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Dall’interazione sociale alle istituzioni sociali Il primo scenario della moralità (...) non è quello in cui io faccio qualcosa per te o tu fai qualcosa per me, ma uno in cui noi faccia- mo qualcosa insieme. . . Christine Korsgaard Negli studi che si stanno compiendo sull’evoluzione del comportamento umano ci si focalizza soprattutto sul feno- meno dell’altruismo, in particolare su quale sia stata la sua origine. Non esiste una soluzione unanimemente accetta- ta, ma di certo le proposte non mancano. Il vero nodo da sciogliere è che ci deve essere un modo che permetta al- l’individuo che si sacrifica di non sacrificare sé stesso o la sua progenie fino alla morte: ci deve essere una qualche forma di vantaggio compensativo per il suo sacrificio. E stato dimostrato che la punizione (come la maldicenza, il «gossip» che nuoce alla reputazione) inflitta ai soggetti non cooperativi contribuisce a stabilizzare la cooperazio- ne - sempre in un’ottica di altruismo -, ma la punizione è un bene pubblico di cui il soggetto punito paga il prez- zo e da cui tutti traggono beneficio, il cosiddetto proble- ma di secondo grado dell’altruismo. La punizione inoltre può adempiere la sua funzione solo se chi la subisce ten- de a reagire facendo la «cosa giusta», perciò la minaccia della punizione di per sé non basta a spiegare le origini dell’altruismo. Certamente non risolverò in questa sede il problema dell’evoluzione dell’altruismo, ma va bene così, visto che comunque non ritengo sia questa la questione cardine; in DALL’INTERAZIONE SOCIALE ALLE ISTITUZIONI SOCIALI 55 altre parole, non penso che l’altruismo sia il primo fatto- re responsabile della cooperazione umana intesa nella sua accezione più ampia, ovvero come la tendenza e la capa- cità di vivere e operare insieme all’interno di gruppi cul- turali fondati su una base istituzionale. In questa vicenda, l’altruismo recita una parte marginale. La vera star è la mutualità: noi tutti traiamo beneficio dalla nostra coope- razione solo a patto di lavorare insieme. In altre parole, solo a patto che tra noi ci sia collaborazione. Il rischio di free-rìding persiste, ma nei casi più concreti - quando, per esempio, tu e io dobbiamo spostare un grosso tronco - esso non è materialmente possibile perché al successo del- l’impresa sono necessari gli sforzi di entrambi, e ogni ten- tativo di sottrarsi verrebbe immediatamente notato. Co- me beneficio secondario, nel contesto di un mutuo sforzo, il mio altruismo nei tuoi confronti - per esempio indicar- ti uno strumento che ti agevolerà il compito - in realtà aiuta anche me: il fatto che tu svolga il tuo lavoro avvici- na entrambi al nostro obiettivo comune. La mutualità dunque potrebbe anche essere la culla dell’altruismo uma- no: un ambiente protetto, per così dire, per avviare le per- sone in quella direzione. Se prendiamo le moderne scimmie antropomorfe in ge- nerale come modello per l’ultimo antenato comune agli umani e agli altri primati, ci toccherà affrontare un lungo percorso per giungere a quelle attività collaborative e isti- tuzioni culturali su grande scala tipiche delle società umane moderne. Eppure, è proprio quello che cercheremo di fare adesso, seppure a grandi linee. Tanto per cominciare, gra- zie al lavoro di Joan Silk e altri, sappiamo che le società dei primati non umani funzionano in gran parte su base geni- toriale e nepotistica, con l’aggiunta, nella maggior parte dei casi, di una bella dose di dominanza. Perciò ogni loro for- ma di cooperazione dipenderà molto probabilmente da le-

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Dall’interazione sociale alle istituzioni sociali

Il primo scenario della moralità (...) non è quello in cui io faccio qualcosa per te o tu fai qualcosa per me, ma uno in cui noi faccia­mo qualcosa insieme. . .

Christine Korsgaard

Negli studi che si stanno compiendo sull’evoluzione del comportamento umano ci si focalizza soprattutto sul feno­meno dell’altruismo, in particolare su quale sia stata la sua origine. Non esiste una soluzione unanimemente accetta­ta, ma di certo le proposte non mancano. Il vero nodo da sciogliere è che ci deve essere un modo che permetta al­l’individuo che si sacrifica di non sacrificare sé stesso o la sua progenie fino alla morte: ci deve essere una qualche forma di vantaggio compensativo per il suo sacrificio. E stato dimostrato che la punizione (come la maldicenza, il «gossip» che nuoce alla reputazione) inflitta ai soggetti non cooperativi contribuisce a stabilizzare la cooperazio­ne - sempre in un’ottica di altruismo -, ma la punizione è un bene pubblico di cui il soggetto punito paga il prez­zo e da cui tutti traggono beneficio, il cosiddetto proble­ma di secondo grado dell’altruismo. La punizione inoltre può adempiere la sua funzione solo se chi la subisce ten­de a reagire facendo la «cosa giusta», perciò la minaccia della punizione di per sé non basta a spiegare le origini dell’altruismo.

Certamente non risolverò in questa sede il problema dell’evoluzione dell’altruismo, ma va bene così, visto che comunque non ritengo sia questa la questione cardine; in

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altre parole, non penso che l’altruismo sia il primo fatto­re responsabile della cooperazione umana intesa nella sua accezione più ampia, ovvero come la tendenza e la capa­cità di vivere e operare insieme all’interno di gruppi cul­turali fondati su una base istituzionale. In questa vicenda, l ’altruismo recita una parte marginale. La vera star è la mutualità: noi tutti traiamo beneficio dalla nostra coope­razione solo a patto di lavorare insieme. In altre parole, solo a patto che tra noi ci sia collaborazione. Il rischio di free-rìding persiste, ma nei casi più concreti - quando, per esempio, tu e io dobbiamo spostare un grosso tronco - esso non è materialmente possibile perché al successo del­l ’impresa sono necessari gli sforzi di entrambi, e ogni ten­tativo di sottrarsi verrebbe immediatamente notato. Co­me beneficio secondario, nel contesto di un mutuo sforzo, il mio altruismo nei tuoi confronti - per esempio indicar­ti uno strumento che ti agevolerà il compito - in realtà aiuta anche me: il fatto che tu svolga il tuo lavoro avvici­na entrambi al nostro obiettivo comune. La mutualità dunque potrebbe anche essere la culla dell’altruismo uma­no: un ambiente protetto, per così dire, per avviare le per­sone in quella direzione.

Se prendiamo le moderne scimmie antropomorfe in ge­nerale come modello per l’ultimo antenato comune agli umani e agli altri primati, ci toccherà affrontare un lungo percorso per giungere a quelle attività collaborative e isti­tuzioni culturali su grande scala tipiche delle società umane moderne. Eppure, è proprio quello che cercheremo di fare adesso, seppure a grandi linee. Tanto per cominciare, gra­zie al lavoro di Joan Silk e altri, sappiamo che le società dei primati non umani funzionano in gran parte su base geni- toriale e nepotistica, con l’aggiunta, nella maggior parte dei casi, di una bella dose di dominanza. Perciò ogni loro for­ma di cooperazione dipenderà molto probabilmente da le­

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gami familiari o reciprocità diretta. Grazie al lavoro di Brian Skyrms, invece, sappiamo che, nel costruire una col­laborazione simile a quella umana partendo dai primati, non ci troviamo di fronte a un dilemma del prigioniero, in cuTgli individui valutano ì possibili benefici personali con­trapponendoli a quelli del gruppo. Lo scenario in cui ci tro­viamo è piuttosto quello della caccia al cervo, in cui ognu­no preferisce collaborare in vista delle ricompense che questo porterà a ciascun individuo e al gruppo. Il problema è come poter arrivare al punto di unire le forze. E non è una faccenda da poco, dato che ciò che io faccio in situazioni del genere dipende da ciò che penso farai tu e viceversa, ri­corsivamente, il che significa che dobbiamo essere in gra­do di comunicare tra noi in modo soddisfacente e di fidar­ci l’uno dell’altro. Chiamerò questa mia ipotesi evolutiva «Ipotesi Silk per le scimmie, Skyrms per gli umani».

Per passare dalle attività di gruppo delle grandi scimmie alla collaborazione umana sono necessari tre processi fon­damentali. Innanzitutto i primi esseri umani dovevano ne­cessariamente sviluppare alcune fondamentali abilità socio­cognitive e motivazioni per coordinarsi e comunicare con gli altri in modi complessi, che prevedevano obiettivi comuni e una suddivisione coordinata del lavoro tra le parti; in al­tre parole, si tratta di ciò che chiamerò «abilità e motiva­zioni per l ’intenzionalità condivisa». Secondo processo fondamentale: anche solo per dare il via ad attività di colla­borazione così complesse, i primi esseri umani dovevano pri­ma diventare virendemlffi^^quanto non siano le attuali scimmie antropomorfe, forse so- prattutto nell’ambito del cibo. E infine il terzo: quegli esse­ri umani più tolleranti e collaborativi dovevano sviluppare- a livello di gruppo - alcune pratiche istituzionali che pre­vedessero norme sociali pubbliche e l’assegnazione di status deontico a ruoli istituzionali. Prima di approfondire questi

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tre passaggi fondamentali, vediamo di dare una forma un po’ più concreta al punto di partenza e a quello d’arrivo di questo nostro ipotetico percorso evolutivo.

