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IVO MONTEPAONE Dalla Rocca a Casa vecchia Ricordi d’infanzia

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IVO MONTEPAONE

Dalla Rocca a Casa vecchia

Ricordi d’infanzia

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Veduta di Montevitozzo del 1930

(fotografia in Eraldo Bernardoni, Monte Vitozzo, Roma, RnS, 1992)

Ivo Montepaone

Dalla Rocca a Casa vecchia

Ricordi d’infanzia

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NOTA Questo piccolo volume raccoglie le memorie d’infanzia che mio nonno Ivo scrisse per me quindici anni fa e che intitolò Dalla Rocca a Casa vecchia. Il testo qui riprodotto segue fedelmente il manoscritto originale in mio possesso, con la stessa impostazione e punteggiatura. Gli unici interventi di revisione da me effettuati sono le integrazioni di parole mancanti e la corretta grafia di certi vocaboli. In alcuni casi ho creduto opportuno inserire note esplicative di determinate espressioni o citazioni. Roma, 22 ottobre 2015

Andrea Montepaone

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Dalla Rocca a Casa vecchia

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INTRODUZIONE Regalo a mio nipote Andrea queste poche pagine ove ho cercato di descrivere con modesta pretesa una parte della mia infanzia vissuta più di mezzo secolo fa. L’iniziativa di rievocare quel tempo non è partita da me ma dietro insistente richiesta di Andrea stesso, il quale probabilmente avrà ascoltato qualche commento fatto tra me e qualche amico o parente, costruendo nella sua mente qualcosa di cui crescendo ha voluto la conferma. Anche se fu un’epoca ancora negativa perché la gente doveva lottare per cercare di liberarsi dell’ultimo schiavismo molto duro a morire, tuttavia ricordarlo può insegnare molte cose. Per esempio a capire che ciò che oggi abbiamo non è nato dal niente, ma forse qualche piccolo contributo di questo benessere è stato dato anche dall’operato della gente che non c’è più. Quella gente che allora muoveva i primi passi, piccoli passi da formica che trovavano enormi ostacoli da superare ma uno dopo l’altro guardando con tenacia in avanti sono stati fatti tanti chilometri, lasciando però dietro le spalle una delle cose più importanti, cioè la parte morale, il rispetto e la comprensione per il prossimo ma soprattutto verso la famiglia che va scomparendo inesorabilmente ogni giorno di più sotto i nostri occhi senza che la nuova società, neppure quella più sana, riesca a fare qualcosa per riportare la stessa moralità sulla strada giusta.

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Pasquale Montepaone (Guardavalle - CZ -, 26.10.1891 - Montevitozzo, 26.2.1929)

Assunta Mozzetti (Montevitozzo, 26.5.1894 - Pitigliano, 12.2.1966)

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Avrei dovuto chiamarmi Giovanni come mio nonno paterno, così si usava al paese natio di mio padre, invece egli preferì mettermi il nome Ivo come il figlio di un suo carissimo amico, così mi è stato raccontato. Nacqui negli anni Venti, precisamente nel 1926 in un angolo della Toscana, un piccolo borgo alle pendici del monte Amiata chiamato Montevitozzo, dove tranne qualche privilegiato tutta la gente viveva in condizioni di estrema povertà. Il motivo di tanta miseria era dovuto al fatto che fino a qualche anno addietro esistevano i padroni, nel vero senso della parola, padroni di tutti e di tutto, terreni, boschi, case, bestiame, tenendo la gente in piena schiavitù: i famosi latifondisti che esistevano qua e là in tutta l’Italia. Mio padre emigrato dalla Calabria conobbe mia madre a Roma. Ella era una degli otto figli della famiglia di mio nonno Antonio costretta come altre ragazze dell’epoca ad andare nelle città a servire le famiglie ricche o comunque benestanti, ora si chiamano collaboratrici domestiche, ma allora erano serve: tanto lavoro, poco mangiare e quasi niente soldi. Mio padre militare prestava servizio come attendente presso il capo della stessa famiglia in quanto egli era ufficiale di cavalleria. Tutto avvenne nel periodo della prima guerra mondiale, tra gli anni 1915 - 1918. A guerra finita decisero di sposarsi ma mio padre non volle sapere di ritornare in Calabria, anch’essa terra di fame e di miseria, sperando che in Toscana vi fosse un mondo migliore, ma non fu come lui immaginava. Per sentito dire fu un matrimonio da quei tempi; la benedizione del prete e poco più. Ci fu subito il problema di affittare una casa, ma come pagare la pigione? Una certa Nunziata, detta Pecoraia, non era ricca ma neppure poveretta non so perché la chiamavano Pecoraia, forse il padre faceva il pastore, comunque offrì lei una modesta casetta dove i miei genitori andarono ad abitare riuscendo a pagare una piccola somma mensile. Mio padre si chiamava Pasquale ma per i paesani era il calabrese; faceva di mestiere il muratore e fu accolto in malo modo dagli altri muratori del paese, in quanto pensarono, forse anche giustamente di

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dover dividere quel poco di lavoro che si trovava anche con lui, lo vedevano come un intruso e questo a molti non andava giù; spesso veniva schernito ed offeso dalle persone più ignoranti, finché una sera all’osteria, stanco di sopportare tale situazione, forse avevano tutti un po’ bevuto come si usa nei paesi, si ribellò energicamente ferendo non so come uno degli aggressori, il più anziano muratore del paese, un uomo ambizioso e prepotente, si chiamava ERNESTO, ma tanto era grosso e rozzo che i paesani lo chiamavano ERNESTONE. Alcuni uomini presenti al fatto, si prodigarono a nascondere mio padre per qualche giorno poiché ERNESTONE minacciava di sporgere denuncia ai carabinieri per la piccola ferita riportata. Intervenne proprio il figlio di ERNESTONE, CARLO, dando torto al padre dissuadendolo a non andare dai carabinieri. Carlo, anche lui muratore, era fatto di tutt’altra pasta del padre quindi non sopportava il suo modo di comportarsi. Quel gesto fu una bella lezione nei confronti dei muratori di MONTEVITOZZO: da quella sera nessuno più osò importunare PASQUALE, anzi la maggior parte di essi divennero suoi buoni amici. Tutto ciò mi è stato raccontato perché io non ero ancora nato. Prima di me nacquero le mie due sorelle ANNA e IDA, ma mio padre voleva il maschio tanto è vero che la nascita di IDA fu accolta con delusione: al mio arrivo invece ci fu festa grande, finalmente il maschio c’era e mio padre offrì da bere a tutti coloro che incontrava all’osteria da POLDO; anche questo mi è stato raccontato come mi è stato raccontato del primo lavoro intrapreso da mio padre per affrontare le spese di casa e muovere i primi passi per costituire la famiglia. Insieme ad altri del paese trovò un lavoro presso una miniera in località CORNACCHINO sul monte Amiata ma era talmente lontano che per arrivarci occorrevano circa tre ore di cammino attraverso la montagna per una paga da fame senza nessun altro diritto. Abbandonata la miniera trovava altri lavori nelle campagne presso contadini a costruire qualche capanna o a fare delle riparazioni alle case coloniche. La gente incominciava a conoscerlo e stimarlo come persona seria e cortese. Mi ricordo come un sogno di aver visto a casa nostra degli amici di mio padre, quando essi la domenica venivano alla messa a MONTEVITOZZO dalle campagne, si 6

incontravano da POLDO e spesso egli li invitava a casa forse a mangiare qualcosa, non saprei dire. Intanto la vita scorreva, anche se fra tante difficoltà di ogni genere.

Anna (Marianna), Ida e Ivo Montepaone

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POI AVVENNE LA TRAGEDIA Mia sorella Anna aveva 9 anni, Ida ne aveva 7 e io tre anni: una famiglia diciamo perfetta di cui mio padre era orgoglioso e fiero anche se altrettanto severo, ogni sera quando tornava a casa dovevamo farci trovare con i vestiti al posto, mani e viso puliti e capelli pettinati. Era il 26 febbraio dell’anno 1929: tornato dal lavoro egli prese una fetta di pane dalla madia per fare merenda e rivolto a mia madre le disse: «Assunta, mentre tu prepari la cena io vado ad accendere la luce» (per illuminare le case e le due lampade che erano per le strade). La corrente elettrica veniva accesa e spenta manualmente sera e mattina da una persona incaricata dalla società concessionaria per tutte le borgate della zona: in quel periodo mio padre svolgeva quel compito. Tale operazione avveniva azionando delle leve che si trovavano all’interno di una vecchia cabina certamente mal ridotta, senza nessun congegno di sicurezza. Lì avvenne la fine di mio padre: aveva 39 anni. La serata era piovosa: egli entrò in cabina con i vestiti e le scarpe umide e venne letteralmente folgorato dalla corrente elettrica. La notizia fece il giro del paese in pochi minuti; mi sembra, sempre come un sogno, di vedere la gente correre agitandosi, tutti chiedevano cosa era successo, ad un certo momento vidi mia nonna ROSA che sorretta da due persone veniva verso la nostra casa guardando mia madre ignara di ciò che era successo. Le disse piangendo: «Figlia, figlia mia come farai…». Malgrado avessi solo tre anni questa scena me la ricordo benissimo, ricordo inoltre la casa piena di gente che andava e veniva, a me dicevano: «TUO padre è caduto lavorando e si è rotto una gamba lo hanno portato all’ospedale a SORANO». A SORANO c’era il comune da cui dipendeva MONTEVITOZZO e una specie di ospedale; poi naturalmente seppi la verità.

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A CASA CON I NONNI Mia madre disperata per la perdita del marito con tre figli da mantenere dovette subito darsi da fare per trovare un lavoro, ma ciò per una donna era quasi impossibile. Nonostante la morte di mio padre avvenne per infortunio sul lavoro non ci fu una adeguata riconoscenza, fosse successo ora sarebbero intervenuti sindacati, assicurazione eccetera, ma allora l’essere umano non era più importante di una bestia. Comunque, non so chi si fosse interessato, qualcosa venne assegnato alla vedova e una piccola cifra pure ai figli, questi però non potevano disporre di quanto avevano avuto finché non avessero raggiunto la maggiore età, cioè ventuno anni, naturalmente svalutati dal tempo quei soldi diventarono nulla. Incalzata dalla necessità di guadagnare qualcosa mia madre si occupò come domestica presso una famiglia ricca, una fra le tante proprietarie di latifondi. Intanto la casa fu restituita alla proprietaria, la mobilia la presero un poco ciascuna le sorelle di mia madre già sposate, poiché a casa dei nonni non c’era posto dove metterla tranne la madia e quei pochi attrezzi che usava mio padre per lavorare: la zia SETTIMIA prese il letto, la zia AMABILE prese la credenza, il resto non ricordo, certo non era una casa attrezzata come lo sono ora. Così io e le mie sorelle fummo ospitati a casa dei nonni, ANTONIO e ROSA; insieme a loro risiedevano ancora la zia NOVILIA e lo zio EMILIO i più piccoli degli otto figli ancora non sposati, fratello e sorella di mia madre. Certo, considerate le deboli condizioni economiche, gli zii non furono tanto felici di accogliere in casa altre tre bocche da sfamare, ma la disgrazia caduta su di noi li costrinse ad accettare. Il nonno, sensibilissimo specie con me che ero il più piccolo, mi mise fin dalla prima sera seduto al tavolino accanto a lui in una panca di legno: quello fu sempre il mio posto fino a che non lasciai Montevitozzo e non permise mai a nessuno, parenti o amici che fossero, di occuparlo. Come riuscivamo a nutrirci ancora me lo chiedo, si era formata una famiglia numerosa: i nonni, due zii, più noi

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tre orfani, sette persone da mettere a tavola non era uno scherzo eppure miracolosamente si mangiava. Quei pochi soldi che guadagnava mia madre non bastavano nemmeno per comperarci i vestiti e le scarpe. Io mi sentivo al sicuro sotto la protezione del nonno: egli mi dava tutto l’affetto possibile, mi faceva dormire con lui nel suo letto, un lettone grande di legno con le tavole al posto della rete e un materasso fatto di foglie di granturco, insomma io lo consideravo come fosse stato lui mio padre., quando poteva mi costruiva qualche giocattolo di legno, che consisteva in una piccola vanga o zappa o qualche altro attrezzo agricolo. Lo seguivo ogni istante, ovunque egli si recasse. Era molto religioso e spesso mi portava con sé in chiesa, poi magari si lasciava andare e bestemmiava ripetutamente, come del resto questo brutto vizio in Toscana va ancora di gran moda, soprattutto tra la gente ignorante. Le cerimonie religiose più belle che io ricordo erano la notte di Natale, la messa di mezzanotte quando noi ragazzi credevamo che il Bambinello nasceva veramente sull’altare, tanto eravamo ingenui. La sera del Venerdì [Giovedì] santo1 era un altro avvenimento meraviglioso, il nonno era uno dei dodici apostoli, credo lo abbia fatto da sempre. Vedere DON TISTA inchinato a baciargli il piede [era] una cosa che mi estasiava, in quel momento vedevo mio nonno persona importante ignorando completamente il significato della cerimonia. Poi gli veniva offerta una pagnotta di pane benedetto che io volevo portare a casa personalmente con l’intenzione di dimostrare alla gente chi era mio nonno. Potrei ricordare mille episodi vissuti insieme a lui comunque qualcuno non posso fare a meno di descriverlo e contemporaneamente di riviverlo. La sera prima di addormentarmi mi faceva recitare tante preghiere e siccome allora il linguaggio religioso era tutto in latino si può immaginare cosa veniva fuori, il Paternostro [Padre nostro], l’Ave Maria, il Credo, la Salve Regina più tutte le preghiere sue personali, non conosciute nemmeno da DON TISTA.

