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Dal Libro Verde al Libro Bianco La cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo Il percorso di Federsolidarietà Idee in Rete I quaderni di Idee in Rete 2

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Dal Libro Verde al Libro BiancoLa cooperazione sociale

per l’inserimento lavorativo

Il percorso di Federsolidarietà

Idee in ReteI quaderni di

Idee in ReteConsorzio Nazionale

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2Dal Libro Verde al Libro BiancoLa cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo - Il percorso di Federsolidarietà Idee in Rete

I quaderni di 2Idee in ReteConsorzio Nazionale

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1 Presentazione 5

2 Cambiare il mercato e la società 6

2.1 Al servizio del bene comune 6

2.2 Dall’Europa una guida agli “acquisti sociali” 7

2.3 Esperienze di clausole sociali 8

2.4 La vicenda AVCP 11

2.5 Creatori di valore aggiunto sociale 15

3 Imprese di successo 19

3.1 Consorzio In Concerto: integrazione e flessibilità per l’inserimento lavorativo 19

3.2 Reagire alla crisi: l’orgoglio di essere cooperatori 20

3.3 Cooperazione B: siamo veramente imprese? 20

3.4 Le cooperative sociali che vincono la crisi 21

3.5 Quali modelli di sviluppo per la cooperazione B 22

3.6 L’orgoglio di vivere del proprio lavoro 23

3.7 Emilia Romagna, le cooperative che resistono alla crisi 24

3.8 Qualche volta le cooperative B fanno fatica 25

4 Imprese che cooperano 26

4.1 La rete motore dello sviluppo 26

4.2 Quali reti per l’inserimento lavorativo 26

4.3 Esperienze 28

4.4 L’internazionale dell’inserimento lavorativo 33

5 Quali lavoratori svantaggiati 34

5.1 Categorie di svantaggio, iniziamo a ragionarci 34

5.2 Le domande giuste da farsi 35

5.3 Tra vecchie e nuove tipologie di svantaggio: cosa sta accadendo nelle cooperative sociali di inserimento lavorativo 36

5.4 Svantaggiati di oggi 38

5.5 PdL C3056: una proposta di modifica delle categorie di svantaggio 39

5.6 Svantaggiati e soci, riscopriamo la 381/1991 43

5.7 Lasciamo stare le categorie! 43

5.8 Fateci restare in carcere, paradossi da galera 44

5.9 Transizione 45

6 Politiche attive del lavoro 51

6.1 Al centro delle politiche attive del lavoro 51

6.2 La comunità al lavoro: la cooperazione sociale in campo dove gli ammortizzatori sociali non arrivano 54

6.3 Le scorciatoie per l’integrazione 54

6.4 Esperienze 55

6.5 Verso le politiche attive del lavoro 59

7 Raccontare l’inserimento lavorativo 60

7.1 Il riscatto sociale delle “cape guastate” 60

7.2 Un film sulla cooperazione sociale di inserimento lavorativo 60

7.3 La collana Kairos, per parlare di inserimento delle persone con disabilità 61

7.4 Le cooperative B sono poco visibili? 62

Il volume raccoglie contributi di numerosi autori che hanno pubblicato articoli sul blog “La cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo”.

I testi sono stati selezionati, curati e talvolta riassunti da Gianfranco Marocchi.

Responsabile collana “Quaderni di Idee in Rete”: Gianfranco Marocchi.

Indice

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I quaderni di 2Idee in ReteConsorzio Nazionale

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Nel novembre 2010 Federsolidarietà - Confcoo-perative ha aperto la discussione pubblica

sul Libro Verde “La cooperazione sociale per l’inseri-mento lavorativo”, al fine di raccogliere idee e com-menti dai cooperatori sociali, studiosi, interlocutori di terzo settore e altri stakeholder e giungere quindi alla pubblicazione di un Libro Bianco.

Si è trattato di un percorso sorprendente, caratterizza-to da una partecipazione diffusa e competente, che ha realmente contribuito a far evolvere il documento di partenza in uno nuovo, più ricco e completo.

Protagonisti di questa discussione sono state innan-zitutto le Federazioni territoriali, che hanno organiz-zato seminari con la partecipazione di oltre 1200 co-operatori, ricercatori, rappresentanti della pubblica amministrazione. Dal novembre 2010 al giugno 2011 è stato inoltre attivo un blog che ha raccolto oltre 100 articoli e ha ricevuto 15 mila visite. Gli spunti emer-si nel corso del dibattito sono quindi divenuti oggetto di riflessione e valutazione da parte degli organi della Federazione, in ciò coadiuvati da un apposito gruppo di lavoro rappresentativo delle Federazioni regionali, sino alla redazione del Libro Bianco, presentato nel corso dell’assemblea che il 15-16 novembre 2011 ha celebrato i 20 anni di Federsolidarietà.

Se il risultato finale è l’aspetto più importante dal pun-to di vista dei contenuti, sarebbe stato però un pecca-to perdere la ricchezza del dibattito che ha portato dal Libro Verde al Libro Bianco e in particolare quello svi-luppatosi sul blog. Per questo Idee in Rete, che a questi temi ha dedicato uno dei corsi finanziati nell’ambito dell’avviso 10/2009 di Foncoop, ha ritenuto importante favorire attraverso questa pubblicazione la diffusione dei contenuti che il percorso di Federsolidarietà ha fat-to emergere.

Di intesa con Federsolidarietà, quindi, una selezione degli articoli apparsi sul blog sono qui raccolti per se-zioni tematiche; il discorso che ne scaturisce non è necessariamente né sistematico né privo di opinioni e enfasi tra loro diverse; ma questo, d’altra parte, è il significato di un luogo di dibattito. E quanto più artico-lato è il confronto, tanto più ricca è destinata ad essere la sintesi che lo raccoglie.

1 Presentazione Giuseppe Guerini, presidente nazionale di Federsolidarietà Confcooperative

Questo “quaderno” raccoglie alcuni dei più significativi contributi che hanno portato alla redazione del Libro Bianco “La cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo”; ed è sicuramente un piacere verificare che essi siano stati funzionali anche alla realizzazione di un percorso formativo per cooperatori sociali di una rete nazionale aderente a Federsolidarietà.

Si tratta infatti di un lavoro che va valorizzato, perché ha costituito un passaggio fondamentale di un documento, il “Libro Bianco”, appunto, che ben rappresenta l’impegno di Federsolidarietà per il riconoscimento della funzione centrale delle cooperative sociali per offrire opportunità di occupazione anche ai lavoratori più deboli; e che ambisce a contribuire a rifondare un pensiero sul tema del lavoro.

Quello sul lavoro è un dibattito che, al di là dell’attenzione “emergenziale” legata alla perdita di occupazione in conseguenza della crisi economica, richiede nel nostro Paese uno sforzo ulteriore, idee nuove. Mai quanto in questi ultimi anni, infatti, il lavoro è stato invocato e mai, come negli ultimi anni esso è stato umiliato e banalizzato. Si parla, certo, della perdita di posti di lavoro – e questo è un bene – ma si dimentica di considerare il lavoro come elemento centrale della formazione, dell’identità, della strutturazione stessa della persona e della cittadinanza.

Sono stati per troppo tempo proposti modelli di successo che non contemplano il lavoro, soprattutto il lavoro tecnico, manuale, concreto; quello fatto di fatica e di fabbricazione di prodotti e materiali, quello cioè che ha fatto la fortuna del nostro Paese e ne ha consentito lo sviluppo.

L’affermazione personale e professionale è talvolta vista come frutto di un poco di bella presenza e faccia tosta, passando dalla frequentazione dei potenti ai programmi televisivi, dalla mercificazione di sé alla ricerca di uno sbocco nei vari anfratti del sottobosco delle clientele.

Certo, vi sono anche esempi di “successo” basati sul lavoro, ma in quei casi il modello proposto è quello del top manager, del consulente dotato di innumerevoli lauree e master con parcelle milionarie: tutte figure inarrivabili per la gran parte dei cittadini, che non possono rappresentare esempi a cui concretamente tendere.

Insomma da troppo tempo fabbricare oggetti con le mani, mettere in campo idee, intelligenza pratica, tecnica, capacità, professionalità, impegno, dedizione, cultura del fare, è considerato poco accattivante.

Per questo, accanto al valore dell’integrazione sociale attraverso il lavoro che caratterizza l’esperienza delle cooperative sociali di inserimento lavorativo, Federsolidarietà ha cercato, con il “Libro Bianco” che scaturisce dal percorso riportato in queste pagine, di riscoprire un diverso senso del lavoro, coerente con i valori costituzionali che definiscono l’Italia “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”: ce lo ricordano soprattutto le tante donne e i tanti uomini, per qualche ragione trovatisi in condizione di svantaggio, ma capaci di raccogliere la sfida posta dalle difficoltà dell’esistenza, con la ferma volontà di affermare la loro piena cittadinanza nel Paese dando valore e senso al loro essere lavoratori.

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2 Cambiare il mercato e la societàLa storia delle cooperative sociali ha storicamente anticipato il dibattito sulle clausole sociali; già nel corso degli anni ottanta si è infatti assistito ai primi accordi con la pubblica amministrazione relativi ad affidamenti a cooperative sociali che attraverso tali commesse inserissero al lavoro persone svantaggiate. Nel 1991 l’articolo 5 della 381 ha sancito tale principio, aprendo la strada alla generalizzazione di questo strumento, grazie al quale sono state inserite nel nostro paese diverse migliaia di persone svantaggiate.

Nel periodo successivo alcune amministrazioni locali si sono date regolamenti basati sulla definizione di quote di commesse da destinare a clausole sociali. Negli ultimi anni si sono però verificati diversi eventi che obbligano ad una riflessione:•nel 1996 la modifica all’articolo 5 della 381 ha limitato la possibilità di affidamenti

ristretti alle cooperative sociali alle commesse sotto soglia; la possibilità di affidamenti sopra soglia con clausole sociali con competizione aperta a tutte le imprese è stato poco utilizzata e porta con se alcune incertezze circa la possibilità di valutare adeguatamente il progetto di inserimento in sede di valutazione delle proposte. Tutto ciò rischia di limitare il ruolo della cooperazione sociale a mercati di scarsa rilevanza;

•paradossalmente, proprio mentre in sede europea cresceva l’attenzione all’esperienza italiana e venivano proposte le prime definizioni delle clausole sociali, le condizioni di bilancio degli enti locali, sempre più problematiche, hanno fatto sì che sempre più spesso vengano scelte le soluzioni di affidamento a più basso costo, con quindi un’attenzione minore alla possibilità di conseguire un risultato sociale attraverso gli affidamenti di commesse pubbliche;

• l’ultimo intervento legislativo in merito, l’art.52 del D.Lgs. 163/2006, ha introdotto un elemento di confusione, non tanto per possibili interferenze con la 381/1991, esplicitamente escluse, ma, da un punto di vista culturale, concentrandosi su una figura, quella del laboratorio protetto, estranea al nostro ordinamento e peraltro più arretrato e assistenziale rispetto a quella della cooperativa sociale.

La domanda quindi è semplice: quale futuro per le clausole sociali nel nostro paese, quali politiche per rilanciarle.

2.1 Al servizio del bene comune Beppe Guerini, 2 febbraio 2011

Entro un discorso ampio e articolato sull’azione di “civilizzazione dell’economia” realizzato dalla cooperazione sociale, il Presidente Guerini ha evidenziato la ne-cessita di rinnovare il nostro impegno per l’inserimento lavorativo.

“Per questo abbiamo redatto il Libro Verde … Sul modello dei documenti di riflessione pubblicati dalla Commissione europea, … Federsolidarietà con il Libro Verde vuole alimentare il dibattito sulle potenzialità che le cooperative sociali possono mettere in campo per l’occupazione di soggetti svantaggiati attraverso un’accurata analisi del settore e delle politiche pubbliche. Il documento si conclude

infatti con una serie di proposte a livello europeo, nazionale e locale relative agli strumenti necessari per raggiungere gli obiettivi. Le proposte riguardano sia l’allargamento delle categorie di soggetti svantaggiati previsti oggi dalla legge 381/91, sia proposte finalizzate a favorire l’inserimento dei lavoratori svantaggiati nel mercato del lavoro aperto al termine del loro periodo di formazione in cooperativa. [I risultati ottenuti dalla cooperazione sociale di inserimento lavorativo] ci portano a difendere con forza la validità del modello della cooperativa sociale di inserimento lavorativo come strumento intrinsecamente efficace per realizzare politiche attive del lavoro per l’inclusione sociale. Ma per esser efficace questo modello ha bisogno dell’ossigeno delle alleanze e del consenso continuo delle istituzioni e delle parti sociali; un consenso che in questi ultimi tempi subisce qualche allentamento dovuto all’affermarsi di culture amministrative che per eccesso di premura verso i principi di concorrenza rischiano di subordinare l’interesse pubblico della coesione sociale o dell’inserimento lavorativo a quello dell’applicazione ferrea del principio di competizione tra le parti; oppure l’esigenza di tutelare una categoria di lavoratori rischia di negare la possibilità a lavoratori più deboli di accedere al mercato del lavoro.

2.2 Dall’Europa una guida agli “acquisti sociali” Redazione, 21 febbraio 2011

La Commissione Europea ha recentemente pubblicato “Acquisti sociali” una “Guida alla considerazione degli aspetti sociali negli appalti pubblici”. Gli appalti pubblici socialmente responsabili sono, secondo le parole della Guida, procedure di aggiudicazione che tengono conto di uno o più aspetti sociali quali “opportunità di occupazione, lavoro dignitoso, conformità con i diritti sociali e lavorativi, inclusione sociale (in specifico delle persone con disabilità), pari opportunità, accessibilità … e una più ampia conformità di natura volontaristica con la responsabilità sociale di impresa (RSI), nel rispetto dei principi sanciti … dalle direttive sugli appalti”.

Il punto di partenza è individuato nel vantaggio che le amministrazioni e le comunità locali possono avere dagli “acquisti sociali”; la Guida passa dunque ad approfondire le procedure di gara, con riferimento non ai casi di possibile deroga dalle normative comunitarie, ma a quelli di inserimento di clausole sociali in affidamenti interamente soggetti alla direttive comunitarie.

La guida studia quindi in modo analitico i diversi e successivi passaggi delle procedure di gara: dalla definizione dell’oggetto, alla definizione dei requisiti, alla procedura di selezione, quindi all’aggiudicazione e alla esecuzione dell’appalto; per ciascuna fase sono indicati, sia con riferimento alle direttive comunitarie, sia con esempi pratici, opportunità e limiti connessi con la normativa europea.

Certamente chi ha redatto la guida non ha come riferimento primario esperienze come quella italiana in cui le clausole sociali si sono sviluppate soprattutto per favorire l’occupazione di lavoratori ordinariamente esclusi dal mercato del lavoro, quanto questioni relative ad esempio all’accessibilità dei servizi offerti alle persone con disabilità. Il processo che ha portato dall’articolo 5 della 381/1991 alla sua tradu-zione “sopra soglia” e ad eventuali ulteriori sviluppi di questo principio attraverso

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clausole sociali rimangono abbastanza estranee al lavoro. Emerge con chiarezza invece la volontà di inquadrare le clausole sociali entro i principi guida comunitari e quindi la costante attenzione ad evitare che essi introducano aspetti discriminatori rispetto agli operatori economici o contrastare con altre direttive comunitarie.

In sintesi, è sicuramente un bene che a livello comunitario inizi ad essere dedicata a questi temi la dovuta attenzione e la guida rappresenta in effetti un utile supporto pratico per le amministrazioni che intendano introdurre elementi sociali nei propri affidamenti; ma al tempo stesso può essere considerata un utile punto di partenza ma non un punto di arrivo, sia a livello di approfondimento tecnico che di pressione politica, vista la relativa poca importanza attribuita alle clausole sociali relative all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.

2.3 Esperienze di clausole sociali

2.3.1 Toscana: un protocollo per valorizzare l’inserimento lavorativo

Federsolidarietà Toscana, 1 febbraio 2011

Nel corso del Convegno del 20 gennaio, Federsolidarietà Toscana ha presentato un interessante esperienza di partenariato nel campo dell’inserimento lavorativo.

Le possibilità di convenzionamento previste dalla 381/1991 erano già state oggetto di implementazione con la LR 87/1997, cui erano seguiti successivi atti per definire i criteri di selezione. Tre anni dopo la LR 22/2000, nel riordinare il Servizio Sanitario Regionale, ricordava che per “la gestione di servizi socio sanitari, assistenziali ed educativi, nonché per la fornitura di beni e servizi, le Aziende sanitarie possono avvalersi delle cooperative sociali ai sensi della legge 381/91”. L’aspetto però che merita particolare attenzione è il recente protocollo di intesa tra Regione, ASL e Centrali cooperative, maturato a partire da una riflessione sugli interventi in tema di salute mentale. Nell’ambito del protocollo, approvato con apposita DGR, sono stati realizzati un’indagine sui centri diurni per la salute mentale, un gruppo di lavoro su schema di convenzione tipo per inserimenti di casi psichiatrici, un gruppo di lavoro sulle competenze della figura di tutor aziendale e una ricerca sull’inserimento lavorativo in cooperative B e in associazioni di familiari e utenti.

Tra i contenuti del protocollo, siglato nel 2010, vi sono:

• il riconoscimento del ruolo della cooperazione sociale di tipo B quale soggetto “in grado di favorire uno sviluppo economico e sociale centrato sui valori dell’integrazione, dell’inclusione sociale e delle pari opportunità”;

• il riconoscimento delle “convenzioni” come strumento finalizzato alla creazione di opportunità di lavoro per persone svantaggiate;

• la valorizzazione dello strumento degli affidamenti diretti e delle clausole di esecuzione sociale;

Per il funzionamento del protocollo viene costituito un gruppo tecnico composto dai rappresentanti delle parti sottoscriventi con funzione di elaborare proposte e

procedure specifiche, promuovere vigilare e monitorare l’attività in atto nonché l’entità degli affidamenti annuali di beni e servizi e l’efficacia degli interventi programmati. Le ASL e le aree vaste prevedono di affidare l’8% dell’importo delle forniture di beni e servizi attraverso convenzioni ex articolo 5 (importi sotto soglia) o con l’adozione di clausole sociali nelle gare di appalto sopra soglia. Le cooperative sociali di tipo B garantiscono progetti individuali per ogni soggetto inserito, piena collaborazione con i Servizi invianti per il monitoraggio ed una particolare attenzione per i soggetti con disagio mentale.

Questo protocollo non elimina da solo le difficoltà che in questi anni si sono fatte sempre più diffuse (maggiore ricorso al massimo ribasso, percezione di alcuni enti degli affidamenti ex articolo 5 come “poco trasparenti”, difficoltà a comprendere il ruolo della cooperazione sociale di inserimento lavorativo), ma rappresenta un evidente segnale di positiva valorizzazione delle cooperative sociali nelle politiche per l’integrazione e l’occupazione.

2.3.2 Clausole sociali, le soluzioni in Piemonte Redazione, 6 gennaio 2011

Storicamente il Piemonte ha sperimentato soluzioni per introdurre le clausole sociali nelle prassi degli enti che affidano beni e servizi. Già nel 1994 la LR 18, applicativa della 381/1991, disponeva che “Per il perseguimento delle finalità indicate all’articolo 5 della legge n. 381/91, gli Enti pubblici prevedono la destinazione di una quota degli stanziamenti, per forniture di beni e servizi, per le convenzioni di cui al comma 1 dell’articolo 5”.

Nel 1998 vi fu la prima versione del Regolamento che impegnava il Comune di Torino a destinare quote di affidamenti all’inserimento lavorativo; a seguito di successive formulazioni, nel 2005 è stato approvato il vigente Regolamento 307 che prevede di destinare il 3% degli affidamenti di beni e servizi attraverso strumenti contrattuali che assicurino l’ inserimento occupazionale di persone svantaggiate e persone disabili, con ciò includendo sia i tradizionali affidamenti sotto soglia ex articolo 5 della legge 381/1991, sia delle vere e proprie clausole sociali in senso europeo.

Infine, La Legge Regionale 12/2008, all’articolo 40 prevede che: “Le direzioni regionali e le aziende sanitarie regionali destinano alle convenzioni di cui all’articolo 5 della legge 381/1991 e ad altre forme di affidamenti con clausole sociali quali quelle previste dall’articolo 52 del d.lgs 163/2006, una quota non inferiore all’1,5 per cento del volume degli affidamenti dell’anno per l’acquisto di beni o servizi. Entro la suddetta percentuale e compatibilmente con il tipo di attività da prestare, le direzioni regionali e le aziende sanitarie regionali possono definire una quota di inserimenti di persone con disabilità intellettiva, disabilità fisica con limitata autonomia e malattia mentale.” Al di là di alcune incongruenze con normative regionali successivamente approvate, si tratta di una delle formulazioni più stringenti sul tema, ancorché nella maggior parte dei casi nei fatti disattesa.

Già, perché accanto alle norme, serve la volontà di applicarle, il presidio dell’apparato amministrativo, la convinzione di perseguire un effettivo interesse

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generale. In questi anni l’applicazione delle clausole sociali in Piemonte ha incontrato, insieme a risultati positivi significative difficoltà.

Servono le leggi, serve la cultura dell’inserimento lavorativo, la volontà politica di farlo veramente, il coraggio amministrativo. Tutti insieme, uno solo non basta.

