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l a V oce del popolo ESODO E FOIBE NOI RICORDIAMO SPECIALE Beato Bonifacio martire delle foibe Prendiamo a esempio i superstiti della Shoah Monumento librario di Istria e Dalmazia Pane e micotossine: il «mal degli ardenti» INTERVISTA CONTRIBUTI PILLOLE EVENTI 2 3 4|5 6|7 8 «Foiba Rossa», fumetto su Norma Cossetto La tragedia della giovane studentessa istriana, seviziata e infoibata, raccontata con i disegni Confine orientale d’Italia: Lorenzo Salimbeni parla di ciò che è stato fatto e delle possibili sfide future La Libreria Svevo pubblica la prima edizione italiana del classico di Joseph Lavallée I cereali, fondamentali nella storia dell’alimentazione umana ma alle volte pericolosi L’Irci e la conservazione della memoria, tra l’omaggio al prete istriano e visite al Magazzino 18 l a V oce del popolo storia www.edit.hr/lavoce Anno 14 • n. 111 sabato, 10 febbraio 2018

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la Vocedel popolo

Esodo E FoIBE noI rICordIAMo

sPECIALEBeato Bonifacio martire delle foibe

Prendiamo a esempio i superstiti della Shoah

Monumento librario di Istria e Dalmazia

Pane e micotossine:il «mal degli ardenti»

InTErVIsTA ConTrIBUTI PILLoLE EVEnTI

2 3 4|5 6|7 8«Foiba Rossa», fumetto su Norma CossettoLa tragedia della giovane studentessa istriana, seviziata e infoibata, raccontata con i disegni

Confine orientale d’Italia: Lorenzo Salimbeni parla di ciò che è stato fatto e delle possibili sfide future

La Libreria Svevo pubblica la prima edizione italiana del classico di Joseph Lavallée

I cereali, fondamentali nella storia dell’alimentazione umana ma alle volte pericolosi

L’Irci e la conservazione della memoria, tra l’omaggio al prete istriano e visite al Magazzino 18

la Vocedel popolo

storiawww.edit.hr/lavoce Anno 14 • n. 111sabato, 10 febbraio 2018

storia&ricerca2 sabato, 10 febbraio 2018 la Vocedel popolo

GIORNO DEL RICORDO di Ilaria Rocchi

Norma Cossetto La vERItà IN uNa GRaphIC NOvEL ChE aRRIva aL CuORE

rio profuso nel Comitato 10 Febbraio. Grazie a chi, dice Merlino, dopo avermi dato il nome che porto, mi ha raccontato che gli esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia sono italiani due volte: “una per nascita ed una per scelta”.Nel fumetto non si ricostruisce soltanto una storia terribile ma anche e soprattutto la storia d’amore di una ragazza come tante per la terra in cui era nata. Nel testo si parla di foibe, degli ec-cidi commessi dai partigiani jugoslavi comunisti durante e dopo la Seconda guerra mondiale sul confine orientale d’Italia. Si vedono i partigiani titini mettere gli abitanti di quei luoghi in riga, con un filo di ferro legato al polso, fino a formare una catena umana. Il primo della fila viene fu-cilato e con il suo peso trascina nella foiba tutti gli altri. Vivi. Circa 350mila persone fuggirono, ma tra loro non c’era Norma Cossetto, diventata l’esempio emblematico di quello che le donne su-birono in quei giorni bui della nostra storia.Norma nasce a Santa Domenica di Visinada nel 1920 in una famiglia italiana di proprietari ter-rieri. Il padre diventerà podestà con il fascismo e poi ufficiale della milizia. Norma al massimo partecipava a gare sportive con il Gruppo uni-versitari fascisti. A partire dal 1941 alternava lo studio a supplenze scolastiche a Pisino e a Parenzo. Nell’estate 1943 stava preparando la tesi di laurea con relatore il geografo Arrigo Lorenzi. In ragione dei propri studi, gira in bi-cicletta per i paesi dell’Istria, visitando municipi e canoniche alla ricerca di archivi che le consen-tissero di sviluppare la sua tesi di laurea. Ma arriva l’8 settembre e lo sfaldamento dell’esercito italiano. Nel fumetto Tito, il capo dei partigiani comunisti jugoslavi, viene abilmente disegnato

nella sua grotta rifugio in Bosnia mentre pre-para i piani di battaglia per assoggettare l’Istria, a maggioranza italiana, “a qualsiasi prezzo”.Dopo l’armistizio, i partigiani prendono il con-trollo dell’entroterra istriano seminando terrore per un mese. A Visinada finisce nel mirino la famiglia Cossetto. Nel fumetto Norma torna trafelata a casa devastata dai miliziani di Tito. “Cercavano papà e si sono portati via tutto”, spiega la sorella Licia in lacrime. Giuseppe Cossetto è in servizio a Trieste e i partigiani ar-restano Norma per costringerla ad aderire alla causa. Nel racconto illustrato l’eroina istriana ri-sponde: “Non sarò mai comunista né jugoslava”. A 23 anni il suo destino è segnato come quello del padre che viene ucciso in un’imboscata men-tre cerca la figlia.La fine di Norma è ben più terribile violentata a turno da 17 aguzzini con la stella rossa e poi sca-raventata assieme ad altri prigionieri nella foiba di Villa Surani nella notte fra il 4 e 5 ottobre 1943. Per la drammatica illustrazione di Norma legata a un tavolo e seviziata, Merlino ha preso spunto da una testimonianza drammatica alla sorella Licia quando venne recuperato il corpo. “Una signora si è avvicinata e mi ha detto: ‘Non le dico il mio nome, ma quel pomeriggio, dalla mia casa che era vicina alla scuola (trasformata in centro di prigionia dei partigiani, nda) ho visto sua sorella legata ad un tavolo e delle belve abusare di lei. Alla sera poi ho sentito anche i suoi lamenti: invocava la mamma e chiedeva acqua, ma non ho potuto fare niente, perché avevo paura’”.Carla Isabella Elena Cace scrive nella postfa-zione: “Norma, come molte altre migliaia di

donne e uomini del confine orientale, è stata uccisa perché ‘colpevole’ di essere italiana. Ha scelto l’atroce martirio in nome di un amore as-soluto. Io sono esule di terza generazione, il mio sangue è dalmata. Come donna, come italiana e come essere umano, provo una rabbia infinita. Un sentimento negativo e potente, mitigato dalla certezza che, almeno oggi, siamo riusciti a tirarla fuori, la forte, bella e fiera Norma, da quel buco nero che, certamente, avrà finito per ingoiare i suoi aguzzini. Ineluttabilmente. E poi, alla fine, la rabbia svanisce e torna la luce, perché so, Norma, che con il tuo esempio e sacrificio certa-mente. Spargi in terra quella pace | che regnar tu fai nel ciel”.Il sacrificio di Norma è stato dimenticato per almeno per mezzo secolo, come tutto il calvario degli esuli istriani, fiumani e dalmati costretti a lasciare le loro terre. Solo nel 2005 il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, ha concesso all’e-roina istriana la medaglia d’oro al merito civile. La motivazione non lascia dubbi: “Giovane stu-dentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio. Villa Surani 5 ottobre 1943”. L’ateneo di Padova le concederà la laurea ad honorem nel 1949 in ricordo del suo sacri-ficio. Il fumetto riprende il rosso contenuto nel titolo della tesi di laurea (“Istria rossa”) che la giovane non riuscì mai a presentare. Era incen-trata sulla terra ricca di bauxite dell’Istria. Ma il rosso sta qui a indicare anche la passione per l’Istria che Norma nutriva e il sangue che ha ver-sato assieme ad altre migliaia di infoibati.

È giunto il momento di nominare a senatore a vita anche un esule giuliano-dalmata con particolari meriti nel campo sociale e culturale. prendendo spunto dalla recente “investitura” di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di con-centramento, e in concomitanza con il 10 Febbraio, il Blocco Nazionale per le Libertà – un progetto politico presente alle prossime elezioni politiche (si colloca nel centrodestra, fondato essenzialmente da Democrazia Cristiana, capeggiata da Dennis Martucci, associazione Nazionale Democratici Liberali e Italia Reale (di matrice morachica) di Massimo Mallucci

e angelo Novellino –, chiede all’On.le Sergio Mattarella, nel rispetto delle proprie prerogative, “di onorare il ricordo dell’Esodo dei 350mila Istriani, Fiumani e Dalmati e degli oltre 20.000 Italiani infoi-bati e/o annegati dai comunisti jugoslavi, nominando SENatORE a vIta un Esule che abbia onorato il nome d’Italia”.Sarebbe un riconoscimento agli sforzi tesi a ristabilire la verità storica, a tutelare una memoria a lungo obliata, ma anche per rinnovare il sentimento di vicinanza e di solidarietà delle istituzioni repubblicane ai familiari delle vittime delle orrende stragi delle foibe e ai rappresentanti

delle associazioni che coltivano il,ricordo di quella tragedia e dell’esodo di intere popolazioni. Ma sarebbe anche un modo per evidenziare l’apporto significativo che gli esuli istriani, fiumani e dalmati hanno dato allo sviluppo e al progresso dell’Italia. Non a caso, la proposta di Blocco Nazionale per le Libertà – firmata da Massimo Mallucci de Mulucci, angelo Novellino e Denis Martucci – riguarda tre illustri esuli, che hanno fatto grande il nome del Bel paese. Come Nino Benvenuti, Nino Benvenuti, nato a Isola d’Istria, 26 aprile 1938, un ex pugile, campione olimpico nel 1960,

campione mondiale dei pesi superwelter tra il 1965 e il 1966, campione mondiale dei pesi medi tra il 1967 e il 1970; è stato uno dei migliori pugili italiani e uno tra gli atleti italiani più amati di tutti i tempi. ha vinto il prestigioso premio di Fighter of the year nel 1968. Oppure il fiumano abdon pamich, classe 1933, ex marciatore italiano, campione olimpico ed europeo, nonché 40 volte campione italiano su varie distanze. Chi ricorda le Olimpiadi degli anni Sessanta non può averlo dimenticato: ai Giochi olimpici di tokyo, nel 1964, regalò all’Italia l’oro − e record olimpico tuttora imbattuto

