DaciaMaraini Lamore Rubato

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Dacia Maraini L'AMORE RUBATO 2012 RCS LibriS.p.A., Milano

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Dacia Maraini

L'AMORE RUBATO

2012 RCS LibriS.p.A., Milano

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INDICE 1. Marina è caduta per le scale 7.

2. La bambina Venezia 25.

3. Lo stupratore premuroso 59.

4. cronaca di una violenza di gruppo 75.

5. Ale e il bambino mai nato 99.

6. La sposa segreta 115.

7. La notte della gelosia 149.

8. anna e il moro 173.

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Trama

Sono tutte qui le donne raccontate da Dacia Maraini, in questo piccolo libro importante. Sono qui a mostrarci qualcosa di intimo, qualcosa di necessario e doloroso. Le donne di Dacia sono forti, hanno lottato, a volte hanno perso ma non si sono mai arrese. Le protagoniste de L'amore rubato combattono una battaglia antica e sempre attuale, contro gli uomini amati che sempre più spesso si dimostrano incapaci di ricambiarle, di confrontarsi con il rifiuto, il desiderio. Davanti a queste donne, mariti, amanti, compagni si rivelano ragazzini che stentano a crescere e confondono la passione con il possesso e, per questo, l'amore lo rubano: alle bambine che non sanno, alle donne che si donano troppo. Come Marina, che si ostina a cadere dalle scale, come Ale, che sceglie con sofferta determinazione di non far nascere il frutto di una violenza o ancora come Angela, che si addossa, aderendo alle parole della Chiesa, le colpe che una antica misoginia attribuisce alla prima disobbedienza femminile. In tutte queste storie affilate e perfette, dure e capaci di emozionare e indignare, Dacia Maraini racconta di un mondo diviso fra coloro che vedono nell'altro una persona da rispettare e coloro che, con antica testardaggine, considerano l'altro un oggetto da possedere e schiavizzare.

DACIA MARAINI È la scrittrice italiana più famosa al mondo. Nel 1990 ha vinto il Premio Campiello con La lunga vita di Marianna Ucria e nel 1999 il Premio Strega con Buio. Tra i suoi romanzi ricordiamo Memorie di una ladra (1973), Bagheria (1993), Voci (1994), Colomba (2004) e Il treno dell'ultima notte (2008). Nel 2011 è stata insignita del prestigioso Man Booker Prize. Il suo ultimo libro è La grande festa. www.rizzoli.eu.

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Marina è caduta per le scale Il giovane dottore Gianni Lenti se ne sta seduto sullo sgabello del Pronto

Soccorso con in mano un bicchiere di polistirolo pieno di caffè.

Incollati alle orecchie ha gli auricolari da cui sgorga una musica dolce, di tipo orientale, di quelle che lui preferisce. Gli ricorda i quadri di Gauguin di cui ha visto recentemente una mostra. Donne a piedi nudi coi fiori fra i capelli, cavalli azzurri che riempiono l'orizzonte, palme dalle grandi foglie ciondolanti che si indovinano profumate e morbide. Oggi finalmente si respira. Solo un ictus in tutta la mattina.

Meno male. Quasi quasi me ne vado a prendere un gelato, si dice. Ma proprio in quel momento vede aprirsi la porta a vetri. Davanti a lui una ragazzina dagli zigomi sporgenti, i lunghi capelli castani, avanza trascinando un braccio evidentemente spezzato. «È finita la pacchia» mormora andandole incontro. Ma che cavolo le è successo, manco le fosse andato addosso un camion. È tutta coperta di lividi e il braccio penzola da una spalla rigida. di essere caduta dalle scale» commenta acida Ada l'infermiera, «te ne occupi tu?» «Che scale?» «E che ne so? Non parla. D'altronde nessuno le ha chiesto i dettagli del ruzzolone.

Una firma, i documenti e basta.» Il dottor Gianni Lenti la guarda attentamente. Gli pare di averla già vista. «Ma lei non è venuta un'altra volta qui al Pronto Soccorso con due costole rotte e un sospetto di strangolamento?» Marina Savina - questo il nome scritto sulla cartella d'ingresso - scuote il capo con aria testarda. Ma non ha il coraggio di reggere lo sguardo del dottore che sembra dire: sì che sei tu, ti riconosco. «Cosa è successo?» chiede lui continuando a fissarla. «Sono caduta dalle scale» risponde lei ma con un filo di voce, cocciuta, assente, tenendo gli occhi bassi. «Neanche ti fossi buttata dalla finestra!» insiste lui. «Chi ti ha spezzato questo braccio?» Nessuna risposta. Il dottore la affida alla collega per la radiografia.

Intanto prepara le stecche e le bende per l'ingessatura. Marina Savina affronta con coraggio il dolore. Stringe i denti e guarda da un'altra parte quando il dottorino le tira il braccio rotto, quando glielo fascia con il gesso bagnato, quando le tocca il naso, da cui esce il sangue, per vedere se c'è qualcosa di rotto anche lì. «Il naso è a posto» dice con voce gentile ma anche stizzita. Ormai ne ha viste troppe di donne che vengono al Pronto Soccorso coperte di lividi e dichiarano che sono cadute dalle scale. «Dovreste inventare qualcosa di più originale» commenta

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accompagnandola alla porta. Quella ragazza magrissima e tutta occhi gli mette tenerezza. È il suo silenzio però che trova inquietante. Un silenzio di complicità, di paura, di difesa, di resa? «Come vai a casa adesso?» aggiunge con voce preoccupata. Ma lei non risponde. La vede allontanarsi a piedi lungo il marciapiede affollato col braccio al collo, la borsa povera, di finta pelle, appesa alla mano libera. Si muove lesta, un poco legnosa, come una bambina timida e fiera, pensa il dottore mentre la vede scomparire tra la folla. Circa un mese dopo, il dottor Gianni Lenti se ne sta seduto vicino alla finestra lamentandosi per il caldo. L'estate sembra essere arrivata tutta d'un tratto portando afa e sudore. Ha sempre alle orecchie gli auricolari e ascolta la stessa musica delle isole lontane che gli ricorda i quadri di Gauguin. È talmente stanco che quasi non riesce ad ascoltare le sue note predilette. In mattinata ci sono stati due incidenti d'auto con gambe rotte, bacini dissestati, un ictus, due infarti e due casi di demenza senile, «Oggi proprio non si respira» dice guardando la porta del Pronto Soccorso che si apre e si richiude lenta su se stessa con un lamento flebile. E proprio mentre prova a concentrarsi sulla musica hawaiana pensando al fresco di una palma azzurra da cui pendono dei frutti gialli bagnati dalla rugiada, vede entrare una ragazza che si fa strada zoppicando e perdendo sangue dal naso. Cavolo! si dice riconoscendo la tipa dal braccio rotto che era venuta il mese scorso.

Ora quel braccio non porta più l'ingessatura e ciondola un poco rattrappito lungo il fianco. Ma la ragazza zoppica vistosamente e la faccia è coperta di ecchimosi. Dal naso, che tiene tamponato con un fazzolettino azzurro, cola copioso il sangue. «Sei caduta ancora una volta dalle scale?» le chiede aggressivo e scherzoso. Un piccolo sorriso increspa le labbra violacee della ragazza. «Oh, finalmente ti vedo ridere. Tuo padre ti picchia, di' la verità» aggiunge prendendola per un braccio e portandola verso la saletta attrezzata. Ma lei non risponde, chiusa com'è in un mutismo rabbioso e umiliato. «Vabbè, non importa, se non vuoi rispondere, peggio per te... Fai un po' vedere...» La ragazza si sfila con gesto timido la camicetta rosa mettendo a nudo una spalla su cui spiccano dei segni di frusta e il collo coperto di lividi. Il dottorino osserva con un misto di pietà e di tenerezza quella canottierina scolorita dai tanti lavaggi, con due gore sotto le ascelle.

«Chi ti concia così? Devi parlare. Non puoi continuare a dire che sei caduta dalle scale, nessuno ti crede più. Perché non parli?» La ragazza solleva su di lui uno sguardo timido e furioso. Come a dirgli di stare zitto, di non impicciarsi, che quelli sono affari suoi. Il dottor Gianni Lenti alza le spalle scoraggiato. Quindi la tira per un braccio, delicatamente, verso la finestra. Non osa dirle di togliersi la

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canottiera. Sotto non porta niente. Le scosta la bretella per osservare una ferita sulla spalla. Poi, con pazienza, afferra una garza con la pinza, la immerge in un liquido color ruggine e la passa sulla lesione.

«Ma qui ce n'è un'altra sotto l'orecchio. Con che cosa ti ha picchiata?» le chiede sapendo già che non avrà risposta. «Un bruto, ma proprio un bruto e tu non hai il coraggio di denunciarlo. Ma questa volta lo faccio io per te» dice indignato il dottor Gianni Lenti, che avrebbe preferito ascoltare la sua musica dalle onde caramellose piuttosto che affrontare questa ragazzina che sembra cieca e sorda. Le osserva la faccia piccola, pulita, inaccessibile. Una ruga le taglia la fronte in due, proprio fra un occhio e l'altro, dall'attaccatura dei capelli verso il naso come una cicatrice. È il solo segno di un cruccio che la abita. Per il resto sembra la faccia liscia e impenetrabile di una bambola. Il dottore la osserva indispettito, pur ammirando il coraggio con cui affronta le cure dolorose. Da quella bocca piccola e serrata non esce un solo lamento.

Ora ha finito di pulire le ferite. Prende in un cassetto di metallo dei cerotti e si appresta a coprire le piaghe. «Per fortuna non c'è stato bisogno di punti. Ma sei piena di lividi. Ti do una crema, prendi.

Usala, a casa, questa sera.» La vicinanza di quel corpo gli mette addosso una strana sensazione di tenerezza. Voglia di proteggerla, pensa. Quasi fosse una figlia. Curioso che da quel corpicino martoriato non salgano odori di sudore, di sporco. Deve essere povera ma pulita, si dice il dottor Gianni Lenti avvertendo nelle narici un leggero sentore di sapone e mentuccia. «E questa cos'è?» dice scostandole un poco i capelli sulla nuca. Un'altra ferita, che non aveva visto. «Qui ci vogliono dei punti... aspetta... ti metto dell'anestetico, ma un poco di dolore lo sentirai lo stesso, ce la fai?» La ragazza volta il capo dall'altra parte e stringe le labbra. Il dottorino cerca di agire con delicatezza ma quella ragazzina cocciuta lo innervosisce. L'ago non vuole entrare nella pelle e lui suda, suda, nello sforzo di farle meno male possibile. Lei non fiata. Lui sente le dita che scivolano dentro i guanti di lattice. Ha l'impressione che l'ago sia animato e gli sfugga come un serpentello indiavolato. Ad un certo punto gli schizza via dalle dita. Ed è costretto a prenderne un altro. Si sfila i guanti con un gesto di insofferenza, si asciuga la fronte con una garza, caccia le mani sotto il rubinetto, indossa un paio di guanti nuovi, ricomincia a cucire mentre lei se ne sta immobile e impietrita sul seggiolino girevole. «Abbiamo finito» dice poi il dottore asciugandosi con il gomito la fronte bagnata. Si accorge che lei gli lancia uno sguardo ironico di sfida. È pallida e tesa, ma ha gli occhi sfavillanti. «Puoi rimetterti la camicia» dice lui mentre si lava le mani e la faccia sotto il rubinetto. La ragazza si alza, indossa

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la camicia, sempre in silenzio e si avvia verso la porta. «Neanche un grazie!» la incalza lui a voce alta. E la vede di lontano che fa un ridicolo inchino, come fanno le bambine di fronte a un monsignore. Sei proprio buffa, pensa il dottor Gianni Lenti. Ma appena la vede scomparire si precipita a controllare il quaderno degli ingressi: Marina Savina, anni diciassette. Coniugata. A guardarla. le si darebbero appena quattordici anni, tanto è minuta, fragile e magra. Se è sposata, il picchiatore deve essere il marito, si dice e butta giù rapido una relazione. "...la terza volta che viene al Pronto Soccorso per ferite lacerocontuse. La suddetta Marina Savina sostiene di essere caduta dalle scale. Ma noi riteniamo che sia stata picchiata..." Boh, staremo a vedere, si dice Gianni Lenti mentre si avvia a passi veloci verso il caffè di fronte. Ha bisogno di qualcosa che lo tiri su. Un altro caffè? Ne ha sorbiti già tre stamattina. Forse un cognac. O magari un panino. Ora che ci pensa non mangia da ieri sera.

Chissà che non c'entri anche un panino con la salsiccia! Il giorno dopo una timida assistente sociale si presenta a casa Savina chiedendo della signora Marina. Un uomo giovane, in camicia azzurra e cravatta rossa, apre la porta d'ingresso e la guarda con curiosità. «Cosa vuole?» le chiede gentilmente. «Mi chiamo Angela Toro. Sono una assistente sociale.

Vengo per una denuncia.» «Una denuncia?» «La denuncia è arrivata dal Pronto Soccorso dove la signora è stata curata più volte per ferite da percosse. Si tratta di sua moglie, vero?» «Percosse? La prego, non dica cose che non sa. Mia moglie soffre di epilessia e tende a cadere, dovunque si trovi. È stata in cura, ma vede, da alcuni mesi ha smesso di prendere le medicine ed è in balìa delle sue crisi. La prego, entri, le posso offrire un caffè?» La giovane e inesperta assistente sociale si guarda intorno sorpresa. Non sembra la casa di un orco, come se l'era immaginata. È pulita e ben tenuta. Piccola ma fornita di un salottino dalle poltrone in pelle finta color ocra. Sul fondo si scorge un cucinino d'angolo appena difeso da una tenda. Più in là una camera da letto che si intravvede dietro una porta socchiusa. Non ci sono segni di degrado. E il padrone di casa, il marito sospettato, le sta davanti compito, con le belle mani abbronzate aperte sulle ginocchia, un sorriso garbato e ospitale stampato sul viso giovane e bello. «La signora ha detto di essere caduta dalle scale, ma qui non vedo scale.» «Be', certo, stiamo al piano terra.» Il giovanotto butta indietro la testa e ride come se avesse sentito la battuta più comica del mondo. «Come ha fatto sua moglie a rompersi un braccio?» «Io preferirei che stesse in casa e uscisse solo con me, ma Marina è inquieta, le piace andare fuori da sola quando io sono al lavoro. Le piace camminare per la città. Poi l'assale una crisi e cade. Può sbattere contro uno spigolo, un palo. Una volta per

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poco non è finita sotto una macchina. Me l'hanno portata a casa ancora svenuta. Era caduta in mezzo alla strada, sulle strisce, pensi un po'.» La giovane assistente sociale, che era arrivata combattiva e piena di pregiudizi, comincia a chiedersi se non si sia sbagliata; quel giovanotto così gentile, così compito, dal viso limpido e sincero, non può essere il picchiatore sospettato dal giovane dottore Gianni Lenti.