2.3.3 Provincia di Udine: lavori in corso verso le clausole sociali

Federsolidarietà Friuli Venezia Giulia, 5 gennaio 2011

Proseguiamo con i segnali incoraggianti sull’attenzione delle istituzioni per la tematica dell’inserimento lavorativo. Oggi si presenta una Direttiva della Provincia di Udine del 21 dicembre scorso, ottenuta con il contributo decisivo da parte di Federsolidarietà, che individua uno specifico interesse pubblico nella “adozione di modalità all’avanguardia in merito all’affidamento di lavori e forniture che privilegino l’esigenza di creare opportunità di lavoro, vale a dire proficue occasioni di reinserimento sociale, per persone appartenenti a categorie svantaggiate”. La direttiva prosegue affermando che “fra le azioni mirate che la Provincia può intraprendere in favore delle cooperative sociali al fine di promuovere e realizzare l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, vi è l’individuazione di opportunità di lavoro mediante la destinazione di quote di risorse per la fornitura di lavori, beni e servizi da acquisire mediante appalti riservati”.

Quindi i compiti per il 2011; si tratterà di individuare:

•i settori oggetto della riserva;

•la determinazione di quote di percentuali di lavori e forniture da destinare in forma mirata alle cooperative sociali;

•procedure di gara che valorizzino nella valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa il duplice prodotto offerto dalla cooperazione sociale relativamente sia al progetto di servizio che alla progettualità e competenza nell’inserimento lavorativo.

2.4 La vicenda AVCP

2.4.1 AVCP, tanto rumore per nulla? Beppe Guerini, 26 aprile 2011

Nel luglio scorso, a parti-re da alcuni specifici fatti di cronaca, l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP) aveva dif-fuso sui mezzi di stampa una posizione fortemen-te critica sull’utilizzo delle convenzioni ex ar-ticolo 5 della 381/1991, adombrando il sospetto che esse fossero impro-priamente utilizzate per affidare servizi socio as-sistenziali in deroga da procedure di evidenza pubblica o comunque fossero viziate da pale-si irregolarità. A tal fine l’Autorità ha realizzato un’indagine sugli affida-menti operati da un cam-pione di ASL.

Il testo, pur non ancora ufficialmente pubblicato, ha già dato origine ad al-cuni commenti rilevabili su organi di informazione e su internet. Purtroppo, come spesso accade, pre-vale ancora una lettura ideologica e scandalistica dei dati dell’Autorità, che, al contrario di quanto appare in fonti seconda-rie, evidenziano invece la

scarsa fondatezza delle critiche diffuse l’estate scorsa: si veda ad esempio l’arti-colo di Italia Oggi e la puntuale replica del presidente di Federosolidarietà Beppe Guerini: “L’analisi… evidenzia solo 2 irregolarità su 291 contratti… a fronte di irre-golarità quasi nulle sono occupati nelle sole cooperative sociali aderenti a Feder-solidarietà circa 15 mila soggetti svantaggiati”.

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2.4.2 Perché l’AVCP sbaglia Gianfranco Marocchi, 28 aprile 2011

Aveva iniziato nel luglio scorso, l’AVCP, a diffondere sugli organi di stampa dichiarazioni allarmanti: svariati miliardi di commesse affidate attraverso un’appliacazione illegittima dell’articolo 5 della legge 381/1991, che secondo l’Autorità era tra l’altro comunemente utilizzata a sproposito per affidare servizi socio assistenziali. Forse non si può proprio pretendere che nel nostro Paese alti funzionari pubblici parlino con una qualche cognizione di causa, certo che quel numero sembrava un tantino esagerato, ad esempio perché più alto del fatturato complessivo dell’intera cooperazione B in Italia. L’uscita, per quanto estemporanea, ha avuto l’effetto di gettare nel panico decine di amministratori locali propensi all’utilizzo delle convenzioni, che invece che essere considerati paladini di una concezione avanzata dell’amministrazione, si sono visti porre sul banco degli imputati, come furbetti in cerca di scorciatorie per aggirare il mercato e la concorrenza. Quante convenzioni, per questa ragione, non sono state stipulate? Quante persone con difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro sono rimaste a casa?

Ciò detto, sull’onda dell’annunciato scandalo, l’Autorità si disponeva ad un severo controllo per individuare e censurare l’illegalità: avrebbe avviato un’indagine per esaminare, contratto per contratto, l’effettiva sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’articolo 5 della 381/1991. Ora è uscito un primo (unico?) report di tale attività, che si è focalizzato su 291 affidamenti da parte di ASL e sul alcune leggi regionali. Bene, il report è in grado di documentare in modo certo l’illegittimità di 2 (due!) affidamenti diretti ex art. 5, lo 0,7% di quelli esaminati, in quanto concernenti importi superiori a quelli delle soglie comunitarie; per i quali quindi le amministrazioni avrebbero dovuto utilizzare le clausole sociali con competizione aperta a tutte le imprese (comma 4 dell’articolo 5 della 381, anziché il comma 1). Detto per inciso, in nessun caso è stato documentato un utilizzo dell’art. 5 della legge 381/1991 per affidare servizi socio assistenziali, aspetto che nelle dichiarazioni di luglio pareva essere il più diffuso degli scandali. Ci sarebbe da attendersi un’Autorità che si profonde in scuse pubbliche.

Al contrario. Dove non arrivano i dati, partono le considerazioni. L’argomentazione sottostante è che per quanto formalmente corrette (l’Autorità lo ammette), molte procedure di affidamento presentino anomalie. Ad esempio potrebbero riguardare periodi temporali più lunghi, che farebbero diventare l’importo sopra soglia o potrebbero aggregare un certo numero di servizi, con il medesimo risultato. Certo, potrebbero. In nessuno dei casi viene sostanzialmente documentato un’inoppugnabile frazionamento, ma si fa comprendere che in alcuni casi forse potrebbe esserci. Infatti, in via conclusiva l’autorità afferma (con quale autorità? in base a quale compito istituzionale?) “un sistema che preveda di anno in anno la sottoscrizione di una convenzione con la medesima cooperativa per l’erogazione del medesimo servizio… sia comunque in contrasto con la normativa nazionale e comunitaria in materia di contratti pubblici”. Insomma, un’Autorità che, in materia complessa e articolata, sceglie per sé l’insolito ruolo di interprete autentica della normativa (!). L’Autorità quindi non esita a prendere

posizione rispetto alla controversa questione della possibilità di affidare taluni servizi caratterizzabili come servizi pubblici locali, escludendo in modo estensivo l’utilizzabilità della 381/1991. E poi ancora se la prende con la pratica dei rinnovi, evidenziandone l’illegittimità. Viene poi dedicato spazio alla discussione di affidamenti in ambito socio assistenziale; per qualche imprecisato motivo, in questo festival dell’approssimazione, vi è stato chi ha risposto alla richiesta di inviare convenzioni ex art. 5 fornendo documentazioni di gara sui servizi alla persona; e l’AVCP, invece di cestinarle, ha ritenuto di commentarle, con considerazioni che meriterebbero un approfondimento ad hoc, ma che comunque sono estranee all’argomento oggetto di indagine.

Sintetizzando: a parte due violazioni esplicite, e tralasciando il molto materiale non rilevante rispetto al problema in questione, emergono alcuni casi che - laddove fossero effettivamente presenti dei vizi procedurali - potrebbero essere assimilabili a pratiche border line che molte pubbliche amministrazioni mettono in atto - 381/1991 o meno - con interlocutori di ogni tipo e per tutti i tipi di affidamento a fronte di proprie fatiche amministrative o come modalità per semplificare le procedure di gara. Rinnovi e frazionamenti, laddove esistenti, sono male pratiche, ma non peculiari dell’applicazione della 381/1991; non a caso, forse, la Commissione Europea, nel Libro Verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici, chiede esplicitamente se si ritenga opportuno introdurre modalità semplificate. Ma veniamo ora alla questione principale: perché? Perché questo accanimento dell’AVCP?

Forse la risposta sta in uno degli spropositi contenuti nella relazione, che in realtà è ben indicativo della filosofia sottostante. Dice l’Autorità a pagina 6 che, quando si riflette sugli affidamenti 381/1991, non si deve considerare la finalità dell’inserimento lavorativo in quanto “l’ambito è comunque quello degli appalti in quanto la tutela del diritto al lavoro dei disabili è garantita da altri strumenti previsti dall’ordinamento, quale è il sistema delle assunzioni obbligatorie di cui alla legge 68/99”. In sostanza: le convenzioni sono in primo luogo appalti, servono alle amministrazioni per procurarsi beni e servizi attraverso procedure semplificate e in quanto tali da restringersi a casi di eccezionalità non derogabile.

Che questa sia uno sproposito è abbastanza evidente (le convenzioni sono “finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate”, dice l’art. 5 della legge 381/1991, esistono proprio per questo secondo la legge, più chiaro di così!), ma questo abbaglio ben spiega l’impostazione dell’Autorità.

Una cosa sarebbe partire da un corretto inquadramento del problema: “il legislatore intende assicurare l’inserimento di persone svantaggiate sul mercato del lavoro e lo fa introducendo specifiche normative circa l’affidamento di commesse pubbliche, affinché esse siano utilizzate come strumento per perseguire l’integrazione sociale e lavorativa”. Ciò ovviamente non esclude la necessità di interrogarsi su circostanze e limiti dell’applicazione di tale norma, ma a partire dalla finalità – esplicitamente fatta propria dal legislatore – di assicurare l’inserimento lavorativo. Un’altra è svuotare di finalità gli affidamenti articolo 5, per cui tale norma si situa in un luogo di senso imprecisato (un favor alla cooperazione sociale? Un favor alle PA per appaltare più semplicemente? Una delle

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tante normative accatastate nei nostri codici, sopravvivenza di regalie accordate all’una o all’altra lobby, da superare in omaggio al principio di concorrenza?). In questo secondo caso, evidentemente, diventa prioritario limitarne il danno, restringendone quanto possibile l’applicazione. Una 381 (mal)tollerata, anziché una 381 motore di crescita e cambiamento sociale. 30 mila persone svantaggiate che oggi lavorano, i benefici sociali ed economici che ne conseguono, non sono bilanciati con altre istanze: semplicemente spariscono!

Detto per inciso. Una ricerca dell’Ires Piemonte su un campione di 200 affidamenti dimostrò due anni fa in modo documentato che anche in una grande regione del nord circa due terzi degli affidamenti (in questo caso nell’ambito dei servizi alla persona) erano basati su bandi contenenti aspetti di illegittimità. Bandi con basi d’asta sotto costo; in alcuni casi intermediazione di manodopera o comunque mortificazione della progettualità. In fondo si trattava di una ricerca che ha avuto una certa rilevanza pubblica e realizzata da un prestigioso Istituto. Come mai nessuna indagine in proposito? Come mai nel luglio scorso l’Autorità ha ritenuto di esporsi immediatamente con dichiarazioni pubbliche di grande portata, che non potevano che subito determinare conseguenze dannose per i lavoratori più deboli, senza prima accurate verifiche e sulla base di notizie frammentarie, di cui nei fatti in buona parte è emerso un debole riscontro; mentre è rimasta inattiva quando un autorevole Istituto terzo ha evidenziato diffuse problematicità nelle procedure di affidamento, reali e documentate, a danno della cooperazione sociale?

In conclusione. Probabilmente vi sono molti buoni motivi per auspicare un progressivo aumento di rilevanza per le clausole sociali in senso europeo: consentono di uscire dalla logica che vede il sociale confinato nel “piccolo” e nel “residuale” e soprattutto sarebbero un modo di affermare che il mercato in quanto tale, e non sue ristrette frazioni, deve uniformarsi a criteri di responsabilità circa l’inclusione sociale e lavorativa delle persone a rischio di esclusione; ma questo non può avvenire in contrapposizione all’utilizzo dell’articolo 5 della 381/1991, sia che esso sia agito attraverso convenzionamento diretto che attraverso procedura comparativa tra cooperative sociali. È possibile ragionare sugli strumenti, sui rapporti tra questi e il resto dell’impianto normativo che regola gli affidamenti pubblici, ma ciò va fatto con l’attenzione a contemperare principi diversi che godono di uguali tutele. In fondo forse giova ricordare che accanto alla sempre celebrata religione della concorrenza, esistono principi diversi, con cui va trovato un equilibrio. Siamo pur sempre in un Paese in cui “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” e in cui “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Insomma, in cui un’iniziativa della società civile per includere nel mercato del lavoro chi altrimenti vi rimane escluso dovrebbe godere di qualche attenzione. Ma questa è solo la Costituzione.

2.5 Creatori di valore aggiunto sociale

2.5.1 Riflessioni dall’Emilia Romagna Federsolidarietà Emilia Romagna, 30 novembre 2010

2.5.2 Punti di forza. Le buone prassi realizzate

La cooperazione sociale di inserimento lavorativo, nella nostra Regione, ha saputo mantenere e sviluppare in questi anni la sua specificità di essere un’impresa che produce beni e servizi finalizzati all’accoglienza e all’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate. Le principali innovazioni riguardano:

•La forte crescita sia di unità produttive che di lavoratori impiegati e la spinta su tutto il territorio regionale a costituire Consorzi per avere maggiore forza imprenditoriale e commerciale e per realizzare il sistema di cura e inserimento sociale della cooperazione sociale

•Lo sviluppo nel particolare settore dei committenti pubblici, nell’igiene ambientale, e delle multiutilies;

•La capacità di alcune Cooperative/Consorzi di creare alcune figure professionali non disponibili sul mercato – in particolare quelle del lavoratore guida, del tutor dell’inserimento lavorativo e del responsabile sociale – e strumenti per seguire e certificare l’acquisizione di abilità lavorative da parte dei soggetti svantaggiati.

Alcune Cooperative/Consorzi hanno definito meglio la propria mission e rafforzato le proprie specificità, anche utilizzando strumenti di rendicontazione sociale (bilancio sociale, codici etici, certificazione di qualità) adottando di fatto logiche e strumenti di supporto all’impiego entro strutture dedicate a questa specifica e prevalente finalità. Esse hanno così potuto evitare di trasformarsi in laboratori protetti, sono rimaste generalmente aperte al mercato del lavoro esterno, soprattutto quando si sono occupate di soggetti svantaggiati diversi dai disabili gravi, affermandosi come strumento specifico e peculiare nel panorama degli strumenti di politica attiva del lavoro.

2.5.3 Punti di debolezza e criticità evidenziate

•Difficoltà a comunicare e a far comprendere, in particolare alle pubbliche amministrazioni, il valore aggiunto dell’integrazione sociale, con il risultato di essere considerate, quando va bene, come un qualunque altro “fornitore”.

•Le cooperative B sono tendenzialmente di minori dimensione delle cooperative A, questo è un elemento di debolezza in una tipologia d’impresa che deve assom-mare competenze complesse e diversificate (in questo senso il ricorso ai Consorzi, rappresenta una risposta imprenditoriale al problema della dimensione).

•Scarsa patrimonializzazione e mancanza di soci sovventori finanziariamente capaci, con conseguente difficoltà d’investimento.

•Attività lavorative poco professionalizzanti. Produzioni con livelli intensivi di lavoro, di semplice esecuzione e a basso valore aggiunto: attività artigianali, atti-vità di assemblaggio, pulizie, manutenzione del verde pubblico e privato, servizi

16Dal Libro Verde al Libro BiancoLa cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo - Il percorso di Federsolidarietà Idee in Rete

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ecologici. Mancanza, nella maggior parte delle cooperative sociali di competen-ze tecniche operative per lo sviluppo di settori a più alto valore aggiunto.

• I contributi pubblici a sostegno dell’attività di inserimento lavorativo sono limitatissimi (non ci sono riconoscimenti anche economici del ruolo delle coop. B nelle politiche attive del lavoro), a fronte di un costo “sociale” alto (tutor, Responsabile Sociale) se le cooperative B vogliono realizzare compiutamente la propria mission.

•Non si è riusciti a creare, se non in rari casi, filiere strutturate imprenditorial/sociali con il sistema delle imprese e col mondo cooperativo in particolare a partire dalle cooperative di produzione-lavoro e di servizi che in alcuni segmenti di mercato risultano, anzi, essere i principali concorrenti delle cooperative sociali.

2.5.4 Le prospettive future. Le opportunità

•Le cooperative sociali d’inserimento lavorativo sono una risposta significativa e strutturata all’integrazione sociale delle fasce deboli per questo sono partner, non fornitori delle pubbliche amministrazioni, e svolgono una funzione pubblica (art. 1 L. 381/91).

•Esistono gli strumenti normativi, per realizzare parternariati con la Pubblica Amministrazione, come è successo in diversi territori della Regione, attraverso affidamenti diretti sotto soglia comunitaria (circa 200.000 e), inserimento di clausole sociali negli appalti sopra soglia (art. 2 comma 2 D. Lgs. 163/2006 ) e appalti riservati (art. 52 D. Lgs. 163/2006 ). Far diventare le buone prassi realizzate azioni di sistema a livello regionale.

•Esistono esperienze (Comune di Torino) di altre regioni (Piemonte) che a seguito di una legge regionale hanno fissato una percentuale di esternalizzazione di attività alle cooperative sociali per il ruolo di coesione e integrazione sociale che queste rappresentano (Regolamento comunale N° 307 del 31/03/05). Probabilmente è giunto il momento di rivisitare la nostra Legge Regionale N° 4/94 applicativa della 381.

•Costruire parternariati imprenditorial/sociali col sistema delle imprese. Le clausole sociali negli appalti pubblici costituiscono un elemento strategico per la realizzazione di parternariati realistici. Inoltre è necessario valutare la sperimentazione dell’art. 22 della L.R. 17/05, al fine di renderla meno burocratica e di più facile applicazione per le imprese e per le cooperative sociali.

•Le cooperative sociali d’inserimento lavorativo possono essere una delle risposte alla crisi economica e possono svolgere un ruolo importante (sia per quantità, sia per qualità) nelle politiche attive del lavoro realizzando in maniera integrata le seguenti attività:•valutazione delle competenze sociali e lavorative•attivazione di formazione mirata in situazione•progettazione di percorsi di transizione verso altre aziende•supporto ai servizi d’inserimento lavorativo della Provincia

•occupazione fasce deboli

•Per comunicare con più forza il ruolo di soggetto attivo nelle politiche attive del lavoro le cooperative B devono costruire parametri e indicatori per definire il VAS (Valore Aggiunto Sociale) che producono.

•La complessità del problema dell’inserimento delle fasce deboli del mercato del lavoro non può che essere affrontato in una logica di rete e di corresponsabilità, da parte di tutti i soggetti economici e sociali del territorio. Vanno create collaborazioni forti per uno sviluppo socio-economico sostenibile in una logica di Responsabilità Sociale dell’Impresa (RSI) e di Territori Socialmente Responsabili (TSR).

•Studiare la possibilità/opportunità di creare reti di vendita diretta o “delegata” dei prodotti delle cooperative sociali di inserimento lavorativo attraverso un’opera-zione di marketing sociale simile a quello operato nel commercio equo e solidale.

2.5.5 Cooperazione di inserimento lavorativo e valore aggiunto sociale

AICCON, 8 febbraio 2011

Il 7 febbraio si è svolto a Bologna un seminario regionale di approfondimento sul Libro Verde; oggi e nei prossimi giorni saranno pubblicati alcuni materiali presentati in tale occasione.

Oggi è la volta dell’anteprima di un lavoro in via di ultimazione, realizzato da Aiccon, “Il valore aggiunto della cooperazione di inserimento lavorativo“. La presentazione ha preso le mosse dalla discussione di alcune evoluzioni di scenario in atto, a par-tire dalla ridefinizione dei paradigmi economici: induce ad esempio alla riflessione verificare che da metà anni novanta la crescita economica non è più correlata con il grado di soddisfazione dei cittadini. Al tempo stesso i sistemi di welfare sono, come è noto, in crisi mentre cresce la differenziazione dei bisogni e la struttura demo-

grafica evolve sempre più verso una società anziana.

Viene da chiedersi: se in questi 25 anni si è assisti-to all’emersione di sogget-ti diversi dallo Stato nella realizzazione del welfare, verso quali scenari ci si sta dirigendo? Verso una “de-mocratizzazione” che vede le diverse componenti so-ciali compresenti, con un ruolo significativo del terzo settore o verso una “priva-tizzazione” che vede il mer-cato ordinario occupare gli spazi lasciati liberi dallo Stato?

Fig. 1 - PIL per abitante e livello di soddisfazione in Italia

18Dal Libro Verde al Libro BiancoLa cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo - Il percorso di Federsolidarietà Idee in Rete

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Fig. 2 - Possibili modalità di sviluppo del Welfare State

L’ipotesi “democratica” vede sicuramente molti sostenitori, e a ragione la cooperazione di inserimento lavorativo spesso considerata a livello europeo come un rilevante esempio di innovazione sociale, definita come “una soluzione innovativa a un problema sociale, più efficace, efficiente, sostenibile e giusta di quelle esistenti, che produce valore per la società nel suo complesso piuttosto che per i singoli individui”; ma cogliere questa opportunità richiede un approccio adeguato da parte della cooperazione sociale,meno preoccupata di difendere le piccole nicchie acquisite e più incline ad un approccio proattivo. Si tratta di valorizzare la propria capacità di “creare valore intraprendendo”, con ciò considerando il valore nelle sue diverse articolazioni: valore economico (si ricordano a questo proposito le numerose ricerche che comprovano il vantaggio, anche economico, dell’inserimento lavorativo), valore sociale (che non deve patire il rischio di isomorfismo verso quello economico), valore istituzionale e valore culturale.

valore economico > produzione di reddito per i soci/dipendenti/personale svantaggiato

> risparmio per la PA

> inclusione sociale: il disagio da problema a risorsa

> omogeneità con la funzione pubblica> operatività che non spiazza ma rafforza l’isituzione

pubblica> rafforzamento della governance territoriale

> nuova cultura di impresa: l’organizzazione a servizio della persona e non la persona a servizio dell’organizzazione

valore sociale

valore istituzionale

valore culturale

3 Imprese di successo3.1 Consorzio In Concerto: integrazione e

flessibilità per l’inserimento lavorativo In Concerto, Federsolidarietà Veneto, 6 aprile 2011

Il Consorzio In Concerto nasce nel 2002, ed è il completamento di un percorso sociale virtuoso, acceso dalla cooperativa socio assistenziale L’Incontro nel 1991, fondata nello stesso anno e di cui, quest’anno, si festeggia il ventennale. La cooperativa L’Incontro, dopo le prime esperienze di educazione e riabilitazione delle persone con disabilità psichiatrica attraverso attività lavorative, capisce l’indispensabile necessità per queste persone di avere accesso, dopo la prima fase di permanenza nei COD (Centri Occupazionali Diurni), al mercato del lavoro. Per questo la cooperativa stessa dà vita ad alcune cooperative di inserimento lavorativo, aggregandole poi, attraverso lo strumento consortile.