− nella 50 chilometri olimpionico. Ma anche paolo Sardos albertini, nato a Capodistria, avvocato e presidente della Lega Nazionale di trieste (alla quale il Comune ha recentemente conferito la Civica benemerenza), che ha sostenuto e promosso numerose ricerche storiche e, in generale, sulla civiltà delle terre dell’a-driatico orientale, collaborando spesso anche con i rimasti. (ir)

Un esule giuliano-dalmata a senatore a vitaBlocco Nazionale per le Libertà fa i nomi di Benvenuti, Pamich e Sardos Albertini

| Il marciatore abdon pamich

| Il Cav. paolo Sardos albertini

| Il pugile Nino Benvenuti

I l caricaturista “polesano” Gigi Vidris sul settimanale satirico “El Spin” (Pola, ottobre 1945 – gennaio 1947) raccontò con ironia

e sarcasmo, e con grande efficacia, le vicende politiche tra la fine della guerra mondiale e la controversa definizione del confine orientale d’Italia, fino alla firma del Trattato di Pace di Parigi il 10 febbraio 1947. Testimone dei fatti, interpretò l’anima di una città sulla quale stava “calando l’ombra di una scelta irreversibile, le cui sorti stanno per essere decise altrove”. Si sono affidati alle immagini per diffondere la storia – nella fattispecie quella di il dramma di Norma Cossetto, la studentessa di 23 anni, fu torturata, violentata, infoibata nelle giornate di settembre del 1943 da partigiani comunisti titini –, usando uno strumento che consente di farla conoscere efficacemente e in modo agile, anche due bravi autori: Emanuele Merlino, vicepresidente del Comitato 10 Febbraio, che firma la sceneggia-tura, e Beniamino Delvecchio (già illustratore di Diabolik), autore dei disegni. La graphic novel edita da Ferrogallico, un lavoro eccezionale che ha suscitato grande interesse, è uscita con i contributi extra dei presidenti delle più grandi associazioni di esuli e discendenti istriani e fiumani (dal Comitato 10 Febbraio all’Asso-ciazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia e alla Federazione delle Associazioni degli Esuli). In edizione speciale cartonata e rilegata, com-prende 72 pagine in grande formato, 29 x 23 cm, 15 euro. Sarà distribuita in tutte le edicole, per un mese, a partire da mercoledì 7 febbraio, e nelle librerie con Mondadori da oggi 10 febbraio. L’opera è stata presentazione in anteprima alla Camera dei Deputati, nella sala Regina, martedì 6 febbraio, con gli in-terventi dell’autore del testo, dall’editore, dai rappresentanti delle principali associazioni di esuli istriani e fiumani, degli onorevoli Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, di Andrea De Priamo (vicepresidente Assemblea Capitolina), con la moderazione dell’inviato de Il Giornale, Gian Micalessin.E mentre s’attiende ancora l’uscita del film “Rosso Istria”, incentrato sugli eventi di san-gue post 1943 e l’odissea della giovane Norma (giunto quasi alla fine, bloccato in post-produ-zione per carenza di fondi, a quanto pare), ecco che ci troviamo tra le mani questo pregevole pro-getto editoriale, intitolato Foiba Rossa. Norma Cossetto, storia di un’italiana, che nasce (come il film) con la volontà di portare questa storia al grande pubblico e non più solo a quella “nicchia” che non ha mai voluto dimenticare il massacro degli italiani dell’Est. Per Michele Pigliucci, presidente del Comitato 10 Febbraio, è opportuno fare “memoria”, che rispetto al ri-cordo è qualcosa di vivo, qualcosa senza cui non si può costruire un futuro degno di questo nome. E la sfida di fare memoria con un fumetto come “Foiba Rossa” è necessaria per coinvolgere i più giovani, affinché anche loro possano compren-dere e fare propria l’identità nazionale. Del resto, la protagonista, Norma, aveva un sogno: diven-tare insegnante, perché voleva aiutare a costruire gli uomini e le donne del futuro, per fare più grande quella parte d’Italia che si chiama Istria. “Forse ci volevano proprio dei disegni, un fu-metto – spiega una nota dell’editore – per raccontare questa storia senza paura, senza la paura di chiamare con il loro nome gli aguzzini di Norma, gli invasori dell’Istria, gli autori di disumane, quanto ingiustificate, violenze comu-niste sulla popolazione italiana. La storia è lì. È una storia di frontiera, una storia di confine, è una storia che parla italiano”. Un atto d’amore fatto da Merlino, nato dopo centinaia di confe-renze e iniziative, che deve tutto alle associazioni degli esuli che hanno mantenuto il ricordo ina-scoltato di una autentica tragedia, ben fissato nella memoria attraverso l’impegno volonta-

storia&ricerca 3sabato, 10 febbraio 2018la Vocedel popolo

GIORNO DEL RICORDO di Gianfranco Miksa

prendiamo a esempio i supersiti della shoahQual è l’apporto dato dal Giorno del

Ricordo alla stesura delle complesse pagine di storia che interessano

l’Alto Adriatico Orientale. È grazie a questa ricorrenza che la memoria del confine orientale con tutte le sue problematiche dovuta all’esodo, alla foibe, fino ai rimasti che si sono visti togliere le proprie cultura, lingua e tradizione, è diventa materia d’interesse storico per i ricercatori? Ne abbiamo parlato con il ricercatore Lorenzo Salimbeni, autore del volume “Sul ciglio della foiba. Storie e vicende dell’italianità” (220 pagine, 2016), pubblicato a Roma dalla casa editrice Pagine per la collana de “I libri del Borghese”.

Qual è, oggi in Italia, l’eredità storiografica e culturale legata all’esodo e alle foibe?“Argomento di nicchia per una scuola storiografica localizzata nella Venezia Giulia e per una memorialistica legata alle vicende famigliari degli esuli e di chi risiedeva ancora in quelle terre di frontiera fino agli anni Novanta del secolo scorso, la vicenda di Esodo e Foibe ha lentamente conquistato la ribalta nazionale. Dapprima per le inquietanti analogie con le logiche di pulizia etnica che si palesavano durante le guerre della ex Jugoslavia, quindi nell’ambito della scoperta dei crimini compiuti dai regimi comunisti nel loro consolidarsi, la complessa vicenda del confine orientale assurgeva da episodio di microstoria locale ad ampia ed articolata pagina di storia nazionale. Non solo gli accademici, che finalmente avevano a disposizione case editrici di ampia diffusione per illustrare i risultati delle proprie ricerche, ma anche giornalisti e divulgatori storici hanno affrontato con esiti più o meno soddisfacenti la ricostruzione storica di queste vicende. La complessità degli argomenti che entrano in ballo (italianità, antifascismo, anticomunismo, jugoslavismo, precedenti responsabilità austro-ungariche, fascismo di frontiera, nazionalcomunismo titoista) non è facilmente sintetizzabile a colpi di tweet e di battute ‘acchiappalike’ sui social e richiede un’attenzione specifica che nella società della comunicazione odierna è difficilmente rilevabile nelle giovani generazioni. Notevole è lo sforzo del tavolo di lavoro Esuli-Ministero dell’Istruzione, di cui seguo i lavori, per implementare riguardo tali argomenti l’attenzione e l’approfondimento nella popolazione

studentesca, tuttavia riscontro maggiore curiosità intellettuale in fasce di età più mature, che vogliono soprattutto capire come mai sono state tenute all’oscuro queste tragedie per così tanti anni.

Che cos’ha portato il Giorno del Ricordo?“Il Giorno del Ricordo ha l’indubbio merito di aver focalizzato per almeno alcune giornate all’anno a ridosso del 10 Febbraio l’attenzione delle istituzioni, della scuola, degli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sulla complessa vicenda del confine orientale. Persiste, però, il ‘peccato originario’: la legge 92 del 30 marzo 2004 non fu approvata all’unanimità dalle Camere e gli epigoni di quelli oppositori, arroccati nella sinistra estrema parlamentare ed extraparlamentare, si fanno ancora sentire, organizzando provocatorie manifestazioni, conferenze dai toni riduzionisti o giustificazionisti e snaturando il dettato della legge, che vuole essere un riconoscimento morale per chi subì le violenze, i lutti e l’esilio. Di anno in anno sono sempre più cospicue e significative le cerimonie che colgono adeguatamente il senso di questa ricorrenza civile, tuttavia questa fastidiosa minoranza contestatrice gode della ribalta grazie al patrocinio di amministrazioni comunali compiacenti ed alla collaborazione di alcuni studiosi fortemente ideologizzati che invocano la libertà di ricerca storica salvo poi, allorché si parla di guerra civile 1943-1945 e di retroscena della lotta di Resistenza al confine orientale, barricarsi dietro l’intangibilità della storia così come è stata elaborata”.

Quali sono, a suo avviso, i possibili percorsi di ricerca da intraprendere per approfondirli ulteriormente?“L’esperienza dei superstiti della Shoah ci insegna l’importanza della raccolta e della conservazione della testimonianza diretta di chi visse quelle tragedie, prima che l’incedere degli anni cancelli tutti i ricordi ed i testimoni. Soprattutto quando ci si

rivolge ad un pubblico studentesco ovvero per agevolare la divulgazione è necessario presentare pagine di vita vissuta che consentano di immedesimarsi nella vicenda cogliendone la dimensione umana e stimolando così la curiosità di approfondire il contesto storico. Troppi istriani, fiumani e dalmati, per un senso di vergogna e di diffidenza nei confronti di un ambiente esterno che li aveva ostracizzati, non hanno potuto lasciare testimonianza delle sofferenze patite: è importante intervistare in maniera adeguata chi c’è ancora, magari nell’ambito di un progetto di studio e di analisi dei 109 Centri Raccolta Profughi disseminati in tutta Italia.”“D’altro canto la ricerca archivistica nei fondi italiani, angloamericani e della ex Jugoslavia ha già dato prime significative indicazioni, che necessitano di essere

implementate al fine di sciogliere alcuni nodi storiografici. Innanzitutto bisogna capire la catena di comando che presiedette all’amministrazione militare jugoslava della Zona B fissata dalla linea Morgan: partivano da Belgrado o dai gerarchi locali le disposizioni per snazionalizzare l’Istria e Fiume? In seguito al Trattato di pace, le difficoltà ad esercitare il diritto di opzione furono poste dal governo centrale intimorito dall’emorragia di popolazione, forza lavoro qualificata e maestranze o si trattò di una volontà locale finalizzata a dimostrare negli anni seguenti che una minoranza nazionale italiana sarebbe stata tutelata e garantita? Ricostruire analiticamente la spregiudicata politica estera di Tito, comprendere i margini di manovra di cui l’Italia inserita nel blocco occidentale della guerra fredda poteva effettivamente beneficiare a tutela dei propri interessi nazionali al confine orientale, redigere uno studio particolareggiato dell’arcipelago

concentrazionario jugoslavo e valutare quanti e quali istriani di lingua e cultura slava approfittarono delle opzioni per abbandonare un regime nel quale non si riconoscevano: i filoni di ricerca non mancano”.