Se veramente è epilettica. Marina Savina può anche essere che cada e si faccia male per strada. «Ma perché la signora non ha detto di soffrire di epilessia? Ogni volta ha sostenuto di essere caduta dalle scale» insiste Angela Toro, ma senza convinzione, solo per fare fino in fondo il proprio dovere. Il suo sguardo è attratto dalla faccia soave del giovane uomo che la guarda con occhi sorridenti e quasi affettuosi. Vede le mani lunghe e abbronzate che si alzano come per difendersi da un dubbio offensivo e vede la faccia farsi seria, prendere l'aspetto di chi è sinceramente ferito per essere stato sospettato a torto. «Marina è una moglie meravigliosa che io amo profondamente. Ma è cocciuta come una capra. Non vuole ammettere di non essere autonoma. Non vuole che le si impedisca di uscire. E io non glielo impedisco, anche se sto sempre in pena. Ogni volta mi torna a casa con dei cerotti, delle ingessature. Ma che faccio, la lego al termosifone? Eppure una mia compagna di scuola, me la ricordo ancora, Pinuccia Misirizzi, la chiamavamo così, perché cadeva sempre e poi si rialzava come un pupazzetto. Be', il padre, quando doveva allontanarsi da casa, la legava al termosifone. Per impedirle di uscire, capisce. Perché non si facesse male. Ma io non voglio arrivare a tanto. Non la chiudo neppure in casa. Che vada! Purché stia attenta! Non le pare?» Il giovane bell'uomo è talmente convincente che la timida assistente sociale Angela Toro si sente quasi in colpa per averlo sospettato. Certamente questa Marina deve essere una donna cocciuta. Perché uscire se poi cade e si fa male? «Ma poi, non esageriamo» continua lui suadente, «in quattro anni che siamo sposati sarà andata al Pronto Soccorso due volte, forse tre.» «Tre volte, dice il dottor Gianni Lenti.» «Be', tre, ma non è molto se pensa che ogni giorno esce di casa e si fa parecchi chilometri a piedi. Va e torna, non è che ogni giorno cade.» «Sì, ha ragione. Lo dirò al dottore. E lo dirò anche alla polizia che mi ha mandato da lei.» «Vuole ancora del caffè

? Ho qui dei cioccolatini, buonissimi, non vuole assaggiarne uno? Vengono da Bruxelles, ha visto? hanno forma di conchiglia. Sono bravissimi i belgi nel confezionare cioccolatini artistici... la prego, ne assaggi uno, uno solo.» La timida Angela Toro si mette in bocca un cioccolatino e vede gli occhi dell'uomo che sorridono grati, quasi complici. Non può fare a meno di sorridergli anche lei e ringraziarlo per quell'accoglienza davvero affabile. «Ma sua moglie dov'è in

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questo momento?» chiede l'assistente, mentre si alza per congedarsi. «Marina? Credo che sia uscita. Come vede, non la trattengo. Sarà andata per compere. Le piace tanto comperare. Mi ha quasi dissanguato

con la sua mania degli acquisti» dice ridendo. L'assistente Angela Toro sente qualcosa di stonato in quella voce, come se recitasse una parte. Ma scaccia quel pensiero che le pare ora irriverente. Un marito così innamorato della moglie! L'uomo sembra avere un poco fretta, anche se non vuole mostrarlo. L'accompagna premurosamente alla porta e aspetta che lei monti sulla Seicento blu che ha posteggiato all'angolo della strada. Le fa un saluto con la mano prima di rientrare e chiudere la porta con un calcio. «Una deficiente ficcanaso!» sentenzia aprendo la portafinestra che dà sul terrazzino e tirando per un braccio la moglie che se ne sta accovacciata per terra. Marina sa già che cosa l'aspetta e rintana la testa fra le spalle cercando di farsi piccola. «Sei andata a denunciarmi, stronza di merda!» «No, è stato il dottore!» «Dovevi dire che sei epilettica. Te l'ho ripetuto tante volte. Ma tu niente, come se fossi sorda! Perché parli di scale quando qui non abbiamo scale?» Marina serra i denti e aspetta le botte che seguono di solito le parole rabbiose del marito. Ma questa volta lui sembra ripensarci. Dopo avere sputato giù dal balcone, dopo avere fatto un lungo sospiro ed essersi ravviato i capelli con le dita aperte, si avvicina a lei allungando le braccia, un sorriso affettuoso sulle labbra. «Vieni qui, bambina! Lo sai che ti voglio bene. Sei tutto per me. Non ti picchierò più, te lo giuro.

E comunque la prossima volta ti medico io. Non ti faccio andare al Pronto Soccorso. Sono tutti pazzi da quelle parti. Pazzi e impiccioni.

È facile: basta comprare una boccia di disinfettante. Basta comprare del cotone, della garza e... be', se serve anche dell'ago e del filo. Io so come si fa... vieni qui, bambina mia, abbracciami. Siamo una cosa sola tu e io, lo sai? Tu mi ami e io ti amo. Nessuno può dividerci. Non ti ho sposata per questo? Abbiamo pochi soldi ma che ci fa! Ce n'è abbastanza per sopravvivere, no? Abbracciami amore mio, sei l'unica persona al mondo che abbia mostrato dell'affetto per me. Lo sai che ho perso mia madre a sette anni. Uccisa da mio padre, lo sai, te l'ho raccontato tante volte. Davanti ai miei occhi, quel cornuto, quel criminale... è stato tanti anni in prigione e poi, non so, è sparito. Io sono solo, capisci, solo al mondo. Se te ne vai tu, che faccio? Promettimi che starai sempre con me, amore, prometti!» Marina lo stringe a sé chiudendo gli occhi. Anche lei è sola. Madre e padre sono morti in un incidente quando era piccola. È stata cresciuta da una nonna rigida e severa. Che è morta da qualche anno. Non ha fratelli, solo un cugino che ha perso di vista. «Ti amo. Marina» dice lui affondando la testa nel suo petto. Ed è sincero. Marina lo

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sa. Anche se l'amore non gli impedirà di pestarla quando ne avrà voglia. «Dimmi che mi ami, dimmelo. Marina. Ho bisogno di sentirmelo dire. Ti prometto che non ti farò più del male.

Mai mai mai. Te lo giuro. Dimmi che resterai sempre con me. Dimmelo!» «Te lo prometto» ripete un poco meccanicamente Marina. E lui la bacia con tanta dolcezza, con tanta dolcezza che ancora una volta Marina si sente sciogliere il cuore. Ha promesso che non mi picchierà più, l'ha promesso, si dice, e io gli credo, è l'ultima volta che gli credo, ma gli credo. E si abbandona ai baci di un marito giovane, bello e tenerissimo.

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La bambina Venezia Una bambina chiamata Venezia. I genitori l'avevano desiderata tanto. Da

quando si erano scambiati l'anello davanti al sindaco non avevano fatto che provare. Si erano sottoposti a tanti esami, avevano consultato tanti medici. Era risultato che il seme di lui era debole, quasi asfittico.

Aveva abbastanza energia per correre verso l'ovulo, ma una volta raggiunta la mèta, non riusciva ad entrare, e moriva disseccato alle porte della vita. Dopo anni di tentativi inutili e spese assurde, il bell'Ottavio e la generosa Letizia avevano rinunciato ad avere figli e conducevano una vita matrimoniale monotona e priva di sorprese. Lui impiegato in una piccola agenzia matrimoniale, lei insegnante in una scuola privata, alle elementari. «Io che combino matrimoni» diceva lui ridendo nel rilevare il paradosso, «non riesco a diventare padre. Io che incoraggio la gente a sposarsi, con l'argomento che è bello creare una famiglia, anche numerosa, eccomi qua, sterile e freddo come un coccodrillo.» La moglie cercava di consolarlo dicendogli che in fondo i figli sono sempre una fonte di guai e di spese e loro di soldi ne avevano ben pochi. Ma lui non si consolava. Da ultimo era diventato bravissimo a calcolare i tempi fertili di lei e appena ne arrivava uno, si accaniva sul corpo della moglie sperando che prima o poi sarebbe riuscito nel suo intento. «Di solito sono le donne che vogliono diventare madri a tutti i costi» gli aveva detto l'ultimo medico consultato. «Come mai lei ci tiene tanto?» E lui non aveva saputo rispondere. Si era ripetuto la domanda, quella sera stessa, una volta a letto, sdraiato sul corpo di sua moglie, al buio, mentre spingeva il suo membro dentro di lei con cocciuta determinazione. Non c'era più amore in quel gesto reiterato ormai meccanicamente, si diceva, forse per questo non arrivava questo figlio benedetto. Forse l'errore stava lì, nella mancanza di un sentimento autentico. «I figli non nascono dalla ginnastica ma dalla passione.» Ma perché, al contrario dell'affetto e della tenerezza, al contrario dell'amicizia, la sessualità è così fragile e inaffidabile? Perché la consuetudine, che irrobustisce l'affetto, indebolisce tanto l'eros? Lui amava sua moglie, ma doveva confessarsi che la sensualità si era perduta durante i lunghi anni di matrimonio e ora quello che lo eccitava era solo l'idea di un figlio da amare, educare, guidare, coccolare. La sua immaginazione era povera: non riusciva a concepire le cose che avrebbe potuto fare con un figlio.

Sapeva però con assoluta certezza che un figlio era ciò che desiderava di più al mondo. Sto spingendo come farebbe un salmone, pensava e rideva di sé e di

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quella perversione riproduttiva. Vado contro il piacere, contro l'allegria dell'amore, contro il disinteresse del piacere, solo per una cocciuta voglia di riprodurre la specie, possibile? A volte questo continuo rovello lo portava all'impotenza. Si accasciava sudato sul corpo della moglie incapace di pensiero e di parola. Letizia capiva il tormento del marito e per quanto sapesse che il vizio stava nel seme pigro di lui, si sentiva in colpa. C'era qualcosa in lei che lo stancava, lo allontanava col pensiero, era così chiaro. Ma cosa? Difficile dirlo. Forse solo l'abitudine e la noia. Certamente tutto quel provare e riprovare non aiutava i loro rapporti. Ma pure non aveva il coraggio di dirgli di smettere e così quella specie di sesso meccanico e volitivo era diventato un aspro dovere. In cui il piacere entrava ma di sguincio, come un intruso, senza vera spontaneità. Per sollecitare il desiderio e tirare fuori dal suo timido membro il seme prezioso, Ottavio aveva imparato a lavorare di immaginazione. Indugiava con la mente su corpi di donne mai conosciute, forse neanche mai esistite: qualcosa fra le fantasie delle Mille e una notte e i fumetti pornografici che usano gli adolescenti per masturbarsi. Corpi sontuosi, burrosi, morbidi e accoglienti come piacevano a lui. Donne che ballavano a piedi nudi su un tappeto steso per terra, facendo tintinnare centinaia di piccoli campanelli attaccati alle caviglie e ai polsi. Sognava di ubriacarsi in un bagno turco e di scegliere, nei vapori azzurrati di una sala tutta foderata di meravigliosi mosaici, una donna sconosciuta, dai seni ridondanti e il collo lungo come quello di un cigno, di ridere con lei e di rotolarsi sul pavimento bagnato e speziato mentre altre delicate mani femminili gli accarezzavano i piedi. Sua moglie l'amava, ma invece di ammorbidirsi col tempo si asciugava, diventava magra e sgusciante e questo lo rattristava. «Sono un uomo fedele per natura» diceva di sé. Ed era vero. Non avrebbe mai tradito la moglie salvo che nei sogni e nelle immaginazioni erotiche. Per questo faceva l'amore con gli occhi chiusi.

E Letizia sentiva che lui si assentava durante quelle crociate sessuali, sempre più presente col corpo e sempre più distante con la mente. Ma non si lamentava. Era di natura fatalista e pensava che le persone vanno prese per quello che sono. Forse per questo il loro matrimonio durava nel tempo, nonostante la dolorosa assenza di un figlio. Qualche volta lei gli aveva parlato di una adozione, ma lui si era rivoltato scandalizzato; «Il sangue di un altro, la carne di un altro, le memorie ataviche magari di un'altra cultura, no non se ne parla!». E chiudeva rancoroso la questione. Una bella giornata di giugno, una domenica mattina, in cui Ottavio si era alzato tardi e stava preparandosi un caffè in cucina guardando malinconicamente delle cinciallegre che avevano fatto il nido su una stentata magnolia del cortile di casa; mentre osservava affascinato la minuscola uccellina madre che, in bilico per aria, frullando le ali, cacciava un vermicello in bocca al

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figliolino dal becco spalancato; proprio nel momento in cui si diceva; guarda come ti sei ridotto, a invidiare un uccellino! sua moglie era entrata in cucina con aria misteriosa, gli era andata vicino e gli aveva sussurrato nell'orecchio; «Ottavio, sono incinta». Lui era trasalito.

Aveva cominciato a tremare. L'aveva poi afferrata per i polsi chiedendo allucinato; «Sei sicura. Letizia? Non mi stai ingannando?». «Sono sicura. Non te l'ho detto prima per non crearti illusioni, ma sono passati due mesi, ho fatto vari test di gravidanza. Ho consultato anche il medico. Ora te lo posso dire con certezza; sono incinta, amore, sono incinta!» Ottavio l'aveva abbracciata entusiasta, ma «con delicatezza, amore, da ora in poi devo stare attento, non vorrei schiacciarlo!».

L'aveva baciata sulla fronte, sul naso, sulle guance, sul collo. Tanti piccoli baci di gioia e gratitudine. Poi aveva deciso di fare un brindisi al bambino che bussava alla loro porta, finalmente. Aveva stappato una bottiglia e aveva versato il vino in due bicchieri.