Un esempio concreto lega i due estremi della nostra sto­ria evolutiva: il procacciamento del cibo e il «fare la spesa». Quando gli esseri umani vanno in cerca di noci nella fo­resta, lo fanno in modo pressoché identico a quello degli scimpanzé. Sia gli uomini sia le scimmie comprendono la disposizione spaziale della foresta, la causalità coinvolta nell’uso di determinati strumenti, e la mediazione dei loro compagni finalizzata all’obiettivo. Ma che cosa succede quando gli esseri umani vanno a procacciarsi il cibo al su­permercato? Qui accadono cose che non si verificano tra gli scimpanzé a caccia di cibo, e non possono verificarsi perché dipendono da processi che trascendono le mere co­gnizioni e motivazioni individuali.

Immaginiamo uno scenario di questo tipo: entriamo nel supermercato, buttiamo qualche articolo nel carrello, ci mettiamo in coda per pagare, porgiamo al cassiere la car­ta di credito, prendiamo le cose che abbiamo comprato, e ce ne andiamo. Dal punto di vista degli scimpanzé, po­tremmo descrivere tutto questo in modo piuttosto sem­plice: vai da qualche parte, recuperi un po’ di cose, e te ne torni da dove sei venuto. Gli esseri umani, invece, inter­pretano - in modo più o meno esplicito - l ’atto di fare la spesa a un livello completamente diverso, quello della realtà istituzionale. In primo luogo, entrare nel negozio mi sottopone a tutta una serie di diritti e doveri: ho il di­ritto di acquistare i beni al prezzo esposto e il dovere di non rubarli o distruggerli, perché sono proprietà del supermer­cato. Secondariamente, mi aspetto di poterli mangiare in tutta tranquillità perché il governo ha un apposito diparti­mento che lo garantisce: se un bene si rivela dannoso, pos­

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so far causa a qualcuno. In terzo luogo, il denaro poggia su una complessa struttura istituzionale in cui tutti credono a tal punto da consegnare beni in cambio di questi parti­colari pezzi di carta, o addirittura in cambio dei segnali elettronici che provengono da qualche parte della mia car­ta di credito. Quarto punto, mi metto in coda perché ri­spetto norme ampiamente accettate: se cercassi di fare il furbo passando davanti agli altri, verrei redarguito e la mia reputazione di persona a modo ne soffrirebbe. Potrei andare avanti praticamente all'infinito nelPelencare le realtà istituzionali che popolano la sfera pubblica, realtà che presumibilmente gli scimpanzé in cerca di cibo non sperimentano affatto.

Ciò che accomuna tutti questi fenomeni istituzionali è un «senso del noi» squisitamente umano, la cosiddetta in­tenzionalità condivisa. Questa non deriva solo dal mon­do istituzionale, collettivo, dei supermercati, della pro­prietà privata, dei ministeri della salute e simili: il «senso del noi» può essere colto - forse ancor più nitidamente - nelle interazioni sociali più semplici. Facciamo finta che voi e io ci siamo messi d’accordo per andare insieme al su­permercato. Mentre camminiamo, io tutto d’un tratto giro i tacchi e me ne vado senza dire una parola, lascian­dovi 11 sul marciapiede. Voi ovviamente non solo restere­te sorpresi, ma anche un po’ seccati (o magari sareste preoc­cupati per me) e, quando tornerete a casa, racconterete ai vostri amici ciò che è successo. «Noi» stavamo andando al supermercato insieme, e io ho rotto - unilateralmente - quel «noi», a causa del mio egoismo o di un momentaneo squilibrio mentale. La cosa interessante è che avrei potuto evitare tutto questo semplicemente «congedandomi», di­cendo che mi ero appena ricordato di avere una cosa ur­gente da fare, chiedendovi, per così dire, il permesso di rompere il nostro «noi».

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Questo senso del fare qualcosa insieme, che crea aspet­tative, e addirittura diritti e doveri reciproci, è - si po­trebbe argomentare - unicamente umano perfino in un caso semplice come quello appena illustrato. Searle, insie­me ad altri, ha dimostrato come il senso di agire insieme può crescere di scala fino a raggiungere quel tipo di in­tenzionalità collettiva necessaria per compiere azioni isti­tuzionalmente complesse come la spesa al supermercato, che esiste perché esistono diritti, doveri, denaro, e gover­ni, che a loro volta esistono perché tutti «noi» ci credia­mo e agiamo come se esistessero.1 Ne consegue che gli es­seri umani vivono non solo nei mondi fisici e sociali noti anche ad altri primati, ma in un mondo istituzionale o cul­turale che essi stessi hanno creato, un mondo popolato da entità d’ogni genere alle quali è stato deonticamente con­ferito potere. Le caratteristiche di questo mondo variano molto da un gruppo all’altro, ma ogni gruppo vive in un mondo fatto più o meno così.

Sebbene molti tratti osservabili nel mondo culturale umano lo differenzino nettamente dal mondo sociale de­gli altri primati, identificare i processi psicologici soggia­centi a questi tratti distintivi è un’operazione tutt’altro che semplice. L ’approccio che abbiamo adottato nel no­stro laboratorio è stato di individuare le differenze nelle modalità con cui le grandi scimmie e i piccoli d’uomo in­teragiscono con gli altri socialmente, quando si trovano a collaborare e comunicare in situazioni relativamente sem­plici. Mi concentrerò sui tre processi cui ho accennato pri­ma, esaminandoli uno per uno:

1 . Coordinazione e comunicazione.2. Tolleranza e fiducia.3. Norme e istituzioni.

1 Searle, La costruzione della realtà sociale cit.

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E, per mantenere il discorso il più possibile semplice e coerente, racconterò la mia storia evolutiva concentran­domi soprattutto sul procacciamento del cibo, poiché so­no giunto alla conclusione che molti passaggi chiave nel­l’evoluzione della cooperazione umana siano connessi al modo in cui gli individui si rapportano l’un l’altro mentre cercano di procurarsi il pane quotidiano.2

Coordinazione e comunicazione

Tutti gli animali sociali sono, per definizione, coopera­tivi, ovvero vivono insieme in gruppi in modo relativa­mente pacifico. La maggior parte delle specie sociali, in un modo o nell’altro, si dedica alla ricerca del cibo in gruppo, soprattutto per difendersi dagli attacchi dei predatori. In molte specie di mammiferi, gli individui formano anche re­lazioni specifiche con altri individui, dando vita a coali­zioni e alleanze nella competizione intra-gruppo per il cibo e l ’accoppiamento. Anche la difesa inter-gruppo e quella dai predatori rappresentano un’attività di gruppo in mol­te specie di mammiferi. Gli scimpanzé e altre grandi scim­mie si dedicano più o meno a tutte queste operazioni di gruppo; dunque, ciò che vogliamo scoprire è in quale modo le loro attività collettive assomiglino alle forme di collabo- razione umana e in quale modo se ne differenzino.

Nelle «attività cooperative condivise»,3 i collaboratori devono prima di tutto essere mutuamente ricettivi agli stati intenzionali dell’altro. Oltre a questo requisito mi­nimo, però, le due caratteristiche chiave sono: (i) i parte­

2 Per una convincente argomentazione a questo proposito, vedi K. Sterelny, Ni-cod Lectures, 2008: http://www.institutnicod.0rg/lectures2008_outline.htm.

3 Bratman, Shared Co-operative Activity cit.; Gilbert, On SocialFacts cit.

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cipanti hanno un fine congiunto nel senso che noi (sulla base di una mutua comprensione) facciamo x insieme; (2) i partecipanti coordinano i loro ruoli - i rispettivi piani e sottopiani d’azione, compreso quello di aiutare l’altro nel suo ruolo, se necessario - che sono interdipendenti. Sta­bilire un fine comune costituisce già di per sé una sorta di problema di coordinazione e, in quanto tale, richiede al­cune forme di comunicazione specifiche.4

La più complessa impresa collaborativa in cui gli scim­panzé si cimentano allo stato naturale è la caccia di grup­po al colobo rosso tra gli alberi della foresta di Tal, in Co­sta d’Avorio. In questa loro caccia, gli scimpanzé hanno un fine condiviso e assumono ruoli complementari. Un in­dividuo, detto «inseguitore», rincorre la preda in una cer­ta direzione, mentre altri, detti «stopper», si arrampica­no sugli alberi e le impediscono di cambiare direzione. A un certo punto, un «imboscato» si para di fronte alla pre­da precludendole la fuga.5 E evidente che se l ’evento del­la caccia viene descritto utilizzando questo vocabolario di ruoli complementari, esso non può che apparire come un’attività collaborativa a pieno titolo: ruoli complemen­tari implicano l’esistenza di un fine congiunto. Tuttavia, sarebbe il caso di chiedersi se queste scelte lessicali siano corrette.

A mio parere si può caratterizzare in modo più plausi­bile quest’attività di gruppo. La caccia ha inizio quando uno scimpanzé maschio comincia a inseguire il colobo tra i rami degli alberi, consapevole che i suoi compagni di gruppo - necessari al successo dell’impresa - sono nei pa­raggi. A quel punto, tutti gli altri scimpanzé vanno a oc-

4 H. Clark, Uses o f Language, Cambridge University Press, Cambridge 1996.5 C. Boesch, Joint Cooperative Hunting among Wild Chimpanzees: Taking Natu­

rai Observations Seriously, in «Behavioral and Brain Sciences», XX VIII (5), 2005, pp. 692-93.