Nelle ricerche si nota un grande divario d’analisi dei temi concernenti gli esuli e i rimasti. Perché agli storici italiani il tema dei rimasti, i quali anche loro in uguale e certi casi anche in maggior misura hanno vissuto sulla proprio pelle l’estraniazione della proprie cultura, lingua, tradizione, tanto da essere stati soggetti a varie violenze, è ancor sempre estraneo?“Gli esuli che abbandonano le province cedute ad una potenza confinante ed i rimasti che diventano minoranza nazionale in un contesto statuale straniero sono due facce della stessa medaglia: la sconfitta militare italiana nella Seconda guerra mondiale, un concetto difficilmente accostabile alla celebrazione del 25 aprile come data in cui l’Italia avrebbe concluso vittoriosamente quel conflitto. Se gli esuli furono reticenti a raccontare la loro tragedia a un’Italia che li aveva spesso accolti da matrigna, i rimasti dovettero mantenere il silenzio per ragioni di incolumità personale e attraverso il confine filtravano solamente pubblicazioni celebrative della lotta partigiana atte a dimostrare la benevolenza del regime nei confronti della minoranza italofona. Se finalmente sta diventando patrimonio condiviso la consapevolezza che il 90% degli italiani autoctoni lasciò l’Istria, il Carnaro e la Dalmazia e si va approfondendo la conoscenza di ciò che patirono prima e dopo l’abbandono della loro terra, adesso si rende effettivamente necessario indagare cosa accadde al restante 10%. Ora gli archivi croati, sloveni e serbi – che custodiscono la documentazione dalla repubblica federale – sono accessibili e lo scoglio linguistico non può rappresentare una scusa per non approfondire la vicenda storica dei rimasti, a partire dalla definizione di quanti rimasero per motivi ideologici, per difficoltà burocratiche nell’esercizio delle opzioni, per l’impossibilità a recidere il legame con la propria terra ovvero auspicando tempi migliori. Bisogna spiegare all’opinione pubblica che l’italofonia nel mondo non è dovuta soltanto a fenomeni migratori, ma anche alla permanenza di una comunità autoctona al di fuori dei confini di Stato”.

Nel suo libro, Sul ciglio della foiba. Storia e vicende dell’italianità (I libri del Borghese editore), Lorenzo Salimbeni ha voluto “fare un percorso sulle radici dell’italianità in Istria, Fiume, Dalmazia e Venezia Giulia, proprio per far capire che quello che si commemora il 10 febbraio, il Giorno del Ricordo, è una storia che nasce prima delle foibe e dell’esodo. Questa contrapposizione degli italiani con il mondo slavo è stata fomentata soprattutto dall’impero austriaco, con la logica suicida del divide et impera, di cui poi hanno fatto le spese gli stessi austriaci. Quindi, tutto quello che succede dopo, con le foibe e l’esodo, in realtà è soltanto l’ultima tappa di un lunghissimo percorso che affonda le sue radici in un progetto, anche espansionista, slavo”. È l’opera prima di questo storico triestino (trapiantato a Roma), classe 1978. Ha all’attivo varie pubblicazioni scientifiche alle spalle, ricercatore della Lega nazionale di Trieste e del Comitato 10 Febbraio, responsabile comunicazione dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia

con lo storico lorenzo salimbeni Un bilancio sU ciò che È stato fatto e Una riflessione sUi possibili percorsi fUtUri

la Vocedel popolosabato, 10 febbraio 2018 la Vocedel popolo4

RECENSIONI

UN monumento librario dEdICatO all’IStRIa

E alla dalmazIa

La Libreria Svevo pubbLica La prima edizione itaLiana deL cLaSSico di JoSeph LavaLLée, redatto Secondo L’itinerario compiuto e diSegnato da LouiS-FrançoiS caSSaS (1756-1827), ScuLtore,

architetto, pittore paeSaggiSta, archeoLogo e antiquario viSSuto ai tempi di napoLeone e oggi conSiderato uno dei grandi interpreti

deLLa tranSizione daL neocLaSSiciSmo aL romanticiSmo

Nel 1802 nella Parigi napoleonica uscì il Voyage pittoresque de l’Istrie et de la Dalmatie; dopo oltre due secoli, nel

2017 fu curata l’edizione con la traduzione italiana, Viaggio pittoresco e storico nell’Istria e nella Dalmazia redatto secondo l’itinerario di L.F. Cassas da Joseph Lavallée (traduzione di Leo Lazzarotto, pp. 282), proposta dalla Libreria Editrice Internazionale Italo Svevo di Trieste in occasione del cinquantesimo anniversario d’attività. Il tomo di ampio formato, con una veste grafica curata, sia nell’eleganza sia nell’utilizzo della carta, propone al pubblico un’opera da sempre ricercata. Questo presta particolare attenzione alle testimonianze del passato, ai monumenti vetusti e alle antichità in senso lato. Lo stesso frontespizio accorpa alcuni dei segni più importanti presenti sui lidi dell’Adriatico orientale: l’Arena, il portico del tempio d’Augusto, l’arco dei Sergi a Pola, la grande galleria del palazzo di Diocleziano a Spalato, i frammenti di antichità trovati a Trieste, Sebenico, Traù, urne cinerarie ritrovate.Il volume condensava il comune sentire dell’età dei lumi, cioè l’importanza del viaggio, inteso come fonte di conoscenza. L’opera contiene 67 tavole con i disegni di Louis-François Cassas; la sua fama dipese in buona parte da questa iniziativa editoriale, uscita in occasione del decennale della Repubblica francese. L’autore delle tavole era nato nel 1756, come era consuetudine nel 1778 fu coinvolto nell’esperienza del Grand Tour lungo la penisola italiana, toccando Venezia, Roma, Napoli e la Sicilia. Nel 1784 si era unito al seguito del nuovo ambasciatore francese a Istanbul, il conte de Choiseul-Gouffier, visitò la Siria, la Palestina, l’Asia minore, l’Egitto, Cipro. In quell’occasione riprese costumi, monumenti (le antichità di Alessandria, le piramidi Giza, le moschee del Cairo), vedute, scena di vita.

Spinta all’esplorazione che resta misteriosaAntonio Trampus, ordinario di storia moderna nell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che firma la prefazione (Uno sguardo europeo alle rive dell’Adriatico), scrive che le ragioni che avevano spinto il giovane ma già affermato pittore ad esplorare le rive dell’Adriatico orientale rimangono un mistero. Nel 1782 si trovava a Roma, ricevette l’invito a recarsi a Trieste per disegnare vedute della città e i suoi dintorni. Fu coinvolto da Pietro Antonio Pittoni, un amante delle belle arti e direttore di polizia, che doveva certamente avere il sostegno del governatore Zinzendorf, e quella che fu definita una società di amanti delle arti con molta probabilità si trattava della loggia massonica triestina riorganizzata (1776). Fu chiamato perché l’intento originario era di formare un album con una serie di disegni da stampare a Vienna e donare all’imperatore

Giuseppe II. Dalla città di San Giusto si spostò in Istria e in Dalmazia. Visitò la costa, con fermate a Pola e Rovigno, fece la veduta di Pirano, per breve tempo sbarcò a Capodistria e rientrò a Trieste. Lunga fu la sosta a Spalato. I disegni non rimasero però a Trieste (molto probabilmente a causa di un’insufficiente copertura finanziaria dell’operazione), eccetto tre (una veduta generale della città, il molto grande e l’imboccatura del Canale Grande), successivamente pervenuti alle raccolte dei Civici Musei di Storia ed Arte.Rientrato in Francia la sua carriera fu contraddistinta dall’impegno nel mondo della scuola. I disegni, compresi quelli di soggetto orientale, rimasero nelle cartelle, a farli riemergere furono gli avvenimenti storici, le imprese militari di Napoleone Bonaparte e, molto probabilmente, il rinnovato interesse per la cultura e i monumenti del passato. Perciò, dal 1799 le sue raffigurazioni furono consegnate ad un gruppo d’incisori; tra il 1799 e il 1804 uscirono svariati fascicoli concernenti il Viaggio pittoresco in Siria, Fenicia, Palestina e Basso Egitto, che formarono tre volumi, uno di testi e due di tavole.

piacevole di lettura e al tempo stesso preciso e accuratoSi può supporre che il successo di tale opera avesse giovato alla successiva pubblicazione delle tavole relative all’Adriatico orientale. Queste incisioni avevano bisogno di un testo che le accompagnasse, che fosse di piacevole lettura e al tempo stesso puntuale ed accurato, ma non rivolto esclusivamente a un pubblico di esperti e/o eruditi. Fu prescelto Joseph Lavallée, di nobili origini (era nato marchese di Bois-Robert, in seguito avrebbe mutato cognome), che aveva all’attivo già diverse pubblicazioni, nel 1786, ad esempio, aveva edito un volume d’arte sui bassorilievi del XVIII secolo; tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, inoltre, curò l’edizione di vari libri di viaggio (ad esempio: Voyage dans les départemens de la France (1792-1802), Voyage en Bretagne (1793-1794), l’edizione francese dell’itinerario di Giuseppe Acerbi in Lapponia, cioè il Voyage au Cap Nord par la Suède, la Finlande et la Laponie (1804), Collection des chefs-d’oeuvre de l’architecture des différens peuples (1806)) e continuò l’attività narrativa. Dopo la rivoluzione del 1789 divenne un intellettuale politicamente impegnato, basti ricordare che un suo discorso alla nazione francese in occasione dell’apertura degli Stati Generali fu dato alle stampe. In quel frangente iniziava anche il suo percorso come esponente di rilievo dell’entourage che avrebbe condotto la Francia dalla Repubblica all’Impero di Bonaparte.In apertura si legge: “L’Istria e la Dalmazia, delle quali ci accingiamo a percorrere la storia prima di entrare in alcuni particolari sui popoli che le abitano oggi, meritavano segnalata attenzione

da parte degli amici delle arti, e del filosofo; e forse hanno a lagnarsi di quella specie di oblio in cui sono state lasciate fino al presente” (p. 3). E nel prosieguo: “L’Istria è una penisola il cui corpo, estremamente svasato, si addentra nella parte nord del Mare Adriatico […]. La Dalmazia, comprendendovi le piccole isole che ne dipendono, forma, con diverse parti vicine all’Ungheria e della Turchia, quella che si chiama Illiria, nome antico che il governo austriaco ha fatto rivivere ai nostri giorni” (p. 4). L’opera è suddivisa in due parti: la prima propone la cornice storica delle aree visitate, con particolare attenzione alle popolazioni incontrate nonché agli usi e costumi di quest’ultime. La seconda parte narra il viaggio vero e proprio, per la cui narrazione furono utilizzati gli appunti di Cassas.

