza di luce calda e ag-giustai con qualche tocco delle dita irtirami di biancospino selvatico raccolti dachissà chi e messi in un vaso trasparente,con un po’ d’acqua.Mi sentivo frastornata, quasi un pocoebbra e mi sforzavo di ricordare se e quandoavessi acquistato quella piccola casa e dachi semmai, oppure se qualcuno me l’avesseaffittata o imprestata per l’occasione. Sa-pevo solo che qui avevo l’appuntamentocon un uomo per un convegno amoroso, mai particolari si sfocavano nel tentativo dirammentare.Sentii bussare e, prima di aprire la porta,mi accertai che tutto fosse in ordine: daun’altra stanza si diffondeva un suono lan-guido e sensuale, morbido come velluto: erala voce di Sarah Vaughan che cantava unavecchia canzone d’amore “The Man ILove”. Una graziosa stube maiolicata blu subianco spandeva un grato tepore. Luibussò ancora: due brevi colpi alla porta.Andai ad aprire con un misto di commo-zione e titubanza.Me lo trovai di fronte, anzi mi trovai con-ficcato nel mio il suo sguardo e mi sentiimancare: lo riconobbi, pur non sapendo chifosse, né che nome avesse. Mi venne inmente, all’improvviso, la poesia di NazimHikmet e incominciai, prima di farlo en-trare, a recitarla sottovoce, quasi tra me…

“I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhiche tu venga all’ospedale o in prigionenei tuoi occhi porti sempre il sole.I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi questa fine di maggio, dalle parti d’Anta-lya, sono così, le spighe, di primo mattino;

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i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhiquante volte hanno pianto davanti a me son rimasti tutti nudi, i tuoi occhi, nudi e immensi come gli occhi di un bimboma non un giorno han perso il loro sole;i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi che s’illanguidiscano un poco, i tuoi occhi gioiosi, immensamente intelligenti, per-fetti:allora saprò far echeggiare il mondo del mio amore.I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhiCosì sono d’autunno i castagneti di Bursale foglie dopo la pioggiae in ogni stagione e ad ogni ora, Istanbul.I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhiverrà giorno, mia rosa, verrà giornoche gli uomini si guarderanno l’un l’altrofraternamentecon i tuoi occhi, amor mio,si guarderanno con i tuoi occhi.”

«Morirò, lo sai, per questo…» mi disse serioabbassando la testa, appena ebbi finito direcitare i versi di Hikmet. «Perché?» ri-sposi. «Tu mi hai evocato con le tue voglie,mi hai invocato con questa poesia…; mi haichiamato ed io sono corso da te dal luogoin cui sto. Ma lì la legge è implacabile: chiè reo di tradimento è condannato». Neldirmi questo, mi prese tra le braccia, misollevò i capelli con tutte e due le mani ecominciò a baciarmi sul collo, sulla gola,sugli occhi… Prima di lasciarmi andarecompletamente al suo gesto ardente, mi ri-scossi un attimo e lo respinsi con delica-tezza: «Io ti riconosco, eppure non so chisei. Ho ricevuto la tua telefonata, ed ho cre-duto che fossi quello che aspettavo, perquesto ho accettato l’appuntamento con

te…; ecco perché oggi sono in questa casache non mi appartiene, su questa collinadall’aria familiare e sconosciuta, librata inun silenzio così denso che si può toccare;sono certa che sei tu colui che aspettavo…ma chi sei? Da dove vieni? Sono così con-fusa…Devi dirmelo, ti prego!».Dammi un bicchiere d’acqua, per favore»,mi chiese sedendosi sul divanetto colorcuoio, appoggiando la testa alla spalliera,come se fosse esausto. Gli portai una ca-raffa di vetro piena d’acqua, ne riempii unbicchiere e glielo porsi. Mentre beveva conavidità, guardai i suoi occhi, scuri e pro-fondi, quelli che immaginavo quando leg-gevo la poesia di Hikmet, che cantava gliocchi di sua moglie; immaginavo quegliocchi sul volto di un uomo… e adesso eranoqui: gli occhi e l’uomo… impossibile! Dopo che ebbe bevuto, Lui sembrò ripren-dersi, si accomodò sul divano, accavallò lelunghe gambe, mi prese una mano e mi fecesedere accanto a sé, dicendo: «Il mio nomenon ha importanza, né importa il luogo dadove vengo; ti dico solo che non è lontano,anzi è a un soffio da qui, ma difficile da rag-giungere. Sei stata tu a darmi forma, e inun modo così potente che io non ho potutofare altro che imboccare il sentiero che miavrebbe portato da te; attratto dalla forzadel tuo…» esitò un momento «perdonami,insano desiderio, ho incominciato a volertianch’io, fino a forzare i divieti della legge,cosa complicata ma non impossibile, egiungere a te per appagare i tuoi desideri:ma questo avverrà una sola volta, perchésubito dopo morirò, non potrò più tornareindietro, né rimanere: ecco perché non im-porta come io mi chiami, né importa come

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ti chiami tu… Non aver paura… Tu vivraie io non avrò più un futuro, ma non me nerammarico: è mio compito amarti ed ètutto ciò che desidero, anche per una solavolta…».Così dicendo prese a baciarmi sulle labbrae mentre mi baciava con intensità, quasicon voracità, cominciava a spogliarmi e adaccarezzarmi i seni e i fianchi… Io eropresa in una vertigine nella quale stavo per-dendomi, quando, con la coda dell’occhiovidi attraverso i vetri della finestra che laluce non era diminuita di una virgola: eradella stessa intensità di prima che Lui en-trasse nella stanza. Guardai l’orologio:erano ancora le sei del pomeriggio. Lo di-scostai piano e mi ricomposi; mi alzai, miposi davanti allo specchio dell’ingresso,mentre Lui veniva lentamente verso di mee mi invocava tendendomi le braccia e chia-mandomi «Amore»: lo specchio non mi ri-mandava la mia immagine, né riflettevaquella di Lui: era come se fossimo traspa-renti, mentre tutto ciò che mi circondavavi appariva riflesso.Intuii che forse stavo sognando, o qualcosadel genere; eppure tutto, seppure in un’at-mosfera allucinata, sembrava concreto etangibile. Sentivo in bocca il sapore dei suoibaci e la mia pelle bruciava ancora delle suecarezze. Sogno o non sogno, mi dissi, nonvoglio che Lui muoia, perciò “devo” sve-gliarmi. Ma per quanto lo desiderassi, que-sto non bastava. Lui continuava a implo-rarmi con toni drammatici: «Ti pregoamore, prendimi e lasciati prendere... Nonfarmi soffrire. Ho percorso sentieri segretilunghi e scoscesi per venire da te…Amami,ti supplico, amami e fatti amare! Altro non