1 Il rito della lavanda dei piedi fa parte della liturgia del Giovedì Santo, all’interno della Messa “in Coena Domini”.

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Ricordo la più bella che diceva così: “A LETTO A LETTO ME NE VO’, L’ANIMA MIA A DIO LA DÒ. LA DÒ A DIO E A S. GIOVANNI CHE IL NEMICO NON CI INGANNI. NÈ DI NOTTE NÉ DI DÌ FINO AL PUNTO DI MORI’, NÉ DI DÌ NÉ DI NOTTE FINO AL PUNTO DELLA MORTE, A LETTO ME NE ANDAI GESÙ CRISTO CI TROVAI MI DISSE CHE DORMISSI E PAURA NON AVESSI”. Questa secondo me era veramente la più bella, tant’è vero che ancora qualche volta la recito da solo prima di addormentarmi. Ad un certo punto delle tante preghiere io prendevo sonno e lui continuava a imbrodolare da solo finché non si addormentava pure lui. Nella camera da letto non avevamo la corrente elettrica, facevamo luce con la candela che dopo averla accesa con la fiamma del camino si portava lungo la scala fino nella stanza, facendo attenzione che non si smorzasse altrimenti per risparmiare i fiammiferi si doveva scendere di nuovo in cucina per riaccenderla alla fiamma del fuoco. L’unica lampadina si trovava in cucina, un cucinone dove si svolgeva l’andamento della famiglia, lì si mangiava, lì si riceveva chiunque veniva a trovarci, lì si cucinava, e al momento della macellazione si appendeva anche il maiale. Una piccola lampadina appesa alla trave con un filo coperta da un vecchio piatto di smalto per mandare la luce verso il basso. In pieno inverno quando il freddo era pungente si usava mettere il fuoco a letto per riscaldare le lenzuola prima di sdraiarci, vi era un telaio in legno costruito positivamente [appositamente?], lo chiamavano non so perché, «IL PRETE» il quale oggetto aveva il compito di tenere sollevate le coperte dal materasso con un piccolo piano dove si collocava un recipiente con dentro qualche carbone acceso, si teneva una mezz’ora dopodiché il letto era stiepidito così si poteva riscaldare un altro letto finché il carbone non era spento. Era un’operazione molto delicata la quale doveva essere fatta dalle donne molto pratiche, altrimenti c’era il pericolo di incendiare il letto, come in qualche famiglia meno accorta era capitato. La mattina il nonno era il primo ad alzarsi dal letto, d’estate forse era piacevole ma d’inverno la mattina tutto era gelato perfino l’acqua 12

dentro le brocche di rame formava un tocco di ghiaccio il quale si scioglieva solo dopo che il nonno aveva acceso il fuoco, poi appendeva un paiolo anch’esso di rame sotto il camino sorretto da una catena, per cuocere la polenta per la colazione, per companatico spesso c’era una aringa arrostita sulla brace oppure pochissimi fagioli o mezza salsiccia a persona. Le giornate più o meno trascorrevano nello stesso modo: lo zio EMILIO andava a lavorare dove trovava nei campi, sulla montagna a tagliare il bosco o altre attività sempre manovali a secondo delle stagioni, ma spesso il lavoro mancava. Mio nonno portava a pascolare le poche pecore che avevamo, mi sembra una decina non di più le quali ci davano un po’ di latte per fare qualche piccola caciotta, qualche agnello e un chilo di lana ognuna alla tosatura. Io volevo andare con lui ma ero talmente piccolo che nelle brutte giornate doveva lasciarmi a casa, ed io giù capricci. La nonna Rosa mi sopportava ma se era presente uno degli zii bastava uno sguardo per mettermi a tacere, poiché essi fin dal primo giorno in cui andammo a vivere con loro si dimostrarono molto severi imponendo su di me e le mie sorelle la massima soggezione. Sulla montagna tra i sassi e qualche zolla di terra i montevitozzesi [avevano] dei piccoli campicelli, ma il terreno era talmente magro che il grano veniva malissimo; se tutto andava bene poteva crescere fino a 60 - 70 centimetri con una spiga piccola e semivuota. Dopo aver lavorato la terra a colpi di ZAPPONE e seminato il grano, il campo doveva essere protetto con una siepe, altrimenti il bestiame lasciato incustodito poteva entrare e rovinare la semina, come si faceva questa protezione? Certamente non con la rete o col filo spinato: chi li aveva i soldi per comperarli? Allora, con enorme fatica, si andava nella macchia a tagliare gli spini, poi con una forca costruita appositamente venivano infilati, posta la forca sulla spalla si trasportavano anche per un chilometro e con questi si costruiva la siepe, siccome però, tutti andavano in cerca di queste piante spinose per lo stesso motivo che diventava difficile trovarle. Arrivato il momento della mietitura si doveva trasportare il grano tagliato in paese, cioè, vicino casa. Ove abitavamo c’era una piccola

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aia dove si radunava tutto il grano mietuto per poi batterlo. I covoni sono piccoli fasci di grano appena mietuto: essi venivano trasportati con l’asino quando era possibile ma se l’asino mancava non c’era altro modo che portarli sulle spalle; infatti ricordo che lo zio EMILIO, essendo abbastanza forte, riusciva a portarli sulle spalle anche una decina alla volta mentre io ne portavo due o tre al massimo, ma intanto la volontà di fare qualcosa di utile non mi mancava. Il periodo della mietitura e della battitura naturalmente si svolgeva d’estate, a me piaceva molto partecipare, la macchina trebbiatrice a MONTEVITOZZO ancora non si usava, prima cosa perché costava molto, poi anche perché non era facile averla. Quindi il grano veniva battuto con dei bastoni costruiti dagli stessi contadini, consistevano in due pezzi di legno collegati tra loro con un pezzo di fune chiamata briglia, il pezzo più grosso funzionava da manico mentre l’altro più sottile ma di un legno molto duro era la verga, la quale veniva battuta sul grano in modo che i chicchi schizzavano fuori dalla paglia, tale attrezzo si chiamava in dialetto CORREATO. Naturalmente il nonno me lo aveva costruito uno adatto alla mia età che io mostravo a tutti con orgoglio. Il bello però era la sera anzi, la notte, il nonno rimaneva a dormire nell’aia per custodire il grano battuto durante il giorno in attesa di qualche colpo di vento, pronto con una pala di legno a sollevarlo in aria all’altezza di un paio di metri in modo che la paglia essendo più leggera veniva spinta via dividendosi così dai chicchi del grano. Per me dormire all’aperto insieme al nonno era una gioia indescrivibile, egli costruiva una piccola capanna con dei pezzi di legno e come copertura usava la paglia stessa, lì dormivamo insieme, la paglia serviva da copertura e da materasso. I battitori più bravi del paese erano due, lo zio EMILIO e un suo amico con il quale faceva coppia fissa, si chiamava ANTONIO, conosciuto dai paesani come TONINO del PRETE perché era nipote di DON TISTA. Affinché la battitura avvenisse perfetta era necessario essere in due, prima stendevano il grano nell’aia con le spighe soprammesse per lo stesso verso lo lasciavano un paio di ore al sole in modo che si asciugasse bene, a quel punto entravano in azione i battitori, si ponevano uno di 14

fronte all’altro e cominciavano in sincronia, uno batteva l’altro sollevava la verga del correato, TUN-TUN-TUN-TUN un colpo ogni due o tre secondi, sembravano meccanizzati tanto erano precisi, erano talmente bravi che venivano anche ingaggiati da altri agricoltori naturalmente a pagamento.

Assunta Mozzetti con i figli (18 maggio 1932)

Il nonno Antonio Mozzetti La nonna Rosa Biscontri (1860 - 1942) († 1940)

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Fiera di merci e bestiame (20 agosto 1931)

(fotografia in Eraldo Bernardoni, Monte Vitozzo, Roma, RnS, 1992) 16

LA FIERA DEL BESTIAME Un altro giorno meraviglioso era la fiera: essa si svolgeva nei campi proprio di fronte alla nostra casa, tutti vendevano o comperavano qualche animale, mio nonno in genere comperava il maialino per allevarlo e farlo grasso, oppure vendeva qualche vecchia pecora o il vannino figlio della somara. Io mi divertivo un mondo a vedere gli uomini grandi contrattare accanitamente le cinque o le dieci lire che li divideva nel concludere l’affare, allora subentrava un terzo uomo che agguantava una mano di ogni venditore e compratore, le giungeva insieme, spaccava la differenza a metà e l’affare era fatto. Inoltre c’erano i banchi di chincaglieria: vendevano fischietti, coltellini a serramanico, cinghie di elastico, bretelle eccetera. Per quei tempi era certamente una giornata di divertimento, peccato che durava poche ore: alle tre di pomeriggio già era tutto finito.

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LA FESTA PRINCIPALE DI MONTEVITOZZO L’ultima domenica di agosto si celebra la festa del paese, dedicata alla Madonna: persone di buona volontà costituivano un comitato. Circa un mese prima della festa tale comitato aveva il compito di occuparsi della raccolta dei fondi per affrontare le spese dei festeggiamenti: egli [il comitato] andava casa per casa a raccogliere ciò che gli veniva offerto, tutti davano qualcosa, magari poco ma nessuno si asteneva a dare la propria offerta, chi dava qualche lira, chi un po’ di uova, chi offriva del grano oppure qualche piccola caciotta fatta con il latte delle proprie pecore, poi la merce raccolta veniva venduta e il ricavato serviva per pagare la banda musicale e qualche piccolo premio per la corsa delle biciclette o dei cavalli. Siccome MONTEVITOZZO è costituito oltre al centro dove si trova la chiesa, le botteghe, il DOPOLAVORO ecc. anche da altre piccole contrade sparse qua e là per le campagne, a SUD-OVEST vi sono: I MARCELLI, LE PORCARECCE, IL POGGIO, E LE CAPPANNELLE mentre a NORD-EST si trova: RONZINAMI, IL CERRETINO E LA CASELLA, quindi il comitato di raccolta aveva molto da fare per visitare tutte le famiglie, che allora erano veramente tante, perciò non era facile trovare degli uomini disponibili per tale operazione. La banda musicale veniva da Castell’azzara, un paese a quattro chilometri di distanza, oppure da SORANO dove si trova il comune, ma la gente preferiva i castell’azzaresi, diceva quest’ultimi erano più bravi. Quel giorno i primi ad arrivare in piazza eravamo noi bambini in attesa che arrivassero i musicanti; vedere una ventina di uomini in divisa con gli strumenti luccicanti ci lasciava tutti a bocca aperta, incantati a guardarli. Mentre la banda suonava girando per le poche vie del paese noi monelli tutti indistintamente la seguivamo passo passo facendo a gomitate per starle più vicino. Entusiasti per l’atmosfera festosa, tutti, grandi e piccoli, uomini e donne vestiti a festa pronti per partecipare alla processione cantando insieme al suono della banda per onorare la statua della MADONNA. La parte religiosa 18

della festa è rimasta tale e quale e tutt’oggi si ripete con le stesse modalità. All’ora di pranzo ogni famiglia invitava a mangiare un musicante o due a secondo delle possibilità, lo zio EMILIO portava sempre la stessa persona che io guardavo insistentemente con grande interesse: lo vedevo un essere superiore. Suonava uno strumento a forma di biscotto, mi sembra che si chiamasse corno o bombardino. Oltre alla banda veniva il gelataio, il cocomeraio e qualche banchetto con zucchero filato, noccioline e altre cianfrusaglie; il gelato più piccolo costava quattro soldi e il cocomero un soldo per una fetta molto piccola. Il cocomeraio lo ricordo meglio, lo chiamavano non so perché, il BOLLETTAIO: esso gridava a gran voce: «Un soldo alla fetta, con un soldo mangiate bevete e vi lavate la faccia!» Ma come al solito per me e per tanti altri bambini tranne un gelatino e una fetta di cocomero non c’era altro. Ricordo di avere assistito ad una corsa di biciclette, naturalmente i corridori erano tutti paesani che possedevano la bicicletta, partecipavano alla gara un po’ per gioco e un po’ se era possibile vincere qualche lira di premio. Il percorso era: MONTEVITOZZO, CASTELL’AZZARA e ritorno, in tutto una decina di chilometri, l’unica strada rotabile costruita recentemente, il fondo stradale era cosparso di pietre taglienti sembravano fatte apposta per squarciare ogni tipo di ruota. L’anno in cui avvenne questo fatto non lo ricordo, ricordo invece che era una giornata di sole caldo e un clima di attesa entusiasmante. L’organizzatore, certo AUSILIO BENZI, visto dalla gente persona più evoluta, forse da ragazzo avrà frequentato sì e no, la terza elementare come l’aveva frequentata lo zio EMILIO e qualche altro giovanotto, ma per quell’epoca era molto poiché la massima parte di uomini e donne erano analfabeti, ricordo i miei nonni se dovevano porre una firma facevano una croce. Comunque dicevo: l’organizzatore radunò i cosiddetti corridori per decidere come dividere la cifra preposta per i premi e finalmente la partenza fra due ali di folla agitata e incuriosita. I fratelli PIERO e GUIDO PERINI si portarono subito in testa, si sapeva che erano i più bravi anche perché avevano la bicicletta meglio

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degli altri; essi dominarono con spavalderia la gara fino a un centinaio di metri dal traguardo, la gente si preparava per applaudirli ma il destino volle che bucassero quasi contemporaneamente una ruota ciascuno della propria bicicletta, a quel punto cosa fare? Presero a correre a piedi spingendo con le braccia la bicicletta, ma furono raggiunti e sorpassati dagli altri corridori. Qui avvenne il bello di quell’indimenticabile e divertentissimo episodio, in quanto i fratelli PERINI volevano comunque il 1° e il 2° premio in quanto ribadivano di essere i più forti e se non avevano vinto non dipendeva dalla loro bravura ma la colpa era da attribuire alle pietre cosparse nel fondo stradale che avevano bucato le gomme delle loro biciclette, naturalmente gli altri non ci volevano stare: coloro che avevano tagliato il traguardo per primi pretendevano il riconoscimento della vittoria e quindi il denaro prestabilito. La discussione si faceva sempre più accesa: Ausilio, l’organizzatore, cercava di convincere i due fratelli riconoscendo la loro bravura nell’andare in bicicletta, ma i premi dovevano andare ai primi arrivati. Dalle parole cominciarono gli spintoni e gli insulti, i fratelli PERINI aggredirono l’organizzatore con l’intento di strappargli dalle mani quei pochi soldi che costituivano i premi, la rissa si faceva sempre più accesa finché intervennero gli altri corridori che da una parte difendevano Ausilio ma dall’altra lo minacciavano dicendogli che se avesse dato i soldi dei premi ai due fratelli sarebbe stato peggio per lui. A quel punto visto che le cose si mettevano nel peggiore dei modi qualcuno corse a chiamare DON TISTA l’unico che poteva sistemare le cose: egli si stava preparando per celebrare la messa di mezzogiorno, il quale uscì di corsa dalla chiesa già vestito di bianco sembrava DON CAMILLO tanto era grosso e con le sue lunghe braccia riuscì a dividerli e farli ragionare proclamando i due fratelli vincitori della corsa, dividendo il denaro dei premi fra tutti i corridori. Ebbene per noi monelli quella conclusione tragicomica ci fece divertire più di tutta la festa che si svolse durante la domenica. 20

LA MACELLAZIONE DEL MAIALE Un altro momento particolarmente felice era quando si ammazzava il maiale, unico sostentamento per tutta la durata di un anno. Mi ricordo, ci alzavamo la mattina avanti giorno, si accendeva subito un bel fuocone con la legna preparata già da diversi giorni e conservata per l’occasione, si riempivano diversi secchi di acqua pronti per appenderli uno ad uno al camino affinché l’acqua bollisse: essa serviva per pelare il maiale appena ucciso. Quando arrivava il norcino di nome Clemente, tutto doveva essere pronto per incominciare l’operazione in maniera selvaggia che non descrivo per non impressionare. Appena il maiale era morto si sdraiava sopra una tavola concava ricavata da un grosso tronco di quercia e con l’acqua bollente e dei coltelli bene affilati si rasava il pelo e si raschiava la pelle fino a renderla bianca, la cosiddetta cotenna. Io come al solito sempre in mezzo ai piedi, facevo quello che potevo, intanto si faceva l’ora della colazione, la nonna e la zia NOVILIA preparavano la polenta che veniva mangiata accompagnata dal fegato del maiale insieme al norcino e qualche amico che era venuto per aiutare, posso assicurare che era veramente buona peccato che come al solito le porzioni erano piccole per toglierci la fame ci sarebbe voluta una quantità almeno quattro volte tanta. Poi, come un grande artista, il norcino sezionava pezzo per pezzo: i prosciutti, le spalle, il capocollo, le ventresche, il guanciale, e il lardo, tutto questo veniva messo sotto sale per una decina di giorni poi tutto veniva condito, aglio e peperoncino poi appesi alla trave per conservarli più a lungo possibile, mentre le altre parti si cominciava a mangiarle dal giorno stesso, eppure, malgrado si consumasse sempre carne di maiale nessuno soffriva di colesterolo, tanto era il freddo e le fatiche.