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cupare, a turno, la collocazione spaziale più favorevole an­cora disponibile in quel determinato momento della cac­cia. Il secondo scimpanzé blocca la scimmietta in fuga, il terzo va a sorvegliare un’altra potenziale via di fuga, altri rimangono a terra nel caso la scimmia si lasciasse cadere giù. In questo processo ogni partecipante tenta di massi­mizzare le proprie probabilità di catturare la preda, sen­za che siano stati prefissati un fine congiunto o una di­stribuzione di ruoli. E indubbio che questa partita di caccia rappresenta un’attività di gruppo piuttosto com­plessa, in cui si presuppone che gli individui siano consa­pevoli delle rispettive localizzazioni spaziali mentre ac­cerchiano la preda; ma anche lupi e leoni fanno qualcosa di molto simile, e praticamente nessuno studioso ha an­cora attribuito loro fini o piani congiunti. Le grandi scimmie si impegnano in un’attività di gruppo in termini di I-mode («modalità-io»), non di We-mode («modali- tà-noi»).6

Al contrario delle attività di gruppo degli scimpanzé informate alla «modalità-io», i piccoli d’uomo, più o meno a partire dal primo anno di vita, operano in « mo­dali tà-noi», elaborando un fine congiunto con il loro com­pagno. Questo dato emerge con estrema chiarezza in uno studio comparativo in cui Warneken e altri proponevano a bambini di un’età compresa tra i quattordici e i venti- quattro mesi, e a tre giovani scimpanzé allevati in catti­vità, quattro attività collaborative diverse: due prove strumentali che prevedevano un obiettivo concreto e due giochi sociali nelle quali non era previsto alcun obiettivo esterno, la finalità era il gioco in sé stesso. Il compagno adulto a un certo punto doveva smettere di partecipare alle prove per valutare se i soggetti avessero compreso

6 Tuomela, The Philosophy ofSociality: The Shared Point ofView cit.

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l’impegno profuso dall’adulto nell’attività condivisa. I ri­sultati furono chiari e costanti. Gli scimpanzé non mani­festavano alcun interesse nei confronti dei giochi sociali, rifiutandosi sostanzialmente di partecipare. Nelle prove di problem-solving, invece, sincronizzavano con una certa abilità il loro comportamento a quello dell’umano, prova ne è che spesso riuscivano a ottenere il risultato sperato. Tuttavia, quando il compagno umano smetteva di parte­cipare, nessun scimpanzé tentava mai un atto comunicati­vo per tornare a coinvolgerlo - neppure nel caso di soggetti che apparivano molto motivati a raggiungere l’obiettivo - suggerendo che non avevano elaborato con lui un fine congiunto. I bambini, invece, collaboravano sia nei giochi sociali sia nelle prove strumentali. A volte arrivavano per­fino a trasformare questi ultimi in giochi sociali rimettendo a posto la ricompensa ottenuta per ricominciare a giocare: l’attività collaborativa risultava di per sé più gratificante dell’obiettivo strumentale. L ’aspetto ancor più interes­sante è che, quando l’adulto smetteva di partecipare, i bambini lo incoraggiavano attivamente a riprendere il suo posto comunicando in qualche modo, suggerendo che ave­vano elaborato con lui un fine condiviso cui volevano tor­nasse a dedicarsi.7

Altri due esperimenti compiuti nel nostro laboratorio offrono un’ulteriore conferma della capacità infantile di dedicarsi a un fine congiunto. Il primo si proponeva di ve­rificare l ’ipotesi che, nel contesto di un’attività collabo­rativa, nessuno dei due partner sarà soddisfatto finché en­trambi non avranno ottenuto la propria ricompensa. In altre parole, il fine congiunto può dirsi raggiunto solo a

7 Warneken e Tomasello, Altruistic Helping in Human infanti and Young Chim- panzees cit.; Warneken et al., Spontaneous Altruism hy Chimpanzees and Young Chil- dren cit. Video relativi a questi studi sul comportamento collaborativo sono visio­nabili su bostonreview.net/whywecooperate.

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patto che entrambi i soggetti ne traggano beneficio. I ri­cercatori avevano previsto che una coppia di bambini di tre anni unisse le forze per sollevare e trasportare un’asta piuttosto pesante lungo una specie di scala. Alle estremità dell’asta erano state fissate due ciotole contenenti un «buono premio» che poteva essere facilmente riscosso nelle vicinanze. Il trucco consisteva nel fatto che a uno dei due bambini veniva data l’opportunità di mettere le mani sul buono prima del previsto grazie a un’apertura nel plexiglas che copriva i gradini. I soggetti che si trova­vano in questa posizione privilegiata prendevano la ri­compensa, ma poi si accorgevano che per consentire al­l’altro bambino di ottenere la sua dovevano lavorare insieme per superare un altro gradino. Alcuni bambini an­davano subito a incassare il loro buono, ma poi tornava­no a collaborare per affrontare l’ultimo gradino e assicu­rarsi che il compagno meno fortunato potesse ottenere il suo. Altri, addirittura, prima di incassare la ricompensa aspettavano di aver aiutato il compagno. Nel complesso, la maggior parte dei bambini sembrava sentirsi impegna­ta al fine congiunto - portare a termine la prova affinché entrambi ottenessero la ricompensa - molto più di quan­to accadesse nella condizione di controllo, che prevedeva semplicemente di aiutare l’altro in una situazione identi­ca ma non in un contesto di collaborazione.8

Nel secondo esperimento, un adulto e un bambino co­minciavano un’attività collaborativa con un accordo espli­cito di impegno congiunto. L ’adulto diceva qualcosa del tipo: «Dai, adesso facciamo questo gioco, ok?» Solo dopo che il piccolo aveva dato il suo assenso, cominciavano a giocare insieme. In una condizione di controllo, il picco-

8 K. Hamann, F. Warneken e M. Tomasello, Children’s Commitment to a Sha-red Goal in Peer Collaboration, poster presentato al Meeting o£ thè Society for Re­search in Child Development, aprile 2009.

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lo iniziava da solo, e l’adulto si aggiungeva di sua inizia­tiva. In entrambe le condizioni a un certo punto l’adulto smetteva improvvisamente di giocare. I bambini di tre anni (ma non quelli di due) si comportavano in modo di­verso a seconda che si fossero presi o meno un reciproco im­pegno formale con l’adulto. Se quest’ultimo si era impe­gnato, i bambini insistevano di più affinché riprendesse l’attività: dopotutto, avevano stretto il patto di gipcare in- sieme. Per di più, in una variante di questa procedura, quando i ricercatori allontanavano il bambino dall’attività condivisa (allettandolo con un giòco ancor più divertente all’altro lato della stanza), quelli che si erano esplicitamen­te impegnati con l’adulto tendevano molto più degli altri a esprimere una forma di congedo, per esempio dicendo­gli qualcosa, porgendogli il giocattolo, o guardandolo in faccia prima di allontanarsi.9 Sapevano che stavano ve­nendo meno a un impegno preso, perciò cercavano di ad­dolcire la pillola.

Oltre a un fine congiunto, una vera attività collabora­tiva prevede una qualche forma di suddivisione del lavoro e che ciascun partner comprenda il ruolo dell’altro. In un altro studio, una squadra di ricercatori si dedicava a un’at­tività di collaborazione con bambini molto piccoli - in­torno ai diciotto mesi d ’età - , poi nella fase successiva invertivano i ruoli, costringendo i bambini a giocarne uno che non avevano mai sperimentato. Questi, pur essendo così piccoli, si adattavano prontamente al nuovo ruolo, la­sciando intendere che nella precedente attività congiun­ta con l ’adulto avevano compreso la sua prospettiva e il suo ruolo.10 A tre giovani scimpanzé allevati in cattività,

9 M. Grafenhain, T. Behne, M. Carpenter e M. Tomasello, Young Children’s XJnderstanding ofjoint Commitments to Cooperate, in «Developmental Psychology», in corso di stampa.

10 M. Carpenter, M. Tomasello e T. Striano, Role Reversai Imìtation in 12 and 18 Month-Oldsand Children with Autism, in «Infancy», V i l i (3), 2005, pp. 253-78.

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invece, una simile inversione di ruoli non riusciva.11 A no­stro parere questo dimostra che gli infanti umani assume­vano per l’attività congiunta iin punto di vista «a volo d’uccello», in cui il fine congiunto e i ruoli complementa­ri rientravano in un unico « format rappresentazionale » (simile allo «sguardo da nessun luogo>) di Nagel). Invece, gli scimpanzè interpretavano la propria azione strettamen­te da una prospettiva in prima persona e quella del partner da una Jro^pettixa ia-terza persona, ma non avevano una visione a volo d’uccello che abbracciasse l’at­tività nella sua interezza e l ’interscambiabilità dei ruoli. Dunque, dal punto di vista di_entrambi i partecipanti, le attività collaborative umane vengono svolte attraverso ruoli generalizzati potenzialmente attribuibili a chiunque, compreso il Sé. Alcuni filosofi li definiscono «ruoli di agente neutrale».

Nel momento in cui gli individui coordinano le loro azioni con quelle di un altro nell’ambito di un’attività col­laborativa, coordinano anche la loro attenzione. Non a caso, nella letteratura sullo sviluppo infantile, le prime attività collaborative sono spesso definite «attività di at­tenzione congiunta». Intorno ai nove mesi, i bambini ini­ziano a fare alcune cose insieme agli adulti, come far ro­tolare una palla avanti e indietro o impilare dei cubi: attività che richiedono un fine congiunto, per quanto ele­mentare. Mentre giocano, i bambini monitorano l’adulto e la sua attenzione, e lo stesso fa l’adulto con il piccolo. Nessuno sa con certezza come meglio caratterizzare que­sta ricursione potenzialmente infinita di monitoraggio, ma sembra che compaia nell’esperienza infantile - in una forma ancora abbozzata - entro il primo anno di vita. In­dipendentemente da come si possa caratterizzarlo al me­

11 M. Tomasello, M. Carpenter e R.P. Hobson, The Emergence o f Social Cogni-tion in Three Young Chimpanzees, Blackwell, Oxford 2005.

glio, all’inizio il loop attenzionale è reso possibile dalla presenza di un fine congiunto. Se entrambi sappiamo di avere il fine congiunto di costruire insieme questo stru­mento, sarà relativamente facile per entrambi capire dove si focalizzerà l ’attenzione dell’altro, perché il locus della nostra attenzione è il medesimo: siamo focalizzati su ciò che è di qualche rilevanza per il nostro obiettivo. Più in là nel tempo, gli infanti potranno entrare nella modalità di attenzione congiunta anche in assenza di un fine con­giunto. Per esempio, nel sentire un rumore forte, il pic­colo e l’adulto possono badarvi insieme, con quel tipo di attenzione congiunta che ho definito bottom-up, in quan­to prende le mosse da un evento che cattura l’attenzione. Nella fase iniziale, però - sia nella filogenesi sia nell’on­togenesi -, l ’attenzione congiunta insorge solo quando esiste un fine congiunto - quello che abbiamo definito fine congiunto top-down - poiché sono i fini degli attori a determinare l’attenzione.