in principio fu... venezia e gli uscocchiSi ripercorrono le pagine dell’antichità e la penetrazione romana nell’Adriatico orientale, in particolare in Dalmazia, in cui regnava il principe Pineo, minorenne e pertanto sotto la tutela della madre Teuta. Per porre fine all’endemico problema della pirateria, l’Urbe mosse le armi in quell’area importante, che in seguito, con la fondazione di Aquileia e il suo prospero sviluppo nonché le ampie conquiste delle legioni romane ad Oriente, sarebbe gravitata su un vettore di straordinaria importanza per i commerci e gli scambi. Prosegue con le vicende che coinvolsero i cesari, tra ribellioni, guerre e assoggettamento di vari popoli, sino alla crisi dell’impero e ai sommovimenti delle popolazioni definite ‘barbariche’ che lo avrebbero trasformato radicalmente. La trattazione continua con l’età di mezzo, con nuove ondate di genti che si stabilirono in quel territorio. L’attenzione di Lavallée si concentra quindi sulla nascente Venezia, città che avrebbe proiettato la sua immagine e la pregevole civiltà che nel corso dei secoli avrebbe plasmato le comunità della sponda dirimpettaia. “Settantadue isole rinchiuse nelle lagune dipendenti dai Padovani avevano offerto un ricovero ad alcuni sventurati abitanti delle contrade del continente sfuggiti ai furori di Attila” e ancora: “Questa potenza, sorta per così dire dal seno dei mari, per lungo tempo oscura, accresciuta lentamente, ma frutto della pazienza, del coraggio, dell’industria e della politica, era troppo vicina alla Dalmazia e all’Istria per non prepararsi un posto nella loro storia” (p. 31).Nella ricostruzione storica l’autore rammenta lo scontro tra la città lagunare, i principi slavi e i re d’Ungheria, finché all’orizzonte non comparvero gli Ottomani che avrebbero assoggettato i Balcani e buona parte della Dalmazia. Le aspirazioni di molti su quest’ultima avrebbero rappresentato la sua disgrazia, giacché sarebbe stata “costante oggetto delle mire ambiziose di qualche intrigante che la rivolta conduceva al potere e dava alla

guerra, ai pugnali o al patibolo; esca irresistibile per Veneziani, sempre pronti a portarvi ferro e fuoco per arrivar a fondervi la loro industria, eterno motivo di inquietudine e gelosia per i re di Ungheria […]; così la Dalmazia, vittima della politica dei vicini, dell’ambizione dei re, degli imperatori, dei dogi e spesso dei suoi stessi cittadini; senza leggi nazionali, senza alcuna costituzione diretta, senza altro governo fuorché quello delle circostanze che la vittoria faceva nascere e la sconfitta crollare, non aveva altro bisogno, per accrescere il malcontento divenuto di generazione in generazione parte del retaggio di ogni famiglia […]. Così dunque il Dalmata, dovunque perseguitato, dovunque senza

protettore, doveva sentire quell’irrequietezza, quel bisogno di spostarsi che il disagio ispira e la speranza del meglio irrita e, diventato fuggitivo sulla propria terra, barattare a ogni istante la sfortuna del suo soggiorno con la sfortuna di un nuovo asilo” (pp. 38-39). Sulle presenze etniche riportiamo: “I transfughi, o Uscocchi come da ora li chiameremo, portavano con sé un profondo risentimento contro i loro persecutori, impotente dapprincipio finché furono sparsi, ma presto seguito da vendette quando se ne poterono unire insieme alcuni. Così si recavano in armi verso i luoghi donde erano fuggiti, sorprendevano i loro persecutori, ne devastavano le proprietà, ne rapivano il bestiame e si ritiravano con un bottino che consideravano un indennizzo di quanto la tirannia e la forza avevano in precedenza tolto a loro stessi” (pp. 39-40).Affrontate le vicende degli uscocchi e la gravità delle loro azioni, tanto che la Repubblica di Venezia e la Casa d’Austria finirono per

Spettacoli nuovi e grandi ricordi: sono questi i godimenti che il viaggiatore desidera. Visitare luoghi ove sono vissuti popoli celebri è come

ampliare la propria biblioteca; visitare popoli che la natura ha collocati a grandi distanze da noi è come nobilitare, per sé e per i contemporanei, il proprio se-colo. Sono questi motivi – veramente degni d’animare lo spirito di un amatore delle arti e dell’umanità – che, più della semplice curiosità, determinarono il citta-dino Cassas ad intraprendere il viaggio nell’Istria e nella Dalmazia.I monumenti rispettati dall’età, o i cui frammenti pe-sano ancora con funebre orgoglio sulla superficie del globo, sono le tombe delle nazioni: è lì che il filosofo, nel silenzio della loro civiltà, sulla semplicità o corru-zione dei loro costumi, sulla solidità o vanità della loro gloria. I monumenti sono la storia dei morti famosi, e dopo venti secoli impartiscono ancora all’uomo lezioni sui vizi che disonorano o sulle virtù che immortalano. I popoli che respirano intorno a quelle rovine non of-frono al filosofo uno studio meno importante a farsi. Gli piace riconoscere l’impressione che fanno sul loro animo i resti pomposi che i loro piedi pestano ogni giorno; si compiace nel ricercare se essi hanno con-servata la fiamma delle conoscenze umane, se l’hanno alimentata o se invece malauguratamente l’hanno la-sciata spegnere; vuol sapere se veramente essi si sono innalzati sopra i loro predecessori o se ne sono rimasti sotto; osserva se i loro costumi, i loro usi, la loro con-dotta interiore, i loro stessi pregiudizi hanno ricevuto qualche sfumatura del carattere dei popoli di cui oc-cupano il posto: alla fine egli arriva a distinguere se essi vivano in mezzo a quei monumenti da stranieri o da eredi.Considerare sotto questi due aspetti, l’Istria e la Dalmazia presentano all’osservatore la scena più curiosa: da un lato lo scheletro dell’impero romano; dall’altro, e soprattutto in Dalmazia, un popolo pastore, nomade e forse anche ridisceso per la degra-

dazione allo stato selvaggio; qua le tracce fastose dei padroni del mondo, là l’oscura indigenza di alcune tribù ignorate; le colonne decrepite dei palazzi cesarei, la capanna affumicata dell’Haiduco senza virtù; gli archi trionfali della vittoria, le armi grossolane del Morlacco senza esercito; i resti maestosi dei templi di Giove, le informi cappelle del cristianesimo; i bagni spaziosi dove la voluttà romana rilassava le grazie e la beltà, la paglia infetta su cui la dalmata avvilita riposa lontano dalla stima coniugale; in fine l’ossa-tura delle arti e il corpo deforme dell’ignoranza. Sono questi i contrasti il cui accostamento colpisce ad ogni passo il viaggiatore che percorre quelle contrade. Se egli studia le rovine, esse gli ricordano crimini ed er-rori; se studia gli abitanti, non vede che sofferenze e stupidità: e il suo cuore geme trovando l’uomo di tutti i secoli straniero alla felicità.Sono queste le riflessioni che necessariamente dovet-tero affliggere il cittadino Cassas in mezzo ai piaceri che offrivano al genio del pittore la dignità delle rovine e l’aspetto seducente dei luoghi. Ma non antici-piamo sull’ordine che ci siamo prescritti nel disporre le materie di cui ci è stata affidata la redazione. Per met-tervi un qualche metodo, daremo all’inizio una idea della situazione geografica di queste due province e della loro storia politica da quando sono conosciute. Entreremo poi in qualche particolare sugli Uscocchi, che negli ultimi secoli hanno attirata l’attenzione dell’Europa su queste province. Diremo una parola sui Morlacchi che, abitanti adesso di una terra che non fu loro culla, vi conservano ancora, nell’ombra delle loro valli felici, l’innocenza forse barbara, ma almeno senz’altro selvaggia, dei loro antenati perduti per noi nella notte dei tempi. In fine accompagneremo il cittadino Cassas nel cammino da lui seguito percor-rendo questa parte d’Europa; faremo conoscere sulle sue tracce i luoghi da lui visitati; e finiremo dando la spiegazione dei disegni che egli ha eseguito con tanta chiarezza quanto gusto. Cominciamo.

Inizia un viaggio affascinante

| Veduta di Pirano

la Vocedel popolostoria&ricerca sabato, 10 febbraio 2018 5 di Kristjan Knez

Un monumento librario dedicato all’istria

e alla dalmazia

La Libreria Svevo pubbLica La prima edizione itaLiana deL cLaSSico di JoSeph LavaLLée, redatto Secondo L’itinerario compiuto e diSegnato da LouiS-FrançoiS caSSaS (1756-1827), ScuLtore,

architetto, pittore paeSaggiSta, archeoLogo e antiquario viSSuto ai tempi di napoLeone e oggi conSiderato uno dei grandi interpreti

deLLa tranSizione daL neocLaSSiciSmo aL romanticiSmo

cozzare in un conflitto sanguinoso, nonché la dispersione di questi predoni, l’autore passa a descrivere i morlacchi. “Essi sono sparsi generalmente in tutta la Dalmazia, e principalmente fra le montagne della Dalmazia interiore: occupano le vallate di Cattaro, le sponde dei fiumi Kerka, Cettina e Narenta e si estendono verso l’Allemagna, l’Ungheria e fino verso la Grecia. Benché essi abitino la Dalmazia, i loro lineamenti, i loro usi e il loro linguaggio […] ne fanno una nazione molto distinta dagli indigeni ed è facile riconoscere che quegli uomini sono stati gettati su queste contrade da qualche grande evento politico la cui traccia è andata completamente perduta” (pp. 45-46).

