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Darkness on the edge of town. La rappresentazione dei luoghi dell’abbandono e della violenza nello spazio pubblico della metropoli contemporanea nelle arti visive e nel racconto fotografico e cinematografico. 1975-2000 Darkness on the edge of town. The representation of places of social exclusion and violence in the public spaces of contemporary metropolis in visual arts, cinema and photography (1975-2000) RICCARDO DE MARTINO, GIOVANNI MENNA Oscurità ai margini della città: quella delle aree dismesse, delle periferie, delle discariche sociali, del crimine. La sessione ospita contributi dedicati al modo in cui le arti visive, la fotografia o il cinema nell’ultimo quarto del XX secolo hanno rappresentato la distanza tra lo spazio pubblico della città “ufficiale” e quello della città “reale”, hanno denunciato l’ingiustizia e l’emarginazione sociale, ma anche documentato la capacità di resistenza e la volontà di riscatto da parte delle comunità che abitano quei territori. “Darkness on the edge of town”: abandoned areas, suburbs, social dumping, crime. The session hosts papers dedicated to the way in which visual arts, photography and cinema in the last 25 years of 20th century represented the distance between the "official" city and the public spaces of the "real" metropolis and denounced social injustice, but also documented the will of resistance and ransom of the communities living in those territories.

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Darkness on the edge of town. La rappresentazione dei luoghi dell’abbandono e della violenza nello spazio pubblico della metropoli contemporanea nelle arti visive e nel racconto fotografico e cinematografico. 1975-2000

Darkness on the edge of town. The representation of places of social exclusion and violence in the public spaces of contemporary metropolis in visual arts, cinema and photography (1975-2000)

RICCARDO DE MARTINO, GIOVANNI MENNA

Oscurità ai margini della città: quella delle aree dismesse, delle periferie, delle discariche sociali, del crimine. La sessione ospita contributi dedicati al modo in cui le arti visive, la fotografia o il cinema nell’ultimo quarto del XX secolo hanno rappresentato la distanza tra lo spazio pubblico della città “ufficiale” e quello della città “reale”, hanno denunciato l’ingiustizia e l’emarginazione sociale, ma anche documentato la capacità di resistenza e la volontà di riscatto da parte delle comunità che abitano quei territori.

“Darkness on the edge of town”: abandoned areas, suburbs, social dumping, crime. The session hosts papers dedicated to the way in which visual arts, photography and cinema in the last 25 years of 20th century represented the distance between the "official" city and the public spaces of the "real" metropolis and denounced social injustice, but also documented the will of resistance and ransom of the communities living in those territories.

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

 

“Le muse inquietanti”. Dalla celebrazione del Regime all’esaltazione della violenza: luoghi tra Roma e l’Agro Pontino

“The disturbing muses”. From the celebration of the Regime to the exaltation of violence: places between Rome and Agro Pontino GEMMA BELLI Dipartimento di Architettura DiARC – Università degli studi di Napoli Federico II Abstract Dalla spesso citata scena dell’aggressione a Hanna Schygulla e Isabelle Huppert in Storia di Piera, alle forti immagini di Suburra, negli ultimi decenni, in svariate occasioni, il cinema drammatico italiano ha ambientato storie di violenza e criminalità in luoghi originariamente progettati per la celebrazione del Regime e la costruzione del consenso, come l’E42, immenso quartiere espositivo pensato come polo di espansione della capitale verso sud-ovest, oppure le città nuove dell’Agro Pontino. Le architetture metafisiche, le strade e le piazze silenziose sembrano, infatti, in grado di dare forma fisica a situazioni di malessere sociale, rendendo tali ambienti urbani lo scenario ideale di tanti racconti di crudeltà, emarginazione o ingiustizia. Brani della propaganda fascista sono così divenuti veri e propri simboli dell’oscuro. From the often quoted scene of the aggression to Hanna Schygulla and Isabelle Huppert in Storia di Piera, to the strong images of Suburra, in recent decades, on several occasions, Italian drama has set stories of violence and crime in places originally designed for the celebration of the Regime and the building of consensus, such as the E42, a huge exhibition district conceived as a pole of expansion of the capital towards the south-west, or the new cities of the Agro Pontino. With their metaphysical architectures, silent streets and squares, such urban environments have in fact become the ideal scenario of many stories of cruelty, emargination or injustice, giving physical form to social malaise situations. Passages of fascist propaganda are therefore changed into true symbols of the obscure. Keywords Urbanistica negli anni del Fascismo, Eur, città nuove dell’Agro Pontino. Urbanism in the years of Fascism, Eur, new cities of the Agro Pontino.   Introduzione: cinema e luoghi Inizialmente espressione dello shock che caratterizza l’esperienza sensoriale del soggetto metropolitano [Walter Benjamin cit. in Minuz 2011, 12], a poco a poco il cinema ha incamerato il senso dell’alienazione metropolitana, le dinamiche culturali e i bisogni sociali, includendoli in una più vasta narrazione collettiva [Brancato 2002, 139]. Successivamente è divenuto pratica per riscrivere, manipolare e organizzare spazio e luoghi, tramite immagini significanti concepite in relazione a sistemi di lettura, anche differenti da quelli originari delle architetture. Così, se le pellicole neorealiste hanno fatto irruzione nella città mostrando spazi per la loro capacità di proporsi come tipi e campioni significativi della realtà ordinaria e della condizione urbana italiana, in tempi recenti i film hanno intenzionalmente esibito le architetture come forme simboliche, in una direzione che non necessariamente condivide i

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valori, i significati o le intenzioni disciplinari delle opere, ma indaga sul loro esito, ne prende atto ed eventualmente lo restituisce faziosamente, attribuendogli codici e contenuti pure completamente differenti. Un processo simile ha interessato luoghi originariamente progettati per la celebrazione del Regime e la costruzione del consenso, come l’E42 (poi Eur) o le città nuove dell’Agro Pontino. Oggetto di riprese filmiche sin dai primi cinegiornali Luce, orientati a esaltare la modernità del Fascismo, a partire dagli anni Ottanta tali spazi iniziano a essere indagati e rappresentati con uno sguardo nuovo, anche in concomitanza con i grandi mutamenti che investono la città, trasformandone modalità di rilievo e interpretazione [Bisciglia 2013, 3]. 1. Luoghi simbolo del Fascismo: l’E42 Nato per ospitare l’Esposizione Universale di Roma, e concepito come una città di fondazione, l’E42 ha il compito di promuovere all’estero l’immagine dell’Italia e le sue capacità di “rinnovamento”. Com’è noto, il piano di massima è redatto da Giuseppe Pagano, Marcello Piacentini, Luigi Piccinato, Ettore Rossi e Luigi Vietti, ma quello definitivo, elaborato nel 1938, è frutto della mano del solo Piacentini, il quale, come nella Città universitaria, si impegna a conferire unità alle architetture, i cui concorsi, banditi tra il 1937 e il 1938, vedono la partecipazione di molti protagonisti del dibattito architettonico italiano. Le linee semplici e le masse grandiose avrebbero dovuto esprimere i caratteri essenziali dell’arte romana e italiana; classico e monumentale avrebbero dovuto coniugarsi con il funzionale, raccogliendo l’eredità architettonica dell’urbs, e realizzando il manifesto di una nuova grandezza della capitale, desiderosa di espandersi e di modernizzarsi. L’E42 nasce quindi come un segno che racchiude un sogno [Carli, Mercurio, Prisco 2005]: «una città ideale (…) come Roma avrebbe dovuto e non [aveva] mai potuto essere, (…) [capace] di ricomporre in forma armonica (…) i contrasti e i salti di scala della Roma reale» [Muntoni 1995, 130]: «dopo la Roma delle Origini, quella dell’Impero e quella della Chiesa, è l’ora della Roma di Mussolini. [E] l’E42 diviene la sintesi e il simbolo di questa quarta Roma» [Ciucci 1989, 177]. Da subito i suoi spazi iniziano a essere frequentati dal cinema di ogni genere. Nel dopoguerra Roberto Rossellini vi gira la scena clou di Roma città aperta (1945), in cui Anna Magnani cade sotto i colpi dei mitra lanciando il suo grido di ribellione. Successivamente i peplum vi ambientano intrighi di gladiatori e messaline, e i B movies ne fanno un set privilegiato: il quartiere, infatti, offre al contempo architetture che consentono di rituffarsi nella romanità invocata in origine, e spazi capaci di interpretare il futuro. Negli stessi decenni Michelangelo Antonioni e Federico Fellini vi stabiliscono un particolare legame. Per il regista ferrarese l’Eur esprime appieno il malessere dell’incomunicabilità: le sue architetture si susseguono in una sorta di abaco privo di tessuto di comunicazione e i vuoti urbani – un inurbamento privo di abitanti, piuttosto che un paesaggio diradato – sono elementi portanti del disagio dei protagonisti e del loro silenzioso solipsismo. Attraversati e non posseduti, i luoghi diventano metafora di una condizione esistenziale in cui prevale il concetto di assenza e di solitudine, trasferendo un’idea drammatica dell’esistenza contemporanea [Santuccio 2001, 25]. Per il riminese, invece, l’Eur suggerisce un senso di libertà e di improbabilità; e la teatralità onirica del suo cinema sembra rispecchiarsi in modo spontaneo nella monumentalità metafisica del quartiere, anche se nei suoi film non sono gli edifici a essere monumentali ma le fantasie erotiche dei personaggi [Fellini 1973]. Con gli anni, però, il cinema drammatico italiano inizia a rileggere l’Eur come esito distorto della modernità, facendone una metafora visuale della società contemporanea, della sua tendenza all’individualismo e della sua violenza. Tale mutamento di sguardo sembra quasi essere preconizzato da Pier Paolo Pasolini ne La ricerca di una casa, quando scrive: «Mi

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era sembrata sempre allegra questa zona / dell’Eur, che ora è orrore e basta. / Mi pareva abbastanza popolare, buona / per deambularci ignoto, e vasta / tanto da parere città del futuro. / E chi siete, vorrei proprio vedervi, / progettisti di queste catapecchie / per l’Egoismo, per gente senza nervi, / che v’installa i suoi bimbi e le sue vecchie / come per una segreta consacrazione: / niente occhi, niente bocche, niente orecchie, / solo quella ammiccante benedizione: / ed ecco i fortilizi fascisti, fatti col cemento / dei pisciatoi, ecco le mille sinonime / palazzine “di lusso” per i dirigenti / transustanziati in frontoni di marmo, / loro duri simboli, solidità equivalenti» [Pasolini, 1964].

Spesso ripreso di notte, il quartiere e il suo obelisco fanno da sfondo alle vicende di Velocità massima, coraggioso film sul mondo delle corse e delle scommesse clandestine, girato nel 2001 da Daniele Vicari, proseguendo il discorso intrapreso due anni prima con il documentario Sesso, marmitte e videogames. L’obelisco è il traguardo delle folli gare notturne: un luogo riconoscibile e contemporaneamente un non luogo, fuori dal tempo e da ogni sentimento, da ogni tentazione di calore umano, proprio come i personaggi che si muovono nel “circo clandestino” delle notti con il motore rombante. I silenzi assordanti di Antonioni si sono trasformati in inquietanti scoppi di motore, e l’Eur è divenuto simbolo di una violenta realtà parallela con i suoi codici e suoi linguaggi, metafora della devianza collettiva di una società, delle sue forme di accumulazione e del culto verso gli oggetti (nella fattispecie le automobili). In Romanzo criminale (2005) di Michele Placido, il rigore e l’ordine razionale del

quartiere sono il gelido sfondo alla rievocazione del debutto della violentissima banda della Magliana. «Vedi quel palazzo? Tutto è cominciato lì, proprio lì dietro…»: così Freddo, impersonato da Kim Rossi Stuart, tornato nella capitale dopo una lunga latitanza all’estero, rievoca il furto della macchina che, in una notte di tanti anni prima, aveva segnato la nascita della gang. La lunga soggettiva notturna mostra i viali accanto al laghetto, le luci delle poche finestre illuminate rendono inquietante la notte romana, e l’Eur si fonde con il cielo nero e la foschia notturna, presagendo la morte cui è destinato l’uomo. Anche Suburra (2015) di Stefano Sollima, e Suburra, la serie (2017) di Michele Placido, Andrea Molaioli e Giuseppe Capotondi ambientano all’Eur alcune sequenze-chiave della vicenda narrativa, incentrata sulla sanguinosa lotta per il controllo della città, che vede coinvolti criminali, politici corrotti, esponenti delle forze dell’ordine e gerarchie ecclesiastiche: e così, accanto alle colonne del viale della Civiltà romana avviene il drammatico incontro tra il violento Aureliano Adani – interpretato da Alessandro Borghi – e la spietata banda dei nomadi. Ne Il siero delle vanità (2004) di Alex Infascelli, critica in chiave pulp al malcostume televisivo e alla spettacolarizzazione del reale, l’Eur è espressione di un mondo

1: Il popolo delle corse clandestine in Velocità massima e l’incontro lungo il viale della Civiltà romana in Suburra.

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2: Gianmarco Tognazzi nelle scene iniziali de Il Ministro. apparentemente perfetto, e contemporaneamente il contesto il cui sottosuolo ospita il lager delle vittime del mago-killer, interpretato da Rosario J. Gnolo: è quindi il simbolo di una realtà deforme. Nel grottesco Il ministro (2015) di Giorgio Amato, il quartiere fa da cornice allo squallido tentativo di corruzione da parte di personaggi-mostri, e dove il protagonista, Franco Lucci-Gianmarco Tognazzi, sceglie una tragica fine nell’indifferenza totale, persino del cane precedentemente smarrito. È quindi il regno del malessere che affligge la società contemporanea, con la sua ipocrisia, la sua corruzione, e la sua spaventosa insensibilità. Il “sermone funebre” pronunciato sulla decadenza di questa parte di Roma è in realtà rivolto all’intera Italia contemporanea, e in una sorta di sineddoche, la parte è eletta a rappresentare il tutto. 2. Luoghi simbolo del Fascismo: le città nuove dell’Agro Pontino Un’analoga prospettiva inquadra le città nuove dell’Agro Pontino. La storia è nota. In accordo con la politica antiurbana sostenuta da Benito Mussolini durante il discorso dell’Ascensione, nel 1928 viene varata la legge per la bonifica integrale che, ideata da Arrigo Serpieri, non si limita a programmare una tradizionale opera di drenaggio delle acque ma predispone un più articolato disegno di riqualificazione del territorio, di ridistribuzione dei terreni agricoli e di valorizzazione delle colture, una rete di infrastrutture viarie, nonché l’edificazione di nuovi complessi rurali. L’Opera nazionale combattenti inizia così a solcare l’Agro Pontino con strade rettilinee lungo le quali si attestano le unità coloniche. Anche in sintonia con l’attenzione prestata dalla cultura urbanistica negli anni tra le due guerre ai sistemi di decentramento urbano per nuclei satelliti, sono inaugurate le città nuove di Littoria nel 1932 (Latina dal 1946), Sabaudia nel 1934, Pontinia nel 1935, Aprilia nel 1937 e Pomezia nel 1939: territori di sperimentazione nei quali il confronto tra antico e nuovo, tradizione e modernità, monumentalismo e razionalismo, si manifesta in tutta la sua complessità. Nell’ambito dell’intera bonifica il loro ruolo consiste nel fissare riferimenti urbani, in mancanza dei quali si ritiene che la colonizzazione stabile possa fallire. I terreni appoderati vengono gestiti dall’Opera nazionale combattenti e assegnati a quelle famiglie che, tra le varie condizioni, abbiano avuto un reduce della Grande Guerra. La città deve ricordare ai coloni che la civiltà, nelle forme lasciate nelle vecchie terre, è presente anche nelle nuove, ed è inequivocabilmente di matrice urbana; essa simboleggia perciò l’insieme di istituzioni entro cui si inquadra il rurale, ma anche la vita collettiva del regime, e per costruirne l’immagine si attingono i segni dalla più fiorente e significativa stagione urbana: quella della città-stato comunale. Nell’immaginario cinematografico, una pellicola da prendere inconsiderazione per il mutato sguardo nei confronti delle città pontine è Storia di Piera di Marco Ferreri del 1983. Il film è la trasposizione dell’omonimo libro di Dacia Maraini e Piera degli Esposti: un cupo ritratto delle turbolente vicende della vita di quest’ultima e del suo complesso legame con la madre, la cui malattia mentale fa deragliare l’intera famiglia. Una storia psicologicamente densa e complicata, i cui tratti, secondo il regista, avrebbero potuto essere meglio leggibili

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3: Pier Paolo Pasolini a Sabaudia. su uno sfondo capace di operare un procedimento di astrazione e simbolizzazione narrativa, e di alleggerire il travaglio psichico del testo. Da qui la scelta di ambientare gli avvenimenti, nella realtà svoltisi nel parmense, a Latina, a Pontinia e a Sabaudia. Il vuoto interiore è un tema ricorrente nel film, e così tutto appare svuotato: piazze e architetture sono spesso deserte, e la luce usata per restituire immagini dechiricane esalta la solitudine. Affiorano chiavi di lettura differenti. Littoria mostra una sorta di impacciata grossolanità ed è eletta a fondale per la città dell’esterno e delle relazioni. Sabaudia, con il suo delicato equilibrio tra sfera urbanistica e architettonica, con la sua capacità di essere moderna ma contemporaneamente rurale e a misura d’uomo, con il suo forte rimando alla terra, è deputata ad accogliere, quasi proteggere, i rapporti più intimi dei protagonisti. In questo, sembra quasi che Ferreri accolga la suggestiva interpretazione di Pasolini e la forma della città (1974), pellicola in cui l’intellettuale indaga il rapporto progettuale che l’estetica della città intrattiene con i luoghi e i paesaggi di chi fa cinema [Leone 2010, 32], sostenendo che «Sabaudia ci appare miracolosamente bella, d’una strana purezza quasi esoterica, quasi esotica, orientale con quelle specie di torri che sembrano dei minareti nell’aria grigia. (…) La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assumesse un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico. Metafisico in senso veramente europeo della parola, cioè ricorda (…) la pittura metafisica di De Chirico, e realistico perché, anche vista da lontano, si sente che (…) la città è fatta, come si dice un po’ retoricamente, a misura d’uomo. (…) Dentro ci sono delle famiglie costituite in modo regolare, delle persone umane, degli esseri viventi completi, interi, pieni, nella loro umiltà». A Latina e Sabaudia, si contrappone Pontinia, teatro dell’aggressione notturna a Eugenia-Hanna Schygulla e Piera-Isabelle Huppert. La scena si svolge in piazza Roma: le due donne vi arrivano in bicicletta, e sullo sfondo della giostra incombe la monolitica torre dell’acquedotto di Oriolo Frezzotti e Alfredo Pappalardo. Da via Leone X, con tre macchine d’epoca, sopraggiunge un gruppo di bulli: la prospettiva inquadra la giostra, che da elemento di divertimento si trasforma in strumento dell’incubo, e il fronte laterale posteriore del campanile della chiesa di Sant’Anna, che assiste inquietante anche quando Piera scappa scalza, incitata dalla madre. È una scena in cui l’impotenza delle due donne sole e la cieca violenza del gruppo di uomini rendono l’azione surreale: e il luogo, che assiste silenzioso e impassibile al dramma, amplifica la brutalità dell’episodio.

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4: Piazza del Popolo a Latina e piazza Roma a Pontinia in Storia di Piera. Più di vent’anni dopo, anche il regista napoletano Palo Sorrentino sceglie Sabaudia, Latina e Pontinia, per ambientare lo squallore della storia della sua opera terza, L’amico di famiglia (2006): Geremia de’ Geremei, impersonato da Giacomo Rizzo. Un personaggio disgustoso, in apparenza proprietario di una piccola sartoria, in realtà un usuraio, circondato da personaggi non meno spregevoli. Il film è dunque il ritratto di un mondo malato, fatto di connivenze, nel quale anche i desideri, i sentimenti e le aspirazioni sono ormai marci: con esso il regista intende lanciare un deciso atto di accusa nei confronti di una società corrotta nel profondo. L’innaturale luminosità della fotografia di Luca Bigazzi inquadra i luoghi conferendo loro la stessa aura metafisica delle piazze raffigurate da De Chirico: e l’immagine forte che ne deriva, l’atmosfera “sospesa” e irreale delle città pontine è proprio il motivo per cui il regista napoletano le sceglie come ambientazione. La razionalità delle architetture di Sabaudia e del suo impianto rappresenta l’antidoto al caos.