desidero…» e mentre formulava queste pa-role, quei suoi occhi già lucidi e un po’ in-fossati in orbite bluastre si riempivano dilacrime che tracimavano sulle guance pal-lide e sulle labbra di rubino. Lui se le asciu-gava lentamente con il dorso della manodestra, mentre con l’altra mi accarezzava ilviso…Fui presa da una pena, da una pena dispe-rata e folle e da una tenerezza tali che in-cominciai a piangere anch’io, a strapparmii capelli a ciocche, a graffiarmi il collo e ilpetto, a battere la testa nel muro…Mi svegliai, dolente e sudata nel primomattino, col viso bagnato di pianto; eropiena di graffi e di ematomi, ma giacevo ditraverso tra le lenzuola disordinate e spie-gazzate nel mio solito letto, a casa mia, im-pregnata del suo odore e intrisa delle sue la-crime. Stetti male per giorni e giorni pen-sando a quanto era successo poi, lenta-mente, la mia vita riprese i ritmi consueti.Ma ora, quando cammino per le strade,cerco sempre, tra i tanti, quello sguardo epiù volte, nel corso delle giornate e nellenotti insonni, mi trovo a recitare come unmantra. «I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoiocchi…»

Sono così numerosi i poeti che scrivonouna sola buona poesia che dobbiamoconsiderare queste poesie solitarie comeavventure di una poesia che si sbaglia dipoeta.

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Loretta Puri

“LA BOTTEGADE ‘R PORO RIZIERE”

Io regà, voe ‘n ce credarete, ma de notte,me sogno spesso de ritrovamme dentro a labottega der poro Riziere, me vedo cicinacor bijetto de la spesa su le mano, che peròvorrebbe comprà gnicosa, tranne quelloche c’è scritto sopra. Affascinata meguardo ‘ntorno, propio come quanno ce fa-cevo per davero e controllo si da le vorte,quarcosa è cambiato e si quarche lécchettonòvo è ‘rivato. Certo, l’entrata principale,era lì a le giardinette, che discorse… ma vo-lete mette la comodità e l’intrigamento chete suscitava a passà per vicoletto, da quellaporticina bassa do’ le nostre babbe ce zuc-cavono co’ la capoccia e ripercorre cosìtutta la “trionfale” per rimirà la robba sule scaffale? Allora, davante ar bancone nunce potevo sta’ perché ce se piazzavono ledonne cor portafojo sotto a le ciucciche eche in genere compravono: ‘n etto de mor-tatella, uno de parmiggiano, menza pettinade biccalà, du ette d’alicette, ‘m pacco decelentane o de regginette, ‘n tubbetto deconserva e du’ filone da ‘n chilo. Epperciòcon quelle gran cule avante, tale e quale ale mure de cinta paesane, che nun te face-vono fa’ manco capocèlla, io sparivo perbene e Riziere poretto me faceva sta manquer passetto stretto stretto de lato ar ban-cone e do’ dietro a le spalle, io c’evo ‘na

schiera d’Angele Custode… Ma mica parlode Serafine, Cherubbine e Trone… No, no!Parlo de Bucaneve, Oro Saiva, Ringo, GranTurchese, Frù Frù e Savoiarde! Quanto mesentivo protetta e coccolata attaccata alòro! Doppo certo, si me veniva bene co’ laspesa, me ce facevo mette pure ‘na pagnot-tina cor salame a grana fina o ‘n pezzo decioccolata ar tajo, che mentre le donne cefacevono le ciammellone a mucchetta, io de‘nguattone la pijavo a mozziche là pe’ le vi-cole. Anche ‘r pecoraro che je portava tuttele mattine la ricotta calla calla, me sognosempre, me pare ancora de sentije di“«Rizié mar culetto der pane mettemece popo’ de ricotta mia e quattro alice tue bat-tute dar sale!» E lo sciampo? Adesso ce so’‘ste bibbitone sciocche, tutte uguale de lesupermercate, capirae, vae a vedé ‘r pìaccaneutro? Io da Riziere compravo “Libbera eBella”! Era ‘na bottijetta piccola e biancaco’ dentro ‘n affare odoroso turchese tuttoconcentrato, che te metteva gola, per meera ‘r vero principe azzurro quello… cheappena te vedeva (stava appollaiato su ‘noscaffale de destra) parea dìtte: “compreme,che pòe te sgrasso io, addopreme, che pòete fò bella io!” ‘Nsomma regà, le botte-guzze de ‘na vorta erono ‘na vera e propiacuccagna e le bottegante erono sempre sor-ridente e gentile, sarà perché nun eronomarsacrate da le tasse come ogge e perchéerono propio più educate… Io m’aricordoche ‘r poro Riziere era ‘n gran simpatico,rideva sempre, o je comprave, o nun jecomprave, te voleva bene uguale. Comequella vorta che la mi sorella me fece ‘r bi-jetto e pòe se ‘nguattò… Io seria e a vocearta je lèsse: «Un chilo de budellone arro-

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tolato, mezz’etto de chiode de grammo-fano, du ette de muso pesto e si nun c’èpesto, fattolo pestà, capito Riziè? Casomaepestàtomolo voe!». E lue che pe’ rida po-retto ammomente se strozza… E io che‘ntignavo: « Sì! Ha detto la Mariassuntache m’ete da dà tutta ‘sta robba!» E lue checo le lacrime mall’occhie me diceva: “man-naggia a Santaappollonia ahahahahaha!!!Tiè o cì, pija ‘sto pacchetto de patatine evà a véde la tu sorella dietro a quella ma-china come ride ahahahaha!!!” ‘Nsommaregà, saranno l’anne che passono a fattevenì ‘ste nostargie, ma io a la sera, nunvedo l’ora d’annà a letto pe’ vedé si arìsogno quella cara botteguzza e si per casoè arrivato quarche nòvo lécchetto!