Passa, quindi, agli aiducchi, evidenziando che la loro esistenza “è infinitamente più misera di quella dei Morlacchi. Per lo più esuli volontari dalla società per i delitti commessivi, essi portano con sé l’idea del castigo, e questa idea accresce la loro timidità. Non abitano che roccioni inaccessibili o precipizi ignorati. Là, esposti a tutti i tormenti della coscienza, perseguitati dai rimorsi, dal timore e dalla certezza di un bando eterno, in preda a tutte le intemperie delle stagioni, a tutto l’oscuro orrore delle caverne che occupano, ai lunghi morsi di una fame che non possono sempre soddisfare” (pp. 47-48). E continua: “Gli altri abitanti della Dalmazia e dell’Istria, anche se confusi con i Morlacchi, non hanno con essi la minima somiglianza: sono due nazioni perfettamente distinte, come ho già notato e come ha rilevato il cittadino Cassas durante il suo viaggio. I Dalmati propriamente detti sono Italiani, e soprattutto Veneziani in tutto il senso della parola. Ne parlano la

lingua, ne hanno i costumi, gli usi, la religione, l’arrendevolezza e l’astuzia […]. Così dunque, Italiani nelle città e nelle borgate costiere, Morlacchi in alcune isole e nelle valli, Haiducchi nelle montagne e nei deserti” (p. 60).

i morlacchi e il mito del buon selvaggioRipercorrendo la scia del mito del buon selvaggio, gli uomini di cultura del secolo dei lumi guardavano con interesse ai margini del vecchio continente e alle popolazioni a loro avviso primitive, arretrate e non ancora corrotte dal progresso della civiltà. L’opera riprende, per certi versi, l’interesse manifestato da Alberto Fortis, che nel suo Viaggio in Dalmazia aveva prestato attenzione ai morlacchi, mentre la sua fortuna fu dovuta in buona parte al capitolo dedicato agli usi e costumi di quella popolazione. Anche l’autore patavino si era soffermato sui contesti interni di quella provincia veneziana, cioè l’ambiente montano, ove le comunità di pastori, cioè i morlacchi, coabitavano con gli aiducchi.Successivamente, anche altri autori dedicheranno interesse alle collettività non ancora investite dalla modernità. Ricordiamo che nel 1842 uscì il volume Memorie di un viaggio pittorico nel Littorale (sic) austriaco degli autori August Selb e August Anton Tischbein, le cui tavole furono commentate da Pietro Kandler, storico, archeologo ed erudito, il quale a proposito della popolazione istriana sottolineò: “Imperciocchè questa provincia, sebbene entro brevi confini ristretta, ha quanto altrove non si facilmente potrebbe vedersi riunito uomini d’ogni razza, di ogni linguaggio, friulani, veneti, istriani di dialetto veneto, istriani di dialetto italiano tutto proprio, tedeschi, carniolici, morlacchi, croati, valacchi, zingari, razze miste, razze che abbandonarono il natio linguaggio”.

da trieste fino a zaraLa seconda parte del volume accompagna il lettore in una sorta di viaggio virtuale, ripercorrendo le tappe compiute da Cassas. “Non si trattava che di disegnare alcune vedute di Trieste; ma il cittadino Cassas vide sulle coste istriane e dalmate ricchi avanzi dell’antichità; avvertì la utilità che poteva apportare alle arti e forse alla storia non chiudendosi nello stretto cerchio che gli si era tracciato […]. Risolse dunque di visitare le diverse località di quei paraggi, ancora ricchi di monumenti lasciativi dai Romani, e di rendere un servizio all’archeologia donando all’Europa vedute fedeli e ritratte con cura scrupolosa” (p. 64).Le tavole con le vedute di Pola, i suoi monumenti o dettagli di quest’ultimi sono presenti in gran copia. “I dintorni di Pola si annunciano con gli scogli e gli spuntoni di roccia che coprono interamente al rada in fondo alla quale giace la città. La rada è spaziosa e comoda:

è un largo bacino perfettamente incassato nella terra: il naviglio vi si trova al riparo dalle peggiori burrasche e da tutti i venti. Entrandovi, l’occhio è vivamente sorpreso dall’imponente spettacolo di un magnifico anfiteatro, uno dei più intatti e dei più bei monumenti che l’antichità ci abbia lasciato. La maestà di quella massa colossale, la piacevole verzura dei pendii da cui sembra coronato, la calma dell’onda che quasi ne bagna le mura e il cui specchio ne ripete l’augusta cerchia, la venerazione religiosa che la mano dei secoli imprime su muri che trionfano degli sforzi delle età, tutto porta nell’animo, a quell’aspetto imprevisto, un sentimento delizioso impastato ad un tempo di piacere, di meditazione e di melanconia, e del quale è difficile rendersi conto” (p. 73).Durante il rientro da Pola Cassas e i suoi compagni ripassarono davanti a Rovigno, nella città di Santa Eufemia si fermarono nuovamente, perché lo scirocco ostacolava la navigazione. “Cessato questo, si trovarono in piena bonaccia di fronte alla cittadina di Pirano, costruita su una penisola formata dal golfo Largone e da quello di Trieste. Ha un aspetto molto pittoresco: una lunghissima facciata di case costruite con eleganza orla la spiaggia bagnata dalle onde marine, mentre su un monticello posto quasi al centro della città si delinea piuttosto maestosamente la chiesa, con una torre o campanile molto alto e terminante in freccia, staccato dal corpo della chiesa. A sinistra, sulla cima di una montagna più alta, il cui pendio ripidissimo viene a spegnersi proprio dove finisce la città, si vedono le mura gotiche di un vecchio castello le cui cortine e le mura merlate danno nel paesaggio un effetto impressionante” (p. 109).Proseguirono quindi in direzione della città di San Nazario. “Levatosi il vento, i nostri viaggiatori continuarono la rotta e andarono a sbarcare a Capodistria, dove passarono solamente alcune ore. Questa città fu nota dai tempi più antichi, col nome di Egida. Si suppone, come Pola, fondata dai Colchi. Pallade ne era la divinità protettrice. In seguito lasciò il nome di Egida e preso quello di Giustinopoli perché, si dice, l’imperatore Giustino l’abbellì; benché io confessi che stento a capire per quale predilezione Giustino avrebbe beneficata questa città. […]. È una delle più importanti della parte dell’Istria fino a poco fa veneziana. Poggia su un’isola che fu congiunta alla terraferma con una strada sopraelevata lunga circa mezzo miglio. […] Le saline e il vino sono il ramo più importante del suo commercio. L’aria che vi si respira è, senza essere sanissima, molto meno malsana che nelle altre città marittime dell’Istria” (pp. 112-113).Nella parte dedicata a Trieste e al suo emporio leggiamo che la città: “è succeduta all’antica Tergeste, o meglio i suoi edifici, rinnovandosi lungo i secoli, hanno insensibilmente sostituito quelli dell’antica città. Non è dunque una città

moderna ricostruita sul posto di una città antica distrutta da qualche cataclisma del globo o da qualche evento politico. Si erge ad anfiteatro sul pendio di una montagna di cui il mare bagna i piedi. […]. Trieste, posta in fondo al golfo che porta il suo nome, non fu per lungo tempo che una semplice rada. La corte di Vienna, fra i voti che la sua politica costantemente formò per il proprio ingrandimento, pose anche quello di contare qualcosa fra le potenze marittime e di possedere quindi un porto militare. L’imperatrice Maria Teresa, abbracciando con ancora maggiore calore un progetto del quale i predecessori avevano solo intuito l’utilità senza metterlo in esecuzione, risolse di trarre vantaggio dalla posizione favorevole di Trieste e di farne un posto importante dove i vantaggi del commercio si trovassero riuniti a quelli di una marina imperiale” (p. 114).Le visite della riviera orientale dell’Adriatico orientale avvennero in vari momenti, Cassas e il suo compagno di viaggio toccarono parecchie località. Tra i centri dalmati riportiamo quanto leggiamo su Zara, definita “il luogo più considerevole che i Veneziani possedevano sul continente. È un baluardo contro cui i Turchi hanno fatto spesso potenti e inutili sforzi. Man mano che si avvicina a quella città, le isole che orlano la costa sembrano allontanarsene di più; il canale si allarga e la navigazione diventa meno pericolosa, soprattutto per i grandi bastimenti”. E aggiunge: “È costruita su una lingua di terra o penisola che era attaccata al continente solo da un istmo largo circa trenta passi, tagliato oggi da fossati, di modo che Zara comunica ormai con la terraferma solo per mezzo di ponti levatoi, e l’acqua del mare la circonda del tutto” (p. 133). Il capoluogo dell’ex provincia veneziana aveva colpito per la presenza di costruzione di ampia mole risalenti all’età della Serenissima. “In generale tutti gli edifici pubblici sono magnifici a Zara. Tra gli arsenali di terra e di mare, i magazzini del porto, gli ospedali civili e militari, le caserme, i palazzi del provveditore, perché ce n’erano due, uno in città e l’altro nella cittadella, e questo ultimo era la sua abitazione ordinaria. Il porto è molto vasto, comodo per le navi e difeso da forti batterie” (p. 134).