5: Scena finale nella piazza del Popolo a Latina da L’amico di famiglia. Ma contemporaneamente le contraddizioni e le mescolanze e differenze culturali esistenti tra Latina e Sabaudia sono immagine della provincia italiana: una provincia malinconica, un territorio di mezzo, a metà strada tra Roma e Napoli, vicino ma al tempo stesso lontano dalle grandi metropoli, luogo di frontiera e crogiuoli di idiomi. Nel 2005 Luciano Melchionna ambienta a Latina la sua opera prima Gas, adattamento dell’omonima pièce teatrale. È un film esasperatamente allegorico, una critica feroce verso una gioventù allo sbando, egoista, priva di valori e moralità, anche per colpa di un mondo adulto, spesso incapace di relazionarsi con essa. Littoria è eletta a simbolo della provincia claustrofobica e violenta, del centro urbano un tempo nevralgico che si è trasformato in luogo di disfacimento e degrado, dove si tortura il prossimo fisicamente e metaforicamente, in un totale isolamento patologico che non risparmia nemmeno la famiglia. Si vede il quartiere ICP realizzato tra il 1933 e il 1940 da Giuseppe Nicolosi, espressione di una città nella città, estranea all’intero assetto urbanistico; ma appare

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6: Fotogramma da Razzabastarda. anche il cimitero, la cittadella dei morti. E soprattutto compare una periferia rappresentata come “impossibile”, dove, in un capannone dismesso, un gruppetto di giovani di differente estrazione sociale tortura un cinquantenne sequestrato durante la notte, un po’ per sfida, un po’ per orgoglio, nei fatti senza motivo: una ferocia gratuita, memore dell’Arancia meccanica di Kubrick. E che Latina a un certo punto possa diventare emblema di malessere morale, potrebbe anche essere legato a un diffuso giudizio di “bruttezza” sulla sua forma fisica: «la prima volta che ho visto Latina, l’ho trovata davvero brutta», confessa Pierluigi Cervellati, incaricato alla metà degli anni Novanta dal sindaco Ajmone Finestra di redigere il piano regolatore cittadino, approvato dopo un iter travagliato, ma mai adottato. Una vicenda riscostruita dal regista Gianfranco Pannone nel documentario Latina/Littoria (2001), dove spiccano due personaggi di orientamento ideologico opposto ma resi vicini dalle circostanze: il sindaco, ex combattente della Repubblica di Salò, condannato a morte dallo stato italiano per i crimini di guerra ma poi amnistiato, e lo scrittore Antonio Pennacchi. È il ritratto di una specifica provincia che allude a una stagione che investe l’intero paese. E, così, Alessandro Gassmann sceglie proprio un campo nomadi alle porte del capoluogo pontino per ambientare Razzabastarda (2013), film nel quale Roman – migrante di origini rumene impersonato dallo stesso regista, che vive in Italia da trent’anni, muovendosi tra gli ambienti dello spaccio di cocaina ed eroina – ambisce a dare al figlio Nicu un riscatto che nei fatti si rivelerà impossibile. È una storia cruda e disturbante, sottolineata da un bianco e nero incisivo, senza sfumature, che la fa rassomigliare a un fumetto tragico. Gassmann dichiara di avere scelto Latina per le sue tinte a volte fosche, per la sua multietnicità e i suoi angoli di “degrado” estremo: «un non luogo al di là della legge», dice, un’infinita e unica periferia in cui la componente multietnica risulta molto forte, ed è amplificata dalla piccola dimensione del centro. Conclusioni Per il cinema drammatico italiano degli ultimi anni, luoghi come l’E42 o le città pontine sono quindi divenuti delle forme simboliche, ovvero dei segni visibili cui è connesso un contenuto che si identifica con essi, e per il loro tramite acquista una sua compiuta

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determinatezza. Come nelle Muse inquietanti di Giorgio De Chirico, gli spazi urbani vuoti, le prospettive deformate, la luce innaturale, devitalizzano la realtà. Dando forma fisica a situazioni malessere sociale, brani della propaganda fascista si sono pertanto trasformati in veri e propri simboli dell’oscuro. Bibliografia BISCIGLIA, S. (2013). L’immagine della città nel cinema, Bari, Progedit. BRANCATO, L. (2002). Schermi. Cinema e metropoli da ‘Metropolis’ a ‘Matrix’, in Linguaggi della metropoli, a cura di V. Giordano, Napoli, Liguori, pp. 133-153. CARLI, F.C., MERCURIO, G., PRISCO, L. (2005). E42-EUR. Segno e Sogno del ’900, Roma, DataArs. CASAVOLA, M., PRESICCE, L., SANTUCCIO, S. (2001). L’attore di pietra. L’architettura moderna italiana nel cinema, Roma, Testo & Immagine. CIACCI, L. (1997). Il cinema degli urbanisti, Modena, Nuovagrafica di Carpi. Città pontine (2006), «ArchitetturaCittà: rivista di architettura e cultura urbana», n. 14. CIUCCI, G. (1989). Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Torino, Einaudi. DE ANGELIS, A. (2014). 1920-1940. Alla ricerca della città ideale. Utopie, distopie, ideologie, nostalgie e rimembranze dello spazio immaginato intorno all’“uomo nuovo”, Tesi di Dottorato in Scienze Archeologiche e Storico-artistiche, Università di Napoli Federico II, XXVI ciclo. DELLI COLLI, L. (2008). EUR è cinema, Roma, Palombi Editori. E42: utopia e scenario del regime (1987), a cura di M. Calvesi, E. Guidoni, S. Lux, Venezia, Marsilio. FELLINI, F. (1973). Fellini e l’Eur, intervista di Luciano Emmer, serie “Io e…”, RAI. FONTANA, V. (1999). Profilo di architettura italiana del Novecento, Venezia, Marsilio. INSOLERA, I. (2001). Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica 1870-1970, Torino, Einaudi. NUTI, L. (1988). La città nuova nella cultura urbanistica e architettonica del fascismo, in La costruzione dell’utopia. Architetti e urbanisti nell’Italia fascista, a cura di G. Ernesti, Roma, Edizioni lavoro, pp. 231-246. Terra di cinema: i luoghi del cinema della provincia di Latina (2010), a cura di Latina Film Commission, Latina. LEONE, D. (2010). Sequenze di città. Gli audiovisivi come strumento di studio e interpretazione della città, Milano, FrancoAngeli. MINUZ, A. (2011). ‘L’insieme dei luoghi di cui si fa esperienza’. La geografia culturale, il film e la produzione dell’immaginario, in L’invenzione del luogo. Spazi dell’immaginario cinematografico, a cura di A. Minuz, Pisa, Edizioni ETS, pp. 7-24. MINUZ, A. (2015). Spettri della modernità. Le architetture dell’Eur nel cinema italiano (1945-1970), in Esposizione Universale Roma. Una città nuova dal fascismo agli anni ’60, catalogo della mostra, Museo dell’Ara Pacis, Roma 12 marzo-14 giugno 2015, De Luca Editore, Roma. MUNTONI, A. (1995). Le vicende dell'E42. Fondazione di una città in forma didascalica, in ClassicismoClassicismi. Architettura Europa/America 1920-1940, a cura di G. Ciucci, Milano, Electa, pp. 129-143. PASOLINI, P. P. (1964). La ricerca di una casa, in Poesia in forma di rosa (1961-1964), Milano, Garzanti. RAVESI, G. (2011). La città delle immagini. Cinema, video, architettura e arti visive, Soveria Mannelli, Rubettino. VIDOTTO, V. (2001). Roma contemporanea, Roma-Bari, Laterza.

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Living on the edge of the world. Il New Jersey springsteeniano e la costruzione di un immaginario Living on the edge of the world. Springsteen’s New Jersey and the making of a collective imagination BARBARA ANSALDI Università degli Studi di Napoli Federico II VERONICA SCARIONI Università degli Studi di Milano Abstract È il 1973, Springsteen pubblica il suo primo album. In copertina una cartolina di Asbury Park con alcuni dei luoghi a lui cari, gli stessi che fanno da sfondo alle storie e nei quali si animano i personaggi narrati nei suoi testi. Ascoltare Springsteen è ascoltare il New Jersey, quello delle canzoni ma anche quello dei video clip, delle fotografie e delle copertine degli album. È il New Jersey delle periferie, delle luci di Atlantic City, delle spiagge di Asbury Park e dei locali rock, che si racconta e costruisce frammento per frammento un immaginario collettivo fatto di luoghi anonimi che diventano iconici. Luoghi appartati celati all’ombra delle grandi realtà metropolitane, luoghi dell’ingiustizia, degli amori sofferti e degli anti-eroi ma che incarnano il volto dell’altra America, tra le pieghe e dietro le quinte del sogno americano. Springsteen evoca immagini e brani di città che si fissano nitidamente nella mente, in un rimando continuo tra realtà, musica e contaminazioni cinematografiche e costruendo una vera e propria eterotopia foucaultiana. In 1973, Bruce Springsteen released his first album: on the cover there was a postcard of Asbury Park showing a few of his dearest places, the ones lying behind the stories told through his lyrics and in which his characters come to life. Listening to Springsteen means listening to New Jersey, the one he sings about in his songs, but also the one depicted in his music videos, photographs and album covers. With its suburbs, the Atlantic City lights, the Asbury Park shores and its rock clubs, New Jersey speaks about himself and builds, piece after piece, a collective imagination made of anonymous places that become iconic. Those are hidden places, concealed behind the shadow of big metropolitan cities; places where injustice, desperate lovers and anti-heroes live, places that embody the other face of America, in between and behind the scenes of the American dream. Springsteen evokes images and shreds of cities, which are firmly fixed in people’s mind, continuously swinging from reality to music and cinematographic contaminations, thus building a real foucauldian heteropia. Keywords Bruce Springsteen, New Jersey, immaginario, urbanscape, paesaggio americano. Bruce Springsteen, New Jersey, collective imagination, urbanscape, American landscape.

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BARBARA ANSALDI, VERONICA SCARIONI

Introduzione1 “Early North Jersey industrial skyline

I’m an all-set cobra jet creepin’ through the night time Gotta find a gas station, gotta find a pay phone

This turnpike sure is spooky at night when you’re all alone” Bruce Springsteen, Living on the Edge of the World (1979)

Nel corso dei suoi oltre 40 anni di carriera, Bruce Springsteen ha costantemente disseminato nei testi delle sue canzoni città, quartieri, strade, highways, case, fabbriche, drive-ins, spiagge, boardwalks, locali e ogni sorta di luogo urbano. Questo immaginario di luoghi, la maggior parte dei quali ispirati o appartenenti alla sua terra d’origine, il New Jersey, costituisce un tratto caratteristico e fondamentale dell’identità artistica del cantautore americano. Che siano spazi realmente esistenti (e.g. Pinball Way), immaginari ma verosimili (e.g. Waynesboro) o spazi generici semplicemente evocati (e.g. “the river”), essi si configurano come un fondale metaforico che accoglie e, in molti casi, rispecchia lo status emotivo, economico e sociale dei personaggi che li abitano, nonché le loro speranze, prospettive e sogni, spesso irrealizzati. Joe, Terry, Mary – anti-eroi della contemporaneità – si muovono all’interno di un New Jersey travagliato e conflittuale, sospeso tra volontà di riscatto e disagio sociale. Un New Jersey di cui Springsteen riesce a rendere una nitida fotografia, diventandone il “cantore” per eccellenza. Bob Crane mette in luce questa stretta relazione tra i luoghi e i retroscena dei personaggi, descrivendo come «Springsteen lega le voci dei suoi personaggi ai paesaggi in cui si trovano, con potere metaforico e rivelazione» [Crane 2002, 339]. Non a caso il suo primo album è intitolato Greetings from Asbury Park, New Jersey (1973): il titolo stesso suggerisce che le storie raccontate in esso sono lo specchio della vita dell’artista ad Asbury Park dei primi anni ’70, in grado di trasmettere un’immagine vivida del luogo, intrisa dell’atmosfera che si respirava. Ma non sono state solo le sue parole a costruire tale immaginario, che altrimenti non avrebbe un volto per chi quel New Jersey non l’ha mai nemmeno visitato. È grazie ai servizi fotografici, ai documentari, ai video-clip e ai rimandi cinematografici che il New Jersey di Springsteen prende vita sotto gli occhi di tutti. Il paper prova a riflettere su come i luoghi evocati da Springsteen abbiano costruito, frammento dopo frammento, un immaginario collettivo nitido e sulla stretta relazione che lega quest’ultimo alle dinamiche sociali a cui fa da sfondo o da metafora. Il contributo indaga, inoltre, il modo in cui tali luoghi da “anonimi” siano diventati “iconici” grazie proprio all’opera di Springsteen, fino a divenire “sacri” per i suoi seguaci, tanto da configurarsi quali meta di veri e propri pellegrinaggi del rock ‘n’ roll.

1: Da sinistra verso destra: lo Stone Pony di Asbury Park, NJ, il Diner a Freehold, NJ e il Wonder Bar, sempre ad Asbury Park, NJ. Foto di Alessandro Gabrielli. 1 Veronica Scarioni è autrice del Paragrafo 1, Barbara Ansaldi è autrice del Paragrafo 2.

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1. Un immaginario urbano “springsteeniano”. Il racconto “visuale” del New Jersey Nel suo libro L’immaginario, Jean-Jacques Wunenburger spiega che «nell’uso corrente del vocabolario delle lettere e delle scienze umane, il termine immaginario, in quanto sostantivo, rinvia ad un insieme abbastanza flessibile di significati» e aggiunge che «si può parlare di immaginario di un individuo ma anche di un popolo attraverso l’insieme delle sue opere e credenze [Wunenburger 2008, 15]. Wunenburger spiega che fanno parte dell’immaginario anche «le produzioni artistiche che inventano nuove realtà», portando l’esempio del romanzo. Ora, come non ritracciare il fenomeno della costruzione dell’immaginario “springsteeniano” in quanto appena scritto? Il filosofo parla di popolo e l’insieme dei fans di Springsteen costituisce nondimeno che un popolo: un gruppo di persone con credenze e pratiche condivise. Inoltre, quella del cantautore americano è a pieno titolo una produzione artistica che costruisce una nuova realtà, anche se per farlo parte da luoghi reali. Per di più l’opera del cantante, scritta anche se finalizzata alla messa in musica, può essere assimilata al romanzo, di cui scrive Wunenburger, e ciò ci conferma di poter parlare a tutti gli effetti di immaginario “springsteeniano”. A ciò si aggiunga che Springsteen ha sempre accompagnato la narrazione realizzata attraverso le sue canzoni (per cui va evidenziata la sua grandissima capacità di creare immagini con la scrittura) ad un’altra serie di narrazioni fatta di videoclip, servizi fotografici e racconti di aneddoti durante i suoi concerti. I luoghi abitati dai personaggi delle canzoni spesso sono gli stessi delle sue scorribande giovanili; in quegli stessi luoghi vengono scattate fotografie che ritraggono il cantante e la sua band (funzionali alla realizzazione di booklet di cd o da inserire in libri o materiale promozionale) e, ancora, molto spesso quei luoghi sono lo scenario dei videoclip che accompagnano le canzoni. Fin dalle prime pubblicazioni, i video musicali di Springsteen sono costellati di immagini quali strade di periferia (alternate ad immagini del cantante che si esibisce, nel video di One Step Up, 1987), operai al lavoro (a esempio Glory Days e I’m on Fire, 1984), mezzi pubblici (Human Touch, 1992) e locali notturni in cui lui canta (Better Days, 1992) o recita la parte dell’avventore (al Diner in Long Walk Home, 2007). Ci sono poi videoclip in cui il New Jersey – in particolare Asbury Park – diventa coprotagonista e non solo scenario: in Tunnel of Love, ad esempio, ne vediamo gli edifici in rovina, il boardwalk, i giochi per i bambini, la spiaggia, mentre le caratteristiche case di legno della periferia americana compaiono sullo sfondo. In Lonesome Day, invece, lo stesso tipo di immagini si tinge di toni più cupi e viene mostrata in alternanza ad immagini simboliche ed evocative, come tipico di un certo filone dei video di Springsteen. In questo modo il New Jersey viene descritto in un modo molto preciso. I luoghi mostrati restano costanti negli anni e arrivano a far sì che quel determinato tipo di immagine venga quasi automaticamente associato al cantante. È attraverso tutto questo che il New Jersey di Springsteen prende forma nell’immaginazione dello spettatore. Un “altro New Jersey” proprio perché, sebbene si componga di luoghi reali, è filtrato dalla narrazione soggettiva del cantante e, togliendo ogni accezione negativa a ciò che si sta per scrivere, montato ad hoc per dare al pubblico una determinata immagine di esso. “New Jersey reale e New Jersey virtuale”, si potrebbe dire prendendo a prestito il celebre esempio di Baudrillard sulla guerra del Golfo [Baudrillard 2016]. Le immagini vengono percepite come autentiche e ciò avviene probabilmente grazie all’autenticità dell’artista nel raccontare o nello scegliere gli scenari in cui farsi fotografare, divenendo egli stesso l’unico filtro della narrazione. Tale autenticità è accentuata anche dal fatto che nei videoclip compaiano componenti della famiglia del cantante o scene (reali o apparentemente tali, non ci è dato sapere) di vita vissuta. Di ciò è un perfetto esempio il videoclip di Better Days. Nel caso di Springsteen, quindi, è vero solo in parte che i personaggi non vanno confusi con il loro autore, come ha sostenuto Umberto Eco [Eco 2011], perché

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l’argilla con cui il cantautore li plasma è il suo stesso vissuto e i luoghi in cui è cresciuto. Il personaggio/persona Bruce Springsteen, però, non è solo filtro del racconto, ma è anche artefice della nobilitazione di tali luoghi. Luoghi degradati e anonimi della periferia americana assumono una nuova faccia per il solo fatto che il personaggio-Springsteen vi passi o vi stia in mezzo. A questo proposito è eloquente il video di Streets of Philadelphia (anche se non ambientato in New Jersey), che mostra il cantante che semplicemente cammina per la periferia della città. Non sono luoghi inventati e nemmeno costruiti, ma diventano “altri” quando Springsteen, con la forza del suo personaggio, vi si inserisce. Tale nobilitazione e rivalutazione non ha, però, solo un aspetto ideologico, ma anche un risvolto concreto. Infatti, gli estimatori di Springsteen hanno maturato un’ammirazione per il proprio idolo e per i suoi luoghi tale da portarli a realizzare dei veri e propri pellegrinaggi nel New Jersey, per vivere e vedere da vicino ciò di cui a lungo gli si è narrato e a cui si sono appassionati. In questo modo, luoghi ai limiti dello sfacelo non hanno più bisogno di essere riqualificati, perché il fatto stesso che la gente li cerchi ne costituisce la riqualificazione. Stefano Pecoraio, nel suo libro Bruce Springsteen. Welcome to Asbury Park, in cui propone una guida dettagliata ai luoghi di Springsteen, parlando del Palace Amusements (parco divertimenti indoor iconico di Asbury Park e caro ai fans di Springsteen) lamenta il fatto che sia stato demolito, ma soprattutto racconta la sua strenua volontà di vedere uno dei murales che adornavano i muri dell’edificio. Si tratta della caricatura di un clown, Tillie (recentemente riprodotto su una delle pareti esterne del Wonder Bar, altro locale storico di Asbury Park), per il salvataggio del quale è stata creata addirittura un’organizzazione (Save Tillie, appunto, promossa da Bob Crane), grazie alla quale sono stati salvati alcuni murales e altri pezzi del Palace. I murales, nel 2010, erano custoditi dalla Madison Marquette, colosso del settore immobiliare americano che si occupava del rinnovamento di Asbury Park, e l’autore riuscì ad ottenere da loro il permesso di vedere Tillie [Pecoraio 2010, 63-66]. È però naturale chiedersi quale sia la natura di questi pellegrinaggi intrapresi dai fans: si tratta della semplice volontà di visitare i luoghi che hanno dato i natali e sono familiari al proprio idolo? O si tratta di una tendenza voyeuristica che li porta a voler arrivare in posti inaccessibili ai più e a toccare con mano i luoghi del proprio mito? O, ancora, siamo in presenza di una sorta di hybris che fa inconsciamente pensare che una volta arrivati in quelle terre si diventerà “come lui” o i suoi personaggi? Probabilmente si tratta della mescolanza di tutti i tre fattori, ma ciò è secondario. Ciò che importa è che l’immaginario “springsteeniano” sia vivo, solido e preciso e abbia contribuito a dare un senso a luoghi anonimi, che ora assurgono a vere e proprie icone.

2: Da sinistra verso destra: due delle case della gioventù di Bruce Springsteen a Freehold, nella periferia del New Jersey (la prima al 39 di Institute Street e la seconda al 68 di South Street) e l’interno dello Diner, sempre a Freehold, in cui sono state girate delle scene del video di “Long Walk Home”. Foto di Alessandro Gabrielli.

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2. Luoghi reali / luoghi immaginari / luoghi-metafora. Il rapporto tra lo spazio e la poetica di Springsteen Il tangibile realismo e l’attenzione ai particolari nel descrivere i luoghi e le difficoltà della working class del New Jersey, a partire dai primi anni ’70, sono elementi imprescindibili del percorso artistico di Springsteen. Oltretutto, chi in quel New Jersey ci viveva davvero, non solo conosceva l’esatta collocazione di tali luoghi – il New Jersey Turnpike, il boardwalk di Asbury Park, E Street, Kingsley Ave – ma poteva perfettamente riconoscersi nei personaggi delle canzoni, le cui vite rispecchiavano le loro o quelle dei vicini, dei familiari, degli amici. L’insieme di tutte queste vivide descrizioni di spazi urbani e lo stretto legame con le dinamiche sociali che li caratterizzavano, sono parte integrante della poetica “springsteeniana” che ha attraversato, accompagnato e raccontato gli ultimi decenni del 20° secolo. Questo “sense of place” [Marsh 1979], nato insieme ai primi album, caratterizza tutti i successivi lavori dell’artista, da The River (1980), Nebraska (1982) e Born in the USA (1984) passando per Tunnel of Love (1987), The Ghost of Tom Joad (1995) e The Rising (2002) fino ai quelli più recenti. Robert Santelli, storico del rock ‘n’ roll nato e cresciuto sulla Jersey Shore, rileva come «pochi cantautori americani sono stati in grado di immortalare immagini così dettagliate del sogno americano, nonché le storie di difficoltà e di delusione che le accompagna, permeandole con il senso di universalità che Bruce possiede» [Santelli 2004, 167-168]. Proprio grazie a questa universalità, sin dagli inizi, la musica di Springsteen ha attratto e avvicinato persone provenienti da luoghi e circostanze anche significativamente diverse dalle sue e da quelle dei suoi personaggi. Indipendentemente dalla propria esperienza personale, l’immaginario ricorrente nella sua musica ha generato ciò che Bob Crane definisce «una ricompensa per i fans (…) una geografia precisa dove, nel corso di una visita, le sensazioni dell’anima si connettono con la realtà del luogo» [Crane 2004, 340]. Accanto a tali luoghi realmente esistenti, Springsteen ne accosta altri immaginari/immaginati ma verosimili che possiedono la medesima potenza narrativa e che potenzialmente potrebbero trovarsi dietro l’angolo, da qualche parte nei suburbs americani accanto a quelli reali. Lover’s Lane, Waynesboro o Bluebird Street ne sono un esempio e riflettono archetipi riconoscibili da chiunque abbia familiarità con il paesaggio tipico americano. Non è un caso se l’artista newyorkese Dan Cassaro ha redatto meticolosamente una mappa costituita da più di 200 luoghi (reali ed immaginari) citati nei testi di Springsteen, dalle Backstreets e le Badlands fino a The River e ad una rappresentazione del Darkness on the Edge of Town. In questo senso, Springsteen produce un effetto di eterotopia: nell’immaginario che egli ha costruito, convivono luoghi reali e luoghi immaginari, i quali si sovrappongono, si intersecano, si confondono e in cui il tempo si frammenta. Infine, a rafforzare il legame tra spazio e dinamiche sociali che caratterizzano la poetica di Springsteen, vi sono innumerevoli spazi generici a cui egli attinge quali metafore per riflettere condizioni esistenziali o stati emozionali di intere comunità o di personaggi singoli: speranza e perdita della stessa, senso di sicurezza o di insicurezza, di stabilità o instabilità ecc. Sono immagini ricorrenti come over the rise (“oltre l’altura”), o the river (“il fiume”) o, ancora, the edge of town (“i margini della città”) [Morris 2007, 5]. Ad esempio quest’ultima, utilizzata in ben sei canzoni, rappresenta un futuro buio con poche o inesistenti possibilità di uscita dall’oblio oppure la linea di demarcazione tra classi sociali distanti, tra i privilegiati e la working-class. L’album che porta il nome di questo luogo-metafora (Darkness on the Edge of town, 1978) è, appunto, caratterizzato da toni cupi ed è incentrato sul naufragare delle speranze dei personaggi che trasparivano dall’album precedente (Born to Run, 1975): questi individui sono bloccati ad Asbury Park, consumati dall’inerzia, dalla cruda realtà del classismo, dalla monotonia di un lavoro non qualificato. È come se quel giovane ragazzo che esclamava “dobbiamo scappare

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da qui finché siamo giovani” in Born To Run alla fine non è andato da nessuna parte. Bruce Garman, nel suo saggio The Ghost of History: Bruce Springsteen, Woody Guthrie, and the Hurt Song, riprendendo tale metafora nel brano Mansion on the Hill (in Nebraska, 1982) sottolinea come «Springsteen si affida alla geografia dei luoghi per rimarcare le relazioni tra classi sociali e colloca la sua villa nei sobborghi della città dove la possiamo vedere elevarsi al di sopra della geografia di fabbriche e campi. La villa simboleggia la storia dei rapporti di classe in questa zona industriale; isolata geograficamente dalla città, la villa è “completamente circondata” da “cancellate di acciaio temprato”» [Garman 1996, 227]. Di sicuro non c’è elemento dell’ambiente costruito più centrale nella poetica di Springsteen di strade ed autostrade (Tenth Avenue, Main Street, Route 9, New Jersey Turnpike). Quei “nonluoghi” per eccellenza secondo la definizione di Marc Augé [Augé 1993], sono costantemente presenti sia come semplice sfondo sia come metafora di un vasto spettro di emozioni per i suoi personaggi. Colleen Sheehy rileva che «nonostante queste immagini siano convenzionali nel rock ‘n’ roll, Springsteen più di ogni altro artista gli attribuisce profondità e complessità (…). Fuggendo via verso i margini della città, giù per il New Jersey Turnpike o attraverso il deserto, il movimento fisico dei personaggi riflette le loro ricerche psichiche e spirituali» [Sheehy 2002, 7]. Come ci fa notare Louis Masur, in Born To Run le città sono giungle di cemento, discariche sociali e luoghi inquieti-inquietanti in cui i personaggi sono intrappolati (“è una trappola mortale, un invito al suicidio” come si legge nel testo della title track). Strade, vie, avenues e highways sembrano offrire l’unica via di uscita, pur non essendo propriamente luoghi ideali o positivi: Thunder Road “giace lì fuori come un killer alla luce del sole” e “l’highway è piena zeppa di eroi a pezzi, alla guida della loro ultima possibilità” [Masur 2007, 32].