Nelle attività collaborative, i partecipanti non solo pre­stano congiuntamente attenzione a elementi rilevanti per l’obiettivo comune, ma hanno anche là propria prospetti­va personale. In realtà, la nozione stessa di prospettiva presuppone l’esistenza di un focus attenzionale congiunto, che in un secondo momento potremo vedere in modi di­versi (altrimenti vedremmo soltanto cose completamente differenti). Questa struttura attenzionale su due livelli - a quello più alto abbiamo un focus attenzionale condiviso; a quello inferiore la diversificazione in prospettive - è per­fettamente parallela alla struttura intenzionale su due livelli dell’attività collaborativa stessa (fine condiviso con ruoli individuali) e in ultima analisi ne è una derivazione.12

12 H. Moli e M. Tomasello, Cooperation and Human Cognition: The Vygotskian Intelligence Hypotbesis, in «Philosophical Transactions of thè Royal Society», (Se- ries B), C C C L X II (1480), 2007, pp. 639-48.

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Nella comunicazione umana, la prospettiva insita nel­l ’attenzione congiunta gioca un ruolo chiave. Per chiari­re il concetto, prendiamo in esame un esperimento con­dotto su bambini di un anno. Un adulto entrava nella stanza, guardava da lontano un giocattolo particolarmen­te complesso ed esclamava: «Oh, ma che bello! Guardate lì! » Alcuni bambini non avevano mai avuto alcun contat­to con l ’adulto, perciò inferivano che la sua reazione di­pendesse dal bellissimo giocattolo che vedeva per la prima volta. Altri, invece, avevano già avuto occasione di in­contrarlo e di giocare a lungo con quell’oggetto insieme a lui. Il giocattolo perciò era qualcosa di già noto, apparte­neva al loro terreno comune. In questo caso, i piccoli sup­ponevano che l’adulto non potesse riferirsi all’oggetto in sé - non si comunica a un’altra persona un entusiasmo del genere per qualcosa di già noto a entrambi -, ma che fos­se entusiasta alla vista di un altro oggetto o di qualche al­tro aspetto del giocattolo stesso.13

Tutto - compresi numerosi esperimenti espressamente volti a indagare questo aspetto14 - fa ritenere che le gran­di scimmie non conoscano l’attenzione congiunta. Molti dati indicano che uno scimpanzé sa che il suo compagno di gruppo vede la scimmia,35 ma non abbiamo prove che lo scimpanzé sappia che il suo compagno lo vede vedere la scimmia. In altre parole, non ci sono prove che le grandi scimmie possano compiere anche un solo passaggiojdi let­tura ricorsiva della mente (se mi è concesso usare questo termine), che rappresenta il presupposto cognitivo per

13 H. Moli, C. Koring, M. Carpenter e M. Tomasello, Infants Determine Others’ Focus o f Attention by Pragmatici and Exclusion, in «Journal of Cognition & Deve- lopment», VII (3), 2006, pp. 411-30.

14 Tomasello, Carpenter e Hobson, The Emergence o f Social Cognition in Three Young Chimpanzees cit.

15 J. Cali e M. Tomasello, Does thè Chimpanzee Have a Theory o/Mind: } o YearsLater, in «Trends in Cognitive Science», XII (5), 2008, pp. 187-92.

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qualsiasi terreno concettuale comune. Se, come noi ipo­tizziamo, il primo passo sulla strada verso ciò che è stato definito «mutua consapevolezza», «conoscenza condivi­sa», «attenzione congiunta», «ambiente cognitivo comu­ne», «intersoggettività» e simili è stato fatto in un con­testo di attività collaborative improntate a fini congiunti, il motivo per cui le grandi scimmie non stabiliscono un’at­tenzione congiunta è prima di tutto che esse non parte­cipano ad attività improntate a fini congiunti.16 Nei molti studi sulla collaborazione che abbiamo condotto, le grandi scimmie non hanno mai tentato una forma di­retta di comunicazione per stabilire fini congiunti o at­tenzione congiunta; invece i bambini, pur di arrivarci e al fine di coordinare i rispettivi ruoli, ricorrevano a ogni ge­nere di comunicazione, verbale e non.

La tendenza umana a cooperare, perciò, inizialmente si sviluppò entro attività collaborative perché queste forni­vano il terreno comune necessario a stabilire oggetti di in­teresse congiunti e perché generavano quelle intenzioni cooperative che Grice17 considerava essenziali per il cor­retto funzionamento del meccanismo inferenziale. Esami­niamo, ancora una volta, il più basilare degli atti comuni­cativi prettamente umani: il gesto di indicare (pointing). AI di fuori di un contesto condiviso, tale, gesto non significa nulla. Se però ci troviamo nel bel mezzo di un’attività col­laborativa (per esempio, stiamo raccogliendo noci), l ’atto di indicare il più delle volte trasmette un messaggio im­mediato e inequivocabile («ecco una noce»). Come Witt-

16 M. Tomasello, Origins o f Human Communìcatìon, m it Press, Cambridge (Mass.) 2008 (trad. it. he origini della cognizione umana, Raffaello Cortina, Mila­no 2009).

17 P. Grice, Logic and Conversation, in P. Cole e J. Morgan (a cura di), Syntax and Semantici, voi. 3. Speech Acts, Academìc Press, New York T97J (trad. it. Lo­gica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione, il Mulino, Bo­logna 1993).

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genstein osservò per primo, potrei indicare un foglio di carta, il suo colore, la sua forma o qualsiasi altra sua ca­ratteristica, a seconda della Lebensform (forma di vita) in cui l’atto comunicativo si contestualizza.18 Entrare in con­tatto con una qualche Lebensform - un’attività collabora­tiva ne sarebbe forse un prototipo - fonda l’atto di indi­care all’interno di una pratica sociale condivisa, che dà significato a un gesto che altrimenti resterebbe vuoto di senso. E, senza questa costruzione di un fondamento, la comunicazione convenzionale basata su simboli linguisti­ci «arbitrari» sarebbe soltanto rumore. Solo dopo aver sviluppato mezzi di comunicazione cooperativa all’inter­no di attività collaborative gli esseri umani cominciarono effettivamente a comunicare cooperativamente al di fuo­ri di esse.

Riassumendo, la struttura specie-specifica delle attività collaborative umane prevede un fine congiunto con ruoli individuali, coordinati da attenzione congiunta e pro­spettive individuali. Fu attraverso la caccia al cervo19 di Slcyrms che gli esseri umani svilupparono abilità e moti­vazioni per dedicarsi a questo genere di attività in vista di mutui e concreti profitti. Le abilità e le motivazioni per la comunicazione cooperativa si coevolsero con quelle atti­vità collaborative perché questo genere di comunicazione dipendeva da esse e, al tempo stesso, a esse contribuiva favorendo il coordinamento necessario alla costruzione di un fine congiunto e una diversificazione dei ruoli. La mia ipotesi è che le attività collaborative concrete del tipo che osserviamo oggi nei bambini piccoli siano perlopiù rap­presentative delle primissime attività di collaborazione

18 L. Wittgenstein, Philosophische XJntersuchungen, Blackwell, Oxford 1953 (trad. it. Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trincherò, Einaudi, Torino 1967).

19 B. Skyrms, The Stag Hunt and thè Evolution o f Social Structure, CambridgeUniversity Press, Cambridge 2004.

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comparse nell’evoluzione umana. Hanno la stessa struttu­ra di base della caccia collaborativa di una grossa preda o della raccolta collaborativa di frutti in cui un individuo aiuta l ’altro a salire sull’albero per recuperare quel cibo che in seguito verrà condiviso. Anzi, ritengo che il conte­sto ecologico in cui si svilupparono quelle abilità e moti­vazioni fosse una sorta di procacciamento cooperativo del cibo. Gli esseri umani subirono una qualche pressione se­lettiva al fine di collaborare nella raccolta del cibo - di­vennero collaboratori coatti - , cosa che invece non ac­cadde ai loro parenti primati più prossimi.20

Quanti avessero bisogno di qualcosa di un po’ più con­creto dell’osservazione e dell’analisi comportamentale e co­gnitiva considerino che gli umani presentano una caratte­ristica fisiologica estremamente rara che potrebbe essere connessa alla loro cooperatività. Ognuna delle oltre due­cento specie di primati non umani è in sostanza caratteriz­zata da occhi scuri, con la sclera - comunemente nota come «il bianco dell’occhio» - a malapena visibile. La sclera de­gli esseri umani (cioè la parte visibile) è circa tre volte più grande e, di conseguenza, pernii altri è molto più facile se­guire la direzione del nostro sguardo. Da un esperimento compiuto di recente è emerso che, per seguire la direzione dello sguardo altrui, gli scimpanzé si basano quasi solo sul movimento della testa: seguono l’orientamento versoTal­to della testa del ricercatore anche se questi tiene gli occhi chiusi. Gli infanti umani, invece, si affidano soprattutto al movimento oculare: seguono lo sguardo del ricercatore an­che se questi tiene la testa immobile.21 Da un punto di vista evolutivo è facile immaginare perché risulti vantaggioso per

20 Vedi anche Sterelny, Nicod Lectures cit., consultabili su http://www.msti-tutnic0d.0rg/lectures2008_out-line.htm.

21 M. Tomasello, B. Hare, H. Lehmann e J. Cali, Reliance on Head versus Eyes in thè Gaze Vollow'mg o f Great Apes and Human Infants: The Cooperative Eye Hy- pothesis, in «Journal of Human Evolution», LII (3), 2007, pp. 314-20.