per finire: Salona, clissa, la cettinaNon mancano le descrizioni di Sebenico, “la piazza più forte della Dalmazia” e del fiume Krka con le cascate a Scardona, Traù, l’isola di Bua. Particolare attenzione è dedicata alla città di San Doimo. “Entrando nella baia si scopre Spalato, e non c’è veduta più imponente di quella. Da principio le prime masse che colpiscono lo sguardo sono le alte e lunghe muraglie che chiudono il lazzaretto, vengono da una parte ad allacciarsi al gran molo che abbraccia il porto, dall’altra vanno a unirsi alle fortificazioni della città, e sembrano esse stesse un immenso e formidabile bastione con cui si fosse voluto coprire Spalato da questa parte. In faccia e sui fianchi del lungomare che affianca il porto rinchiuso fra il grande e il piccolo molo si sviluppano, con una maestà davvero indescrivibile, i resti augusti del lungo e vasto colonnato che decorava la facciata a mare del palazzo di Diocleziano, e dà in anticipo una idea di quel colosso di architettura, soprattutto a quanti sanno che quel colonnato occupa una delle facciate corte del parallelogramma che forma il palazzo” (pp. 176-177). Ampio spazio è riservato al palazzo di Diocleziano, “uno dei più grandi frammenti della antichità posseduto dall’Europa”, aggiungendo “è impossibile non rimpiangere che sia stato consentito di innalzare edifici moderni nell’interno di quel palazzo” (p. 187).Cassas proseguì il viaggio a Salona, a Clissa, alle cascate del fiume Cettina. Nelle pagine finali del volume Lavallée riporta ciò che Cassas aveva registrato nel corso del suo primo passaggio a Trieste. Le tavole e le descrizioni si soffermano sul castello di Lueg (Predjama, non lontano da Postumia), quello di Novoscoglio (Školj), il corso del Recca (Reka) e il fenomeno carsico di San Canziano. “Lì termina anche il viaggio del cittadino Cassas. Le arti gli dovranno riconoscenza eterna perché per loro amore ha trionfato delle fatiche e dei pericoli inseparabili da un percorso di cinque o seicento leghe. Pochi uomini infatti sarebbero stati in condizione di cogliere con matita più abile, e meglio diretta dal gusto, i sontuosi resti dei monumenti con cui i Romani avevano arricchito quelle contrade; e nessuno forse avrebbe reso con maggiore grazia e realtà i siti o singolari o incantevoli o sorprendenti che la natura – sempre più ricca, sempre più varia nelle sue concezioni della fantasia umana – ha prodigato a quelle rive tanto poco descritte, tanto poco conosciute fino a oggi. È fortuna per la mia patria che le circostanze abbiano voluto che un viaggio, la cui idea fu dovuta all’imperatore Giuseppe II e i cui risultati dovevano appartenergli, si sia interamente rivolto a beneficio della repubblica francese” (p. 275).

| Veduta di Pirano

storia&ricerca6 sabato, 10 febbraio 2018 la Vocedel popolo

PILLOLE di Rino Cigui

Fin dalla nascita dell’agricoltura i cere-ali hanno svolto un ruolo fondamentale nell’alimentazione umana e anche oggi,

soprattutto nella loro forma integrale, contri-buiscono a migliorare le difese immunitarie, riducono i processi infiammatori, proteggono le cellule dai radicali liberi e molto altro ancora. In determinate condizioni, però, i ce-reali possono essere soggetti a muffe che, a loro volta, producono le cosiddette micotos-sine, sostanze chimiche tossiche che possono provocare grandi epidemie sia nell’uomo sia negli animali. Una di queste calamità fu certamente quella dovuta all’ergotismo, che segnò per secoli la storia europea a causa dell’enorme numero di vittime di cui fu re-sponsabile.Mal degli ardenti, ignis sacer (fuoco sacro), fuoco di Sant’Antonio, fuoco infernale, ergo-tismo furono solo alcune delle denominazioni attribuite nel corso dei secoli a questa malat-tia misteriosa che assunse sovente dimensioni epidemiche, colpendo, dall’alto medioevo fino al XX secolo, ampie fasce della popolazione europea. Il male rivestì nei secoli un’im-portanza tale da essere annoverato fra le tristemente famose pestilenze e fu sospettato di essere una patologia altamente infettiva e diffusa quando, in realtà, la sua trasmissione non avveniva attraverso l’uomo ma a causa della contaminazione di cereali ingeriti.Il flagello apparve soprattutto nei periodi di grande carestia, di prolungate anomalie climatiche, di disordini sociali infierendo principalmente sugli strati meno abbienti della popolazione e fu solamente allo spirare del XVIII e nel corso del XIX secolo che venne definitivamente chiarita l’eziologia della terri-bile affezione, attribuita al consumo ripetuto del pane di segale e prodotti derivati conta-minati da un fungo ascomicete.

Cattiva, buona soltanto a tener elontano la fameÈ risaputo che nel mondo romano, il fru-mento era diventato il cardine della produzione cerealicola, un prodotto molto pregiato destinato al mercato urbano da cui dipendeva la gran parte delle scelte agricole. Ad ogni modo, dopo la crisi del III secolo, af-ferma lo storico italiano Massimo Montanari, la coltivazione del prezioso cereale subì una notevole contrazione e le piccole quantità prodotte furono destinate prevalentemente alle classi alte, laddove il resto della popo-lazione cominciò a preferire granaglie quali orzo, avena, farro, miglio, spelta, segale, di qualità notevolmente inferiore ma dal rendi-mento più sicuro.Fu comunque la segale, già conosciuta in ambiente latino e giudicata da Plinio il Vecchio “decisamente cattiva, buona soltanto a tener lontana la fame”, a conoscere, dal basso medioevo, un’ampia diffusione grazie alla sua capacità di crescere su ogni tipo di terreno e soprattutto di ridurre al mi-nimo i rischi del raccolto. In breve tempo essa conobbe una tale fortuna da diven-tare il cereale più coltivato nell’Europa centro-settentrionale, mentre nelle aree più meridionali del continente, dove persisteva

ancora il modello economico romano, la coltura del frumento continuò a essere fru-ibile da una fascia socialmente più larga di popolazione.

I danni causati da un fungo parassitaPur trattandosi di una graminacea robusta, anche la segale non fu totalmente immune da intossicazioni e contaminazioni, che si ma-nifestarono puntualmente dopo una stagione umida e quando un’estate calda e secca era preceduta da una primavera molto piovosa, specialmente se cresceva in aree paludose e all’ombra. Tali condizioni climatiche favori-rono la proliferazione nelle spighe del cereale di un fungo parassita denominato Claviceps purpurea, il quale, una volta ingerito, provo-cava una malattia gravissima e spesso letale chiamata ergotismo (dal francese ergot, spe-rone, che indica le escrescenze a forma di corna della segale), i cui sintomi, spaventosi e dolorosissimi, si manifestavano dopo alcune settimane se non addirittura mesi. Alcuni di questi furono descritti dal cronista Sigiberto di Genbloux in occasione della terribile epi-demia che, nel 1089, infierì nella regione francese della bassa Lorena: agli ergotati le carni cadevano letteralmente a pezzi, “come li bruciasse un fuoco sacro che divorava loro le viscere”, laddove le loro membra, rose dal male, diventavano nere come il carbone. Tra atroci sofferenze essi “morivano rapidamente oppure continuavano, privi dei piedi e delle mani, un’esistenza peggiore della morte; molti altri si contorcevano in convulsioni”.Questa descrizione è importante perché già all’epoca furono individuate le due forme assunte dal male: quella gangrenosa, caratte-rizzata da forti dolori agli arti con successivo distacco dal corpo, prurito, crampi, sensa-zione di bruciore e poi di freddo intenso; e quella convulsiva, con amnesia, allucina-zioni, delirio, demenza, eruzioni cutanee, paralisi, coma e morte per asfissia. Furono proprio i fortissimi bruciori agli arti avvertiti dagli ammalati a giustificare il nome di fuoco sacro o fuoco di Sant’Antonio dato all’affe-zione, poiché quando le popolazioni infette si recavano in pellegrinaggio al santuario del santo per ottenere la guarigione, il cambia-mento del tipo di alimentazione determinava l’attenuazione o addirittura la scomparsa del male, subito interpretata dalla credenza po-polare come un evento miracoloso. Oggi con tale denominazione è invece indicata l’infe-zione virale da Herpes zoster causata dal virus della varicella infantile, che colpisce la cute e le terminazioni nervose e la cui sintomatologia principale è rappresentata dall’intenso bru-ciore della zona del corpo interessata.

Da Roma al MedioevoNel Medioevo la patologia colpiva chiunque ci cibasse con il pane contaminato dal fungo parassita, ma fu ben presto evidente come a farne le spese fossero soprattutto le classi sociali più basse, le quali, vivendo in aree rurali disagiate e depresse, erano costrette a fare del pane e degli altri prodotti simili l’a-limento basilare della loro dieta giornaliera.

| Pieter Bruegel il Vecchio, Gli storpi (1568)

| Matthias Grunewald, La tentazione di S. Antonio (1512-1516)

IL «MAL DEGLI ARDENTI»L’ergotismo, tuttavia, non costituì solo una piaga medievale, ma probabilmente condi-zionò la storia e la salute dei popoli più di quanto normalmente si crede. Già gli antichi romani pare fossero a conoscenza dell’infe-zione: nelle Georgiche il poeta latino Publio Virgilio Marone menzionò alcuni tratti della malattia quando descrisse i sintomi provocati da una morte “non naturale” che aveva col-pito “le malghe del Norico alle pendici delle Alpi altissime e i campi del Timavo”, mentre alcuni studiosi ritengono che l’infezione fosse ricor-data anche dal grande medico greco Galeno di Pergamo nella sua opera “Alimentorum fa-cultatis”, quando alludeva alla comparsa in alcuni individui di emicranie e ulcere da lui attribuite a un non meglio identificato agente che infestava il grano.Ad ogni modo, le prime notizie certe d’in-tossicazione da segale cornuta riguardano la Francia e datano intorno al 590 dell’era cristiana, dopodiché il male scomparve per quasi due secoli prima di riapparire nuova-mente nell’857. Da allora, il terribile flagello imperversò frequentemente e sotto forma di epidemie in Francia, Germania, Russia, Inghilterra e negli altri paesi dell’Europa set-tentrionale e si fecero sempre più numerose le raccapriccianti descrizioni d’individui col-piti da un fuoco misterioso che bruciava le loro membra rendendole “simili a carboni diventati neri”.