3: Alcuni dei luoghi di Asbury Park più ricorrenti nei testi, nei video e nelle fotografie di Springsteen. Da sinistra verso destra: il boardwalk, il rudere del Casino di Palace Amusements e il Paramount Theatre. Foto di Alessandro Gabrielli. Conclusioni Lo spazio urbano per Bruce Springsteen si configura come materiale essenziale per la sua poetica. La prospettiva che egli ci propone su un luogo o un tipo di spazio è plasmata dai contesti culturale, sociale, economico e politico, mescolati con le sue esperienze personali ed il suo punto di vista. Il nitido immaginario di paesaggi urbani che ne deriva rappresenta un punto di partenza per indagare come l’apparato visuale collegato alla musica del cantautore americano funzioni da palinsesto culturale, in grado di fornire una dettagliata fotografia di momento storico specifico, con tutte le relative dinamiche sociali che agitano e segnano lo spazio urbano delle periferie, dei luoghi del degrado e del conflitto. Inoltre, la forza persuasiva e narrativa del rocker ha fatto sì che tali luoghi da anonimi e seriali – tipici del paesaggio

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americano – siano divenuti paradossalmente dei luoghi iconici, naturalmente associati e associabili alla sua produzione musicale. Bibliografia AUGÉ, M. (1993). Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità. Milano, Elèuthera. BAUDRILLARD, J. (2016). Miti fatali. Twin Towers, Beaubourg, Disneyland, America, Andy Warhol, Michael Jackson, Guerra del Golfo, Madonna, Jeans, Grande Fratell, a cura di V. Codeluppi. Milano, FrancoAngeli. Bruce Springsteen and Philosophy: Darkness on the Edge of Truth (2008), a cura di R. E. Auxier, D. R. Anderson, Chicago, Open Court. CRANE, B (2004). A Place to Stand: A Guide to Bruce Springsteen’s Sense of Place in Racing in the Street: A Bruce Springsteen Reader, a cura di J. S. Sawyers. New York, Penguin, pp. 337-346. FOUCAULT, M. (2011). Spazi Altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro. Milano, Mimesis Edizioni. GARMAN, B. K. (1996). The Ghost of History Bruce Springsteen, Woody Guthrie, and the Hurt Song, in «Popular Music and Society», Vol. 20, n. 2, pp. 221-230. LABIANCA, E, CANITANO, G. (2005). Real World. Sulle strade di Bruce Springsteen. Roma, Arcana. MARSH, D. (1979). Born to Run: The Bruce Springsteen Story. New York, Doubleday. MARSH, D. (2003). Bruce Springsteen: Two Hearts, the Story. Londra, Routledge. MASUR, L. P. (2007). The Geography of “Born to Run”, in «Interdisciplinary Literary Studies», vol. 9, n. 1, Glory Days: A Bruce Springsteen Celebration (Fall 2007). Penn State University Press, pp. 27-36. MC PARLAND, R. P. (2007). The Geography of Bruce Springsteen: Poetics and American Dreamscapes, in «Interdisciplinary Literary Studies», vol. 9, n. 1, Glory Days: A Bruce Springsteen Celebration (Fall 2007). Penn State University Press, pp. 19-26. MORRIS, M. (2007) From “My Hometown” to “This Hard Land”: Bruce Springsteen’s Use of Geography, Landscapes, and Places to Depict the American Experience, in «Interdisciplinary Literary Studies», vol. 9, n. 1, Glory Days: A Bruce Springsteen Celebration (Fall 2007). Penn State University Press, pp. 3-18. PECORAIO, S. (2010). Bruce Springsteen. Welcome to Asbury Park. Roma, Aliberti Edizioni. SANTELLI, R. (2004). Twenty Years Burning Down the Road: The Complete History of Jersey Shore Rock 'n' Roll, a cura di J. Sawyer. New York, Penguin, pp. 166–77. SANTELLI, R. (2006). Greetings from E Street: The Story of Bruce Springsteen and the E Street Band. San Francisco, Chronicle Books. Racing in the Street: The Bruce Springsteen Reader (2004), con un’introduzione di Martin Scorsese, a cura di J. K. SAWYERS, New York, Penguin. SHEEHY, C., SANTELLI, R., MARLING K. A. (2002). Springsteen. Troubadour of the Highway. Minneapolis, Frederick R. Weisman Art Museum. SPRINGSTEEN, B. (2016). Born to Run, tradotto da M. Piumini. Milano, Mondadori. STEFANKO, F. (2014). Giorni di sogni e speranza. Un ritratto intimo di Bruce Springsteen, a cura di C. Murray. Roma, Arcana. STEFANKO, F. (2017). Bruce Springsteen. Further up the road, a cura di G. Harari. Alba, Wall of Sound Gallery. WUNENBURGER, J (2008). L’immaginario, tradotto da V. Chiore. Genova, Il Nuovo Melangolo. Sitografia ECO, U. (2011). Mentire e far finta: http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2011/07/08/news/mentire-e-far-finta-1.33187, consultato il 19/05/2018. KREPS, D. (2010). New Map Traces Springsteen’s New Jersey: https://www.rollingstone.com/music/news/new-map-traces-springsteens-new-jersey-20100714, consultato il 15/05/2018.

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I morti e la città: ostracizzati dalla modernità, reintegrati dalla fotografia The Dead and the City: Ostracized by Modernity, Reinstated by Photography JOHNNY ALAM Ph.D. Independent artist and scholar, Montréal, Canada

Abstract This paper explains that the separation of the dead from the living in contemporary cities reflects modernity’s yearning for the classical period and its desire to stand in contrast to the Middle Ages’ integration of the dead within the space of the living. But if modernity strove to separate the living from the dead, photography, this study argues, brought them back together in an alternative communion. Using a series of examples and theories, it illustrates how the medium of photography offered a modern, secular and sanitized mode for reintegrating the dead into the spaces of the living in general; and into cities and urban centers in particular. Keywords Paesaggi-urbani, civiltà, cristianesimo. Cityscapes, Civility, Christianity.

Introduction The separation of the dead from the living has been one of the hallmarks of Western modernity. This feature can be seen in the acts of quarantining or altogether moving cemeteries outside the boundaries of cities during the past two centuries. Arguably, this phenomenon simultaneously reflects modernity’s yearning for the classical period and its desire to stand in contrast to the Middle Ages’ integration of the dead within the space of the living [Sarris 2015, 33; Bruce and Marshall 2000]. As a matter of fact, long before modernity’s physical separation of the living from the dead, a spiritual partition had begun to take shape with the Reformation. By the end of the eighteenth century, several cultures –Western and Westernized cultures in particular – began to perceive death as a transgression tearing humans from daily life and from the rational society [Ariès 2010]. In the twentieth century, death became a social taboo. But if Western modernity strove to separate the living from the dead, the medium of photography offered a sanitary mode for reintegrating the dead into the spaces of the living at large, and into cities (or urban centers) in particular. 1. The burial of the dead is considered one of the earliest signs of human civilization, a term derived from the modern concepts of ‘civility’ and ‘civil’ as a form of settlement or urban development. Throughout this quest, the living have always had to find a ‘place’ for the dead [Gordon and Marshall 2000, 1], both physical and metaphysical; the latter place often affecting the nature of the former. The Egyptian Pharaohs’ beliefs in the afterlife, for instance, meant that their whole community was somewhat involved in the building of their burial places, including the extravagant pyramids. The Romans issued laws that force the separation of the dead from the living; to them, the cities of the dead (necropolis) had no place within the boundaries of the cities of the living (polis).

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The Dead and the City: Ostracized by Modernity, Reinstated by Photography.

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2. The transition from the classical era to the medieval period is marked by the return of the dead into the spaces of the living following the wide adoption of Christianity in Europe, where a new relationship between the living and the dead manifested in the transition from the cemetery (from Greek ‘sleeping place’; a land dedicated to burying the dead) to the graveyard (from churchyard, the focal point of urban life in the medieval period). While Christianity continued to forbid the burial of the dead amongst the living in principle, its focus on the eternal life of the soul (and disinterest in the transitory stage of the body and earthly life) drew believers to invest in practices that would bring them closer to heaven [Ariès 16-19]. These practices included the burial of the faithful inside or in the vicinity of the Church, in close proximity to the relics of saints. As these churchyards became saturated with dead bodies, it became common to dig up the bones and display them in aesthetic formations inside ossuaries built around these churchyards [Ariès 20-25]. These centrally located ossuaries combined with plagues, regular infant deaths, and short life expectancy made death a physical commonplace phenomenon in medieval cities. This physical presence was exacerbated by the spiritual presence of the dead in the daily life of the living through faith, wherein the living prayed for the souls of the dead in exchange for heavenly blessings from the community of dead saints [Bruce and Marshall 2000, 2-5]. 3. One of the goals of the Reformation was the relief of the living from the overwhelming burden of the dead, who, in traditional Catholic societies, formed an “‘age-group’, with distinct rights and responsibilities vis-a-vis their ‘younger’ living contemporaries” [Bruce and Marshall 2000, 5]. The “Reformation fractured the community of the living and the dead [. It] cast out the dead from the society of the living and abolished the deads’ status as an age-group” [Bruce and Marshall 2000, 9]. The aftermath of the religious wars following the Reformation, counter-Reformation, and Inquisitions brought a sense of nostalgia to the golden age of the classical period that propelled medieval Europe towards the modern era [Bruce and Marshall 2000, 15]. 4. The rationality of the Renaissance, humanism of the Enlightenment, secularization of the French Revolution, and materialism of the Industrial Revolution gave way to the proliferation of science and medicine. Corpses were, once again, deemed a public health risk and were banished beyond the confines of urban centers, marking the re-separation of the living from the dead. The increasing awareness toward personal identity, wealth, individuality, and the human body also renewed interest in cemeteries and tombs. Phillip Ariès explains that:

The Church was reproached for having done everything for the soul and nothing for the body, of taking money for masses and showing no concern for the tombs. The example of the Ancients, their piety toward the dead as shown by the remnants of their tombs as at Pompeii and by the eloquence of their funeral inscriptions, was called to mind. The dead should no longer poison the living, and the living should form a veritable lay cult to show their veneration of the dead. Their tombs therefore began to serve as a sign of their presence after death, a presence which did not necessarily derive from the concept of immortality central to religions of salvation such as Christianity, but derived instead from the survivors' unwillingness to accept the departure of their loved ones. [70]

Cemeteries were once again the ‘place’ of the dead, a materialistic property (real-estate) and a ‘home’ away from home where living family members can visit and remember them.

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5. By the middle of the twentieth century, speaking of the dead had become a sort of social taboo. Rooted in the aforementioned intolerance toward losing a loved one, the hush hush attitude toward death made it ‘shameful’, and to some extent, ‘forbidden’ to raise this subject in the space of the living in modernity:

no longer for the sake of the dying person, but for society's sake, for the sake of those close to the dying person [because] the overly strong and unbearable emotion caused by the ugliness of dying and by the very presence of death [disturbs] happy life, for it is henceforth given that life is always happy or should always seem to be so [Ariès 87].

Displays of death and sorrow in the majority of Western Society had become unacceptable in public, which partially explains why one “no longer died at home in the bosom of one’s family, but in the hospital alone” [Ariès 2010, 87]; the hospital constituting another sign/structure of modernity in the Foucauldian sense. 6. Yet if modernity separated the living from the dead, photography arguably brought them back together in an alternative communion:

For Death must be somewhere in a society; if it is no longer (or less intensely) in religion, it must be elsewhere; perhaps in this image which produces Death while trying to preserve life. Contemporary with the withdrawal of rites, Photography may correspond to the intrusion, in our modern society, of an asymbolic Death, outside of religion, outside of ritual, a kind of abrupt dive into literal Death [Barthes 1981, 92-93].

Hence, in contrast to the contemporaneous separation of the dead from the living, photography offered an alternative physical and spiritual communion between them due to this medium’s intrinsic relationship with death. 7. Several intellectuals have considered the unique relationship between photography, death, and the afterlife. “Ever since cameras were invented in 1839,” Susan Sontag writes, “photography has kept company with death. Because an image produced with a camera is, literally, a trace of something brought before the lens, photographs were superior to any painting as a memento of the vanished past and the dear departed” [2003, 24]. She further suggests that “Photography is an elegiac art,” and that “All photographs are memento mori” [1977, 15]. André Bazin relates photography to the ‘mummy complex’ of ancient Egyptians, particularly for its ‘embalming’ nature against the passage of time [2005, 9-10]. He suggests that akin to mummies and death statuary, photographs comprise a “preservation of life by a representation of life” [2005, 10]. Writing along this grain, Jae Prosser contends that “Photography is the medium in which we unconsciously encounter the dead” [2005, 1]. Christian Metz equally highlights photography’s role as a medium connecting the living with the dead, and he lists two other connections between photography and death:

… there [is] another real death which each of us undergoes every day, as each day we draw nearer our own death. Even when the person photographed is still living, that moment when she or he was has forever vanished. Strictly speaking, the person who has been photographed -not the total person, who is an effect of time -is dead: ‘dead for having been seen,’ as Dubois says in another context … Photography has a third character in common with death: the snapshot, like death, is an instantaneous abduction of the object out of the world into another world, into another kind of time. [1985, 84]

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8. Arguably, Metz’s additional conceptions on death through photography are exclusive to modernity which is partially defined by an unprecedented awareness of the passage of irrevocable time: “to be modern, is to be conscious of one's historicity: to be able to see oneself in historical terms” [Confino and Fritzsche 2002, 10]. Of course, photography enhances this sort of consciousness. Before photographs, mirrors were the major means through which one perceived his or her lineaments. But mirror reflections are always ‘live’, they don’t record past states, a photograph, on the other hand, is a kind of “mirror with a memory” [Holmes 2014, 70]. Hence, photographs must have played an important role in modernity’s heightened consciousness about the passage of time because, as Steve Edwards puts it, “even the most happy and innocent photographs – perhaps especially the most happy and innocent – function as a kind of memento mori for the viewer’s own death, reminding him or her that all things pass and fade; that life is just a snapshot” [2006, 119]. 9. Of all the intellectuals who wrote about photography and death, Roland Barthes’ descriptions of photography’s living dead in Camera Lucida [1981] remain the most helpful for understanding the relation between photography and death in modernity. Early in this book, Barthes informs us that there is a terrible thing “in every photograph: the return of the dead” [9]. “When photographed,” he writes, “I am truly becoming a specter” [14]. Barthes suggests that “Photography is a kind of primitive theater [through which] we see the dead” [3]. “The first actors,” he clarifies, “separated themselves from the community by playing the role of the Dead: to make oneself up was to designate oneself as a body simultaneously living and dead” [31-32]. Barthes also insists that:

In Photography, the presence of the thing (at a certain past moment) is never metaphoric; […] by attesting that the object has been real, the photograph surreptitiously induces belief that it is alive, (…) but by shifting this reality to the past (‘this-has-been’), the photograph suggests that it is already dead. [1981, 78-79]

1: Johnny Alam, “In Memory of Leonard Cohen” (2017), from the Montréal Bizarre series, courtesy of the artist, © Johnny Alam, 2017.

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10. Akin to the abovementioned scholars, Barthes highlights photography’s relation to death, including one’s own, but he diverges from the rest in pointing out the surreptitious state of living in each photograph. For instance, when we look at a dead person’s passport photograph (a portrait taken when he or she was alive), we see this person alive and looking back at us. In that sense, photographs challenge both death and the passage of time by visually impeding them. They capture and congeal a moment of life. Living people denoted by photography continue to appear living after their death. Photography grants them a form of immortality and afterlife. Photography, still or moving, remains, to date, the most faithful representation of a person’s lineaments. An undoctored photograph constitutes a relic and the next best thing to a physical body because it is a trace of light which was reflected or refracted off that body, captured, and frozen in time.

The photograph is literally an emanation of the referent. From a real body, which was there, proceed radiations which ultimately touch me, who am here; the duration of the transmission is insignificant; the photograph of the missing being, as Sontag says, will touch me like the delayed rays of a star. A sort of umbilical cord links the body of the photographed thing to my gaze: light, though impalpable, is here a carnal medium, a skin I share with anyone who has been photographed. [Barthes 1981, 80-1]

11. In the absence of a corpse, a non-manipulated photograph, offers a glimpse of an individual’s material figure at a certain point in time. This idea that photography is a trace of a physical reality drove Rosalind Krauss to forward the notion of photographic indexicality in 1977, based on Charles Sanders Peirce’s study of signs. Peirce divided signs into three main

2: World3000, “Destroyed Diversity, 1933-1938-1945” (2013), Berlin, Wikimedia Commons, © CC BY-SA 3.0.

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types of relations between the sign and its referent: icon (semblance), index (actual connection), and symbol (interpretation). In the essay “Notes on the Index,” Krauss assessed the relations between photography, the imaginary, and signs concluding that: “Every photograph is the result of a physical imprint transferred by light reflections onto a sensitive surface. The photograph is thus a type of icon, or visual likeness, which bears an indexical relationship to its object” [1977, 75]. The relative affordability of photographs coupled with the human desire for capturing transient moments in life and for extending existence beyond death, drives people to frequently register their visual difference – over time and from other people – using the medium of photography. In fact, governments and institutions force individuals to be depicted in photographs for identification purposes. 12. Arguably, this capacity to record an individual’s singularity (icon + index) is one of the main reasons behind the adoption of photography for representing the departed. As Sontag puts it, “A photograph is both a pseudo-presence and a token of absence” [1977, 16]. By registering the visual singularity of each absent member of the family, photography transforms these missing individuals from an abstract category to spectrally present human beings. The humanizing and specifying effect of photography also relates to the way those of us who are blessed with the gift of eyesight perceive how other humans look and, therefore, identify their difference and singularity. Accordingly, photographs act as mnemonic devices, which compensate for the failure of our memory to register the features of individuals who have been absent for a long time. Photographs, still or moving, help us re-cognize them. 13. In this respect, commemorative photographs reflect the way in which we want to see the ones we lost, and quite naturally, we want to see them alive. The fact that Victorian Age post-

3: Johnny Alam, “In Memory of Meg (Buckley) Dussault, Ottawa” (2013), from the Ghost Bikes - Ephemeral Commemorations series, courtesy of the artist, © Johnny Alam, 2013.

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mortem commemorative images have often been staged to look as though their subjects were still alive [Hirsch 2008, 34-35] attests to this desire. Ariès described the Victorian Age’s “mourning pictures,” lithographs, and embroidered panels as portable tombs [1974, 79-80] three decades before Geoffrey Batchen [2004] wrote his esteemed treatise on the relationship between early photography, death, and remembrances; however, the latter broke with the common convention when he suggested that “Life, more than Death, is the primary signification of the photograph” [2004, 84]. 14. Forever living in photographs, the dead have been once again free to inhabit the space of the living in modernity. Today we encounter the dead in our homes, in mass media, and in public spaces through posters of dead celebrities (Leonard Cohen comemorative exhibition sign in Montréal in 2017) (fig.1), through planned commemorative gestures of past wars and genocides (victims of Nazim take over a square in Berlin in 2013) (fig.2), through posters commemorating martyrs [Alam 2014], and through makeshift memorials to victims of accidents, disasters and terrorism attacks (Meg (Buckley) Dussault is photographically present at the site of her death in a bike accident in Ottawa in 2013) (fig.3). Due to their sanitized (abject-free) and secularized (nationalized) state of living in photographs, the dead, once ostracized by modernity, have been reinstated into our daily private lives and public cityscapes where they freely roam the spaces of the living; both online and offline. Conclusion

This paper demonstrated how the medium of photography brought the dead back into the spaces of the living following their expulsion from Western and Westernized cities during the period of modernity. It neither implies that photography was confined to urban centers, nor suggests that photographs were not equally effective in reconnecting the living and the dead in towns, villages, or elsewhere. Yet, from the outset, the issue of casting out the dead from the spaces of the living was always more relevant and more particular to cities. At the same time, the presence of photographs of the dead in public spaces – be it for commemoration or advertising (to name two key reasons) – has always been far more prominent in cities. Perceived as a product of science, photographs offered a presence of the dead among the living that is secular, sanitary, and sans macabre; accordingly, they simultaneously conformed and contributed to the project of modernization whose focal point has always been, the city. Bibliography ALAM, J. (2014). Undead Martyrs and Decay: When Photography Fails its Promise of Eternal Memory., in Contemporary French and Francophone Studies 18.5, pp. 577-586. ARIÈS, P. (1974). Western Attitudes toward Death: From the Middle Ages to the Present, JHU Press. BARTHES, R. (1981). Camera Lucida: Reflections on Photography. Farrar, Straus and Giroux. BATCHEN, G. (2006). Forget Me Not: Photography and Remembrance. Princeton Architectural Press. BAZIN, A. (2005). What Is Cinema?, University of California Press. CONFINO, A., FRITZSCHE P. (2002). The Work of Memory: New Directions in the Study of German Society and Culture, University of Illinois Press. EDWARDS, S. (2006). Photography: A Very Short Introduction, OUP Oxford. GORDON, B., MARSHALL P. (2000). The Place of the Dead: Death and Remembrance in Late Medieval and Early Modern Europe, Cambridge University Press. HERSHBERGER, A.E. (2014). Photographic Theory: An Historical Anthology. Chichester, Wiley-Blackwell. HIRSCH, R. (2008). Seizing the Light: A Social History of Photography. McGraw-Hill Education. HOLMES, O.W. (2014). The Stereoscope and the Stereograph, in Photographic Theory: An Historical Anthology, by A.E. Hershberger, pp. 68-71, Wiley.