Andrea Ricci

DISTORSIONIARTISTICHE

Era l’ottobre del 1907, quando il giovaneAdolfo si trovava a Vienna, sede della pre-stigiosa Accademia delle Belle Arti, ilpunto di partenza per chi a quel tempo so-gnava di diventare pittore. Il giovane, or-fano di padre, era incoraggiato e sostenutoin tutto e per tutto dalla madre. Si sa, lemadri sanno fare tutto, anche il padrequando serve e lui non la deluse riuscendoad essere ammesso al primo tentativo inAccademia. Furono anni magnifici, ricchidi quadri, sketch di architettura, incontri ediscussioni.«Dalla mattina presto fino alla notte iocorrevo da un museo all’altro - scriveva allamadre - Ma erano quasi sempre i palazziche mi attiravano a tutta prima. Ero ca-pace di passare delle ore davanti all’Operao davanti al Parlamento…»Adolfo era un pittore magnifico, riusciva atirare fuori la bellezza da tutto quello chelo circondava, era da molto che non si ve-deva un talento del genere in tutta la capi-tale austriaca. Non la smetteva mai di di-segnare. Era sicuro che la bellezza avrebbesalvato il mondo, anche di fronte aglieventi più terribili che possono sconvolgerela vita. Qualche anno dopo, infatti, lamadre venne a mancare e il giovane pittoreriusciva solamente a ripetere a sé stesso

Ci sono individui che trattano l’universocon sufficienza professorale.

•Ciò che importa non è la sordida penom-bra organica da cui l’idea scaturisce, mala sua dura punta di diamante.

•Ciò che non è complicato è falso.

•Colto è l’uomo che non trasforma la cul-tura in professione.

•Di fronte a un pensiero ostile, il pensieroreazionario non si irrigidisce in un rifiutoindignato. Anzi, cerca di assimilarlo, sa-pendosi capace di nutrirsi di succhi vele-nosi.

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«Nein! Nein!». Ma nulla lo fece crollare. Lasua vita d’artista lo portò spesso ad affo-gare i suoi pensieri nelle bisbocce con gliamici austriaci e non solo. Era così inseritonel contesto studentesco, che amava me-scolarsi con tutte le razze. Gli capitavaspesso di trovarsi seduto nelle osterie a par-lare non solo di arte, ma anche dei problemiche attanagliavamo il mondo e come po-terli affrontate.Era il 1914 e l’anno del diploma coincisedrammaticamente con lo scoppio di ungrande conflitto europeo segnando la finedi un lungo periodo di pace e sviluppo eco-nomico della storia europea, noto comeBelle Époque. Tutto il mondo studentescosi oppose al conflitto. Manifestazioni, cor-tei, dibattiti con a capo Adolfo imperver-sarono dalla Prussia all’Impero austro-un-garico, al grido di “Fermate la guerra, labellezza ci salverà!”. Ormai non era piùsemplicemente Adolfo, era diventato Fü-hrer (condottiero), che marciava incuranteverso i pugnali e le baionette brandendo unpennello e mostrando il suo segno distin-tivo: due piccoli e stretti baffi che spunta-vano da sotto il naso.Ma la guerra non cessava, anzi, si allargò amacchia d’olio, inglobando gran parte delmondo.Durò quattro lunghissimi anni. Anni in cuiAdolfo, a capo dei suoi compagni, cercò disabotare le varie azione di guerra, sosti-tuendo alla polvere da sparo inchiostro percolorare e organizzando festival di arte persmuovere le coscienze, ai quali partecipa-vano pian piano sempre più persone, senzamai interrompere la sua vena artistica.Fondò il primo partito di “artisti dissi-

denti” chiamato Mein Kampf con sede aMonaco, nel quale tutti erano ben accetti,bastava essere dotati di volontà e amoreper la pace. Fu un successo inarrestabileche non lasciò indifferente nemmeno la lon-tana America, la quale nell’ultima partedella guerra contattò il giovane Führer percreare una contrapposizione artistica alloscopo di fermare definitivamente il massa-cro mondiale.Era il novembre del 1918, quando i blocchisancirono la definitiva pace, per la quale sifece garante l’America da una parte e ilnuovo partito dei giovani “artisti dissi-denti” dall’altra.Da quella data ai giorni d’oggi è storia.Adolfo divenne primo professore dell’Acca-demia delle Belle Arti, il mondo non vennepiù intaccato da nessuna guerra e la bel-lezza salvò veramente il mondo diventandogarante della pace.Dopo aver letto il tema, la maestra posò gliocchiali sulla cattedra, fece un piccolo re-spiro e alzò gli occhi cercando con losguardo l’alunno.«Marco, complimenti per la fantasia. Non di-scuto lo stile o gli eventuali errori ortograficidi cui parleremo, ma non ti sembra che la tuastoria sia del tutto falsa? Devo dedurre chelei non ha, nuovamente, studiato!».Il giovane alunno imbarazzato, rimase conlo sguardo fisso verso la maestra, non sa-pendo cosa rispondere. Poi prese coraggio.«Maestra, il libro era troppo grande da stu-diare ed io preferisco dipingere. Mi sono ba-sato su quello che mi ha sempre raccontatola nonna e poi la mamma. Papà non l’homai conosciuto così come mio nonno ed iomi fido solo di loro».

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Benissimo, vorrà dire che ti beccherai l’en-nesima nota, tu continua pure a dipingere.“L’alunno Mussolini Marco, malgrado icontinui avvertimenti, continua a raccontarela storia come gli pare a lui!”.