«Brindiamo al figlio tanto desiderato. Letizia mia, questo è il più bel giorno della mia vita. Alé!» Dopo avere brindato si era messo a ballare da solo per la casa. «Tu non ballare, tesoro. È pericoloso. Da oggi penserò io al tuo ventre. Nessuno deve mettere in pericolo il mio bambino.» «Ma se ancora non sai se sarà maschio o femmina!» «Non importa. Io sono felice, felice! Che sia maschio o femmina non mi importa. Come avrà fatto il mio piccolo e debole seme a raggiungere il tuo ovulo. Letizia? Saranno state quelle medicine che ho preso da ultimo? Saranno stati quei ricostituenti? O saranno stati gli zabaioni che mi preparavo, prima di fare l'amore con te, su consiglio del mio amico Giacomo? Comunque è sicuro: assisterò al parto. Non dire di no, ci tengo.» A dicembre è nata una bambina bellissima, buona, silenziosa, e con gli occhi azzurri, come aveva sognato il padre. Il travaglio era stato veloce: Letizia non aveva fatto in tempo a entrare in sala parto che la bambina era nata, quasi senza dolore. L'avevano chiamata Venezia, perché secondo Ottavio era stata concepita una notte a Venezia, in una piccola pensione che puzzava di fritto. Ancora ricordava la sorpresa quando aveva aperto le persiane quella notte, dopo un coito particolarmente spossante e si era trovato davanti un gigantesco piroscafo che attraversava pacifico la laguna. Era tutto illuminato e si muoveva lentamente verso est. Era rimasto al balcone, a fissare incantato quel gigante di acciaio che scintillava nella notte silenziosa e aveva pensato che era un segno, un avvertimento: qualcosa presto avrebbe cambiato la sua vita. Ora sapeva che quell'annuncio era stato veritiero. E per un momento si era visto dentro un quadro

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di Bellini, uomo anziché donna, ma questo era un dettaglio, toccato dal raggio di una colomba che nel candore delle sue piume l'avvertiva che stava per avere un figlio generato per miracolo divino. Ecco, la colomba era la nave e il figlio era Venezia. La bambina si era subito dimostrata giudiziosa e attenta al volere

dei genitori, soprattutto del padre con cui aveva immediatamente stabilito un rapporto di assoluta priorità, di solidarietà e di intesa. «Una bambina precoce, bellissima, docile e affettuosa» si vantava con orgoglio il padre in ufficio con i suoi colleghi. Letizia si comportava da madre premurosa e attenta, ma anche consapevole dei nuovi doveri che non erano pochi. Per fortuna la bambina non piangeva quasi mai e non li svegliava la notte come fanno tutti i neonati del mondo. I genitori la prendevano nel letto con loro e, a volte. Letizia si svegliava e trovava il marito chino sulla figlia a guardarla con avidità e tenerezza. Quando la bambina aveva compiuto quattro anni, la madre aveva cominciato a preoccuparsi per il suo futuro. Vista la sua vivissima e precoce intelligenza, voleva farne una studiosa e per questo passava le serate a raccontarle delle favole, a insegnarle i rudimenti della geografia e della matematica. Ottavio era troppo innamorato delle grazie della bambina per immaginarle un destino qualsiasi. «Voglio che mia figlia diventi una regina» diceva convinto.

«Regina di che?» chiedeva Letizia prendendolo in giro. «Regina e basta» insisteva lui e rivolto alla piccola, ripeteva: «Tu sarai una regina, amore mio. Sarai la più grande, la più amata, la più desiderata, la più ammirata, camminerai senza toccare terra, in volo sulle nuvole, come una regina celeste». E non sapeva quanto era stato profetico! Ma poiché regina di un regno reale non era possibile, Ottavio aveva pensato di dover fare di Venezia la regina del mondo più favoloso e popolare che esistesse: il mondo della bellezza e dell'eleganza. Non stava crescendo alta, snella, di forme perfette, sua figlia? Ne avrebbe fatto la regina della moda. Per questo le comprava in continuazione dei vestitini da diva. La sua stanza gliela aveva arredata lui: una bomboniera rosa, con un enorme specchio circondato da decine di lampadine, come quelle dei camerini delle dive del cinema. Un armadio rosa, un letto coperto di cinz rosa tempestato di cuoricini rosso fiamma. Scarpine di tutte le fogge, di raso, di pelle, dai colori sgargianti; rosso corallo, viola glicine, azzurro cielo, giallo uovo, verde smeraldo, blu notte. Appena aveva compiuto i sei anni, Ottavio l'aveva proposta per una sfilata di moda infantile ed era stata subito accettata: «Una bambina così bella e abbigliata come una piccola principessa non passa inosservata!» aveva commentato la organizzatrice, «e poi è talmente femminile...» aveva aggiunto, facendo gongolare il padre. Ogni mattina Ottavio le pettinava i capelli che aveva lunghi e biondi e

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naturalmente ondulati. «Anche se crescendo tendono a scurire, poveri noi, ma che importa? ci sono le tinture per questo!» aveva sentenziato e per rimediare aveva comprato una serie di tinte che andavano dal "biondo castano" al "biondo cenere" e aveva imparato lui stesso a farle lo shampoo e applicarle la tintura.

«Per carità non voglio che le faccia male, deve essere una tintura naturale, la più costosa del mondo, ma anche la più innocua e la più splendente.» Così Venezia, a otto anni si gloriava di avere dei riccioli di un biondo tanto lucido e sfavillante da lasciare tutti a bocca aperta. Anche per i boccoli ci pensava Ottavio che, la sera prima delle sfilate, pazientemente avvolgeva le ciocche nella carta d'argento e poi le arrotolava attorno a un bigodino e le chiudeva con un elastico. La mattina osservava raggiante la piccola testa della figlia che, liberata dalle carte d'argento, si animava di riccioli meravigliosi che avrebbero fatto invidia a una bambola di porcellana. Naturalmente anche i vestiti dovevano essere degni dei capelli. E ogni settimana le faceva dono di un nuovo abitino, che doveva essere di taglio buono, ma anche provocante, colorato e «fatto per innamorare» come diceva lui. Per questo le comprava mutandine traforate, corpetti coperti di strass, gonnelline corte che saltellavano allegramente sulle ginocchia sempre nude. «La bambina deve essere perfetta» aggiungeva, accingendosi a dipingerle le unghie con lo smalto rosa. E poi c'erano i braccialetti per i polsi che andavano in tinta col vestito, e gli orecchini: due minuscole rosette di diamante. E la bocca, appena rosata, e le ciglia finte, lunghissime, attaccate alle palpebre con la colla, e qualche ciuffo scomposto che doveva cadere, come per caso, sulla fronte madreperlacea. L'ultimo tocco era il sorriso per i fotografi: la testa doveva piegarsi leggermente da una parte. L'aria doveva essere di sublime innocenza, ma le ciglia dovevano battere come se un lieve turbamento erotico fosse passato per quelle gote purissime. La madre non era d'accordo con quel teatro quotidiano. Avrebbe preferito che la figlia studiasse e si preparasse ad affrontare la vita con meno fronzoli e smorfie, ma Ottavio e la bambina si erano alleati contro di lei rendendole impossibile mettere bocca nelle loro decisioni. Se si opponeva a una sfilata perché doveva studiare, come le era successo qualche volta, veniva accusata dai due, marito e figlia, di essere una tiranna. Si alleavano in nome della libertà, e lo dicevano insieme, con voce risentita. E ridevano della sua "pesantezza". «Mamma, sei pesante!» diceva lui e la bambina aggiungeva, con vocina vezzosa «Mamma, sei pesante!» «Ne stai facendo una piccola modella ignorante e presuntuosa» gridava Letizia preoccupata. Lui alzava le spalle. Cosa ne sapeva lei dei godimenti della moda? dell'ebbrezza del successo? Quelle sfilate erano una festa per padre e figlia. Voleva forse togliere loro la delizia delle delizie? «Oltretutto tua figlia ha già preso a guadagnare. Ti sembra poco?» «Non

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mi sembra giusto che una bambina cominci a guadagnare a otto anni, e per giunta sfruttando la sua bellezza.» «Letizia, ti prego, non guastare tutto. Tu non capisci che per lei le sfilate sono un sogno. Ci mette tutta se stessa. È già determinata a diventare meglio delle altre, più bella, più attenta, più disciplinata. Non capisci che la nostra Venezia è già una piccola diva.

Sai che l'altro giorno alla fine della sfilata c'erano due, dico due giornalisti che l'aspettavano per una intervista?» Ormai Ottavio viveva facendo il manager della figlia. Bravissimo a distribuire fotografie della bambina in posa languida, a trovare sempre nuovi ingaggi per nuove sfilate, e per concorsi di bellezza infantile. Si faceva pagare bene.

Per dedicarsi completamente alla «carriera di Venezia», si era messo in prepensionamento presso l'azienda Cuori Uniti e lavorava solo per lei.

Aveva un archivio pieno di fotografie e le portava in giro come un trofeo. Ormai anche il salotto di casa era stato trasformato in un laboratorio, dove arrivavano i vestiti delle sartorie da provare, dove era stata allestita una micro sala da parrucchiere, con tutto l'occorrente per i ricci, la tintura, i ferri di tutte le dimensioni e le forme. Le lacche con e senza lustrini. I nastri per i capelli, i fermagli in finto osso tempestati di brillantini, le ciprie, i mascara, gli ombretti che andavano dal rosa all'oro. Dagli scaffali erano stati tolti i libri di mamma Letizia per fare posto alle tante Barbie vecchie e nuove. Donnine eleganti dai capelli lunghi, di seta dorata, le braccia nude, il petto appena accennato, il collo lungo, gli occhioni di plastica azzurra spalancati in un atteggiamento di sorpresa e di seduzione, le labbra turgide e dipinte di rosso, le orecchie minuscole da cui pendevano orecchini scintillanti, il ventre chiuso in mutandine invisibili, piccoli tanga che lasciavano scoperte le natiche infantili, le gambe lunghe e sempre nude che la piccola Venezia copriva con gonnelline dai colori diversi. A nove anni la bambina Persiceto, per cui il padre aveva inventato il nome d'arte di Regina Vento, si muoveva sul palco come una esperta modella. Sapeva tutto sui passi da fare, una gamba davanti all'altra in un percorso sempre in bilico su scivolose assi di legno, senza mai guardare in basso, un sorriso misterioso e seducente sulle labbra un poco aperte. Aveva imparato a truccarsi da sola, stendendo la crema idratante e spargendovi sopra la cipria luminescente che le faceva la faccia dorata e come attraversata da una nube enigmatica. Aveva trenta tipi di rossetto dai colori più disparati: rosa fucsia, rosso carminio, rosa confetto, rosso tramonto. Le piaceva sedersi davanti allo specchio dalle cento lampadine che le aveva comprato il padre e con pennelli diversi fare nascere nel vetro il suo doppio adulto: una ragazza che sapeva con sapienza mescolare l'innocenza alla

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perversione, una inaccessibile bellezza a un continuo ammiccamento che Letizia aveva bollato come "indecente". Ma la bambina non si curava di quello che diceva sua madre, la considerava, come le aveva insegnato il padre, una pedante, «in buona fede per carità» ma noiosa al massimo e incapace di capire la gioventù, una persona «vecchia nel cuore e nello spirito», che andava rispettata come madre, ma certo non ascoltata.

Venezia era lucidamente innamorata di sé e aveva aderito con tale veemenza ai disegni del padre da non sapere ormai più distinguere la natura dall'artificio. «Devi esprimere il massimo della tentazione, col massimo del distacco» suggeriva Ottavio con ingenuo entusiasmo... «Una donna che tutti desiderano e che nessuno avrà!» concludeva, senza rendersi conto che si comportava quasi da lenone. Per le preparazioni di Regina Vento non c'era neanche più bisogno dell'efficienza del padre.

Ottavio se ne stava seduto su uno sgabello accanto alla finestra e controllava la cerimonia del trucco e della vestizione della figlia.

Quando qualcosa non lo convinceva, alzava una mano e dava indicazioni con l'aria del grande manager. In effetti la bambina aveva cominciato a portare molti soldi in casa. Le sfilate non erano più un divertimento ma un lavoro vero e proprio. Il risultato era che Venezia trascurava lo studio, la scuola e i giochi con le sue coetanee. Infine era diventata quello che voleva suo padre: una regina della moda, un piccolo idolo dei fotografi e dei commercianti di stoffe che la vezzeggiavano, se la contendevano, la corteggiavano sfacciatamente. Ma Ottavio vigilava su di lei. Non permetteva che nessuno l'avvicinasse. «Una piccola perfetta professionista» dicevano di lei. Ed era vero. Non arrivava mai tardi agli appuntamenti, si sottoponeva a noiosissime sedute di prova, si arrendeva alle mani di parrucchieri, stilisti, cucitrici con garbo e pazienza. Compiva con precisione e disciplina il suo dovere di diva. Coi soldi la famiglia Persiceto si era comprata una piccola casa in una zona residenziale, ai margini della città, con un minuscolo giardino, un garage e una soffitta, come le case dei film americani. E Ottavio era stato felice di dedicare ben due stanze spaziose alla figlia. Ma Letizia non era contenta. Una sera addirittura si era infuriata assistendo in televisione a una sfilata di Venezia. Li aveva aspettati, padre e figlia, fino a tardi, mandando giù dei grandi bicchieri d'acqua. E quando li aveva visti entrare, era sbottata: «La stai trasformando in un piccolo mostro televisivo, Ottavio, non te ne rendi conto, l'hai svuotata quella bambina, le hai tolto il piacere di giocare, di ridere, di essere naturale, sembra un robot sotto le luci del palcoscenico. Cosa ne sarà di lei da grande?». Ottavio l'aveva guardata con severità.

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«Comincio a pensare che tu sia gelosa» le aveva detto freddo. E lei si era sentita gelare. Venezia invece, più diplomatica, era saltata in braccio alla madre sussurrandole parole affettuose all'orecchio. La bambina non amava la guerra. Voleva una casa pacifica e una famiglia felice anche se di una felicità forzata e recitata. Lei non si sentiva una bambina qualsiasi, ma la piccola regina di un regno sognato, e sapeva di avere dei doveri oltre che delle soddisfazioni. Una mattina di giugno, era appena scoppiato il caldo, una bella e pulita mattina di giugno Venezia era uscita in giardino per raccogliere «delle margherite da mettere fra i capelli», aveva detto a sua madre. Il padre si stava facendo la barba in bagno e le aveva gridato: «Sbrigati amore, che alle dieci dobbiamo andare in città a ritirare quelle fotografie». La bambina aveva risposto: «Sì, certo». Ed era uscita. Ottavio cantava mentre si faceva la barba. «Sempre libera degg'io, folleggiar di gioia in gioia...!» Con la coda dell'occhio aveva visto dei passerotti che si affaccendavano attorno a un nido su uno dei rami del suo ciliegio. «Ora anch'io canto, anch'io ho un nido e porto nel becco il vermetto per la mia piccola regina. Ora non ti invidio più» si era scoperto a mormorare mentre si passava il rasoio. Letizia aveva appena finito di stirare la camicia del marito e si preparava ad andare a scuola. Sul tavolo della cucina c'erano i resti di una colazione fatta in fretta: tre tazze con un fondo di caffè, latte e zucchero, un piattino coperto di briciole di fette biscottate. La bambina infatti non mangiava pane per non ingrassare. La marmellata di albicocche, preparata da Letizia per la figlia, giaceva intatta nel suo barattolo di vetro. C'erano anche due pillole, una rosa e una gialla al posto di Venezia e dovevano essere mandate giù prima di uscire: una per i disordini intestinali e una per il mal di testa. Ma quando Letizia era uscita per prendere la macchina, e aveva cercato la figlia per salutarla, non l'aveva trovata. «Ciao, Venezia!» aveva gridato. Ma non aveva ricevuto risposta. Allora si era rivolta al marito. «È lì con te Venezia?» «No, sta in giardino. È uscita poco fa.» «Il cancello è chiuso, qui Venezia non c'è. Guarda in camera sua.» Ottavio, con una guancia ancora coperta dalla schiuma bianca, si era precipitato nella camera della figlia ma l'aveva trovata vuota. Intanto sentiva che la moglie aveva aperto il cancello e stava mettendo in moto l'auto. «Aspetta, Letizia, dove vai?» Si era precipitato in giardino facendo i gradini a quattro a quattro. Il giardino di casa Persiceto era piccolo, fatto a triangolo. C'erano tre alberi di ciliegio, un pesco, due fichi, una aiola dove le margherite si alternavano a ciuffi di lattuga. Ma c'era anche una zona abbandonata dove crescevano disordinatamente dei rovi. Lì erano accatastati gli attrezzi da giardino. Da lì partivano i tubi del gas e dell'acqua, chiusi da un tombino di ferro. Ottavio aveva gettato per aria gli attrezzi, aveva

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frugato dentro i cespugli di rose selvatiche, come se la figlia fosse un cagnolino dispettoso che voleva spaventare il suo papà.