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KRAUSS, R. (1977). Notes on the Index: Seventies Art in America. October 3, pp. 68-81. METZ, C. (1985). Photography and Fetish. October 34, pp. 81-90. Photography Degree Zero: Reflections on Roland Barthes’s Camera Lucida (2009). MIT Press. PROSSER, J. (2005). Light in the Dark Room: Photography and Loss, U of Minnesota Press. Regarding the Pain of Others (2013), Farrar, Straus and Giroux. SONTAG, S. (1977). On Photography, Picador.

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‘Death to my hometown’. Smarrimento e abbandono nella città post-industriale nelle liriche di Bruce Springsteen ‘Death to my hometown’. Loss and loneliness in the post-industrial city in Bruce Springsteen lyrics GIOVANNI MENNA Università degli Studi di Napoli Federico II Abstract Bruce Springsteen è da più di quaranta anni uno dei più emblematici narratori dell’America contemporanea. Oggetto del paper è mettere in luce la potenza e l’originalità dello sguardo rivolto alla città americana da Springsteen così come emerge dalle sue liriche, dalle immagini con le quali egli ha scelto di ambientare le sue canzoni in molti dei suoi video clips e, ancora, dai film che la hanno raccontata servendosi delle sue canzoni. Ne scaturisce l’immagine dell’altra città americana, che siano le grandi metropoli multirazziali (da New York a Los Angeles), le città del tempo libero o del gioco d’azzardo (Asbury Park, Atlantic City) o quelle della provincia industriale del New Jersey. Backstreets e shopping centers, autostrade e fabbriche che chiudono: tutti luoghi reali, pezzi di città abbandonata, nei quali il mito del Sogno Americano di distorce in un’immagine che esprime sfruttamento e depressione, crimine e ingiustizia sociale, ma anche le speranze tradite ma non ancora spente di chi vuole resistere. Bruce Springsteen has been one of the most emblematic storytellers of contemporary America for over forty years. The object of the paper is to highlight the power and originality of the critical outlook to the great American city by Springsteen as it emerges from his lyrics, from the images with which he has chosen to set his stories in many of his video clips and from the movies that illustrated the social and physical transformations of the cities also through his songs. The result is the image of the Other American City that lives in the big multiracial metropolises (from New York to Los Angeles), in the cities of leisure or gambling (Asbury Park, Atlantic City) or in those of the industrial districts. Backstreets and shopping centers, motorways and closing factories: all real places, pieces of the abandoned city, in which the myth of the American Dream distorts in an image that expresses depression, crime and social injustice, but also the betrayed but not yet extinguished hopes of those who insist on resisting. Keywords Springsteen, post-industrial city, paesaggio urbano. Springsteen, post-industrial city, urban landscape. Introduzione Streets of Philadelphia è il titolo di una canzone scritta da Bruce Springsteen per il pluripremiato Philadelphia, diretto nel 1993 da Jonathan Demme, uno dei maestri della cinematografia del nostro tempo. Il film è introdotto dal video omonimo, girato dallo stesso Demme in collaborazione con il nipote Ted, e si apre con alcune riprese dall’alto dei grattacieli del centro politico istituzionale e con scene di una vita urbana serena, con bambini

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sorridenti – quasi tutti bianchi – che giocano in scuole e playground dai prati ben curati e l’immancabile stazione degli amati pompieri, anche se una campana segnata da una profonda fenditura ci suggerisce che, forse, qualcosa si è incrinato anche nella vita di questa comunità e che quella serenità non è per tutti. Infatti appare Bruce Springsteen. Ha le mani infilate nelle tasche di un giubbino di pelle e il capo chino, e attraversa strade che sembrano quelle di un’altra città: case popolari e ghetti, mercatini di quartiere e spiazzi incolti, spazzatura e auto abbandonate, muri scrostati e recinzioni, con ragazzini – quasi tutti di colore – che giocano in mezzo a disoccupati, forse spacciatori, e homeless che rovistano negli stessi bidoni della spazzatura in cui cercheranno di scaldarsi quando cala la sera. Sebbene il film sia incentrato su una dolorosa vicenda di discriminazione che si inserisce dentro il dramma dell’Aids, l’altra città che scorre in quelle immagini è esattamente quella che, da mezzo secolo, ritroviamo nelle canzoni di Springsteen. Un autore che – più di ogni altro tra i songwriters americani – ha saputo cantare il progressivo avvitarsi della città americana in una spirale di disgregazione sociale, economica, culturale e civile. E quel che più conta, lo ha fatto dall’interno della grande industria dell’intrattenimento e dello show biz, senza velleità e pose autoriali o, peggio, di elitarismo, mettendo sullo stesso asse la ricerca di una comunicazione la più diretta e autenticamente popolare possibile, con le ragioni dell’impegno, con l’obbligo della denuncia e con la qualità della scrittura, anzi della poesia.

1: Bruce Springsteen in un frame del video Streets of Philadelphia del 1993, diretto da J. e T. Demme. 1. «Junglend». Città dei perdenti e dei perduti Sull’opera di Bruce Frederick Joseph Springsteen (Freehold, N.J., 1949) esiste una letteratura per la quale il termine più appropriato sarebbe “sterminata” tanto che il richiamarla in questa sede anche nella sola forma della “bibliografia essenziale” si profilerebbe come impresa velleitaria e anzi chimerica, poiché si arricchisce a cadenza impressionante di volumi

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monografici e saggi critici, di esegesi e testimonianze che di volta in volta ne mettono in luce le relazioni con la letteratura, la storia sociale, il cinema, la cultura popolare, la politica. La questione dello spazio o della geografia fisica e, all’interno di questa tematica, della rappresentazione della metropoli, costituisce un aspetto assolutamente centrale nella logica e nei modi compositivi delle canzoni di Springsteen. Data l’ampiezza e la densità della parabola springsteeniana ci soffermerà solo su alcuni passaggi-chiave del suo percorso artistico, su quei versi delle sue liriche che hanno “fotografato” in che modo con la deindustrializzazione iniziata nei primi anni Ottanta, le mutazioni di forma e significato dello spazio urbano siano ricadute sulle fasce di popolazione più disagiate intervenute Springsteen è figlio di un operaio di ascendenza irlandese da sempre in lotta con la depressione, e di un’italiana di seconda generazione di origine napoletana, impiegata in uno studio legale. Il contesto nel quale è cresciuto è quello di una famiglia cattolica nella provincia del New Jersey, terra di immigrati e fabbriche, tra Freehold e Asbury Park, dal non lontano passato di vivace città turistica e al tempo in piena crisi. New York non è lontana, al di là della baia, ma appare irrangiungibile. I suoi primi dischi sono una raccolta dei frammenti del runaway american dream precipitati nella vita urbana e i suoi protagonisti sono tutti proletari e sottoproletari, caricati del ruolo di antieroi secondo la tradizione dei beautiful losers che, emersa nelle controculture che dagli anni ’50, sono poi penetrate in modi diversi anche nella cultura popolare main stream. Ma il vitalismo, e il desiderio di libertà e di amore di questi animali metropolitani romanticamente ammantati di aura mitica, finisce non di rado nella violenza o nella tragedia. Lo sfondo in cui si muovono è quello delle backstreets ai margini della città, siano esse quelle di un piccolo centro come Asbury Park o della metropoli, come New York. La città che affiora nei versi di queste canzoni è, tuttavia, assai più della semplice “ambientazione” di quelle storie. Se inquadrata in una veduta di insieme, la sua opera negli anni 1973-78 si delinea come un grande racconto corale, sorta di affresco del tormentato underworld metropolitano, nel quale le tante storie e i mille personaggi si ricompongono attorno al vero main character di questa rappresentazione: il quartiere, con i suoi punti di incontro o di scontro e, soprattutto, le sue strade. Jungleland è la discarica sociale dove vige un altro ordine e dove l’illegalità si auto-struttura secondo la stessa legge della dipendenza e dello sfruttamento che regola l’universo capitalista perché per ogni tossico c’è uno spacciatore, per ogni piccolo criminale un capozona cui obbedire, per ogni prostituta un protettore. Dentro la specificità di storie individuali e drammi personali c’è certo l’universalità di alcuni grandi temi dell’esistenza, ma a stabilire una relazione tra quei due piani, a radicarli nella dimensione reale dello spazio esperienziale e a rendere credibili agli occhi/orecchie di chi ascolta le storie che Springsteen canta è l’ambiente fisico e spaziale in cui quegli attori agiscono. Il richiamo insistito a luoghi, ambienti urbani, e quindi edifici, quartieri e città è intenzionale. Non è senza significato che nomi di città reali (Labianca Real world) ricorrano con insistenza nei titoli e nei versi, e del resto sono infiniti i modi di denominare le strade che costellano le vicende narrate: backstreets, roads, streets, avenues, alleys, lanes, highways, tracks, «ogni possibile variante semantica del concetto di strada funge da background onnipresente per gli eroi springsteeniani» [Nucara 2016, 207]. Il titolo del suo primo album contiene quello di una città reale, peraltro rappresentata in copertina, e quello che Bruce sceglie per la band che ancora oggi lo accompagna è quello di una strada: E- Street. Ed è proprio la strada, il lungo nastro d’asfalto attraverso cui si entra, o si ritorna, in città o si esce da essa per inseguire una qualche promised land, è l’elemento sul quale Springsteen incardina la sua poetica dello spazio e dove fa giocare la partita della vita ai suoi protagonisti. Scelta in qualche modo obbligata, vista la centralità che la strada riveste nella cultura

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americana e in una civiltà urbana nella quale la main street sostituisce la piazza della città europea come luogo dell’addensarsi della socialità urbana e della stessa identità collettiva. Una strada posta sovente in alternativa alla casa, posta quest’ultima a custodia di valori ormai non più capaci di rispondere al desiderio di vita dei ragazzi nati dopo la guerra o di rendere giustificato e accettabile un destino di alienazione e sconfitta, gabbia da cui schizzare fuori appena possibile e possibilmente per sempre, sinonimo di sconfitta certa prima ancora di iniziare a giocare. La strada è il luogo della vita sociale con i suoi riti e i suoi codici e dunque il presente da vivere con un futuro dentro, perché sarà poi attraverso la strada che si fuggirà da questa città che è «a death trap» e «a suicide rap» L’altra città è la città degli sfruttati e dei senza speranza, bianchi e neri, ma anche delle altre minoranze, e va peraltro sottolineato che è proprio con Springsteen che per la prima volta il mondo dei latinos, così presente nelle aree di margine delle metropoli americane, emerge in una cultura come quella rock che ha avuto i suoi grandi eroi neri (Chuck Berry, Little Richard, Hendrix) ma sempre stata sostanzialmente una cultura “bianca”. Attraverso una scrittura che pare ricollegarsi alla «tradizione whitmaniana di un romanticismo proletario che investe di grandezza gli oggetti ordinari» (Cullen) come può esserlo «l’insegna gigante della Exxon che porta luce a questa bella citta» e sotto la quale ci si ritrova, la restituzione della strada-città di Springsteen è dura, e intrisa di colpa e di violenza. Del resto It's Hard to Be a Saint in the City e da quell’inferno, se non ti salvi in una rock’n’roll band, si può uscire in due modi, con il colpo di fortuna o con la violenza.

2: Veduta di Manhattan dal New Jersey in una fotro della fine degli fine anni Settanta. La “città del gioco”. Così presente nella civiltà urbana americana, e le sue malinconiche capitali cantate anni dopo in Atlantic City o Reno, dove l’industria del gioco d’azzardo si intreccia con quella del divertimento e del tempo libero, proprio come era prima del declino di disoccupazione e smarrimento nella “sua” Asbury Park, della quale vengono evocati i luoghi-

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simbolo: il boardwalk (un’altra strada-città), il circuit per le corse, il casino, naturalmente, i parchi giochi. La “città della violenza”, che non è il crimine organizzato, ma il gesto insensato di affermazione individuale, atto disperato di riscatto, da parte di uomini “lost in the flood”, cui non è stata offerta altra scelta possibile per divincolarsi dall’ordine delle cose di cui sono prigionieri che infrangerne le leggi, e del resto è forte e dichiarato il debito contratto da Springsteen con i tanti outlaws del blues delle origini, dell’hard country, ma anche della letteratura hardboiled e del cinema noir. Sebbene non ci sia (ancora) da parte di Springsteen una lettura attenta anche alle dinamiche sociali in cui si annidano le ragioni di una violenza che è dentro l’ordine naturale dei fatti urbani in questi lacerti di città abbandonata, non c’è niente tuttavia della connotazione stilizzata di una West Side Story o di Rebel Without a Cause, e nessun moralistico happy end a edulcorarne le storie, perché questa è la città come può essere vista e vissuta da un poeta di vent’anni che suona il rock and roll, ma è pur sempre il figlio di un operaio bianco del New Jersey. 2. «Dead Man Town»: la città fabbrica L’ingresso nel mondo adulto, che accompagna il suo capolavoro del 1978, Darkness on the Edge of Town e porta Springsteen necessariamente a confrontarsi anche con una figura-chiave della propria storia personale come il padre, determina una vera e propria maturazione/ mutazione che conduce, come è stato scritto (D’Amore, p. 73 ), da una visione “mitica” a una “storica” della realtà, e quindi a una rappresentazione della città nella quale si inserisce prepotente il mondo del lavoro, e i suoi luoghi. La città-strada è ora soprattutto la città-fabbrica, cui dedica una delle canzoni più importanti del disco. La città di margine non è più quella del sottoproletariato borderline che si è messo volontariamente fuori dal mercato del lavoro legale, ma la città operaia, quella che ci fanno vedere Cimino ne Il Cacciatore o Ritt in Norma Rae (1979). La fabbrica coincide con la città: dona lavoro e quindi speranza e progetto per tutti, le sue strutture, e persino i suoni e gli odori si impastano con la vita degli uomini e le donne che la abitano, si preoccupa di costruire l’identità collettiva. «Quando piove, l’aria umida avvolge la nostra città con l’odore dei fondi di caffè bagnati che si diffondono dalla fabbrica di Nescafé all’estremità orientale della città. Non mi piace il caffè, ma mi piace quell'odore. È confortante; unisce le persone della città in un’esperienza sensoriale condivisa; è rappresenta un esempio di buona industrializzazione, come il fragore della fabbrica che assorda le nostre orecchie, porta lavoro e segnala la vitalità della nostra città» (Springsteen 2016). Ma porta anche una sofferenza che viene denunciata come ingiusta. In Factory, in una manciata di versi Springsteen riesce a parlare a un tempo della vita del padre e della intera condizione operaia. Ci fa capire cosa può essere una fabbrica e, forse, il suo più autentico e doloroso significato: solitudine e alienazione, dove scontare la pena a ripetere per tutta la vita gesti senza senso per un salario da fame, «luoghi di paura/luoghi di dolore» persino fisico, come quello che attacca l’udito del padre operaio e ne mina l’integrità psichica. La violenza ora viene da un’altra parte: è quella delle differenze di classe e dello sfruttamento e i suoi effetti sono così tragicamente chiari, poiché negli occhi del padre e di ogni altro salariato della città non c’è che «morte». In questi paesaggi urbani le strade naturalmente ci sono ancora e servono, come sempre, a scappare da una città nella quali i perdenti hanno perso la loro “genericità” e sono quelli che il lavoro ce l’hanno. Ma la fuga è ormai un mito inservibile, perché la corsa disperata verso una qualche Promise Land che ormai si sa bene non esistere da nessuna parte ha ormai il solo scopo di “sopravvivere”, e in chi fugge c’è la

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stessa alienazione e solitudine che c’è in chi resta. Questa tematica è centrale in molti brani di opere successive, si pensi al drammatico nichilismo autodistruttivo di album come Nebraska o alla rassegnazione di The River, che nel titolo rende omaggio all’altro elemento dello spazio, questo naturale, che insieme alla strada (forse perché esso stesso una strada?) ricorre costantemente nella sua scrittura. Springsteen del resto non sa (ancora) dire da dove provenga l’oscurità che avvolge la città dei margini. Rintracciarne l’origine vuole dire, forse, iniziare a “capire” e per questo inizia a studiare la storia americana e ad affilare strumenti per una comprensione più consapevole delle dinamiche che regolano gli assetti sociali e precipitano spesso tragicamente nella vita delle persone. In un’intervista in cui spiega il significato di una canzone dal titolo emblematico (Murder inc., cioè Assassinio SpA) chiarirà con durezza sorprendente come «[...] l’omicidio sia stato incorporato nella società in modo molto sistematico, un sistema che fondamentalmente si è strutturato in modo che la violenza sia uno dei suoi sottoprodotti. L'idea stessa di una classe costante di persone private dei diritti civili sembra essere accettata come il prezzo per fare business» (Hilbum 1995).

3: Harlem, New York City, fini anne ‘70. Fot di Manel Armengol. In Born in the USA (1984) a un tempo il suo brano più celebre ed equivocato, e più ferocemente antiamericano, dimostra che ha le idee ben chiare su cosa stia diventando la città americana, ed è esplicito fin dal primo verso, quando il protagonista si presenta urlando di essere nato morto, perché la sua è una «Dead Man Town». Il racconto della condizione di proletario, ex detenuto e di veterano, si snoda sulla strada che unisce i soli due edifici attorno ai quali può essere condensato l’intero ciclo della vita del protagonista, e più in generale, quello della città industriale, due luoghi di detenzione: la raffineria dove lavorava, il penitenziario da dove fu prelevato per andare a sparare ai vietcong e dove alla fine è

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ritornato, da reduce abbandonato dal paese per cui era andato a dare la vita. Così come le ombre della raffineria sono le stesse della cella, così il protagonista di Working on Highway fa da detenuto un lavoro che potrebbe aver fatto prima di cacciarsi nei guai, un destino che accomuna tanti protagonisti di quel disco: «Rimani per le strade di questa città e ti conceranno per le feste». Nell’album si susseguono immagini di frammenti della homeland operaia: lo stabilimento tessile e la catena di montaggio della Ford, ma anche falegnamerie, autolavaggi, e poi il bar della strada, il circolo del sindacato e quello della Legione ma, si badi, anche l’ufficio di collocamento, e la stazione ferroviaria, dove ad andarsene sono i sogni, e dove «sembra che nessuno voglia più venire quaggiù». C’è infatti un dato nuovo che affiora in quelle liriche e che forse spiega perché «questo vecchio mondo duro» e «lo sta diventando sempre più»: sono le ristrutturazioni industriali e le crisi del ciclo capitalistico, crisi ricorrenti che se negli anni ‘60 – ricorda Springsteen – avevano come effetto gli scontri razziali, nei «tempi difficili nella mia città» si esprimono oggi in fabbriche dismesse, in edifici vuoti, in ambienti urbani abbandonati. 3. «Welcome to the new world order» «Adesso sulla strada principale ci sono solo vetrine imbiancate e negozi vuoti / Stanno chiudendo la fabbrica tessile dall’altra parte della ferrovia / Il caporeparto dice “questi posti di lavoro se ne stanno andando ragazzi e non torneranno mai più nella vostra città”». È “ancora” il 1984 ma, come un sismografo che registra in tempo reale i mutamenti delle relazioni tra individui e spazio urbano, Springsteen prima di ogni altro artista americano riesce con lucidità a (far) vedere – in mezzo alla montante onda dell’ottimismo reaganiano –ciò che è all’origine delle crisi che esploderanno negli anni 90 in tutta la loro drammaticità, e che ormai senza soluzione di continuità arrivano sino a oggi. Le grandi corporations trasferiscono i propri impianti all’estero dove la relazione sfruttamento-profitto determina condizioni (per loro) ancora più vantaggiose e a pagare il prezzo di riconversioni mai avvenute è prima il proletariato e ormai le fasce più basse della stessa middle class, che si “proletarizza”. Springsteen non può non raccontare questa città che va a pezzi e «gli effetti nefasti della postindustrializzazione, della disocuppazione, dell’outsourcing e della scomparsa del polo manifatturiero sui cittadini che avevano costruito l’America» (Springsteen 2016, p. 420). Incide così l’album The Ghost of Tom Joad (1995). Difficile trovare in tutta la cultura popolare degli anni 90 un’opera più diretta e più intensa e più dura nel raccontare come il «nuovo ordine mondiale» abbia potuto scaraventare tanta disperazione nel sogno, già spezzato, di blue collar workers senza lavoro e senza difese. I fantasmi di Steinbeck e degli anni ‘30 sono tornati, e sembrano volerci rimanere a lungo. La città operaia è ora una ex città industriale, la cui identità si regge ormai solo sull’orgoglio operaio che sopravvive nella memoria dei lavoratori delle fabbriche, dove si è fatta la storia americana, quella dell’economia ma anche quella delle guerre per la libertà, come spiega Springsteen in «Youngstown», una città reale. Si tratta di un centro a 60 miglia a nordovest di Pittsburgh, ed è scelta come simbolo della città postindustriale di fine millennio. Qui “Jenny”, l’acciaieria così affettuosamente chiamata da chi ci lavorava e da Bruce nella canzone, sputava un tempo fuoco e acciaio dalle ciminiere oggi spente ma che allora si dispiegavano in alto “come le braccia di Dio” in un cielo che era «di fuliggine e argilla» che era però un «beautiful sky», perché dava pane, dignità, identità, orgoglio. «No home/no job». La gente non ha perso solo il lavoro, ma anche la casa.