Laura Sega

LA NOTTEDI SAN CLEMENTE

Landa rimaneva incinta ad ogni breve li-cenza che strappava Mario alla guerra.Il giovane, coriaceo e nerboruto, era un“ragazzo del ’99” e un’impietosa sortestava sottraendogli la giovinezza.Il fisico appariva robusto ma tradiva l’an-datura delle compassate fatiche e i linea-menti crudi, consacrati al volto come ves-sillo di precoce maturità, si mescolavano alsalnitro trasudante dai muri bui della pic-cola casa color pomice ricavata nella pietra,dove dimorava con Landa e i tre pargolettile cui altezze non raggiungevano il metro.Le vite umide e silenziose si narravano e sitramandavano raccolte nel vortice ripeti-tivo della danza ancestrale delle albe e deitramonti, tra puzzolenti barche fradice,grigie corde gonfie d’acqua e remi scoloritiimpigliati nella melma grovigliosa dellariva solitaria e desolata.E risalivano, gli odori, rampicando dal

fondo del letto cangiante del lago blu e pe-netravano potenti fin dentro le narici vio-lacee, che il freddo di novembre cristalliz-zava fulmineo ed eterno nei polmoni enell’anima.Una tempra antica possedeva le membra,testimoni del tempo e della storia scavatarovente nella carne. Ed era così che i voltidella gente, distesi nella verde prateriadella dignità, sublimavano la durezza e l’in-tensità dei profondi tratti.S’offriva malinconico e spietato quel pae-sino di lago che gli echi sguaiati di donnepesanti asciugavano cantando, quando leschiene curve e i grossi polsi profanavano illavatoio di pietra muffa dipingendo nellamemoria delle sue crepe le sembianze delsacrificio umano.Landa e le altre donne scandivano le pro-prie esistenze tra faticosi mestieri domesticied impreviste e logoranti gravidanze attra-verso cui si immolavano a un Cristo cheavrebbero invocato per sempre affinchél’eucarestia purificasse le loro sempliciumanità nell’espiazione della colpa di nonaver saputo e potuto desiderare di più.Il prezzo della redenzione aveva il volto dinuove bocche da sfamare e rituali esotericicui affidare il destino.Impacchi e miscugli accompagnavano lemartellanti preghiere pagane mentre i cro-cifissi sanguinavano d’ingenuità e di spe-ranze affogate nel mare sortilego di miste-riose stregonerie disperse nelle macabre su-perstizioni di spregiudicate vecchie mam-mane.Mario, come anche le altre tre volte, era alfronte quando Landa partoriva il piccoloGiorgetto. La notizia gli arrivò avvolta in

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una furtiva lettera corsiva scritta con ele-gante stile antico e brillante inchiostro blu.Landa l’aveva pagata una lira al figlio delfattore.L’inverno ormai profondamente immersonelle gelide acque dolci lacustri restituivalunghi spasmi e ossessivi brividi che dallebraccia raggiungevano il petto.Le mani delle donne, rigonfie e paonazze,tenevano giunte le estremità frastagliatedelle ampie mantelle a frange larghe di lanafitta accoppiata e lavorata al dritto che av-volgevano più d’una volta intorno allespalle ricurve, paladine colonne del bustorichiuso nella timida illusione d’un caldoabbraccio.Quella sera nevicò, quando le donne con in-sistenza stregonesca convinsero Landa a se-guirle alla messa vespertina per la vigiliadella festa di San Clemente.Landa avvertì uno strappo antico e fatalealla propria volontà che, tuttavia, fu sotto-messa alla malvagità delle convenzioni ealla violenza fonda e arcaica della ritualità.Il vento proveniente da nord, messaggerodi oscuri presagi, si trasformò in milionid’aghi pungenti. Le chiazze bianche e rossesul viso di Landa si fecero innocenti concu-bine di un’insana tentazione espiatoria chela sedussero e l’abbandonarono alla litur-gica e funesta ipnosi collettiva. Strinse a séGiorgetto dentro alla copertina azzurrainamidata in un delicato merletto biancoche aveva ricamato al tombolo e s’incam-minò. La via sterrata che dal lago risalivaverso il monte si faceva man mano più im-pervia e minacciosa sotto le scarpe di lanacotta e feltro scuro. Il freddo tagliato e tra-fitto con precisione cristallina nelle vene di-

segnava con macabra disinvoltura la coreo-grafia diabolica di quel viaggio mentreLanda non si rendeva conto che Giorgettoera già febbricitante. Durante la notte ilpiccolo si aggravò rapidamente. La polmo-nite s’impossessò del suo debole respiro estrappò le grida disperate di Landa al silen-zio lasciandola nella lacerazione più feroceed in un inconsolabile martirio.Mario, nell’eccezionalità dell’evento dellanascita del figlioletto, era riuscito, nel frat-tempo, ad ottenere un piccolo permessospeciale dal comandante di brigata.Sperò che le rotaie sotto le nuvole di vaporebianco dell’accelerato 1015 lo conducesserolontano dalle armi, ma non l’abbandona-rono i rumori e gli umori del campo e deicannoni. L’udito ormai corrotto rimandavaossessivo l’eco ovattata dei dolori che lavista proiettava nelle immagini abbagliantied improvvise ferendogli gli occhi in fugaad ogni battito di ciglia.Ad accoglierlo furono le donne intorno aLanda che non gli diedero modo di fare do-mande sul piccolo e, con perentorietà con-solatoria e arcigna, fermi occhi bassi e fa-talista crudeltà lo anticiparono: “Giorgettoè morto, è stata una stregoneria”, dissero.Landa, sfinita sulla poltrona di paglia, pie-trificata nel dolore ed accasciata senzaforza sulla sua vesta nera a lutto, senza sol-levare il pavimento dalla pesantezza delsuo stesso marmoreo sguardo assente sibilòcon definitiva rassegnazione: «La stregasono io».

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Angelo Spanetta

IL CIABATTINODELLA CAVAE LE SCARPE

CHE SCRICCHIOLANO

Ed eccoci giunti a un nuovo appuntamentosicuramente particolare e diverso: il primosenza la supervisione del nostro amato PierLuigi. Allora mi sono detto: voglio offrire,oltre alla solita ricetta, un piccolo aneddotoorvietano accaduto intorno agli anni Qua-ranta Cinquanta, che riguarda il cibo e so-prattutto la fame che c’era alloraEcco il racconto.Via della Cava, nel quartiere vecchio dellacittà, un tempo era famosa per le numerosebotteghe di artigiani. Fra queste, le piùnote erano quelle dei ciabattini, per esserequesti estremamente furbi e scaltri negli af-fari.Un giorno capitò dal nostro ciabattino unpovero cristo che aveva fatto qualche lirafacendo il mediatore nella vendita del be-stiame e che amava ostentare questo suorelativo benessere.Aveva deciso di farsi fare un bel paio discarpe nuove su misura, da poter sfoggiare,e disse al ciabattino che non avrebbe ba-dato a spese purché le scarpe avessero scric-chiolato a dimostrazione del fatto che fos-sero proprio nuove di zecca.Il ciabattino inquadrò immediatamente il