Tra gli aspetti più rilevanti dell’attività consortile, va evidenziato come In Concerto agisca da “referente e garante contrattuale” nei confronti dei principali clienti pubblici e privati, assicurando così agli associati il vantaggio competitivo delle offerte in “Global Service” che si configura più sovente nell’offerta di servizi di assistenza alla persona, congiuntamente a servizi di lavanderia, pulizie, catering e trasporti, cura del verde e manutenzioni, i quali a loro volta sono forniti da cooperative sociali che accolgono soci-lavoratori svantaggiati (a questo proposito In Concerto parla di “Social Global Service”).

In Concerto ha quindi una struttura fortemente integrata, ma anche fortemente flessibile, che facilita i processi di acquisizione di risorse finanziarie necessarie allo sviluppo, oltre che le economie di scala con i servizi trasversali. Ciò ha rappresentato un chiaro vantaggio nell’affrontare le criticità della crisi industriale, laddove la diversificazione produttiva ha premiato le cooperative dei servizi che

20 Cooperative Sociali di cui•6 Cooperative socio-assistenziali (tipo A)•14 Cooperative di inserimento lavorativo (tipo B) di cui:

• 2 del settore agricolo;• 5 del settore industriale;• 6 del settore servizi;• Consorzio di scopo (gestisce gli investimenti immobiliari del consorzio)

47.700.000,00 e

1.050 (anziani, utenti psichiatrici, disabili)

1.280 di cui:210 Soci lavoratori svantaggiati inseriti nelle Coop. B (per la maggior parte ex utenti psichiatrici ri-abilitati)

Fatturato al 31/12/2010:

Utenti assistiti:

Soci lavoratori:

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hanno continuato a crescere, mentre tutte le cooperative dell’area industriale hanno scelto, come era giusto ed ovvio, di non ridurre il personale, ma la loro altrettanto ovvia perdita è stata coperta dalla solidarietà di rete. Oltre a ciò diversi posti di lavoro sono stati garantiti dalla mobilità interna temporanea tra le cooperative, gestita attraverso un protocollo concordato con il Sindacato e la cui progettazione è stata condivisa con Veneto Lavoro.

Un ambiente produttivo così variegato presenta molteplici opportunità per gli inserimenti lavorativi di persone svantaggiate, sia dall’esterno che dall’interno (dai COD). Molto spesso, inoltre, il Consorzio gestisce direttamente, quale soggetto promotore, tirocini appositamente calibrati alla tipologia di disagio e/o di svantaggio.

3.2 Reagire alla crisi: l’orgoglio di essere cooperatori Redazione, 11 gennaio 2011

Questo articolo, pubblicato su Vita – SocialJob del 7 gennaio non parla solo di inserimento lavorativo, ma racconta come la cooperazione sociale, pur avvertendo tutta la gravità della crisi e guardando con preoccupazione ai tagli delle risorse sul welfare, abbia determinazione e capacità imprenditoriali per reagire alle difficoltà.

Accanto all’intervento del presidente Guerini, vengono riportate alcune esperienza direttamente connesse alla discussione del nostro blog:

“Nel profondo Nord-Est, il consorzio In Concerto di Castelfranco Veneto, di fronte alle difficoltà della crisi ha messo a punto una strategia su due fronti, interno ed esterno. «Nel 2009 abbiamo registrato una flessione dell’attività industriale del 6%, che ci permette molti inserimenti lavorativi, ma abbiamo mantenuto i livelli occupazionali, anche grazie alla scelta delle cooperative che hanno “coperto” il rosso con il 50% dei loro utili», ricorda il presidente Bruno Pozzobon. Mutualismo interno che però ha pagato: il 2010 chiuderà a quota +30%. Alla ripresa le aziende del territorio hanno ritenuto di poter affidare al consorzio nuove commesse, consentendogli anche di assumere (rispetto al 2009 circa 200 persone).”

3.3 Cooperazione B: siamo veramente imprese? Mauro Ponzi, CGM – Welfare Italia, 6 febbraio 2011

Nel corso del Seminario del 20 gennaio su cooperazione sociale e servizi pubblici locali è intervenuto Mauro Ponzi a nome di CGM – Welfare Italia. Il suo contributo è partito dall’evidenziare alcune questioni, anche provocatorie, che ci portino a riflettere su cosa intendiamo per inserimento lavorativo: produrre oggettistica scadente, oppure vendere prodotti ai mercatini parrocchiali, possono essere veramente considerate delle azioni di inserimento lavorativo, o talvolta si rischia di confondere lavoro e terapia occupazionale, rendendo le B di fatto delle A travestite? Questo rischio si può verificare sia per una tendenza al “buonismo” delle cooperative, sia per il tipo di rapporto che si instaura con la pubblica amministrazione, con il risultato di trasformare la cooperativa in uno “stoccaggio di bisogni” invece che un luogo di lavoro.

Contro questo rischio, Mauro Ponzi ha presentato l’esperienza del consorzio Oscar Romero di Reggio Emilia, dal primo protocollo di intesa tra cooperative sociali e azienda municipalizzata operante nel settore ambientale, risalente al 1994, sino ad oggi. Il consorzio è passato in questi anni da esperienze di lavori relativamente semplici, quali le guardianie alle isole ecologiche e lavori di spazzamento manuale delle strade a lavori complessi realizzati grazie ad investimenti significativi in mezzi e macchinari, da un fatturato di 385 mila Euro nel 1995 agli oltre sette milioni di Euro attuali, dalle iniziali 22 persone alle 113 del 2009. Tutto ciò è dunque l’esito della capacità di percepirsi come esperienza di impresa, di investire, professionalizzarsi, accettare e vincere la sfida del mercato per creare lavoro vero.

3.4 Le cooperative sociali che vincono la crisi Valerio Luterotti, 10 novembre 2010

Lo scenario generale di crisi comprende le cooperative B come tutte le altre imprese e rende obsolete scelte e formule imprenditoriali prima efficienti e redditizie. Peraltro la crisi si sta configurando non tanto nel carattere di naturale ciclicità ma come “crisis” strutturale della dinamica dei mercati, quindi, la risposta ad essa non può essere l’attesa speranzosa di un superamento temporale per riprendere da dove si era arrivati.

In questo caso la crisi o la si subisce soltanto, con epiloghi poco felici o la si utilizza per apprendere nuove strategie di rilancio e sviluppo.

Noi dovremmo interrogarci su cosa ci sta insegnando questa crisi, su cosa sta morendo e non sarà più valore da assumere e cosa può emergere di nuovo che possa dare speranza alle nuove generazioni; in tutto ciò cosa abbiamo da offrire noi cooperatori per sostanziare il nostro protagonismo con il coraggio dell’innovazione?

Ad esempio, in rapporto ai mercati, si vanno aprendo nuovi settori di mercato (salute, scuola, ambiente, beni culturali) che se non intercettiamo noi (gestione privata con logica pubblica non lucrativa) saranno occupati dalle imprese private capitaliste. Certo non lo possiamo fare attendendo che vi sia una legge che lo prevede con i dovuti finanziamenti per andare sul sicuro. Bisogna porsi seriamente il problema della capitalizzazione delle nostre cooperative, dell’aumento di rating per accedere alle risorse finanziarie per gli investimenti, della reale preparazione della nostra classe dirigente per intessere azioni che assumano il rischio d’impresa in tutte le sue valenze positive e negative; qui non siamo pronti noi e le opportunità ci sono.

Sempre in rapporto ai mercati, la moria diffusa di piccole e medie imprese potrebbe risvegliare la possibilità di attuare delle riconversioni produttive in chiave coopera-tiva, com’è da tradizione cooperativa ma, in particolare i cooperatori sociali hanno timore ad avventurarsi in questa direzione e valgono le considerazioni di cui sopra.

Rispetto al tema dell’occupazione che rimane la finalità principale delle coop. B, dovremmo renderci conto che il nostro vantaggio competitivo nell’inserire i lavoratori che gli altri escludono non è frutto di bravura casuale o di iperprotezionismo normativo né fiscale. Siamo più efficaci degli altri perché

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portatori di un modello di gestione delle risorse umane che andrebbe brevettato. Noi non facciamo progetti di tecnica riabilitativa sulle singole persone (come altri metodi di inserimento lavorativo), noi assumiamo la soggettività particolare del lavoratore escluso dal mercato come una variabile indipendente da cui partire per ricercare gli adattamenti tecnico organizzativi che permettano di continuare a garantire la sostenibilità produttiva, a parità di prodotto atteso, dell’intera azione d’impresa. Quindi in realtà, il progetto di inserimento lavorativo di una persona non è “il suo” progetto ma sarà frutto relazionato tra le sue particolarità e l’insieme dell’organismo cooperativo, fino a creare una pressione di conformità alla responsabilità, all’autonomia, alla crescita professionale del singolo che farà da dote al suo inserimento esterno.

A parità di qualità e quantità del prodotto d’impresa, modifichiamo le forme e i modi del processo produttivo.

Questo è un modello sistemico, ecologico, che fa della flessibilità accogliente dell’impresa il vero tratto specifico, il vero vantaggio competitivo rispetto alle altre aziende.

In questo senso scontiamo il ritardo del riconoscimento di valore aggiunto prodotto nell’inserimento lavorativo perchè anche noi, pur di essere riconosciuti dalle istituzioni preposte (tutte più inefficienti e fallimentari di noi ma spesso con più risorse a disposizione anche da sprecare) inseguiamo modelli altri da noi (l’educatore di accompagnamento, il responsabile degli inseriti, la pagella della performance adattiva della persona, ecc), dimenticandoci di valorizzare il vero specifico, fondato sulla capacità dell’intero organico della cooperativa di essere determinante per il risultato. Per questo la mia mai sopita enfasi sulla sottolineatura d’importanza dei lavoratori cosiddetti normodotati e che io definirei “iperflessibili” quand’anche “funambolici”.

3.5 Quali modelli di sviluppo per la cooperazione B Redazione, 28 novembre 2010

Anche se non si dispone di informazioni recentissime, le ultime rilevazioni di Federsolidarietà (2007) mettevano in mostra dati così riassumibili:• la crescita del numero di cooperative B nel decennio ha mostrato tassi superiori

alle cooperative A;•questo è avvenuto soprattutto nelle regioni meridionali;•si è realizzato soprattutto attraverso la nascita di una molteplicità di unità

cooperative di dimensioni molto piccole.

Da un certo punto di vista questi dati derivano da dinamiche fisiologiche: è normale che si abbiano tassi di crescita maggiori per il tipo di cooperazione (quella B) e nelle zone (sud Italia) dove fino a qualche anno fa era relativamente meno presente. Ed è normale che le cooperative nei primi anni della propria vita abbiano dimensioni inferiori. Ciò però non esime dal porsi alcuni interrogativi rispetto alle prospettive di sviluppo. Fare cooperazione B non è mai stato facile, ma oggi forse più di ieri si scontra con una minore sensibilità delle amministrazioni, troppo concentrate a

far quadrare i conti e con le difficoltà sul mercato che caratterizzano anche il resto del sistema imprenditoriale.

Forse, in questo frangente, è particolarmente importante evitare improvvisazioni. Se 10 o 15 anni fa un po’ di coraggio e buona volontà – più un convenzionamento articolo 5 in un mercato meno selettivo – potevano essere sufficienti, oggi lo scenario è diverso. Si tratta di riuscire a sopravvivere e a svilupparsi con le proprie forze avvalendosi, in quota venti – trenta volte maggiore rispetto alle altre imprese di forza lavoro che queste rifiutano ritenendola improduttiva. Di confrontarsi con situazioni di mercato in cui determinate lavorazioni conto terzi soffrono della concorrenza di paesi emergenti, in cui i concorrenti profit in ambiti tradizionali della cooperazione sociale come verde, ecologia, pulizie affilano le armi per non perdere quote di mercato. La strategia di crescita va impostata tenendo conto della necessità di competere con professionalità, reputazione, investimenti in un contesto competitivo. E difficilmente questo si accorda con modelli eccessivamente diffusi.

3.6 L’orgoglio di vivere del proprio lavoro Nuovi Sentieri, Federsolidarietà Puglia, 13 febbraio 2011

La cooperativa Nuovi Sentieri è stata presentata come buona prassi da Federsolidarietà Puglia nel seminario del 24 gennaio. La cooperativa opera nell’inserimento lavorativo dei soggetti diversamente abili (che rappresentano ben il 70% dei lavoratori) attraverso la gestione inizialmente dei servizi di pulizia e, da qualche anno, di serre per la produzione di piante aromatiche. Il problema che la cooperativa ha dovuto subito affrontare in questo secondo settore, avviato anche grazie ad un progetto Fertilità, è stato quello di come conquistare il mercato e i clienti. La cooperativa ha intrapreso un percorso di scelte molto forti ed etiche, decidendo di rispettare in toto i dettami del CCNL di riferimento, la normativa in materia di collocamento, vincoli spesso disattesi ed elusi dal mondo del privato, puntando quindi sulla realizzazione di prodotti di qualità.

Ciò che resta difficile da comunicare, sottolineano dalla cooperativa, è il valore so-ciale che si nasconde dietro una piantina prodotta. Non si tratta di una semplice pianta ma di un insieme di persone che hanno la volontà di riscattarsi socialmente, di occupare un posto da cittadini a pieno titolo nel nostro Paese, distanziandosi dal-le logiche assistenzialistiche che spesso governano l’esistenza dei soggetti diversa-mente abili. Con orgoglio e dignità, alcuni lavoratori della cooperativa hanno scelto di rinunciare alla pensione sociale di invalidità pur di poter continuare a lavorare in cooperativa e sentirsi parte attiva del ciclo produttivo della comunità in cui vivo-no contribuendo attivamente alla produzione del sistema economico. Tra l’altro la scelta operata da questi soggetti determina un contenimento dei costi assistenziali realizzando un importante alleggerimento dello Stato sociale e del carico familiare.

Al fine di valorizzare questa esperienza, si sta tentando, con il consorzio a cui è associata la cooperativa, di realizzare una sorta di piattaforma commerciale sul web (e-bay sociale) che possa non solo incentivare la commercializzazione dei prodotti ma anche divulgare il concetto di cooperative sociali a “doppio prodotto”

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I quaderni di 2Idee in ReteConsorzio Nazionale

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(l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, in primis, e la produzione/erogazione di beni e/o servizi). È necessario, inoltre, promuovere protocolli, accordi, reti con altri soggetti presenti sul territorio e che possono rappresentare un valore aggiunto all’intera operazione sociale messa in atto dalle singole cooperative o dal movimento nel suo insieme.

Va anche segnalato che la cooperativa è stata protagonista della sottoscrizione della prima convenzione in Puglia in applicazione all’art. 12 bis della L. 68/99. La convenzione prevede, accanto allo svolgimento del servizio di pulizia, anche il servizio di tutoraggio che fa sentire l’impresa garantita dalla presenza della cooperativa sociale di tipo B.

3.7 Emilia Romagna, le cooperative che resistono alla crisi

Federsolidarietà Emilia Romagna, 25 febbraio 2011

I lavori del seminario sul libro verde di Bologna del 7/2 sono stati aperti dal presidente di Federsolidarietà Emilia Romagna Gaetano De Vinco, che nella sua relazione, di seguito sintetizzata, ha evidenziato i dati principali della cooperazione emiliano romagnola.

La cooperazione sociale emiliano romagnola ha reagito alla pesante crisi economica di questi ultimi anni: ha continuato a crescere aumentando ulteriormente la propria presenza sul territorio. Nel periodo 2007/2010 a livello aggregato il valore della produzione sviluppato in regione dalle cooperative sociali di Confcooperative è aumentato costantemente con una crescita a due cifre (+12,5%) tra il 2007 ed il 2008 (da 510 a 575 milioni di euro), del 5,6% tra il 2008 e il 2009 (607 milioni) e del 7% nel 2010, quando il volume d’affari ha raggiunto i 650 milioni.

In progressivo aumento anche gli occupati, passati dai 14.600 del 2007 (di cui 10.750 soci lavoratori) ai 17.950 del 2010 (di cui 12.950 soci lavoratori). I soci totali sono saliti da 23.500 a quasi 26.000 unità. Trend in aumento, infine, anche per le cooperative sociali aderenti a Federsolidarietà/Confcooperative Emilia Romagna, passate, nel quadriennio 2007/2010, da 386 a 411 con un aumento pari a circa il 6,5%. Di queste, 149 sono cooperative di tipo B, vale a dire specializzate nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, che nel 2010 hanno raggiunto le 1.486 unità

Fatturato (ML di Euro)

Cooperative

Soci

Occupati

Lavoratori soci

510

386

23.502

14.605

10.753

575

392

24.645

15.954

11.762

607

396

25.541

17.043

12.357

650

411

25.966

17.944

12.952

2007 2008 2009 2010

(+12,7% sul 2009). Da segnalare inoltre il dato decisamente positivo riguardante gli ammortizzatori sociali: nel biennio 2009/2010, il periodo in cui la crisi economica si è fatta sentire più pesantemente, anche in Emilia Romagna, all’interno della Federsolidarietà regionale la cassa integrazione ha interessato complessivamente soltanto 9 cooperative per un totale di 110 lavoratori.

Con ciò non vengono nascosti gli elementi di difficoltà: la progressiva diminuzione delle risorse pubbliche, il costante allungamento dei tempi di pagamento da parte della Pubblica Amministrazione, la sempre più onerosa gestione delle procedure, la contrazione dei margini operativi lordi. Tutti questi fattori rappresentano un rischio per la sopravvivenza di centinaia di imprese sociali con particolare riguardo alle cooperative specializzate nell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, che devono fare i conti inoltre con la tendenza delle industrie a reinternalizzare i servizi a causa della crisi e con la propensione delle società multiservizi a concedere lavoro alle cooperative di inserimento lavorativo solo se queste applicano i contratti in vigore per le aziende di Confindustria.

3.8 Qualche volta le cooperative B fanno fatica Federsolidarietà Puglia, 25 febbraio 2011

Nel seminario di Federsolidarietà Puglia del gennaio scorso, accanto alle esperienze di successo, è stata raccontata anche un’esperienza difficile, che merita di essere raccontata per riflettere sul tema del mercato in cui opera una cooperativa sociale di tipo B.

Una cooperativa sociale salentina aveva deciso, dato i buoni esiti che stava riscuotendo sul mercato, di fare degli investimenti realizzando due settori produttivi a livello industriale, una dedicato alla cartotecnica e l’altro alla legatoria, superando ed abbandonando il livello artigianale. A causa del cambiamento del mercato, che si è manifestato al termine della realizzazione degli investimenti, la cooperativa ha iniziato a subire una forte crisi. Il settore della cartotecnica, infatti, si è trovato a competere con l’ingresso sul mercato dei prodotti asiatici; lo stesso è avvenuto per il settore della legatoria, dove nonostante l’abbattimento degli oneri sociali per l’assunzione dei soggetti svantaggiati, la cooperativa non è stata in grado di competere con i prezzi dei prodotti offerti dai mercati asiatici. L’esperienza si è risolta con la vendita della struttura ad un’impresa profit e l’abbandono del sogno e progetto di inserimento lavorativo attuato in forma cooperativa.

L’esperienza ha insegnato, innanzitutto, la necessità di orientare la cooperativa alla stregua di una qualsiasi altra tipologia di impresa presente sul mercato ed operante nello stesso settore produttivo ma anche l’opportunità di usare chiavi di lettura del mercato simili a quelle del mondo profit, capaci di leggere i cambiamenti in atto e prevenirne le eventuali conseguenze. Allo stesso tempo, si è evidenziata l’urgenza di avviare delle strategie di collaborazione ed azioni innovative con il mondo delle imprese profit, che possano supportare i processi e progetti avviati dalle cooperative sociali, valorizzando il contenuto della mission aziendale di queste ultime.

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4 Imprese che cooperano4.1 La rete motore dello sviluppo ISNet, 4 aprile 2011

Alla ricerca di alternative ri-spetto alle commesse del set-tore pubblico, sono sempre più numerose le cooperative so-ciali che vedono nell’alleanza con altre organizzazioni non profit, una reale opportuni-tà. Se negli ultimi tre anni ca-lano le relazioni delle imprese sociali con gli enti pubblici, gli enti locali, le aziende, le orga-nizzazioni di rappresentanza e coordinamento e i media, in-vece le relazioni con altre coo-perative sociali, ovvero quelle di natura orizzontale, tendono ad un lieve aumento.

Tuttavia, i livelli generali di soddisfazione, per le relazioni instaurate dalle cooperative sociali con i diversi stakeholders, sono in progressivo calo, anche nel caso delle partnership tra organizzazioni dello stesso livello:

L’Osservatorio Isnet sull’impresa sociale ha più volte evidenziato lo stretto legame tra dinamicità relazionale, corrispondente al livello di soddisfazione e andamento economico positivo. Per generare sviluppo, quindi, ogni azioni tesa all’incremento delle relazioni dovrebbe essere accompagnata da una costante verifica delle opportunità e da continui controlli degli indici di efficacia.