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LA NOTTE DI NATALE Tutti gli anni sempre uguale, come ho già detto, prima delle feste natalizie si uccideva il maiale, quindi durante quel periodo, seppure in misura ridotta, tuttavia vi era a disposizione un po’ di companatico da mangiare soprattutto con la polenta, però la sera della vigilia di Natale era assolutamente vietato mangiare carne, c’era un proverbio al quale credevamo ciecamente specie noi più piccoli che diceva: “Chi guasta la vigiglia di Natale diventa mezzo lupo e mezzo cane2”. Per quella sera quindi si doveva mangiare di magro ma che cosa? A MONTEVITOZZO non conoscevamo nessun tipo di pesce al di fuori delle aringhe e del baccalà, ma non era facile comperarlo, per quella sera comunque qualcosa si rimediava, ricordo per esempio degli spaghetti conditi con la ricotta o con le noci tritate, appresso quasi sempre il crostino con il cavolfiore e se ci scappava appunto, qualche pezzetto di baccalà. Dopo cena in attesa della mezzanotte ci radunavamo presso qualche famiglia per giocare a tombola non con i soldi ma con i bottoni, pressappoco così: due bottoni la quaterna, quattro la cinquina e il resto andava per la tombola. Coloro che disponevano di qualche soldo andavano a giocare da POLDO all’osteria, i più piccoli giocavano le caramelle e gli uomini qualche mezzo litro di vino. Fra gioco, racconti e barzellette si arrivava allegramente a mezzanotte per assistere con devozione alla nascita del Bambinello. Prima di cena tutti in fila da DON TISTA a confessarci per essere pronti a fare la comunione. Come ho già scritto, per noi ragazzi la nascita del Bambino era fisicamente vera, a mezzanotte il prete suonava il campanello, noi tutti in ginocchio in preghiera e quando alzavamo la testa DON TISTA aveva già deposto il Bambinello nella paglia e noi stupiti per il miracolo cantavamo, “Tu scendi dalle stelle”.

2 Antico proverbio toscano, conosciuto anche con lievi varianti. 22

Il mio amico DELFO, il più simpatico di tutti, pur avendo fatto la confessione, se perdeva a tombola diceva delle grosse bestemmie, al nostro richiamo si giustificava dicendo: «Le dico così perché perdo, ma mica sono vere» e tranquillamente a mezzanotte era il primo a fare la comunione. Per il pranzo di Natale normalmente mia nonna cucinava una gallina o se poteva comperava una libbra di carne di pecora (una libbra corrispondeva a tre etti, non so perché usavano pesare a libbre) ma se non c’era altro si ricorreva alla carne di maiale macellato da pochi giorni. La notte di capodanno non ricordo di averla mai festeggiata, tranne la sera del 31 dicembre che veniva celebrata la funzione del ringraziamento: tutti accorrevamo, la terza volta che suonava la campana per ringraziare il Signore e chiedergli di perdonarci ciò che di male avevamo fatto durante l’anno trascorso promettendo con sincerità di essere più buoni in avvenire. DON TISTA cantava, e noi insieme a lui cantavamo così: «Bestemmiare non più, rubare non più, dire le bugie non più» infine «BALLARE NON PIÙ, BALLANDO CALPESTI IL CUOR DI GESÙ3», perché allora il ballo era considerato un peccato, poi altri canti sempre con delle belle promesse che naturalmente il giorno dopo avevamo già dimenticato.

3 Citazione a memoria di un canto tradizionale il cui testo proviene dalla tradizione missionaria redentorista itinerante ed è passato alla pratica cristiana. In particolare le strofe originali a cui si fa riferimento nel testo sono le seguenti: “Bestemmie non più: / son tanti coltelli / al cuor di Gesù: / bestemmie non più. // I furti non più: / per poco guadagno / non vender Gesù: / i furti non più. // Spergiuri non più: / ché troppo feriscon / l’onor di Gesù: / spergiuri non più. // I balli non più: / calpesti ballando / l’amabil Gesù: / i balli non più”. (Fonte: www.santalfonsoedintorni.it/audio/TradRedent/Testi/06-PeccatiNonPiu)

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Don Tista (Giovan Battista Picconi), parroco dal 1902 al 1952

(fotografia in Eraldo Bernardoni, Monte Vitozzo, Roma, RnS, 1992) 24

LA NOTTE DELLA BEFANA La festa veramente particolare era la notte della Befana cioè la notte tra il 5 e il 6 gennaio. Un’antica tradizione locale che ancora esiste coinvolgente anche qualche altro paese dei dintorni ma a MONTEVITOZZO, era ed è sentita in modo particolare, forse ora un po’ più modernizzata ma il significato è lo stesso. Come si svolge? Ecco: già se ne parla da prima del Natale, ci si incontra tra amici, si fissano degli itinerari da percorrere, di come ci si deve mascherare ecc. Poi si costituiscono dei gruppi aperti a tutti ma principalmente ragazzi, comunque ognuno cerca di aggregarsi a persone più o meno della sua età. Io naturalmente parlo dei miei tempi: tutti i componenti di ogni gruppo usavamo mascherarci come meglio potevamo perché ci rendessimo irriconoscibili, ora ci sono le maschere che si comperano a pochi soldi e imitano diversi personaggi a piacimento di chi le usa, ma allora ognuno, cercava tutti gli stracci che poteva racimolare in casa o tra amici e parenti; vecchi vestiti, scarpe rotte, cappelli deformati ecc. Il viso si tingeva con il carbone del camino o con il fondo esterno della padella. Tutto ciò avveniva tra tante allegre risate, anche perché ci riconoscevamo tra noi soltanto dalla voce. Ogni gruppo si chiamava LA BEFANA quindi se si creavano ad esempio 10 gruppi erano 10 befane. Si iniziava a visitare le prime case nei dintorni del paese bussando uscio per uscio, senza trascurarne nemmeno una, ciò avveniva con il buio della prima sera. Uno dei componenti del gruppo bussava alla porta, dall’interno una voce rispondeva: «Chi è?» Da fuori: «È la Befana che ha tanto freddo e tanta fame, BRUUUU! Permettete che faccio cantare i miei figliarelli?». Se dall’interno la voce diceva: «Falli cantare» allora tutti in coro [si cantava] questa specie di canzone: “BUONA SERA A TUTTI QUANTI, QUESTA SERA È BEFANÌA E COL NOME DI MARIA VI VENIAMO A SALUTAR. SE L’ARROSTO CI DARETE NOI DA QUI PARTIAM CANTANDO, PER LA STRADA ANDIAM DICENDO: «BRAVA GENTE CHE CI STA.»

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STATE SU RAGAZZE BELLE E PORGETECI L’ARROSTO, CON UNA MANO LA SALSICCIA E CON L’ALTRA UN BEL BISCOTTO, MA SE NIENTE NON CI DATE NOI DA QUI PARTIAN PIANGENDO, PER LA STRADA ANDIAM DICENDO: «CHE GENTACCIA CHE CI STA4»”. A questo punto la porta si spalancava e la befana entrava al completo, le donne offrivano dei doni che consistevano in una salsiccia, un uovo o una fetta di carne di maiale che noi ponevamo gelosamente nel paniere; qualcuno della famiglia cercava di indovinare chi ci fosse sotto alla maschera, qualche volta ci riusciva e qualche volta no, tutto si svolgeva in allegria, poi la befana ripartiva per recarsi presso un’altra famiglia. Naturalmente non era possibile alle stesse famiglie far cantare tutte le befane che bussavano alla loro porta perché non tutte potevano accontentarle con le offerte; se non volevano farle cantare rispondevano no oppure dall’interno delle case non rispondevano affatto. Quando, girando da un posto all’altro sentivamo nelle vicinanze gli schiamazzi di un’altra befana composta da giovanotti più grandi di noi, ci nascondevamo silenziosi nel buio finché essa non si era allontanata, perché se ci fossimo trovati faccia a faccia c’era il pericolo di essere derubati di tutto ciò che avevamo nel paniere tanto nessuno li avrebbe riconosciuti, poiché oltre ad essere mascherati vi era un buio completo. A notte inoltrata, dopo aver visitato tutte le case anche quelle di campagna, ci dividevamo in parte più o meno uguale ciò che avevamo raccolto, ma non sempre andava tutto liscio, c’era sempre qualcuno più furbo che pretendeva la parte più grossa e allora avvenivano delle piccole discussioni, mentre le befane composte dai grandi, ragazzi o addirittura uomini si riunivano presso una famiglia, cucinavano e in allegria mangiavano quello che avevano raccolto, completando così la festa della Befana.

4 Citazione a memoria di una filastrocca tradizionale in uso nei dintorni di Sorano. In questa versione compaiono anche alcuni riferimenti ad un altro testo della zona di Latera (Viterbo). 26

Tra l’altro voglio dirvi che quella notte era ed è il mio compleanno poiché io sono nato proprio la notte della Befana, forse era dopo mezzanotte poiché sono stato registrato il 6 gennaio. Le mie sorelle più grandi di me, mi hanno raccontato, e quando capita l’occasione me lo raccontano ancora, quanta gioia e quale sorpresa fu per loro la mattina della Befana, quando le altre bambine del paesino più o meno della loro età mostravano la bambolina di pezza o di segatura che avevano trovato nella calza, esse invece si vantavano di aver avuto dalla Befana il regalo più bello di tutte, cioè un bambolotto vero, facendolo scendere dalla cappa del camino fino al letto della mamma: il bambolotto vero ero io.

Tradizioni popolari: la befana

(fotografia in Eraldo Bernardoni, Monte Vitozzo, Roma, RnS, 1992)

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IL CARNEVALE Dopo la Befana arrivava il carnevale come del resto lo è ancora, e come accade in quasi tutte le parti anche a MONTEVITOZZO si usava fare delle bellissime feste da ballo, si ballava tre volte a settimana, il giovedì sera, il sabato sera e la domenica pomeriggio. I suonatori più ambiti erano: ROSATO che suonava l’organetto a bottoni e lo zio EMILIO che lo accompagnava con la chitarra, entrambi suonavano ad orecchio in quanto nessuno dei due conosceva la musica, erano però talmente ben preparati che difficilmente andavano fuori tempo. Si sistemavano sopra un tavolo seduti su due sedie e quello era il palco della musica. Ricordo, quando ero molto piccolo, di aver assistito alle feste che si svolgevano dentro un vecchio magazzino messo a disposizione da un signorotto del paese, certo ANTONIO ERCOLANI, un ex ricco oramai in decadenza ma a confronto agli altri era ancora un signore. ERCOLANI era l’unico che possedeva più di un caseggiato ereditato dai suo avi che furono in parte proprietari di tutte le campagne circostanti il paesino e fino gli anni Trenta vantavano ancora diritti sui raccolti degli agricoltori, tali diritti terminarono dopo tanti anni di lotte, manifestazioni e cause, comunque tutto finì con l’intervento del fascismo. Poi venne costruita la Casa del Fascio a spese del comune un bel locale che fungeva anche da dopolavoro dove oltre ad incontrarci quasi esclusivamente tra uomini per fare due chiacchiere e giocare a carte si faceva anche qualche conferenza politica, e naturalmente a carnevale si svolgevano delle feste da ballo molto più eleganti e comode, insomma un vero circolo ricreativo, che per quell’epoca era una grande opera di cui i fascisti erano molto orgogliosi. Tornando ai balli di carnevale, ricordo che soprattutto andava il ballo liscio, il valzer, la polca, la mazurka interrotti ogni tanto dal tango che non tutti sapevano ballare. La quadriglia era un ballo tutto particolare per il quale i suonatori sempre appollaiati sopra un tavolo si impegnavano da veri professionisti in quanto andare a tempo era molto difficile. 28

Cercherò di spiegare come si articolava questo ballo, la quadriglia, non so perché la chiamassero così: c’era il capo ballo cioè colui che impartiva i comandi a seconda delle posizioni che dovevano assumere le coppie; faccio un esempio: le coppie sfilavano in fila indiana, a tempo di musica, se il capo quadriglia ordinava: «SCENDI DAMA», la dama si fermava un istante e veniva presa sottobraccio dal cavaliere che la seguiva il quale aveva lasciato la propria dama all’altro cavaliere, e così succedeva se il capo quadriglia ordinava: «SCENDI DAMA», questo scalare di dame e cavalieri durava finché ogni coppia tornava a riformarsi come era all’inizio del ballo; poi altre scene divertentissime che a descriverle ci vorrebbe troppo tempo. Premetto che per ballare la quadriglia occorrevano almeno una decina di coppie, appunto la donna era la dama e l’uomo il cavaliere. Questo ballo veniva eseguito solo tra ragazze e giovanotti, noi ragazzini ci intrufolavamo solo se i balli erano facili. C’era però la nota dolorosa, ad un certo punto il direttore del ballo diceva: «ROND!». Ciò significava che il ballo si doveva interrompere, i suonatori si zittivano, i ballerini formavano con le dame, mano nella mano, un cerchio, a questo punto il barista si portava al centro con un vassoio contenente cavallucci, caramelle e qualche confettino ripieno di rosolio che il cavaliere doveva offrire alla propria dama sperando che essa fosse prudente e che si contentasse di una consumazione modesta, naturalmente ciò avveniva diverse volte durante la serata. Ogni uomo studiava mentalmente il momento in cui ci fosse meno possibilità di incappare in quel maledetto ROND, ma purtroppo ciò capitava a sorpresa, in una serata che si prolungava fino dopo mezzanotte poteva capitare 5 o 6 volte. Anche io come altri ragazzi quando ci infilavamo in mezzo alla mischia cercando di ballicchiare con bambine della nostra età avevamo l’incubo del buffet, cioè del ROND che nessuno poteva permettersi di offrire nulla alle nostre damigelle. Proprio a me, ricordo questo particolare, convinto che tutto andasse liscio, invitai a ballare CAMILLA, una ragazzina di due anni più grande di me, ma ricordo che era piuttosto bruttina, perlomeno per il mio gusto. Improvvisamente eccoti il ROND, cosa potevo offrire a CAMILLA che non avevo un soldo? Senza pensarci due volte lasciai

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CAMILLA in mezzo alla sala, scappai dal locale e via di corsa a casa. Tengo a puntualizzare che pur essendo feste da ballo molto modeste, tutti ci divertivamo, anche le persone anziane che non partecipavano al ballo, gli uomini si accontentavano di bere un bicchiere di vino mentre le madri che accompagnavano le proprie ragazze si divertivano a chiacchierare fra di loro, in un clima famigliare, cortese e allegro. 30

IL PARTITO FASCISTA

La costruzione del dopolavoro a cui ho già accennato fu il secondo avvenimento dopo la strada carrozzabile: il regime era fiero di avere effettuato queste opere, e io aggiungo che aveva ragione di esserlo. Anche noi ragazzi eravamo entusiasti di appartenere ad una categoria di fascisti in erba: a seconda dell’età avevamo una denominazione! La scala gerarchica era così composta: i piccolissimi si chiamavano FIGLI DELLA LUPA, poi venivano gli avanguardisti, anzi prima degli avanguardisti vi erano i balilla che andavano dai cinque o sei anni fino ai dieci circa, seguivano i giovani fascisti e alla maggiore età diventavano fascisti a tutti gli effetti; io quando lasciai Montevitozzo appartenevo agli avanguardisti. Non ricordo da parte di chi mi era stata regalata una divisa grigioverde, forse scartata da uno più grande di me, più lunga e più larga almeno di un paio di misure, i pantaloni e le maniche della giacca le rovesciavo di una decina di centimetri, eppure quando la indossavo in occasione di qualche raduno organizzato dal partito, mi mettevo in evidenza perché secondo me mi sentivo importante e mi vedevo bello. Anche lo zio EMILIO con cui vivevo, e lo zio OTTAVIO che poi diventò marito alla zia NOVIGLIA erano fascisti convinti: per le feste nazionali come il ventotto di ottobre giorno in cui ricorreva l’anniversario del partito al potere: «COSÌ DETTA LA MARCIA SU ROMA», il quattro novembre anniversario della vittoria nella prima guerra mondiale e altre ricorrenze non religiose, erano obbligati tutti gli iscritti ad indossare la camicia nera, cosa che tutti facevano volentieri, tranne quelli che politicamente la pensavano in modo diverso, ma ad essi era tassativamente vietato esprimere le proprie idee. Nei paesi più importanti come PITIGLIANO dove vi era la PRETURA, il comando dei carabinieri e altri uffici pubblici importanti, chi dimostrava apertamente di essere contrario al regime veniva perseguitato, additato come sovversivo, allontanato dal lavoro, picchiato e certe volte anche arrestato.