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voi poter seguire facilmente la direzione del mio sguardo- per localizzare predatori e cibo, per esempio -, ma la na­tura non può selezionare la bianchezza del mio occhio solo per dare un vantaggio a voi: dev’essere vantaggiosa (o al­meno non svantaggiosa) per me. In quella che chiamiamo «ipotesi dell’occhio cooperativo», il mio team ha sostenu­to che la possibilità di «pubblicizzare» in questo modo la direzione del mio sguardo si sarebbe potuta evolvere solo in un ambiente sociale cooperativo, dov’era improbabile che gli altri la sfruttassero a mio detrimento. Dunque, è possi­bile che occhi capaci di rendere più facile agli altri seguire il mio sguardo si siano evoluti in gruppi sociali cooperati­vi dove il reciproco monitoraggio del focus attenzionale risultava vantaggioso per tutti, al fine di portare a termi­ne compiti che richiedevano uno sforzo congiunto.

Tolleranza e fiducia

Qui intendo concentrarmi sulle attività collaborative in quanto elemento chiave di molte qualità esclusivamente umane. In una storia evolutiva, però, queste attività rap­presentano una sorta di passaggio intermedio: esiste uno sviluppo precedente che ha spianato la strada all’evoluzio­ne di attività collaborative complesse. Nessuno dei pro­gressi nella cooperazione di cui abbiamo parlato avrebbe potuto compiere passaggi evolutivi in animali che fossero sempre competitivi: deve esserci stata una fase iniziale in cui sono emerse tolleranza e fiducia - nello specifico della nostra storia, relativamente~al cibo - per mettere una po­polazione di nostri antenati in una posizione in cui fosse possibile la selezione di abilità collaborative raffinate.

Nella classica spiegazione evolutiva della socialità, le specie animali diventano sociali per proteggersi dai pre­

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datori. In genere stando in gruppo ci si difende meglio. Quando non è necessario proteggersi, gli individui prefe­riscono andare in cerca del cibo da soli per evitare di com­petere costantemente con gli altri. Quando il cibo è dis­seminato in aree piuttosto vaste, di solito non ci sono problemi: le antilopi brucano tranquillamente nelle pia­nure fertili, restando insieme per proteggersi. Ma quando il cibo si concentra in zone circoscritte, l ’istinto di domi­nanza si fa sentire prepotentemente. Quando un gruppo di primati trova un albero carico di frutti, in generale si assiste a una corsa e a una competizione, e gli individui si allontanano dagli altri di alcuni metri per mangiare. Il caso più paradigmatico di fonte concentrata di cibo è l ’a­nimale da preda. Per i cacciatori solitari, ovviamente, gli animali da preda non comportano alcun problema di com­petizione; ma per i carnivori sociali come i leoni e i lupi, un’uccisione di gruppo pone il problema della divisione della carcassa. La soluzione è semplice: la carcassa è abba­stanza grossa da far sì che, nonostante alcuni individui possano appropriarsi di una parte più consistente, tutti riescono comunque a saziarsi. Nel caso in cui sia un indivi­duo in particolare a dare il colpo di grazia, quando gli altri si avvicinano alla vittima, dovrà consentire loro di otte­nerne una parte: cercare di combattere uno dei concor­renti significherebbe cedere la preda agli altri (il cosid­detto modello della divisione del cibo a «furto tollerato»).

Gli scimpanzé si nutrono soprattutto di frutti e altri ve­getali. I frutti tendono a essere una risorsa non troppo concentrata, ma molto apprezzata, e che incita quindi alla competizione. Alcuni scimpanzé, però, si dedicano anche alla già citata caccia di gruppo al colobo rosso. Come ab­biamo osservato, quest’attività di gruppo appare a tutti gli effetti collaborativa, caratterizzata da fini condivisi e da una suddivisione del lavoro. Quando la scimmia viene

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catturata, i soggetti che hanno partecipato alla caccia ot­tengono più carne rispetto ai semplici osservatori. Questo andrebbe a sostegno dell’idea di un obiettivo condiviso con un’equa spartizione delle spoglie.22 Una recente ricer­ca, tuttavia, ha dimostrato che le cose vanno in un altro modo. Prima di tutto, lo scimpanzé che ha vibrato il col­po mortale alla preda tenta immediatamente di defilarsi allontanandosi dal luogo dell’uccisione, se possibile, o rag­giungendo il punto più inaccessibile di un ramo per limi­tare l’arrivo agli altri scimpanzé. Nella maggior parte dei casi, però, quelli che hanno il bottino non riescono a te­nerselo tutto per sé, e vengono circondati da «mendican­ti» che tentano di strappare via qualche brandello di car­ne. Di solito lo scimpanzé che ne è in possesso lascia che questi ne prendano un po’, e i ricercatori hanno docu­mentato che la quantità di carne concessa è direttamente proporzionale all’insistenza nel mendicare e nell’essere molesti: jpiìL un soggetto è pressante*.._più^ciba^tisne. L ’insistenza di questi comportamenti potrebbe essere un indicatore del vigore con cui il soggetto sarebbe disposto a combattere; e quest’ansia di combattere potrebbe deri­vare, almeno in parte, dall’eccitazione indotta dalla cac­cia. C ’è anche la possibilità che perfino i cacciatori che non hanno avuto successo ottengano più carne degli ulti­mi arrivati perché sono i più vicini alle spoglie e i primi a mendicare, mentre i ritardatari sono relegati all’ultimo posto.23

Questa interpretazione della caccia di gruppo degli scimpanzé è suffragata dallo studio compiuto da Melis e descritto nel primo capitolo. Come si è visto, i ricercato­

22 Boesch, Joint Cooperative Hunting among Wild Chimpanzees: Taking NaturaiObservations Seriously cit.

23 I. C. Gilby, Meat Sharing among thè Gomhe Chimpanzees: Harassmentand Re­ciprocai Exchange, in «Animai Behaviour», LX X I (4), 2006, pp. 953-63.

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ri presentavano a due scimpanzé del cibo che poteva es­sere raggiunto solo a patto che entrambi tirassero con­temporaneamente verso di sé una delle due corde (fissate a un’assicella con un po’ di cibo sopra). Il risultato più eclatante fu che, quando c’erano due mucchi di cibo, cia­scuno dei quali si trovava di fronte ai partecipanti, si os­servava un buon grado di sincronizzazione, e di conse­guenza si aveva il successo dell’operazione. Tuttavia, quando c’era un unico ammasso di cibo posto al centro dell’assicella, cosa che avrebbe reso difficile la spartizione finale, il livello di cooperazione precipitava quasi a zero. In generale, quando la posta in gioco è il cibo, gli scim­panzé si dimostrano talmente competitivi da riuscire a coordinare attività sincronizzate solo se il problema della spartizione del bottino è in qualche modo secondario. In un esperimento affine condotto su alcuni bonobo - gli al­tri nostri parenti più prossimi, che hanno fama di essere più cooperativi degli scimpanzé - alla prospettiva di con­dividere ammassi di cibo, emerse un po’ di tolleranza in più, ma non poi così tanta.24

Nel caso dei bambini - a loro volta studiati utilizzando questo metodo -, il fatto che il cibo fosse ammassato non costituiva assolutamente un problema. Anzi, trovavano vari modi per spartirselo senza bisticciare quasi mai (for­se, a beneficio di coloro che hanno più di un figlio, è il caso di puntualizzare che non si trattava di coppie di fra­telli o sorelle). L ’aspetto interessante è che in questa si­tuazione i bambini a volte si scontrano per questioni di equità. In una prova, uno dei piccoli si appropriò di tut­te le caramelle che lui e il suo partner erano riusciti a con­quistare. Il derubato, allora, protestò e il bambino avido

24 B. Hare, A . Melis, V . Woods, S. Hastings e R. Wrangham, Tolerance Allows Bonobos to Outperform Chimpanzees in a Cooperative Task, in «Current Biology», X V II (7), 2007, pp. 619-23.

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fu costretto a capitolare. I ricercatori non registrarono al­cuno scontro quando i due bambini si trovavano di fron­te parti uguali.

Attraverso esperimenti ancora in corso, questo studio è stato ampliato per esaminare diversi generi di problemi di azione collettiva. Per esempio, i soggetti tirano verso di sé un’assicella sopra la quale stanno due gruppi di ricom­pense, ma in alcuni casi la distribuzione del cibo è decisa­mente sbilanciata: cinque per me e uno per te; sei per me e niente per te. In assenza di qualche aggiustamento che consenta una distribuzione più equa delle ricompense, la collaborazione è destinata a scemare gradualmente. Ed è proprio ciò che accade nel caso degli scimpanzé. Dopo aver prestato aiuto in una o due prove senza ottenere al­cuna ricompensa, lo scimpanzé sfortunato non è più di­sposto a offrirlo, e il tentativo fallisce. Di solito, il sog­getto cui è capitato il cibo non lo condivide, scoraggiando un’ulteriore collaborazione. L ’ipotesi è che i bambini tro­vino diversi modi per dividere le ricompense in modo più equo per fare sì che durante le prove si mantenga un buon livello di collaborazione.