soggetto e quello che avrebbe potuto rica-varne, così gli disse: «Caro signore, farscricchiolare le scarpe è molto difficile e co-stoso perché bisogna inserire nel tacco le li-sche delle acciughe, in modo che quandocammina queste, sfregando l’una control’altra, producano lo scricchiolio. Certo èche tra circa un anno tocca cambialle!»«Nessun problema; mi dica solo cosa devofare», rispose l’ignaro.«Deve andare al mercato e comprare mezzochilo di acciughe sotto sale; belle grosse miraccomando, ché più sono grosse e più ru-more fanno».Quello, tutto contento, partì di gran car-riera per tornare poco dopo col cartocciodelle acciughe. «Bene. Torni tra una setti-mana che troverà pronte le sue belle scarpenuove, luccicanti e scricchiolanti», lo con-gedò il ciabattino, pensando: «Poverogrullo, non lo sa che ci penserà il cuoionuovo del suo a scricchiolare! Io mi faròuna bella scorpacciata alla faccia sua».

CONIGLIO STUFATOCON SALSA DI CAPPERI,

ACCIUGHE E ACETO

Ingredienti:1 conigliooliosalepeperoncinoagliocapperi4/5 filetti di acciugherosmarino1/5 bicchiere di vino biancoaceto di vino buono

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Esecuzione:Tagliare il coniglio in pezzi non troppograndi e porlo in un tegame possibilmentedi terracotta con: olio, aglio, rosmarino, pe-peroncino, capperi q.b. e 4/5 filetti di acciu-ghe sottosale; lasciar rosolare bene la carnee poi aggiungere una spruzzata di vinobianco e lasciar sfumare; continuare in que-sto modo fino a quando il coniglio non saràquasi completamente cotto; poco prima ditoglierlo dal fuoco sfumare con dell’acetodi vino bianco molto buono.Servire ben caldo nel coccio stesso.E per concludere:Sposa qualcuno che sappia cucinare.L’amore passa, la fame no. (Anonimo)

Tiziana Tafani

ULISSE

1. City. Camminavo sola in una cittàsporca. Cumuli di macerie all’angolo diogni strada e uno sfiancante silenzio che tifaceva immaginare le stanze più remote diun’eternità simile all’inferno, di un infernodi sola solitudine. Le persone, o quel che diloro restava, e resta, si muovevano comeombre disarticolate, uno sciame attonitodisimparato a parlare, erravano ognigiorno al ritmo di suoni meccanici.Nelle informazioni che ogni giorno mi bom-bardavano, nella luce artificiale di quelposto dove lavoro di giorno e di notte, tantoè sempre uguale, ho scoperto che l’umanitàparlava. Che non si limitava ad annuire olasciare al vuoto del proprio sguardo l’in-terpretazione di una risposta. Ho scopertoche gli uomini si abbracciavano, una cosache adesso tutti considerano ripugnante.Non sono mai stata abituata al contatto el’idea che qualcuno potesse anche solo sfio-rarmi mi provocava una nausea prodigiosa,un senso di impotenza terrificante.Io mi chiamo Victoria, ho trenta anni, enon mi sono mai innamorata, di quel-l’amore che ogni tanto sfugge al rantolodelle macchine che ci collegano allo spazio,da dove ci arrivano i comandi.Siamo rimasti in pochi, qui sul pianeta,quelli che comandano se ne sono andati datanto tempo, dicono. Quelli che coman-

Dopo aver definito l’uomo dobbiamo im-mediatamente modificare la nostra defi-nizione, perché la coscienza di tale defi-nizione lo trasforma.

•Due tesi filosofiche contrarie si comple-tano a vicenda, ma Dio solo sa come.

•È facile convertirsi a una teoria ascol-tando il difensore della teoria contraria.

•Gli esempi concreti sono i carnefici delleidee astratte.

•I conflitti interiori rompono la crosta diindifferenza che l’anima oppone alle ve-rità che l’assediano.

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dano noi non li vediamo mai, a volte vorreipensare che non esistano, tanto per sen-tirmi meno sola. E invece ogni giorno mitrovo incastrata nella solitudine dei prigio-nieri.

2. Bianco. Camminavo come ogni giornovestita ostinatamente di bianco. Sono anniche mi vesto di questo colore, perché passoancora più inosservata. Scivolo fuori daogni anfratto e mi posso nascondere in mestessa. In un mondo sempre illuminatol’unica cosa che non vedi è il bianco. L’hoscelto apposta, come uno scudo, una difesa,un inganno a chi crede di poter capire chisono, o dove sono.Non lo avevo mai visto prima di quelgiorno, ma da quel giorno non ho potutopiù dimenticarlo.Camminavo da sola in una città sporca. Miè comparso davanti all’improvviso, nonavevo calcolato con esattezza il tempo chemi separava dall’incontro con il suo corpo.Poi è successo che mi ha toccato. Me lo sonosentito venire contro con una forza scono-sciuta, non mi ha neanche guardata, nes-suno guarda mai nessuno, nemmeno lui.Deve avermi non visto, ne sono sicura. Hacontinuato a camminare con la testa vuotadi me, ed io ero già talmente piena di luiche ho sentito qualcosa che mi scoppiavain mezzo al petto, e non sapevo che nomedargli, a questa cosa.Mi aveva toccato, l’errore di quello spazio,il calcolo sbagliato che per un istante avevaunito i nostri corpi mi aveva lasciata piùmorta che viva. Avevo percepito il caloreche emanava da lui, quello strano mistero,era così diverso da tutti noi. Sembrava ca-pire i suoni, sembrava così davvero diverso

da tutti noi. Poi ci ho pensato e ho messoinsieme le parole: era un uomo antico.