4.2 Quali reti per l’inserimento lavorativo Federsolidarietà Veneto, 18 febbraio

Su quali rapporti puntare

Innanzitutto con i clienti (Enti Pubblici ed Aziende), con gli Attori pubblici locali, investendo nella co-progettazione (Comuni, Province, Regione), con gli

Rapporti con altre organizzazioni non profit

Soddisfazione nelle relazioni con le alre organizzazioni non profit

Soddisfatti

Né né

Insoddisfatti

Totale

66,2%

28,4%

5,4%

100%

64,9%

27,6%

4,9%

100%

79,8%

17,9%

2,4%

100%

2010 2009 2008

stakeholder che ne condividono obiettivi e intenti (Associazioni e Consorzi, ma anche fondazioni, banche ed istituti di credito). È importante che la cooperazione sociale non viva solo di bandi, ma che cerchi anche un dialogo con fondazioni e bandi per raccogliere fondi da re – investire nelle proprie attività.

Alleanze per la crescita delle persone

Stringere alleanze anche con scuole (provincia, assessorato all’istruzione) già dall’inizio del percorso formativo della persona è importante per non trovarsi poi con ragazzi/adulti di cui non si sa niente o poco con conseguente difficoltà a costruire dei percorsi.

Tre direzioni per costruire reti

1) Contesto della cooperazione: una cooperativa non può restare fine a se stessa (soprattutto le B), dinanzi alle domande e sfide che vengono richieste dal mondo imprenditoriale/produttivo. Fondamentale in questo senso l’importanza della Federazione, una cooperativa è agevolata se è dentro un contesto di consorzio territoriale, e importanti sono anche gli accordi tra consorzi trasversali per territori, non tanto e non solo per materia. La costruzione delle reti, lavoro che va riconosciuto come fondamentale, ha permesso e permette alle cooperative dei nostri territori di avere legami, contatti e opportunità non solo a livello locale ma provinciale o regionale. inoltre si deve tenere presente che la concorrenza l’abbiamo al nostro interno, oltre che al mondo profit.

2) Contesto del mercato: nel mercato non esiste il privilegio, nel mercato esiste la convenienza (e la concorrenza). Concetto del bene comune: inteso come bene comune delle cooperative che si alleano e della comunità nella quale si svolge il servizio. I nostri interlocutori nel mercato sono l’ente locale e l’azienda.

2a) Ente Locale: oggi vede nella cooperazione non più un soggetto di collaborazione ma uno strumento da sfruttare per mantenere determinati servizi a costi inferiori. Dando meno valore all’inserimento lavorativo e più valore al massimo ribasso (indipendentemente da chi lo offre). Anche la legislazione specifica che permetterebbe affidamento diretti, è conosciuta solo da alcune parti dell’ente (solitamente quella politica), e non da altre (funzionari, dirigenti). Alcune esperienze soprattutto nei piccoli comuni hanno portato a essere interlocutori ed esecutori di alcuni strumenti e soluzioni con la pubblica amministrazione, per cui riteniamo necessario sempre più essere competenti in termini tecnici per offrire la soluzione.

2b) Aziende profit: sul rapporto con le aziende ultimamente stiamo vedendo l’associarsi in ATI ad aziende per partecipare ad appalti, lavorando insieme su costruire clausole sociali. È un mercato in cui si supera la logica della concorrenza associandosi, non si può chiedere all’azienda di fare il bene sociale. L’imprenditore vede la sua prospettiva profit, il sociale deve proporgli l’abbinamento con il valore sociale, e l’abbinamento deve essere di plusvalore, non di “plusfiga”. È necessario diffondere un cambio di mentalità per fare questo salto mentale, per essere interlocutori alla pari, per chiedere e avere lavoro secondo nuove prospettive.

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2c) Banche e finanza: non facciamo sviluppo finanziario, facciamo pochi mutui, abbiamo paura. Le cooperativa sociali hanno soldi fermi, non hanno un progetto di sviluppo finanziario. Rispetto alla finanza è necessario cambiare mentalità all’interno della cooperativa, nella quale vengono messe in atto e prese scelte di massima garanzia perché la scelta poi ricade su tutta la base sociale, questa non è una mentalità imprenditoriale, non c’è rischio di impresa, che è elemento fondamentale nella scelta e nel fare azioni finanziarie.

3) Contesto dell’inserimento lavorativo: manca forse una riprogettazione di tutta la filiera. La fase di formazione vera e propria propedeutica all’inserimento lavorativo, dobbiamo lasciarlo ad altri (es. coop. Tipo A), perché deve arrivare in B già “produttivo”, sia esso normodotato o svantaggiato. Inoltre bisogna rafforzare le relazioni con i servizi per l’inserimento lavorativo, con le scuole, come enti di collegamento per la cooperazione, con gli Enti di formazione.

4.3 Esperienze

4.3.1 Gorizia, un’alleanza per l’inserimento lavorativo e l’integrazione sociale

Il Mosaico – Federsolidarietà Friuli Venezia Giulia, 20 marzo 2011

Una delle buone prassi presentate il 20 gennaio nel seminario di Roma riguarda un complesso di interventi attivati dal consorzio Il Mosaico di Gorizia – Udine in partenariato con le Aziende Sanitaria Locali, che hanno come oggetto interventi di integrazione sociale e lavorativa in particolare di persone con problematiche di salute mentale.

Il punto di partenza è costituito dal Progetto Riabilitativo Personalizzato(PRP) che è redatto congiuntamente da Consorzio e Azienda sanitaria. Il PRP è uno strumento di programmazione degli interventi riabilitativi stabiliti a partire dai reali bisogni della persona in carico, cui sono assegnate un insieme di risorse anche economiche (Budget di salute); dunque ogni PRP è accompagnato da una “dote” che permette l’attuazione del progetto stesso. L’insieme di questi budget costituisce quindi il budget dell’intero intervento, consentendo di programmare e sostenere gli interventi e gli investimento che si sono comunemente decisi.

Il progetto si articola su tre assi principali: quello della salute / socialità, quello del lavoro e della casa. Rispetto al lavoro, dal confronto tra partner è derivato l’orientamento ad investire su determinati settori che sono stati ritenuti particolarmente appropriati per favorire l’inserimento lavorativo; ciò ha avuto come esito la costituzione di alcune cooperative sociali ad oggetto plurimo, in particolare su settori aperti al mercato (una trattoria, un laboratorio con negozio annesso, un’azienda agricola, oltre alla gestione di un parco naturale e recentemente di un maneggio). Oggi sono occupate circa 80 persone svantaggiate in queste attività.

Il lavoro è un tassello di un progetto più ampio, che, oltre agli aspetti di cura e supporto psicologico e psichiatrico, comprende un’azione specifica per assicurare

l’autonomia abitativa, garantita attraverso la disponibilità di 20 appartamenti che si aggiungono a 35 posti presso strutture comunitarie.

L’asse sulla socialità prevede l’attivazione ed il sostegno di iniziative finalizzate a facilitare e rendere prassi quotidiana la frequentazione di contesti di relazione comunitaria. Facilitata forse dalla distribuzione demografica (comuni piccolissimi, spesso anche frazioni) punta anche ad intervenire rispetto alla rimozione dello stigma ancora preesistente rispetto ai temi della malattia mentale.

4.3.2 Veneto, cooperativa Primavera: l’innovazione è imparare dalle buone prassi, realizzarle e diffonderle

Paolo Tosato, cooperativa Primavera – Federsolidarietà Veneto, 17 aprile 2011

Cercare di offrire nuovi spunti e nuove idee per le cooperative sociali di tipo B rischia di essere semplicemente un esercizio mentale che facciamo credendoci degli innovatori mentre per lo più siamo cooperatori che hanno percorso delle strade, in gran parte già percorse da altri, imparando dagli errori altrui e valorizzando invece le felici intuizioni. Non ho difficoltà ad ammettere che gli strumenti che ci hanno permesso, pur in periodi di crisi, di aumentare le attività e di far partire nuovi settori, siano stati mutuati da altre realtà; senza mezzi termini direi che abbiamo copiato la progettualità del Consorzio InConcerto, e lo spirito d’impresa nel settore edile di alcune cooperative bresciane che ci hanno offerto la loro esperienza. Non credo conseguentemente che trovare nuove strade sia il nostro fine, credo che l’innovazione fine a se stessa risulta essere una perdita di tempo, credo che la prima innovazione sia riscoprire il nostro essere cooperative sociali. Per questo veniamo preferiti ad altre forme d’impresa per questo ci distinguiamo e questo è il nostro valore aggiunto.

Questo non significa sottovalutare gli aspetti tecnici del nostro lavoro. Crescere in termini di competenze e di imprenditorialità sono passaggi fondamentali e dirimenti rispetto al futuro delle nostre realtà, ma sono sforzi inutili se non mettiamo preliminarmente in chiaro che la cooperazione sociale fa bene il proprio lavoro mantenendo l’obbiettivo sulla promozione della persona e sul sostegno alle fasce deboli. Questo significa fare quello che gli altri non fanno, prima di tutto perché siamo quello che gli altri non sono.

Sicuramente dobbiamo puntare all’eccellenza, e per questo dobbiamo in spirito cooperativo addestrarci tutti a valorizzare, senza rivalità ed invidie, all’interno del nostro mondo le esperienze migliori e porle a sistema, imparare da queste perché alzino la qualità del nostro essere imprese. Come in una gara ciclistica la fuga di alcuni alza la velocità media del gruppo, così nel sistema della cooperazione sociale le punte di eccellenza devono essere da stimolo per tutti per crescere e per affrontare un mercato che ha posto come valore fondamentale per il proprio esistere la libera competizione fra tutti gli attori economici. E per competere dobbiamo fare bene il nostro lavoro ma farlo in modo diverso, portando un valore aggiunto che altri non possono portare.

Non ho difficoltà ad affermare che in un momento di crisi occupazionale le coope-rative sociali, A e B indistintamente, non si possono chiamare fuori. L’occupazione, il lavoro ed il reddito, nella nostra società, sono fondamenti indispensabili per il

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benessere della persona. Credo che siamo chiamati ad intervenire la dove c’è un bisogno reale e dove la nostra sussidiarietà può davvero fare la differenza. Creare posti di lavoro stabili in un momento in cui le altre forme d’impresa perdono occu-pazione ci dà finalmente la possibilità di distinguere e di affermare una volta anco-ra, e credo con maggiore forza, che la cooperazione sociale è una forma d’impresa che può davvero cambiare in meglio la società. Ed è questo che dobbiamo mettere in mano ai nostri rappresentanti di Federsolidarietà perché venga messo a valore nelle sedi opportune e ci consenta di trarre vantaggi per tutto il sistema.

Purtroppo, e dispiace dirlo, talvolta il limite delle cooperative è quello di saper cooperare. Le difficoltà nel mettere insieme realtà diverse sono enormi e a volte non basta nemmeno la necessità ad indurre i cooperatori a trovare le strade per superare le difficoltà. Probabilmente su questo aspetto è necessario un impegno particolare dell’associazione di rappresentanza, impegno volto a far comprendere innanzitutto come il novanta per cento delle nostre realtà da solo non ha le dimensioni per competere nel prossimo decennio in un mercato che continua ad alzare la soglia minima di sopravvivenza ed in secondo luogo a formare cooperatori prima che manager, persone interessate al benessere della persona prima che buoni contabili, perché le capacità tecniche, seppur indispensabili, si possono imparare, le capacità umane e l’essere cooperatori invece è un modo di essere e per questo va formato.

4.3.3 Cento Orizzonti, profit e non profit scommettono insieme

Cooperativa Cento Orizzonti, Federsolidarietà Veneto, 13 aprile 2011

Tra le esperienze presentate nel seminario di Federsolidarietà Veneto vi è quella del consorzio Cento Orizzonti. Si tratta di un consorzio stabile, nato per sviluppare una forte struttura centralizzata per l’analisi e lo sviluppo delle progettualità e di controllo dell’operatività, valorizzando al tempo stesso le realtà territoriali, in alcuni specifici settori di attività:•prenotazione telefonica delle visite;•gestione documentale;•archiviazione;•gestione di sportelli;•gestione di call center.

Si tratta di attività che se ben gestite hanno un forte impatto territoriale e un notevole riconoscimento sociale; è un settore particolare, non presidiato da “società pubbliche”. Anche la cooperazione era assente; si trattava di servizi a gestione pubblica che ad un certo punto hanno inziato a rappresentare uno spazio di mercato libero (poi velocemente riempitosi), che Cento Orizzonti ha in parte occupato con un ruolo da protagonisti. Cento Orizzonti ha quindi una sola mission: “portare a casa lavoro per i suoi associati”. Questo per creare e consolidare occupazione, soprattutto a favore di persone svantaggiate. Come ovvia conseguenza vi è quella di difendere gli investimenti dei soci.

Gli aspetti di particolare interesse sono la scelta societaria (Cento Orizzonti è un consorzio stabile) e il fatto che Cento Orizzonti abbia come propri associati per

il 50% soggetti for profit e per il 50% cooperative sociali.

Rispetto alla forma societaria, la soluzione è stata adottata dopo averne scartato le altre che sarebbero risultate paralizzanti sul piano della partecipazione alle gare. Di fatto, in sede di gara in caso di RTI ogni volta sarebbe stato necessario acquisire la documentazione di tutte le cooperative, mentre nel caso di consorzi non stabili o cooperativi sarebbe stato necessario organizzare volta per volta forme di avvalimento.

La collaborazione con il profit nasce dalla consapevolezza che le cooperative sociali avevano bisogno di supporto per la parte tecnologica e avevano, da sole, minore capacità di investimento, oltre che una certa inesperienza. Il profit ha inoltre messo in mostra la capacità di investire sul fronte commerciale in misura che non sarebbe sostenibile per le sole cooperative sociali. Da parte loro le cooperative sociali hanno invece il valore aggiunto del radicamento territoriale diffuso, quello che manca alle imprese profit di medie e grosse dimensioni: la capacità di intercettare umori, informazioni, conoscenze del territorio, combinata con la capacità di creare un interfaccia diretto con le istituzioni pubbliche locali, che consente di raggiungere mercati o nicchie di mercati che altri competitor non possono raggiungere.

4.3.4 Città dei Mestieri di Roma, un’alleanza per il lavoro Solco Roma, 13 marzo 2011

Nel corso del seminario nazionale del 20 gennaio sono state presentate alcune esperienze di buone prassi nel rapporto tra cooperazione sociale e pubbliche amministrazioni; una di queste è la Città dei Mestieri e delle Professioni di Roma.

La Città dei mestieri di Roma sorge su uno spazio di 450 metri quadri, in un bene confiscato alla mafia e rappresenta uno spazio di informazione e orientamento sui percorsi formativi, lavorativi e professionali: è aperto a tutti, con accesso libero, gratuito, senza appuntamento. Al suo interno gli utenti possono usufruire di documentazioni specializzate, strumenti multimediali, materiali aggiornati sulle tematiche del mercato del lavoro, delle professioni e della formazione, funzionali a quattro possibili esigenze: fare impresa, cercare lavoro, scegliere la formazione, orientarsi nelle scelte.

Il modello delle Città dei Mestieri è nato a Parigi nel 1993; si è costituita l’Associazione delle Città dei Mestieri che ha formalizzato un disciplinare da ottemperare per ottenere il “label” e aprire una nuova città dei mestieri. Tra gli elementi distintivi di questa esperienza vi è il partenariato tra soggetti pubblici e privati, per integrare e condividere competenze e le risorse, anche economiche. I partner coinvolti possono essere istituzioni locali, istituzioni scolastiche e universitarie, parti sociali e datoriali, organismi di formazione e di orientamento territoriali, organismi rappresentativi a livello locale (fondazioni, banche, associazioni ecc..); questi enti stipulano tra loro dei protocolli d’intesa che formalizzano gli impegni di ciascuno per la riuscita del progetto. Nell’esperienza di Roma i partner sono Solco Roma, capofila ed ente depositario del label, Consorzio Idea Agenzia per il Lavoro, Comune di Roma – Municipio X, Provincia di Roma, Regione Lazio, Associazione ANIMA – Unione degli Industriali e delle Imprese di Roma, alcuni media locali, e le aziende sanitarie. La Città dei Mestieri di Roma, inaugurata nel giugno 2009, conta ad oggi

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circa 2000 utenti così suddivisi:• ricerca del lavoro e Orientamento professionale: circa n. 800 utenti sostenuti

nella ricerca del lavoro, grazie al partner Consorzio Idea Agenzia per Il Lavoro;•creazione di Impresa: circa n. 800 utenti indirizzati a percorsi di auto-

imprenditorialità con il sostegno di Associazione ANIMA;•scegliere una formazione: circa n. 400 utenti orientati ai percorsi formativi e

di qualificazione professionale, previsti dalla Regione Lazio e dalla Provincia di Roma;

•accompagnamento all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati (disabili, immigrati, ex detenuti ecc.): circa 60 disabili psichici sostenuti nei percorsi di inserimento lavorativo e 40 immigrati, ex detenuti, disoccupati over 40 sostenuti nell’inserimento lavorativo, in collaborazione con i Servizi Sociali del Municipio Roma X, cooperative sociali partner, associazioni del terzo Settore e aziende sanitarie.

4.3.5 Alternativa Ambiente: l’integrazione con il pubblico e la scommessa sulla rete

Alternativa Ambiente, 10 aprile 2011

Nel 1989 nasce a Treviso la cooperativa Alternativa, che individua la sua mission nell’accoglienza di persone provenienti dell’area della devianza e dell’emarginazione, finalizzata dapprima ad un percorso riabilitativo occupazionale e successivamente all’inserimento lavorativo; questa attività si sviluppa in stretta interazione con la pubblica amministrazione del territorio. La Cooperativa vede da subito la possibilità di sviluppare le proprie attività d’impresa nell’ambito dei servizi ambientali; inizia da subito con i servizi di raccolta carta, cartone e lattine in alluminio. Questa intuizione dà il via ad una serie di collaborazioni con molti Comuni del territorio e con i primi Consorzi di Comuni, che affidano questi servizi alla Cooperativa principalmente con lo scopo di razionalizzare la raccolta dei rifiuti e contenerne i costi, intraprendendo un sistema di “porta a porta spinto” grazie a cui oggi nell’area la raccolta differenziata si attesta all’80% dei rifiuti raccolti. In questo contesto, nei primi anni ’90, nasce e si sviluppa Alternativa Ambiente, cooperativa sociale di tipo B che si sostituisce ad Alternativa per quanto attiene gli inserimenti lavorativi.

Negli anni seguenti il lavoro si sviluppa ulteriormente, grazie al rapporto con enti locali e società di servizi; per la Cooperativa sono questi anni in cui il fatturato cresce in maniera esponenziale, passando dai primi 500 mila Euro a quasi 6 milioni di fatturato in poco tempo. Oggi la cooperativa dà lavoro ad oltre 250 persone, con una percentuale di svantaggio che si aggira attorno al 50%. La significativa integrazione con i soggetti pubblici è ben rappresentata dal fatto che nel 2005 il presidente di Alternativa Ambiente viene indicato come presidente della società che assicura i servizi ambientali agli enti locali del territorio.

Oggi Alternativa Ambiente, sotto la regia di Federsolidarietà Treviso, ha costituito, insieme ad altre cooperative del territorio e a due consorzi di cooperative sociali Intesa e In Concerto come soci sovventori, un consorzio di scopo che si interfaccerà con i consorzi di enti locali e le loro società di servizi. Con questa

scelta si intendono affrontare le difficoltà formali emerse circa l’affidamento di commesse a cooperative sociali, soprattutto in questi settori di attività, nonché unire competenze e risorse significative. Questa scelta porterà infatti ad aggregare un gruppo di cooperative che vanta un fatturato nel settore dei servizi ambientali che complessivamente si aggira attorno ai 7/8 milioni di euro, ma anche una forza lavoro che si attesta attorno alle 300/350 unità, un parco automezzi che supera le 100 unità, una serie di iscrizioni alle categorie merceologiche estremamente ampio ed una serie di certificazioni (ISO 9001, 18000 etc ). Tutto questo rappresenta una reale garanzia anche per eventuali appalti al di fuori del contesto provinciale, rendendo il Consorzio in grado di confrontarsi ad un certo livello con i competitor del mondo profit.

4.4 L’internazionale dell’inserimento lavorativo Flaviano Zandonai, 12 gennaio 2011

Ci sono molti buoni interventi in questo blog, che nel loro insieme dimostrano la ricchezza di conoscenze e di dati di esperienza intorno al fenomeno delle imprese sociali di inserimento lavorativo. Disponiamo insomma di un serbatoio ben fornito per una buona attività di policy making in vista del cambio di colore del libro: da verde a bianco. Mi permetto quindi solo una piccola suggestione, dedicata ad un campo di osservazione specifico, forse neanche di primaria importanza. Riguarda la dimensione internazionale dell’inserimento lavorativo e delle imprese che si sono specializzate in questo settore. Sì, perché in qualsiasi posto del mondo (o quasi, comunque ben oltre i confini della vecchia Europa), per dire “impresa sociale” senza avvitarsi in pericolose contorsioni teorico concettuali e normative, basta far riferimento a “inserimento lavorativo”. Ricordo a proposito un’iniziativa del tutto simile alla più ordinaria cooperativa sociale di tipo B italiana – inserimento di persone disabili in attività di verde pubblico – che però aveva sede a Bogotà, in Colombia. Il tutto senza 381, sgravi sugli oneri, clausole sociali, ecc. L’impresa sociale di inserimento lavorativo è quindi l’esperienza che meglio rappresenta i fondamentali di questo particolare modello imprenditoriale: sviluppo bottom up, approccio all’inclusione attraverso politiche di attivazione degli utenti, dimensione produttiva non simulata, governance partecipata. Il problema è andare oltre questa presa d’atto. E riuscire ad impostare azioni di sviluppo che mettano a valore le potenzialità derivanti da questo carattere globalizzato. Le opportunità ci sono, anzi forse ci sono state. Il Fondo sociale europeo ha infatti finanziato molte iniziative di scambio. Qualcuno ricorda, ad esempio, la “famosa” transnazionalità dei progetti Equal? Onestamente non credo che, usando un eufemismo, i risultati siano stati eccelsi perché spesso ci si è limitati a una conoscenza superficiale per soddisfare quanto indicato nei formulari. Eppure le eccezioni non mancano: best practice che sono andate oltre, condividendo elementi di qualità sociale e, perché no, anche di business. La rete Le Mat di Legacoop rappresenta, da questo punto di vista, un esempio interessante, ma questo blog potrebbe servire a rimpinguare il carniere, guardando anche in casa propria. Va ricordato infatti che importanti consorzi nazionali e la stessa Confcooperative con Copermondo hanno recentemente promosso la nascita di strutture e iniziative per internazionalizzare la cooperazione e l’impresa sociale.