«Venezia!» gridava, «Dove sei? Dài, non fare la scema! Vieni fuori.

Dobbiamo uscire fra pochi minuti, Venezia! Venezia!» La sua voce si faceva sempre più allarmata e sempre più disperata. Letizia lo osservava trattenendo il respiro. C'era qualcosa nell'aria che annunciava la tragedia, lo sentiva. Un pensiero gelido le si era fissato in testa come un chiodo: non avrebbe più visto sua figlia. Aveva cacciato quel pensiero con un gesto brusco e una smorfia di disgusto. Sono proprio pesante, si era detta, come sostiene Ottavio, apprensiva e noiosa.

Quando erano andati in questura, Ottavio aveva ancora mezza faccia coperta di schiuma, i pantaloncini corti sbrindellati e le ciabatte infradito di plastica blu. Letizia aveva telefonato a scuola per dire che non andava ed erano corsi alla polizia. Da quel momento erano cominciati i dolori, le disperazioni, le attese infinite. La polizia pensava a un ricatto: «L'avranno sequestrata per chiedervi soldi. Sanno che da ultimo avete guadagnato parecchio». E lui come fa a saperlo? si chiedeva Ottavio pulendosi la guancia disperato. «Il cancello era chiuso, come hanno fatto a entrare?» mormorava Letizia pensosa. «La bambina aveva le chiavi?» «No.» «Be', però era facile prenderle, stavano appese nell'ingresso.» «Ma secondo voi ha avuto il tempo di prendere le chiavi, uscire e poi richiudere?» «Il tempo sì, c'era, ma dove poteva andare, così da sola, senza soldi, senza carta di identità, senza niente... dove? e poi le chiavi stavano al loro posto, se le avesse riportate sarebbe dovuta rientrare e l'avremmo vista.» Le ricerche li avevano portati dovunque: alle stazioni, alle fermate degli autobus, agli aeroporti. Nessuno sembrava avere visto una bambina di nove anni tutta vestita di rosa, dai boccoli biondi e il sorriso angelico, che camminava da sola con un mazzetto di margherite in mano. Ottavio girava come un forsennato, la barba lunga, gli occhi gonfi. Non smetteva di cercarla, né di giorno né di notte. Infatti non dormiva. Chiudeva gli occhi per un'ora in macchina e riprendeva i suoi giri dopo avere ingollato tre caffè bollenti. Letizia era dovuta tornare a scuola, ma appena poteva lo seguiva, anche se lui mostrava una specie di intolleranza nei suoi confronti, quasi fosse colpa sua la sparizione della figlia. In questura si erano pure scocciati di questo padre che li ossessionava con continue richieste. Gli avevano detto di calmarsi, di stare a casa, che probabilmente i ricattatori si sarebbero fatti vivi.

Ma Ottavio non li stava a sentire. Secondo lui la figlia era stata rapita per altri scopi e chissà dove stava nascosta. Per questo avrebbe voluto che la polizia

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entrasse nelle case della gente, rovistasse nei garage di quel quartiere di periferia dal nome pomposo di Vera Vita per trovare la sua bambina. Ma la cosa inquietante è che non c'erano tracce: nessuno l'aveva vista, il cancello era chiuso al momento della sparizione, la chiave stava al suo posto, la bambina si era volatilizzata. Sparita nel nulla. E questo rendeva il padre pazzo di furore e di rabbia. Come un Orlando furioso «che per amor venne in furore e matto / d'uom che sì saggio era stimato prima», si aggirava per il quartiere bestemmiando, domandando, insultando, sempre più sgomento e trasandato, sempre più insonne e barbuto. I capelli unti gli cadevano sulle spalle magre e incassate, le dita dalle unghie lunghe e orlate di nero si fermavano febbrili sui campanelli delle case per chiedere a gente trasecolata se avessero visto una bambina bellissima, dai capelli lunghi biondi che, anziché camminare volava, anziché parlare soffiava dalla bocca un vento d'oro che era una delizia. Nei cinque anni seguiti alla scomparsa della bambina, i due Persiceto avevano dovuto vendere la casa e ridursi in un piccolo appartamento che era stato una portineria.

Ottavio non girava più per le strade, ma se ne stava chiuso nelle due piccole stanze poco luminose, esule da se stesso e dal mondo. Non parlava quasi più e viveva immerso nei ricordi della figlia, in onore della quale aveva costruito un altarino con le fotografie, i vestiti, i gioielli e di fronte al quale c'erano sempre dei fiori freschi...

Nessuno parlava più di quella scomparsa, che pure aveva riempito i giornali nei lontani giorni dell'evento. Letizia continuava con la scuola e manteneva il marito incapace ormai di dedicarsi a un lavoro qualsiasi. I capelli bianchi, le spalle sempre più curve e cadenti, gli occhi infossati e cupi, passava le giornate a scrivere su un quaderno che teneva nascosto sotto il cuscino. La moglie un giorno se l'era trovato in mano rifacendo il letto e aveva dato uno sguardo. Erano lettere che Ottavio scriveva alla figlia. Lettere deliranti, ma pure soffuse di un delicato sentimento di amore paterno. La disperazione di quelle lettere l'aveva commossa. "Un giorno le leggerai queste lettere" scriveva e sembrava crederci. Ma sentendolo arrivare, Letizia aveva rimesso il quaderno al suo posto ed era tornata al suo lavoro. Due anni dopo Ottavio era morto. «Di crepacuore» diceva sua moglie asciugandosi le lacrime con le dita rovinate dal lavoro. Avendo perso il posto di insegnante elementare, Letizia si era messa a lavare i panni a pagamento. Andava anche a stirare nelle case dei coinquilini, puliva le scale, faceva le iniezioni, insomma un po' di tutto. Dopo la morte del marito aveva gettato nella pattumiera tutto quello che riguardava la figlia. Quelle fotografie della sua Venezia dal sorriso seducente, i riccioli di un biondo irreale, i vestiti aderenti e

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pacchianamente erotici le facevano venire l'orticaria. Si era soffermata a lungo sui ritratti della figlia cercando di decifrare il linguaggio di quelle gote lustre e rosee, di quelle palpebre appesantite dai belletti, di quegli occhi dolorosi dalle lunghe ciglia finte. «Dove sei, bambina mia? perché non ti fai viva? Avrei tanta voglia di vederti!» Ormai tutti la davano per morta anche se in realtà il suo corpo non era stato trovato. Ogni tanto Letizia chiudeva gli occhi e immaginava che bussassero alla porta.

Andava ad aprire e se la trovava davanti, la sua unica figlia sparita: era cresciuta, era diversa, forse meno bella e vezzosa di quando aveva nove anni, ma viva e sorridente. Faceva fatica a immaginarsela. Appena pensava alla sua faccia, le si presentava quella della bambina delle sfilate: impenetrabile, misteriosa, le palpebre coperte di polvere d'oro, le gote madreperlacee, la bocca a bocciolo di rosa, di un colore sgargiante e allusivo. «Ma se avessi studiato come dicevo io, non saresti ancora qui con me?» Aveva gettato via tutto, compreso il grande specchio con le cento lampadine che Venezia amava tanto. E il giorno dopo si era iscritta a un corso di psicologia per persone della terza età. Voleva capire il perché di tutto quello che era successo, e quando avesse sbagliato nel cedere di fronte alla caparbietà di marito e figlia. Ancora cinque anni. Letizia cominciava a imbiancare anche lei.

Eppure, studiava sempre e aveva trovato un altro posto come insegnante, anche se era pagata la metà di prima. Ma era contenta di trovarsi coi bambini, a cui raccontava accalorandosi della sua Venezia scomparsa.

Cercava di convincerli che la cosa più importante nella vita è imparare, sviluppare l'intelligenza, diventare autonomi e robusti di mente e di parola. Dovevano sapere che la bellezza è una trappola ingorda, soprattutto per le ragazze. Ma sebbene parlasse con convinzione ed entusiasmo, poche l'ascoltavano. Anche loro la consideravano "pesante", attratte com'erano dal sogno di un vestitino attillato e seducente, da una bocca rosso corallo "pronta per i baci", dall'idea di un corpo infantile che recita l'eterno spettacolo della seduzione erotica, come suggerivano le immagini che venivano continuamente proposte dalla pubblicità e dalla moda. Proprio l'anno che Letizia doveva andare in pensione, un giorno, scavando nel giardino dei vicini della villetta in cui Venezia era sparita, gli operai avevano trovato lo scheletro di una bambina. Letizia aveva dovuto riconoscere quelle ossa. «Sì, è mia figlia» aveva detto osservando con orrore il piccolo scheletro sporco di terra che aveva ancora brandelli di una stoffa rosa a cuoricini d'oro incollata alle anche. E aveva pensato che era una fortuna che Ottavio fosse morto, perché non avrebbe mai potuto sopportare quella vista. Ma

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come era morta? chi l'aveva uccisa? cosa era successo? Troppi anni erano passati per dare una risposta sicura. E poi, la polizia non aveva mai indagato a fondo. Il vicino di casa, proprietario del giardino, era partito per il Brasile e nessuno sapeva dove fosse andato. Fra l'altro il nome con cui aveva comprato la villetta era risultato falso. A frugare nel suo passato si era scoperto però che aveva già un precedente per stupro di una minorenne. Ma come era potuto accadere che l'avesse rapita senza che nessuno se ne accorgesse, nello spazio di pochi minuti? Nell'indagine, ormai tardiva, si è scoperto che c'era un tunnel munito di scale che portava da un giardino all'altro. A cui si accedeva aprendo una botola che sul coperchio aveva scritto GAS. Letizia ricordava bene quel chiusino rotondo, ma sapendo che portava alle condutture del gas, non aveva mai sollevato il coperchio. Segno che il vicino aveva meditato a lungo e organizzato il rapimento con cognizione di causa, studiando un piano ingegnoso. La bambina, dicevano, era stata afferrata dall'uomo appena si era trovata vicino alla botola, e trascinata attraverso il tunnel nel sotterraneo della casa accanto, dove era stata tenuta per mesi, forse per un anno intero, alla mercé del padrone, senza che nessuno se ne fosse accorto. E poi, non si sa se per stanchezza o per paura, l'uomo aveva ucciso la bambina e quindi aveva venduto la villetta ed era partito per il Brasile. Letizia, ormai sola nel suo buio seminterrato, non faceva che pensare alla piccola Venezia. Il fatto che fosse rimasta prigioniera di un bruto, era una notizia difficile da sopportare. Noi eravamo lì e avremmo potuto liberarla, si diceva. Perché non avevano pensato a scavare in giardino? Aveva ragione Ottavio a pretendere che la polizia si introducesse nelle case a frugare in ogni angolo. Il fatto che fosse sparita in pochi minuti avrebbe dovuto fare riflettere, ma nessuno ci si era veramente soffermato. Quasi fosse normale che una bambina, nello spazio di dieci minuti, potesse svanire senza lasciare una traccia. Ora tutti erano tornati a parlare della piccola Venezia, la regina della moda infantile scomparsa a nove anni, il cui padre era morto di crepacuore per non averla mai ritrovata. Una bambina sparita nel nulla e poi ritrovata sepolta nel giardino della casa accanto. Qualcuno se la prendeva con la polizia che non aveva indagato a fondo. Altri davano la responsabilità ai genitori che avevano voluto fare di lei una diva precoce, togliendola alla scuola e proponendola alla immaginazione pubblica come una bambola di carne, provocante e seduttiva, cosa che aveva finito per suscitare l'ingordigia di qualche maledetto pedofilo. Una giornalista aveva tanto insistito e Letizia un giorno aveva accettato di conversare con lei. Senza accorgersi che due fotografi nascosti la riprendevano ingrassata, vestita male, che gesticolava con le mani rovinate dai detersivi. Dopo una settimana si era vista su un giornale di cronaca nera, accanto alle fotografie delle ossa della figlia, spiattellate senza

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pietà, vicino a foto di Ottavio quando lavorava per Cuori Uniti e indossava certe giacche azzurro carta da zucchero che gli stavano proprio bene, e di Venezia che si esponeva su una passerella come indossatrice bellissima, inebriante, lunare, stregata. La mattina dopo era venuto un falegname a chiederle se poteva aiutarlo a disegnare la casa dove la bambina era sparita. Gli avevano ordinato di costruire un facsimile della sua casa nel quartiere Vera Vita, e chiedeva di aiutarlo a piazzare al posto giusto le finestre, i mobili, la stanzetta tutta addobbata in rosa della figlia ammazzata. «Per fare che?» aveva chiesto lei allibita. «Per un programma televisivo molto popolare. Racconteranno la storia di sua figlia.» Letizia l'aveva guardato incredula e poi lo aveva cacciato di casa gridando che sua figlia era morta, morta e non c'era nessuna ragione per farci sopra delle speculazioni.

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Lo stupratore premuroso. Giorgia arriva trafelata al binario numero venti della piccola stazione spagnola

e trova che il treno è appena partito. Posa la valigia a terra e si asciuga la fronte sudata. Le viene da piangere. Ora come farà a raggiungere Siviglia dove l'aspetta suo marito che deve rientrare in Italia entro la sera? Riprende in mano la valigia, si avvia mestamente verso il tabellone degli orari dei treni. Dovrà trovarne uno più tardi.

Perderà il biglietto già fatto e non sa se le basteranno i soldi per un altro biglietto. Sul tabellone non si segnalano treni per Siviglia fino alle ore 20.05. Che fare in tutto questo tempo e come raggiungere il marito prima che parta per l'Italia? Per colmo di sventura il cellulare è scarico e non può neanche avvertire di avere perso il treno. Mentre se ne sta irrequieta e pensosa a considerare l'elenco dei treni, ecco apparirle davanti un uomo in uniforme. Un poliziotto? Forse no, forse si tratta di un ferroviere. È un uomo in divisa e lei non sa distinguere.

Prende a chiedergli, nel suo spagnolo approssimativo, se ci sia un modo di raggiungere Siviglia entro le 19. l'uomo la guarda con un sorriso rassicurante, quasi paterno. Non ci sono treni fino alle 20, le risponde sillabando le parole perché ha capito che è straniera. Se vuole, però, aggiunge, può accompagnarla in macchina fino alla stazione di B. Lui conosce un'ottima scorciatoia. In questo modo raggiungerebbe il treno che doveva prendere per Siviglia e arriverà in tempo per l'appuntamento con suo marito. Davvero? chiede Giorgia e ringrazia con quel poco di spagnolo che conosce. Afferra la valigia e segue l'uomo in divisa che si avvia frettoloso verso l'uscita della stazione. Com'è gentile! si dice.