Questi studi suggeriscono che gli esseri umani e gli scimpanzé competono per il cibo con livelli d’intensità no­tevolmente diversi. Perché noi umani sviluppassimo abi­lità complesse e motivazioni per attività di tipo collabo­rativo, in cui tutti traggono beneficio, ci deve essere stato un primo passo che ci ha allontanato dallo schema tipico delle grandi scimmie: forte competizione per il cibo, scar­sa predisposizione nei confronti della condivisione e tota­le assenza dell’offerta di cibo. Nello scenario della «gran­de carcassa», per gli scimpanzé è relativamente facile collaborare: ogni individuo ha una ragionevole probabilità di catturare la scimmia e perfino quelli che partecipano senza successo alla caccia possono ottenere comunque un

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po’ di carne assillando chi ha in mano il bottino. Ma nel catturare una scimmia come può esserci un fine congiun­to - nell’accezione umana - se i cacciatori sanno che il successo dell’impresa condurrà inevitabilmente a una zuf­fa per la spartizione del bottino?

Esistono numerose ipotesi evolutive circa il contesto in cui gli esseri umani diventarono più socialmente tolleran­ti e meno competitivi riguardo al cibo. Potremmo raccon­tare una storia che si sviluppa interamente all’interno del contesto del procacciamento del cibo: quando la collabo- razione diventò obbligatoria, quegli individui che erano già meno competitivi e più tolleranti nei confronti degli altri si ritrovarono naturalmente ad avere un vantaggio adattativo (sempre che potessero trovare altri con le stes­se caratteristiche, come è stato evidenziato da Skyrms).

Potremmo anche fare un’altra ipotesi: dal momento che le società di cacciatori-raccoglitori erano in linea di mas­sima egualitarie, e allontanavano o uccidevano i prepo­tenti, gli esseri umani andarono incontro a una sorta di auto-domesticazione grazie alla quale gli individui molto aggressivi o rapaci venivano epurati dal gruppo.25

Infine, potremmo chiamare in causa l’importanza del co­siddetto cooperative breeding (cure genitoriali cooperative).E sorprendente il fatto che in tutte le specie di grandi scim­mie, eccetto quella umana, la madre provvede in pratica al 100 per cento all’assistenza e alla cura dei propri piccoli. Tra gli umani, sia nelle società tradizionali sia in quelle mo­derne, la percentuale si assesta intorno al 50 per cento. In uno scenario di cooperative breeding, gli aiutanti - tutti co­loro che non sono la madre - spesso adottano comporta­menti prosociali come fornire cibo e assistenza di base. In Mothers and Others, Sarah Hrdy sostiene che questo muta-

23 B. Hare e M. Tomasello, Human-like SocialSkills in Dogs?, in «Trends in C o­gnitive Science», IX (9), 2005, pp. 439-44.

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to contesto sociale - che potrebbe essere sorto in virtù del­le diverse modalità con cui gli umani dovevano procurarsi il cibo e delle relazioni monogame tra maschi e femmine - diede vita a quelle motivazioni prosociali che si osservano esclusivamente nell’uomo.26

Ovviamente è possibile che tutti gli scenari appena de­scritti abbiano giocato un ruolo. L ’aspetto importante è che nell’evoluzione umana si verificò una specie di primo passo di allontanamento dalle grandi scimmie - con il coinvolgimento del lato emozionale e motivazionale del­l’esperienza - che spinse gli esseri umani in un nuovo spa­zio adattativo in cui potesse avvenire la selezione di abi­lità e motivazioni complesse per attività collaborative e intenzionalità condivisa.

Quando siamo impegnati in un’attività collaborativa reciprocamente vantaggiosa, nel momento in cui io ti aiu­to a svolgere il tuo ruolo offrendoti un sostegno concretoo informazioni utili, sto di fatto aiutando anche me stes­so: il tuo successo nel tuo ruolo è infatti fondamentale peril nostro successo complessivo. Le attività mutualistiche offrono perciò un ambiente protetto per i primi passi nel­l’evoluzione delle motivazioni altruistiche. A quel punto devono evolvere condizioni che permettono agli individui di estendere la loro propensione all’aiuto anche al di fuo­ri di questo ambiente protetto. Per spiegare questo ulte­riore passaggio evolutivo dobbiamo chiamare in causa i soliti sospetti: reciprocità e reputazione in primis, oltre a punizione e norme sociali. Sarebbe molto difficile, se non impossibile creare motivazioni altruistiche, sui generis, al di fuori di attività mutualistiche, e di contesti di selezio­ne genitoriale che, per altri primati, potrebbero aver rap­presentato l ’ambiente protetto. Ma generalizzare motivi

26 S. Hrdy, Mothers and Others, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)2009.

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preesistenti per nuovi individui non è poi così problema­tico in termini evolutivi: se si presentano le condizioni giuste, la macchina cognitivo-motivazionale è già pronta.

Norme e istituzioni

Se stessimo raccontando una storia in termini evoluzio­nistici, a questo punto avremmo degli ominidi più tolle­ranti e fiduciosi nei confronti degli altri di quanto lo sia­no le attuali grandi scimmie antropomorfe, nonché dotati di abilità e motivazioni più potenti per l ’intenzionalità condivisa e la collaborazione. Per completare il quadro, però - per passare dal procacciamento del cibo al fare la spesa - servono alcuni mutamenti a livello di gruppo; nel­lo specifico, ci servono norme e istituzioni sociali.

Come sostenevo nel primo capitolo, non ritengo che le grandi scimmie abbiano delle norme sociali, se con questo termine intendiamo aspettative reciprocamente ricono­sciute e concordate socialmente, dotate di forza sociale, controllate e fatte rispettare da terzi. Nel corso di alcuni studi compiuti di recente, i miei colleghi e io abbiamo do­cumentato due comportamenti affini nei nostri antenati primati. In un’altra versione dell’esperimento dell’assi- cella da tirare insieme, era previsto che gli scimpanzé sce­gliessero il partner con cui affrontare la prova. Grazie a test precedenti, i ricercatori sapevano che uno dei sogget­ti era un collaboratore molto valido, mentre un altro era molto scadente. Gli scimpanzé in esame coglievano in fretta questa distinzione ed evitavano di scegliere il col­laboratore scadente.27 Ovviamente stavano solo cercando di massimizzare il guadagno ottenuto attraverso la colla-

27 A. Melis, B. Hare e M. Tomasello, Chimpanzees Recruit thè Best Collabora- tors, in «Science», 311 (5765), 2006, pp. 1297-300.

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borazione e non pensavano in alcun modo a punire il com­pagno poco performante. Scelte di questo genere, però, in quello che qualcuno ha definito «mercato biologico» sono comunque in grado di scoraggiare i collaboratori scadenti: finiscono per essere esclusi da opportunità vantaggiose. Tale esclusione potrebbe perciò essere vista come un’an- tenata della punizione.

In un altro studio compiuto nel nostro laboratorio, i ri­cercatori hanno dimostrato che, se uno scimpanzé ruba del cibo a un altro, la vittima reagirà impedendo al ladro di tenersi e mangiarsi il cibo. Questa ricerca è tuttora in corso, ma finora non abbiamo mai riscontrato un com­portamento simile da parte dei soggetti osservatori: se il furto è ai danni di qualcun altro, non tentano di impedi­re al ladro di godersi il suo bottino (né ricorrono a qualche altro tipo di sanzione negativa). Nonostante i tentativi in corso, non abbiamo osservato alcuna punizione da parte di soggetti terzi. Anche se questi due comportamenti del­le grandi scimmie - esclusione e rivalsa - servono a sco­raggiare il comportamento antisociale tra compagni di gruppo, né l’uno né l ’altro dipendono dall’applicazione di qualche norma sociale, certamente non nel senso di un agente neutrale nella posizione di soggetto terzo.28

Gli umani, invece, operano sulla base di due principali tipologie di norme sociali, anche se certo esistono nume­rose ibridazioni: le norme di cooperazione (comprese le norme morali) e quelle di conformità (comprese le regole costitutive).

Si può presumere che, storicamente, le norme di co­operazione provengano da situazioni in cui individui che si stanno dedicando alle loro faccende quotidiane, in con­

28 K. Jensen, J. Cali e M. Tomasello, Chimpanzees Are Vengefulhut Not Spiteful, in «Proceedings of thè National Academy of Sciences», C IV (32), 2007, pp.13046-50.

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testi individualistici o mutualistici, s’imbattono in qual­che modo l’uno nell’altro. Attraverso processi che non ci sono del tutto chiari, emerge una serie di aspettative re­ciproche, e forse gli individui tentano di indurre gli altri a comportarsi diversamente,29 oppure concordano su un piano egualitario di comportarsi in determinati modi, conil risultato di raggiungere una sorta di equilibrio. Nella misura in cui tale equilibrio è governato da aspettative di comportamento reciprocamente riconosciute, e che tutti gli individui concorrono a far rispettare, si può iniziare a parlare di norme o regole sociali.