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5 Quali lavoratori svantaggiati5.1 Categorie di svantaggio, iniziamo a ragionarci Redazione, 4 novembre 2010

Bene, proviamo a iniziare la discussione sulle categorie di svantaggio. Quelle citate dall’articolo 4 della 381/1991 oggi mettono certamente in luce un limite. Assomigliano all’ufficio dell’assistente sociale (e non di un centro per l’impiego, sia pur nella sezione “casi critici”) di una ventina di anni fa. In cui i minori avevano l’obbligo scolastico a 14 anni, ma gli stranieri non erano così numerosi, in cui gli ex degenti degli O.P. erano una categoria in sé rilevante ma in cui il problema del padre di famiglia che ha iniziato a lavorare a 17 anni e a 42 anni è disoccupato dequalificato, irricollocabile, impensionabile era forse meno sentito nella nostra società.

Nella pratica le cooperative sociali hanno da tempo superato le categorie della 381/1991, hanno accolto donne sole con figli a carico offrendo soluzioni di flessibilità che altre imprese non riescono a concepire, persone espulse dal mercato del lavoro senza professionalità appetibili, stranieri e nomadi e così via. Tutto nella quota “non svantaggiati”, ovviamente, facendosi carico delle criticità che ciò comporta da un punto di vista della produttività e della possibilità di assicurare un adeguato supporto alle persone inserite.

Possibile obiezione: ma se apriamo a tutti gli altri, ai disoccupati di lungo periodo, ai lavoratori ultracinquantenni, alle categorie insomma del Regolamento 800/2008, quello che ha sostituito il 2204/2002, non si determinerà un “effetto spiazzamento” a danno degli inseriti a produttività minore? Chi assumerà una persona con disabilità medio grave, se è messa sullo stesso piano di un cinquantenne disoccupato da sei mesi con capacità produttive integre?

Nell’aprire questa discussione, teniamo presenti due aspetti:

1. il primo riguarda la storia della cooperazione sociale: diverse ricerche, condotte in tempi diversi da più enti, hanno constatato che la quota di lavoratori svantaggiati potenzialmente più problematici (persone con disabilità e con problemi di salute mentale) è costantemente pari a circa la metà del totale degli svantaggiati. È vero che, secondo l’ipotesi di cui sopra, ci si sarebbe potuto aspettare che le cooperative inserissero solo ex tossicodipendenti e detenuti, nella realtà, di fatto, non è stato così;

2. il secondo riguarda la gradualità del favor legislativo: non è detto che debba essere pari per tutti i lavoratori svantaggiati inseriti, né con riguardo alla fiscalizzazione degli oneri sociali, né alla durata dello svantaggio. Talune categorie potrebbero anche non prevedere fiscalizzazione o prevederla per un’entità o per un periodo limitato, ma essere computabili nella quota complessiva, altre potrebbero richiedere non solo la fiscalizzazione ma un “bonus” su lavoratori non svantaggiati che lavorano in affiancamento; talune categorie potrebbero prevedere uno status di svantaggiato determinato ex ante in una durata molto breve, altre forse andrebbero allungate oltre i termini attuali delle certificazioni,

per evitare (vedi il caso di ex tossicodipendenti) spiacevoli richieste di certificazione forse improprie dal punto di vista della cura – riabilitazione, ma del tutto appropriate in un percorso di reinserimento sociale. E così via.

Ma questa è solo l’apertura del dibattito…

5.2 Le domande giuste da farsi Gianfranco Marocchi, 10 dicembre 2010

Proviamo a fare ordine sul tema “categorie di svantaggio” dopo gli ultimi due post, uno sulle assistenti familiari, uno sui giovani in cerca di prima occupazione. Cosa accomuna queste due categorie, entrambe al di fuori dell’ambito classico delle cooperative sociali? In una parola, si può rispondere così: occuparsi di queste persone risponde ad una “attualità” nelle problematiche relative all’esclusione lavorativa, rappresenta una risposta a questioni emergenti su cui istituzioni, media e tessuto sociale si interrogano.

E questo ci rimanda ad una meta – domanda: al di là di ciò che dice (e che in futuro dirà) la legge, come definiamo le priorità di azione? Sulla base si una supposta “vocazione” della cooperazione sociale che “in se stessa” è chiamata ad occuparsi di disabili oppure di ex tossicodipendenti o di altri cittadini? O invece sulla base della criticità – ovviamente quella effettiva e supportata da analisi serie, non quella contingente o legata alle ondate emotive dei media – che i diversi fenomeni di esclusione lavorativa assumono nella società? Certo, ciascuna cooperativa, per scelta dei soci, per storia, per propria specializzazione, può scegliere di dedicarsi a una certa categoria, ma la cooperazione sociale in quanto tale, se vuole posizionarsi al centro del dibattito sull’esclusione lavorativa, non può prescindere dal rimanere in rapporto con i bisogni sociali nella loro evoluzione. E questo potrà portarci – si ripete, anche al di là di ciò che prevede e prevederà la legge – ad interessarsi di integrazione lavorativa di cittadini immigrati, di assistenti familiari, di due milioni di giovani che non studiano e non lavorano, delle persone espulse e non ricollocabili con gli strumenti ordinari, ecc. E certamente, delle categorie dell´articolo 4 della legge 381/1991. Magari non di disoccupazione in quanto tale, ma quantomeno di disoccupazione che rimane tale in assenza di interventi specifici, di chi è disoccupato o sotto occupato perché portatore di caratteristiche che lo rendono negativamente discriminato sul mercato del lavoro. Non senza definire priorità sulla base della rilevanza che tali fenomeni di esclusione via via assumono. E necessariamente i gruppi di cittadini che rientrano in questa definizione oggi potrebbero non essere gli stessi né di ieri né di domani.

Non per tutti la risposta sarà la stessa, non per tutti sarà l’inserimento lavorativo in cooperative B, ma non è questo ad essere decisivo: l’importante è concepire la propria mission non come definita in origine una volta per tutte, ma in evoluzione come lo sono i bisogni della nostra società. E come evolvono i destinatari, evolveranno di conseguenza gli strumenti. Diventerà più facile posizionarsi al centro del dibattito e non in una nicchia magari oggetto di universale encomio, ma pur sempre nicchia. E forse anche agire su quella percezione, presente in diversi post e commenti, di essere in fondo lasciati da parte da istituzioni, politica e informazione.

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5.3 Tra vecchie e nuove tipologie di svantaggio: cosa sta accadendo nelle cooperative sociali di inserimento lavorativo

Sara Depedri, 26 marzo 2011

Le cooperative sociali di inserimento lavorativo si occupano da ormai più di vent’anni dell’inserimento di soggetti svantaggiati, ma le tipologie cui esse hanno progressivamente rivolto la loro azione è variato non poco nel tempo. Tali cambiamenti sono stati il risultato di un aumento della domanda di servizi di formazione e inserimento da parte di nuove tipologie di soggetti; di una evoluzione giuridica del concetto di svantaggiato; e di una apertura delle stesse cooperative sociali sostenuta anche dal loro consolidamento e dalla loro crescente stabilità economico-finanziaria.

Per quanto riguarda l’evoluzione della domanda, essa è spiegata dalle crescenti difficoltà sul mercato del lavoro in termini sia di crescente disoccupazione in generale che di razionamento da parte del mercato stesso di alcune tipologie di lavoratori: i giovani con bassa scolarizzazione, gli over-50 che hanno perso il precedente lavoro, le donne a rientro dalla maternità o da periodi di assenza prolungata dal mercato del lavoro, i disoccupati di lungo periodo in generale. A queste nuove tipologie di svantaggiati sul mercato del lavoro hanno prestato attenzione anche recenti politiche e normative. Negli anni la rivisitazione giuridica della definizione di soggetto svantaggiato è infatti stata significativa. Dall’attenzione esclusiva all’invalidità (propria della legge 482/68), si è passati nel 1999 all’inclusione nella categoria dei lavoratori svantaggiati di tutti i soggetti con disabilità fisica o psichica (legge 68). La legge 381/91 istitutiva delle cooperative sociali ha esplicitamente ampliato la categoria degli svantaggiati a tutte le situazioni di emarginazione e disagio sociale, con riferimento particolare ad ex-detenuti e persone affette da dipendenza. Ed in questi ultimi anni il regolamento comunitario 2204 nel 2002 (successivamente sostituito tuttavia dal più blando regolamento 800 del 2008) e il decreto legislativo 155/2006 sull’impresa sociale poi, hanno ritenuto in generale svantaggiati anche le già citate categorie di persone con elevata difficoltà di accesso al mercato del lavoro.

Ma soprattutto, i dati portano alla luce una diversa risposta che le cooperative sociali hanno cercato di dare alla domanda emergente di formazione e inserimento al lavoro da parte delle nuove categorie di svantaggiati.

Secondo la ricerca ICSI2007 realizzata da un network di università coordinato dall’Università di Trento su un campione di 99 cooperative sociali di tipo B di tutta Italia, nel 2006 il 13,2% del totale degli svantaggiati inseriti nelle cooperative intervistate rientrava in categorie diverse da quelle identificate dalla 381/91 e molte cooperative rivolgevano i loro servizi in particolare ai giovani con difficoltà occupazionali (11,7%) e ai disoccupati di lungo periodo (10%). A questa percentuale si aggiunge un 13% circa di lavoratori appartenenti alle categorie connesse al cosiddetto disagio sociale e a difficoltà di ingresso sul mercato del lavoro, quali immigrati, giovani con difficoltà occupazionali, disoccupati di lungo periodo,

donne fuoriuscite dal mercato del lavoro. Un dato significativo che è l’effetto di un progressivo ampliamento dell’offerta di servizi di inserimento al lavoro. Le stesse cooperative sociali intervistate hanno dichiarato nel 55% dei casi di avere aumentato negli ultimi anni le tipologie di svantaggio cui esse rivolgono la loro azione.

Accanto a queste ben individuabili categorie di lavoratori svantaggiati, sono tuttavia presenti in cooperativa sociale anche altri numerosi lavoratori con caratteristiche di svantaggio rispetto al mercato del lavoro ma inquadrati contrattualmente come lavoratori ordinari (o normodotati). La realizzazione di procedure di raggruppamento (cluster) sui dati della stessa indagine ICSI2007 hanno messo in evidenza come due terzi dei lavoratori ordinari assunti dalle cooperative sociali e intervistati nell’indagine abbiano un basso titolo di studio, come il 39% provenga dalla disoccupazione (il 47% tra i lavoratori con la scuola dell’obbligo) e comunque come un terzo del totale ammetta di non avere alternative occupazionali, dato anche il basso titolo di studio e le difficoltà precedenti sul mercato del lavoro e nonostante un’età media non eccessivamente elevata (pari a 43 anni). La presenza di questa classe di lavoratori non pone alcun dubbio: le cooperative sociali svolgono un ruolo importante nell’assumere tramite gli strumenti tradizionali di impiego anche lavoratori che possono essere a tutti gli effetti considerati svantaggiati o emarginati sul mercato del lavoro.

Questi dati permettono di avere una quantificazione degli effetti occupazionali; ma interessante è osservare anche la qualità delle posizioni lavorative offerte. In termini contrattuali e reddituali, le posizioni lavorative offerte ai lavoratori ordinari con svantaggi sul mercato del lavoro si presentano stabili (l’81% è assunto con contratto a tempo indeterminato) ed i salari discreti (poco più di 1000 Euro in media per i lavoratori a full-time) e spesso i contratti rispondono alle esigenze di flessibilità oraria richieste soprattutto dalle lavoratrici (il 35% ha un part-time per propria scelta). Forti sono inoltre soprattutto le loro motivazioni non economiche al lavoro: anche se sicuramente l’esigenza di avere uno stipendio rappresenta un motivo fondamentale per aver deciso di lavorare nella cooperativa (punteggio medio assegnato di 5 su scala da 1 a 7), è molto sentita anche la scelta dell’organizzazione per la natura sociale del lavoro e per la condivisione dei suoi ideali e valori. La soddisfazione dei lavoratori ordinari con svantaggi sul mercato del lavoro è inoltre elevata sia per il lavoro nel suo complesso che per gli aspetti contrattuali, che per le relazioni con colleghi e superiori e per l’utilità sociale del lavoro.

I benefici psicologici per i lavoratori svantaggiati inquadrati dalla 381/91 sono invece quantificabili soprattutto in termini di crescita personale e professionale. Un’indagine condotta su lavoratori con problemi psichiatrici (Zaniboni et.al) ha recentemente mostrato che la maggior parte dei lavoratori svantaggiati intervistati ha beneficiato nel periodo di inserimento di un forte e continuo supporto sociale (per il 76%), ha una manifestata diminuzione della sintomatologia (per il 60% circa), ha aumentato la propria efficacia lavorativa (67%) e produttività (66%) con una conclusiva significativa manifesta volontà di continuare la propria attività lavorativa (dato dichiarato dall’87% degli intervistati).

Un mondo che offre quindi possibilità occupazionali a tipologie di soggetti diversi,

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rispondendo ad aspettative e bisogni sempre più diversificati, ma con la capacità di rispondere motivando, supportando nella crescita, e soddisfacendo. Offrendo quindi servizi efficaci nel loro complesso.

5.4 Svantaggiati di oggi

5.4.1 Inserirsi nel mercato del lavoro, lo svantaggio dei giovani Redazione, 7 dicembre 2010

Un interessante spunto sul dibattito sull’inserimento lavorativo dall’ultimo rapporto Censis di qualche giorno fa: la crisi ha scaricato i suoi effetti su una sola componente del mercato del lavoro, quella giovanile. Nel 2009 tra gli occupati di 15-34 anni si sono persi circa 485.000 posti di lavoro (-6,8%) e nei primi due trimestri del 2010 se ne sono bruciati quasi altri 400.000 (-5,9%). Di contro, se si esclude la fascia immediatamente successiva, dei 35-44enni, dove pure si è registrato un decremento del livello di occupazione (-1,1% tra il 2008 e il 2009 e -0,7% nel 2010), in tutti gli altri segmenti generazionali, non solo l’occupazione ha tenuto, ma è risultata addirittura in crescita. Sono 2 milioni e 200 mila i giovani (15-34 anni) che non studiano, non lavorano, non cercano occupazione. A questo proposito si puo’ evidenziare che la disciplina dell’Impresa Sociale (D. Lgs. 155/06) aveva individuato tra le categorie svantaggiate proprio questo segmento dell’occupazione, in aggiunta a quelli previsti dalla legge 381 del 1991: “qualsiasi giovane che abbia meno di 25 anni o che abbia completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e che non abbia ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente”. A fronte di un problema sociale di tali dimensioni, pare oltremodo opportuna la proposta del Libro Verde di Federsolidarietà di avviare un ragionamento sull’introduzione di nuove categorie di svantaggio “temporanee”, cui riservare inquadramento e incentivi non necessariamente analoghi a quelli previsti per le attuali categorie menzionate dall’art. 4 della 381/1991.

5.4.2 Eurostat e l’inattività delle italiane Redazione, 13 dicembre 2010

In questi giorni Eurostat ha rilasciato i dati aggiornati sui tassi di attività, la quota di persone cioè che si pongono sul mercato del lavoro. Dati positivi, visto l’incipit: “nel 2009 il numero di persone inattive ha raggiunto un nuovo minimo del 28.9% nell’Unione Europea, continuando il trend degli scorsi anni. Questo positivo sviluppo è largamente dovuto all’incrementata partecipazione delle donne al mercato del lavoro…”.

Vediamo sinteticamente alcuni degli elementi emersi:

• i dati sull’Italia evidenziano un tasso di inattività superiore a quello degli altri grandi paesi europei e ciò è chiaramente legato ai minori tassi di attività femminili;

• in generale in Europa “tra le donne tra i 25 e i 54 anni i tassi di inattività salgono per le donne che hanno figli sotto i sei anni: 31.3% di inattive contro il 19.4% di

coloro che non ce l’hanno”, dinamica opposta a quella riscontrabile tra gli uomini;

•ci sono circa 16 milioni di europei in qualche modo interessati al lavoro (non si sta parlando quindi, ad esempio, di studenti interessati solo a studiare) che per diversi motivi non lo cercano o non ritengono di poter lavorare, fenomeno che comprende aspetti diversi, dalla sfiducia rispetto alle proprie possibilità alla constatazione di proprie situazioni familiari che non consentono di lavorare.

La cooperazione sociale è pienamente inserita nei tentativi di risposta a questa situazione; per l’alta componente di lavoro femminile, legata certo alla tradizione del lavoro di cura, ma anche, come diverse ricerche hanno dimostrato, alla capacità di mettere in atto strategie di flessibilità organizzativa non comuni in altre imprese; per la partecipazione a progetti che combinano servizi per l’impiego e supporti per alleviare i compiti di cura familiare, ad esempio con voucher per l’acquisto di prestazioni; per una sensibilità dimostrata dalle cooperative di inserimento lavorativo ad inserire donne con carichi familiari in quella quota di svantaggio non riconosciuto che è stata più volte riscontrata. Sicuramente una esperienza da valorizzare adeguatamente nel libro bianco.

5.5 PdL C3056: una proposta di modifica delle categorie di svantaggio

Redazione, 28 marzo 2011

L’on Delia Murer (PD) ha presentato presso la Camera dei deputati il PdL 3056, che propone la modifica delle categorie di svantaggio. Si inizia oggi la pubblicazione di alcuni materiali su questo progetto di legge.

Il progetto di legge C.3056 (Murer ed altri) modifica la legge 4 novembre 1991, n.381, recante la disciplina delle cooperative sociali, intervenendo sull’articolo 4 della legge, ove vengono indicate le categorie di “persone svantaggiate” la cui presenza, in misura pari ad almeno il 30% del complesso dei soci, è necessaria per la qualificazione della società come cooperativa sociale. La proposta di legge, in particolare, integra l’elenco delle categorie di persone svantaggiate, al fine di ricomprendervi altri “soggetti deboli”, quali:

• le persone che desiderino intraprendere o riprendere un’attività lavorativa e che non abbiano lavorato, né seguito corsi di formazione, per almeno 2 anni, e, in particolare, i soggetti che abbiano lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare vita lavorativa e familiare;

• le persone che abbiano più di 50 anni e siano prive di un posto di lavoro o in procinto di perderlo;

• i disoccupati di lungo periodo, ossia i soggetti senza lavoro per 12 degli ultimi 16 mesi o, nel caso di giovani con meno di 25 anni di età, per 6 degli 8 ultimi mesi;

• le persone prive di un titolo di studio di scuola secondaria di secondo grado o equivalente, prive di un posto di lavoro o in procinto di perderlo;

• le donne straniere vittime della tratta, costrette a prostituirsi, che abbiano deciso di abbandonare la loro condizione di sottomissione e di sfruttamento e

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che usufruiscano del programma di assistenza e integrazione sociale previsto dall’articolo 18 del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), imperniato sul rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale.

5.5.1 Il testo

Questa la riformulazione del testo:

1. Il comma 1 dell’articolo 4 della legge 8 novembre 1991, n. 381, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

«1. Nelle cooperative che svolgono le attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47-ter e 48 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni; qualsiasi persona che desideri intraprendere o riprendere un’attività lavorativa e che non abbia lavorato, né seguito corsi di formazione, per almeno due anni, in particolare qualsiasi persona che abbia lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare la vita lavorativa e la vita familiare; qualsiasi persona priva di un titolo di studio di scuola secondaria di secondo grado o equivalente, priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; qualsiasi persona con più di cinquant’anni priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; qualsiasi disoccupato di lungo periodo, ossia una persona senza lavoro per dodici dei sedici mesi precedenti o per sei degli otto mesi precedenti nel caso di persone con meno di venticinque anni di età; donne straniere vittime della tratta, costrette a prostituirsi, che abbiano deciso di abbandonare la loro condizione di sottomissione e di sfruttamento e che usufruiscono del programma di assistenza e integrazione sociale ai sensi dell’articolo 18 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni. Si considerano inoltre persone svantaggiate i soggetti indicati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della salute e con il Ministro dell’interno, sentita la Commissione centrale per le cooperative disciplinata dall’articolo 4 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 maggio 2007, n. 78».

5.5.2 PdL C3056 sulla modifica delle categorie di svantaggio: la relazione

Redazione, 30 marzo 2011

“La recente crisi finanziaria mondiale sta manifestando i suoi effetti anche come gravissima crisi occupazionale, infatti negli ultimi mesi migliaia di persone hanno perso il posto di lavoro e le previsioni per il futuro non sono affatto positive. Anche nel 2011 (dati del Fondo monetario internazionale) il fenomeno andrà a colpire principalmente le fasce più povere e vulnerabili. Di questi 50 milioni di

disoccupati, ben 250.000 saranno a rischio in Italia nei prossimi sei mesi, a partire dalle fasce più deboli (operai, lavoratori prossimi alla pensione, extracomunitari eccetera).