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Voglio in proposito sottolineare la mia considerazione riferendomi al modo di fare di alcuni CAPETTI sciocchi e ambiziosi, i quali a seconda delle circostanze si comportavano come veri aguzzini, cose che malgrado la mia età giovanissima, dentro di me detestavo. Ma ritorniamo agli avvenimenti buffi e divertenti: PIETRO CARBONARI era il segretario politico del partito a MONTEVITOZZO, carica che aveva ricevuto dai dirigenti della sezione di SORANO, aveva il compito di attaccare i manifesti e leggere in pubblico tutte le circolari politiche più importanti anch’esse inviate da SORANO. Spesso la domenica PIETRO saliva su una sedia in mezzo alla piazza di fronte all’osteria di POLDO con un foglio in mano scritto a macchina con l’intenzione di leggere e far capire ai paesani ciò che c’era scritto, ma fra che non sapeva leggere in modo corretto, fra che quando parlava normalmente imbrodolava per natura, alla fine tutti gli battevano le mani ma nessuno aveva capito niente; l’unico che riusciva ad interpretare qualcosa era DON TISTA. Anche lo zio EMILIO era uno dei fascisti più evoluti, alcune volte anche a lui venivano assegnati dei compiti non solo di carattere politico. Aveva da ragazzo frequentato la terza elementare negli anni 1915 o giù di lì: chi riusciva allora a conseguire la licenza di terza si poteva classificare come persona istruita. A lui piaceva leggere molto: quando gli capitava si accontentava anche di qualche vecchio giornale; ogni tanto lo vedevo leggere anche dei libri ma non so chi glieli prestava, quindi scriveva correttamente l’italiano, infatti molta gente del paese quando doveva scrivere o leggere una comunicazione importante, si rivolgevano ad EMILIO (tutte le persone paesane si conoscevano benissimo, quindi bastava fare il nome o il soprannome per capire chi erano). Come ho già scritto, anche io facevo parte della gerarchia fascista, tutti noi ragazzi eravamo travolti dall’entusiasmo patriottico che a forza di inculcarcelo in testa dalle persone grandi e molto anche dalla scuola quasi nascevamo già fascisti. Il pomeriggio del sabato era dedicato al SABATO FASCISTA, quindi quasi tutti andavamo alla adunata, i giovani iscritti erano 32

obbligati mentre noi delle categorie minori eravamo volontari, ma tutti cercavamo di non mancare, era un onore partecipare e ubbidire a tutto ciò che l’istruttore in camicia nera ordinava. Molto entusiasmanti erano le corse a piedi i più bravi venivano scelti e come in tutte le gare partecipavano alla competizione finale che nel nostro caso si svolgeva nell’ambito del territorio comunale. Il più bravo di MONTEVITOZZO si chiamava Sieno, un contadino che viveva in piena campagna partecipò alla finale ma non vinse la gara perché, mentre tutti correvano in costume (brutto o bello che fosse) lui non lo aveva quindi fu costretto a correre con i pantaloni e con gli scarponi di campagna, comunque fu elogiato ugualmente dalla gente che lo conosceva.

Montevitozzo, 1934: un’adunata fascista

(fotografia in Eraldo Bernardoni, Monte Vitozzo, Roma, RnS, 1992)

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SULLA MONTAGNA CON LE PECORE Sopra il paesino si trova la montagna, un insieme di monti ognuno aveva la sua cima e ognuno con il proprio nome, ne cito qualcuno: il monte Chiuso, il Roggiarello, la Vialta, il Petricciolo e la ROCCA che è il punto più alto ove si trovano due antichi ruderi ma senza importanza, la cui cima supera i mille metri di altitudine; tutti questi monti ed altri formano la montagna di MONTEVITOZZO, siamo alle pendici del Monte Amiata, località conosciuta da molta gente per i suoi campi di sci e per la villeggiatura estiva. La montagna che ho descritto appartiene alla popolazione del paese sottostante, per varie ragioni che io non sono in grado di spiegare, comunque si sa che anticamente faceva parte di un feudo. I montevitozzesi hanno il diritto di usare il pascolo, di tagliare la legna sotto il controllo della guardia forestale, inoltre come ho già accennato ai tempi della povertà diverse famiglie coltivavano a grano dei piccoli campicelli ricavati qua e là dove la terra sembrava migliore. Ebbene all’età di sette, otto anni già andavo con le pecore a pascolarle insieme ad altri ragazzi, più o meno della mia età proprio sulla montagna. Posso assicurare che ciò non ci comportava alcun sacrificio, ma era l’occasione per stare insieme agli altri pastorelli. Poiché era ed è un territorio indiviso tutte le bestie a chiunque appartenevano venivano lasciate libere, naturalmente sotto la nostra sorveglianza altrimenti si sarebbero disperse qua e là nei boschi della montagna. Tutti insieme ci divertivamo molto, facevamo tanti di quei giochi che ora farebbero ridere i nostri giovani tanto erano semplici. Proverò a raccontarne qualcuno, non so se riuscirò a spiegarmi. LA MAZZASTRILLA: si trasformava a colpi di coltello un pezzo di legno lungo una trentina di centimetri a forma di fuso, vedi figura

, si sdraiava per terra, si faceva la conta chi doveva battere per primo, con un bastone lungo circa un metro, si colpiva una delle due parti: il fuso balzava in aria girando su se stesso, in 34

quell’istante l’avversario lo colpiva a sua volta con un altro bastone cercando di scaraventarlo il più lontano possibile. Il primo battitore doveva correre a recuperare il fuso il più presto possibile, mentre l’avversario con la punta del suo bastone contava tanti punti quante volte riusciva a toccare per terra nei punti contrassegnati da due piccole buche; le mansioni si alternavano per un tempo prestabilito, alla fine chi aveva fatto più punti vinceva la partita. Il gioco della piastra era più impegnativo in quanto si giocavano i bottoni, alcuni cercavamo di rubicchiarli a casa, ma nei momenti più roventi del gioco chi rimaneva all’asciutto era capace a strapparli dai pantaloni o dalla camicia che si indossava ma il massimo un paio non di più, altrimenti che cosa avremmo detto a casa? Comunque la scusante era di averli perduti in mezzo alle sterpaglie. Il bravo era DELFO, quel simpaticone bugiardo di cui un po’ ho già parlato: se perdeva, cosa che gli capitava difficilmente comunque se gli succedeva era capace di strapparseli tutti quelli che aveva addosso; poi magari la mamma, un tipo come lui, lo pestava di botte ma egli non ne teneva conto, alla prima occasione ne combinava un’altra. In quanto a bugie era un vero attore, chi non lo conosceva le avrebbe scambiate per cose vere, ma lo conoscevano tutti. Tornando al gioco della piastra esso si svolgeva così: si cercavano delle pietre più schiacciate possibile, in montagna se ne trovavano di tutti i tipi; poi si disponevano i bottoni per terra, uno ciascuno a una distanza di sei - sette metri, poi ognuno lanciava la sua piastra, dopo aver fatto la conta per stabilire l’ordine di lancio. Per vincere, i bottoni dovevano essere completamente coperti dalla piastra, ciò era molto difficile, quindi il gioco si protraeva per delle ore. Qualcuno intanto accendeva il fuoco, qualche altro andava in cerca di frutta selvatica, poi ci scappava qualche dispetto, anzi di questi se ne facevano tanti, naturalmente chi ne subiva di più erano le femmine, tranne la ILDA, la quale era la più spigliata anche dei maschietti in tutti i sensi. Arrivata la sera, si radunavano tutte le pecore che si trovavano qua e là sulla montagna e si scendeva di nuovo tutti insieme verso il paese. Arrivati al punto in cui eravamo partiti la mattina incomprensibilmente ogni gregge si staccava dal branco perché capiva di essere arrivato.

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Ritornando a parlare di giochi e di dispetti, racconterò un episodio del quale ne parliamo ancora con l’unica zia novantenne che vive ancora a MONTEVITOZZO. Una sera scendevamo dalla montagna per rientrare a casa come accadeva sempre, non ricordo perché mi bisticciavo con EVA; ad un certo momento l’agguantai per i capelli, evidentemente le facevo male, ma più si ribellava e più io la perseguitavo. Il caso volle che in quel momento si trovasse a passare lo zio EMILIO il quale vedendomi accanito verso EVA (così si chiamava la ragazzina) si avvicinò per rimproverarmi dandomi un leggero calcio nel sedere, certamente non con cattiveria infatti non intesi alcun dolore, ma il dolore più grande fu l’umiliazione che provai di fronte agli altri ragazzi e soprattutto nei confronti di Eva. La mia reazione fu terribile: piantai tutti in asso, le pecore, la compagnia, lo zio EMILIO e scappai di corsa attraverso i campi come un fuoriuscito. Era all’imbrunire, dopo poco intesi suonare le campane (L’AVE MARIA) che ogni sera suonava per annunciare l’inizio della notte, infatti dopo poco si fece buio. Viste arrivare le pecore senza di me, i miei nonni subito allarmati chiesero perché io non ero insieme agli altri; intanto mio zio pentito tranquillizzò, o cercò di farlo, tutta la famiglia (compresa mia madre che fatalità era venuta proprio quella sera a trovare i nonni ma soprattutto a vedere me che ero suo figlio), assicurando loro che da un momento all’altro sarei tornato e prepararono la cena pronti per mangiare ma io non comparivo, naturalmente il più preoccupato era il nonno Antonio e anche mia madre che non vedendomi arrivare a tarda sera cominciarono a rimproverare lo zio EMILIO per quello che mi aveva fatto, ma egli giustamente si giustificava dicendo loro di non avermi fatto alcun male. Si portarono nel campo vicino casa e sparsi nel buio cominciarono a chiamarmi. Io dopo aver vagato qualche ora per la campagna senza allontanarmi da casa, appena si fece buio entrai dentro la stalla sotto casa dove dormiva la somara e mi gustavo incoscientemente le loro preoccupazioni. Intanto passò qualche ora, ed io cominciai a sentire freddo e per riscaldarmi mi infilai nel mucchio del fieno che era la cena della bestia; intanto loro continuavano a chiamare ripetutamente:

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«Ivo, Ivo, Ivo!» ma io, zitto e soddisfatto, continuavo con la mia vendetta: chissà cosa mi diceva la testa? Si era fatto un po’ tardi e mio zio si ricordò che non aveva ancora governato la somara e improvvisamente entrò nella stalla mormorando per quanto stava succedendo; abbracciò il fascio del fieno per darlo da mangiare a quella povera bestia e con sorpresa abbracciò anche me, gridando un po’ sconvolto: «Venite, venite l’ho trovato qui dentro la stalla!» certamente ci furono solenni rimproveri e intanto fui portato dentro casa, ricordo che mi misi a testa bassa e non volli cenare, andai a letto senza dire una parola. Nello stesso letto venne a dormire mia madre la quale con le buone maniere che può usare una madre, cercava di ragionare facendomi capire la grave mancanza che avevo fatto, ma io per tutta la notte la angosciai chiedendole di portarmi via con sé il giorno successivo che doveva ripartire, ciò naturalmente non era possibile in quanto ella prestava servizio come domestica presso una famiglia di ricchi che si trovava a PITIGLIANO, figuriamoci se mi avrebbero accettato in casa loro. Questo sconvolgente episodio non fu mai dimenticato dai nonni, dagli zii e da mia madre.

Ruderi della Roccaccia di Montevitozzo

(fotografia in Eraldo Bernardoni, Monte Vitozzo, Roma, RnS, 1992)

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GLI AMICI Oltre a DELFO naturalmente c’erano altri ragazzi con i quali ero più o meno amico, comunque a parte gli intimi ci conoscevamo tutti e quando capitava l’occasione si giocava insieme senza escludere nessuno. Ricominciamo da DELFO che era il capo banda in senso buono, egli era quello che determinava ogni decisione, se diceva di andare in campagna a rubare le uova nelle capanne dove c’erano i gallinai, ci si andava. Una volta rubammo non so quante uova; poi le vendemmo alla bottegaia, certa ADA, dicendole che ce le avevano regalate, dal ricavato a me toccò una lira, ma avevo le tasche bucate e così la lira me la persi. DELFO decideva di andare a prendere i granchi al fiume? Ci si andava. Una sera inventò di andare a rubare la frutta a suo fratello maggiore già sposato con famiglia il quale tra le altre cose coltivava un piccolo campo nella periferia del paesino ove c’erano delle piante di pere, mele, prugne ecc. Prima di andare all’attacco dovevamo essere sicuri che SANTE, così si chiamava il fratello, fosse occupato in altre cose, infatti di nascosto aspettammo che uscisse di casa e quando fummo certi che si era recato all’osteria a giocare a carte, come ladroni si partì alla raccolta della frutta ancora acerba, ma anche se non potemmo mangiarla il divertimento era l’avventura ed il piacere provato per aver frodato con la complicità di suo fratello DELFO quell’uomo piuttosto burbero, freddo e scostante nei confronti di noi ragazzi. MARCO era un ragazzo molto composto al contrario di tutti, egli si sentiva di essere inventore, studioso e anche un po’ scienziato. Parlava spesso di Guglielmo Marconi apprezzandolo molto per le sue invenzioni e pur essendo un ragazzo senza istruzione tuttavia portava i paragoni come secondo lui fu inventata la Radio e il telefono. Non avendo nulla di materiale, per dimostrare le sue capacità, frantumava delle pietre friabili, poi con grande pazienza raccoglieva rimettendoli ognuno al proprio posto fino alla ricomposizione della stessa pietra, per quanto si provasse nessuno di noi era capace di imitarlo. ALFIO: anch’egli sbarazzino disubbidiente nei confronti dei genitori, 38

spesso si vedeva la madre venirlo a cercare perché non era rientrato a casa all’ora stabilita, ella nascondeva sempre una piccola fune con la quale usava picchiarlo sul sedere o sulle gambe. La fune era zuppata nell’acqua e se lo avesse preso sarebbero stati veramente dolori, ma egli che conosceva la situazione quando scorgeva appunto la sua mamma, spariva di corsa come una lepre, era un divertimento vederlo! ROMUALDO lo avevamo soprannominato l’avvocato dei poveri perché parlava tanto, naturalmente discorsi senza alcun significato, egli però li riteneva importanti al punto che noi stessi chiedevamo a lui vari consigli, insomma aveva conquistato la nostra fiducia. Poi c’era Angelino molto calmo e accomodante però quando era nel branco si lasciava coinvolgere in qualunque circostanza. MONDINO aveva il vizio di fingere di piangere per ottenere ciò che gli passava per il capo, quando la madre lo mandava nei campi vicino al paese a guardare le pecore o il maiale, usava lamentarsi ad alta voce come se stesse male in modo che chiunque lo sentiva correva ad avvertire qualcuno di casa ma i familiari che lo conoscevano non gli davano nessuna importanza, tutto il male di MONDINO era la scusa per non stare solo nei campi. ALDERINO abitava qualche chilometro lontano dal centro di MONTEVITOZZO in località la CASELLA. Non so perché non lo avevo in simpatia tant’è vero che quando lo vedevo venire in paese mi nascondevo, lo prendevo a tradimento per farci a cazzotti. Siccome aveva qualche anno meno di me chi le prendeva era sempre lui. Poiché ciò si ripeteva frequentemente ALDERINO lo raccontò al padre, certo CAMILLO, uno degli uomini più buono di MONTEVITOZZO, forse era parente alla lontana di mio nonno, fatto sta che un bel giorno mi accorgo che ALDERINO si avvicinava verso il paese: senza perdere tempo mi nascosi per ripetere la solita solfa, mentre però mi presentai per affrontarlo, da un altro nascondiglio uscì improvvisamente CAMILLO, il quale con un modo molto garbato mi prese per le braccia e mi disse queste parole che non ho mai dimenticato: «SENTI, IVO: mi devi spiegare perché ce l’hai tanto con mio figlio. Se ti ha fatto qualcosa di male lo devi dire a me, devi sapere che io ero amico intimo del tuo povero babbo, ci volevamo bene come due fratelli,