In tutto il mondo ci sono persone indifferenti e persone generose come questa. E poi gli spagnoli sono proprio speciali. Se potesse gli darebbe un bacio in fronte per la gioia di questo regalo. E se invece poi volesse dei soldi? ma quanto? non è che disponga di molti quattrini in questi giorni di viaggio, ma qualcosa ce l'ha. Forse sarà bene chiederglielo prima. «Ehi, carabinero, quanto dinero por la estación de B.?» chiede arrancando dietro l'uomo che sembra avere le ali ai piedi.

«Nada, nada» grida lui e sembra contento di accompagnarla. Giorgia lo vede avvicinarsi a una utilitaria dal colore nero inchiostro, aprire con la chiave lo sportello. Ora è dentro, spalanca lo sportello accanto a sé per farla entrare. Sorride e le fa cenno di accomodarsi. «Permiso?» chiede lei incredula e contenta di avere trovato una persona così generosa. Lo guarda un momento prima di salire mossa

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da un improvviso dubbio. E se fosse un rapinatore? Ma scuote la testa: l'uomo ha un'aria così innocua, potrebbe essere suo padre. Avrà una cinquantina di anni, i capelli sono grigi, la faccia un poco porcina, ma le sorride con tanta sincera allegria che la rassicura. Inoltre porta una divisa abbottonata fino al collo. Forse ha anche una pistola appesa al fianco. Le sembra di scorgerla sotto la giacca. Certamente appartiene alla polizia delle ferrovie. Vorrebbe chiederglielo ma il suo spagnolo è davvero troppo povero. Così sale sulla utilitaria dopo avere appoggiato la valigia sul sedile posteriore come le ha indicato il guidatore. La macchina parte di scatto e Giorgia tira un sospiro di sollievo. Con quella velocità raggiungeranno presto il treno. L'autista sembra conoscere bene tutte le scorciatoie per arrivare alla stazione di B. Così potrà salutare il suo amato marito a Siviglia prima che si imbarchi sull'aereo per Milano.

Speriamo che non si preoccupi per il ritardo. Deve assolutamente arrivare prima che lui parta. Lei rimane, le mancano ancora due mesi di lavoro all'università. L'uomo guida piegato in avanti, le mani chiuse ad artiglio sul volante, la testa bassa come se dovesse affrontare un temporale. Invece il tempo è buono. Un sole soffice di primavera illumina i campi di girasole in mezzo a cui corre la macchina nera.

L'uomo non parla e sembra completamente assorbito dalla guida. Giorgia pensa che sia meglio non rivolgergli la parola se vogliono arrivare in tempo alla stazione di B. Eppure le sembra che stiano andando nel senso opposto. Ma probabilmente è lei che sbaglia, deve avere perso l'orientamento. Stiamo andando verso nord? chiede ad un certo punto perplessa, dopo una ventina di minuti di corsa. L'uomo non risponde e continua ad accelerare con gli occhi fissi sulla strada deserta.

Improvvisamente, mentre Giorgia sta contemplando serena gli enormi fiori di girasole che illuminano l'orizzonte, sente la macchina sbandare. Ha un sussulto. Che succede? L'uomo, a testa bassa, le mani strette sul volante, sta sterzando verso una stradina sterrata che si inoltra in mezzo a un bosco. Sarà un'altra scorciatoia, ma quante buche! Ora la macchina salta come un canguro sul viottolo di terra battuta. L'uomo ha dovuto rallentare. Ma sembra sempre teso e preoccupato di arrivare in tempo. È passata quasi mezz'ora e la stazione non si vede.

Raggiungeranno mai il treno? «Donde vamos?» chiede Giorgia in ansia. Ma lui non risponde e continua a guidare con furia lungo la stradina piena di buche come una groviera. Il mutismo del guidatore comincia a innervosire la giovane donna. Perché questo strano uomo in divisa guida con tanta energia senza mai rivolgerle

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la parola, infilandosi in stradine di campagna che non sembrano portare da nessuna parte? Certamente è teso perché non trova la scorciatoia giusta, si dice, cercando di non allarmarsi. Ma adesso stanno girando in tondo e dal bosco sono usciti per entrare in un campo di granturco. Giorgia si volta a guardare il compagno di viaggio e vede che la sua faccia sta diventando rossa e gonfia. Non starà mica male! «Ehi hombre, carabinero, donde vamos?» chiede con voce fatta aspra dalla preoccupazione. L'uomo non risponde e accelera facendola saltare sul sedile. A questo punto Giorgia comincia ad avere paura. Ora apro lo sportello e scendo, dice a voce alta, succeda quello che succeda, io mi butto. Ma l'altro non dà segni di averla sentita. Continua nella sua corsa furibonda in mezzo alla campagna. Ferma! Ferma! Voglio scendere, voglio scendere! grida Giorgia e tenta di aprire lo sportello, quando lui frena di colpo facendole sbattere la testa contro il vetro. Sono sui bordi di una stradina impolverata, sotto l'ombra di una grossa quercia. «Que pasa?» chiede ma senza urlare. Qui bisogna mantenere la calma, si dice. Meglio parlargli tranquillamente. Anche se lo sente tremare e soffiare in maniera strana. «Que pasa?» ripete cercando di aprire lo sportello. Ma l'uomo ha messo la sicura e ora si volta verso di lei con la pistola in mano e tirando fuori una strana voce roca e bassa le ordina di spogliarsi. Giorgia lo guarda stupita. La cosa che più la sbalordisce è il cambiamento avvenuto in quest'uomo che alla stazione le era apparso come un salvatore. La faccia gli è diventata livida, la voce aggressiva, stridula, gli occhi semichiusi sprizzano una rabbia lubrica e violenta.

Giorgia lo guarda spaventata e prende a gridare aiuto. Ma chi può sentirla in mezzo a quella campagna disabitata? Cerca di stare tranquilla, si dice, non ti agitare, non perdere la calma, questo potrebbe anche ucciderti. Rifletti con calma, non ti fare prendere dal panico! È sempre stata una donna indipendente e sicura di sé, si è mossa nel mondo senza mai soccombere alla paura. Calma, calma Giorgia, rifletti prima di agire! Facile a dirsi. Il suo corpo è rattrappito dalla paura. La voce stenta a uscire dalla gola. Sente lo stomaco contrarsi e il pensiero paralizzarsi. L'uomo le ordina di scendere dalla macchina. Giorgia traccheggia un poco ma infine è costretta a scendere.

Lui, appena mette i piedi fuori dall'auto, le dà uno spintone e la getta a terra, quindi con gesti precipitosi, mentre si slaccia la giacca e i pantaloni, le si butta addosso. Giorgia cerca di ragionare con lucidità.

Se vuole solo violentarla non sarà bene che lo lasci fare? Un uomo in quello stato potrebbe anche ucciderla. Meglio non guardarlo tanto in faccia. Potrebbe vedere in lei una testimone pericolosa e strangolarla.

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Contenta di conservare un minimo di lucidità e non lasciarsi andare al panico, continua a ragionare. E se lo prendesse a ginocchiate? Ma si accorge che non può muovere le ginocchia perché l'uomo pesa un quintale e le preme addosso con il petto e le gambe in modo da immobilizzarla.

«Lasciami, imbecille!» grida in italiano ma l'uomo non le fa caso.

Traffica per tirarle su la gonna. Devo stare ferma, devo lasciarlo fare, si dice. Ma istintivamente gli dà un morso su un braccio. Lui si ferma un attimo sorpreso e poi le assesta un pugno su un occhio. Lei si divincola, urla. Nonostante cerchi di convincersi che è meglio stare ferma e lasciarlo fare, una forza istintiva la spinge a torcersi e divincolarsi. Gli dà un altro morso sul collo che ora è vicino alla sua bocca e manda un odore forte di sudore. Lui le assesta un altro pugno sulla bocca facendogliela sanguinare. Intanto però ha posato la pistola sull'erba. Se arrivassi a prenderla, se solo potessi allungare una mano, si dice lanciando occhiate rabbiose verso la pistola che giace a mezzo metro dalla sua testa. Ma lui scorge il suo sguardo e riafferra la pistola. Con il calcio le dà un colpo sulla fronte facendole una ferita da cui prende a sgorgare il sangue. A Giorgia viene da piangere, ma si trattiene perché vuole mantenersi lucida. Se mi perdo d'animo è finita.

Prova ancora a liberarsi, ma lui la tiene inchiodata al suolo con la forza di un corpo massiccio e tanto più grande di lei. E ora tiene anche in pugno la pistola. L'uomo infine la penetra urlando. Lei gli sputa sulla guancia. Lui non reagisce. Giorgia lo vede diventare sempre più gonfio e contratto. Poi, con un urlo rabbioso esplode in un orgasmo che gli fa lacrimare gli occhi e sbavare la bocca. Si lascia cadere su di lei, soddisfatto. Ha gli occhi chiusi ma non smette di stringere la pistola in pugno. Ora si lecca le labbra secche con una lingua rasposa e bianca che la fa pensare al suo gatto dopo che ha mangiato un topo.

Trascorso qualche minuto di immobilità, il gigante apre gli occhi e le sorride, come se la vedesse per la prima volta. «Linda» dice balbettando, «tu eres linda.» Giorgia, non sentendosi più stretta, se lo scrolla di dosso, si alza traballante e prende a correre, sporca di sangue e di terra, lontana da quella macchina e da quell'uomo. Corre per il viottolo polveroso singhiozzando, pulendosi il sangue che le cola dal labbro spaccato. Si volta un momento sentendo arrivare la macchina. E lui, di nuovo lui. Ora vorrà ammazzarla. Giorgia non sa dove nascondersi, la campagna è tutta aperta davanti a lei. Ma l'uomo si ferma, spalanca lo sportello e con un sorriso accattivante la invita a salire. Lei continua a correre spaventata. Ma lui la rincorre e le ripete l'invito. Ora la sua faccia è tornata gentile e rassicurante. Un momento di sbandamento, si giustifica con voce pentita.

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Non ti farò del male, muchacha, facciamo ancora in tempo a raggiungere la stazione di B.

Sali, Sali. Fidarsi o meno? Se volesse ucciderla l'avrebbe già fatto, riflette saggiamente Giorgia. D'altronde dove potrebbe andare in quella campagna isolata e deserta? Così monta in macchina. E lui riparte tranquillo. Come prima era silenzioso e cupo, ora non fa che chiacchierare col sorriso sulle labbra. Le chiede scusa, «Nina» la chiama «Nina», e chiede perdono per il suo gesto inconsulto. Dice che è stato un maiale, che ha una figlia della sua età, che non lo farà mai più. L'unica cosa che le chiede è di non dirlo a nessuno. Altrimenti perderebbe il posto alle ferrovie. La porterà alla stazione e sarà contenta, dopotutto cosa le ha fatto? Niente, solo un poco di piacere.

Anche lei avrà goduto, no? le donne amano essere violentate, le dice, mia moglie dice che sogna sempre di essere violentata. E io ho fatto solo quello che ogni donna sogna. Giorgia lo lascia parlare e intanto si tampona il sangue sul labbro spaccato e sulla fronte. Poi, con la scusa di cercare un fazzoletto, fruga nel cassetto davanti a sé, dove trova le carte della macchina. Con rapidità e parlando del più e del meno, impara velocemente a memoria il numero di ordinanza e il nome del ferroviere.

Lui nel frattempo si è messo a canticchiare. Sembra sempre più compiaciuto e contento di sé. Sei una brava ragazza, le dice, una brava muchacha. Avrebbe potuto ucciderla, continua, ma non è un assassino. È un padre di famiglia. Stasera lei partirà per un'altra città e si scorderà di lui. Ritroverà il suo uomo ma non proverà mai più quell'ebbrezza che ha provato poco fa. L'amore deve essere violento, altrimenti che amore è? Il sesso deve dare qualche brivido, deve essere pericoloso, insiste guidando con una mano sola. Giorgia nota con sgomento che la sua faccia è tornata quella del buon padre di famiglia che l'aveva rassicurata alla stazione quando aveva perso il treno. «We are station» dice improvvisamente in un inglese molto goffo fermandosi sotto una pensilina di plastica azzurrata. Con una mano tira il freno, con l'altra le copre le gambe coperte di lividi e scorticate. In quella porta laggiù c'è un bagno. Là può lavarsi, le dice. Il treno sarà alla stazione fra quindici minuti. Che vada in fretta e poi addio, si goda la vita, muchacha! Giorgia rimane in piedi e lo vede allontanarsi sgommando come un ragazzo contento di sé. Si avvia barcollando verso i binari.

Come fa a essere così sicuro che non lo denuncerà? Appena vede scomparire la macchina nera, corre alla polizia della stazione. Non le importa di perdere il treno. Troverà il modo di parlare con suo marito.

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Fa la denuncia dando il nome e il cognome del ferroviere. E anche il numero della targa dell'utilitaria color nero sporco. Il poliziotto che scrive la denuncia la guarda incredulo. I nostri ferrovieri sono persone perbene, non farebbero mai una cosa simile. Giorgia lo fissa severa: vuole mettere in dubbio quello che dice? Ma no, la rassicura lui, un poco imbarazzato, solo che potrebbe avere rubato la divisa, uno della strada, come ce ne sono tanti, magari un italiano chissà. Con questo nome comunque non risulta nessun ferroviere della stazione di B. Ma ho il numero della targa della macchina, ribatte lei che ha fatto uno sforzo immane per tenere a mente quelle cifre. Eppure comincia a dubitare di se stessa. L'uomo scuote la testa consultando gli elenchi dei ferrovieri. Nessuna targa con quelle cifre. Dallo sguardo di lui capisce che crede si stia inventando tutto. Per convincerlo gli mostra i lividi che ha sulle gambe, l'occhio gonfio, il labbro spaccato, la ferita sulla fronte. Be', ribatte il poliziotto guardandola con ironia, questo non significa niente. Sa quante mitomani vengono qui a denunciare cose false? Giorgia prende la sua borsa e si avvia, umiliata e avvilita verso i binari. Ora vuole solo prendere il treno per Siviglia e ritrovare suo marito. Ma si accorge che i suoi occhi stanno piangendo.

Le sue labbra tremano, i suoi piedi si sono fatti di marmo.

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Cronaca di una violenza di gruppo NOTIZIA DI CRONACA: Quattro liceali hanno sequestrato una studentessa di

tredici anni. l'hanno portata in un casolare abbandonato e l'hanno violentata per ore lasciandola stordita e sanguinante. La ragazza ha passato la notte da sola nel capanno vuoto senza riuscire a muoversi. La mattina dopo si è trascinata fino alla strada comunale dove è stata soccorsa da un prete che passava in automobile.