Non fingerò di avere qualche risposta particolarmente nuova a questo che è uno dei maggiori dilemmi di ogni scienza sociale: da dove hanno avuto origine queste norme cooperative e come operano? Mi limito a sostenere che il ge­nere di attività collaborative alle quali oggi si dedicano i bambini piccoli rappresentano la culla naturale della varietà cooperativa. E questo perché contengono i semi dei due in­gredienti chiave. Innanzitutto, le norme sociali hanno for­za. Questo può dipendere dalla minaccia della punizione per i trasgressori, ma le norme hanno anche una dimensio­ne razionale. Nelle attività di mutua collaborazione, en­trambi sappiamo di dipendere l’uno dall’altro per raggiun­gere il nostro fine congiunto. Questo di fatto trasforma la normatività individuale dell’agire razionale - per raggiun­gere questo obiettivo, devo fare x (tipico di tutti gli orga­nismi caratterizzati da guida cognitiva) - in una specie di normatività dell’azione razionale congiunta: per raggiunge­re il nostro obiettivo, io dovrei fare x, e tu dovresti fare y. Se tu non fai y, il tuo comportamento sarà la causa del no­stro insuccesso e io me la prenderò con te. Se io non faccio

29 J. Knight, Institutìons and Social Conflict, Cambridge University Press, Cam­bridge 1992.

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la mia parte, falliremo di nuovo, ma in questo caso io pro­verò un sentimento di simpatia nei tuoi confronti (e maga­ri mi arrabbierò con me stesso). La forza delle norme coo­perative, dunque, deriva dalla nostra interdipendenza reciprocamente riconosciuta e dalle nostre reazioni sponta­nee al fallimento, nostro e al tempo stesso altrui.

La disapprovazione sociale non è ancora una norma cooperativa sociale perché le manca il secondo ingredien­te chiave: la generalità. Per definizione, i giudizi norma­tivi richiedono un qualche standard generalizzato in base al quale vengono valutate le attività specifiche del singo­lo. AlPinterno di una comunità, alcune attività collabora­tive vengono reiterate di continuo da vari membri di un gruppo sociale - prevedendo individui diversi con ruoli diversi in diverse occasioni - fino a trasformarsi in prati­che culturali. La struttura di tali pratiche - in termini dei fini congiunti e dei vari ruoli previsti - è parte del patri­monio di conoscenze condiviso. Per raccogliere il miele dagli alveari sugli alberi, per esempio, una persona deve mettersi accanto all’albero, un’altra le sale sulle spalle e raccoglie il miele per poi passarlo a una terza persona che lo versa in un vaso. Quando un soggetto nuovo a questa attività si aggrega e apprende socialmente che cosa va fat­to, a seconda dei vari ruoli, questi ultimi vengono defini­ti in modo generale, tanto da creare nel gruppo mutue aspettative: chi ha assunto il ruolo x deve fare determina­te cose per ottenere il successo collettivo. La lode o il bia­simo riservati a un individuo in un particolare ruolo sono offerti nel contesto dello standard che tutti sanno di do­ver rispettare. Perciò, le pratiche sociali in cui «noi» agia­mo insieme in modo interdipendente e con ruoli inter­scambiabili in vista di un fine congiunto generano, nel corso del tempo, mutue aspettative che conducono a giu­dizi normativi impersonali e generalizzati.

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Per illustrare a grandi linee la nascita di una pratica so­ciale e la sua dimensione normativa, dovrò descrivere in poche parole una situazione tipica osservata in uno dei no­stri esperimenti sull’aiuto. All’inizio il bambino osserva passivamente l’adulto che ripone un plico di riviste nel- l ’armadietto. Nella seconda fase, quando l ’adulto ha qual­che problema ad aprire le ante perché ha le mani piene di riviste, il bambino lo aiuta aprendole al posto suo. Poi, nella terza, avendo ormai capito come funziona la faccen­da, il bambino anticipa tutto: apre subito l ’armadietto e fa da apripista nell’attività collaborativa in questione. In alcuni casi, il bambino arriva perfino a indicare all’adul­to dove vanno messe le riviste (tramite il pointmg). Nei tre passaggi di questa attività, nel bambino e nell’adulto si formano reciproche aspettative in merito ai rispettivi comportamenti, tanto che il piccolo finisce per struttura­re l’attività e addirittura a comunicare all’adulto qualco­sa del tipo «Vanno messe lì»; ciò dimostra che, in questa attività, determinati compiti vengono eseguiti rispettan­do presupposti normativi. Ai fini della nostra storia evo­lutiva, vale la pena sottolineare che stiamo parlando di un bambino che ha solo diciotto mesi, in fase pressoché non verbale, e che non sta utilizzando alcun tipo di linguaggio normativo (in effetti l ’interpretazione normativa che ho dato al suo pointmg non è la sola possibile). Eppure, alla luce di tutti i nostri studi, sembra evidente che sulla base di un’unica o di poche esperienze nel contesto di un’atti­vità collaborativa con un adulto, i bambini inferiscono su­bito che le cose vanno fatte così, che è così che «noi» le facciamo.

Oltre alle norme di cooperazione, il comportamento umano è guidato da leggi di conformità o convenzionalità. A un certo punto dell’evoluzione umana, diventò impor­tante per gli individui di un gruppo comportarsi tutti nel-

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lo stesso modo: emerse una pressione alla conformità. La motivazione immediata è essere come gli altri, venire ac­cettati dal gruppo, far parte di quel «noi» che lo costitui­sce e che entra in competizione con altri gruppi. Se vo­gliamo funzionare come gruppo, dobbiamo fare le cose in modi che in passato si sono dimostrati efficaci, e dobbia­mo distinguerci da altri che non conoscono questi modi. E possibile che l’imitazione e la conformità siano stati per molti versi le fasi determinanti che portarono gli esseri umani in nuove direzioni da un punto di vista evolutivo.30 La ragione è che l’imitazione e la conformità possono crea­re un alto grado di omogeneità intra-gruppo e di eteroge­neità inter-gruppo, e su una scala temporale più rapida di quella dell’evoluzione biologica. In virtù di questo fatto specifico - probabilmente estraneo a ogni altra specie - di­ventò possibile un nuovo processo di selezione culturale di gruppo. I gruppi sociali umani iniziarono a differenziarsi il più possibile gli uni dagli altri riguardo a linguaggio, abbi­gliamento e costumi, e a competere tra loro. Quelli con le pratiche sociali più efficaci ebbero la meglio. Questa, pre­sumibilmente, è l’origine della mentalità dentro il grup­po/fuori del gruppo, che i ricercatori hanno dimostrato at­tivarsi anche in bambini piccolissimi (che, per esempio, preferiscono interagire con persone che parlano la loro lin­gua ancor prima di aver imparato a parlare).31

Sia le norme di cooperazione sia quelle di conformità sono cementate dal senso di colpa e dalla vergogna, che presuppongono una qualche forma di norma sociale, o al­meno di giudizio sociale, e di conseguenza processi coevo­lutivi tra biologia e cultura.32 Robert Boyd, antropologo

30 Richerson e Boyd, Non di soli geni cit.31 K. Kinzler, E. Dupoux ed E. S. Spelke, The Native Language o f Social Cogni-

tion, in «Proceedings of thè National Academy of Sciences», C IV (30), 2007, PP- 12577-80.

32 Durham, Coevolution: Genes, Culture and Human Diversity cit.

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della u c l a , dando prova di grande acume ha sostenuto che la punizione e le norme trasformano i problemi di compe­tizione (è il caso dei giochi a motivazione mista come il di­lemma del prigioniero) in problemi di coordinazione. In assenza di punizione e norme, un attore individuale pen­sa soprattutto a come potrebbe ottenere del cibo (e forse anche a come potrebbero ottenerlo altri). Ma, in presenza di punizione e norme, è costretto anche a pensare a come si aspettano e desiderano che lui condivida l’eventuale cibo coloro che potrebbero punirlo o fare «gossip» di qualche genere; perciò, di fatto, se vuole evitare la punizione do­vrà coordinarsi con le loro aspettative e i loro desideri. Norme sociali interiorizzate, con l ’accompagnamento di colpa e vergogna, garantiscono che la coordinazione con le aspettative del gruppo non debba comportare aperte pre­se di posizione.

Le norme forniscono quello scenario di fiducia in cui ruoli di agenti neutrali e attività cooperative condivise con fini congiunti e attenzione congiunta rendono possi­bili le istituzioni sociali. Ma le realtà create convenzio­nalmente, tipiche delle istituzioni sociali, hanno bisogno di un altro ingrediente ancora: un particolare tipo di im­maginazione e di comunicazione simbolica. Quella dell’o- rigine della comunicazione simbolica è una storia molto lunga.33 Possiamo dire che è dipesa essenzialmente da mo­di cooperativi di svolgere determinati compiti e ha avuto inizio con il ricorso al pointing nel contesto di attività di attenzione congiunta. A quel punto, però, sorse il bisogno di comunicare in merito a cose che non si trovavano nel qui e ora, e questo portò alla nascita dei gesti iconici (non ancora convenzionalizzati) in cui io mimo per te qualcosa in una specie di messa in scena. I gesti iconici sono inter-

33 Ho cercato di raccontarla nel mio recente libro Le origini della comunicazio­ne umana cit.

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pretabili «naturalmente» dagli esseri umani (cioè, da quan­ti hanno già compreso l’intenzione comunicativa di Grice, emersa in concomitanza con il pointing) che vedono subi­to le azioni altrui come intenzionalmente dirette a otte­nere un risultato.