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quindi anche tu devi diventare amico di mio figlio». Io a testa bassa e con il viso arrossato dalla vergogna feci segno di sì senza dire una parola: da quel giorno non litigai più con ALDERINO. Oltre questi che ho descritto vi erano altri ragazzi con i quali stavo bene insieme, ma forse meno intimi come ELIANO, MIGLIANO, SOLIMANDO, ALFIDEO e tanti altri. Ah, dimenticavo di OSVALDO: era un po’ arretrato di mente, accettava tutto ciò che gli ordinavamo di fare, in particolare le birichinate, specie sulla montagna quando i grandi non ci vedevano, con un po’ di cattiveria approfittavamo per fargli i dispetti più crudeli, ma lui ci rideva contento e felice. 40

UN EPISODIO INDIMENTICABILE Una sera d’inverno arrivarono a MONTEVITOZZO dei commedianti, una piccola compagnia non certo di attori qualificati e gli fu dato in prestito un vecchio magazzino per fare qualche spettacolo di poco conto, ma per noi era una grande novità. Per assistervi però si doveva pagare mezza lira, naturalmente come al solito nessun ragazzo si poteva permettere di pagare l’ingresso e nessuno però intendeva rinunciare a tale avvenimento. Fu dato a ROMOLO l’incarico di far pagare tutti coloro che volevano assistere, egli era un uomo molto ambizioso, avendo perciò ricevuto quel mandato il suo orgoglio saliva alle stelle. Noi ragazzi, non ricordo quanti eravamo presenti, ci presentammo alla vecchia porta sgangherata cercando e pregando ROMOLO di farci entrare gratuitamente, ma niente da fare: egli era irremovibile, o la mezza lira o niente spettacolo; stanco della nostra insistenza ci cacciò via in malo modo sbattendo violentemente la vecchia porta. Delusi e amareggiati per non poter assistere alla commedia, volevamo vendicarci nei confronti di ROMOLO a tutti i costi, uno di noi lanciò una pietra contro la porta del locale, ROMOLO si affacciò, ci maltrattò con parolacce minacciandoci di raccontare l’indomani tutto alle nostre rispettive famiglie. Nel frattempo sopraggiunsero altri ragazzi quindi il gruppo si ingrossò formando un bel numero diciamo di malandrini. Tra tante discussioni e proteste sempre per lo stesso argomento mettemmo in atto tutta la nostra cattiveria. Dalla strada per arrivare alla porta del teatrino si percorreva un piccolo corridoio largo circa un metro e cinque o sei metri di larghezza, non ricordo chi fu a proporre questa sciagurata idea, fatto sta che prendemmo da una catasta di legna un randello e lo sistemammo di traverso del corridoio in modo da creare un ostacolo che con il forte buio nessuno potesse vedere, poi lanciammo di nuovo una scarica di pietre contro quella maledetta porta con l’intenzione di

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esasperare ROMOLO: così successe! Ma nessuno pensò a ciò che poteva capitare; così alla scarica di pietre seguì la reazione violenta di ROMOLO; e si lanciò verso di noi forse con l’intenzione di acciuffarci ma inciampò nel randello saldamente fissato alle pareti del corridoio e cadde a faccia avanti strisciando con il viso e con le mani per un paio di metri. Fu una tragedia comica, ROMOLO gridava dicendo: «Aiuto, aiuto, mi hanno ammazzato!» La gente uscì dal locale, lo spettacolo fu interrotto, ROMOLO fu soccorso e medicato non so da chi poiché nessuno possedeva una cassetta di pronto soccorso, noi piccoli delinquenti sparimmo nel buio attraverso i campi, alcuni uomini organizzarono una specie di battuta che durò una mezz’ora con l’intento di scoprire qualcuno della banda, ma era talmente buio che ci rinunciarono rassegnati, noi li sentivamo parlare e qualcuno anche ridacchiare per l’accaduto a ROMOLO ma loro non ci vedevano. Dopo qualche ora di bivacco ognuno di noi rientrò preoccupato nella propria casa pensando a ciò che sarebbe successo il giorno dopo. La mattina successiva ne parlava tutto il paese, Romolo apparve in piazza con il naso e i gomiti impecettati minacciando chissà che cosa, denunce, querele, arresti, ma nello stesso tempo si vergognava della beffa che il suo orgoglio aveva subito, qualcuno solidarizzava con lui, molti invece si divertivano a prenderlo in giro, noi ragazzi per diversi giorni evitammo di girellare attorno al luogo dell’incidente, pronti, solidali, a negare qualora ci avessero incolpato di aver partecipato a quell’atto piuttosto vandalico. Dopo qualche giorno le minacce di Romolo si chetarono, egli si tenne le sue escoriazioni per un paio di settimane e così tutto finì. Noi della squadraccia per molto tempo alla vista di ROMOLO giravamo alla larga. 42

GLI ZII E LE VARIE VISITE Oltre alla zia NOVILIA e allo zio EMILIO che vivevano ancora in casa con i miei nonni, altre sorelle si erano sposate ed abitavano in altri piccoli paesi più o meno vicino a MONTEVITOZZO, dico vicino perché ora si viaggia in automobile ma quando si andava a piedi o con l’asino occorrevano ore ed ore di marcia. La più vicina si trovava la zia AMABILE, il piccolo centro si chiama ELMO, una frazione di poche case con una piccola dispensa ove si vendeva un po’ di tutto; il marito della ZIA si chiamava UGO, un uomo di bella presenza, sembrava un attore tanto era distinto e facile nel parlare, era cacciatore, per questo lo stimavo molto: quando lo vedevo con il fucile a spalla ne rimanevo estasiato, ricordo ancora il nome di un cane, si chiamava Alpino, diceva lo zio che egli era un campione nel seguire la lepre. Se potevo quando egli andava a caccia lo seguivo con piacere, poiché, pur essendo piccolo di sei o sette anni già ero appassionato, tanto è vero che da adulto ho avuto la licenza di caccia per una trentina di anni, i miei due fucili appesi al chiodo ne sono la testimonianza. Ricordo un giorno mi trovavo ospite a casa sua, per farmi contento sparò ad un branco di passeri, ma ne raccolse solo uno me lo regalò ed io andavo dicendo orgoglioso in dialetto toscano: «Il mi’ zio mi ha fatto una passera!» Questa frase un po’ divertente mi veniva spesso ripetuta da chi ne era a conoscenza. A parte la simpatia per lo zio UGO a casa sua non ci stavo tanto volentieri poiché non avevo nessuno con chi giocare, mia cugina MARISA era un tipo molto timido, non partecipava a nessun tipo di passatempo e così dopo qualche giorno volevo ritornare a MONTEVITOZZO. Molto volentieri stavo a casa della zia SETTIMIA, essa aveva sposato un uomo vedovo con due figli, ma in pochi anni, giusto il tempo di generarli, gli nacquero altri cinque. EMO e EDI erano i primi due, poi nacque: OTELLO, MARCELLO, ILIO, FERNANDA e, ultimo, FERNANDO, quindi una bella famiglia da tirare avanti. Lo zio PIETRO era il marito, grande lavoratore ma anche lui molto

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povero, io gli volevo particolarmente bene perché seppi che era stato il mio compare di battesimo. Ripeto lo zio PIETRO pur essendo un lavoratore modello non gli era semplice crescere sette figli poiché a CASTELLO (così si chiamava il borgo) come a MONTEVITOZZO la miseria trionfava in tutte le famiglie, il sostentamento principale erano le patate, bollite e mangiate. A Castello ci stavo bene proprio perché avevo tutti questi cugini con cui passare il tempo. Quando si andava a far visita agli ZII c’era sempre una ragione, spesso si trattava di un’ambasciata poiché non c’era altra possibilità di comunicare, per arrivare minimo occorrevano un paio d’ore di cammino, quindi specie in inverno era impossibile tornare indietro la sera stessa, quindi si usava pernottare senza bisogno dell’invito, così come dice il proverbio: “È arrivato un altro frate: brodo lungo e seguitate”; ciò vuol dire aggiungere un po’ di acqua alla minestra e si mangiava tutti. Come ho già detto la compagnia non mi mancava, il cugino preferito era OTELLO di un anno più grande di me, allegro e scanzonato come lo ero anch’io, dormivamo tutti in un grande lettone fatto di tavole con sopra il solito materasso riempito di foglie di granturco posto da una parte dentro il cucinone. Siccome era impossibile entrarci tutti in modo comodo ci sistemavamo metà con la testa daccapo e l’altra metà con la testa dappiedi al letto, si trattava sempre di cinque o sei ragazzi che nell’allungare i piedi spesso ce li trovavamo vicino al viso; lì cominciava il divertimento, un pizzicotto, uno spintone e una battuta spiritosa finché ci addormentavamo tranquillamente. Certe volte capitava di rimanere più di una giornata ebbene quando dovevo lasciare CASTELLO ne ero dispiaciuto. La zia AUSILIA risiedeva molto più distante in un paesino più o meno della grandezza di quelli già citati ma assai più carino, si chiama TORRE ALFINA penso che si chiami così perché nella parte alta del paese si trova un bellissimo castello con tre torri. Anche lei, come tutti gli altri, più o meno la sorte della gente paesana era la stessa ovunque si guardasse, quando anche per essa la vita non era gioia e dolori ma soltanto dolori. La ricordo una donna di piccola statura piuttosto rotondella [rotondetta] con una faccia bonaria e un 44

cuore generosissimo quando aveva occasione d’incontrare una sorella o un nipote gli occhi le brillavano dalla gioia, avrebbe regalato loro tutto ciò che aveva, ma non aveva niente. Il marito si chiamava AMATO e i tre figli erano OLGA, MARIA, e ancora OTELLO. OLGA era la più grande con la quale eravamo molto legati, poiché ogni tanto veniva accompagnata a MONTEVITOZZO a far visita ai nonni ove si fermava per qualche settimana. Ricordo di aver fatto una grande litigata con lei in quanto asseriva che TORRE ALFINA era più bello di MONTEVITOZZO mentre io naturalmente dicevo il contrario, poi la discussione si fece più accesa quando mi disse che le campane del suo paese suonavano meglio delle nostre, a quel punto persi la ragione, la acciuffai per i capelli e incominciai a tirarglieli con tutta la rabbia che lei stessa mi aveva provocato, mentre lei per difendersi cercava di graffiarmi; tutto questo avvenne in cucina davanti al caminetto forse eravamo rimasti in casa da soli. Come spesso avviene fra ragazzi, qualunque lite si dimentica immediatamente appena finita. Per arrivare a TORRE ALFINA era un viaggio molto impegnativo, si trattava di una giornata di cammino, per accorciare un po’ la distanza attraversavamo per la campagna ma il problema sorgeva quando incontravamo il bosco incrociato da molti sentieri battuti dagli animali, quale era quello giusto da percorrere per uscire dalla parte giusta? Poteva darsi di imboccare quello sbagliato in questo caso si sarebbe andati in un'altra direzione allungando ulteriormente la strada, naturalmente in questi viaggi eravamo sempre in compagnia di una persona grande. Ricordo una volta mentre si percorreva uno di questi boschi insieme alla zia SETTIMIA e a uno dei suoi figli, trovatisi in difficoltà non sapevamo quale viottolo prendere e decidemmo di affidarci alla scelta che avrebbe fatto la somara che era con noi poiché essa, avendo altre volte attraversato quel bosco potesse azzeccare quello giusto, ed infatti seguendo lei con grande batticuore ci trovammo all’uscita giusta. La somara come al solito era l’unico mezzo di locomozione che quasi tutte le famiglie possedevano, occorreva oltre che per cavalcare

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anche per il trasporto della legna e dei prodotti della campagna, chi non possedeva nemmeno questa bestia significava estrema povertà. La zia IRENE risiedeva anch’ella molto distante da MONTEVITOZZO occorrevano circa sei ore: quando capitava di doverle fare senza l’ausilio della somara era una fatica che solo la gente quasi selvaggia di allora poteva affrontare. Quelle rare volte che ci andavo venivo accompagnato dalla nonna ROSA. Ricordo una giornata molto fredda, tirava una forte tramontana mentre percorrevamo un rettilineo per ritornare a MONTEVITOZZO. Il vento tagliava la faccia, la nonna si accorse che ero in difficoltà per il grande freddo; ella si mise davanti a me, allargò i sottanoni neri lunghi fino alle caviglie facendomi camminare aderente alla sua schiena con il proposito di ripararmi da quel gelido vento. Sono ricordi commoventi che non si cancellano e che riaffiorano ogni qualvolta ripensi le premure che solo i nonni possono avere. La zia IRENE viveva in aperta campagna, non aveva né luce elettrica né acqua potabile, ma solo un pozzo per far bere il bestiame, faceva la contadina alle dipendenze di uno dei tanti proprietari terrieri ancora esistenti, non stava bene ma neppure troppo male. Tutto ciò che produceva doveva dividerlo a metà con il padrone, comunque almeno riusciva a mangiare con la sua famiglia. Il padrone aveva la villa a PITIGLIANO, ogni tanto veniva a fare i suoi controlli seduto su un calesse trainato da il suo cavallo, le visite più frequenti erano durante la trebbiatura per presenziare alla pesa del grano, non doveva sfuggire neppure un chicco di frumento specie a suo favore. Nei dintorni vi erano altre case coloniche appartenenti allo stesso padrone e fra gli stessi contadini si scambiavano la manodopera per mandare avanti la macchina trebbiatrice che passava da un’aia all’altra fino alla fine della stagione. Le donne titolari dell’aia (chiamiamole così) dovevano preparare la colazione, il pranzo e la cena per tutti gli operai che aiutavano, normalmente erano una ventina. Io non sopportavo vedere i contadini seduti a mangiare per terra con il piatto sul palmo della mano, con un solo bicchiere e veniva data una porzione di vino passandoselo uno con l’altro, mentre per il padrone e i suoi tirapiedi veniva imbandita 46

una bella tavola all’interno del casale. Sottolineo queste ultime righe per ricordare le mortificazioni e la distinzione che è sempre esistita fra chi lavora e chi sfrutta il lavoratore. Il marito della zia IRENE si chiamava PASQUALE, aveva un carattere meraviglioso, il classico buontempone, tutto prendeva in barzelletta, anche quando gli interessi gli andavano male sulla sua faccia c’era sempre il sorriso, qualche volta anche amaro però non lo faceva notare. I due cugini figli della zia IRENE e dello zio PASQUALE si chiamavano DORANDO e VANDA. DORANDO aveva un paio di anni meno di me, stavamo bene insieme, facevo fare a lui tutto ciò che volevo, naturalmente sempre per scherzare, comunque ci divertivamo senza avere né giocattoli né soldi da spendere come fanno i ragazzi di oggi. Lo zio LORENZO viveva a Roma dicevano i nonni e gli altri zii che egli era un uomo fortunato avendo trovato un buon lavoro in città, infatti era considerato lo zio signore, non lo vedevamo quasi mai tranne quei pochi giorni che veniva a trascorrere durante l’estate a MONTEVITOZZO insieme a sua moglie, la zia MARIA, essi non avevano figli. Quando ancora non esisteva la strada carrozzabile venivano da Roma in pullman fino Castell’azzara, lì si faceva trovare il nonno ad accoglierli, poi proseguivano per MONTEVITOZZO con il solito mezzo di trasporto cioè l’asino, gli uomini facevano il percorso a piedi, circa quattro chilometri, mentre la zia MARIA cavalcava la bestia ma non essendo abituata dovevano sorreggerla uno per parte altrimenti sarebbe caduta. Quando arrivavano gli zii da Roma era festa grande, portavano un piccolo regalo a tutti ma per noi era grandissimo. La nonna conservava qualche galletto da mangiare insieme a loro, poi si poteva comperare qualche libbra di carne di pecora che gli zii spontaneamente pagavano saldando inoltre qualche vecchio debito che i nonni avevano con il macellaio. Inoltre c’era da consumare qualche piccolo prosciutto anch’esso conservato dalla nonna per quando venivano gli zii da Roma. Io come al solito essendo senza padre, forse perché gli facevo pena,