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4: Due vedute della città indistriale di Youngstown, con i suoi impianti dismessi. La città che attorno alla sua acciaieria orgogliosamente esibiva un’immagine di modernità e progresso è ora quella dei ricoveri e dei bivacchi. Le grandi infrastrutture che nella operosa città moderna un tempo erano a servizio del trasferimento di uomini e merci, oggi svolgono funzione sussidiaria: i ponti per farne bivacchi, gli acquedotti per lavarsi, i sottopassi e i parcheggi accampamenti per dormirci, accanto ai senzatetto venuti illegalmente dal Messico. La pressione sui salari è forte. Il protagonista di Straight Time è lo stesso di Born in the Usa, entra e esce dalla raffineria al carcere, ora sta rigando dritto ma il desiderio di passare la linea di confine tra legalità e crimine è fortissimo, tanto «ormai non puoi essere altro che un uomo mezzo-libero». E dato che «Nessuno mai darà a nessuno quello di cui ha davvero bisogno» (Dry Lighting) in molti si danno al crimine e, in fuga dalla polizia, cercano di passare quello stesso confine attraversato in senso opposto ogni giorno da centinaia di migranti latini, inseguiti, catturati, poi respinti e qualche volta uccisi. Uno dei pregi dell’opera è che Springsteen ha capito che l’immigrazione clandestina e la violenza della recessione che produce altra violenza come due aspetti che vanno rappresentati insieme, poiché nel nuovo ordine mondiale sono strettamente correlati. 4. «My city of ruins». Smarrimento, preghiera, riscatto Quel processo di disgregazione della città fisica che accompagna quella del tessuto sociale iniziato negli anni 80 prosegue inesorabile. Molti dei brani scritti all’inizio del nuovo millennio ne rilevano la portata e ne descrivono l’impatto sulla rappresentazione della città. Nel 2002 Springsteen pubblica The Rising, forse il documento più alto sull’11 settembre espresso dalla cultura americana tra letteratura, cinema e musica. Tuttavia, la «città di rovine» del titolo di una canzone di quell’album non è quella determinata dalla devastante violenza del terrorismo. Le rovine c’erano già, e del resto quella canzone era stata scritta prima di quella tragedia. Il suolo freddo e grigio, le strade vuote, la chiesa abbandonata, ovunque finestre sbarrate: è per una città del New Jersey che la canzone fu scritta, ma quella visione assume un significato più ampio, e un valore generale, perché vale per un qualsiasi quartiere on the edge of town, nelle cui strade si aggirano solo ladri, tossici, prostitute e ragazzi «in ginocchio», ognuno per sé, «come foglie sparse»: ecco dove è potuto giungere questa «inveterata catena di distruzione istituzionalizzata innestata dalle politiche sociali» (Springsteen 2016, p. 396).

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Wrecking Ball, capolavoro del 2012, è «un rabbioso atto d’accusa contro la morsa che ancora oggi attanaglia il paese, ulteriormente aggravata dalla deregulation, da enti di consotrolo inefficienti e da un capitalismo impazzito a spese dei lavoratori americani. Il ceto medio? Calpestato. La diseguaglianza eonomica ai livelli di fine 800. Era di questo che volevo scrivere» (Springsteen 2016). La città appare devastata come da una guerra. Che non è quella in Afghanistan o Iraq che si è presa tanti di quei ragazzi, ma quella che ha portato letteralmente Death in My Hometown. Sostiene Obama per la seconda volta, ma ha capito che non si può che contare su sé stessi, la resistenza può venire solo dal basso, come i ragazzi di Zuccotti Park, dei SDA della Ocasio o di “Jacobin” e non è per un caso che l’album si apre con un brano dal titolo We Take Care of Our Own.

Le rovine sono «significanti presenti – oggetti fisici – che rimandano a significati assenti – processi storici e culturali specifici» (Botta p. 233) e Springsteen evoca ora edifici esistenti, il cui destino è caricato di un significato simbolico molto forte, come quando ad esempio mette insieme in un unico verso la scala minima delle shotgun shacks, le case baracche e quella massima del “Superdome” di New Orleans, l’impianto coperto per i raduni di massa della società dello spettacolo trasformato nel 2005 in ricovero per

migliaia di sfollati dell’uragano Katrina. Nella canzone che dà il titolo all’album a parlare in prima persona è addirittura un’architettura. È lo stadio «sorto nell’acciaio qui nelle paludi del Jersey», che sta per essere demolito, quello dove giocano sia i Giants che i Jets di New York, una di quelle grandi architetture publiche che per 40 anni, oltre a ospitare i clamorosi record sportivi e i riti della cultura di massa per icone pop come Pelé e Woytila, ha addensato attorno alle battaglie degli eroi popolari del football soprattutto le piccole storie che insieme facevano la socialità operaia e donavano una identità condivisa alle tribù metropolitane dell’area. Proprio a Springsteen era toccato, il 9 ottobre 2009, di chiudere per sempre quello stadio di acciaio e di storie. È una malinconica, drammatica e orgogliosa esortazione a che la palla demolitrice facesse il suo dovere il più presto possibile, come il condannato che invoca il colpo alla nuca. La trasformazione urbana esige tuttavia un prezzo qualche volta assai alto: quello di un pezzo della memoria collettiva. Con la sua distruzione infatti «tutto questo acciaio e queste storie verranno spazzate via nella ruggine e tutta la vostra giovinezza e la vostra bellezza saranno ridotte in polvere, tutte le nostre piccole vittorie e glorie trasformate in un parcheggio». Conclusioni Sono passati alcuni anni da quel disco. In questo momento Springsteen è su un palcoscenico di Broadway, come ogni sera da un anno e mezzo, dove mette in scena la versione teatrale dell’autobiografia. Questa volta racconta/canta la sua vita, ma attraverso di essa anche la società americana, e quindi la città. Nei suoi ricordi la piccola città della sua infanzia è ancora un luogo di condivisione e di vita. Ne parla molto. Ma il ricordo rifugge dal sentimentalismo del “buon tempo antico” perché la memoria come rimpianto e come perdita viene scaraventata nel presente, diviene pulsione, desiderio e volontà di resistenza. «C’è un

5: Resistere per cambiare. Un murale a Youngstown

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posto qui - puoi sentirlo, annusarlo - dove le persone vivono, soffrono, gioiscono dei piccoli piaceri, giocano a baseball, muoiono, fanno l’amore, hanno figli, si ubriacano nelle notti di primavera e fanno del proprio meglio per resistere ai demoni che cercano di distruggere noi, le nostre case, le nostre famiglie, la nostra città». I suoi ricordi sono declinati al presente, il nostro. Nell’“umanesimo controegemonico” di Springsteen (Papke, 2007) ricordare è molto importante, ed è oggi un atto politico, perché «soprattutto di questi tempi ricordare chi siamo e chi possiamo essere collettivamente non sarebbe per niente una cattiva cosa» (Springsteen 2018). Bibliografia: BATTAGLIA, D. (2009). La voce, la chitarra, l’altoforno. Bruce Springsteen canta la deindustrializzazione di Youngstown, nel nordest dell’Ohio, Milano, Sintel. Bruce Springsteen, Cultural Studies, and the Runaway American Dream, (2012), a cura di K. Womack, J. Zolten, M. Bernhard, New York, Penguin Books. BOTTA, E. (2018). My City of Ruins: Bruce Springsteen e l’utopia fra le rovine, in «Altre Modernità», Facoltà di Lettere e filosofia, Università di Milano, pp. 227-236. CAVICCHI, D. (1998). Tramps Like Us: Music and Meaning among Springsteen Fans, New York Oxford University Press. COLES, R. (2003). Bruce Springsteen’s America: A Poet Singing, New York, Random House. CORN, D. (1996). Springsteen Tells the Story of the Secret America, Mother Jones. CRANE, B. (2002). A Place to Stand: A Guide to Brice Springsteen’s Sense of Place, Baltimore, Palace Books. CULLEN, J. (1997). Born in the U.S.A. Bruce Springsteen and the American Tradition, New York. D’AMORE, A. (2002). Due canzoni per una città: “American Skin” e “My City of Ruins” di Bruce Springsteen, in «Ácoma. Rivista Internazionale di Studi», 22, pp. 38-48. D’AMORE, A. (2002). Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, Roma manifestolibri. GOODMAN, F. (1997). The Mansion on the Hill. Dylan, Young, Geffen, Springsteen and the Head-On Collisionof Rock and Commerce, London, Jonathan Cape. HEMMENS, C. (1999). There's A Darkness on the Edge of Town: Merton's Five Modes of Adaptation in the Lyrics of Bruce Springsteen, in «International Journal of Comparative and Applied Criminal Justice», 23, pp. 127-136. HIATT, B. (2009). Bruce Springsteen: Working-Class Superhero, in «Rolling Stone», 24 dicembre. HILBUM, R. (1995). Boss: A Man and his Family (intervista a Bruce Springsteen), in «Los Angeles Times», 6 March, 1995. JAPPELLI P., SCOGNAMIGLIO G. (2016). Like a vision. Springsteen e il cinema, Napoli, Graus. LABIANCA E. (1993). Local Hero. Bruce in the Words of His Band, Milano, Great Dane Books. LABIANCA E. (2002). American Skin: vita e musica di Bruce Springsteen, Firenze, Giunti. LABIANCA E., CANITANO G. (2005), Real world, Sulle strade di Bruce Springsteen, Milano, Arcana. LODER K. (2002). Gimme Shelter: Springsteen Searches for Love and Faith in The Ruins, in «Rolling Stone», 22 agosto, pp. 81-82. KIRKPATRICK, R. (2009). Magic in the Night. The Words and Music of Bruce Springsteen, New York, St. Martin’s Griffin. MAHARIDGE, D., WILLIAMSON, M. (1985). Journey to Nowhere. The Saga of the New Underclass, New York, Hyperion. MAHARIDGE, D., WILLIAMSON, M. (2003). Someplace Like America. Tales from the New Great Depression, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press. MARSH, D. (2004). Bruce Springsteen. Two Hearts. The Definitive Biography (1972-2003) New York - London, Routledge. MASCIOTRA, G. (2010). Working on a Dream. The Progressive Political Vision of Bruce Springsteen, New York, Continuum. MASUR, L.B. (2010). Runaway Dream. Born to Run and Bruce Springsteen’s American Vision, New York-Berlin-London, Bloomsbury Press. NUCARA, A. (2016). Glory Days. Nostalgia identitaria nella poetica di Bruce Springsteen, in «H-ermes. Journal of Communication», n. 8, pp. 201-220. PORTELLI, A. (2015), Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, Roma, Donzelli. Racing in the streets. The Bruce Springsteen reader (2004), a cura di J.S. Sawyers, New York, Penguin Books.

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Le utopie smarrite della ‘Bagnoli jungle’ nella rappresentazione delle arti visive The lost utopias of ‘The Bagnoli Jungle’ in visual arts’ representation BARBARA BERTOLI Consiglio Nazionale Delle Ricerche (CNR) Istituto Ibaf. Abstract Le arti visive sono un mezzo di comunicazione estremamente efficace per rappresentare l’ambiente urbano e il paesaggio antropizzato. Nel contributo s’intende analizzare come fotografia, documentaristica e filmografia abbiano rappresentato il quartiere di Bagnoli che oggi, dopo vent’anni di piani disattesi, si mostra come una shrinking city in miniatura. Gli interessi speculativi hanno decretato, nel corso del Novecento, la distruzione ambientale di uno dei luoghi più suggestivi della città partenopea dalla vocazione turistica negata. Con la gloriosa fabbrica come sfondo o al centro del racconto, attraverso lo sguardo cinematografico e fotografico, la storia di una periferia anomala di una delle aree dismesse più grandi d’Italia si offre con una particolare potenza evocativa. Nel caso di Bagnoli, lo sguardo fotografico e cinematografico ha colto, in maniera significativa, la rilevanza delle disfunzioni, la perdita d’identità di un quartiere operaio ma anche una volontà di riscatto.

Visual arts are an extremely effective media to represent urban environments and the inhabited landscape. The paper aims at analyzing how photography, documentaries and motion pictures have represented the Bagnoli neighborhood which today, after twenty years of unattended plans, appears to be a miniaturized shrinking city. Speculative interests have decreed, throughout the Twentieth century, the environmental destruction of one of the most powerful places in the Naples’ area, with a neglected tourism vocation. With the glorious factory as the background or main focus of the narrative, through photographic and cinematographic points of view, the history of an anomalous periphery in one of Italy’s greatest unused areas appears with a unique evocative strength. In the case of Bagnoli the photographic and cinematographic points of view caught, rather significantly, the relevance of misfunctions, the loss of identity of a proletary neighborhood, as well as a will of redemption. Keywords Bagnoli, paesaggio, arti visive. Bagnoli, landscape, visual arts. Introduzione Il presente contributo trae ispirazione da alcune riflessioni fatte a margine della visione del film Bagnoli Jungle (2015) di Ettore Capuano. Il film ha offerto a chi scrive un interessante spunto di riflessione per ampliare una ricerca rispetto al fondamentale contributo dato delle arti visive nel racconto dei luoghi e dei “non luoghi” dell’abbandono delle nostre città. Il territorio, che rimane la scena fondamentale del film di Capuano, è uno scorcio di verità sul quale dissimula i suoi personaggi guida [Caruso 2015, 45]. Le scene sono ambientate nei luoghi simbolo di un quartiere alla deriva, dalla forte identità operaia tradita dove, dopo la dismissione della fabbrica, in ogni angolo di strada si legge la tensione di un quartiere dimenticato dai politici, la

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Le utopie smarrite della ‘Bagnoli jungle’ nella rappresentazione delle arti visive

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disfunzione di un territorio che respira ancora la ruggine del grande sogno industriale svanito nel nulla. Nel corso del Novecento, le arti visive hanno colto il modo in cui la ‘fabbrica’ ha segnato e scandito i luoghi e le vite degli abitanti di Bagnoli nonché il modo in cui il territorio si è organizzato intorno al gigante industriale generando quel senso di profonda e radicata identificazione tra fabbrica e città. La dismissione ha segnato la fine del binomio tra industria e città. La violenza del racconto attuale fornito delle arti visive, è legata più che alle ferite inferte al paesaggio e all’ambiente, al vuoto e all’abbandono nato dall’incapacità di offrire alla città contemporanea una sua necessaria rigenerazione, l’occasione di riorganizzarsi economicamente e urbanisticamente, trovando nuove motivazioni culturali. Va precisato che lo screening delle fonti iconografiche, nel corso della ricerca, si è focalizzato principalmente sull’immagine dell’immensa area dell’ex fabbrica, uno dei maggiori vuoti urbani d’Europa che domina lo spazio e il senso dei luoghi. 1. Bagnoli le immagini: un ricco repertorio nell’obbiettivo di fotografi, fotogiornalisti ed artisti1. Quando a ridosso della spiaggia di Coroglio, adagiata ai piedi della collina di Posillipo, nel 1853 si insediarono la vetreria di Melchiorre Bournique e Vincenzo Damiani e la fabbrica di acido solforico, allume e solfato di ferro di Ernesto Lefevre, l’intera area conservava ancora tutte le affascinanti potenzialità di un territorio mediterraneo votato ad uno sviluppo coerente con la naturale e ridente cornice paesaggistica. Oggi le immagini del litorale raccontano una storia molto lontana da quella fatta di quiete e salubrità dei luoghi. Le prime rappresentazioni fotografiche del paesaggio di Bagnoli, offerte dalla fotografia di fine Ottocento, si relazionarono con la tradizione delle vedute, mostrando con un approccio descrittivo e documentario l’armonia del paesaggio naturale. Le fotografie degli Alinari e di Giorgio Sommers raccontavano di un territorio agricolo che si spingeva quasi fino alla linea di costa e della quiete del golfo. Ben presto la fotografia si piegò ad usi differenti quale quello turistico-commerciale tipico della produzione della cartolina illustrata che fissò in immagini stereotipate il territorio. Dagli anni Venti è ampiamente illustrato il tratto di costa che da Coroglio si spinge a La Pietra dove i ruderi delle antiche Terme La Pietra e Patamia testimoniavano l’originaria vocazione di Balneolis. La riscoperta fortuita della prima fonte termale nel 1827, denominata poi Terme Masullo, portò alla rinascita progressiva del termalismo. Sulla costa di Bagnoli si delineò un nucleo di rinomati impianti termali integrato da strutture di accoglienza con caratteristiche turistiche. Le Terme Manganella (1831), Cotroneo (1831), Rocco (1850) e Tricarico (1882) svolsero un ruolo significativo nello sviluppo dell’economia locale; i primi stabilimenti balneari nacquero come prolungamento di quelli termali. Dagli anni Venti Bagnoli si affermò come meta di villeggiatura, svago e di cura; le cartoline turistiche documentano il sistema di alberghi pensioni, ristoranti ed infrastrutture presenti in zona. Lo sguardo fotografico di questa particolare produzione segue due indirizzi: da un lato si isolano le singole emergenze architettoniche dal contesto urbano trasformandole in souvenir iconicamente ritagliati, astratti dalla vita e dall’uso, e dall’altro si fanno emergere le scene di vita quotidiana nel contesto urbano o lungo la costa. L’attività termale durò fino agli anni Cinquanta; successivamente la crescita dell’urbanizzazione ed il potenziamento delle industrie sancirono la fine del termalismo ed anche un cambio di rotta nella fotografia del paesaggio costiero che risulterà dominato dalla ‘fabbrica’ e le sue ciminiere fumanti.

1 Si ringrazia l’Archivio Carbone per aver concesso l’uso della foto.

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1: La piana di Coroglio agli inzi del ’900 (Foto Alinari), dal sito del comune di Napoli; Coroglio e Nisida (foto Giorgio Sommer); Cartolina illustrata fine ’800 le prime fabbriche sulla spiaggia di Coroglio; Cartolina di Coroglio anni ’60 la spiaggia con gli stabilimenti balneari ancora esistenti. Com’è noto, fu a seguito della legge speciale del 1904, varata sotto la spinta dell’inchiesta Saredo (1902), che Francesco Saverio Nitti, intravedendo le potenzialità dell’industria siderurgica per lo sviluppo dell’economia locale, diede applicazione alla prima legge speciale per l’industrializzazione di Napoli2. A dirottare la scelta dell’insediamento siderurgico dalla periferia orientale di Napoli verso quella occidentale fu proprio L’ILVA [Gravagnuolo 1991, 8]. La società, costituitasi a Genova nel 1905, aveva acquisito a basso costo la vasta area agricola alle spalle della spiaggia di Coroglio. I lavori di costruzione del primo impianto italiano a ciclo continuo iniziarono nel 1906, sotto la direzione di un’equipe di tecnici tedeschi guidata dall’ingegnere Friz Lührmann [Dall’Occhio, 27]. Da quel momento tramontarono per sempre le utopie rispetto alla vocazione residenziale e turistica che nel 1883 avevano ispirato l’architetto Lamont Young nel redigere il progetto di un quartiere con luoghi di delizia e di svago. La storia industriale dell’ILVA, la sua ramificazione nel territorio di Bagnoli e le conseguenti trasformazioni ambientali e paesaggistiche, la produzione, la vita della classe operaia, sono ampiamente illustrate nel consistente corpus fotografico nell’Archivio ILVA di Bagnoli. Le fotografie dell’archivio ILVA costituiscono ‘documenti’ imprescindibili per la memoria storica e l’identità di Bagnoli. Di particolare interesse sono le fotografie che mostrano gli effetti dirompenti della Seconda Guerra Mondiale sul centro siderurgico dovuti alla furia distruttrice dei nazisti prima della disfatta. Cessata la guerra, l’ILVA si riprese rapidamente, ed iniziò ad ampliare gli impianti e avanzare sulla linea di costa; il danno paesaggistico e 2 Napoli, Archivio dell’Istituto Campano dell’Antifascismo e dell’età contemporanea (ICRS), Fondo lavoratori Ilva-Italsider, B.1 f.1.

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2: Cartolina illustrata Bagnoli,1904, Terme con Pensione Tricarico; Cartolina illustrata anni ’30 Coroglio ingresso del Lido delle Sirene; Cartolina illustrata anni ’30 le Terme Manganella; Cartolina illustrata anni ’40, Bagnoli stabilimento balneare Fortuna. ambientale si stava consumando inesorabilmente. Alcune foto, conservate nell’Archivio delI’Istituto Campano dell’Antifascismo e dell’età contemporanea (ICRS) mostrano l’espansione della fabbrica alla fine degli anni ʼ503. Un altro sguardo è quello fornito dal fotogiornalismo che dagli anni quaranta, attraverso gli articoli a corredo delle principali testate giornalistiche, inizia a prendere parte al dibattito sulla città mantenendo il proprio linguaggio, utilizzando i propri strumenti, dando un’informazione visiva di avvenimenti piccoli o grandi. Traccia interessante del contributo dei fotoreporter alla costruzione e divulgazione dell’immagine di Bagnoli si ritrova nelle foto conservate nell’Archivio Carbone. Riccardo Carbone (1897-1973), fotoreporter del quotidiano Il Mattino, tra i primi accreditati a Napoli come giornalista già dagli anni Venti ed impegnato culturalmente nell’affermare il ruolo del fotogiornalismo, aveva persuaso Eduardo Scarfoglio a dare maggior spazio alle immagini come documentazione giornalistica. Un corpus consistente di fotografie conservate nell’archivio mostrano il volto turistico e quello industriale di Bagnoli. Le immagini sono quelle patinate dei concorsi di bellezza delle miss Ondina Sport Sud nei Lidi à la page lungo la costa, o quelle drammatiche dei bagnanti sulla spiaggia di Coroglio con lo sfondo delle

3 Napoli, Archivio dell’Istituto Campano dell’Antifascismo e dell’età contemporanea (ICRS), Fondo lavoratori Ilva-Italsider, B.2 f.8.

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3: Bagnanti nella spiaggia di Coroglio4, Luglio 1954; Concorso Ondina di Sport Sud, Lido Pola, Agosto 1957; (Foto Archivio Carbone)5. Giuseppe Ungaretti in visita all’Italsider, Napoli 1969 (foto Federico Patellani )6. ciminiere fumanti, o ancora quelle di visite illustri nel cantiere ILVA come quella di Giovanni Gronchi del 1960. Altra testimonianza autorevole è quella fornita dal ‘Fotogiornalista nuova formula’ Federico Patellani [Patellani, 1943]. Nell’Archivio Patellani sono conservati oltre 30 scatti che documentano la visita del 1969 di Giuseppe Ungaretti allo stabilimento Italsider. Il Poeta fu invitato dall’amico Renato Cappa, ufficio stampa dell’Italsider (co-fondatore della rivista Nord Sud) figura chiave per la diffusione dell’immagine dell’industria in quegli anni. Gli scatti di Patellani seppero cogliere poeticità, curiosità nello sguardo del grande maestro ed al contempo la complessità del freddo scenario industriale. I resoconti dei fotoreporter dalla fine degli anni Sessanta, iniziarono a produrre un nuovo tipo di fotografia che si ispirò ai nuovi fenomeni che investirono le città in crisi ed in trasformazione. I resoconti che, grazie al fotogiornalismo, ebbero una larga diffusione, analizzarono il paesaggio con un linguaggio nuovo, spesso aspro e non ‘fotogenico’. Questo tipo di fotografia, lontana dalla comunicazione pubblicitaria o turistica, guardava al paesaggio urbano non dal punto di vista puramente estetico ma ne ricercava la complessità degli scenari. Spesso lo sguardo del fotografo si spostò dagli oggetti rappresentati, al valore

4 Napoli, Archivio fotografico Riccardo Carbone, “Bagno Savoia e altri”, scatola 070, B. 1990. 5 Napoli, Archivio fotografico Riccardo Carbone, Ondina Sport Sud al Lido Pola, scatola 070, B. 1990. 6 Cinisello Balsamo (MI), Museo di Fotografia Contemporanea, Fondo Federico Patellani, PTL.496888; PTL.496913.