In una situazione così complessa come quella attuale esiste la necessità di elaborare da parte delle forze politiche una nuova teoria economica che cerchi soluzioni ai problemi dell’occupazione; in tale teoria ci si aspetta che lo Stato sia presente con una funzione importante e al tempo stesso strategicamente virtuosa.

In questo quadro si inserisce la presente proposta di legge, che modifica il citato articolo 4 della legge n. 381 del 1991 in base alle nuove previsioni dettate dal regolamento CE già recepite dalla legge della regione Veneto 3 novembre 2006, n. 23, e richiamate dal relativo atto di indirizzo sull’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate e delle persone deboli. Ai sensi dell’articolo 3, comma 2, di tale legge per «soggetti deboli» si intendono le persone che abbiano difficoltà ad entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro. Con la presente proposta di legge si chiede, in sintesi, di inserire nelle categorie di svantaggio anche alcune delle tipologie di persone cosiddette «deboli» facendole rientrare nel computo del 30 per cento, necessario per mantenere la qualifica di cooperativa sociale.

Nella fattispecie si chiede di inserire le seguenti categorie: qualsiasi persona che desideri intraprendere o riprendere un’attività lavorativa e che non abbia lavorato, né seguito corsi di formazione, per almeno due anni e, in particolare, qualsiasi persona che abbia lasciato il lavoro per la formazione, per almeno due anni e, in particolare, qualsiasi persona che abbia lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare vita lavorativa e vita familiare; qualsiasi persona priva di un titolo di studio di scuola secondaria di secondo grado o equivalente, priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; qualsiasi persona con più di cinquant’anni di età priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; qualsiasi disoccupato di lungo periodo, ossia una persona senza lavoro per dodici dei sedici mesi precedenti o per sei degli otto mesi precedenti nel caso di persone con meno di venticinque anni di età; donne straniere vittime della tratta, costrette a prostituirsi, che abbiano deciso di abbandonare la loro condizione di sottomissione e di sfruttamento e che usufruiscono del programma di assistenza e integrazione sociale ai sensi dell’articolo 18 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

La ratio di tale normativa è che riconoscendo la possibilità di effettuare progetti di inserimento lavorativo anche per altre categorie, quelle denominate «deboli», e intensificando la collaborazione con i servizi sociali degli enti locali si consentirebbe di dare una risposta più efficace ai bisogni reali della collettività, sviluppando anche un’azione decisa sulla crisi economica e occupazionale e utilizzando le risorse in modo più efficiente.

I soggetti deboli sono prevalentemente in carico ai servizi sociali e «drenano», in termini di minimo vitale erogato ad personam, ingenti risorse. Mediamente, un comune di 300.000 abitanti eroga oltre 1.200.000 di Euro all’anno di contributi per il minimo vitale. Parte di queste risorse vengono assegnate a persone ancora in grado di svolgere un’attività lavorativa e che potrebbero quindi essere tolte dal circuito assistenziale. Basti pensare che, mediamente, circa il 30 per cento degli utenti in carico ai servizi sociali di un comune è compreso nella fascia di età che

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va dai trentacinque ai cinquantaquattro anni. Individuare per loro uno status che consenta l’inserimento lavorativo sotto il profilo di socio lavoratore svantaggiato di una cooperativa sociale di cui alla lettera b) significa trasformare il sussidio in lavoro, cioè l’unico vero obiettivo perseguibile da ogni amministrazione pubblica.”

5.5.3 PdL C3056: cosa ne dicono i parlamentari Redazione, 31 marzo 2011

Massimo Federiga (Lega Nord) relatore

“Il provvedimento in esame… modificando il comma 1 dell’articolo 4 della richiamata legge n. 381 del 1991, individua – come già rilevato – ulteriori categorie di persone svantaggiate; più specificamente, in parte le nuove categorie sono direttamente mutuate da alcune delle definizioni di lavoratore svantaggiato contenute nell’articolo 2, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (CE) n. 2204/2002. La proposta in esame, ampliando l’ambito dei soggetti considerati persone svantaggiate, estende di conseguenza l’ambito di applicazione delle agevolazioni contributive richiamate in precedenza. Per questo ultimo motivo, ritengo anzitutto opportuno che la Commissione, nell’approfondire i profili di merito del provvedimento, tenga in considerazione la necessità di indicare un’adeguata copertura finanziaria dei maggiori oneri derivanti dagli sgravi contributivi operati. Inoltre, pur valutata positivamente la finalità del provvedimento, che si propone di individuare soluzioni efficaci a gravi problemi occupazionali, tenuto conto dell’attuale particolare momento di crisi, si auspica che sul testo in esame si svolga una seria e approfondita riflessione, che possa condurre ad un testo concretamente applicabile e condiviso dai gruppi; in particolare, si manifestano forti perplessità sulla stessa struttura del testo, che sembrerebbe poter penalizzare – per come esso è formulato – proprio talune tra le categorie più deboli, con ciò rischiando di produrre effetti potenzialmente indesiderati.”

Giulio Santagata, PD

Pur condividendo le finalità del provvedimento, il testo, nella sua attuale formu-lazione, può prestarsi a interpretazioni potenzialmente distorte, richiedendo, per tale ragione, una opportuna riformulazione. Occorre chiarire che l’ampliamento dell’ambito soggettivo di applicazione della normativa vigente non va ad incidere sulle forme di tutela già riconosciute, a livello percentuale, a determinati sog-getti svantaggiati, intervenendo semmai in termini aggiuntivi e non sostitutivi. Preannuncio, quindi, la presentazione di emendamenti al testo, finalizzati sia ad estendere l’ambito soggettivo delle cooperative da coinvolgere in tali forme di in-serimento dei lavoratori, sia ad incidere sul versante dei benefici e degli incentivi.”

Delia Murer, PD, presentatrice del testo

“Ritengo opportuno affrontare con assoluta serietà il provvedimento in esame, dal momento che il testo si propone di inserire tra le persone svantaggiate anche coloro che vengono definiti «soggetti deboli», cioè le persone che incontrano difficoltà ad entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro, ricollegandosi a definizioni e qualificazioni giuridiche già fornite in sede comunitaria, rispetto al cui recepimento,

peraltro, si registra un ritardo da parte dell’ordinamento italiano. Sono disponibile ad un confronto di merito su eventuali proposte migliorative, ma ritengo comunque necessario intervenire con urgenza sulla materia, visto che a livello regionale si è già provveduto a legiferare nella direzione indicata dal testo in esame.”

5.6 Svantaggiati e soci, riscopriamo la 381/1991 Flaviano Zandonai, 26 gennaio 2011

Siamo entrati nell’anno del ventennale della 381. Credo che questo libro verde, e il dibattito che si è animato intorno ad esso, possa essere un bel modo di festeggiare il compleanno della legge sulla cooperazione senza indulgere troppo nella nostalgia per i bei tempi andati. Si può riguardare al testo della legge non solo per chiedere emendamenti e modifiche, ma anche per riscoprire gli elementi fondanti e soprattutto le sfide che sono alla base delle pratiche d’impresa sociale finalizzate all’inclusione attraverso il lavoro. Del resto è una legge che ha fatto scuola, non solo in Italia, dimostrando che si può istituzionalizzare un’innovazione sociale senza ingessarla, anzi dando un’ulteriore spinta allo sviluppo. Gli stimoli dunque non mancano. Alcuni sono arcinoti: basti pensare allo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità per quanto riguarda la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini. Ma c’è un’altra previsione che spesso rimane in secondo piano, ma che, a mio avviso, è altrettanto rilevante in termini di dichiarazione di identità e di missione. E si tratta di un riferimento proprio alle cooperative di tipo B. Articolo 4 comma 2: “Le persone svantaggiate (…), compatibilmente con il loro stato soggettivo, devono essere socie della cooperativa”. È un passaggio molto diretto, che supera la distinzione tra “produttore” e “fruitore”, introducendo la figura del prosumer: chi consuma il servizio contribuisce, almeno in parte, alla sua produzione partecipando alla gestione dell’impresa. Rimane da capire fino a che punto questa previsione sia effettivamente attuabile. E quale effetto abbiano avuto le progettualità, come Jeremy in Lombardia, che hanno incentivato l’assunzione dello status di socio anche da parte dei lavoratori svantaggiati. Certamente ci sono difficoltà applicative legate allo stato soggettivo di queste persone e alle caratteristiche dei percorsi di inserimento (durata, modalità di gestione, esito, ecc.). È altrettanto vero però che si tratta di un’opportunità per marcare il carattere distintivo di questa esperienza, dotando i suoi operatori sociali di uno strumento in più. Perché in una cooperativa di tipo B l’inclusione si realizza attraverso il lavoro, ma anche attraverso un esercizio consapevole dei diritti (e dei doveri) di proprietà.

5.7 Lasciamo stare le categorie! Valerio Luterotti, 13 dicembre 2010

Condivido la riflessione in generale, e l’approccio culturale in specifico, perché riporta il senso del dibattito sulle categorie di svantaggio nella giusta distinzione tra i mezzi ed i fini della cooperazione di inserimento lavorativo.

Le categorie di svantaggio, per le quali si legittima l’azione delle coop. B formalmente regolata dalle norme, sono frutto dell’interpretazione del bisogno, spesso

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tardiva ed emergenziale, da parte del sistema di welfare ma, come giustamente sottolineato nell’ultimo contributo, esse mutano nelle loro morfologie e nelle dinamiche territoriali e temporali con priorità poco riducibili a rigide categorie normative con pretese di stabilità.

Ciò che dobbiamo ricondurre alla definizione normativa deve avere un carattere di contiuità, di stabilità e di coerenza al nostro fine. Più precisamente lavorerei per superare l’idea che le coop. B siano legittimate ad operare con alcune categorie e non con altre, sia perchè la finalità generale delle coop. B è: “la creazione di occupazione abbassando la soglia di accesso al mercato del lavoro”, al di là della tipologia di attività svolta o della tipologia di persona inserita, sia perchè l’attività stessa di categorizzazione nosografica o clinico-diagnostica delle persone non credo abbia molto a che fare con la cultura del mutualismo solidaristico proprio della storia cooperativa nè, tanto meno, con la cultura anti-istituzionale dei processi di liberazione dalle forme di controllo sociale mascherate da malattie o devianze che il potere dominante ha sempre utilizzato per tutelare la società presuntamente “normale”.

In generale, rispetto alle norme, dovremmo perseguire il massimo di libertà possibile, non il massimo di definizione specifica possibile, quindi al contrario, meno definiscono, più liberi si è!

Per quanto riguarda le categorie di svantaggio, visto che il rapporto tra offerta di lavoro e offerta di svantaggio per la cooperativa è fortemente sbilanciato (molti svantaggi personali e poche opportunità di lavoro) dovremmo concentrarci nella ricerca di agganci normativi e non, per moltiplicare le commesse lavorative favorendoci rispetto alle altre forme d’impresa, più che fare battaglie concettuali sulle categorie di svantaggio che, purtroppo, ci staranno sempre appresso nella loro emergenzialità qualitativa, quantitativa ed anche, definitoria.

Insomma, dobbiamo portare a casa nuovo lavoro e riconoscimento di ruolo come imprese affidabili e credibili nel mercato del lavoro che oltre a produrre beni e servizi, generano un valore aggiunto sociale. Questo dev’essere riconosciuto dalle norme per giustificare eventuali vantaggi economici o fiscali, per il resto, categorizzazioni e processi di inclusione sociale ce le possiamo definire e gestire da noi; non ci servono i maestri della categorizzazione, della specializzazione disfunzionale o del controllo sociale repressivo.

5.8 Fateci restare in carcere, paradossi da galera Redazione, 18 dicembre 2010

Un articolo uscito il 16 dicembre su “Il sole 24 ore”: nove detenuti hanno la possibilità di uscire grazie alla legge “svuota carceri”. Eppure vogliono restare dentro. Lì, in carcere, lavorano. Usciti perderebbero lavoro e autonomia. Fa pensare, vero?

5.9 TransizioneQui viene introdotto un altro dei temi portanti del dibattito, quello degli strumenti per favorire la transizione al termine del percorso di inserimento. Tra le discussioni che hanno accompagnato la cooperazione sociale sin dalla sua nascita, infatti, vi è quella sugli esiti dei percorsi di inserimento, l’occupazione stabile nella cooperativa stessa o la transizione verso altre imprese. Se oggi la questione è depurata da alcuni attriti “ideologici” di tempi passati, resta il problema delle azioni di impresa e delle politiche funzionali a facilitare il successivo inserimento in imprese nei casi in cui questo sia l’esito auspicato del percorso:

•quali strumenti normativi possono facilitare questo passaggio?

•di cosa ha bisogno una cooperativa sociale per rendere le persone inserite in grado di confrontarsi con il lavoro in imprese ordinarie?

• in che modo il percorso fatto in cooperativa può favorire la successiva riassunzione in altre imprese?

•quali condizioni consentono alla cooperativa di privarsi dei lavoratori una volta che, grazie agli investimenti compiuti sulla loro abilitazione, hanno raggiunto i maggiori livelli di produttività?

•…

5.9.1 Non solo inserimento in cooperativa: il futuro dei lavoratori svantaggiati

Sara Depedri, 23 marzo 2011

Il ruolo della cooperazione sociale di inserimento lavorativo può essere individuato, genericamente, nella formazione dei lavoratori svantaggiati non solo per un recupero delle loro abilità lavorative, ma anche per un inserimento effettivo nel mercato del lavoro. Sull’analisi del ruolo e dei risultati raggiunti dalle cooperative sociali italiane hanno riflettuto recentemente due ricerche realizzate nel 2006 da un network universitario coordinato dall’Università di Trento e nel 2009 da Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises con sede a Trento) su campioni rappresentativi di cooperative sociali di inserimento lavorativo rispettivamente in Italia e in alcune province del Nord. I dati cui le ricerche giungono pongono in luce un fenomeno che sta offrendo oggi concrete opportunità occupazionali ai lavoratori svantaggiati inseriti, seppur con ancora alcuni limiti e qualche difficoltà.

Un primo dato interessante emerge dalla differenziazione dei settori di attività in cui le cooperative di inserimento lavorativo oggi operano: non solo, anche se prevalentemente, settori a basso profilo formativo e bassa specializzazione come il settore del verde, la raccolta rifiuti e il settore delle pulizie, ma anche in modo crescente il settore manifatturiero-industriale, l’agricolo, la ristorazione e l’informatica. Inoltre, e soprattutto, molte cooperative hanno l’obiettivo esplicito di inserire i lavoratori all’interno della cooperativa possibilmente solo a fini formativi per poi accompagnarli sul mercato del lavoro aperto (obiettivo del 18% delle cooperative sociali di tipo B italiane e del 26% di quelle attive al Nord) o

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quantomeno prevedono percorsi differenziati che conducono all’inserimento interno o esterno alla cooperativa a seconda della tipologia di svantaggio e delle caratteristiche del soggetto inserito (politica che caratterizza il 52.2% delle cooperative sociali italiane ed il 39.4% di quelle del Nord).

Questa varietà di percorsi formativi e professionalizzanti e di settori di attività ha condotto ad ampliare le possibilità di assunzione dei lavoratori svantaggiati anche di lungo periodo e presso altre organizzazioni. Dalle ricerche condotte, il 74% dei soggetti svantaggiati inseriti risultava assunto in cooperativa con contratto a tempo indeterminato e questo dato dimostra già una volontà dell’organizzazione di tutelare la posizione lavorativa nel lungo periodo qualora non si aprano soluzioni occupazionali alternative. Inoltre e soprattutto, tra i lavoratori intervistati nelle province del Nord che nel 2007 hanno terminato il loro percorso di inserimento lavorativo nelle cooperative, ben il 52,3% ha trovato un’occupazione all’esterno dell’organizzazione, prevalentemente presso imprese for-profit (la metà di tali lavoratori), ma anche in altre tipologie di imprese e solo secondariamente in altre cooperative o in enti pubblici.

Tali dati indicano complessivamente una discreta capacità di collocamento sul mercato aperto grazie all’esistenza di relazioni con il contesto imprenditoriale locale. Non stupisce quindi che alla domanda sulla fattibilità dell’inserimento esterno, la maggior parte delle cooperative (41%) sostenga che sia possibile solo instaurando forti legami con le imprese locali e solo per alcune categorie di svantaggio più facilmente inseribili in contesti non protetti. La probabilità di non giungere a conclusione del progetto o di collocamento esclusivo all’interno della cooperativa risulta infatti notevolmente più elevata per i disabili psichici (per cui vale la legge sul collocamento obbligatorio) e fisici e dei tossicodipendenti e per le prime due tipologie di disagio è più elevata anche la probabilità di essere inseriti in un ente pubblico (Legge 68/99).

Un quadro, in conclusione, che induce a considerare le cooperative sociali come efficaci attori per l’inserimento dei soggetti svantaggiati sul mercato del lavoro aperto. Ma affinché questa efficacia cresca ulteriormente è necessario il rafforzamento di partnership con possibili imprese interessate all’assunzione dei soggetti formati; partnership che possono essere inoltre un metodo per superare le crescenti difficoltà generate dalla crisi economica ed occupazionale.

5.9.2 Dalla Puglia, un’esperienza e alcune domande Tasha, Federsolidarietà Puglia, 15 febbraio 2011

Tasha è una cooperativa di tipo B che da oltre 10 anni realizza servizi di gestione del randagismo canino. L’attività è iniziata con tre soci lavoratori mentre oggi i soci lavoratori e dipendenti sono oltre 20. Nei primi anni le attività di inserimento lavorativo riguardavano soprattutto tossicodipendenti ed alcolisti, oggi invece sono inseriti anche soggetti in trattamento psichiatrico, disabili fisici, ex detenuti e molte persone che hanno gravi situazioni socio economiche; guarda con favore la possibilità di ampliamento delle categorie svantaggiate secondo i regolamenti comunitari. La cooperativa ha ottenuto un contratto di servizio con l’amministrazione comunale per quindici anni per realizzare e gestire il canile

sanitario di Bitonto e l’anagrafe regionale oltre a un progetto di PET therapy con un gruppo di utenti psichiatrici.

Un problema su cui è stata richiamata l’attenzione dei presenti attiene la fase di conclusione del progetto individualizzato e la possibilità di successiva ricollocazione. Al termine del progetto, secondo l’esperienza della cooperativa, ci si trova ad un bivio: espellere gli svantaggiati (che rischiano di ricadere nell’esclusione) garantendosi una ciclicità delle persone inserite o inserire definitivamente tali soggetti nel proprio processo produttivo con il rischio di non poter più rispettare il vincolo del 30% e eliminando la possibilità di realizzare un turn over finalizzato alla “formazione on the job”. In alternativa la cooperativa deve assicurarsi delle nuove commesse crescendo in maniera esponenziale. Il fatto di operare in un sistema economico-produttivo attualmente in forte crisi, rende veramente difficoltoso ricollocare in contesti produttivi ordinari. Così accade che molte persone a fine percorso tornano in carico ai servizi sociali locali e i risultati del percorso di inserimento lavorativo sono vanificati dai disagi legati alla perdita del reddito.

Altro problema è quello legato all’inserimento di lavoratori non più giovani, con famiglie o persone a carico e/o con passati problemi di dipendenza, oppure ex detenuti. La pubblica amministrazione in questi casi quando non può più rilasciare, da un certo momento in avanti, la documentazione che ne attesta lo stato di svantaggio, mette ancora una volta la cooperativa di fronte al bivio di cui sopra; senza tener conto del fatto che anche gli sgravi contributivi vengono azzerati e che se si scende al di sotto del 30% con il numero degli inseriti la cooperativa rischia di perdere l’iscrizione all’Albo regionale con conseguenze chiaramente gravi per la gestione delle convenzioni e dei servizi in carico alla cooperativa. Questa problematica si accentua ancora di più quando i soci fondatori o il gruppo promotore della cooperativa è costituito da persone svantaggiate di queste categorie che si organizzano in una forma di mutuo aiuto attraverso un’attività imprenditoriale e poi nel corso del tempo perdono i requisiti previsti per essere riconosciuti svantaggiati.

5.10 Il lavoro per i disabili

5.10.1 Il lavoro dei disabili: V Relazione al Parlamento sulla legge 68/1999

Redazione, 4 febbraio 2011

Ed infine è uscita, con sette mesi di ritardo, la quinta relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 68/1999. I dati mostrano una flessione del numero di disabili avviati, diminuiti da 31.535 nel 2007 a 28.306 (con 7.132 risoluzioni nel corso dell’anno) nel 2008 a 20.830 nel 2009 (con 4.403 risoluzioni), mentre sono oltre 700 mila i disabili iscritti alle liste speciali.

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Questo dato risulta paradossale se si considera che sono circa 80 mila le posizioni lavorative scoperte da destinarsi a disabili nelle aziende e nelle pubbliche amministrazioni; eppure le multe nel 2009 sono state meno di 200.

Si confermano di fatto di scarso rilievo gli strumenti dell’articolo 12 bis (36 in Italia nel 2009, 21 nel 2008) e 14 (125 nel 2009, 75 nel 2008), circa lo 0.5% degli svantaggiati inseriti nelle cooperative sociali italiane.

5.10.2 Recinti e pecore Gianfranco Marocchi, 15 novembre 2010

Quante volte abbiamo sentito il ritornello: “La cooperazione sociale non deve diventare il recinto entro cui vengono confinati tutti gli svantaggiati, così deresponsabilizzando la società…” Chi ha familiarità con i numeri ha ben chiaro come questa affermazione, per quanto basata su valori e preoccupazioni condivisibili, sia immotivata.