storia&ricerca 7sabato, 10 febbraio 2018la Vocedel popolo

Il flagello apparve soprattutto neI perIodI dI grande carestIa, dI prolungate anomalIe clImatIche, dI dIsordInI socIalI InfIerendo prIncIpalmente suglI stratI meno abbIentI della popolazIone

la fame del medioevo favorisce la malattiaLa fame funse probabilmente da incentivo alla diffusione dell’ergotismo, anche perché l’inclemenza climatica che contraddistinse gli ultimi secoli del primo millennio generò una lunga serie di congiunture che si abbatterono pesantemente sulla popolazione. Nel periodo che va dalla metà dell’VIII al XII secolo furono infatti ben ventinove le carestie generali che colpirono il continente europeo, di cui quella del 1032-1033 fu senza dubbio una delle più tremende e agghiaccianti a memoria d’uomo. “La fame incominciò a diffondersi in ogni parte del mondo, minacciando di morte quasi tutta l’umanità – scrive Montanari citando un cro-nista dell’epoca – Ogni strato della popolazione fu colpito dalla penuria di cibo; ricchi e meno ricchi diventavano smorti per la fame quanto i poveri. Dopo essersi cibata di quadrupedi e uccelli la gente, sotto i morsi tremendi della fame, cominciò a prendere per nutrimento ogni sorta di carne, anche di bestie morte, e altre cose schifose. Taluni cercarono di sfuggire alla morte mangiando radici silvestri e piante acquatiche, ma inutilmente: non si trovava scampo all’ira vendicatrice di Dio. In quel tempo la furia della fame costrinse gli uomini a divorare carne umana, come solo di rado si era sentito in pas-sato. In innumerevoli luoghi perfino i cadaveri furono dissepolti e usati per calmare la fame”. E fu proprio per contrastare la fame che, dal basso medioevo, si cercò di incoraggiare la coltivazione della segale, la cui diffusione coincise con la contemporanea estensione delle epidemie di ergotismo. Visto il largo con-sumo che si faceva del pane nero ricavato dal cereale, troppo spesso intossicato dal fungo, furono le classi sociali meno abbienti a patire di più l’infezione, poiché era il solo che i po-veri potevano permettersi a causa dell’elevato costo della farina di frumento. Fu così che, suo malgrado, il pane divenne un elemento di differenziazione tra le classi sociali e, al con-tempo, una sorta di ago della bilancia da cui dipendeva la contrazione o meno della ma-lattia.

Indemoniati e stregoneriaEssendo ignota all’epoca la causa scatenante l’affezione, questa fu generalmente inter-pretata come la punizione divina per una condotta immorale e dissoluta oppure attri-buita a una possessione del corpo da parte del demonio. In effetti, se pensiamo alle convul-sioni, allucinazioni e delirio che gli intossicati manifestavano quando erano colpiti dalla forma convulsiva del male, non sorprende che i poveretti fossero creduti degli indemoniati e non di rado si ricorse a pratiche esorcistiche nel disperato tentativo di liberarli dall’in-fluenza maligna. Alcuni studiosi ritengono pure che il fenomeno della stregoneria, perdu-rato nell’occidente cristiano dalla fine del XV agli inizi del XVIII secolo, sia in parte da attri-buire alla contaminazione da segale cornuta, vista la sua maggiore concentrazione proprio nelle zone dove il consumo del cereale era prevalente. La condizione sanitaria, tuttavia, tornò a migliorare quando nella dieta quoti-diana della popolazione riprese ad aumentare

la percentuale di frumento utilizzato e dimi-nuì quella degli altri cereali, principalmente della segale.

curare il «fuoco cattivo»Considerato l’alone di mistero che avvolgeva la malattia e, soprattutto, l’impossibilità di cu-rarla, alla popolazione non rimase altro che ricorrere all’intercessione di Dio, della Vergine e dei Santi, in particolare di Sant’Antonio abate, le cui reliquie, su consiglio di papa Urbano II, furono custodite dall’XI secolo nella chiesa di La Motte de St. Didier nel Delfinato (Francia), meta continua di pellegrini che invocavano la guarigione. In onore del santo nacque l’Ordine dei Frati di Sant’Antonio con il preciso compito di soccorrere e assistere gli ammalati, che ben presto si diffuse in molte nazioni dove furono fondati numerosi ospedali.La credenza nel potere taumaturgico delle reliquie di Sant’Antonio non fu tuttavia l’u-nico metodo di cura degli ergotati, poiché i trattamenti medici prevedevano sia interventi chirurgici di asportazione degli arti infetti sia l’uso terapeutico di erbe e piante. Sappiamo, ad esempio, che la piantaggine era utilizzata per la sua capacità di bloccare le emorragie e favorire la guarigione delle ferite, mentre le foglie di assenzio cotte con olio e il cipresso mescolato con farina di orzo e aceto erano anch’esse consigliate quale espediente con-tro il “fuoco cattivo”. Tra i rimedi del tempo non poteva mancare la famosa mandragora, reputata nel Medioevo una pianta dalle virtù magiche, la cui radice essiccata o usata come talismano era particolarmente raccomandata per la tutela degli ammalati. Erbe e piante co-stituivano, inoltre, gli elementi base per altri due preparati contro l’ergotismo, l’unguento di Sant’Antonio e il cosiddetto orvietano, una sorta di antidoto composto da sostanze vege-tali, animali e minerali in uso dalla fine del Cinquecento e ritenuto valido contro ogni tipo di avvelenamento.

l’ergotismo ferma pietro il grandeLe intossicazioni da segale cornuta continua-rono a manifestarsi anche in età moderna e nel 1722 infersero un duro colpo alle aspi-razioni espansionistiche di Pietro il Grande. Quell’anno, infatti, lo zar di tutte le Russie partì con l’esercito alla conquista della Turchia, ma una volta giunto sulle rive del Volga i soldati cominciarono a morire per essersi cibati con il pane fatto da farina di se-gale contaminata. Salvatosi miracolosamente, lo zar dovette abbandonare l’impresa, che fu portata a termine cinquant’anni dopo dalla za-rina Caterina II. Per tutto il secolo, la malattia continuò a provocare vittime principalmente nei paesi dell’Europa centrale e settentrionale, tradizionalmente più esposti all’infezione, ma, a fine secolo, casi di ergotismo accaddero pure a Milano nel 1795 e a Torino nel 1798 e non è da escludere che le violente manifestazioni di panico occorse in occasione della Rivoluzione Francese siano da associare al consumo di se-gale cui fu costretta la popolazione a causa della grave congiuntura alimentare di quegli anni.

La scoperta, nel XIX secolo, della relazione intercorrente fra la contaminazione della segale da parte del fungo parassita e la comparsa della malattia, non portò immediatamente alla scomparsa delle epidemie di ergotismo, che si spensero progressivamente solo nel corso del XX secolo. Le ultime manifestazioni di un certo rilievo si ebbero nel 1926 in Russia con oltre undicimila ammorbati, nel 1929 in Irlanda, nel 1951 nella località francese di Pont Saint-Esprit, a qualche decina di chilometri da Nimes. L’episodio, passato alla storia come “L’affaire du pain maudit” (Il caso del pane maledetto), avvenne nell’estate del 1951 e causò la morte di sette persone, mentre furono cinquanta i pazienti ricoverati in psichiatria e duecentocinquanta gli individui che accusarono sintomi molto seri. Quasi tutte le persone che avevano ingerito il pane avariato si riversarono nelle strade colti da violenta isteria, allucinazioni, stato confusionario e disperazione.Si capì immediatamente che ci si trovava al cospetto di un’intossicazione alimentare da ergotismo, che fu per altro confermata dal laboratorio di tossicologia di Marsiglia. Individuato il responsabile nel mugnaio Maurice Maillet, sfuggito al linciaggio grazie all’arresto, questi confessò alla gendarmeria di aver utilizzato della farina di segale, evidentemente contaminata, in aggiunta a quella di frumento per risparmiare circa duemila franchi sulla fornitura. L’intossicazione era stata particolarmente virulenta perché la maggior parte della farina era stata venduta proprio in quella località.

Il caso del pane maledetto

| Nell’estate 1951 in Francia esplose l’“affaire du pain maudit”, che causò la morte di sette persone

| Il pane, Taccuino Sanitatis Casanatense (XIV sec.)

| Rogo di streghe in una stampa del XVI secolo

IL «MAL DEGLI ARDENTI»

storia&ricerca8 sabato, 10 febbraio 2018 la Vocedel popolo

Anno 14 / n. 111 / sabato, 10 febbraio 2018

Caporedattore responsabile f.f.Roberto Palisca

Redattore esecutivoIlaria RocchiImpaginazioneBorna Giljević

la Vocedel popolo

IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina

Edizione STORIA

CollaboratoriRino Cigui, Piero Delbello, Kristjan Knez, Luana Matassi, Gianfranco MiksaFotoGoran Žiković

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InIzIAtIvE

Il mARTIRe delle fOIbe

IN NOME DI DIO, AL SERVIZIO DEL POPOLO. omAggIo A don BonIFACIo, A dIECI AnnI dAllA BEAtIFICAzIonE, In un pERCoRso AllEstIto dAll’IRCI, In CollABoRAzIonE Con l’AzIonE CAttolICA dI tRIEstE