3. L’attesa. Da quel giorno, ho incominciatoad aspettarlo. Aspettavo che il tempo miportasse da lui. Lui passava ogni giorno,con quella sensazione di pensiero che si por-tava appresso. Non credo mi abbia mai no-tata. Non avrei del resto saputo a chi chie-dere. Nessuno sembrava conoscerlo.Poi ho cominciato a seguirlo, perché soloaspettarlo era poco. Era poco per la miasete. Cercavo il contatto di quel corpo perripetere all’infinito la sostanza della sua as-senza. Ho cominciato a seguirlo, nella cu-pezza dell’ombra che lasciava e che mi se-parava da lui. Non lo conosceva nessuno,nessuno sapeva il suo nome. Nessuno.Con il tempo delle mie attese ho potuto sco-prire che scivolava da un edificio all’altroportandosi dietro un peso che gli era sgra-devole. Un peso fisico che gli dava pensiero,che lo rendeva cupo, che gli appannava i li-neamenti. Ho scoperto che quel peso avevaun nome, si chiamavano libri.Lui li portava con sé, mi hanno spiegato cheera il suo lavoro. Ho smesso di cercarloquando ho decodificato che la mia deflagra-zione semplicemente si chiamava dolore.Io non avevo paura di lui. Avevo paura disoffrire perché non ero abituata a quei sen-timenti, ho smesso di amarlo quel giorno,quel giorno che ho capito di amare unuomo, per cui non ero Nessuno.

4. Io, Ulisse. Cercano di capire chi sono edio non voglio ricordarmi che sono vivo.Mentre tutti dicono che sono morto. Saperecome sono morto. Non sono mai morto. Dime hanno scritto che, dopo il ritorno a

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Itaca, ho aspettato che la vecchiaia mi sfi-nisse. Che l’inquietudine abbia avuto il so-pravvento, ed io sia tornato a cercare l’in-ferno alle Colonne d’Ercole io che dall’In-ferno ero tornato vivo, per trovare la forzadi andarci a morire. Che la crudeltà controil mio stesso sangue mi abbia infine scon-fitto e Telegono, il figlio mio e di Circe, miabbia ucciso con la stessa misteriosa natu-ralezza con cui io avevo ucciso ogni giornolui, ignorandolo.Che Poseidone mi abbia concesso di cercareun popolo al mondo che non conoscesse ilmare e la sua potenza e in quella terra,dopo avere piantato il remo della mia vitacombattuta per mare, io abbia potuto fi-nalmente incontrare la morte.Ma niente di tutto questo è vero. Io sonovivo. Sono vivo per volere degli dei che mihanno, per indifferenza e non per puni-zione, concesso quanto chiedevo, non mo-rire mai. Ho attraversato i mari poi i con-tinenti poi i cieli. Ho conosciuto tutte leguerre. Ho vissuto tutti gli amori. Ho sep-pellito tutti gli amori. E lì ho capito che lacondanna non è morire, ma sopravvivere.Sono tornato indietro, ho ripercorso mestesso al contrario. Ci sono entrato dentro,dentro agli uomini fino a raggiungerequello che non ero stato in grado di com-prendere, l’eroismo quotidiano dei vinti, lafaccia trasparente della verità, la poesia chec’è in ogni sconfitta.Ho capito che ogni amore ti sbrana e ti la-scia senza forze fin quando non ne incontriun altro e ricominci daccapo, immemore dite stesso, come se camminassi con la tuaanima su uno specchio che non sei tu ma èsolo quello che di te tu vedi.

È quel pezzo che vedi, l’eroe in ogni uomo.Ma poi anche tutto questo mi ha logorato,stare per l’eternità dentro me stesso senzapossibilità di fuga perché sono io stesso, perme, vita e morte, libertà e galera. Perchénon so più che farmene di niente e nessunosa più che farsene di me. Mi sono fermato,immobile, immobile.E adesso sto qui, sempre con lo stessonome, che nessuno è più capace di ricor-dare.È il 3012, l’autunno ci piove una pioggiaantica. Mi pagano per leggere libri fatti dicarta.

Mario Tiberi

VIVERE: UN TRANSITOTRA PASSATOE FUTURO

NON ESISTENDOIL PRESENTE

Trascorrono rapidamente i giorni e sembrache non lascino traccia o, almeno, queltratto di rilievo che meriti di essere ripor-tato nelle parole e nei segni della Vita.Guardare indietro spesso è mortificantetinto, com’è, di nostalgie e rimpianti. L’oc-chio rivolto in avanti rischia di ritrarsismarrito e turbato.

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Il passato è sempre una tentazione, soprat-tutto se rispondono a verità le risultanzedei cosiddetti analisti della memoria. Traquesti, interessanti e degne di nota le tesirecentissime di Oliver Sacks: “Ricordare -afferma il nominato- non è la semplice ec-citazione di circuiti neuronali o riportare invita tracce e frammenti di eventi accaduti.È invece una ricostruzione dell’immagina-zione, una ricostruzione tra il nostro atteg-giamento attuale e le reazioni e le espe-rienze di ciò che fu”.Correnti filosofiche anche disomogenee, aproposito della differenza tra rimembranzae ricordo, hanno più volte affermato chequest’ultimo è un atto immediato che for-nisce un aiuto subitaneo nelle alterne sortidelle vicende umane, mentre la rimem-branza è un’arte poiché scaturisce dopoaver riflettuto, spesso e a lungo, sul conte-nuto del ricordo. Non a caso lo stesso Leo-pardi dà il nome di ricordanze agli echidella sua vita in Recanati, quasi a voler ce-lebrare una frammistione tra ricordo e ri-membranza.Il futuro, incerto e imprevedibile il più dellevolte, è paragonabile a un sogno che apparecome realtà ma, in verità, non lo è. E nonlo è perché è frutto di suggestioni ed anchedi vaneggiamenti dell’animo umano.Giova, dunque, restare avviluppati in taligrovigli che velano la realtà con il sogno?Ciascuno o ciascuna potrà offrire la sua ri-sposta solo allorquando acquisirà la pienaconsapevolezza che, di fatto, il presentenon esiste in quanto non è altro se nonquell’attimo infinitesimale tra la memoriadel già trascorso e il sogno-aspettativa delpoi a venire.

Nadia Tiezzi

ORFEO

«Buongiorno è venuto Orfeo?»«Oggi l’avete visto Orfeo?»«Ieri c’era Orfeo?»È una settimana che al bar si fanno le stessedomande e la risposta è sempre la stessa.«No!»Tre mesi fa, una mattina di fine estate ècomparso Orfeo.A quell’ora al bar ci sono i soliti clienti,ormai so quello che prendono: caffè, cap-puccino, decaffeinato, cornetto. Soliticlienti, soliti discorsi, più o meno banali,più o meno interessanti. Ero intenta a ca-pire se il cornetto che voleva Barbara fossefarcito di marmellata o miele quando unavoce profonda, calda ha detto «Buon-giorno, un cappuccino scuro e ben caldograzie».Non era la solita voce: ho alzato la testa eho visto lui.Capelli grigi, barba più scura dei capelli,jeans e maglietta nera, un leggero giub-botto di nylon anch’esso nero, uno zaino atracolla, un sorriso appena accennato, enig-matico. Ma quello che più mi ha colpitosono stati i suoi occhi, vivaci, curiosi conuna vena di malinconia, lo sguardo di chiha vissuto tante esperienze, di chi ha attra-versato la vita non tirandosi mai in di-sparte, di chi ha perso una cosa importantee sa di non poterla più ritrovare.