Numero avviamenti

Numero disabili iscritti agli elenchi provinciali del collocamento obbligatorio

I dati (più o meno) noti sono quelli relativi ai disabili, dal momento che l’esistenza del collocamento mirato determina la disponibilità di una qualche forma di raccolta periodica dei dati; ma a maggior ragione possono essere riferiti ad altre categorie di svantaggio. A questo proposito possiamo stimare che nelle cooperative sociali siano occupati un po’ più di 15 mila disabili (difficilmente più di 20 mila); nel resto del sistema economico, pubblico e privato, possiamo ipotizzare che ne siano occupati circa 180 mila. Sono iscritte alle liste del collocamento dei disabili oltre 700 mila persone; questo dato è notevolmente lievitato negli ultimi anni, probabilmente anche per ragioni estranee alla ricerca di lavoro; in ogni caso, anche negli anni immediatamente successivi all’approvazione della legge 68 era superiore alle 250 mila unità.

La cooperazione sociale occupa quindi circa l’8% dei disabili. L’altro 92% lo occupano altri. Detto tra parentesi, un vero miracolo. In fondo la cooperazione sociale rappresenta 2 miliardi di Euro scarsi di fatturato su oltre 1600 di Pil nazionale, poco più dell’1 per mille. Be’, certo, in media è più labour intensive della media del sistema economico. Infatti – azzardiamo, le indagini non sono così recenti – ci lavorano circa 65 mila persone, quasi il 3 per mille dei circa 23 milioni di occupati italiani. Consideriamo pure questo ultimo dato, non è comunque cosa da poco che il 3 per mille dell’economia assicuri occupazione all’8% dei disabili. È pur sempre 25 volte tanto, e dovendo competere ad armi pari sul mercato.

Ma, miracolo a parte, di qui ad essere un recinto onnicomprensivo ne passa! E poi, anche a volerlo, ce ne vuole un po’ a portare nel recinto le 700 mila persone che ne sono fuori crescendo (nel periodo migliore, fine anni novanta) al ritmo di 1000 unità all’anno (ora molto meno). Nell’attesa, l’idea del recinto ha occupato:•preoccupazioni di cooperatori, che su questo hanno costruito libri, articoli,

ragionamenti e strategie per contrastarlo (evidentemente riuscendoci);•allarmi di sindacalisti, preoccupati che le imprese non siano deresponsabilizzate

circa l’inserimento dei disabili;•perplessità delle associazioni di disabili, che temono che il recinto mini l’accesso

al lavoro come diritto, per relegarlo nell’ambito di una solidarietà solo eventuale;•complesse costruzioni da parte del legislatore, che da circa 10 anni studia pesi

e contrappesi su meccanismi quali articolo 12, 12 bis e articolo 14 per evitare appunto il recinto – che comunque, come sopra richiamato, tutti aborriscono.

•Riserve da parte di enti locali restie a intraprendere o estendere l’utilizzo delle clausole sociali perché l’inserimento dei disabili non deve essere fatto solo dalle cooperative.

Insomma ideali, strategie, politiche, preoccupazioni, legislazione ispirata dalla repulsione dei recinti. Che però, tutti sanno o dovrebbero saperlo, non esistono. Se non ce ne accorgiamo e ci ostiniamo tutti a ragionarci intorno rischiano di esistere solo le pecore.

5.10.3 Ancora su art. 12, 12 bis e art.14: un’opinione Gianfranco Marocchi, 21 novembre 2010

A pagina 106 della relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 68/1999 si trova il numero di persone con disabilità avviate al lavoro tramite

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convenzione art. 12 (quello vecchio, sono dati 2007 e quindi anteriori al 12 bis che risale a dicembre di quell’anno) e articolo 14. Poniamo pure che il 12 bis abbia avuto un successo (?) paragonabile all’articolo 14. Dopo circa un decennio dalla loro introduzione, queste normative nella migliore delle ipotesi hanno riguardato forse l’1% delle persone svantaggiate inserite in cooperativa sociale. Scontiamo le percentuali sui disabili in cerca di occupazione – quindi l’impatto effettivo degli strumenti in questione rispetto all’entità del problema su cui si propongono di intervenire – perché il numero di zeri da mettere dopo la virgola diventa imbarazzante.

Certo va tributato ogni rispetto a chi, con lodevoli sforzi concertativi (probabilmente non senza un notevole mal di fegato nel convincere gli interlocutori di non essere in nessun senso malintenzionato), è riuscito a costruire le condizioni per creare qualche decina di opportunità occupazionali per persone con disabilità attraverso queste convenzioni. Anche un solo posto di lavoro è cosa massimamente degna. Ma così non va. O c’è un cambio di marcia o è meglio lasciar stare.

Già si è argomentato che recinti, deresponsabilizzazione delle imprese, cooperative sociali che assorbono tutta l’esclusione lavorativa, ecc. sono favole diffuse per ignoranza dei numeri o per interesse. I complessi e inevitabilmente macchinosi sistemi di “precauzioni” che caratterizzano questi strumenti riparano da rischi inesistenti. A questo punto delle due l’una: se si valuta – cooperative, sindacati, politica, associazioni di disabili – questo genere di strumenti potenzialmente interessanti, deregoliamoli per 5 anni. Completamente. No limiti di quote di copertura, no limiti su grado di disabilità, no limiti temporali, ecc. Dopo 5 anni, numeri alla mano, si potranno valutare i pro e i contro ed eventualmente apportare correttivi laddove dovessero insorgere distorsioni. Se invece i nostri interlocutori non sono convinti, se sindacati e diretti interessati – le associazioni di disabili – vedono in tutto ciò rischi persistenti, lasciamo stare. Serenamente. Se siamo noi gli unici a crederci, non ne vale la pena. Quasi che la cooperazione avesse, per caparbietà ideologica, un qualche interesse nel forzare l’introduzione di uno strumento che – non sappiamo se per limiti intrinseci o per la diffidenza da cui è circondato – non convince i nostri stakeholder e presenta i dati numerici sopra richiamati. Non spendiamo più lì energie (già ne abbiamo dedicate abbastanza rispetto ai risultati sopra esposti, non è probabilmente la battaglia prioritaria su cui giocare il nostro credito presso le istituzioni) e dedichiamoci a sviluppare le azioni grazie a cui inseriamo il 99% delle persone svantaggiate che lavorano presso le nostre cooperative.

CONV.art. 11 co. 1

4.8692.8972.4491.605

11.820

NORD OVESTNORD EST

CENTROSUD E ISOLE

ITALIA

CONV.art. 11 co. 1

3.1792.9562.7181.728

11.130

CONV.art. 11 co. 4

7101.14738514

2.256

CONV.art. 11 co. 2

1.5411.212440141

3.334

CONV.art. 12

11002

CONV.art. 11 co. 4

31116

CONV.art. 14

D. Lgs. 276/03

CONV.art. 14

D. Lgs. 276/03

484604

98

54691743

183

2006 2007

6 Politiche attive del lavoro6.1 Al centro delle politiche attive del lavoro Gianfranco Marocchi, 16 gennaio 2011

Distinguiamo due questioni: il fatto che l’inserimento lavorativo sia encomiabile (certamente fuori discussione) ed encomiato (abbastanza fuori discussione) e il fatto che l’azione che le cooperative sociali svolgono si posizioni o meno al centro del dibattito sulle politiche attive del lavoro. Si può essere infatti oggetto di incondizionata ammirazione, ma al tempo stesso rischiare di essere confinati, dal punto di vista della definizione e delle sviluppo delle politiche, in una nicchia. Il rischio maggiore, in questi ultimi anni, è proprio questo.

Partiamo dal dire che a partire dalla metà degli anni ottanta e per un decennio, al contrario, la cooperazione sociale si guadagnò una posizione centrale e strategica nelle politiche (allora non così attive) del lavoro. In un panorama in cui esisteva il lavoro senza crescita e integrazione (il vecchio collocamento obbligatorio della 482/1968) e la crescita senza garanzia di lavoro (formazione professionale), la cooperazione sociale – che offriva insieme reddito, integrazione sociale, crescita personale – ebbe un effetto dirompente. Sviluppatasi a ritmi sostenuti e (auto)riproducibile attraverso meccanismi di rete, innovativa, imprenditoriale – antitetica all’assistenzialismo – la cooperazione sociale è stata da subito in grado di agire con limitato esborso di risorse pubbliche e di creare cultura intorno alla propria esperienza. E soprattutto, appunto, si è dimostrata innovativa nello scenario degli interventi che al tempo si utilizzavano per supportare il reperimento del lavoro di chi non riusciva a trovare occupazione.

Chi ricorda quella fase ha ben presente come la cooperazione sociale di inserimento lavorativo venne “scoperta” dai media, che inziarono a dedicarle spazio, dagli enti locali, che inaugurarono significative politiche di convenzionamento ai sensi dell’articolo 5 e come guadagnò l’attenzione del legislatore. Un esempio per tutti: a metà degli anni novanta una delle maggiori questioni aperte nelle politiche del lavoro era l’inquadramento dei lavoratori socialmente utili (LSU). A ben vedere, la cooperazione sociale sarebbe potuta non c’entrare più di tanto; in fondo non si trattava di svantaggiati compresi nella 381/1991, di disabili o di tossicodipendenti. Eppure, la norma che mette mano alla questione (D.Lgs 468/1997) affida la soluzione a due tipi di soggetti: “I progetti … possono essere promossi dalle amministrazioni pubbliche … dagli enti pubblici economici, dalle societa’ a totale o prevalente partecipazione pubblica e dalle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, e loro consorzi”. Notevole, vero? L’apprezzamento per il lavoro svolto dalla cooperazione sociale, i meriti guadagnati sul campo con gli svantaggiati e soprattutto la sua centralità nel dibattito sulle politiche attive del lavoro, erano tali che il legislatore la individuò, accanto ai soggetti pubblici, come l’attore naturale delle azioni per intervenire su una delle maggiori questioni occupazionali di quel momento. Lo stesso legislatore, un anno dopo, nella definizione dei meccanismi di collocamento mirato dei disabili, oltre ad introdurre l’articolo 12 di cui già si è parlato nel blog, riserva un ruolo alla cooperazione

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sociale nel punto centrale della legge, nelle convenzioni di cui all’articolo 11 che costituiscono il principale strumento operativo dei servizi pubblici per l’impiego.

Non si trattava (solo) di capacità di lobbying dei responsabili del movimento cooperativo. Questa attenzione derivava da un effettivo posizionamento della cooperazione sociale al centro delle politiche del lavoro, accreditata dall’avere inventato, sperimentato, affermato e diffuso una soluzione prima inesistente, capace di mettere insieme occupazione e crescita, imprenditorialità e vantaggio pubblico.

In realtà, proprio mentre stava riscuotendo i maggiori successi, la cooperazione sociale iniziava ad esporsi al rischio di marginalizzazione. Facciamo un passo indietro.

Nel 1997 la legge Treu (196/1997) aveva iniziato ad introdurre diverse misure di promozione dell’occupazione: dalla prima introduzione della somministrazione, a norme regolative su apprendistato, formazione, tirocini oltre che i già citati LSU. Nello stesso anno il D.Lgs. 469/1997 introduce il collocamento privato. Le politiche attive del lavoro si sono messe in moto, iniziano ad essere introdotti gli strumenti che negli anni successivi costituiranno il centro del dibattito.

Il centro del dibattito, appunto. Che si sposta su altri temi. Flessibilità e diritti, la flexsecuruty, l’interinale sì o no e quando, i servizi per l’impiego e la loro efficacia o meno, il collocamento mirato e così via. Il centro del dibattito non è più quello del decennio precedente, cui la cooperazione sociale è rimasta ancorata. Forse con qualche responsabilità: quella di aver ritenuto che fosse propria vocazione concentrarsi sull’articolo 4 della 381/1991, semmai cercando di conseguire strumenti “ad hoc” (articolo 12 della 68/1999 e poi articolo 14 del 276/2003) invece che avere un ruolo specifico negli strumenti generalisti. E ciò è avvenuto non solo a livello di lobbying politica, quanto di concreta pratica nei territori.

E intanto il mondo andava avanti e il dibattito sulle politiche attive del lavoro pure. Anche in questo caso solo un esempio: il 276/2003, nell’applicare la legge Maroni (30/2003), assegna alle agenzie di lavoro interinale (!) un ruolo pari e forse superiore a quello delle cooperative sociali nelle azioni di inserimento e reinserimento dei soggetti deboli (art. 13). Intanto le clausole sociali incontrano percorsi via via più accidentati e gli enti locali sembrano sempre più interessati a risparmi di breve periodo più che a politiche di sviluppo dell’inserimento lavorativo. La legge 68/1999, oltre al sostanziale fallimento dell’articolo 12, registra un ruolo di fatto marginale della cooperazione sociale nell’articolo 11, in cui pure, come si è visto ieri, la cooperazione sociale era citata.

Ciò ovviamente non esclude che la cooperazione sociale sia portata come esempio di storie esemplari, ma il pallino è passato altrove.

Ecco perché il libro verde è importante. Perché rappresenta la volontà della cooperazione sociale di porsi nuovamente al centro delle politiche del lavoro. Ma per riuscirci è necessario riuscire a riposizionarsi al centro del dibattito e quindi accantonare da convegni, seminari, articoli, molti dei temi che hanno caratterizzato la fase precedente; e forse, senza tralasciare l’impegno quotidiano, anche nell’operatività e nelle relazioni, provare ad investire maggiormente su

alcuni temi caldi delle politiche del lavoro. Magari non su tutti, ma su molti di questi, la cooperazione sociale ha da dire cose originali e innovative:•gli strumenti verso il lavoro: dal collocamento privato alla somministrazione,

dai tirocini e gli altri strumenti per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro ai servizi per l’impiego, la cooperazione sociale possiede specificità e competenze che altri soggetti non hanno. Sa come ci si rapporta con i soggetti deboli, sa cos’è l’impresa, sa cosa sono i percorsi di inserimento e sa che non si chiudono (ma iniziano) al momento dell’assunzione. Queste cose la cooperazione sociale ce le ha nel sangue come nessun altro;

• i problemi occupazionali emergenti: il mercato del lavoro evolve e mutano le sue criticità; si pensi all’inquadramento delle assistenti familiari o all’inserimento di categorie che si dimostrano particolarmente soggette ad esclusione dal mercato del lavoro, come i giovani alla ricerca del primo impiego, i lavoratori ultraquarantenni dequalificati espulsi dal ciclo produttivo, le donne con problemi rilevanti di conciliazione tra lavoro e impegni di cura. Molte di queste cose la cooperazione sociale le fa e basta, senza essersi mai posto il problema di teorizzarle (ma forse è ora il caso di farlo);

• il lavoro e l’impresa: nel momento in cui si riflette sul codice della partecipazione dei lavoratori ai risultati di impresa, su bilanci sociali e responsabilità sociale, si affrontano tematiche che provengono esplicitamente dal mondo cooperativo;

• le risposte alla crisi e le esigenze di rilancio occupazionale vedono in alcune esperienze di impresa sociale come esempi eccellenti di buone prassi, che vanno studiate, rilanciate e diffuse (tra cui alcune già segnalate in questo blog);

•una flessibilità che non significa mancato rispetto del lavoratore: il dibattito, per molti versi sconcertante, che ha portato agli accordi di Pomigliano e Mirafiori, impatta su temi (dedizione e coinvolgimento dei lavoratori, flessibilità, concertazione delle politiche di investimento) su cui la cooperazione ha saputo offrire risposte ben lontane da quelle che oggi stanno spaccando ulteriormente la nostra già disarticolata società;

•…

Si potrebbe continuare, ma il senso è chiaro:1. vanno individuati i temi centrali del mondo del lavoro; va acquisita e diffusa

all’interno del mondo cooperativo la coscienza tali questioni;2. va recuperata a livello culturale, attraverso le strutture di rete della

cooperazione sociale, la consapevolezza del patrimonio di risposte che il nostro sistema ha in proposito;

3. vanno, ancor prima che enunciate ricette teoriche, sperimentate sul territorio delle proposte e delle soluzioni, in cui la cooperazione è parte attiva di un dibattito e delle azioni che ne seguono;

4. va rinnovata l’azione, culturale e politica, di diffusione delle buone prassi e di elaborazione teorica a partire da queste, per riposizionare la cooperazione al centro del dibattito.

Certo significa che chi si occupa di lavoro dovrà forse interloquire di meno con gli assessori ai servizi sociali e un po’ di più con assessori al lavoro, rappresentanze

54Dal Libro Verde al Libro BiancoLa cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo - Il percorso di Federsolidarietà Idee in Rete

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datoriali, sindacati, centri per l’impiego, ecc. Ma se si ha consapevolezza di avere cose interessanti da dire – ed è così – non si tratta di una missione impossibile.

6.2 La comunità al lavoro: la cooperazione sociale in campo dove gli ammortizzatori sociali non arrivano

Vesti Solidale – Federsolidarietà Lombardia, 4 gennaio 2011

Il blog riceve e segnala una iniziativa realizzata dalla cooperativa Vesti Solidale di Cinisello Balsamo in partenariato con la Caritas di Garbagnate Milanese, anche a partire dallo stimolo generato dall’attivazione del Fondo Famiglia e Lavoro da parte della Chiesa milanese. Il contesto è quello della crisi economica, delle famiglie che rimangono prive di reddito, degli ammortizzatori sociali che non sempre riescono a coprire tutte le necessità di chi si ritrova privo di reddito.

La crisi economica purtroppo non si è esaurita e chi è stato espulso negli scorsi anni dal mondo del lavoro attraversa sul finire del 2010 il momento forse più difficile in quanto non si intravedono possibilità immediate di reinserimento lavorativo ed i periodi previsti dalla legge per la Cassa Integrazione e l’Indennità di disoccupazione stanno ormai esaurendosi. La perdita del posto di lavoro e l’esaurimento degli ammortizzatori sociali (o addirittura l’impossibilità di accedervi) fanno sì che il rischio di perdere la dignità insieme al lavoro diventi una realtà per molti cittadini.

A fronte di questa situazione il progetto “La comunità al lavoro” prevede la possibilità per i cittadini di impegnarsi a versare per 24 settimane un importo che varia dai 5 ai 50 euro, grazie a al quale alcune persone disoccupate, prive di qualsiasi ammortizzatore sociale e con figli minori a carico verranno assunte con regolare contratto di lavoro da parte della Cooperativa Vesti solidale per un periodo massimo di 6 mesi o per il periodo necessario ad accedere agli ammortizzatori sociali. La cooperativa stessa sostiene in parte con proprie risorse il costo del lavoratore. In sostanza, la comunità locale – le famiglie, la cooperativa, la chiesa – si attiva per dare risposta ad un proprio problema di grande rilevanza. Ad oggi, due mesi dopo la partenza del progetto, sono state raccolte risorse pari a circa 50 mila euro, che testimoniano il capitale fiduciario della comunità e grazie a cui 4 persone già sono state assunte e altre 2 lo saranno entro fine gennaio.

6.3 Le scorciatoie per l’integrazione Redazione, 11 novembre 2010

Pochi giorni fa è apparso su Il Sole24Ore un articolo sulla proposta del Governo britannico di condizionare l’erogazione del sussidio di disoccupazione all’impiego dei disoccupati in attività lavorativa, generalmente (ma non solo) di utilità sociale. L’intento dichiarato è quello di aiutare il disoccupato a riconquistare ritmi e mentalità tipici del mondo del lavoro (insomma, verrebbe da pensare a noi

mediterranei, quella tipica che in Italia ha caratterizzato le persone impegnate in lavori socialmente utili) o forse quello di scoraggiare opportunismi e passività.

Forse qualcosa non torna, in queste proposte. Certo, noi italiani, tra i pochi paesi UE a non avere misure universalistiche di sostegno al reddito, non possiamo certo eccepire sul fronte di una lesione al diritto esigibile ad una capacità di consumo minimo.

Potremo forse storcere il naso nell’intravedere un intento “punitivo” nei confronti dei disoccupati, anche se in fondo pure in Italia sono presenti misure che sanzionano l’indisponibilità al lavoro.

Potremo interrogarci su dove stiano andando i nostri sistemi di welfare – inglese, italiano e di altri paesi occidentali – tra misure il cui sapore ricorda vagamente le sei – ottocentesche workhouse, la poor law e la sostituzione di pezzi del lavoro sociale con disoccupati in libera uscita.

Ma forse, più di tutto, da cooperatori sociali sappiamo che la “mentalità del lavoro”, l’autostima e tutti gli altri esiti positivi auspicati da Cameron non si ottengono con il mero invio coatto ad un impiego lavorativo del proprio tempo. Far (ri) appassionare al lavoro e alla vita attiva si può, entro organizzazioni che abbiano fatto di questo la loro missione e specializzazione. Che possiedano quella “formula non brevettata”, quel mix di organizzazione, risorse umane, competenza, ecc. tipico delle cooperative sociali. Che non a caso nella propria storia hanno avuto successo con molte persone lontane dal mondo del lavoro, compresi i disoccupati di lungo periodo. Le scorciatoie, invece, di solito non funzionano.

6.4 Esperienze

6.4.1 Provincia di Catania e Idea Agenzia per il Lavoro, un accordo per l’occupazione

Idea Agenzia per il Lavoro, 14 marzo 2011

Anche questa buona prassi è stata presentata nel seminario di Roma del 20 gennaio; riguarda una sinergia tra la Provincia di Catania, il Consorzio Idea Agenzia per il Lavoro e il suo socio locale Laire per realizzare percorsi di integrazione lavorativa e sociale delle persone deboli. Sulla base dell’accordo, la Provincia si è impegnata a:•coinvolgere Idea Lavoro in tutti i tavoli per le politiche del lavoro e facilitare

l’instaurarsi di collaborazioni con altri EE.PP. (es. ASL, DAP, Università, etc.) e tutti gli altri interlocutori pubblici e privati;

• facilitare il contatto tra Idea Agenzia per il lavoro e le aziende, in specie quelle in obbligo L 68/99, fornendo l’elenco delle aziende;

Le parti hanno fatto ricorso alla forma del Protocollo di Intesa; il primo accordo è stato stipulato nel 2002, poi, considerati gli esiti positivi, nel luglio 2010 è stato firmato un secondo Protocollo d’Intesa che ha fra i suoi obiettivi anche quello di favorire l’applicazione dell’art 12 bis L 68/99.