Nei bambini ne abbiamo un primo assaggio nel gioco simbolico, il «fare finta di». Nonostante sia spesso consi­derato un’attività solitaria - questo potrebbe essere vero nei bambini più grandi -, le origini del gioco (almeno la rappresentazione a beneficio di altri) sono intrinsecamen­te sociali. I bambini prendono con un’altra persona il re­ciproco impegno a trattare questo bastone come se fosse un cavallo. E così facendo hanno creato una funzione di status. Tali funzioni di status, create socialmente sul pia­no dell’immaginazione, sono ontogeneticamente, e forse filogeneticamente, l ’elemento precursore dell’accordo col­lettivo in base al quale questo pezzo di carta è denaro, o quella persona è il presidente, con tutti i diritti e i doveri che questi accordi comportano.34 Un recente e importan­te studio ha dimostrato che queste funzioni di stato asse­gnate congiuntamente sono portatrici di una forza nor­mativa anche tra i bambini piccoli. In questo studio i bambini stabilivano con l’adulto che un determinato og­getto era un pezzo di pane da mangiare e un altro una sa­ponetta per lavarsi: la relazione tra gli oggetti reali e i loro scopi putativi era in entrambi i casi immaginaria. Quando un pupazzo confondeva gli status assegnati e tentava di addentare il sapone, i bambini si opponevano strenua­mente.35 Abbiamo convenuto che questo oggetto è il pane

34 H. Rakoczy e M. Tomasello, The Ontogeny of Social Ontology: Steps to Shared In- tentionality and Status Vunctions, in S. Tsohatzidis (a cura di), Intentional Acts and In- stitutionalFacts: Essayson John Searle’s Social Ontology, Springer Verlag, Berlino 2007.

35 E. Wyman, H. Rakoczy e M. Tomasello, Normativity and Context in Young Children’s Pretend Play, in «Cognitive Development», 24, 2009, pp. 46-55.

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e quest’altro è il sapone: ogni violazione di questa deci­sione deve essere corretta.

L ’accordo congiunto tra i bambini che un blocchetto di legno è una saponetta, dunque, rappresenta un primo pas­so verso la realtà istituzionale umana in cui si conferisce status deontico a oggetti e comportamenti attraverso una qualche forma di accordo e pratica collettivi. Questi ac­cordi congiunti si differenziano dalle tipiche norme sociali che regolano il comportamento sociale manifesto per il fatto che prendono piede da una realtà simbolica creata convenzionalmente - lo scenario immaginario o istituzio­nale - e in seguito assegnano collettivamente poteri deon- tici ai ruoli e alle entità corrispondenti all’interno di quel­lo scenario simbolico.

La mia «Ipotesi Silk per le scimmie, Skyrms per gli uma­ni» è che, per poter creare i modi di vivere di cui si è dotato, YHomo sapiens deve aver iniziato particolari atti­vità collaborative per le quali gli altri primati non sono semplicemente equipaggiati né sul piano emozionale né su quello cognitivo. Nello specifico, gli umani giunsero a im­pegnarsi in attività di collaborazione caratterizzate da un fine congiunto e ruoli distinti e generalizzati, in cui tutti i partecipanti erano consapevoli della loro dipendenza re­ciproca per ottenere il successo. Queste attività conten­gono i semi di giudizi normativi impersonali e generaliz­zati riguardo a diritti e responsabilità nonché a vari tipi di suddivisione del lavoro e assegnazioni di status come si osserva nelle istituzioni sociali. Sono anche la culla degli atti altruistici umani e di quelle forme di comunicazione cooperative esclusivamente umane. Gli esseri umani che uniscono le forze in attività cooperative condivise sono perciò i veri creatori della cultura umana. Non è dato sa­pere come e perché tutto questo sia emerso nell’evoluzio­

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ne, ma si può ipotizzare che nel contesto del procaccia­mento del cibo (sia nella caccia sia nella raccolta), gli uma­ni furono costretti a cooperare in un modo che agli altri primati non era stato richiesto.

E evidente che gli esseri umani non sono angeli della cooperazione: uniscono le forze anche per compiere gli atti più ignobili. Tali atti, però, di solito non sono diretti contro gli appartenenti «al gruppo». Anzi, recenti model­li evolutivi hanno confermato ciò che i politici hanno sem­pre saputo: il modo migliore per motivare le persone a col­laborare, e a ragionare come un gruppo, è identificare dei nemici e dichiarare che «loro» costituiscono una minaccia per «noi». La notevole capacità di cooperazione umana, perciò, sembra essersi evoluta soprattutto per interagire con il gruppo locale. Per ironia della sorte, questo orien­tamento verso il gruppo nella cooperazione è una delle maggiori cause di conflitto e sofferenza del mondo di oggi. La soluzione - più facile a dirsi che a farsi - sareb­be quella di trovare nuovi modi per definire il gruppo.

L ’incontro di biologia e cultura

Se la misura del successo evolutivo è data dalle dimen­sioni della popolazione, gli esseri umani iniziarono ad ave­re un certo successo solo in tempi molto recenti rispetto ad altre grandi scimmie. Per la precisione, il numero di es­seri umani iniziò a salire drasticamente solo diecimila anni fa, più o meno, con la comparsa dell’agricoltura e delle città. Questi due fattori portarono a tutta una serie di nuove organizzazioni cooperative, e altrettanto nuovi problemi, che a loro volta diedero vita a un’infinità di al­tre cose: dalla contabilità dei costi nei negozi ai sistemi le­gali per proteggere la proprietà privata, dalla classe socia­le come strumento per organizzare la divisione del lavoro ai rituali religiosi per promuovere la coesione del gruppo e via discorrendo fino ad arrivare alla nostra società indu­striale, con la sua complessità disorientante.

A detta di tutti, però, i mutamenti osservati nelle so­cietà umane in seguito all’avvento dell’agricoltura e delle città non sono dovuti a una qualche forma di adattamen­to biologico. Tali mutamenti sembrerebbero esclusiva- mente sociologici, considerata la loro origine recente e il fatto che a quell’epoca gli ormai moderni esseri umani si erano già diffusi in tutto il pianeta (perciò un mutamen­to biologico su scala di specie sarebbe stato assai impro­

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babile).1 Questo significa che la maggior parte - se non la totalità - delle intricatissime forme di cooperazione tipi­che delle società industriali moderne, dalle Nazioni Uni­te agli acquisti on-line tramite carta di credito, si fonda soprattutto su abilità e motivazioni cooperative che si sono evolute biologicamente a partire da interazioni al­l ’interno di piccoli gruppi: quel genere di attività altrui­stiche e collaborative che abbiamo visto qui, nei nostri semplici studi sulle grandi scimmie e gli infanti umani.

Ma già in questo genere di interazioni all’interno di pic­coli gruppi riusciamo a cogliere differenze fondamentali tra piccoli d’uomo e le scimmie. Fin da uno stadio molto precoce dell’ontogenesi, i bambini si dimostrano altruisti in modi sconosciuti agli scimpanzé e ad altre grandi scim­mie. Sebbene sia provato che gli scimpanzé talvolta aiu­tano gli altri per via comportamentale, non si dimostrano particolarmente generosi con il cibo (rispetto ai bambini e agli umani adulti), e non offrono spontaneamente infor­mazioni ad altri attraverso una comunicazione che possa in qualche modo assomigliare - in termini soprattutto di varietà - a quella umana. Anche in termini di collaborazio­ne, a partire da uno stadio molto precoce dell’ontogenesi,i bambini collaborano con gli altri in modi propri soltanto alla specie umana. Creano con gli altri fini congiunti ai qua­li entrambe le parti sono impegnate da un punto di vista normativo, stabiliscono con loro ambiti di attenzione con­giunta e un terreno concettuale comune, e creano realtà simboliche, istituzionali, che conferiscono poteri deontici a entità altrimenti inerti. I bambini sono motivati a im­pegnarsi in questo genere di attività collaborative per il piacere di farlo, non solo per il contributo che esse po­trebbero dare agli obiettivi dei singoli.

1 J. Diamond, Guns, Germs, and Steel: The Fates o f Human Societies, Norton, New York 1997 (trad. it. Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ulti­mi tredicimila anni, Einaudi, Torino 1998; nuova edizione accresciuta nel 2008).

MONDI POSSIBILI 9 1

E, a completare il quadro, per così dire, ci pensano le norme sociali. Nel corso dell’evoluzione, gli uomini creano- e, nel corso dell’ontogenesi, i bambini interiorizzano - standard di comportamento che determinano mutue aspet­tative. Tutti sono pronti a far rispettare tali standard an­che attraverso pene salate (sul piano altruistico). Per prime nacquero le norme di cooperazione, basate sull’interdi­pendenza tra partner collaborativi, nonché sulla recipro­cità e il rispetto verso gli altri in quanto esseri intenzionali «al pari del Sé». Poi fu il turno delle norme di conformità, fondate sul bisogno di appartenere al gruppo sociale e di identificarsi con esso - pena l’ostracismo - e di distin­guere il proprio gruppo dagli altri. Oggi i bambini rispet­tano e interiorizzano entrambe le tipologie (comprese molte altre norme che contengono al tempo stesso ele­menti cooperativi e di conformità) in virtù delle pressio­ni sociali esterne e delle interazioni cooperative governa­te da un’intenzionalità condivisa.

La normale ontogenesi umana, dunque, comporta neces­sariamente una dimensione culturale che invece altri pri­mati non hanno. I singoli esseri umani devono imparare in quale modo fanno le cose gli altri appartenenti alla loro cul­tura e, soprattutto, in quale modo questi altri si aspettano che loro le facciano. Uno scimpanzé può sviluppare abilità cognitive e sociali specie-specifiche in una vasta gamma di contesti sociali. Ma, in assenza della nicchia culturale uma­na, e delle abilità e motivazioni necessarie a farne parte, un bambino crescendo non potrebbe mai diventare una perso­na dotata di funzionalità normale. Gli esseri umani si sono biologicamente adattati a crescere e svilupparsi fino alla maturità all’interno di un contesto culturale. Grazie ai no­stri sforzi collaborativi, ci siamo costruiti i nostri mondi culturali e a essi ci adattiamo costantemente.