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«Prego, il suo cappuccino».Evito sempre di fare domande a chi non co-nosco; credo che ognuno di noi abbia il di-ritto di tenersi dentro i propri fantasmi, ipropri segreti. Mi infastidiscono le personepetulanti che vogliono sapere tutto di tutti,che insistono nel fare domande nel mo-mento in cui non sei più addormentato maneanche troppo sveglio e spesso le risposteche ottengono vengono interpretate in ma-niera errata o addirittura travisate.Quindi, come mi diceva sempre la nonna,non fare agli altri quello che non vuoivenga fatto a te. In questo caso domande.Ha bevuto il suo cappuccino, ha pagato, hasalutato abbozzando un sorriso ed è uscito.Per i successivi venti minuti al bar non si èparlato che di quel personaggio: ognunoformulava ipotesi, dubbi o verità asso-lute… c’è sempre chi crede di sapere piùdegli altri. La cosa che più incuriosiva è che non fosse ar-rivato con una macchina. Nessuno lo avevavisto in paese e nemmeno in quelli vicini.La nostra è una piccola comunità, ci si co-nosce tutti, il bar è ancora un punto di ri-trovo per tutte le età.Un forestiero arrivato a piedi senza autochissà da dove ha portato scompiglio in unamattina di bar quotidiano.La mattina dopo l’argomento era già obso-leto quando, puntuale alle sette: «Buon-giorno un cappuccino scuro e ben caldograzie».Era lì in piedi al bancone, vestito come ilgiorno prima, sembrava che il tempo sifosse fermato a ieri. È ritornato poi tutte lemattine per molto tempo.Un giorno un cliente di quelli più curiosi gli

ha chiesto come si chiamasse e cosa facessequi. Mi chiamo Orfeo, ha detto, ma non harisposto alla seconda domanda sicchéquando è uscito si è aperto un vero e pro-prio dibattito sul suo nome: Orfeo è unnome che non esiste, te l’ha detto così tantoper dire, secondo voi uno si può chiamareOrfeo? certo, perché no, è un nome desueto,ma è pur sempre un nome.Secondo me è un confinato, chissà che avràfatto? dài potrebbe essere un antiterroristache indaga in incognito sugli extracomuni-tari.Quello che sa sempre tutto ha sentenziato:«Ve lo dico io chi è… è un prete spretatoche ha l’amante qui».Io non potevo più ascoltare certe illazioni edho chiuso l’argomento «Potrebbe anche es-sere un uomo che vuol girare il mondo, no?».

Ormai era diventato una presenza costantenel nostro paese: era quello delle sette cheprendeva il cappuccino scuro e ben caldo equindi l’argomento era passato nell’indif-ferenza generale, era uno dei soliti, eraOrfeo, punto.Mi era simpatico Orfeo, distante forse, masimpatico, spezzava la solita routine, tuttele domande che avrei voluto fargli mi mo-rivano in gola. Dopo dieci giorni anche ioero curiosissima, cercavo di fare l’indiffe-rente ma avevo una gran voglia di sapere.La cosa che a me sembrava più strana eradi come si materializzava alla stessa ora esparisse poi nel nulla.Sin da bambina sono abituata ad inventarestorie, mi servono ad addormentarmiquando sono molto stanca; c’è chi conta lepecore e chi inventa storie. Mi aiutanoquando pulisco casa, quando ho quei mo-

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menti noiosi, non importa quanti anni ho,non ho mai considerato l’età un ostacoloalla fantasia.Avevo deciso che Orfeo potrebbe esserestato un poeta o un fotografo o un pittore:lo immaginavo aprire il suo zaino e tirarefuori di volta in volta la macchina fotogra-fica, cercare la luce migliore per fotografareuno scorcio o pennelli e colori per dipingereun fiore; pensavo a lui come l’artista deiparticolari, mai dell’intero.Spesso lo immaginavo con la penna inmano, un foglio di carta a scrivere versi da-vanti a un tramonto.Questo era per me l’uomo del «cappuccinoscuro e ben caldo grazie».La mattina aspettavo il momento in cui sa-rebbe entrato per poter programmare lasua giornata e le sue passioni; in realtà pro-iettavo su di lui quello che in quel momentoavrei voluto fare. Era come un fogliobianco e non conoscendo la sua storia avreipotuto scriverla io.

La mia vita statica dietro un bancone delbar a fare caffè improvvisamente era im-mersa in un mondo di colori, i colori deiprati, del cielo, delle nuvole.È ormai una settimana che Orfeo non vienepiù alle sette a prendere il suo «Cappuccinoscuro e ben caldo grazie».L’ho aspettato invano tutti i giorni.Ma Orfeo non è più tornato, se ne è andatoin punta di piedi così come era arrivato. Pertre mesi è stato il protagonista dei nostri di-scorsi, con la sua presenza ha riempito unapiccola parte delle nostre giornate, a me haregalato un po’ d’aria fresca, ho respirato iprofumi delle giornate di fine estatequando mi prende la nostalgia del chiassovacanziero e irriverente, dei ragazzi abbrac-ciati e profumati di doccia a tutte le ore, diquel gioioso caos estivo che riesci a perce-pire se stai dietro un bancone di un piccolobar di un piccolo paese di una piccola re-gione dove non c’è il mare.