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venivo coccolato in ogni occasione, infatti anche lo zio LORENZO aveva delle grandi attenzioni nei miei confronti. Durante quei pochi giorni che trascorreva a MONTEVITOZZO non mi [allontanavo] da lui e dalla zia MARIA mi sentivo orgoglioso di avere due zii per me molto importanti, di bella presenza e vestiti come signori, quando lo zio mi diceva: «Qualche volta ti porto a Roma con me così stiamo sempre insieme» in me sorgeva una speranza che ciò si avverasse allora mi stringevo con tutta la mia forza intorno a lui. Poi quando essi ripartivano tornava dentro me una grande tristezza e non solo dentro me ma in tutta la famiglia. La mattina della partenza il nonno si alzava molto presto, preparava la somara, le metteva la vecchia sella e via di nuovo a CASTELL’AZZARA a riprendere la corriera per tornare a Roma; l’unica consolazione erano quei pochi scudi che gli zii lasciavano ai nonni5. La zia NOVILIA era ancora signorina, viveva in casa con i miei nonni e lo zio EMILIO, aveva circa trent’anni quando venne chiesta in sposa da un certo Ottavio il quale abitava in un gruppetto di case ad un quarto d’ora di strada dal centro di MONTEVITOZZO, ricordo di aver sentito parenti o forse amici consigliare la zia NOVILIA di sposare OTTAVIO senza troppi ripensamenti essendo egli conosciuto come un bravo uomo lavoratore e un po’ anche benestante, poiché possedeva la casa, diversi campi e le pecore, vi assicuro che negli anni ’30 tutto ciò non era da buttar via. Io nipotino della casa entrai subito in simpatia al nuovo futuro zio, egli mi dimostrò tutto il suo affetto che poi è durato fino a che è campato al punto di giocare con me come se fossimo stati coetanei; ogni tanto mi regalava qualche soldino e quando io dicevo

5 Il termine “scudo” definiva alcuni tipi di moneta, sia d’oro che d’argento, in circolazione in Europa tra il XIII e il XIX secolo e così chiamata perché le prime riportavano in uno scudo lo stemma dell’autorità che le aveva emesse. In seguito, con l’introduzione del sistema decimale nella monetazione, il termine passò ad indicare in Italia la moneta da cinque lire in argento, rimasta in uso fino alla prima guerra mondiale. Probabilmente, nel contesto a cui fa riferimento l’episodio descritto, era ancora abitudine chiamare “scudo” tale moneta, o forse anche altre simili, sia pure impropriamente. 48

timidamente: «No, grazie», lui mi accarezzava dicendomi: «Sappi che i soldi non si rifiutano mai». Quando si sposò con la zia NOVILIA avevo sei o sette anni, la camera da letto la fecero da un falegname di CASTELL’AZZARA, lì vi erano diversi artigiani, fabbri, calzolai, sarti, falegnami ecc. al contrario di Montevitozzo dove c’era un solo calzolaio, che era quel tale ROSATO che suonava l’organetto accompagnato con la chitarra dallo zio EMILIO. Quando la camera da letto fu costruita sorse il problema di come trasportarla, indovinate come la portarono? Sopra la groppa della somara, certamente un pezzo alla volta poiché come ho già detto la strada maestra ancora non esisteva: con un congegno chiamato l’imbasto fissato sulla schiena dell’asina la camera arrivò a destinazione. Io sempre presente a tutte le peripezie, vedo ancora quell’armadio sulla schiena dell’asina incrociato con delle grosse corde, sembrava che cadesse da un momento all’altro. Per arrivare a casa dello sposo si doveva percorrere una strada accidentata in ripida salita e piena di fango: io comandavo la bestia tirandola per la cavezza mentre lo zio OTTAVIO la spingava dietro per aiutarla a superare quella salita infernale, provate ad immaginare quello scenario, sembra il racconto di una favola. Lo zio EMILIO era il più giovane degli otto figli: arrivato all’età giusta anche lui doveva prendere moglie anche perché nel frattempo la nonna ROSA si era ammalata quindi occorreva con urgenza una donna in casa (a proposito, dimenticavo di dire che i giovani maschi all’età di ventiquattro anni ancora scapoli dovevano pagare una tassa cosiddetta CELIBATO). Lo zio sposò una ragazza che abitava a PITIGLIANO, SETTILIA, ella gli fu fatta conoscere tramite mia madre, sempre preoccupata per il fratello il quale non si decideva a prendere moglie. Anche quel matrimonio fu festeggiato in maniera molto modesta, lo zio non si fece nemmeno il vestito nuovo, per mancanza di soldi e indossò un abito di colore blu che pur essendo usato, era molto bello, era il vestito che metteva solo per le feste importanti, cioè due o tre volte all’anno. La sposa nel conoscere MONTEVITOZZO rimase un po’ delusa perché PITIGLIANO a confronto era una cittadina con molti più conforti e diverse comodità, come negozi, uffici, farmacia, ecc. Gli sposi arrivarono nel pomeriggio

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in automobile, la strada era compiuta quindi fu un viaggio confortevole che fu anche l’unico viaggio di nozze. La cena venne consumata in cucina che fungeva anche da camera da pranzo tanto era grande dove si svolgeva l’andamento della famiglia giornalmente. Quindi gli ultimi anni della mia infanzia a MONTEVITOZZO li trascorsi con i nonni, lo zio EMILIO e sua moglie, la zia SETTILIA che grazie a Dio all’età di novantuno anni ancora vive.

La zia Settimia e lo zio Pietro con quattro dei figli. Da sinistra: Fernanda, Otello, Fernando e Marcello

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I cinque fratelli Magrini. Da sinistra: Fernando, Ilio, Marcello, Otello ed Emo (circa 1987)

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Lo zio Ottavio Lorenzo Mozzetti

Lo zio Emilio e la zia Settilia 52

LA COSTRUZIONE DELLA STRADA Non ricordo con precisione quando incominciarono i lavori per costruire il braccio di strada che da CASTELL’AZZARA collegava MONTEVITOZZO. Fu un avvenimento storico paragonabile per il paese alla partenza degli astronauti per andare sulla luna. Furono occupati tanti operai, lo zio EMILIO aveva il compito di organizzare le turnazioni in modo che tutti lavorassero lo stesso numero di giornate, i lavori si protrassero per lungo tempo, le ruspe non esistevano, quindi gli scavi si facevano con pala e piccone, per rimuovere la terra da un punto all’altro venivano usati dei carrelli che spinti dagli stessi operai camminavano su dei piccoli binari i quali venivano spostati a seconda della direzione desiderata. Noi ragazzi rimanevamo quasi scioccati nel vedere quell’insolito movimento di gente e di attrezzi inoltre ci fermavamo ad ascoltare i commenti dei paesani, fra tanto entusiasmo c’era sempre qualcuno che niente gli andava bene. I sassi per fare il fondo stradale venivano trasportati con i carri trainati dai buoi, dopo averli staccati dalla roccia della montagna oppure recuperati lungo il letto del fiume, poi uno ad uno gli operai li sistemavano per terra, dopodiché occorreva metterci sopra uno strato di breccia ricavata anch’essa da altre pietre stritolate a colpi di martello e così il manto stradale era fatto. Un rullo anch’esso trainato dai buoi percorreva avanti e indietro lungo la strada con il compito di spianare e comprimere quei maledetti pezzi di pietra taglienti come lame di coltelli. Uno dei miei coetanei, certo SOLIMANDO, senza che nessuno glielo comandasse si mise a spingere con le mani il rullo fatto di cemento per dimostrare la sua forza, si tolse la giacca e distratto la appoggiò sul rullo stesso, si accorse subito dell’errore ma non fece in tempo a riagguantarla che già era finita sotto tra il rullo e la breccia rimanendo completamente trinciata, non so come si fosse giustificato con i genitori, ma sicuramente qualche sberla se la beccò. Sentite questa: un operaio proveniente da CASTELL’AZZARA, battitore appunto della pietra, passava sette, otto ore o forse anche

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dieci al giorno seduto sopra un mucchio di sassi per ridurli in piccoli pezzi, io e il mio amico ELIANO eravamo curiosi e spesso guardavamo con interesse l’operato di ZENO (così egli si chiamava) che con estrema destrezza svolgeva il suo lavoro. Tra noi ragazzi e ZENO nacque una certa confidenza, era simpatico e accettava con piacere la continua presenza, ci raccontava barzellette e spesso ci faceva credere a delle cose impossibili come questa che ci incantò letteralmente per cui la voglio raccontare: «Ascoltatemi bene, ragazzi» ci disse ZENO «io ho un amico a SIENA» sentire parlare di SIENA già era un sogno, sapevamo che era una città importante ma irraggiungibile. «Questo mio amico», continuava ZENO «ha una fabbrica di confetti e cerca dei ragazzi volenterosi più o meno della vostra età per impiegarli nella sua fabbrica, il compito che vi verrà assegnato sarà il seguente: sarete forniti di un piccolo martello con il quale dovrete addrizzare tutti i confetti che eventualmente uscissero storti dalla macchina, naturalmente quelli che si dovessero rompere potrete mangiarli tranquillamente, poi vi verrà dato un triciclo con un piccolo cassonetto con il quale trasporterete gli stessi confetti in un altro locale dove verranno impacchettati e messi in vendita, avrete da mangiare, da dormire e sarete pagati». Una bella favola che noi con la nostra ingenuità restammo estasiati, tra tante discussioni e pareri decidemmo di comune accordo di non dire niente a nessuno fino al momento della partenza. Però per avere questo lavoro ZENO ci pose delle condizioni, cioè dovevamo portargli tutto ciò che potevamo rimediare, pane, vino, salsicce, uova, frutta ecc. insomma avrebbe accettato tutto, diceva sempre: «Più roba mi portate e prima partirete». ELIANO apparteneva a una famiglia benestante quindi con facilità poteva rubicchiare qualche bottiglia di vino, un pezzo di formaggio, pane ecc., ma io che non avevo niente mi arrangiavo a cercare qualche frutto dato che eravamo in estate, o al massimo un uovo. Ogni volta che andavamo a trovare ZENO le nostre richieste erano sempre le stesse: «Quando si parte?» chiedevamo con insistenza e lui rispondeva: «State tranquilli; ho già scritto al mio amico il quale non 54

tarderà a farsi sentire, però quello che voi mi portate è poca roba, specialmente tu» rivolgendosi a ELIANO «che hai tante cose datti da fare se vuoi partire presto». E così via da una settimana all’altra, finché ZENO scomparve così finirono le nostre speranze e giurammo di comune accordo di non raccontare mai a nessuno il sogno vissuto. Quando finalmente la strada fu terminata MONTEVITOZZO assunse altre dimensioni. Ricordo il giorno dell’inaugurazione: ci fu grande festa, tutti i ragazzi in piazza ognuno con la propria divisa a seconda della categoria cui apparteneva, BALILLA, AVANGUARDISTA, GIOVANE FASCISTA ecc., tutti in attesa delle autorità che percorrevano per la prima volta la nuova strada carrozzabile; ad un certo momento apparve dalla curva del pedagnolo (località vicinissima al paese) una balilla di colore azzurro fiammante, dopo qualche istante giunse in piazza e noi tutti in piedi facemmo il classico saluto fascista ed in coro gridammo: «Viva il DUCE, EIA, EIA, ALALA’», che io sinceramente tutt’ora non so cosa voglia dire, comunque dicevo a quel punto quasi tutta la popolazione scese nella piazza a battere le mani ma sicuramente i più orgogliosi erano, con ragione, gli attivisti del partito. Raccontare oggi quegli episodi specialmente ai giovani ci sentiremmo rispondere quasi con parole di commiserazione per quanto eravamo arretrati, ma posso dirvi di aver visto delle persone con le lacrime agli occhi dalla commozione per il grandioso avvenimento. Pensate: un paese fino a quel giorno raggiungibile solo a dorso di mulo aveva miracolosamente la strada maestra, anche se il mezzo principale di locomozione rimaneva per i paesani l’asina. Tuttavia dopo qualche tempo cominciarono a transitare le prime biciclette, i primi carretti trainati dai cavalli ed anche i primi commessi viaggiatori in motocicletta, la gente che doveva spostarsi si riuniva in gruppi di sei o sette persone, facevano venire il noleggiatore da CASTELL’AZZARA e insieme facevano il viaggio dividendosi le spese, insomma il paesino cominciò a muoversi facendo lunghi passi in tutti i sensi.

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LA MAREMMA

La prima volta che volli andare a lavorare in Maremma, contro la volontà di mia madre e dei miei nonni, avevo una decina di anni, la strada carrozzabile funzionava ormai regolarmente e insieme allo zio Pietro e altri conoscenti prendemmo una macchina a noleggio da un certo Chiappino di CASTELL’AZZARA il quale ci trasportò appunto in Maremma con il patto che avremmo pagato tutto al ritorno, cioè quando avevamo guadagnato e saremmo ritornati a casa, di ciò si fecero garanti gli uomini grandi. La Maremma era l’unica fonte di lavoro per la gente che abitava nei paesi di montagna, tanto lavoro e pochi soldi, questo era il motto dei padroni, comunque fosse era sempre meglio di niente. Già c’erano andati i nostri nonni e certamente anche i bisnonni, spesso gli anziani raccontavano dei soprusi subiti, delle ingiustizie e delle prepotenze da parte dei padroni che tramite i loro aguzzini imponevano agli operai. Il nonno ANTONIO raccontava: «Quando ero giovane andavo a piedi in Maremma, per arrivare occorreva una settimana di cammino, se lungo il viaggio venivano dei temporali, i torrenti facevano la piena, allora la situazione si faceva ancora più critica in quanto si rimaneva bloccati finché la pioggia finiva e la piena si ritirava, solo allora si poteva attraversare dall’altra parte per proseguire il viaggio. In quei casi dovevamo perfino passare la notte dove capitava, nelle grotte, nelle capanne e se non c’era altro sotto una pianta, mangiando qualche frutto o al massimo un po’ di pane secco. Siccome non avevamo nessun tipo di organizzazione ognuno andava per proprio conto senza sapere quale padrone ci avesse presi a lavorare, quindi giravamo da una azienda all’altra percorrendo tanti altri KM con un fagottino legato ad un bastone posto sulle spalle finché non trovavamo chi ci desse un po’ di lavoro». Figuriamoci quali erano le condizioni, quelle che il padrone riteneva opportune: alla fine della stagione lavorativa stabiliva lui la ricompensa da dare a ogni operaio. In genere il lavoro si articolava in due stagioni per ogni anno, la semina che iniziava ad ottobre e terminava prima di Natale, mentre la raccolta del fieno e poi del grano 56

comprendeva i mesi caldi, maggio, giugno e un po’ di luglio. A quei tempi la Maremma era veramente amara, sotto il livello del mare piena di acquitrini e quindi invasa da ogni tipo d’insetti e di malaria. Spesso capitava agli operai mal nutriti e senza nessun tipo di igiene d’essere colpiti da febbre di malaria, in tal caso scattava subito l’allontanamento senza neppure una visita medica venivano rispediti al loro paese, qualche volta succedeva che dopo aver contratto quella malattia non curata ci lasciavano la pelle, ma per i padroni era più prezioso un animale della propria fattoria che la vita di un povero. Queste erano le condizioni che perdurarono fino alla venuta del fascismo, cioè fino verso gli anni 1920. Poi incominciarono i lavori di bonifica, migliorando poco alla volta la vita sia per chi vi abitava stabilmente sia per chi andava per i lavori stagionali. Ritornando a me, quando, come ho già detto, volli andare a tutti i costi a fare la mia prima stagione in Maremma con l’illusione di guadagnare qualche soldo, già esisteva un’organizzazione. Il personale veniva prenotato in anticipo. Un incaricato da parte di qualsiasi azienda agricola della Maremma, interpellava chi era disposto ad andare per un periodo di tempo a lavorare nella propria fattoria, chi accettava aveva come pegno una caparra che consisteva in cinque o dieci lire a vantaggio per ambo le parti. Quindi non si andava allo sbaraglio come i nostri antenati ma in un luogo dove il lavoro era assicurato fermo restando però il sopruso del padrone di stabilire egli stesso tutte le condizioni sia economiche che lavorative che in genere andavano dall’alba al tramonto. I sindacati muovevano i primi passi, ma chiunque avesse pronunciato questa parola veniva cacciato e considerato un sovversivo. La prima esperienza che feci in Maremma avvenne alle dipendenze presso una tenuta agricola di nome MORSILIANA, era con me, oltre allo zio PIETRO, anche un paio dei suoi figli ma non ricordo bene chi fossero. Raccontavano gli anziani di MONTEVITOZZO che a MORSILIANA gli operai venivano trattati meno peggio di altre aziende agricole. Il lavoro si svolgeva COSÌ: gli uomini grandi mietevano il grano con la falce a mano, i ragazzi e le donne