La mostra di quest’anno per il 10 feb-braio, Giorno del Ricordo, con il titolo In nome di Dio, al servizio del popolo,

l’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (Irci), in collaborazione con l’Azione Cattolica di Trieste, la dedica a don Francesco Bonifacio, il pretino di cam-pagna di Villa Gardossi (in Istria), che venne prelevato dalle guardie del popolo titine l’11 settembre 1946, torturato ed infoibato. Don Bonifacio è stato proclamato Beato esatta-mente 10 anni fa nel 2008, da Benedetto XVI. “Nella mostra chiamiamo idealmente Lui, che è il martire più alto, ucciso in odium fidei, a testimone di tutti i nostri morti di quei terri-bili anni”, dichiara il presidente dell’Istituto, Franco Degrassi. La figura di don Bonifacio, il suo martirio ad opera del comunismo, co-stituiscono un simbolo importante di tutta la tragica vicenda di foibe e di esodo e stanno a confermare come lo strumento della persecu-zione religiosa abbia svolto un ruolo rilevante nella “politica del terrore” realizzata dal re-gime jugoslavo. Curata da Piero Delbello, si potrà visitare presso il il Civico Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata di via Torino 8, fino al 4 marzo.Il percorso espositivo, di forte impatto anche scenico, in un momento così particolare in cui tanto in Italia, quanto in Europa, è op-portuno ricordare personalità che sono state determinanti nella storia e nella nostra me-moria, recupera la figura di un sacerdote giustamente venerato non soltanto dagli esuli, ma anche dagli istriani di lingua e cul-tura slovena e croata e rimasto nel cuore di chi ebbe la fortuna di incontrarlo, contestua-lizza il suo tragico destino e quello dei tanti connazionali infoibati durante il secondo con-flitto mondiale e nel suo difficile e tormentato dopoguerra. Un periodo in cui centinaia di migliaia di italiani, istriani, fiumani e dalmati, furono costretti a lasciare le loro terre e tutti gli averi.Bonifacio era stato nominato da monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, cappellano di Villa Gardossi. Il sacerdote aveva operato in tutto il territorio parrocchiale, comprese le frazioni più lontane e i casolari più remoti. Insegnava dottrina a gruppi di bambini nei luoghi più isolati, nei cortili, nelle aie, nelle cucine coloniche, come si racconta. Visitava le case dei poveri, degli anziani e degli ammalati. “La sua parola disadorna, semplice ma efficace, piace alla gente”, viene precisato nei documenti che ripercorrono la vita del beato. Il sacerdote aveva mantenuto contatti costanti con il vescovo e coltivava i rapporti anche con i confratelli delle parrocchie vicine di Buie, Cittanova, di Grisignana, di Verteneglio e di Villanova di Quieto. Ogni sabato e vigilia di

| la locandina della mostra al museo di via torino | don Bonifacio, infoibato nel ’46 presso villa gardossi

festività, con qualunque tempo, si recava a Buie per confessare.Don Francesco affronta con coraggio l’ingar-bugliata e pericolosa situazione che si crea sin in quelle zone dal 1943: “Soccorre tutti, italiani e slavi, si interpone tra le parti in lotta per aiutare amici e nemici, per impedire esecuzioni sommarie, per dare sepoltura cri-stiana a quanti sono vittime dell’odio e delle vendette più feroci, per difendere le case e le proprietà dai saccheggi e dalla distruzione, per ospitare, a rischio della vita, fuggiaschi e sbandati”, si racconta. Ma, finita la guerra, si apre l’epoca degli odi etnico-nazionali e dell’occupazione titina con l’applicazione del comunismo sovietico contro la religione, la chiesa, i sacerdoti e i fedeli. Il sacerdote, che continua a prodigarsi nella sua opera pasto-rale, entra presto nel mirino degli jugoslavi.Era la sera dell’11 settembre 1946, e Bonifacio tornava verso casa percorrendo un sentiero in salita. Nel pomeriggio, in una

frazione della zona, aveva ordinato la legna per scaldare il focolare domestico durante i rigori dell’inverno. Più tardi era salito a Grisignana per trovare conforto nell’amici-zia che lo legava a un confratello, monsignor Luigi Rocco, e per ricevere l’assoluzione. Sulla via del ritorno il sacerdote venne fer-mato da due uomini della guardia popolare. Un contadino che era nei campi si avvicinò ai sicari e chiese loro di lasciar andare il suo prete, ma fu allontanato brutalmente e mi-nacciato perché non dicesse nulla di ciò che aveva visto. Poco dopo le guardie sparirono nel bosco. Il sacerdote fu spogliato e deriso, ma egli, a bassa voce, cominciò a pregare. Si rivolse al Signore e chiese perdono anche per i suoi aggressori. Accecati dalla rabbia, i due cominciarono a colpirlo con pugni e calci: don Francesco si accasciò tenendo il viso tra le mani, ma non smise di mormorare le sue invocazioni. I suoi carnefici tentarono di zittirlo scagliandogli una grossa pietra

in volto, ma il curato, con un filo di voce, pregava ancora. Altre pietre lo finirono. Da allora non si seppe più nulla di lui. Il suo corpo, dopo l’atroce esecuzione, scomparve, mai ritrovato. Quasi certamente fu gettato in una foiba. Aveva 34 anni.La prima notizia della uccisione di don Francesco risale al 21 settembre 1946 ed è vergata dal mons. Santin: “Fino ad oggi nulla si sa di lui. Le autorità (quelle degli occupanti jugoslavi) fingono di ignorare ogni cosa. La popolazione dice che è stato ucciso”. A Crassiza, nel luogo in cui fu ar-restato, nel 2016, è stato collocato un cippo commemorativo. Un altro sacerdote italiano vittima delle foibe, è don Angelo Tardicchio, parroco di Villa di Rovino, preso di notte dai partigiani titini e incarcerato a Pisino d’Istria. Fu ucciso e gettato in una cava di bauxite. Quando fu riesumato, si vide che gli avevano messo una corona di spine in testa, per ulteriore sfregio. (ir)

Viaggio tra oltre 1.600 metri cubi di masserizie mai ritirate dai proprietari

Si dipana tra mucchi di sedie ammassate, mobili di vario genere, oggetti di uso quotidiano, libri, giocattoli e centinaia di fotografie ingiallite, il percorso “espositivo” di Magazzino

18. Masserizie abbandonate dagli esuli giuliano-dalmati, come le loro terre, le case, i parenti. Dimenticate come per decenni è stata dimenticata questa triste storia italiana, che Italia, Croazia e Slovenia hanno in comune (anche se le ultime due stentano ancora a riconoscerlo). “Sembrano enormi portali di un castello, di una cittadella fortificata, i varchi di entrata al Porto Vecchio di Trieste. Un luogo, oggi, senza re, senza armati e senza popolo. Una roccaforte rimasta ferma ma che non smette di dar memoria su un tempo di traffici, di commercio e di industriosa attività – spiega Piero Delbello, direttore dell’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste, che organizza visite guidate al sito. Al vertice dell’Irci dal 1988, nato a Trieste da famiglie originarie di Cuberton di Grisignana e di Portole, della ricostruzione storica e della valorizzazione di questo vissuto, in tutte le sue sfaccettature, ha fatto un’autentica missione, che porta avanti con passione e competenza trascinanti –. Qua abita una memoria diversa: quella di chi visse in un’altra terra, quella d’Istria, di Fiume e si Dalmazia, una vita comunque ricca di attività e di quotidiano impegno, di fervore e di sacrificio, un’esistenza dura ma serena. Fino a quando tutto terminò.“Il Magazzino 18 ha grandi occhiaie vuote, finestroni giganti in facciata, con i vetri frantumati, e lunghi ballatoi, come luoghi di incontro che paiono fatti apposta per fermarsi a fare chiacchiere, e ti aspetti in un attimo che esca qualcuno a parlarti fuori da quelle tante porte, massicce, enormi. Sempre chiuse. Qui non ci abita nessuno: oltre c’è solo silenzio. Pure, se entri, cataste di attrezzi, seghe, pialle, martelli, chiavi inglesi, casse di pentole, e l’alluminio ancora è lucido, pacchi di carte, tante fotografie, e piatti, bicchieri, posate, ciotole … tutto ciò che stava in una casa o in una bottega, danno il segno di chi quegli attrezzi, ogni giorno, li usava, di chi a pranzo e a cena aveva davanti quel piatto, quel cucchiaio, di chi, allora, oltre la foto, c’era – prosegue Delbello –. File, che non finiscono mai, di letti e di armadi, di comodini e di cassettoni, di credenze e di tavoli, aspettano di essere disposti ancora nella stanza che a loro compete. Mille e mille sedie portano i nomi non scritti di chi là ci stava: è la tua sedia, quella di papà e quella di nonno e, più in parte, quella che avanza, è sicuramente di mamma. Quanti padri e quante madri senza nome! E quanti figli. Ma insomma: di chi è sta roba? A scorrere i quaderni che

a pacchi occupano le scansie, trovi le persone, i ragazzi veri: Degrassi, Almerigogna, Petronio … i nomi tradiscono l’origine anche senza un volto: Isola, Capodistria, Pirano … Vien da chiedersi dov’è finita la gente, dove sono oggi tutti quegli alunni? Torna più volte Petronio: Augusto Petronio e ci si domanda, come Manzoni, ‘chi era costui?’ Poi la vita è strana e, a volte, parli con qualche vecchio e scopri che era un giovane piranese di belle speranza che i suoi mandarono a Padova a studiare e che non riuscì neanche a fare l’esodo perché nei bombardamenti del 1944 in quella città ci lasciò la pelle. Esodarono le sue cose, portate dalla famiglia. Ma dopo, depositate nel magazzino, nessuno venne più a ritirarle. Hai voglia a dire che gli istriani si portarono via tutto ciò che potevano per rifarsi altrove quella vita che a casa ormai era perduta. Hai voglia a pensare che portarono via le cose per poi riportarle per quando sarebbero tornati. Si ripresero ciò che poterono. E se questo è vero per molti e per molte cose, quello che sta al magazzino 18 non fu ritirato da nessuno. Si muore, a volte, e non ci sono parenti (anche ci sarebbero ma, sventagliati in tutta Italia in cento e più campi profughi, chi li va a cercare?), si emigra pure, perché non basta essere esuli: se qua non ce n’è te ne devi andare ancora, vai via due volte, e in nave sali con la valigia, senza mobili. Esci da un campo profughi e nella casa che trovi non stanno due armadi: uno devi lasciarlo. Passare dalla vita alla morte o dalla vita ad un altro tipo di vita, trova la sua misura nelle masserizie abbandonate. È questo quello che si vede al Magazzino 18: una storia che si ferma, una vita che si blocca, come dopo l’eruzione di un vulcano. Resta tutto ma senza la vita. Come a Pompei”.A cura dell’Irci, Magazzino 18 riapre al pubblico dal 12 al 16 febbraio, ogni mattina con quattro visite gratuite, guidate da Delbello, in collaborazione con i volontari dell’Istituto (durano cca 45 minuti e si svolgono con i seguenti orari: 10, 10.45, 11.30 e 12.15; è necessario prenotarsi chiamando l’Irci, allo 0039 040 639188 o inviare una mail a [email protected] fornendo i propri dati)

Al Magazzino 18la Pompei istriana