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INDICE1 Silvano Balestro: ABBIAMO GIÀ PERSOTANTO, MA C’È ANCORA SPERANZA

3 Mirko Belliscioni: SUDHA

3 Laura Bellocchi: CAMBIO DI STAGIONE

4 Marianna Bosco: NEL TEMPO E NELLO SPAZIO (DON’T FORGET TO SMILE)

8 Laura Calderini: 2 MICROSTORIE A SPECCHIO DA 100 PAROLE CIASCUNA.SORPRESA “AL CAFFÈ”

9 Fausto Cerulli: MI STAVO, QUASI STANCO DI ME

9 Maria Virginia Cinti: ABITAVAMO I BOSCHI

10 Dante Freddi: INNAMORAMENTO

14 Igino Garbini: COSCIENZE LASSE

17 Andrea Laprovitera: LA NOTTE DI SAN LORENZO

18 Gianni Marchesini: TANTO VENTO

20 Maria Beatrice Mazzoni: NACHT UNDNEBEL, NIEMAND GLEICH...

23 Giulia Parrano: FOOTING

24 Luca Pedichini: LA STORIA DI FEBBRAIO

26 Giovanni Peparello: SILENZIO

28 Enzo Prudenzi: IL DESIDERIO DI KATIA

30 Antonietta Puri: L’APPUNTAMENTO

33 Loretta Puri: “LA BOTTEGA DE ‘R PORO RIZIERE”

34 Andrea Ricci: DISTORSIONI ARTISTICHE

36 Laura Sega: LA NOTTE DI SAN CLEMENTE

38 Angelo Spanetta: IL CIABATTINO DELLACAVA E LE SCARPE CHE SCRICCHIOLANO

CONIGLIO STUFATO CON SALSA DI CAPPERI, ACCIUGHE E ACETO

39 Tiziana Tafani: ULISSE

41 Mario Tiberi: VIVERE: UN TRANSITO TRAPASSATO E FUTURO NON ESISTENDO ILPRESENTE

42 Nadia Tiezzi: ORFEO

Associazione CulturalePier Luigi Leoni

presenta una iniziativaeditoriale senza scopo di lucroispirata alla celebre rivista di

Pitigrilli

Grandi Firme della Tusciaè stata fondata daPier Luigi Leoni

Impaginazione e Stampa:Controstampa srl - Acquapendente

Aprile 2019

RedazioneAssociazione Pier Luigi Leoni

Progetto graficoPier Luigi Leoni

FB associazione pierluigileoni

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Questa pubblicazione è stata curata finoal numero otto da Letteralbar, circolo di

Orvieto che realizza iniziative culturali, inparticolare promuove la lettura e la scritturasia di testi letterari che di saggi di storia lo-cale e di cultura generale. Letteralbar ha af-fidato all’Associazione Pier Luigi Leoni la re-sponsabilità di Grandi Firme, immaginata ecreata dal nostro amico.L’ASSOCIAZIONE PIER LUIGI LEONI è statacostituita a ottobre del 2018 per tenere vivala memoria di Leoni e continuare la sua operadi promozione culturale. Lo spirito della pub-blicazione, le finalità, le persone impegnatesono le medesime. I soci, consapevoli dell’ap-partenenza storica dell’area orvietana allaTuscia, ambiscono, con questa rivista, a coin-volgere i Tusci dell’Umbria, del Lazio e dellaToscana in una operazione squisitamente edesclusivamente letteraria. L’assenza di ogniscopo di lucro garantisce che l’interesse per-seguito è soltanto la soddisfazione del piaceredi scrivere, di leggere e di essere letti. Il rife-rimento alla celebre rivista di Pitigrilli, che,dal 1924 al 1938, lanciò molti grandi scrittoriitaliani, vuole semplicemente sottolineare iltono delle composizioni pubblicate che, anchequando hanno contenuti drammatici o cultu-rali, nascono come divertimento degli autori.La rinuncia programmatica all’attualità de-termina la aperiodicità della rivista. Essa esceogni volta che è pronta, vale a dire ogni voltache un numero adeguato di autori s’incontracon le disponibilità di tempo e di mezzi finan-ziari del circolo.Gli autori non percepiscono compensi, se nondue copie della rivista, e conservano la pro-prietà dei diritti d’autore. Le spese di stampae di promozione sono coperte con contributi diestimatori. I redattori si ripagano esclusiva-mente con la soddisfazione di vedere la rivistaletta e apprezzata da qualcuno. L’intera rac-colta della rivista è pubblicata su orvietosi.itall’indirizzo https://orvietosi.it/2017/02/rac-colta-grandi-firme-della-tuscia/. Se altri gior-nali web avessero piacere di accogliere la no-stra raccolta ne saremmo felici.

EditorialeQuesto è il primo numero della rivistaGRANDI FIRME DELLA TUSCIA che nonè stato confezionato da Pier Luigi Leoni e dicui non è editore Letteralbar. D’ora innanzi sioccuperà della pubblicazione l’ASSOCIA-ZIONE PIER LUIGI LEONI, costituita dasuoi amici per continuarne l’attività di pro-mozione culturale. Si è costituita una piccolaredazione, aperta a chiunque voglia collabo-rare, per mettere insieme i racconti degli amiciche con noi percorrono questa esperienza “let-teraria”, persone che amano scrivere e condi-videre i loro racconti o pensieri o altro. Ab-biamo incontrato qualche difficoltà a raggiun-gere tutti i collaboratori di Pier Luigi che ani-mavano la rivista e qualcuno è rimasto fuori.Ci auguriamo di vederlo apparire sulla nostrastrada appena possibile perché, oltre aGRANDI FIRME, abbiamo molte idee e ini-ziative già programmate e il supporto di amicici renderebbe lieti. In questo numero nove sisono aggiunti alcuni giovani scrittori e questoci conferma che l’idea della rivista è buona eche si può allargare ulteriormente il numerodei collaboratori, magari entrando nellescuole. Vedremo. Intanto grazie a quanti con-tribuiscono a tenere vicina a noi la preziosapresenza di Pier Luigi. «Nel cogliere il fruttodella memoria si corre il rischio di sciuparne ilfiore» Conrad - La freccia d’oro. Speriamo chea noi non accada.

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NOVE

BALESTRO-BELLISCIONI-BELLOCCHI-BOSCO-CALDERINICERULLI-CINTI-FREDDI-GARBINI-LAPROVITERA-MARCHESINI

MAZZONI-PARRANO-PEDICHINI-PEPARELLO-PRUDENZIPURI A.-PURI L.-RICCI-SEGA-SPANETTA-TAFANI-TIBERI-TIEZZI

della Tusciaaperiodico di novelle e varia umanità

ispirato a

SELEZIONE DI OPERE DEI NOSTRI COLLABORATORI

Fondato da Pier Luigi Leoni

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