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raccoglievano i covoni (per chi non lo sapesse i covoni sono dei fasci di grano appena tagliato i quali dovevano essere raccolti e riuniti in vari punti per essere trasportati nell’aia ove li aspettava la macchina trebbiatrice). L’alloggio che il principe offriva: un capannone per gli uomini e uno per le donne, per letto c’era la paglia cosparsa per terra e sopra si dormiva tutti insieme. Tutti pronti la mattina all’alba, un incaricato dava a ognuno di noi un bicchierino di acquavite, per noi era una buona novità, poiché nessuno l’aveva mai bevuta né sentita nominare, dicevano i dirigenti che era contro la malaria: il bicchierino era sempre lo stesso, beveva una persona poi senza sciacquare veniva riempito e passato all’altra, comunque tutti lo bevevamo volentieri leccandosi perfino le labbra, poi in marcia per non meno di un’ora finché si raggiungeva il campo ove si svolgeva la giornata lavorativa che si concludeva la sera dopo il tramonto del sole. Verso le otto, cioè dopo due o tre ore di lavoro, arrivava la colazione trasportata con i carretti, debbo dire che era molto buona, pane con mortadella o formaggio o tonno, ogni mattina oltre al pane c’era un companatico diverso, poi un bicchiere di vino a persona, unico bicchiere come al solito. A mezzogiorno il pranzo, primo e secondo, non ben cucinati ma comunque mangiabili, una fetta di pane a merenda e a buio la cena poi si ripartiva a piedi per raggiungere il dormitorio, per lavarsi il viso vi erano dei contenitori davanti al capannone sempre con dentro la stessa acqua o forse veniva cambiata una volta durante la stagione estiva. Il caldo toglieva il respiro, il territorio era costituito da una immensa pianura che arrivava fino al mare, non esisteva una pianta ove ripararsi dal sole, spesso si consumavano i pasti sdraiati per terra facendosi l’ombra l’uno con l’altro. Un’altra grossa difficoltà era come dissetarsi, l’acqua era poca e poco buona perché ancora si usava attingerla dai pozzi non essendoci alcuna sorgente, la fattoria metteva a disposizione una persona, la dotava di un asino o un mulo sulla cui schiena sistemava due barili d’acqua e attraverso i campi la portava nei punti dove si trovavano vari gruppi di operai. Nei barili c’era un foro ove veniva infilata una canna, 58

quindi per bere, il barile si sollevava da una parte e dall’altra si formava un pisciolo di acqua dal quale uno alla volta cercavamo di bere, i più pratici riuscivano a bere senza poggiare la bocca alla cannella, gli altri dovevano accontentarsi bevendo tutti con le labbra nello stesso punto. Questo modo di dissetarsi usava in tutte le campagne, nella Maremma in particolar modo poiché i bicchieri di vetro non esistevano quei pochi in circolazione erano di latta spesso costruiti con un barattolo vuoto. Comunque per le condizioni cui eravamo abituati quel periodo trascorso a MORSILIANA era accettabile. Alla fine ci fu l’amara sorpresa, il pagamento; gli operai furono divisi in quattro categorie: gli uomini grandi, i mezz’omini, le donne e i ragazzi, ad ogni categoria fu assegnata dalla fattoria una certa ricompensa, a noi ragazzi ci misero in mano due lire, dico due lire per ogni giornata lavorativa cifra che facendo il raffronto con oggi si può calcolare intorno alle otto, diecimila lire molto peggio di come vengono trattati gli extracomunitari che lavorano clandestinamente nelle nostre campagne. Dispiaciuti e in silenzio alla fine della stagione fu .richiamato il noleggiatore al quale dovevamo pagare il viaggio di andata rimasto in sospeso e quello di ritorno. Con quei pochi soldi che mi rimasero ricordo di aver ordinato un paio di scarpe con i chiodi sotto la pianta come si usava nelle campagne che ROSATO il calzolaio faceva su misura, è vero, la fatica era stata tanta però ci avevo le scarpe nuove. L’anno successivo ci volli ritornare, ma questa volta presso un’altra tenuta perché dicevano gli uomini già esperti che alla CALIGE (così si chiamava il posto) avrebbero pagato meglio. Questa volta ero in compagnia dello zio UGO, poi essendo la seconda volta che andavo e un anno più grande i miei nonni si preoccuparono un po’ meno sapendo che non ero completamente solo. Lo zio UGO mi avrebbe dato dei consigli come del resto lo fece l’anno precedente lo zio PIETRO. Anche qui la stessa situazione per ciò che riguardava il lavoro con la differenza che il vitto era veramente schifoso. Sveglia molto presto ma senza il bicchierino di acquavite, niente

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colazione assortita come avveniva a MORSILIANA, ma solo uno spicchio di pecorino piccante e sudato, una fetta di pane rifatto e mezzo bicchiere di vino rosso distribuito a tutti in un barattolo mezzo arrugginito, tutto ciò si doveva consumare in piedi al massimo in dieci minuti, a pranzo un paio di piatti di minestrone spesso con dei tafani che galleggiavano nel piatto. La cucina si trovava a qualche chilometro distante, quindi dopo averlo cotto il minestrone veniva versato dentro dei grossi contenitori di legno con delle frasche che facevano da coperchio poi messo sopra al mulo veniva trasportato a destinazione, un’oretta di riposo poi di nuovo sotto il sole a lavorare; a merenda pane e cipolla cruda e un bicchiere d’acqua, a cena il solito minestrone spesso avanzato dal pranzo e il solito pezzo di pane: veramente un trattamento come ai condannati ai lavori forzati. Il caporale sempre presente sopra un cavallo in modo da poter dominare bene il gruppo di operai che superava la ventina, in dialetto veniva chiamato la compagnia, se qualcuno alzava la testa per asciugarsi il sudore subito l’aguzzino interveniva. «Hei! Tu, cosa fai lì impalato? Mica sei pagato per guardare!», oppure altre parole anche offensive tanto nessuno si ribellava per non essere multato o cacciato via seduta stante, mancava solo che usassero la frusta. Grazie a Dio arrivammo alla fine della stagione sani e salvi. Era il mese di luglio, il solito caldo massacrante che sa fare in Maremma, i gradi di calore nessuno era in grado di misurarli, chi possedeva il termometro? Ricordo che guardando fissi sulla prateria sembrava che dalla terra si sprigionassero fiamme di fuoco. Tutti aspettavamo con ansia l’ora della liquidazione perché come era d’uso nessuna contrattazione avveniva in precedenza fra operai e padrone. Fra noi grandi discussioni, chi diceva che ci avrebbero dato tanto, chi diceva poco. Quando finalmente ci chiamarono per fare i conti fu veramente una paga accettabile, a noi ragazzi ci assegnarono otto lire per ogni giornata lavorata confronto delle due lire dell’anno precedente riscosse a MORSILIANA: fummo tutti talmente soddisfatti da dimenticare le tribolazioni sofferte. Anche in questa fattoria le donne avevano un dormitorio diverso da 60

quello degli uomini, ma il materasso era lo stesso ovunque si andava, cioè la paglia cosparsa. Ritornando alla vita svolta a MONTEVITOZZO, in nessuna famiglia usava avere il gabinetto né l’acqua in casa. Per i bisogni fisici gli uomini in genere andavano per i campi nascosti dietro le siepi o ai pagliai, se si vedeva un uomo accovacciato in mezzo all’erba si capiva ciò ch faceva quindi nessuno si meravigliava, le donne, se si trovavano a lavorare nei campi si adattavano come gli uomini, certo stavano un po’ più guardinghe, mentre a casa, specie quelle un po’ più civili avevano nella stanza da letto un secchio con il coperchio, un altro pieno di acqua, un brocchino e una catinella oltre al vaso da notte, tutto sistemato su un treppiedi di ferro appositamente costruito: la doccia, la vasca ecc. erano completamente sconosciute. L’acqua si usava trasportarla dalla fonte pubblica a casa, con le brocche di rame, quelle che ora si usano per soprammobile, alcune donne riuscivano a portarle perfino tre contemporaneamente, due con le braccia e una sulla testa, la vecchia fonte si trovava abbastanza lontana sotto la montagna, era composta da una cannella di ferro per attingere l’acqua, una piccola vasca per far bere le bestie e un’altra per lavare i panni. Si vedeva tutti i giorni un viavai di donne con la cesta dei panni in testa che andavano alla fonte a sciacquare il bucato, in pieno inverno l’acqua arrivava perfino a formare il ghiaccio dal freddo che faceva ed esse con le pietre lo rompevano per poter lavare i panni. Quando venivano delle forti piogge dalla cannella sgorgava acqua torbida evidentemente la sorgente non era profonda. Il tifo e le malattie infettive chi le conosceva? Se qualcuno le prendeva e riusciva a superarle si salvava altrimenti addio. Poi sempre sotto il regime fascista fu fatto un nuovo acquedotto e la fonte venne costruita al centro del paese. Anch’essa fu una grande opera, una testa di leone fissata nel muro dalla cui bocca usciva una cannella in ottone lucida che mandava una bella quantità di acqua limpida, noi ragazzi dalla più estrema arretratezza dicevamo convinti che era il leone che la sputava fuori. Essendo la fonte non più lontano da casa anche io talvolta venivo comandato ad andare a riempire una brocca d’acqua, cosa che odiavo

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a morte fino ad arrivare al punto di sporcare l’acqua stessa dentro la brocca per vendicarmi, ma una volta però venni scoperto dalla zia NOVILIA mentre facevo quella bravata e lì furono botte date all’insaputa del nonno.

La compagnia di Montevitozzo alla Semina in Maremma (5 maggio 1935)

(fotografia in Eraldo Bernardoni, Monte Vitozzo, Roma, RnS, 1992) 62

IL MEDICO E LA LEVATRICE Del medico, della levatrice e della farmacia neanche l’ombra, le donne in stato interessante arrivavano al nono mese senza mai essere sottoposte a nessun controllo, lavoravano nei campi, oltre che in casa, fino a che non arrivavano le prime avvisaglie del parto, a qualcuna capitava di partorire in campagna assistita dal proprio marito per non aver fatto in tempo ad arrivare a casa (come successe a Gesù bambino) infatti molte giovani spose morivano durante il parto per mancanza di igiene e assistenza, l’unica assistente era SANT’ANNA la protettrice delle partorienti alla quale venivano dedicate tutte le preghiere specie nei momenti più scabrosi. Una donna pratica, ma senza alcuna istruzione assisteva tutti i parti che avvenivano sia in paese che nelle campagne isolate, mi pare si chiamasse Annunziata ma tutti la conoscevano con il nome di Cecetta, anche mia madre quando partorì i tre figli fu assistita dalla Cecetta. L’unica levatrice della zona risiedeva a cinque chilometri di distanza, non era possibile comunicare con lei se non andando personalmente in quanto nessuno possedeva il telefono; raggiungerla, camminando a piedi, occorreva più di un’ora altrettanto per tornare si può immaginare quando arrivava il soccorso alla partoriente. Parlo dei periodi in cui per andare da un località all’altra vi erano solo strade di campagna sterrate e fangose inoltre nessuno dei fiumi grande o piccolo che fossero non aveva il ponte di attraversamento, quindi nel periodo delle piogge esisteva anche questo problema. Non so perché anche il medico risiedeva nello stesso paesino, CASTELLOTTIERI dove abitava lo zio PIETRO di cui ho già parlato, si diceva che la residenza del medico e della levatrice la stabiliva il comune cioè SORANO, il quale provvedeva a erogare loro un piccolo contributo economico non sufficiente per vivere, quindi chi chiedeva una visita doveva pagarsela, mi sembra che il medico prendeva dieci lire, quando si vedeva arrivare il dottore era un brutto segno, ciò significava che qualcuno stava proprio male, forse per morire.

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Ricordo di aver visto il medico giungere in sella ad un cavallo sembrava il padrone di tutto, e tutti si toglievano il cappello al suo passaggio. 64

LA SCUOLA La scuola andava fino alla quarta classe elementare, le classi erano divise tra MONTEVITOZZO centro e una borgata di poche case a circa tre chilometri di distanza il cui nome è LE PORCARECCE, forse nei tempi ancore più antichi c’erano solo maiali. La divisione delle classi forse era stata fatta con la giusta intenzione di agevolare i ragazzi i quali a seconda dove abitavano potevano scegliere la scuola più vicina considerando le difficoltà nel percorrere le strade di campagna. Io le prime tre classi le frequentai a MONTEVITOZZO, la quarta elementare dovetti andare appunto alle PORCARECCE, avendo oramai una decina d’anni, abituato ad ogni tipo di disagio non mi era nessuna fatica camminare per una mezz’ora in mezzo al fango, le borgate circostanti MONTEVITOZZO non erano ancora collegate dalla strada carrozzabile perciò si andava a piedi o a cavallo all’asino. In questa scuola ci andavo insieme a MARCO, il ragazzo che si riteneva di essere scienziato del quale ho fatto cenno parlando degli amici; egli aveva due anni più di me, non so perché facesse la stessa classe mia. Lungo la strada ci divertivamo in tutti i modi, correndo appresso alle farfalle, acchiappare le lucertole o tirare pietre qua e là dove ci diceva la testa scommettendo chi le lanciava più lontano, ma quando capitava non ci facevamo sfuggire l’occasione per fare marachelle di vario tipo. Una di queste la voglio raccontare, mi sembra carina e la ricordo molto bene. Lungo la strada dovevamo attraversare un ruscello, un rigagnolo di acqua corrente sgorgata da una vena, un uomo tale Vincenzo aveva creato un piccolo pozzo che si riempiva con l’acqua del ruscello stesso, dentro questo pozzo aveva sistemato un sacco contenente lupini, a Roma si chiamano fusaie, quel caratteristico frutto che si mangia per passare il tempo, spesso viene venduto dagli ambulanti nei giardini pubblici e nelle feste paesane. Ebbene quel sacco pieno di lupini era stato messo nell’acqua corrente e doveva rimanerci per qualche settimana in modo che i lupini