RACCONTO DEL PRETE: Dovevo Stare in sacrestia alle otto, ero in ritardo perché mi si era staccato un bottone e avevo perso tempo a ricucirlo, correvo un poco, lo confesso, stavo correndo troppo forse, speravo che non mi fermasse la polizia. In quella vedo qualcosa in mezzo alla strada che striscia. Dico: un cane non può essere, è troppo grosso. Che sia un cinghiale? Insomma freno, anzi inchiodo e mi trovo davanti una ragazzina tutta sporca e stracciata che cammina a quattro zampe. Dico: Madonna mia che è successo? Che ti hanno fatto, bambina, che è successo? Mi guardava proprio come una bestia da sotto in su, non apriva bocca e mi guardava e piangeva. Allora l'ho aiutata a tirarsi su, l'ho accompagnata piano piano alla macchina. Era tutta incroccata, aveva lividi dappertutto, i vestiti stracciati e la bocca sanguinante. Intanto cercavo il numero di telefono del sacrestano per dirgli che facevo tardi per via di questa cosa, di questo incidente... Gesù e Maria com'era conciata! Ma chi hai incontrato, il diavolo? Lei piangeva soltanto... L'ho caricata in macchina e l'ho portata al Pronto Soccorso. Non c'era un medico, niente... Vabbè che siamo in un paesino e c'è poco da fare al Pronto Soccorso, ma alle otto e mezza ancora era tutto chiuso. Chiamo, strepito. Finalmente arriva la cosa, lì, l'infermiera quella che bestemmia sempre... Dico: sei tu di guardia? Manco mi risponde, aveva una sigaretta in bocca che sembrava un camionista... Che gli è successo alla piccola? E che ne so! l'ho trovata in mezzo alla strada che si trascinava come un cane... L'hai messa sotto? Ma guarda che cretina...

Vabbè che correvo ma io non ho mai messo sotto nessuno, l'ho trovata che sanguinava, non sono una bestia. Si sarà messa in qualche guaio, dice lei. Be', intanto prendila tu perché io devo andare in sacrestia che ho le famiglie per la comunione. Lei, con tutta calma, ha buttato via la sigaretta, l'ha pestata col tacco e poi si è avvicinata alla ragazza. Ma io la conosco a questa, dice lei, è Francesca, la figlia del falegname! chi l'ha conciata in questo modo? E intanto mi fa segno con la mano di andare via: vada, don Sergio, vada a chiamare il padre della ragazza! Ma chi, Gentili Michele? Gentili, non so chi sia, vada a chiamare Agonia.

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Agonia? Insomma scopro proprio in quella occasione che il falegname in paese lo chiamano Agonia. In effetti è un tipo che non sta in piedi: pallido pallido e con una faccia da morto che fa pietà, lo capisco che lo chiamano così, gli sta proprio bene. Insomma corro a chiamare Agonia mentre la fumatrice, là, la bestemmiatrice - che io lo so che di nascosto fa pure gli aborti, per quello non andiamo d'accordo - la fumatrice comincia a rimproverare la povera bambina dicendo che era tutta colpa sua, che andava in giro con le gonne corte, che rideva di tutti, anche dei ragazzi che sono i padroni del paese, eccetera. Io mi sono precipitato dal falegname, l'ho avvertito che la figlia stava al Pronto Soccorso e sono tornato in chiesa. Punto. Il dopo non so... Sono a disposizione come testimone, signor giudice, quando volete ecco, per dire, sono rimasto lì finché era necessario, il mio dovere l'ho fatto.

Lì per lì avevo paura che morisse, ho chiesto al medico: ma ce la farà? E il medico, che intanto era arrivato, quello col ciuffo, quello che viene da Sant'Ignazio e lo chiamano Ciuffetto, mi dice: ce la fa, ce la fa, ha solo due costole rotte, il setto nasale spezzato e la vagina lacerata, ma ce la farà, è molto giovane. A questo punto sono tornato in chiesa a pregare. Mi ha fatto tanta pena quella bambina, magra e sanguinante. Pregherò per lei anche oggi, anche domani.

RACCONTO DI UNO DEI RAGAZZI, GIANNI DETTO MAMMOLO: Francesca sì, la conosco da anni, era mia compagna di scuola anche se lei era alle elementari mentre io facevo le medie, i nostri genitori si conoscono, siamo vicini di casa, è carina, ma ride troppo, la conosco da anni, sempre con quei calzini... si veste come una bambina, i compagni la prendono in giro perché porta le gonne corte pur avendo le gambe magrissime e le ginocchia sempre scorticate, si veste come una bambina e ride per qualsiasi sciocchezza, a scuola la considerano un poco idiota... Io non volevo farle del male, ha solo dodi... no, tredici anni, lo so, ma li ha compiuti in questi giorni signor commissario, i miei compagni hanno deciso che bisognava metterla sotto, farle capire che non si ride di noi e il gruppo ha sempre ragione. Non sono stato io a spogliarla, è stato Christofer il mio compagno di banco, ha detto che dovevamo darle una lezione. Lei scalciava, gridava... le sono saltati addosso in tre e l'hanno immobilizzata. Dopo che tutti gli altri si sono sfogati Christofer mi ha detto: «Ora tocca te.@ Mammolo» e io ho dovuto buttarmi su di lei, come gli altri, ma ho finto, non mi andava di fare niente dopo quello che avevo visto. Angelo a ogni calcio che lei tirava, la riempiva di

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pugni. Christofer, quando l'ha morso, le ha dato un calcio sulla faccia. È stato lui a romperle il naso con la scarpa.

RACCONTO DI CHRISTOFER: Macché bambina, signor commissario, quella la sa lunga più di me, è 'na zoccola strafatta, una scema, con un padre che manco la caca, la madre è morta quando era piccola, me lo ricordo ancora il funerale, c'era tutto il paese, perché era levatrice e aveva fatto nascere un sacco di bambini, che poi erano diventati grandi e la vedevano come 'na madre, mò so' fatti loro ma insomma se dico che Franci è 'na furba, ma furba che nun ci poi crede, è la verità... 'na furba scema, 'na scema furba... c'aveva detto che nun parlava, l'aveva promesso, dico io ma che stai a di'? ce voi compromette per 'na scopata! E quella è annata a spifferare tutto, 'na spia, fatta e cacata, una che annava in giro senza mutande come la chiami? una che... sempre co 'ste gambe all'aria come la chiami, eh? Ce lo voleva e l'ha avuto, era quello che se meritava. Mammolo dice che lui non c'entra? nun je credete! è 'n altro furbo di mezzacotta, 'n'antra spia... nun je credete! nun è vero che nun ce stava, che ha fatto finta, ma dove? quello è stato il primo a salirje in groppa a la ragazzina, il primo a fotterla, ma quale nausea? ma quale nun c'entro? mentre Franci urlava, Mammolo je diceva zitta che t'ammazzo, zitta che t'ammazzo! E intanto la montava, altro che nun c'entro! mò quella sanguinava fra le gambe, e ha preso paura, ma nun credo che era vergine, ma chi ce crede? con quel padre che cià, quee gonne corte, quei carzini de merda, è che dopo il terzo che s'a ingrappava ha cominciato a sanguina', è normale no? ma ce la semo fatti tutt'e quattro, pozzo garantì, signor giudice, pozzo garantì...

RACCONTO DEL PADRE: Sarà vanitosetta la mia Franci, sarà che va in giro vestita in modo provocatoriante come dicono, ma ridurla in quello stato è da animali, signor giudice, lei deve capi' che neanche le bestie fanno così con una della loro categoria, della loro specie, insomma della loro razza... L'hanno presa a calci, a pugni, le hanno rotto due costole, e il setto nasale, le hanno spaccato un labbro e le hanno lacerato la vagina. E molti sono suoi compagni di scuola, signor giudice, sono suoi amici, i genitori si conoscono, abitano vicini e così ci si comporta con una dello stesso paese? Capirei fosse una estranea, ma una del paese che hanno visto crescere... non avrei mai potuto immaginare che dei ragazzi del paese nostro, dei ragazzi figli di gente perbene avessero fatto quello che hanno fatto. Quel Christof, lei l'ha visto, con le braccia tutte disegnate, dipinte, come si chiamano quei cosi? tutto nero di inchiostro, draghi, navi da guerra, un lupo e un serpente tutti sopra le braccia, lo capisce che tipo è? Anche mia figlia Franci a un certo punto voleva farsi uno di quei disegni lì, insomma voleva farsi una rosa sul collo. Le ho detto, se ti fai mettere gli aghi, ti stronco! E lei mi ha ubbidito, una

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ragazzina affettuosa, mi vuole bene, da quando che la mamma è morta ha solo me, capisce signor giudice, io però lavoro dalla mattina alla sera... qui in paese sono il solo a costruire le bare, e poi ci sono i tavoli da aggiustare, e i letti per gli sposi e i comodini nuovi e le credenze, più che altro mi danno le robe da aggiustare e spesso non pagheno manco, che le posso dire, chiedono credito e non pagheno, lo capisce quanto lavoro c'è da fare? Non posso stare dietro a Franci mia, solo che la mattina prima che esce le dico di fare i compiti, di non dire bugie alla maestra, di camminare dritta e non fermarsi con certi scemi che girano per il paese... insomma che lei mi dà retta lo so, è 'na brava ragazza, non si meritava di esse trattata così... siamo in due e ci sono solo io in casa, lei lo capisce, la mamma è morta e così manca quella regola, quel controllo che io giustamente, mi capisce, come uomo sono solo e faccio tutto da solo io con lei qua in casa che siamo in due e basta. Mai avessi potuto credere che dei ragazzi possono comportarsi così con una loro compagna, mai nemmeno in un brutto sogno. un incubo insomma, che certe notti mi sveglio che ho la gola secca e mi viene da gridare ma non mi esce la voce, nemmeno degli omaccioni di cinquant'anni ci avrebbero fatto a quel modo, a calci e a pugni, che le hanno rotto le costole e poi il naso, per una donna il naso è prezioso, no? che ora ha una gobba al centro, è brutto da vedere, ma pazienza, l'importante è che vive, ma poteva morire, e lei però me lo dice spesso, papà, nun me va più de vive, ma che vuoi fare figlia mia, la vita è accossì, carogna, e lei si mette a piagne... a scuola non ce vuole più andare, di studiare non se ne parla, con le amiche non ci esce più, ma che devo fare? Prima rideva sempre, era un sole di primavera, mò piagne e si chiude in camera che manco una prigione... che devo fare? che devo fare, me lo dice lei signor giudice... almeno la soddisfazione che questi ragazzi ci andassero in galera, ma ancora il processo non se fa e inoltre hanno tanti avvocati e ogniuno che viene se la prende con la povera Franci, come se sia sua la colpa, lo capisce, a tredici anni, faccia lei un poco di giustizia, la prego...

RACCONTO DEL PRESIDE DELLA SCUOLA SAN BIAGIO: Francesca Gentili? Una ragazzina un poco ritardata, così dicevano i suoi insegnanti. Sembrava non capire. Arrivava a scuola sempre in ritardo. Sì la prendevano in giro per quelle gambette magre e nude, anche d'inverno, perché rideva sempre, perché portava le gonne corte... Sono i genitori che dovrebbero intervenire in questi casi. Un preside non può dire a una alunna vestiti così o cosà. I genitori mi sembrano più addormentati della ragazzina. La madre mi pare che faccia l'infermiera. Ma forse è morta, sì mi pare che sia morta qualche anno fa. Certo questo non ha aiutato la ragazzina...

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Il padre fa il falegname mi pare, sì lo chiamano Agonia in paese, perché ha quella faccia da morto, lo conosce vero signor giudice, è un buon uomo ma anche lui poca istruzione, cosa vuole, poca istruzione e si vede, si sente da come parla... I ragazzi in questa scuola sono bravi, disciplinati. Non so cosa sia successo quel giorno, cosa gli abbia preso a quei quattro. Non riesco ancora a capacitarmi. Certo lei li avrà provocati, una ragazzina seduttiva, direi proprio di sì, le piaceva sedurre. Li avrà innervositi, diciamo così anche se prendersela con una ragazzina più piccola in quattro è da vigliacchi... Christofer? E figlio di un piccolo industriale, uno che si è fatto da sé. Ma in casa loro non gira un libro, un giornale, sono ricchi e ignoranti. Il ragazzo va in giro con una moto di lusso. È tutto coperto di tatuaggi. Avrà tre telefonini. Non ha gran voglia di studiare. Prende brutti voti. Ma poi alla fine dell'anno il padre gli paga un insegnante privato e in qualche modo se la cava. Il piccolo Gianni detto Mammolo? È un timido. Un bravo ragazzo. Io gli credo quando dice che è stato trascinato dagli altri.

Non è prepotente... ma certo, ha taciuto, come gli altri... l'hanno pure minacciata quella povera ragazzina... Angelo Ignis è un tipo poco raccomandabile, un arrogante, viene a scuola anche lui con la moto di lusso. La posteggia sul prato, dove è vietato, ma lui se ne frega, fuma in classe nonostante tutte le proibizioni, prende in giro gli insegnanti e mette su la classe contro il preside... Secondo me lui è la vera anima nera di questo gruppetto di sciagurati... è già stato ammonito varie volte per avere danneggiato i mobili della classe. Ma non gliene importa niente a nessuno. Il fatto è suo padre... dicono... io non lo so, ma dicono che fa lo strozzino e ha amicizie nella criminalità organizzata.

Però devo dire che quando si presenta a scuola, è sempre ben vestito, gentile, compito e parla pure un buon italiano, non è come il padre di Christofer che è un buzzurro, nonostante i soldi, non sa mettere due parole insieme. Hanno un'altra figlia, sa come l'hanno chiamata? Ilary, senza neanche la h. Ma se non sanno parlare in italiano perché gli mettono i nomi inglesi, io non lo so, fanno ridere... Sì poi c'è Alessio Bordon, i genitori sono veneti, lo tengono in palmo di mano. Ma lo viziano. È un ragazzo tranquillo, ma si fa trascinare, non ha molto carattere. Lei lo sa che c'era anche l'amica del cuore di Francesca, Deborah Miglietti, che intelligentemente è scappata prima dello stupro, e ha denunciato subito il caso alla polizia, ha fatto il suo dovere ma la ragazza era nascosta e non l'hanno trovata quella notte. Per fortuna che il nostro parroco, don Sergio, si è fermato a prenderla per strada e portarla al Pronto Soccorso. Comunque, signor commissario, considero questo fattaccio una eccezione. La scuola è tranquilla. Molto più tranquilla delle scuole pubbliche in cui ne accadono di tutti i colori.

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Noi teniamo d'occhio i nostri studenti e le assicuro che un fatto simile non era mai successo. Nelle nostre classi non circola la droga, non circolano filmetti pornografici. Sono bravi ragazzi. Il fatto c'è stato, lo so, ma consideriamolo uno sgradevole incidente. Abbiamo già allertato gli psicologi per recuperare gli scapestrati. Credo che sia stato un grosso equivoco. Certamente, come è stato sospettato, c'erano uno o forse anche due adulti con loro, che li hanno portati sulla cattiva strada. Due adulti venuti dalla città. Credo che sia proprio così.