Il protocollo può documentare risultati concreti, sia sul fronte dei tirocini che degli avviamenti al lavoro veri propri; di seguito i dati sino al 2008.

56Dal Libro Verde al Libro BiancoLa cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo - Il percorso di Federsolidarietà Idee in Rete

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tirocini formativi avviamenti al lavoro totale

2002 16 26 42

2003 12 15 27

2004 30 10 40

2005 33 105 138

2006 44 74 118

2007 158 134 292

2008 166 25 191

459 389 848

Il protocollo ha inoltre previsto la collaborazione con l’Università di Catania per l’elaborazione e l’implementazione di metodiche sull’inserimento lavorativo da cui sono nate alcune pubblicazioni.

6.4.2 Inserimento lavorativo oltre le B: un possibile esempio Moltiplica - Federsolidarietà Umbria, 6 dicembre 2010

Numerosi contributi di questo blog hanno messo in luce la necessità di interrogarsi su funzioni di inserimento lavorativo che vadano oltre gli orizzonti delle cooperative di tipo B. Proviamo oggi, attraverso l’illustrazione di una buona prassi, ad affrontare il possibile ruolo dei servizi di collocamento rivolti ad assistenti familiari e alle famiglie che fruiscono delle loro prestazioni. Si tratta di un lavoro nella maggior parte dei casi de-professionalizzato, dove la famiglia può trovarsi da un giorno all’altro priva di servizio per malattia, assenza o diverse scelte personali e professionali dell’assistente, e in cui quest’ultima opera in un contesto completamente privo di garanzie. Una buona prassi che affronta tali problematiche ricorrendo a servizi di collocamento realizzati a partire dalla particolare sensibilità delle cooperative sociali è quella del consorzio Moltiplica di Perugia illustrata nel corso dell’ultimo workshop di Iris Network a Riva del Garda.

Le cooperative del consorzio si occupano di regolarizzare il lavoro sommerso, formare le assistenti che svolgono il lavoro di cura, selezionare le assistenti, offrire un servizio di intermediazione alle famiglie, nonché provvedere alla sostituzione dell’assistente in caso di sua assenza.

Dal 2009 un partenariato tra Consorzio Moltiplica, Confcooperative e Confcommercio fa nascere il progetto Casamica. L’ente locale contribuisce all’azione intervenendo nell’abbattimento di alcuni costi legati al servizio offerto dalla cooperativa, favorendo le famiglie sul versante della contribuzione e assicurando all’assistente privo di formazione l’affiancamento di un operatore socio sanitario che svolge una funzione di tutoraggio soprattutto in situazioni di non autosufficienza. Questo intervento consente anche di prevenire eventuali situazioni critiche legate all’improvviso abbandono da parte dell’assistente familiare. Tutto ciò è regolato da un Accordo di Collaborazione (art. 119 del d.lgs 267/2000) tra soggetti pubblici e privati. Ad oggi sono 654 le famiglie che dal 2004 sono state seguite attraverso

il progetto; 186 oggi sono attualmente seguite mentre sono circa 200 i pacchetti formativi attivati.

6.4.3 Veneto: inserimento lavorativo e politiche attive del lavoro

Federsolidarietà Veneto, 3 marzo 2011

Negli ultimi anni la cooperazione sociale ha realizzato una serie di interventi e servizi rivolti a fasce deboli del mercato del lavoro e della popolazione. Interventi e servizi, non solo quelli oggetto dell’attività della cooperazione sociale, vanno distinti in due categorie.

La prima categoria è formata dagli interventi a sostegno della occupabilità, cioè tutte le iniziative finalizzate a migliorare le competenze trasversali (autonomia di spostamento, elementi essenziali di informatica, uso di semplici attrezzature, conoscenza della normativa,...) e, soprattutto, l’inserimento nelle reti sociali ed economiche portatrici di opportunità di lavoro. In altri termini, i servizi per l’occupabilità hanno l’obiettivo di attrezzare la persona con capacità relazionali, contatti con il mercato attivo, conoscenze sui servizi e sulla normativa, competenze trasversali e tutto ciò che la può rendere più competitiva nelle fasi di transizione verso il lavoro. In questa categoria rientrano i tirocini, la formazione di base, i CLG, ...

La seconda categoria è costituita dai servizi per l’occupazione, cioè i servizi che facilitano e promuovono l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Nel nostro territorio risulta debole l’azione presso le aziende, i CpI non sembrano alimentare a sufficienza i contatti con le aziende e con gli imprenditori mentre le Agenzie di Somministrazione sono sbilanciate verso gli interessi delle aziende, operando una scelta severa tra i lavoratori, dalla quale escono perdenti tutti quelli che non hanno un profilo socio-professionale solido.

In questa situazione, si vuole proporre un Sistema di Interventi per l’Occupabilità ed il Lavoro che raccorda le esperienze delle cooperative sociali in favore delle fasce deboli del mercato in un continuum di strumenti che possono essere messi in gioco a seconda delle necessità. In altri termini, si propone un dispositivo che comprenda gli strumenti sperimentati separatamente: doti per i lavoratori in CIG e Mobilità in deroga, inserimenti per lavoratori privi di ammortizzatori sociali, tirocini, CLG, PAI, … L’introduzione di un simile dispositivo svilupperebbe una modalità di accesso unitaria, basata sull’incrocio di variabili sociali, familiari, occupazionali finora considerate separatamente, con rischi di confusione anche normativa tra i diversi livelli di svantaggio e di povertà.

A questo proposito si fa riferimento a misure regionali (DGR n. 2472 del 4.08.2009 e DGR n. 427 del 23 febbraio 2010), concepite come contrasto alla crisi economica, relative alla realizzazione di progetti di pubblica utilità attraverso l’utilizzo di lavoratori sprovvisti di ammortizzatori sociali, cofinanziati dalla Regione al 50% del costo del lavoro. I progetti presentati nel 2009 sono stati 57 e i lavoratori che ne hanno beneficiato sono stati 221, lavoratori che se non fossero stati inseriti nei progetti non avrebbero avuto alcun sostegno del reddito. Successivamente l’intervento è stato riproposto prevedendo l’ampliamento dei beneficiari a

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persone che sono in carico ai servizi sociali anche da molto tempo e che gli enti locali per finanziare la parte dell’intervento a loro carico possano avvalersi anche di contributi privati.

La proposta emersa dal gruppo di lavoro di Federsolidarietà è che questo tipo di intervento sia in collegamento funzionale con gli sportelli per il lavoro; si tratta di mettere insieme i servizi tesi a rinforzare la capacità di ricerca attiva del lavoro attraverso l’orientamento o le sue competenze in termini di formazione con quelli, previsti dalla citata DGR 427, che offrono una soluzione di breve periodo lavorativo che mette le persone direttamente in condizione di sperimentarsi in un’attività. Essendo questi due servizi attivi e promossi dalla rete delle cooperative sociali e Consorzi soci di Federsolidarietà, ha senso procedere con soluzione di continuità nella costruzione di un’offerta ancora più solida per questi beneficiari, immaginando un cantiere di gestione federativo che valorizzi le specificità e promuova l’efficacia/efficienza.

6.4.4 Il caso Ravenna, dal SIIL al Patto per il Lavoro Federsolidarietà Emilia Romagna, 11 febbraio 2011

Tra gli interventi proposti nel seminario di Bologna sul Libro Verde, vi è stato quello di Massimo Caroli che segue queste tematiche per conto di Federsolidarietà Emilia Romagna. Il suo intervento, qui disponibile in forma completa, ha utilizzato l’esempio del consorzio Fare Comunità di Ravenna per evidenziare alcune strategie da mettere in atto sul fronte dell’inserimento lavorativo.

Oggi il consorzio gestisce il SIIL (Sostegno Integrato Inserimento Lavorativo) che grazie al lavoro di 23 operatori ha in questi anni realizzato circa 300 progetti di inserimento lavorativo all’anno, con una media annuale di 80 assunzioni, per un totale di 700 nel periodo 2001-2009. Questi risultati sono stati ottenuti agendo su diversi fronti:•sostegno alle imprese per assolvere gli obblighi della legge 68/99;•progettazione di percorsi d’inserimento più idonei e maggiormente gratificanti

per i lavoratori disabili e per le imprese;•periodi di formazione e tirocini preparatori;•sostegno agli inserimenti con personale specializzato nella mediazione al lavoro.

È ora in via di costituzione un “Patto per il lavoro” con la partecipazione di CCIAA, AUSL RA, Sindacati, consorzi di cooperative sociali del territorio, 18 Comuni, Provincia, INAIL, AICCON. Il “Patto” ha lo scopo di promuovere la responsabilità sociale di tutti i portatori di interessi, a partire dalle imprese, e di favorire processi quali:•adozione di clausole sociali o ambientali all’interno degli appalti;•adesione a codici di condotta da parte delle imprese con cui le autorità pubbliche

entrano in relazione;•sostegno e promozione di forum di imprese responsabili.

Per ottenere ciò è necessario ri-articolare, in modo originale, il campo dell’azione

pubblica, tradizionalmente organizzato rigidamente per settori e quindi con grandi difficoltà ad intervenire su questioni che si svolgono in contesti sempre più complessi e articolati e che coinvolgono una pluralità d’attori. È al contrario necessario porre al centro l’integrazione tra ambiti e settori di intervento per trovare “soluzioni” nuove e originali.

6.5 Verso le politiche attive del lavoro Valerio Luterotti, 8 novembre 2010

Considero l’aspetto delle politiche del lavoro come un quadro prioritario entro cui disegnare il nuovo ruolo della cooperazione sociale B perchè oltre ad alzare il tiro della loro missione (azione di regia, di 2° livello rispetto all’azione della singola coop. B, di sistema rispetto ai sistemi economici locali per quanto riguarda la creazione di nuova occupazione), propone un’azione innovativa non solo difensiva. Candidarsi al ruolo di regia delle politiche del lavoro nei contesti locali significa sdoganarsi dalle gabbie più o meno protette entro le quali siamo inseriti che, se non riuscissimo a trasformarle in strumento di cambiamento delle regole del gioco, sono destinate a trasformarsi in riserve indiane visitate con curiosità folkloristica dagli imprenditori “normali” e funzionari politici in cerca di emozioni inconsuete.

Insieme alla necessaria azione difensiva della 381, dell’art. 5 e degli altri risultati già raggiunti, peraltro oggi sotto attacco dal mercato e dalla politica, dobbiamo incalzare con nuove propositività, ampliando l’ambito di azione del nostro agire. Per questo la necessità di collocarci ad un ruolo di secondo livello, in regie di sistemi, pluralizzando l’arena degli interlocutori ma anche la capacità di intessere reti e filiere produttive intercooperative su singoli prodotti per moltiplicare la capacità competitiva sul mercato. Il tema del sotto soglia, seppur lo dobbiamo difendere fino al limite, non sarà mai garanzia del nostro futuro; dobbiamo orientarci noi al sopra soglia prima che ce lo impongano altri e lo possiamo fare solo se le singole cooperative fanno sistema con quelle analoghe per proporre al mercato intere filiere di prodotto per intercettare contratti o appalti di ampie dimensioni nazionali e non solo (energia e ambiente, mercato del verde, gestione dei servizi per la collettività, ecc.). Cioè, da un lato dobbiamo difendere l’acquisito ma al contempo dobbiamo innovare il nostro modo di essere nel mercato secondo parole chiave molto precise: a) integrazione tra cooperative non solo sociali, b) maggior dimensionamento dell’azione produttiva (non vuol dire cooperative grandi ma grandi sistemi di cooperative connesse con contratti di rete), c) elevazione del livello tecnologico, logistico e commerciale del nostro potenziale (coop. B), d) formazione dirigenti e “lavoratori “normodotati nelle coop. B.

Avremo un futuro se riusciremo ad industrializzare i processi produttivi e commerciali mantenendo la centralità relazionale tra le persone nelle singole unità produttive. I ritardi in questo senso sono solo nostri, perchè siamo da tempo tutti consapevoli che la scommessa dello sviluppo delle B si gioca nella nostra capacità di divenire protagonisti nel mercato del lavoro più che in quello dei servizi socio-sanitari. È la componente produttiva, “normodotata” che richiede il massimo investimento di attenzione, competenza e sensibilità strategica.

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7 Raccontare l’inserimento lavorativo7.1 Il riscatto sociale delle “cape guastate” Federsolidarietà Puglia, 9 febbraio 2011

È stato recentemente pubblicato il libro “Cape guastate”, scritto da Piero Rossi e edito da Manni. Si riportano alcune recensioni del libro.

Un gruppo di ex-detenuti e piccoli criminali, cerca di individuare una via di rinascita dal basso, con un po’ di forzatura sul naturale andamento delle cose. Don Mimmo, parroco paziente, si trova a essere eletto, suo malgrado, come portavoce di questo gruppo. L’obiettivo, anzi, l’escamotage tecnico, è quello di creare dal nulla una commessa multiservizi per la cui gestione il Comune necessita di una cooperativa. La neonata “Cambiamento” sarà questo coacervo sociale pronto ad accogliere tutti i reietti della zona, o meglio, quelli che avranno passato le maglie larghe della selezione operata da don Mimmo. Un recruitment che non va tanto per il sottile e che non fa certo riferimento agli indici ISEE, a volte poco veritieri: “Non ci fu che un criterio: don Mimmo certificava che l’aspirante in analisi era un poveraccio vero, che non sapeva più di che vivere e davvero aveva voglia di cambiare, per lo più perché non ce la faceva più”. Contratti e regole non sono proprio i contenitori formali più amati da chi è abituato a vivere in modo anarchico. Il lavoro di una cooperativa composta da ex detenuti o impegnata nel sostenere ragazzi difficili di periferia è un lavoro culturale prima ancora che sociale. Interessante è l’alternanza, tra inizio e svolgimento di ogni capitolo, di ciò che dovrebbe essere e di ciò che accade. Viene riportato in perfetto burocratese l’iter e il regolamento che una cooperativa dovrebbe seguire per espletare le sue funzioni. Dopodiché la teoria viene fatta scontrare con la materia pulsante della vita per ottenere effetti a volte esilaranti.

Piero Rossi, avvocato specialista in diritto civile e criminologo clinico, è presidente di Confcooperative per la provincia di Bari, e il fatto di avere fondato una cooperativa sociale per ex-detenuti, rende il suo racconto un romanzo godibilissimo e un documento in presa diretta da un mondo possibile e altrettanto fragile, quello della riabilitazione sociale, senza scivolare nel moralismo pedagogico.

7.2 Un film sulla cooperazione sociale di inserimento lavorativo

Redazione, 5 dicembre 2010

Dopo il successo di Si può fare, un nuovo film che racconta la cooperazione sociale di inserimento lavorativo. Si tratta di 40%. Le mani libere del destino, realizzato da una cooperativa sociale torinese, Arcobaleno.

40% racconta la storia di Lucio, un ragazzo “difficile” che tenta di riscattarsi da una vita vissuta nell’anonimato della periferia e dai problemi avuti con la droga e con la legge. Dopo essere uscito da una comunità di recupero, il protagonista inizia a

lavorare in una cooperativa sociale, dove incontra moltissime persone con alle spalle storie di vita difficile quanto la sua. Non senza difficoltà e conflitti, Lucio cerca di integrarsi nel gruppo, riuscendo a scrollarsi di dosso la pesante eredità del suo passato proprio grazie al sostegno dei suoi compagni.

40% si avvale dell’interpretazione di attori esordienti e degli stessi lavoratori della cooperativa, ma compaiono anche gli interventi del presidente del Brasile Luis Ignacio Lula da Silva, del premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchù, di Beppe Grillo e Michele Santoro, oltre all’amichevole partecipazione di Luciana Littizzetto. Disponibile in rete una intervista a Luciana Littizzetto sul film, un vero spot per la cooperazione sociale.

Il film è accompagnato da musiche di Modena City Ramblers, Africa Unite, Alchimie Mediterranee, Spadara, Arsenico, Tequila’s Mind, Max Maber, Orkestar, Baby Blue. 40% ha ricevuto dalla Commissione di Revisione Cinematografica il riconoscimento della qualifica di “film per ragazzi”, “per i messaggi positivi ed educativi che trasmette”, ed è inoltre stato selezionato come rappresentante italiano all’Europa Film Festival del 2003.

7.3 La collana Kairos, per parlare di inserimento delle persone con disabilità

Consorzio Laire, 12 aprile 2011

La collana Kairos è frutto dell’integrazione fra un attore pubblico, l’ASP 3 di Catania, e uno del privato sociale, il Consorzio Laire, coinvolti insieme nell’azione di promozione dell’inclusione socio – lavorativa dei disabili. Ad essi si aggiunge il contributo di un Ente di formazione, lo CSATI (Centro Studi ed Applicazione sulle Tecnologie dell’Informazione), di autori qualificati, di Sol.Co Catania e di altri soggetti pubblici e privati che hanno collaborato all’elaborazione della collana. Dunque, accanto al contenuto, questo prodotto è di grande interesse per il fatto di essere scaturito dalla capacità di una pluralità di attori del territorio di ragionare insieme, mettendo all’ordine del giorno comune il tema dell’inclusione lavorativa dei disabili. Premessa essenziale alla strutturazione della collana è stata una ricerca - azione volta a:

•conoscere la realtà socio – lavorativa dei disabili attraverso una sistematica raccolta di informazioni effettuata tramite ricerche ad hoc coinvolgenti soggetti pubblici e privati;

• individuare le buone prassi e le esperienze eccellenti al fine di definire forme di collaborazione stabili pubblico – privato con la presenza sempre maggiore di soggetti provenienti dal terzo settore, che diano adeguate risposte ai bisogni del territorio e permettano, attraverso una costante analisi e progettazione di iniziative e metodologie comuni, la validazione di un modello congiunto di intervento;

• individuare nuovi ambiti d’intervento per rispondere alle necessità del territorio fornendo concrete opportunità di inserimento sociale e lavorativo ai soggetti disabili.

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Si è dedicata una particolare attenzione ai casi in cui tali azioni si mettono in rapporto con i Piani di Zona territoriali. Il punto di partenza è quindi quello di considerare la persona con disabilità al centro e valorizzarla come portatrice di risorse, vincoli, aspirazioni, interessi, potenzialità diverse, sulle quali impostare le attività di ricerca del lavoro, di rimotivazione, orientamento, e riqualificazione. I tre volumi sono così articolati:

•Volume 1: Inclusione socio lavorativa dei soggetti portatori di disagio psicosociale

•Volume 2: Le politiche attive del lavoro per i soggetti portatori di disagio psicosociale

•Volume 3: L’Inserimento dei disabili oggi

7.4 Le cooperative B sono poco visibili? ISNet, 1 marzo 2011

Si pubblica di seguito un contributo tratto dalla IV edizione dell’Osservatorio ISNet sulle imprese sociali. Secondo i dati ISNet, emerge una situazione paradossale. Da una parte, anche le imprese for profit cercano oggi un ruolo da protagoniste dei temi legati alla sostenibilità e all’impegno sociale, sempre più rilevanti per un pubblico di consumatori non più interessato solo ai requisiti funzionali dei prodotti e servizi. Dall’altra le cooperative sociale di tipo B, che costituiscono un modello di eccellenza in questo campo, spesso mancano di visibilità e di un corretto posizionamento di immagine, lasciando così alle imprese for profit campo libero nel presidio di una comunicazione di supporto agli acquisti di utilità sociale.

Il dato della IV edizione dell’Osservatorio Isnet sulle imprese sociali che fotografa i livelli di dinamicità relazionale su un Panel rappresentativo di cooperative sociali, non lascia dubbi in merito. Tra i vari stakeholders, la relazione con i media è quella che presenta per le imprese sociali gli indici più bassi:

Oltre la metà delle cooperative sociali non ha alcun contatto con i media, e i livelli di soddisfazione si attestano su valori bassi ed in costante diminuzione. Se le cooperative sociali, nella maggior parte dei casi, sono poco propense ad utilizzare strumenti di marketing per ottenere visibilità, è anche vero che i media, almeno quelli generalisti, continuano a dare poco spazio a questa particolare forma di impresa e quando lo fanno spesso prevale un’ottica parziale che ne enfatizza la dimensione “caritatevole”.

Inoltre, non sono rari i casi di cooperative che sottovalutano la portata sociale del proprio operato, quasi tenendo la propria mission sottotraccia, con l’obiettivo di farsi valutare in modo prioritario a partire dalla qualità dei propri prodotti e servizi, alla stregua delle imprese profit. A fronte di un consumatore sempre più in cerca di esperienze, oltre che di prodotti e servizi, le cooperative sociali potrebbero invece godere di un vantaggio competitivo legato alla propria identità.Naturalmente non mancano, nell’indagine ISNet, le iniziative di rottura e di cambiamento di prospettiva, rappresentate dalle molte cooperative sociali che negli ultimi anni hanno compreso l’utilità di “uscire allo scoperto”, senza toni retorici, ma con l’obiettivo di evidenziare la compresenza al loro interno della dimensione economica, sociale e partecipativa.

La collana I quaderni di Idee in Rete

1 - Consorzio Nazionale Idee in Rete - L’impresa sociale che non ti aspetti

Finito di stampare nel mese di novembre 2011 per conto del Consorzio Nazionale Idee in Rete da Futura Società Cooperativa Sociale onlus