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si ammorbidissero e si rendessero gustosi da mangiare, naturalmente non era da tutti possedere quell’abbondanza: ogni volta che attraversavamo il ruscello i nostri occhi si fermavano a fissare quel sacco, poi dalle occhiate passammo a qualche idea, io dicevo le mie e MARCO le sue. «Pensa se quei lupini fossero nostri che bella mangiata potremmo fare», l’altro rispondeva: «Potremmo vantarci con gli amici e farli crepare di invidia». Così parlando da un giorno all’altro decidemmo di impossessarci del sacco e nasconderlo in un altro punto del ruscello, così facemmo, lo coprimmo con delle frasche convinti che nessuno ci avrebbe scoperti. Lì nessuno mai rubava, neanche la parola furto non veniva mai pronunciata, la gente si conosceva, si chiamava col nome di battesimo senza mettere signor davanti. Non fu difficile a Vincenzo scoprire chi poteva aver preso il sacco. Appena si accorse del furto ci aspettò nascosto in un cespuglio e quando passammo per andare a scuola ci affrontò direttamente e senza mezzi termini ci disse: «Ladri!». Io lo vedo ancora in mezzo alla strada a gambe aperte con le mani sui fianchi; continuò: «Se non riportate i lupini dove li avete presi vado a Sorano e chiamo i carabinieri, intanto mi recherò a MONTEVITOZZO ad avvertire il tu’ babbo» disse a MARCO «e ad avvertire il tu’ zio» rivolgendosi verso di me, «così tutti sapranno che siete due ladri e andrete in prigione!», più o meno queste furono le minacce. Marco ed io ci guardammo in faccia rossi dalla vergogna, rispondemmo a VINCENZO: «Sì, il sacco lo abbiamo preso noi ma solo per fare uno scherzo». Con voce sommessa indicammo a lui il punto dove lo avevamo nascosto pregandolo di andare a prenderlo lui stesso altrimenti noi avremmo fatto tardi a scuola, ma era solo una scusa per liberarci subito dalla brusca situazione. Mi sembra di aver subito un rimprovero dallo zio EMILIO, eventualmente [evidentemente] Vincenzo glielo aveva raccontato. Le maestre allora erano molto severe ma altrettanto diligenti: insegnavano ai ragazzi con il massimo impegno, la maggior parte degli alunni apparteneva a famiglie operaie o contadine quasi tutti analfabeti quindi impossibilitati a seguire i propri figli negli studi, tutto 66

ciò che si imparava a scuola era merito della maestra oltre naturalmente alla volontà e intelligenza di ogni scolaro. Appena si entrava in classe era obbligatorio fare il segno della Croce e dire tutti insieme un’orazione restando in piedi. La maestra si poteva permettere tranquillamente (quando lo meritavamo) di darci delle punizioni, in genere ci faceva stare in piedi per qualche minuto dietro la lavagna, se la mancanza era grave ci faceva rimanere in ginocchio difronte a tutta la scolaresca. Comunque la figura della maestra era sacra, rispettata dagli alunni ma soprattutto dai loro genitori, se un ragazzo avesse raccontato a casa di essere stato punito in classe, i familiari avrebbero ringraziato la maestra pregandola se fosse stato necessario di punirlo ancora più pesantemente. Noi ragazzi ci prodigavamo a cercare in mezzo al bosco delle aste di legno sottili e lunghe il più possibile per portarle alla maestra in modo che ella dalla cattedra senza scomodarsi arrivasse a bacchettare gli indisciplinati. Un'altra gara tra gli scolari era nel portarle i fiori di campo che in primavera si raccoglievano dappertutto. Erano gesti semplici ma tanto, tanto affettuosi, nessuno mai avrebbe osato di darle del tu e chiamarla semplicemente maestra, si doveva dire Signora maestra.

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LE STREGHE Non so se la gente ci credesse veramente ma a me sembrava di si, quando mio nonno mi parlava delle streghe diceva: «Sai, tra le ragazze ci sono alcune che sono streghe», sarebbe stata una malattia di cui soffrivano alcune giovani donne. Il martedì e il venerdì in prima sera – raccontava mio nonno – chi era strega era costretta ad uscire da casa per andare ad incontrare altre streghe, si riunivano nelle aie o in altri spazi erbosi, si prendevano per mano facendo il girotondo e gridando in vari modi, dovevano sfogarsi –, diceva il nonno – finché non gli era passato quello stato di agitazione. Verso mezzanotte tornavano ad essere normali ed ognuna si ritirava nella propria casa. Persone grandi in particolare gli uomini parlando fra loro specie all’osteria: «Ieri passando nel tal posto si era fatto buio, e ho sentito ballare le streghe», «Sì» rispondeva un altro «in quella zona oppure in un’altra le ho sentite pure io!» ed erano tanti ad affermare l’esistenza delle streghe altri dicevano diverse testimonianze, per esempio: «Questa mattina quando sono andato a governare la somara l’ho trovata con la criniera e la coda intrecciata, sicuramente sono state le streghe», si usava pure dire che erano dispettose e qualcuna anche cattiva. Chi era fidanzato non doveva andare a casa della ragazza nei giorni di martedì e venerdì, perché se ella fosse stata una strega il fidanzato non lo doveva sapere altrimenti non l’avrebbe sposata. Se per caso un bambino si ammalava improvvisamente dopo essere stato in braccio o comunque coccolato da una donna non di famiglia sorgeva subito il sospetto: chissà, ella poteva essere una strega e contagiato il piccolo. Esisteva in qualche famiglia più arretrata la barbara usanza di mettere nell’acqua bollente gli indumenti del bambino ammalato mentre l’acqua bolliva i panni venivano punzecchiati con un ferro appuntito, essendo convinti che la strega avrebbe sentito nel suo corpo il dolore che lo stesso ferro le provocava, se malauguratamente 68

mentre venivano effettuate queste fesserie capitava una qualsiasi donna a fare visita era fatta! Veniva additata dai genitori del bimbo di essere lei la colpevole di tanto male e che in quel momento si sarebbe presentata con l’intenzione di far cessare quelle puntate le quali a lei causavano tanto dolore.

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LA PAURA Un’altra diceria paesana era la paura, paura di tutto e di niente, dalle cose inventate dalla fantasia della gente, tutti vedevano la paura ma nessuno era in grado di spiegare cosa fosse. I soliti discorsi fatti in piazza o all’osteria, più o meno gli stessi racconti delle streghe. Per esempio un tale diceva: «L’altra sera mentre scendevo dalla montagna improvvisamente mi è apparso un vitello, oppure un cavallo bianco che mi ha seguito per un tratto di strada poi è scomparso, impressionato da quella bestia mi sono impaurito» oppure «nel mio magazzino di notte si sentono dei rumori strani», magari erano topi che passeggiavano e muovevano qualche piccolo oggetto, «nella stalla del tale quando è buio si vedono delle fiammelle che si accendono e si spengono», magari era il letame stesso delle bestie che le produceva. Insomma tutti raccontavano la sua e tutti in un modo o in un altro avevano visto la paura. Questi episodi raccontati da amici e parenti pienamente convinti di quanto asserivano impressionavano seriamente noi ragazzi specie i più piccoli al punto che di buio nessuno aveva il coraggio di muoversi da solo; se la nonna comandava di recarsi nella camera da letto a prendere un oggetto al buio rispondevamo: «Non vado perché è buio nero ed io ho paura». 70

GLI ZII D’AMERICA Tornando a parlare della situazione creatasi dopo la scomparsa di mio padre, ci furono d’aiuto anche gli zii che vivevano come emigrati in America. Essi quando seppero della morte del fratello e le condizioni in cui aveva lasciato la famiglia, si prodigarono a inviarci degli aiuti, in soldi ma soprattutto inviando pacchi di vestiario sia per me che per le mie sorelle, non potevano certo mandare dei viveri perché per arrivare un oggetto dall’America fino in Italia occorreva qualche mese di viaggio. Ricordo soltanto che lo zio EMILIO o il nonno ANTONIO ogni tanto andavano a Sorano a ritirare questi pacchi, con quali mezzi arrivavano non l’ho mai saputo. Per me e per le mie sorelle era una felicità indescrivibile indossare vestiti nuovi e se pure usati ma sempre in ottime condizioni. Chi mai li possedeva a MONTEVITOZZO? Nemmeno i figli delle famiglie benestanti potevano permetterselo. Un episodio indimenticabile che ancora ne parliamo con le mie sorelle fu quando dentro uno di questi pacchi vi era un completino per me, una specie di tutina di colore verde, due pezzi che si univano con dei bottoni, purtroppo era fatto con una stoffa molto ruvida, forse di lana di pecora o altre fibre non raffinate, malgrado la grande necessità di vestirci io non lo sopportavo tanto era ruvido e sicuramente avrei dovuto portarlo a contatto diretto con la pelle. La nonna Rosa cercava pazientemente di convincermi ad indossarlo perché non era certamente il caso buttarlo via solo perché era ruvido ma io lo rifiutavo categoricamente, la nonna me lo infilava ed io me lo toglievo, per diverse volte continuarono queste prove di forza, ad un certo momento ella esasperata perse la pazienza e mi ammollò un grosso ceffone su una guancia ma talmente forte che restammo tutti e due impietriti a guardarci negli occhi, sicuramente il dolore lo sentì più lei per avermi picchiato che io che lo avevo subito. Dopo qualche istante compreso il dispiacere che le avevo dato nel disubbidire insistentemente, l’abbracciai e le dissi esattamente queste parole: «Nonna, mica mi avete fatto male» (avete, perché alle persone

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anziane si usava dare del voi), così senza fare altri capricci indossai la tutina verde, ma Dio sa quanto avrò sofferto. A dire la verità da piccolo ero abbastanza capriccioso, in questo caso però avevo ragione in quanto anche da grande non ho mai sopportato indumenti ruvidi a contatto con la pelle. Anche lo zio Nicola anch’egli fratello di mio padre residente in Calabria a GUARDAVALLE, paese di origine della famiglia, ci fu di grande aiuto fornendoci ripetutamente oltre che di denaro anche di generi alimentari, inviare un pacco da Guardavalle pur essendo per quei tempi molto lontano non era difficile come dall’AMERICA, infatti perfino le casse di arance che spesso ci mandava arrivavano senza deteriorarsi. 72

I RAPPORTI CON LE SORELLE Con le mie due sorelle non sempre ci capivamo comunque erano litigi da ragazzi senza cattiveria. Con ANNA, la più grande, mi prendevo di più mentre con IDA spesso ci scappava la contestazione. La più apprensiva nei miei confronti era certamente la prima avendo sei anni più di me si sentiva responsabile come fosse lei la mamma. Quando venivo rimproverato dagli zii, EMILIO e NOVILIA, certamente con ragione, ella ci soffriva cercando in tutte le buone maniere di consolarmi abbracciandomi affettuosamente. Una delle tante volte l’avevo combinata certamente grossa, non ricordo cosa fosse, ricordo invece che la zia si arrabbiò tanto al punto di non darmi nulla da mangiare per punizione, certamente passato quel momento di rabbia tutto sarebbe tornato normale. Io però scappai di casa andando a nascondermi tra i pagliai nell’aia a qualche centinaia di metri distante da casa. ANNA, che aveva assistito a quel rimprovero, di nascosto mi seguì con lo sguardo poi senza farsi vedere rubò due fette di pane dalla madia, le nascose sotto il grembiule e quatta quatta me le portò perché temeva che soffrissi la fame. IDA come ho già detto non si interessava del mio comportamento, pensava più al gioco, magari litigavamo a causa del mio caratterino un po’ ribelle, con tutto ciò ci volevamo tutti e tre un gran bene, se c’era una cosa buona era per tutti come per tutti erano le sofferenze. All’età, non ricordo bene, mi sembra intorno ai dodici anni, mia madre decise prima una poi l’altra di portarle via dalla casa dei nonni con lo scopo di alleggerire il peso nella famiglia. Andarono a lavorare a PITIGLIANO presso famiglie di signorotti dove mia madre già prestava servizio da diversi anni, ma non fu per loro un miglioramento di vita, anzi in molte occasioni ci fu maggior sofferenze e privazioni di quando vivevano con i nonni se non altro almeno l’affetto non gli mancava… Il matrimonio dello zio EMILIO avvenne dopo la partenza delle mie sorelle, le quali avevano sostituito la zia NOVILIA anch’essa da poco

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sposata provvedendo loro anche se molto giovani ad accudire la casa e a curare la nonna ROSA gravemente malata. Come ho già scritto a pagina 53, l’ultimo periodo trascorso a MONTEVITOZZO lo vissi insieme ai nonni lo zio EMILIO e la nuova zia di nome SETTILIA. Malgrado le difficoltà, come al solito di grandi ristrettezze economiche, la nuova zia fu con me abbastanza premurosa mostrandomi anche tanto affetto, spesso ci consigliavamo a vicenda nello svolgere i diversi lavori sia inerenti alla casa che alla campagna, poiché ella non era abituata a fare determinate cose, quindi confidava molto nella mia collaborazione. L’impatto con la nuova realtà le fu un po’ difficile da affrontare dovendo accudire due persone anziane di cui la nonna aveva bisogno di assistenza continua. Comunque con il tempo la zia si abituò accettando con rassegnazione la nuova vita. Nel frattempo le nacque il primo figlio MARIO il quale come tutti i bambini portò serenità sia per i genitori che per gli anziani nonni, anche io mi affezionai e tuttora lo sono considerandolo il fratello minore. All’età di quattordici anni venne il momento anche per me di lasciare MONTEVITOZZO: il distacco dai nonni, dagli zii e dall’ambiente in cui ero cresciuto fu molto sentito, il vero grande dolore certamente fu dei nonni che mi avevano allevato, anche lo zio Emilio ne soffrì, per la prima volta quando mi abbracciò per salutarmi lo vidi con le lacrime. La nonna ROSA non la vidi più, ella morì dopo qualche anno, io in quel momento mi trovavo a ROMA, mentre il nonno ANTONIO lo rividi altre volte ma oramai anche lui era arrivato alla fine della sua tribolata esistenza: morì a ottantadue anni nel 1942. Le figure dei nonni sono impresse nella mia mente, ringrazio Dio che mi permette di non dimenticarli mai e soprattutto di non dimenticarli durante le mie preghiere. Mi allevarono tra i sacrifici e le rinunce disposti a tutto purché crescessi nel migliore dei modi. Tutto ciò lo ricordo con commozione e dico ancora: grazie, grazie, nonni; solo Dio può darvi quella gioia che la vita terrena vi negò. Così 74

anche io cerco di comportarmi nei confronti dei miei nipoti i quali mi fanno comprendere cosa vuol dire essere nonno, ma sicuramente non sarò mai all’altezza di dare loro quanto io ebbi dai miei nonni. Resta in me qualcosa di cui mi sento angosciato ed è il rimorso di non aver potuto offrirgli nessun tipo di conforto e quando lo avrei potuto fare essi non c’erano più. Spesso mi reco a MONTEVITOZZO a fare visita alla vecchia zia SETTILIA novantenne: quando entro nell’antico cucinone rivedo ai loro posti le figure del nonno ANTONIO e della nonna ROSA. Mentre sto concludendo di scrivere queste poche pagine dei miei ricordi, apprendo con angoscia la scomparsa della zia SETTILIA, l’ultima persona che ha chiuso la porta della casa paterna. Roma, aprile 2000

Ivo Montepaone

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Ivo se n’è andato il 18 marzo 2013. Aveva 87 anni.

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INDICE 3 Introduzione 5 inizio 9 Poi avvenne la tragedia 10 A casa con i nonni 17 La fiera del bestiame 18 La festa principale di Montevitozzo 21 La macellazione del maiale 22 La notte di Natale 25 La notte della Befana 28 Il carnevale 31 Il partito fascista 34 Sulla montagna con le pecore 38 Gli amici 41 Un episodio indimenticabile 43 Gli zii e le varie visite 53 La costruzione della strada 56 La Maremma 63 Il medico e la levatrice 65 La scuola 68 Le streghe 70 La paura 71 Gli zii d’America 73 I rapporti con le sorelle

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