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4: Panorama di Coroglio 1991 (foto Raffaela Mariniello) da Bagnoli, una fabbrica; Città della scienza, due anni dopo l’incendio, foto esposta nella mostra “Messa a Fuoco” (foto Mimmo Jodice); Il belvedere di Coroglio, foto esposta nella mostra al Quirinale “Da io a noi. La città senza confini” Roma 2017, (foto Francesco Jodice); graffito di piazzetta Bagnoli ispirato al Pinocchio di Jacovitti eseguito dagli artisti dell’associazione Bereshit, messaggio politico, oltre che artistico, sulla sorte di Bagnoli. simbolico che le persone vi attribuivano. La fotografia diventa progressivamente dagli anni Settanta in poi uno strumento di verifica dei cambiamenti del paesaggio come riflesso dei cambiamenti sociali. Dall’altro lato, molti fotografi inaugurano un modo di lavorare più complesso e cosciente che li avvicinò all’arte. Significative le fotografie di Bagnoli di Mimmo Jodice che, tra denuncia sociale e sperimentazioni espressive, già dagli anni Settanta si era inserito nel dibattito culturale della città analizzando consapevolmente la realtà, sintetizzandola in modo rigoroso e pulito [Donato 1978, 44]. Testimonianza della fotografia artistica si ritrova anche nei suggestivi scatti di Raffaella Mariniello raccolti nel volume Bagnoli Una Fabbrica, lontani anni luce dalla olografia di Napoli e dei suoi dintorni; il racconto è quello di una steel town il giorno prima del naufragio [Gravagnuolo 199,7]. Il 20 ottobre 1990, con l’ultima colata, fu spenta definitivamente l’area a caldo’ del centro siderurgico di Bagnoli; tantissime le foto pubblicate sulle principali testate giornalistiche7. Della dismissione romanzata da Ermanno Rea, restano le tracce nelle foto artistiche di Vera Maone [Rossanda-Raimondino 2000]. Lo smantellamento dell’Italsider mise al centro del

7 Napoli, Archivio dell’Istituto Campano dell’Antifascismo e dell’età contemporanea (ICRS), Fondo lavoratori Ilva-Italsider, B.4 f.28.

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dibattito progettuale le problematiche rispetto il recupero delle aree dismesse in bilico tra conservazione e demolizione8. Nel 1993 si avviarono i primi passi concreti verso la riqualificazione dell’area industriale dismessa di Bagnoli; il simbolo della rinascita e riqualificazione del waterfront di Coroglio, fu la Città della Scienza. Come è noto, la notte del quattro marzo 2013 la Città della Scienza subì un incendio doloso. Due anni dopo l’incendio, fu inaugurata nel Padiglione Marie Curie di Città della Scienza la mostra Messa a Fuoco. la memoria del rogo fu affidata a quattro dei più autorevoli interpreti della fotografia partenopea: Antonio Biasiucci, Fabio Donato, Mimmo Jodice e Raffaela Mariniello. Gli artisti eseguirono delle serie fotografiche ripercorrendo gli spazi del museo devastato dall’incendio; i loro lavori andando oltre l’immediato delle macerie e con forza evocativa lasciarono intravedere ciò che era ma anche cosa sarebbe diventato il nuovo Science Centre di Città della Scienza. Molte le mostre recenti con al centro il tema delle periferie, delle aree dismesse post industriali, in cui Bagnoli compare come una periferia ormai alla deriva. 2. Bagnoli nei documentari, cinegiornali e film d’autore. Tra primo e secondo dopoguerra, si dispone di un nuovo strumento per raccontare il paesaggio urbano, con immagini per la prima volta proposte in movimento. Il corto e il lungometraggio divengono mezzi della propaganda di regime, come nel caso dei cinegiornali L.U.C.E, o supporti per documentari d’istruzione, ma anche mezzi del cinema d’autore [Castagnaro 2016, 653]. Una delle grandi possibilità del cinema è proprio quella di allargare lo sguardo sul paesaggio; nel cinema paesaggio significa non solo il rapporto tra uomo e mondo, fra personaggio e spazio, ma anche il rapporto tra i diversi livelli di sguardo. Riflettere sul paesaggio nel cinema significa riflettere anche su tre esperienze visive; lo sguardo dei personaggi dentro il film, lo sguardo del film rispetto il paesaggio circostante e lo sguardo dello spettatore [Bernardi 2002,169]. A partire dagli storici della Nouvelle Histoire, che affermarono la consapevolezza di cambiare la definizione di documento, si pose al centro della questione il concetto di lunga durata per un’analisi della realtà che si fondava sui tempi, sui ritmi e sull’evoluzione della mentalità; i mass media in quest’ottica diventavano un veicolo privilegiato e poco esplorato per produrre documenti [Melanco 2005,10]. La filmografia offre allo storico dell’architettura un immenso territorio di documenti fin a quel momento inesplorati in cui il paesaggio naturale e urbano fa da protagonista o da semplice sfondo al racconto. Uno dei primi documenti cinematografici, che testimonia il paesaggio di Bagnoli di inizio Novecento è quello offerto dal regista Gustavo Serena (1882-1970) nel lungometraggio Assunta Spina (1915) interpretato dalla diva del cinema muto Francesca Bertini. Nella sequenza il regista, pone i personaggi in primo piano; sullo sfondo il panorama è quello del golfo in cui si scorgono le terre coltivate i piccoli poderi e il nucleo abitato a ridosso della spiaggia di Coroglio. Nelle inquadrature si pone l’accento sulla quiete del paesaggio escludendo le immagini dei primi insediamenti industriali. A cavallo tra le due guerre l’immagine filmica di Bagnoli cambia drasticamente; il paesaggio è quello proposto dai cinegiornali del regime che registrano l’entusiasmo e la fatica dei lavoratori nell’area industriale. La documentazione è quella dall’archivio dell’Istituto L.U.C.E. Un videogiornale del 1932, rende pubblica la visita delle altezze reali Principi di Piemonte negli stabilimenti dell’ILVA; il paesaggio è quello degli insediamenti siderurgici fumanti.

8 Napoli, Archivio dell’Istituto Campano dell’Antifascismo e dell’età contemporanea (ICRS), Fondo lavoratori Ilva-Italsider, B.5 f.32.

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5: Panorama Bagnoili, fotogramma del film muto Assunta Spina (1915), del regista Gustavo Serena; Vittorio De Sica sulla terrazza del Lido Pola, fotogramma tratto dal film di Dino Risi Profumo di donna (1974), L’area dismessa dell’Italsider, fotogramma tratto cortometraggio di E. Iannaccone (2016). Fotogrammi tratti dal film Bagnoli jungle(2015), di Antonio Capuano. Cinegiornali, cortometraggi mostrano il volto nuovo di un territorio dove l’industria si sta radicando velocemente e profondamente. Atre immagini del paesaggio che sta mutando, compaiono come sfondo al dramma poliziesco Marechiaro (1949), del regista Giorgio Ferroni, brillante documentarista del L.U.C.E. Negli anni Cinquanta, con la generale ripresa economica italiana, iniziano gli anni d’oro del cinema italiano. Il cinema non sembra interessato al volto industriale del paese e, quando se ne occupa con documentari, mostra una versione edulcorata della realtà industriale; un esempio ne è il documentario Acciaio (1955) di Vittorio Gallo. Acciaio rappresenta comunque un documento unico per osservare l’ampliamento del complesso siderurgico all’indomani del Piano americano di Ricostruzione Europea (E.R.P.), conosciuto come Piano Marshall. La nascita dell’Italsider derivante dalla fusione dell’ILVA e della Cornigliano è documentata in un cinegiornale del 1961 del L.U.C.E., le panoramiche sono sugli stabilimenti che invadono la costa. Bisogna aspettare la fine degli anni Sessanta per assistere ai primi documentari in cui emerge la denuncia ambientalista; Inquinamento (1967) dell’Istituto L.U.C.E documenta la selva di ciminiere contro il golfo di Napoli, nelle sequenze che illustrano la rassegna: l’Italia da salvare. Nei primi anni Settanta Bagnoli compare in una delle scene del Film Profumo di Donna (1974), di Dino Risi, autore fine e non convenzionale della “commedia all’italiana” [Comuzio 1975, 176]. In una sequenza del film il magistrale Vittorio Gassmann appare sulla terrazza del Lido Pola; l’ambientazione scanzonata del rinomato ritrovo balneare contrasta con il dramma interiore del protagonista e con il paesaggio industriale fumante sullo sfondo della scena. Bagnoli, dopo la dismissione della fabbrica, è diventata una città di ruderi e spazi vuoti di cui

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c’è traccia nella filmografia contemporanea. Nel film Passione di John Turturro (2010) è la terrazza sgangherata dell’ormai dimesso Lido Pola, simbolo della fortunata stagione turistica del luogo, ad ospitare l’interprete di Maruzzella. Della dismissione c’è poi traccia nel film Bagnoli Jungle (2015), di Antonio Capuano che lavora sistematicamente a un’immagine cruda e contemporanea della città, con una ambientazione realistica che denuncia lo sfaldamento del paesaggio metropolitano e il contemporaneo sfacelo del paesaggio umano. Il regista Napoletano, ispirato dallo scultore del Nouveau Réalisme César Baldaccini, che esponeva come opere d’arte pezzi di scarto del mondo industriale, nel suo film mette in scena il torbido di una società che tra le rovine dell’Ilva si muove vive e sopravvive. 3. Schema riassuntivo dei principali video visionati.

ANNO TITOLO-WEB-LINK DESCRIZIONE 1915 Assunta Spina, di G. Serena

https://www.youtube.com/watch?v=fZqNIsZuoYk

Nel film interpretato dalla diva Francesca Bertini, c’è una lunga sequenza che mostra il golfo di Napoli, nella quale si scorge Nisida e il territorio di Coroglio.

1932 Napoli. Le loro altezze reali i Principi di Piemonte visitano le acciaierie e gli alti forni di Pozzuoli. Giornale Luce B0186

Panoramiche sull’area industriale, le autorità accolgono i principi e mostrano gli stabilimenti e i processi di lavorazione.

1949 Marechiaro di G. Ferroni

Melodramma poliziesco nel quale appaiono sfondi panoramici di Bagnoli, Nisida, e le acciaierie di Bagnoli.

1955 Acciaio di Vittorio Gallo Documentario che mostra i cambiamenti del complesso siderurgico di Bagnoli agli inizi degli anni Cinquanta.

1961 Una nuova grande società Istituto Luce Cinecittà https://www.youtube.com/watch?v=w6bgy20TM_I

Nasce l’Italsider dalla fusione dell’ILVA e della Cornigliano: veduta degli stabilimenti ILVA a Bagnoli.

1967 Inquinamento Istituto Luce Cinecittà https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000044042/2/inquinamento-

Le immagini di Bagnoli con le panoramiche sull’Italsider, aprono le sequenze della mostra l’Italia da salvare.

1974 Profumo di donna D. Risi lungometraggio https://vimeo.com/132131933

Una lunga sequenza mostra immagini degli interni ed esterni del Lido Pola e della spiaggia, l’area dell’Italsider compare sullo sfondo.

2010 Passione di J. Turturro https://www.youtube.com/watch?v=FSqFUajB2QE

Nel film musicale, le scene di Maruzzella,interpretata da Cosmo Parlato, sono girate sulle terrazze ormai scalcinate del lido Pola e sulla spiaggia prospiciente l’isola di Nisida.

2012

Bagnoli l’eterna incompiuta https://www.youtube.com/watch?v=pg4YkNQnl9U

Reportage, Viaggio all’interno dello scheletro industriale della ex-Italsider, il grande polo metallurgico che per decenni ha dato lavoro a migliaia di napoletani.

2013 Bagnoli: la sua storia, il suo presente, le sue prospettive https://www.youtube.com/watch?v=W_m5Zqm6u8o

Rassegna fotografica su Bagnoli, immagini storiche degli inizi del 900, dell’industrializzazione, foto attuali.

2013 Il cuore e l’acciaio l’incredibile storia dell’Italsider di Bagnoli https://www.youtube.com/watch?v=gH0JPPoIkVU

Reportage della vicenda industriale di Bagnoli, il video contiene molte immagini d’epoca.

2013 L’esecuzione di E. Iannaccone Cortometraggio https://www.youtube.com/watch?v=AKC_e-dXDdw

Vincitore di un David di Donatello. Gli esterni del film, sono girati per le strade di Bagnoli e nell’area dismessa dell’ex Italsider.

2015 Bagnoli Jungle di A. Capuano lungometraggio https://www.youtube.com/watch?v=okpWuwj0gQg

Il film girato integralmente a Bagnoli, mostra la giungla del popoloso quartiere.

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Conclusioni Lo sguardo delle arti visive ha accompagnato la lunga e articolata vicenda di Bagnoli dove ‘la gloriosa fabbrica’ è stata al centro del racconto dalla nascita alla dismissione fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali è stato decretato il fallimento della Società per Trasformazione Urbana Bagnolifutura, che avrebbe dovuto favorire la rinascita dell’intero litorale. Attualmente Bagnoli appare come una shrinking city, con spazi vuoti, aree dimesse, e ruderi. L’intero quartiere ha risentito del brusco passaggio dalla società industriale a quella postindustriale non riuscendo a riconvertire l’economia locale ed a riempire il vuoto legato alla perdita dell’identità del quartiere operaio. Bibliografia ALISIO, G. (1978), Lamont Young. Utopia e realtà nell’urbanistica Napoletana dell’Ottocento, Roma, Officina. ANDIELLI, V. BELLI A, LEPORE (1991). Il luogo e la fabbrica. L’impianto siderurgico di Bagnoli, Napoli Graphotronic. AUGÈ, M. (2004) Rovine e macerie: il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri. BERNARDI, S. (2002) Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio. CARDONE, V. (1989). Bagnoli nei campi flegrei. La periferia anomala di Napoli, Napoli, CUEN. CARUSO, M. (2015). Bagnoli Jungle di Antonio Capuano, in «Cineforum», n. 8, p. 45. CENNAMO, G. M. (2014). Il quartiere Giusso a Bagnoli. Roma, Aracne. CIRILLO C., ACAMPORA G., SCARPA L., RUSSO M., BERTOLI B. (2017) The erratic character of the Landscape culture mosaic of phlegrean costline: regeneration of the Bagnoli former steel area, in atti della XX Conferenza Scientifica IPSAPA/ISPALEM Reggio Calabria, luglio 2016, pp. 391-402. CIRILLO C., ACAMPORA G., SCARPA L., RUSSO M., BERTOLI B. (2017) Napoli e il paesaggio costiero: il recupero ambientale di Bagnoli e la rigenerazione del litorale flegreo in atti VI Simposio Il Monitoraggio Costiero Mediterraneo: problematiche e tecniche di misure, Livorno settembre 2016, pp.112-117. COMUZIO, E., Profumo di donna di Dino Risi, in «Cineforum», nn.141-142, pp.175-176. DALL’OCCHIO, G. Bagnoli. Storia fotografica dell’Ilva-Italsider dalla nascita allo smantellamento alla Bagnoli futura, Napoli, La Città del Sole, 2009. DEL VECCHIO, A. (2014). Un luogo preciso, esistito per davvero. L’Italsider di Bagnoli, Napoli, Polidoro A. Editore. GRAVAGNUOLO, G. (1991), Bagnoli una fabbrica, in MARINIELLO R., Bagnoli una fabbrica, Napoli, Electa. MAURO, B. (2003), Da Balneolis a Bagnoli futura, Salerno, Plectica. MAZZUCCA, F. (1983) Il mare e la fornace. L’Ilva Italsider sulla spiaggia dei Bagnoli a Napoli, Roma, Edisse. MELANCO, M. (2005) Paesaggi paesaggi e passioni. Come il cinema Italiano ha raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, Napoli, Liguori. JODICE, M., Sempre prima i contenuti, in «La voce della Campania», n. 12, pp. 46,47. PATELLANI, F., Il giornalista nuova formula, in E.F. Scopinich a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, Milano, Gruppo editoriale Domus. PICONE PETRUSA, M. (1978), Autobiografia di Mimmo Jodice, in «La voce della Campania», n.12, p.57. REA, E. (2002), La dismissione, Milano, Rizzoli. ROSSANDA, R. RAIMONDINO F. (2000) Bagnoli. Lo smantellamento dell’Italsider. Fotografie di Vera Maone. Milano, Mazzotta. STRAZZULLO, M.R. (1992), L’archivio Ilva di Bagnoli: una fabbrica tra passato e presente, Napoli, CLS. SIRAGO M. (2013) La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ’800 e ’900, Napoli, Edizioni Intra Moenia. OLMO. C. (1998), Laboratori, luoghi e forme della modernità: architetture dell’industria, in Cattedrali del Lavoro, a cura di S. Taroni, A. Zanda, Torino. Vivevamo con le sirene. Bagnoli tra memoria e progetto (2001), a cura di M. Albrizio, M.A. Selvaggio, Napoli, La Città del Sole. Circolo Ilva di Bagnoli. Cento anni. Bagnoli tra passato e futuro (2009), a cura di G. Santoro, Napoli, Liguori. Resistenza-Resistoria (2014-2015) La memoria d’acciaio. Una fabbrica, un quartiere, una città. Bollettino dell’Istituto Campano per la storia della resistenza. Terza serie, n.5.

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Sitografia https://www.youtube.com/watch?v=W_m5Zqm6u8o/ (febbraio 2018) https://www.youtube.com/watch?v=gH0JPPoIkVU (febbraio 2018) http://www.novecento.org/dossier/italia-didattica/cera-una-volta-litalsider-a-bagnoli/ (marzo 2018) http://www.istitutocampanoresistenza.it/archivio/ (marzo 2018) http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2015/11/30/foto/le_immagini_storiche_dell_italsider-127702409/#20 (marzo 2018) http://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/11386/GPA/36/GPI/2 (maggio 2018) http://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-ferroni_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ (aprile 2018)

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To the edge of Edinburgh: periferie, discariche sociali, scene del crimine dal film Trainspotting. Genesi, decadenza e riabilitazione di un paesaggio urbano To the edge of Edinburgh: suburbs, social dumping, crime scenes from the movie Trainspotting. Genesis, decadence and redemption of an urban landscape GIOVANNI SPIZUOCO Università degli Studi di Napoli Federico II Abstract Il cult movie del regista Danny Boyle è girato ai margini di quella che oggi è una delle città più vivibili d’Europa. Durante gli anni ’60, a ridosso della Old Town, sorsero grandi blocchi di edilizia popolare destinati agli abitanti degli slums. Come si evince dal sequel del film, il contesto sociale è ormai sostanzialmente rigenerato: alcuni edifici simbolo del film (Cables Wynd House e Linksview) sono stati vincolati per il loro valore architettonico ed iconico. Danny Boyle’s cult movie was filmed on the edge of what is today one of the most livable cities in Europe. During the ‘60s, around the Old Town, great blocks of public housing were built for the inhabitants of slums. The movie is raw evidence of this disease’s condition, showing the social problems sometimes generated by these social housing interventions. As the sequel shows, by now the social context is healed: some of the movie’s symbolic buildings (Cables Wynd House and Linksview) are now listed for their architectonic and iconic value. Keywords Trainspotting, social, housing. Trainspotting, social, housing. Introduzione Ad oltre vent’anni dall’uscita nelle sale del fortunato film Trainspotting (1996), tratto dall’omonimo romanzo di Irvine Welsh del 1993, le disavventure di Rent Boy, Franco, Spud e Sick Boy sono tornate sul grande schermo grazie al sequel T2 Trainspotting, sempre a firma del regista premio oscar Danny Boyle. Le immagini dei tuguri e della droga che i protagonisti consumano freneticamente, riportano alla mente degli spettatoti più attenti quelle del ben più raffinato, ed allo stesso tempo crudo, Amore tossico di Claudio Caligari (1983), i cui toni pasoliniani descrivono la vita arrancante di una periferia romana che non c’è più. Nel sequel di Trainspotting, tratto anch’esso dall’omonimo romanzo e dal successivo Porno, molti nodi della trama, tra cui il significato del titolo, vengono al pettine, e la narrazione ricalca abbastanza fedelmente le orme del primo episodio, richiamando costantemente la «cinica esaltazione del piacere di un istante, lo humour dissacrante a 180 gradi e il ghigno di un progetto anarchico non negoziabile con qualsivoglia retorica» [Caprara 2017]. Il pubblico si trova di fronte ad una via di mezzo tra un “dove eravamo rimasti” ed un “come ci siamo ridotti”, riferibili tanto ai personaggi, notevolmente invecchiati e perennemente in bilico tra vecchi vizi e voglia di riscatto, quanto allo sfondo su cui si svolgono le vicende: la città di Edimburgo e, particolarmente, il quartiere periferico di Leith, a nord-est della città.