RACCONTO DI ALESSIO; Christofer è il mio migliore amico, escludo che sia responsabile... Il suo avvocato ve lo dimostrerà chiaramente. Lui ed io stavamo in disparte a guardare... L'amica della vittima, Deborah Miglietti, dice il contrario? Ma quella racconta un sacco di balle, signor commissario, quella non ha visto niente. L'abbiamo sentita noi che andava via col motorino. Tutte bugie le sue. Comunque il maggior responsabile ritengo sia Gianni detto Mammolo. Lui era fissato con quella ragazzina che tutti chiamavano idiota, dicevano che andava in giro senza mutande ma non è vero, l'ho visto io che quando l'hanno buttata per terra gliele hanno dovute strappare con la forza. Tirava calci la ragazzina, urlava, sembrava che la spellassero viva...esagerata, per un po' di sesso gratis! Non vorrei essere maligno ma secondo me quella

ragazzina urlava perché voleva essere pagata e invece noi facevamo sesso gratis... Gira la voce in paese che si facesse pagare per fare sesso e tutti lo sapevano... Veleno? Perché, signor giudice? Io dico sempre la verità, io vengo da una famiglia perbene, anch'io ho già allertato i miei avvocati, che penseranno loro a mettere in chiaro la mia situazione. Io non c'entro con quella marmaglia... e neanche con lo stupro della Franci... una ragazzina neanche bella, coi capelli rosso carota, le lentiggini su tutta la faccia e perfino sulle cosce aveva le lentiggini. Quando ho visto il suo piccolo sesso rosso mi è venuto da ridere; come si fa ad avere il sesso rosso, è proprio una perversione, una grande perversione, come direbbe mio padre. Io non ho partecipato, signor giudice, glielo giuro. Io stavo in disparte a guardare. I ragazzi erano scatenati. L'hanno penetrata ridendo, gridando, si incitavano l'un l'altro, io scuotevo la testa, ma che potevo fare? Erano la maggioranza... No, Christofer non è intervenuto, forse le ha dato un calcio ad un certo momento, perché lei gli aveva stretto una gamba e gliela mordeva... Non è un cane? Be', no, ma una ragazzina arrabbiata le assicuro che per poco non ci metteva tutti ko, una forza in quel corpicino che gliela raccomando... una abituata a fare il maschiaccio, a ridere di tutto e di tutti, è questo che li ha fatti arrabbiare, volevano darle una lezione e gliel'hanno data, chi è più forte qui, lei o noi? Così dicevano, ma io non ho partecipato glielo giuro, i miei avvocati lo dimostreranno

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in tribunale. Sì, forse Christofer le ha dato un calcio, ma un calcetto da nulla, solo che portava le scarpe con la cornice d'argento quel giorno. Deve sapere, signor giudice, che Christofer ha la passione delle scarpe, ne ha a centinaia nel suo armadio, di tutti i tipi: a stivaletto, da tennis, da ginnastica, alla cowboy, da milord, quel giorno portava quelle strane scarpe con i puntali

d'argento. È con quelli che le ha sfasciato le costole. Sentivo Mammolo che piangeva ma poi è stato il primo a buttarsi addosso alla piccola... Piangeva e scopava, scopava e piangeva, un tipo vile, un piagnone, proprio disdicevole, come direbbe mio padre... Avevamo preso droghe? No, di certo. Avevamo bevuto qualche birra, questo sì. Forse anche una bottiglietta di liquore, non so cosa fosse, una roba forte, a mandarla giù mi ero bruciato la gola... era una roba che aveva portato Christofer... Be', ma cose da niente... Comunque, le assicuro, signor giudice che io non c'entro.

RACCONTO DI DEBORAH: Ancora non riesco a capacitarmi per quello che è successo, signor commissario. Stavamo uscendo dalla classe quando si è avvicinato Mammolo che ha detto: ci venite con me al fiume per un picnic? Lo conosco da tanti anni Mammolo. Era mio compagno alle elementari. Lui e Franci si piacevano. Una volta si erano pure baciati a scuola, me l'ha detto lei, dietro la porta del cesso. Lo considerava un poco come un fidanzato. Io e Franci andiamo sempre insieme. La difendo quando la maltrattano, perché Franci è come una bambina piccola, non pensa mai male di nessuno, ride sempre, ma perché è allegra, non perché vuole prendere in giro qualcuno. Invece quei ragazzi pensavano che ridesse di loro... Mammolo lo sapeva che andavamo sempre insieme; dice allora, venite? Io avevo il mio motorino, Franci no. E Mammolo dice: Franci viene con me e tu ci segui con la tua... Vabbè, ma dove andiamo? Al Prato della Signora, dice lui, ho già i panini pronti e pure l'acqua... Ti va a te? dico a Franci che se lo mangiava con gli occhi.

Mi fa sì con la testa. A lei proprio Mammolo le piaceva. E vabbè andiamo, dico io. Vado a prendere il Booster e li seguo verso il fiume, all'uscita del paese, dove fa tutte le curve e diventa campagna e ci sono le stoppie e i rovi che non si cammina bene. A un certo punto gli ho gridato: te vuoi ferma', Mammolo? Qui non vado avanti che la ruota è tutta impigliata nei rovi. Lui ride e continua. E io dietro, zampettando che sembravo un canguro. Ancora per un quarto d'ora. Poi, quando proprio la strada finisce e cominciano i campi, che è tutto deserto, lui si ferma. Franci scende e dice che ha fame. Io pure c'avevo fame. Poso la moto sul prato e vedo che ci sono altre due moto appoggiate a un albero.

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Ma qui c'è qualcuno dico, mò che famo? Ma lui alza le spalle. Dopo un po' vedo tre ragazzi che vengono fuori da un buco, una specie di casa abbandonata che c'aveva solo mezzo tetto ed era tutto sfasciato che mi faceva paura per le serpi. Io comincio a sentire odore di bruciato, nel senso che non mi piaceva la situazione: quei ragazzi lì che ci facevano? E perché Mammolo non aveva detto niente? Franci intanto si preoccupava solo dei panini; diceva: mò i panini non ci bastano per tutti, e l'acqua? Io sarà che sono un poco più grande di Franci, sarà che ho fiuto... io ho sgamato e ho detto: andiamo via Franci, ti riporto io indietro, non mi piace l'atmosfera. Ma lei non aveva paura, lei pensava al suo Mammolo e degli amici se ne fregava. No, dice, io resto con Mammolo, tu vai se vuoi. Io ho preso la moto e me ne sono annata, signor giudice, ora mi dispiace perché se rimanevo forse loro si trattenevano, non lo so, ma forse m'aggredivano pure a me e quindi ho fatto bene a scappà, lei che dice? Io però ci pensavo e quando sono arrivata sulla strada, ho appoggiato la moto e sono tornata, piano piano indietro, a piedi, per non lasciarla sola. Da lontano ho visto che la buttavano per terra, uno le alzava la gonnellina, due la tenevano. Lei scalciava, urlava. Quello alto le ha dato tanti calci in faccia, sul petto. Ero paralizzata dalla paura. Se mi vedono m'ammazzano, pensavo, lo sapevo che dovevo andare a denunciare, a chiamare aiuto ma ero lì ferma come una statua di pietra. Mò, se sentono che metto in moto mi vengono dietro. Cavolo, ma in che guaio mi sono cacciata! Sono rimasta ancora lì ferma, rigida, senza riuscire a muovermi... Sentivo la povera Franci che gridava: aiuto. Mammolo, aiutami! Ma quello, anziché aiutarla, piangeva da una parte. Poi però l'hanno spinto sopra di lei e ha fatto pure lui il suo comodo. Quando ho visto il sangue che le colava dalla bocca, quando ho visto il sangue fra le sue gambe, ho ritrovato la forza. Ho messo in moto e sono partita di corsa. Sono andata alla polizia. Ma lì non c'era nessuno, è domenica dice il portiere! Stanno ammazzando l'amica mia. Ma dove? ma quando? Non mi credeva, però intanto arrivano due e cominciano a telefonare per trovare la stradale... e insistevano; ma dove sta questa tua compagna di scuola? dove? in che punto preciso? Io però i nomi non li so. Il Prato della Signora, dico, da quelle parti.

Ma dove? Volevano i dettagli, ma io che ne so, verso il fiume, gli dico, dove c'è una casa abbandonata. Intanto però stavano a perdere tempo. Poi ho saputo che sono andati ma non l'hanno trovata. Ho saputo che l'avevano portata dentro quella specie di bicocca che avevo visto anch'io, la casa abbandonata. Poi ci ho pensato che poteva essere lì dentro, ma loro non mi hanno manco chiesto di accompagnarli. Mi hanno detto; vai a casa ora che è tardi, vai a casa, che ci pensiamo noi. Si vede come ci hanno pensato! Non l'hanno trovata e hanno fatto passare la notte. Solo quando il padre di Franci è andato a denunciare la

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sparizione della figlia sono partiti in quattro, e se non era per il prete che la accompagnava al Pronto Soccorso mò Franci stava ancora lì ad aspettare!

CRONACA DEL GIORNALE LOCALE: Nel piccolo paese di B. non era mai successa una cosa del genere. La notizia è uscita anche sui giornali nazionali. La gente è indignata che il paese di B. vada sulla bocca di tutti per questo fatto increscioso. Un paese tranquillo dove non ci sono mai state rapine, violenze, delitti, niente, nessuno si aspettava uno stupro di gruppo. Soprattutto di quattro ragazzi giovanissimi ai danni di una ragazzina più piccola, loro compagna di scuola. Il preside della scuola ha sostenuto che dietro i ragazzi c'è un adulto. Chi sia non sa dirlo, ma è sicuro che la violenza è venuta da parte di uno o più adulti e che i ragazzi sono stati solo partecipi passivi. Gli alunni della sua scuola sono ragazzi perbene, ha ribadito il preside e noi possiamo garantirlo: sono tutti figli di gente perbene, lavoratori, impiegati, piccoli proprietari, industriali. La testimone principale DM. dichiara di avere visto i ragazzi e nessun adulto. Ma può avere visto male.

Dopotutto era nascosta dietro a dei rovi e stava a quasi mezzo chilometro di distanza. Con tutta la stima per la testimone, come può avere visto tutti i dettagli dello stupro se era nascosta e se era a tale distanza? Noi crediamo, come dice il preside della nostra benemerita scuola, che dietro i ragazzi ci sia la responsabilità di uno o più. adulti venuti da fuori, dalla grande città, dove gli stupri di gruppo sono abituali. In quanto alla testimonianza della vittima, purtroppo conta poco. A parte il fatto che si rifiuta di parlare e dice di volere morire, la ragazza, lo ammette perfino il padre, è un poco ritardata. Non capisce, e può avere preso lucciole per lanterne. Certo, lo stupro c'è stato, ma propendiamo per la tesi dell'intervento esterno.

Qui da noi la gente non arriva neanche a immaginarlo un fatto simile.

Questo, lo ribadiamo, è un paese tranquillo e sicuro, i paesani non chiudono neanche le porte a chiave la notte.

UN ANNO DOPO. IL GIORNALE LOCALE: Se qualcuno avesse dimenticato i fatti incresciosi dell'anno scorso avvenuti nella zona Prato della Signora, vogliamo ricordare che, come dicevamo noi, lo stupro di gruppo in realtà non c'è stato. Lo hanno dimostrato gli avvocati degli imputati. La vittima è stata riconosciuta ritardata di mente e quindi non credibile nel suo racconto dei fatti. La sua migliore amica, D.M., è stata considerata menzognera. Non per cattiva

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volontà. Ma perché troppo distante dai fatti, troppo implicata nella faccenda e spesso contraddittoria. Il processo ha appurato che dietro i ragazzi c'erano due adulti che non sono stati identificati, ma che certamente venivano dalla grande città. Due adulti.che hanno stuprato e picchiato la ragazzina e poi sono scappati via. I ragazzi sono stati tutti rilasciati. Per l'occasione, i due industriali benemeriti del nostro paese, l'ingegner Lozara e il dottor Andreini hanno organizzato una grande festa prendendo in affitto una sala dell'hotel Bellavista dove hanno bevuto e mangiato più di duecento persone. E tutti hanno ricevuto un piccolo ciondolo in argento su cui è scritto: SEMPRE VINCE l'iNNOCENZA.

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Ale e il bambino mai nato Una giornata di sole. Ma anche di nuvole che si accumulano all'orizzonte. Ale

si guarda intorno perplessa. Dove si trova la casa del medico? I numeri della strada sono sballati: il 5 sta dopo il 32 e il 20 vicino al 90. Nel foglietto c'è scritto: via Garibaldi 30, ma questo 30 non si vede. Percorre la strada in un senso e poi in un altro.

Ma del 30 non trova traccia. Tocca telefonare per chiedere se hanno sbagliato a darle il civico. Il numero suona a vuoto. Come fare? Riproviamo, si dice prendendo in mano il cellulare. Infine, dopo tanti squilli, ecco una voce che risponde sospettosa: «Chi è?». «Sono Alessandra Belli. Avevo appuntamento col dottore per le undici. Lo so, sono le undici meno dieci, ma... Troppo presto? Va bene, verrò fra dieci minuti, ma dove si trova il numero 30?» La voce femminile non suona per niente amichevole: «Chi le ha detto che siamo al 30? Qui siamo al 32.

Vada al portone e suoni, ma solo alle undici, non prima». «Certo, va bene; scusi, mi dice anche il piano?» Ma la donna ha già chiuso con un clic. Ale torna indietro. Trova il portone numero 32 e si appoggia contro lo stipite aspettando che passino dieci minuti. Alle undici in punto pigia il bottone accanto alla targhetta su cui c'è scritto: DOTT.Vedova, GINECOLOGO. Si tocca la tasca dove ha cacciato il malloppo dei soldi e sale i gradini due a due. Non c'è neanche un ascensore in questa casa antica tutta foderata di marmi policromi, dagli ampi scalini a ventaglio, dalla ringhiera di bronzo lavorato, dalle porte lustre con davanti lo stuoino di rafia. Ad ogni pianerottolo si ferma per leggere le targhette sulle porte. Ma del dottor Vedova non c'è traccia. Dovrà ritelefonare? Guardando in alto però vede che c'è ancora una rampa; una scala più piccola incassata nel muro e una ringhiera di ghisa consumata.

Tocca salire. Ale arriva all'ultimo piano col fiatone. Si ferma a prendere respiro. Davanti a lei una finestrella dai vetri sporchi dà su un cortile dalle pareti grigie, i balconi sporgenti, i panni stesi ad asciugare. Molte finestre sono aperte e mostrano degli interni eleganti: divani colorati, tende che dondolano al vento, vasi di fiori, sedie a sdraio, cucine lucenti. Su un balcone ai margini della casa, scorge una giovane donna con un bambino in braccio. La ragazza, che sembra una bambina, porta solo una canottiera e un paio di jeans sfilacciati. Il modo in cui stringe il neonato al seno è talmente tenero che Ale non riesce a staccare gli occhi da lei. Con un piccolo volo del pensiero si trova sul balcone accanto alla ragazza.