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1: Il quartiere di Leith oggi, visto da Arhtur’s Seat, in una scena di T2 Trainspotting. «The great way of gentrification has yet to engulf us», dice Sick Boy, riferendosi alle vorticose trasformazioni urbane e sociali che hanno interessato il quartiere, lasciando intendere che tanto lo sgangherato pub ereditato dalla zia, quanto egli stesso ed i suoi compari, sono rimasti fuori da quel processo di rinnovamento che ha trasformato il quartiere della heroin epidemic degli anni ’80 in un sobborgo elegante. Nonostante le trasformazioni, i luoghi simbolo del film ancora resistono, ripresi a distanza di vent’anni. I grandi falansteri di social housing costruiti durante gli anni ’60 non sono più dei semplici dormitori per classi disagiate, appaiono oggi totalmente diversi, sebbene immutati nella forma, poiché calati in un contesto rigenerato, che riesce così ad evidenziare il valore architettonico di edifici che altrimenti sarebbero considerati da demolirsi. Invero, il mezzo cinematografico è stato spesso un incisivo veicolo di demonizzazione di certe architetture da parte dell’opinione pubblica e, di conseguenza, di certe amministrazioni politiche avvezze al facile populismo: la prossima demolizione delle famigerate Vele di Scampia passa anche attraverso la volontà di distruggere l’immagine che di esse hanno dato il Gomorra di Garrone (che pure è un’opera di raffinato realismo) e, in misura molto maggiore, la fortunata omonima serie televisiva. L’illusione che con le macerie degli edifici crolli pure il degrado e la disperazione sociale che li abitano è largamente confutata dalla sorte che hanno avuto due icone del brutalismo e dell’edilizia popolare scozzese, il Linksview House ed il Cables Wynd House (quest’ultimo noto come Banana Flat per la sua caratteristica forma curva), edifici simbolo del film di Boyle, oggi riconosciuti come beni architettonici di prima importanza e, pertanto, A-listed dal Governo scozzese nel 2017. 1. Gli edifici simbolo del film: il social housing degli anni ’60 Come è noto, nel cult movie di Boyle, il gruppo di protagonisti «supereroinomani» [Caprara 2017] vive le proprie giornate in un contesto di assoluto degrado sociale ed ambientale. I luoghi dello spaccio e del consumo di eroina sono principalmente caseggiati popolari,

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2: Il quartiere di Leith, con l’omonimo fiume ed il Cables Wynd House in primo piano durante gli anni ’80. periferici ma non troppo lontani dalla Old Town di Edimburgo, il cui splendore però non arriva ad illuminare gli angusti tuguri in cui si consuma il rituale quotidiano dell’assunzione di stupefacenti. Questi edifici appaiono allo spettatore come caseggiati anonimi, costruiti secondo una logica utilitaristica, distaccati dalla locale tradizione costruttiva e compositiva. Nulla sembra potersi salvare di questi edifici e, come nel caso del racconto cinematografico partenopeo o di quelli di tante altre periferie del mondo, pare che i luoghi e le case siano complici del degrado sociale che la narrazione filmica intende mostrare e che contribuiscano, in un rapporto di correità, a generare i reati ed il degrado di cui sono piene le trame. Gli edifici della periferia di Edimburgo che hanno fatto da sfondo a Trainspotting, però, come tanti altri edifici per abitazioni popolari realizzati nel secondo dopoguerra, sono il frutto di una stagione architettonica di notevole interesse, cui non sempre si è attestato il giusto riconoscimento. Infatti, particolarmente nel Regno Unito, molto social housing d’ispirazione modernista è stato distrutto per fare spazio a nuove abitazioni per la upper class, particolarmente nelle zone in cui il valore dei suoli è, con il tempo, notevolmente aumentato. Come si legge nel documento, accettato dal governo scozzese, con cui DOCOMOMO Scotland chiede l’apposizione del vincolo, nel caso di Edimburgo, si tratta di edifici «of great historical and architectural importance. Cables Wynd House and Linksview House are key elements in the Kirkgate development. Both buildings have the appropriate visual impact for their setting and have come to be regarded as monuments of Leith» [Consultation].

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3: Il Cables Wynd House, noto come Banana Flat, oggi. Per capire la genesi di queste architetture è necessario fare un piccolo cenno al contesto da cui esse sono scaturite, fatto soprattutto di un sostanziale bipolarismo architettonico che a lungo ha caratterizzato la Scozia. Già sul finire dell’Ottocento e durante i primi decenni del secolo successivo, andavano delineandosi due differenti scuole di pensiero, ovvero quella volta al modernismo, di Glasgow, dove i Four guidati da Charles Rennie Mackintosh mossero un sostanziale passo verso nuove teorie architettoniche; e quella di Edimburgo, più votata alla definizione di un’architettura nazionale, in cui la longue durée delle idee di Patrick Geddes si sarebbe fatta sentire per gran parte del Novecento, costituendo un sostanziale freno all’avanzare delle teorie moderniste [Glendinning 1997]. Infatti, ancora durante gli anni ’50 e ’60, numerosissimi sono gli esempi di traditional architecture costruita nella capitale. Molti edifici, sia nella Old Town di Edimburgo che nel resto della città e dell’intera Scozia, tra cui numerose centrali idroelettriche nelle Highlands, furono progettati da diretti collaboratori di Geddes, come Frank Mears, o da architetti che indirettamente furono influenzati dalle sue toerie [Glendinning 1997, 3-8]. Sebbene in una logica ancora votata agli aspetti “igienisti” dell’urbanistica, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, cioè contestualmente all’affermarsi delle istanze moderniste, la città di Edimburgo diede vita ad una ampia campagna di interventi a scala urbana, volti a risolvere l’annosa questione degli slums tramite la sostituzione edilizia di interi brani di città [Glendinning, Muthesius 1994, Bullock 2002]. Non a caso questi interventi furono decisi contestualmente all’istituzione del nuovo National Health Service, a riprova del fatto che si trattò di una campagna di rinnovamento volta ridefinire ambienti considerati

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4: Il protagonista del film, Mark, si incammina verso casa di Daniel, fra le macerie di un nuovo cantiere a Leith. malsani ed invivibili, piuttosto che a ridisegnare, per questioni architettoniche, brani di città [Glendinning 1997; Harwood, Davies 2015]. Sin dall’annessione di Leith alla città di Edimburgo, nel 1920, il quartiere è stato oggetto di numerose trasformazioni che ne hanno cambiato il volto e talvolta cancellato la storia. Invero, l’abbattimento di edifici storicamente rilevanti per il quartiere comprese non solo gli slums e l’edilizia a scopo abitativo, generalmente considerata di scarso interesse architettonico, ma anche edifici le cui vicende erano strettamente e simbolicamente legate a quelle del quartiere, come il settecentesco Leith Fort, quartier generale militare della cittadina, distrutto, nel 1955, per fare spazio a nuovi edifici residenziali e di terziario, a loro volta demoliti nel 2013 per essere sostituiti da più moderne abitazioni. La scarsa sensibilità nei confronti delle presistenze storiche dimostrata in questo frangente dall’amministrazione locale, si scontrava fortemente con una tradizione conservativa che, sin dal finire dell’Ottocento, si stava imponendo nella città tramite le teorie di Geddes che, anche grazie al supporto della Edinburgh Social Union, aveva intrapreso una campagna di restauri nei closes della Old Town, riuscendo a far coesistere istanze conservative e necessità di vivere spazi salubri [Rosenburg, Johnson 2010]. In questo contesto nascono i progetti dello studio Alison & Hutchison & Partners per la costruzione del Linksview House e del Cables Wynd House nell’antica zona di Kirkgate, poi realizzati tra il 1962 ed il 1967. In quella che era una delle più antiche e più degradate aree del quartiere, ora sorge una vera e propria cittadella residenziale a carattere brutalista, delimitata a nord dal Tolbooth Wynd ad ovest dal Cables Wynd, a sud dallo Yardheads e dal complesso commerciale (oggi notevolmente alterato) New Kirkgate, a cui si aggiunge il vicino Linksview House. Questi edifici sono sorti all’interno del Citadel and Central Leith Redevelopment Area, il piano di ammodernamento e di trasformazione del quartiere approvato dall’Edinburgh Burgh Council nel 1963 [Glendinning 1997, Cables Wynd House

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listing report, Linksview listing report]. All’interno dello stesso piano di interventi è da considerarsi il successivo progetto, sempre ad opera di Alison & Hutchison & Partners per la realizzazione di un nuovo complesso edilizio nella vicina area di Couper Street, dove una torre per appartamenti sovrasta un Banana Flat in miniatura, le cui dimensioni ridotte contribuiscono a dare il senso di una maggiore vivibilità degli spazi. È necessario, però, notare che nel pianificare questi interventi non v’è stata alcuna considerazione nei confronti del tessuto storico della vecchia Leith che, anzi, era considerato «in a state of physical decay in much of its central area», per cui i nuovi fabbricati di edilizia popolare, oltre a risolvere il problema di creare abitazioni per le classi povere, sono considerati per il quartiere «an important step towards its rehabilitation» [AA.VV. 1966]. I due edifici simbolo di questo periodo, che fanno da sfondo al film di Boyle, possono essere considerati i massimi esempi di architettura brutalista scozzese e, allo stesso tempo, la dimostrazione che era possibile coniugare l’ormai consolidata vocazione all’architettura residenziale di stampo sociale, già espressasi con il Ramsay Garden (commissionato da Geddes) ed il Well Court dell’architetto Sidney Mitchell, con la ricezione del linguaggio modernista che giungeva dal continente. A tal proposito scrive Miles Glendinning: «These two blocks abundantly merit their listing at Category A, because they combine international excellence in modernist urban design with an attention to the spirit of place that is specific to Edinburgh, especially to the 'conservative surgery' concept of urban renewal, pioneered by Patrick Geddes around 1900» [Mirror]. Infatti, non è difficile vedere nell’Unité d'Habitation di Le Corbusier, in quel «parallelepipedo imponente che, rinnegando il gusto della superficie levigata, esalta il béton brut, il cemento roccioso colato in casseforme di legno grezzo, la materia scabra su cui è impressa la sigla del Modulor» [Zevi, 107], il principale riferimento morfologico e concettuale per la costruzione del Linksview House e del Cables Wynd House. Il modello lecorbuseriano era oramai da considerarsi uno dei principali e più importanti riferimenti per le megastrutture residenziali nel Regno Unito e, pertanto, fu più volte adottato in Inghilterra ed in Scozia: altri importanti edifici che seguono tale schema, infatti, sono stati listed dalle autorità britanniche, tra cui l’Alton West Estate a Londra, il Park Hill a Sheffiled, l’Anniesland Court a Glsgow [Glendinning, Muthesius 1994]. La caratteristica forma del Cables Wynd House poi, lo rende di particolare interesse, perché riprende un tipo più volte sperimentato nella realizzazione di social housing nel mondo e che rimanda ad altri edifici coevi, come il Quartiere INA-Casa di Forte Quezzi, a Genova, meglio noto come Biscione, il Falowiec nei pressi di Danzica o il Pedregulho di Rio de Janeiro. 2. Il nuovo volto della città: T2 Dal confronto tra il primo ed il secondo episodio della saga, è evidente che a cambiare non sono solo le facce invecchiate dei protagonisti ma anche il contesto cittadino in cui si svolgono le vicende. La città di Edimburgo è oggi sede di una della più prestigiose università del mondo, la University of Edinburgh, ed ospita una comunità di studenti provenienti da ogni continente. Il secondo film di Boyle mostra una città il cui volto è notevolmente cambiato rispetto a vent’anni prima, la cui vocazione e l’appeal internazionale sono forti. Basterebbe citare l’ardita costruzione del Parlamento scozzese (2004), ad opera di Enric Miralles e Benedetta Tagliabue, che sorge proprio di fronte al bellissimo Holyrood Palace, per dimostrare la volontà cittadina di guardare con ottimismo al futuro e di non restare imbalsamati nei fasti di un glorioso passato. Si percepisce, infatti, da parte del regista, la volontà non secondaria di raccontare le trasformazioni che la città ha subito in questo ventennio, seppur non si avverta mai un tono critico nel raccontare tale processo di

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5: La città di Edimburgo oggi, vista da Arthur’s Seat, in una scena di T2 Trainspotting. trasformazione. La scena in cui Mark e Daniel sono seduti sulla cima di Arhtur’s Seat a guardare dall’alto il volto mutato della città, appare invece come un chiaro omaggio alla città ed all'innesto, talvolta riuscito e talvolta molto meno, di nuove architetture nel tessuto antico. Non a caso il regista ambienta alcune scene chiave del film proprio nei recenti edifici costruiti all’interno del tessuto storico, come la suddetta nuova sede del Parlamento o il Castel Terrace Park (che sorge proprio alle pendici del Castello), e sposta spesso l’attenzione dello spettatore sulla Old Town, esaltandone il fascino e la chiara vocazione turistica che oggi ha definitivamente assunto. L’ormai famosa scena del «the worst toilet in the world», girata al Muirhouse Shopping Centre di Leith è ormai un ricordo sbiadito nella vita dei protagonisti e della città e lascia il passo alle immagini di un quartiere rinnovato da quel processo di gentrification che l’ha reso uno dei luoghi più alla moda della Scozia. Ancora, la nota scena del treno è emblematica a descrivere la nuova immagine della capitale che il regista vuole offrirci: nel primo Trainspotting la città è vista dall’alto di un vecchio vagone, inquadrata tra due quinte verdi di campagna desolata; nel sequel la stessa scena è ripetuta dall’alto di un tram cittadino che rapidamente si muove tra gli edifici storici della New Town, attraversa Princess Street ed offre, ad un incredulo Mark, l’immagine di una città che si sta preparando alla vita notturna, con le prime luci di pub e ristoranti che si fanno strada nel crepuscolo. Quello che il film mostra è, in realtà, ciò che la città e, in particolare il quartiere di Leith, sono diventati. Durante gli anni ’80 il quartiere aveva raggiunto livelli di vivibilità bassissimi, con un’economia che, a seguito della dismissione del porto, aveva perso la sua principale fonte di sostentamento e che viveva una crisi sociale profonda, dovuta all’elevato consumo di stupefacenti ed all’altissimo numero di casi di HIV [Hemingway 2006; Matthews, Satsangi 2007]. A partire dalla fine degli anni ’80 e dagli inizi degli anni ’90, è cominciato il processo di trasformazione che ha portato oggi Leith ad essere una delle principali mete turistiche della città. Un percorso di rinnovamento passato soprattutto attraverso lo sviluppo terziario e

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commerciale della zona, con la riconversione di molti edifici ad uso di uffici e l’apertura dell’Ocean Terminal Shopping Centre. Ne ha beneficiato, in generale, l’economia dell’intera città, che ha così trovato un nuovo polo turistico e per il terziario, sebbene ancora rimangano, in taluni casi, grandi disuguaglianze tra i nuovi ricchi che abitano o lavorano nella zona e gli abitanti storici dei caseggiati popolari [Doucet 2009]. Di riflesso, però, anche questi ultimi hanno vissuto positivamente l’impatto delle trasformazioni urbane ed economiche che il quartiere ha subito, infatti, come si legge dai Responses to consultation on the listing of Cables Wynd House and Linksview House redatti a corredo del documento con cui si sono vincolati gli edifici, gli abitanti hanno generalmente manifestato gradimento per la vita che conducono negli edifici e, in generale, nel quartiere: «Love living at the flats and very much enjoy the view» [Consultation]. Conclusioni In conclusione, dai due film di Boyle si evince sicuramente una narrazione reale della vita e delle trasformazioni che ha subito la città di Edimburgo negli ultimi decenni. Per questo possiamo considerarli come due esatti opposti della narrazione cinematografica della città. Nel primo è narrato un ambiente di assoluto degrado, addirittura filmando locations alternative nella città di Glasgow, dato che, quando è stato girato il film, quel processo di trasformazione urbana di cui abbiamo parlato era già in atto. Un racconto in cui nulla sembra potersi realmente salvare, che contribuisce alla volontà di descrivere la vita fatta di dipendenze e reati dei protagonisti. Nel secondo episodio, invece, l’occhio del regista è rivolto verso una nuova città: lo spettatore approda nella rinnovata Edimburgo insieme a Mark, che scende dall’aereo e, dopo essere passato di fianco all’immancabile Starbucks, si ferma di fronte alla scritta gigante che accoglie i turisti e, con senso di disagio, chiede alla promoter locale, che lo aveva accolto con un «Welcome to Edinburgh» pronunciato con accento tutt’altro che scozzese, da quale nazione provenga. Il senso di disorientamento e d’inadeguatezza dei protagonisti, che è il vero topos del film, è narrato con grande intensità e trova la sua più grande espressione proprio nel confronto tra il volto rinnovato e vitale della città e dei suoi abitanti e quello invecchiato e stanco dei protagonisti, che non si vogliono arrendere a dover vivere nel recinto costruitogli intorno dalla vita moderna, fatto di un lavoro facile, una famiglia amorevole ed una bevanda insapore da tenere perennemente tra le mani mentre si cammina tra le strade cittadine. Tra questi, Franco, interpretato ancora magistralmente da Robert Carlyle, è l’immagine più chiara della malinconia espressa dal film. Un personaggio spietato, la cui unica droga è la violenza, come più volte sottolineato nel primo episodio. Un uomo che sta scontando una pena a 25 anni di carcere e che per questo è il più adatto tra i protagonisti ad esprimere il senso di disagio che il confronto tra la realtà e la vecchia vita gli causa. La frase chiave del film matura proprio quando il violento Begbie, evaso dal carcere, si intenerisce di fronte al figlio che considerava uno smidollato perché intenzionato a diventare un manager anziché un ladro, a cui confessa, di fronte alla sottomessa moglie, che «Still, world changes, eh, June? Even if we don’t». In definitiva, però, i ragazzi terribili di Trainspotting hanno scelto la vita. Si sono arresi ai tempi, hanno scelto «an iPhone made in China by a woman who jumped out of a window and stick it in the pocket of your jacket fresh from a South-Asian Firetrap». Lo hanno fatto senza rendersene conto e senza volerlo, ma anch’essi hanno ceduto il passo a quell’ondata di rinnovamento economico e sociale, spinta dal capitale, che cambia le città e le persone, che tende ad omologarle, che separa anziché unire: «human interaction reduced to nothing more than data». Nonostante ciò, continuano a guardare nostalgicamente al passato, tentando di

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riviverlo, come il videoregistratore di Simon fa rivivere in tv le giocate del loro idolo George Best, quando vestiva la maglia degli Hibs. Bibliografia AA.VV. (1966). Building Studies Second Series in The Architects Journal, 28 dicembre 1966, pp. 1697-1618. ALISON & HUTCHISON & PARTNERS (1962). Flats, Leith in Architectural Review, 1 gennaio 1962, pp. 52-53. BULLOCK N. (2002). Building the post-war world: modern architecture and reconstruction in Britain, London, Routledge. CAMPBELL A. (2015). The history of Leith, from the earliest accounts to the present period: with a sketch of the antiquities of the town, Edinburgh, Andesite Press CAPRARA V. (2017). T2 Trainspotting. Boyle sequel dissacrante in Il Mattino, 23 Febbraio 2017, p. 19. DOUCET B. (2009). Living through gentrification: subjective experiences of local, non-gentrifying residents in Leith, Edinburgh in Journal of Housing and the Built Environment, Vol.24, pp.299-315. GIFFORD J., MCWILLIAM C., WALKER D., WILSON C. (1984). The Buildings of Scotland: Edinburgh, Harmondsworth, Penguin. GLENDINNING M. (1992). 'Give the people homes!': Britain's multi-storey housing drive, Edinburgh, University Press. GLENDINNING M. (1997). Rebuilding Scotland: the postwar vision, 1945-1975, Edinburgh, Tuckwell Press. GLENDINNING M., MACKECHNIE A. (2004). Scottish Architecture, London, Thames & Hudson. GLENDINNING M., MUTHESIUS S. (1994). Tower block: modern public housing in England, Scotland, Wales and Northern Ireland, London, Yale University Press. HARWOOD E., DAVIES J. O. (2015), Space, hope, and brutalism: English architecture, 1945-1975, New Haven, Yale University Press. HARWOOD E., POWERS A. (2008), Housing the twentieth century nation, London: Twentieth Century Society. HEMINGWAY J. (2006). Contested Cultural Spaces: Exploring Illicit Drug-using Through Trainspotting in International Research in Geographical and Environmental Education, Vol.15, p.324-335. LEITH LOCAL HISTORY PROJECT (1985). Leith lives: the old Kirkgate, Edinburgh, PEC Barr for Manpower Services Commission. MACKAY S., WILSON R. (1986). Faces of Leith, Edinburgh, Moubray House. MARSHALL J. S. (1974). Tales of old Leith, Edinburgh, W.T. McDougall & Co. MARSHALL J. S. (1986). The Life and Times of Leith, Edinburgh, John Donald Publisher. MATTHEWS P., SATSANGI M. (2007). Planners, developers and power: A critical discourse analysis of the redevelopment of Leith Docks, Scotland, in Planning Practice & Research, vol. 22, n. 4, pp. 495-511. ROSENBURG L., JOHNSON J. (2010). Renewing Old Edinburgh. The enduring legacy of Patrick Geddes, Glasgow, Bell & Bain. WOOD W. (1989). Leith: a short illustrated historical trail, Edinburgh, Leith Museum Trust. WRIGHT T. (2014). Leith: glimpses of times past, Edinburgh, Luath Press ZEVI B. (1950). Storia dell’architettura moderna, Torino, Einaudi. Sitografia Consultation: Responses to consultation on the listing of Cables Wynd House and Linksview House - https://www.historicenvironment.scot/archives-and-research/publications/publication/?publicationId=19b59925-70e1-4e03-aed6-a70d011abd07 (Maggio 2018). Mirror: Trainspotting 'drug estate' given listed status because 'banana flats' building has special architectural importance - https://www.mirror.co.uk/news/uk-news/trainspotting-drug-estate-given-listed-9736668 (Maggio 2018). Cables Wynd House listing report - http://portal.historicenvironment.scot/designation/LB52403 (Maggio 2018). Linksview listing report - http://portal.historicenvironment.scot/designation/LB52404 (Maggio 2018).

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Luoghi dell’abbandono nella città della “postproduzione”. Immaginari di rovine attraverso lo sguardo cinematografico Abandoned places in the city of “postproduction”. Imagery of ruins through the cinematic gaze FRANCESCA COPPOLINO Dipartimento di Architettura DiARC, Università degli Studi di Napoli Federico II Abstract A partire dal riconoscimento della capacità trasfigurativa dei luoghi dell’abbandono, esaminando alcuni film, si vuole indagare come, attraverso il racconto cinematografico, la percezione e l’immaginario di tali luoghi siano cambiati negli ultimi anni del XX secolo. Si intende approfondire come lo sguardo cinematografico aiuti a ri-valutare e ri-significare i luoghi della distruzione, della violenza e dell’abbandono, fornendo loro un’identità “altra” tale da tramutarli in “nuove” rovine e definendo una base interpretativa per un ragionamento legato al progetto di architettura di tali luoghi nella città della “postproduzione”. Starting from the recognition of a transfigurative capacity of the abandoned places, by examining some films, the aim is to investigate how, through the cinematic narration, the common perception and imagery of these places is completely changed in the last years of 20th century. This contribution wants to deepen how the cinematic gaze can help to re-evaluate and re-imagine the places of destruction, violence and abandonment, providing them an “other” identity, capable of turning them into new “ruins”. These considerations could build a basis for a reasoning related to the architectural project for these places in the city of “post-production”. Keywords Abbandono, rovine, cinema. Abandonment, ruins, cinema. Introduzione I luoghi dell’abbandono, secondo Anthony Vidler, ricoprono un ruolo primario nella costruzione dei paesaggi contemporanei: mostrano una narrazione “spezzata” e costituiscono una sorta di “fermo-immagine” o di “jump cut” nello scorrere del tempo, generando talvolta un sentimento di nostalgia, di curiosità o di fiduciosa proiezione verso il futuro, talaltra un sentimento di disagio, di straniamento, di rifiuto [Vidler 2006]. La natura contraddittoria di questi luoghi deriva dal fatto che essi possono racchiudere temporalità, capacità narrative e trasfigurative, ma anche, allo stesso tempo, il senso del disfacimento, della distruzione, della furia, della violenza. Con l’obiettivo di voler indagare come siano mutati, negli ultimi anni del XX secolo, gli immaginari legati ai luoghi dell’abbandono attraverso le raffigurazioni delle arti visive, in particolare attraverso lo sguardo cinematografico, risulta interessante richiamare brevemente quegli studi che guardano alla città contemporanea come ad una città della “postproduzione” in cui cercare sensi “altri”. Il critico d’arte Nicolas Bourriaud nel testo del 2004, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, indica con il termine “postproduzione”, preso in prestito dal lessico cinematografico, quell’attitudine contemporanea verso una “riappropriazione” fisica e culturale di materiali esistenti, che investe diversi ambiti artistici. Fin dall’inizio degli anni

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Luoghi dell’abbandono nella città della postproduzione. Immaginari di rovine attraverso lo sguardo cinematografico

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Ottanta del Novecento sono infatti state realizzate o ri-significate opere d’arte a partire da quelle preesistenti: “inserendo nella propria opera quella di altri, gli artisti contribuiscono allo sradicamento della tradizionale distinzione tra produzione e consumo (…) Queste opere artistiche condividono il fatto di ricorrere a forme già prodotte dimostrando la volontà di voler inscrivere l’opera d’arte all’interno di una rete di segni e significati, invece che considerarla forma autonoma (…) Ogni opera deriva da uno scenario che l’artista proietta sulla cultura, considerata a sua volta come cornice narrativa che produce nuovi possibili scenari in un movimento senza fine” [Bourriaud 2004, 43]. Bourriaud mostra dunque come la “riappropriazione-postproduzione” tenti di operare un editing delle narrative esistenti, inserendo gli elementi che le compongono in scenari alternativi. Il termine “postproduzione” è stato anche importato nel linguaggio architettonico, rapportandolo alla possibilità di pensare nuovi sensi e nuove sovrascritture per l’esistente. In questa direzione, Sara Marini descrive una condizione di “città della postproduzione”, volendo indicare una città in cui la produzione costituisce solo un vecchio ricordo e i suoi brandelli giacciono sul campo; una città in cui “non resta che il resto e la ricerca di un suo possibile significato altro” [Marini 2014, 13]. In questo quadro può, dunque, essere inserito un ragionamento sui luoghi dell’abbandono, i quali, attraverso la ricerca di sguardi, racconti e sensi “altri”, che ne mettano in evidenza la “forza” propulsiva, narrativa ed immaginifica, possono essere tramutati in “nuove rovine” della contemporaneità. Tali sensi “altri” possono essere rintracciati negli immaginari sollecitati dalle arti e possono aiutare a definire una base interpretativa utile per il progetto di architettura legato ai luoghi dell’abbandono. 1. Sguardi sulle rovine e racconti cinematografici La prima circostanza in cui si inizia a guardare con occhi diversi i luoghi dell’abbandono può essere identificata con la nascita del “sublime”. La poetica del “sublime”, descritta da Burke nel 1757, opponeva all’equilibrio neoclassico ricercato nel Seicento, una visione dialettica che trovava nei contrasti e nelle catastrofi naturali la sorgente per un “orrore delizioso”. Nella interpretazione estetica del sublime il sentimento della natura si modificava, conducendo

1: Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma (1962), Fotogramma tratto dal film.

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all’ammirazione e al senso di appagamento di fronte a paesaggi aspri, violenti e drammatici, che turbavano l’osservatore, ricordando la fragilità della condizione umana. Le riflessioni sull’estetica del sublime sono strettamente legate alle nuove percezioni dei luoghi in rovina che compaiono nel corso del XX secolo: “nel Novecento la rovina abbandona il romantico isolamento nel paesaggio naturale e la grammatica del pittoresco, per apparire all’interno dei paesaggi degradati e delle zone bombardate, assumendo nuovi ruoli, altrettanto significativi e simbolici dei precedenti” [Matteini 2009, 51]. La metamorfosi dello sguardo culturale sulle “nuove” rovine del Novecento è presente con grande forza, ad esempio, nelle opere e negli scritti di un artista americano, Robert Smithson, autore di un articolo del 1967 intitolato A tour of the monuments of Passaic, New Jersey, in cui rilegge luoghi a lui noti con occhi diversi: i nuovi monumenti sono in realtà oggetti abbandonati, visti attraverso il filtro dell’intuizione artistica. Smithson utilizza la fotografia e la ripresa dei monumenti di Passaic per produrre nuove definizioni di tempo, spazio e, soprattutto, di rovine: “quel paesaggio azzerato sembrava contenere rovine al contrario (…) Questo è l’opposto della “rovina romantica” perché gli edifici non cadono in rovina dopo essere stati costruiti, ma piuttosto sorgono in rovina prima di essere eretti” [Smithson 2006, 20]. Le “nuove” rovine del Novecento compaiono all’interno dei paesaggi urbani come domande aperte in attesa di risposta, proponendo una nuova etica e nuove categorie di sublime. A tal proposito, risulta interessante rilevare come, oltre al recinto dell’architettura, i molteplici sguardi generati dall’osservazione delle “rovine” siano stati indagati da filosofi, psicologi, scrittori, artisti e cineasti che hanno sempre messo in risalto la dimensione “trasfigurativa” di tali luoghi, aiutando a reinterpretarne di volta in volta i significati e a trasformarli in veri e propri luoghi dell’immaginario. Questa attitudine a riverberare sguardi plurimi mette in evidenza il fatto che qualunque sia il ruolo attribuito a ciò che viene definito “rovina”, la sua forza vitale esclusivamente interpretativa, soggettiva, antropologica è capace di “trasformare l’immagine di un edificio diruto e abbandonato in un oggetto dinamico dalle forti valenze culturali” [Oteri 2009, 13]. In questa ottica, negli ultimi anni del XX secolo, il medium cinematografico ha costituito uno degli strumenti che ha maggiormente contribuito a rendere “familiari” i dolorosi luoghi della distruzione, della violenza e dell’abbandono e a modificare la percezione del concetto di “rovina” nella città contemporanea. Le rovine sono state spesso protagoniste di diverse sequenze filmiche che ne hanno rivelato il valore espressivo, simbolico ed evocativo. I cineasti hanno, infatti, in diverse occasioni trattato o inserito nei loro film il tema della “rovina”, in modo conscio o più o meno inconscio, interpretandolo e restituendolo in svariati modi: come “figura” chiave del presente esistenziale e dolente della città, tra traumi e lutti; come “sfondo” di vicende catartiche, di riflessioni spirituali o satiriche sulla memoria stratificata della città e dell’animo umano; come “raffigurazione” di scenari di (im)possibili città-rovina del futuro. Vengono dunque, di seguito, esaminati tre diversi fil rouge interpretativi, che identificano tre modalità di vedere, raccontare e immaginare le rovine messe in scena dallo strumento filmico negli ultimi anni del XX secolo: la condizione di “rovina del presente” e il tema della catastrofe che identifica una rovina intesa come “resto”; la condizione di “rovina umana” e il tema della memoria, che identifica una rovina intesa come “strato”; la visione di “rovina della mente” e il tema della trasfigurazione immaginativa, che identifica una rovina intesa come “frammento”. Lo sguardo cinematografico, negli ultimi anni del XX secolo, ha largamente influito sulla trasformazione dell’immaginario collettivo dei luoghi abbandonati nella città contemporanea, mutando il sentimento di disagio e di rifiuto ad essi spesso attribuito in un sentimento di curiosità teso ad una proiezione immaginativa.

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2. Catastrofi: rovine del presente Se i pittori di rovine del XVI secolo immaginavano un passato bucolico e i pittori del XVIII secolo immaginavano un passato fittizio, gli artisti contemporanei, in un’epoca che privilegia l’“eterno presente”, immaginano un passato non ancora avvenuto: “tutto avviene come se l’avvenire non potesse essere immaginato che come il ricordo di un disastro di cui noi oggi avremmo solo il presentimento” [Augé 2004, 98]. Su questa scia, a partire dalla seconda metà del Novecento si afferma un genere cinematografico specifico: il cinema delle rovine, degli abbandoni, delle macerie, o meglio, il cosiddetto “cinéma catastrophes” [Habib 2007, 15], un genere che illustra le vicende delle guerre, dei sopravvissuti alla guerra e dei disastri in generale, usando come sfondo le rovine della città. Attraverso questo genere, nell’immaginario collettivo, alle rovine antiche, bucoliche e nostalgiche, si sarebbero presto sostituite le immagini di nuove rovine del terrore e della follia. A questa propensione si aggiungono, negli ultimi anni del secolo, quella di rappresentare il degrado delle città e delle sue periferie o quella di rappresentare future catastrofi immaginarie. In questi casi, “la rovina non si declina più al passato o al futuro euforico della metropoli, ma diventa il presente esistenziale della civilità” [Benincasa 2015, 47]. La rovina, che, fino a quel momento, era stata quasi sempre contemplata come un oggetto distante, viene rappresentata come un elemento del tutto contemporaneo, invasivo, bruciante, con cui fare i conti, acquisendo il valore di “resto”. Lo sguardo cinematografico, rappresentando la catastrofe, aiuta in un certo senso ad esorcizzare il dolore. L’aspra denuncia pasoliniana del degrado delle periferie italiane nel boom del dopoguerra, trova una raffigurazione poetica e “sublime” in alcuni fotogrammi del film Mamma Roma (1962) che illustra l’immagine di un solitario e totemico frammento archeologico sullo sfondo desolato di edifici multipiano. Nel film si avverte un forte senso di disagio temporale sollecitato dalle rovine, lette come incomprensibili frammenti del passato sopravvissuti all’evoluzione della città; quasi come a voler ricollegarsi a quella commistione di macerie contemporanee e rovine antiche, ardentemente rappresentata in precedenza da Roberto Rossellini, in film come Paisà (1946). Così come Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders, ritrae “una metropoli nella quale i segni della storia galleggiano in una catastrofe semantica percepita come quasi

2: Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino (1987). Fotogramma tratto dal film.

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benevola” [Benincasa 2015, 48]. Seguendo questa scia si arriva a quegli estremismi che insistono sull’“estetismo della catastrofe”, come, ad esempio, avviene nei film di Werner Herzog, tra i quali Apocalisse nel deserto (1992), in cui la celebre frase di introduzione al film recita: “Il crollo delle galassie avverrà con la stessa grandiosa bellezza della creazione”. Sul versante opposto The Pianist (2002) di Roman Polanski, rappresenta l’“osceno della rovina”, portando il protagonista ad aggirarsi tra le rovine di Varsavia in un vero e proprio deserto visivo, in una città annichilita al “grado zero”. Infine, la celeberrima sequenza finale di Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni illustra un modo di intendere le rovine come “resti”, attraverso la descrizione un’immensa e suggestiva esplosione di una villa nel deserto, immaginata dalla protagonista, da cui oltre alle rovine dell’edificio, si dirama una moltitudine di frammenti, suppellettili, librerie, vestiti, elettrodomestici, cibarie e altre macerie, che galleggia nell’aria in un lunghissimo rallenty, come se si trattasse di “resti” quasi “umani” destinati a rimanere lì immobili in un eterno presente. Emerge, dunque, come da scarto della distruzione, la rovina acquisisca un nuovo valore di “resto” da reimmettere in nuove narrazioni e capace di suscitare nuovi sensi. 3. Stratigrafie: rovine umane Nel 1930, nel Disagio della civilità, Freud paragonava le rovine urbane alle tracce mnestiche presenti nella vita psichica dei suoi pazienti. Egli, che, come scrisse più volte, avrebbe voluto svolgere il mestiere di archeologo, riuscì a sublimare il suo desiderio di ricerca e di “scavo” nella accurata stratigrafia della memoria dei suoi pazienti, utilizzando la metafora dell’archeologia per raccontare il suo lavoro di ricerca psicoanalitica. Anche il cinema eredita questo fil rouge di interpretazione della rovina intesa come luogo della stratificazione della memoria umana e della città, tipico del Novecento e manifestatosi, a più riprese, nel corso della storia. La “rovina” viene, difatti, rappresentata in molti film come quel luogo in grado di costituire lo sfondo idoneo per mettere in scena articolate riflessioni spirituali. Rovina, sogno, ricordo risultano abilmente intrecciati nella raffigurazione di vicende legate sia alla città che all’animo umano. La rovina è qui vista come una molteplicità di “strati” di memorie. I labirintici sotterranei del film Roma (1972) di Federico Fellini mostrano “un ambiente onirico che accoglie un’archeologia impalpabile, fatta della materia di cui sono fatti i sogni che si dissolve al contatto con il mondo reale, simbolo della fragilità del passato e della cultura di

3: Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point (1970). Fotogramma tratto dal film.

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fronte alla città moderna che si espande” [Matteini 2009, 56]. Il film rileva la “dimensione altra” dei luoghi archeologici, per accedere ai quali è necessario varcare un limite, una soglia, alterare le modalità percettive. In altri film la rovina è vista come un luogo spirituale così intimamente legato all’animo umano da confondersi con esso, tanto che si potrebbe parlare di rappresentazione di una “rovina umana”. Si pensi, ad esempio, a Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, in cui le rovine del paesaggio toscano, fanno da sfondo al racconto e, allo stesso tempo, è come se facessero parte degli animi inquieti dei protagonisti, che cercano di superare la propria condizione di alienazione. Il protagonista “folle” vive all’interno di un edificio in rovina dove l’acqua piovana scorre incessantemente attraverso i fori del soffitto. Tarkovskij utilizza la “rovina” per trasmettere lo stato “disgiunto” della mente del protagonista. L’oscurità permea la scena, le murature mostrano crepe e cedimenti e le pozze d’acqua si accumulano sul pavimento. Nonostante lo stato di avanzato abbandono, dai residui della struttura, si percepisce, per assenza, il precedente stato di equilibrio e stabilità. Queste percezioni dello spazio in rovina sono utilizzate per rafforzare la comprensione del carattere del protagonista. Nei film di Tarkovskij, la redenzione dei personaggi viene trovata nel ristabilire il proprio posto all’interno dei detriti e macerie della società in cui dimorano. Un’altra rappresentazione della rovina come strato di memoria è quella espressa in In the mood for Love (2000), in cui Wong Kar-wai attraverso le immagini di rovine mette in scena il “puro godimento dell’inattuale”, quel “tempo puro” di cui parla Marc Augè: “lo spettacolo del tempio in rovina di Angkor non risveglia, in realtà, alcun ricordo in colui che lo contempla; a suscitare in lui la più profonda emozione è l’evidenza di un tempo senza oggetto che non è di nessuna storia” [Augè 2004, 47]. Oppure si pensi al recente Solo gli amanti sopravvivono (2013) di Jim Jarmusch, in cui le vicende amorose dei due protagonisti, raffinati e colti vampiri costretti a vivere un eterno presente, vengono ambientate, non a caso, tra i luoghi in rovina di Tangeri e i quartieri degradati di Detroit. Questa scelta consente di descrivere al meglio i loro stati emotivi di “rovine umane” e di rilevare la stretta e interdipendente connessione tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Si rileva, dunque, attraverso questi casi una interpretazione di rovina intesa come “strato” che evoca ricordi personali e memorie collettive.

4: Andrej Trakovskij, Nostalghia (1983). Fotogramma tratto dal film.

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4. Trasfigurazioni: rovine della mente La capacità di “trasfigurazione immaginativa” propria della rovina era già chiara a John Soane quando chiese, nel 1830, all’artista J.M. Gandy di rappresentare la Banca d’Inghilterra “sia nell’aspetto che essa avrebbe avuto una volta venuta meno la coesione fra le sue parti, sia nella sua condizione di non finito” [Purini 2000, 59]. Anche la rovina ipotizzata, qualche anno prima, da Hubert Robert per la Grande Galerie del Louvre racconta una capacità di proiezione attribuita alle rovine che diviene un modello per il concetto di “rovina anticipata” espresso sul finire del Novecento dai coniugi Anne e Patrick Poirier attraverso le loro città immaginarie di Mnemosyne (1996), di Exotica (2000) ed Amnesia (2009), le quali rispecchiano un’utopia nera che sembra prefigurare disastri successivi. Tuttavia il protagonista di questo filone è il visionario Giambattista Piranesi che, attraverso le Vedute delle Carceri e la Ricostruzione del Campo Marzio di Roma, dà vita a dei veri e propri inventari di rovine della mente. Sulla scia di questo terzo fil rouge si afferma “le registre fantastique” [Habib 2007, 19] della rovina nel cinema, in cui numerosi film raccontano e anticipano grandiose città apocalittiche in rovina, raffigurando degli scenari di futuri (im)possibili e dando vita alle più sfrenate visioni o alla più recondite e allarmanti paure del futuro. In questo quadro, prima fra tutte si può ricordare la città distopica rappresentata in Metropolis (1927) di Fritz Lang, che in un certo senso è come se costituisse il principale modello di questo filone, a cui si associa lo scenario proposto nel film The planet of the Apes (1968) di Franklin J. Schaffner, in cui la celebre scena dei ruderi della Statua della Libertà che affiorano dalla spiaggia svela la triste verità, ossia che il pianeta “alieno” ed inospitale in cui è ambientato tutto il film, altro non è che la Terra, distrutta nei millenni dagli uomini: “Voi uomini l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!”. Una rovina pop può essere intesa, invece, quella rappresentata da Federico Fellini in Satyricon (1969), in cui una Roma imperiale viene descritta come se fosse un lontano pianeta alieno, tanto che lo stesso regista parla di “fantascienza del passato”. In tempi più recenti rinveniamo le raffigurazioni apocalittiche di Inception (2010) di Christopher Nolan, i cui protagonisti si ritrovano in una immaginaria città dei sogni abbandonata; una grigia metropoli composta da grattacieli tutti uguali che a molti ha ricordato il Plan Voisin di Le Corbusier per Parigi. Oppure si pensi a Dogville (2003) di Lars von Trier dove, attraverso una surreale e inquietante visione sul futuro, una città in rovina, rappresentata come un luogo smaterializzato e senza tempo, diviene il set di atroci e rovinosi accadimenti.

5: Franklin J. Schaffner, The planet of the Apes (1968). Fotogramma tratto dal film.

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A tal proposito: “è significativo che per restituire il tempo alla città, gli artisti abbiano bisogno di rovine […] Ma è significativo altresì che gli artisti abbiano bisogno, per immaginarle, di farne un ricordo a venire, di ricorrere al futuro anteriore e a un’utopia nera” [Augè 2004, 98]. Tuttavia, è proprio la capacità trasfigurativa dei luoghi dell’abbandono ad evidenziare che la distinzione tra rovine e macerie può non essere definitiva: “senza il nostro lavoro di valorizzazione, i resti del passato rimarrebbero semplici macerie” [Augè 2004, 43]. Emerge in quest’ultimo caso come la rovina, attraverso la sua insita capacità immaginativa, acquisisca il valore di “frammento” da inserire in nuove dinamiche, in quanto capace di suscitare un credo creativo. Conclusioni Attraverso gli immaginari provenienti dalle arti e, in particolare, dai racconti cinematografici, approfonditi brevemente in questo contributo, sembra possibile ri-valutare, ri-significare e re-immaginare i luoghi della distruzione e dell’abbandono, esorcizzando il sentimento di rifiuto, di dolore e di disagio che li ha caratterizzati in passato e fornendo loro nuove identità che consentano di guardarli come “rovine” della contemporaneità. Dalle sollecitazioni messe in campo mediante i fil rouge interpretativi emerge, innanzitutto, che ciò che trasforma un edificio abbandonato in una “rovina” è lo “sguardo” che lo osserva. Le temporalità contenute in tali luoghi, la possibilità di riconoscere in essi diverse dimensioni narrative riunite in una “stratificazione semantica” e, allo stesso tempo, la loro forza trasfigurativa, emergono come ineguagliabili valenze culturali, che li rendono luoghi di grande interesse anche sotto il profilo delle prospettive future che sono in grado di attivare. Infatti, come scrive Heidegger, i luoghi in rovina “costituiscono il terreno delle infinite possibilità future” [Heidegger 1983, 39]. Allo stesso tempo, le diverse interpretazioni esplorate rilevano anche la molteplicità e variabilità degli sguardi attraverso cui possono essere osservate le rovine, le quali possono essere intese, di volta in volta, come resti, strati, frammenti capaci di generare nuovi sensi e nuove dinamiche. I luoghi dell’abbandono possono dunque essere considerati come luoghi di riappropriazione urbana: nuove “rovine” di cui “riappropriarsi” culturalmente, ancor prima che materialmente, a cui fornire sensi “altri” – anche attraverso gli sguardi provenienti da altre arti e discipline – in qualche modo connessi alle memorie e alle temporalità che narrano e agli immaginari che di continuo sollecitano. Bibliografia AUGÈ, M. (2003). Le temps en ruines. Paris, Editions Galilée (Trad. it., 2004. Rovine e Macerie, Il senso del tempo. Torino, Bollati Boringhieri). BENINCASA, F. (2005). Rovine e Cinema. Cinema di rovine, in La forza delle rovine. Catalogo della mostra, a cura di M. Barbanera, A. Capodiferro, Milano, Mondadori Electa, pp. 46-51. BOURRIAUD, N. (2002). Post Production. La culture comme scénario: comment l’art reprogramme le monde contemporain, Dijon, Les presses du réel (Trad. it., 2004. Post-production. Come l’arte riprogramma il mondo, Milano, Postmedia Books). HABIB, A. (2007). Le temps décomposé: Ruines et cinéma, In Protée, n. 35, vol. II, Québec, Département des arts et lettres - Université du Québec à Chicoutimi, pp. 15-26. HEIDEGGER, M. (1983), L’abbandono, Genova, Il Melangolo. MARINI, S., DE MATTEIS, F. (2014). La città della post-produzione. Roma, Edizioni Nuova Cultura. MATTEINI, T. (2009). Paesaggi del tempo. Documenti archeologici e rovine artificiale nel disegno di giardini e paesaggi. Firenze, Alinea Editrice. OTERI, A. M. (2009). Rovine. Visioni, teorie, restauri del rudere in architettura. Roma, Argos. PURINI, F. (2000). Comporre l’architettura. Bari, Editore Laterza. SMITHSON, R. (2006). Un recorrido por los monumentos de Passaic, Nueva Jersey, Barcelona, Gustavo Gili. TORTORA, G. (2006). Semantica delle rovine, Roma, Manifestolibri. VIDLER, A. (2006). Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Torino, Einaudi.