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Senza che neanche lo chieda la ragazza le porge il neonato che respira pesantemente. Ale lo prende in braccio con estrema cautela: come tenerlo senza lasciarlo cadere? come reggere il capino pelato che sembra scivolare senza peso sul collo rugoso? come cullarlo senza premere su quella testina soffice? Il bambino nel frattempo si è accucciato fra le sue braccia come un cagnolino. Manda un odore di sudore e di latte fermentato, acido ma anche dolcissimo. L'odore più buono del mondo, pensa Ale, un odore che la ubriaca e che le fa salire le lacrime agli occhi. Ma proprio quando sta per chiedere alla madre bambina di lasciarle tenere ancora quel neonato in braccio, sente la ragazza sul balcone di fronte che fa un verso con la bocca per zittire il figlio che piange. Ale si guarda le braccia vuote con un senso di freddo al ventre. Si allontana dalla finestra e rimane qualche secondo ferma davanti alla porta del medico osservando la targhetta cancellata. Prova a premere il bottone. La porta si apre di poco. Ale vede due occhi che la scrutano. «Lei è...?» «Alessandra Belli. Le ho telefonato poco fa.» La donna continua a tenere la porta socchiusa. Sembra soppesarla, sospettosa. Poi improvvisamente spalanca l'uscio e le fa cenno di entrare. Ale la segue lungo un corridoio buio alle cui pareti sono appesi quadri di madonne e di santi.

C'è anche un ritratto di Padre Pio con le mani alzate, guantate di nero.

In fondo al corridoio l'infermiera apre un'altra porta con la maniglia di ferro lucida. Le fa cenno di seguirla dentro una stanza dalle persiane chiuse. Il medico sta seduto alla scrivania e fuma. Non solleva la testa nel sentirla entrare. «Buongiorno» dice Ale cercando di apparire a suo agio. Il medico continua a scrivere su dei fogli che ha davanti, pacifico seduto su una poltroncina girevole. Finalmente, dopo un lungo minuto di pausa, solleva lo sguardo su di lei e tira fuori un buongiorno stentato e appena sussurrato, quasi senza aprire la bocca. È l'infermiera che parla per lui: «Si spogli» le ordina spingendola verso un paravento di tela. «Lasci la sua roba lì, nessuno gliela tocca. Ora si sdrai sul lettino e aspetti che il medico sia pronto.» Ale ubbidisce maldestra, intimidita e impaurita. L'uomo continua a scrivere senza guardarla e senza parlarle. Ora l'infermiera si avvicina reggendo dei ferri lunghi e ricurvi. Ale chiude gli occhi. «Non possiamo farle l'anestesia, per ovvie ragioni... Sentirà un poco di dolore. Ma passerà presto. Prima facciamo e meglio è» dice l'infermiera muovendosi rapida.

«La ragazza è pronta, dottore, vuole cominciare?» Il medico sbuffa.

Quindi si alza con fatica dalla sedia. Posa la sigaretta accesa sul bordo del tavolo. Si avvicina al rubinetto di un lavandino appeso al muro e si insapona le mani. Le asciuga con uno straccio sgualcito e si infila un paio di guanti di lattice.

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Cambia gli occhiali e comincia lo scavo nella carne viva. Ale lancia un urlo. Il dolore, mentre i ferri rovistano crudeli, si fa lancinante, intollerabile. Dal centro del ventre si allarga, come cerchi di un'acqua smossa da un sasso, invadendo il petto, il collo, gli occhi, il cervello. Tutto brucia e va in frantumi nel suo corpo. Non può fare a meno di gridare. «Stia zitta, zitta per carità!» le ingiunge la infermiera mentre il ginecologo svuota coi ferri il piccolo ventre indolenzito. «Sempre pronte a levarsi le mutande, poi si lamentano delle conseguenze!» borbotta l'infermiera porgendole un fazzoletto che lei stringe fra i denti per non lasciarsi scappare neanche un lamento. Ad un certo punto deve essere svenuta perché non ha sentito più niente. È stata svegliata dalle mani pesanti e odorose di aglio dell'infermiera che le schiaffeggiava le guance. Vede il dottore di spalle che si sfila i guanti di lattice, riprende la sigaretta che è rimasta accesa sul bordo del tavolo e si allontana in una nuvola di fumo. «Cacciala fuori!» sente che ordina alla donna che intanto l'aiuta a sollevarsi. Ma ha il ventre contratto e appena è in piedi, è presa da conati di vomito. «La bacinella, idiota!» grida lui dall'altra stanza, «vuoi che sporchi il pavimento?» Ale vede l'infermiera che afferra la bacinella già piena di sangue in mezzo a cui naviga un corpicino morto. Vorrebbe trattenere il vomito ma non ce la fa e così rigetta e piange sul figlio perso. «Dovevi pensarci prima» dice la donna in tono burbero, ma con un briciolo di tenerezza. «Tieni, qui ci sono dei fazzoletti. Ma ora alzati e vai.» Ale fa uno sforzo sovrumano per mettersi in piedi. Ha le gambe intorpidite, il ventre lacerato e la nausea le toglie il fiato. «I soldi» dice la donna allungando la mano. Ale caccia il pugno in tasca e tira fuori il mucchietto di biglietti sgualciti che ha fatto tanta fatica a raccogliere e mettere da parte. La donna li afferra e li conta, stendendoli uno per uno. Quindi la accompagna all'ingresso. Spalanca la porta e la tiene aperta finché non la sente arrivare in fondo alle scale a passi piccoli e indolenziti, aggrappandosi al corrimano. Mentre era ancora ai primi gradini l'ha sentita dire con voce trattenuta: «Piano, non c'è bisogno di correre. Poi, se ti vengono i dolori, prendi l'Aulin.

Ma non telefonare, tanto il dottore sta partendo. Non troveresti nessuno». Ale ha raggiunto il portone e si è seduta per qualche minuto all'ombra dell'atrio, per riprendere fiato prima di affrontare il caldo della strada asfaltata. Un'ombra attraversa la luce del portone. Strano che non abbia sentito i passi dell'uomo che ora le sta di fronte e la fissa sorpreso. Ale lo guarda in faccia e trasale. Lo riconosce immediatamente. È uno degli assalitori. È l'uomo che le si è buttato addosso mentre altri due la tenevano e l'ha schiacciata col suo peso.

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L'uomo che l'ha penetrata mugolando. Ma più che un mugolio le era sembrato un rantolo. Come se fosse entrato dentro di lei per morirci...

Questo le passa per la mente in un groviglio di pensieri confusi. L'uomo la guarda e impallidisce. Anche lui l'ha riconosciuta. E ora sembra preso dal panico. «Che fai qui a casa mia?» dice aggressivo. «Sei venuta per parlare con mia moglie? Sei venuta per denunciarmi?» Ale è talmente sorpresa che rimane muta. L'uomo la incalza con aria cattiva. «Come hai fatto a sapere dove abito? Parla, chi ti ha dato il mio indirizzo?» Ale vede la faccia dell'uomo che si fa sempre più vicina e minacciosa. Vede la sua mano che si solleva per colpire. E si ripara la testa col braccio piegato. Per fortuna si sentono dei passi per le scale. Ale si sforza per alzarsi in piedi ma non ce la fa. Si appoggia alla ringhiera e si sposta verso il centro del gradino in modo che chi scende sia costretto a fermarsi. L'uomo che fa i gradini a due a due non è altri che il ginecologo. Lo capisce dalle scarpe di coccodrillo che aveva notato mentre riprendeva fiato dopo l'operazione e dal forte odore di fumo che lo circonda. Il medico si ferma qualche gradino prima del pianerottolo e osserva freddamente la situazione. «Che succede? Ha bisogno di aiuto?» Ale non riesce a spiccicare una parola. La sua gola è chiusa. Capisce che se non parla, il medico andrà oltre e l'assalitore potrà colpirla a suo piacere. Ma per quanti sforzi faccia non riesce a tirare fuori una parola. La sua faccia però deve esprimere sgomento perché vede il medico che si china su di lei. «Non si sente bene?» Ale apre la bocca per lasciare uscire un grido strozzato. Lo stupratore la guarda imbarazzato.

Si capisce che vorrebbe scappare ma vuole anche rimanere per impaurirla e costringerla a tacere. «E lei cosa vuole dalla signorina?» lo interpella, improvvisamente duro, il medico. «Io a questa non l'ho mai vista» si giustifica l'altro vilmente, «le stavo solo dicendo che...» Ma non termina la frase. A piccoli passi si avvia verso il portone e poi svicola velocemente. «Conosci quell'uomo?» le chiede il ginecologo, paterno. «Mi ha violentata tre mesi fa.» «Finalmente riesci a muovere la bocca. Era la sua presenza a terrorizzarti? Ti minacciava?» Ale china la testa assentendo. «Per questo sei venuta ad abortire?» chiede lui e improvvisamente le sembra che la guardi come una persona umana. Anzi, con sorpresa lo vede sedersi sul gradino accanto a lei e prenderle una mano. «Lo sai quello chi è?» dice ridacchiando. «Un famoso presentatore televisivo. Lo conoscono tutti qui nel palazzo. Abita al terzo piano con la moglie e tre figli. Ora lo teniamo in pugno vero, bambina?» aggiunge con aria complice, «ora lo teniamo in pugno. Era solo o in compagnia quando ti ha violentata?» «Erano in tre. Mi sono saltati addosso all'uscita della palestra, verso le otto.» «Sei sicura che

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fosse lui? Come fai a riconoscerlo se eravate al buio?» «Mi hanno scaraventata in un furgone dove c'era luce.» «È uno che si dà un mucchio di arie. Uno che protesta sempre nelle riunioni di condominio perché non è mai contento. Ce l'ha con tutti ma poi è il primo a non pagare la sua parte.» Ale lo guarda chiedendosi se tutto questo abbia qualcosa a che fare con la violenza subita. Ma nello stesso tempo prova gratitudine nei confronti del medico che l'ha salvata da una pestata. «Grazie» dice a fior di labbra mentre lui con gentilezza l'aiuta a mettersi in piedi e a uscire all'aperto. «Le chiamo un taxi?» chiede affettuoso e si porta il telefonino all'orecchio. «Se decidesse di andare a denunciarlo, - e per me farebbe bene a farlo -, non pronunci il mio nome. Non le conviene.

L'aborto oltre i limiti è proibito, lo sa. E poi lei stava ai limiti.

Nessun altro medico l'avrebbe operata, se lo ricordi.» Intanto è arrivato il taxi. Il dottor Vedova l'accompagna, la aiuta a montare sul sedile, le chiude lo sportello con un tonfo. E rimane fermo sul marciapiede aspettando che la macchina si allontani. Ale entra in casa cercando di ricomporsi. Ha gli occhi rossi e cammina come una ubriaca.

Ma sa già che non ci sarà nessuno. Suo padre è partito per un congresso di scienziati e sua madre è a scuola. Ci sarà forse sua sorella, ma di lei non ha paura. «Ah sei tornata!» dice Elena alzando il naso dai libri. «La mamma?» «Non è ancora rientrata. Ha telefonato per dire di mettere i piatti in tavola e la pentola sul fuoco. Ha comprato dei ravioli e vuole farli per pranzo. Ha detto pure che porta una sua collega. Saranno in due. Apparecchi tu? Io devo finire i compiti.» «Non ce la faccio, Elena. Sto male. Non mangio proprio niente.» «Che ti succede?» «Mi sa che ho mandato giù qualcosa di cattivo.» Elena le lancia uno sguardo furioso. «Tocca sempre a me apparecchiare» dice e tira un calcio alla sedia vicina. Ale si accorge di essere bagnata di sangue. Si alza per andare in bagno sebbene barcolli. Mentre si lava, solleva il capo e vede un piccolo merlo dal becco giallo che si è fermato sul davanzale e la guarda con piglio sfrontato. Ha gli occhi mobili e pungenti. Pare volerle dire qualcosa. Il piccolo pennuto agita le ali, si scuote come per togliersi il sudore dalle piume. Ma gli uccelli non sudano, si dice Ale sorridendo. Il merlo la fissa negli occhi con aria scanzonata. Apre e chiude il piccolo becco giallo emettendo dei suoni incomprensibili. «Che mi vuoi dire?» sussurra Ale dimenticando per un momento il dolore, la nausea, il sangue che cola. Il merlo si gratta una zampetta col becco, poi si solleva un poco e allarga tutte e due le ali come per spiccare il volo. Ma non lo fa. Rimane fermo e bellissimo, nelle sue nere piume luccicanti. continua ad aprire e chiudere il becco di un giallo luminoso parlando con voce gutturale.

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Proprio quando il merlo china la testina sul collo guardandola severamente, Ale capisce quello che le sta dicendo. Quel piccolo corpo eretto in un gesto di grande dignità le ripete: denuncia, stupida! Denuncia tutti, anche il medico. Non avere paura. Non ti nascondere. Non fare finta di niente! Vai e parla. Non tenere tutto nascosto. Parlane a tua madre, parlane a tua sorella. Ne va della tua dignità.

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La sposa segreta Una fotografia mostra Giusi e Rosaria che reggono il velo della sposa, la

giovane e graziosa madre. Carmelina. Si erano molto divertite a fare le damigelle quel giorno di maggio in una chiesa piena di fiori, davanti a un prete balbuziente che ripeteva ogni parola trenta volte. Una donna che, perso il marito a venticinque anni, era riuscita a tirare su due bambine da sola e finalmente, dopo tanto travaglio, aveva trovato un uomo che la amava e la voleva sposare nonostante le figlie, non era un miracolo? Un uomo colto, gentile, un musicista raffinato. Cosa si poteva chiedere di più? Giorgio Politi è alto ed elegante. Ha i capelli castani che gli cascano sulla fronte spaziosa: si porta continuamente la mano alla testa per allontanare il ciuffo che gli copre gli occhi. Ha lo sguardo timido, ansioso. Gli occhi di un colore fra il verde e l'azzurro hanno incantato Carmelina appena l'ha visto. Le sue mani poi «sono proprio bellissime», diceva lei con compiacimento. Le dita lunghe si posavano sui tasti del pianoforte con una tenerezza e una eleganza che la lasciavano ammirata. Non avrebbe mai pensato, la bella donna bruna del profondo Sud, di fare innamorare di sé un sofisticato pianista dal ciuffo castano e gli occhi luminosi, nato a Milano, cresciuto a Brescia in una scuola di preti, che ora teneva concerti in Vaticano. Lui aveva insistito per sposarla, nonostante le due bambine da mantenere. E lei, dopo qualche incertezza, dovuta più alla discrezione che ad altro, aveva accettato, convinta di avere suscitato un amore profondissimo. Così il giorno delle nozze avevano chiesto alle due bambine di vestirsi da damigelle d'onore, come si usa nei film. Era stato un giorno eccitante e sorprendente per le due sorelline. La sera prima avevano fatto tardi con lo sposo, che aveva voluto lui stesso acconciare sui due corpicini il tulle bianco spumoso. Aveva intrecciato i due cerchietti che trattenevano i capelli delle bambine con delle fresie fresche, per fermare alla vita il tulle aveva improvvisato due cinture lucide color malva, aveva infilato ai loro piedi scarpine rosse che spiccavano sotto il tulle bianco. «Voilà!» aveva detto alla fine contento, prendendo per mano le due bambine e portandole davanti alla madre. «Le damigelle d'onore sono pronte. Possiamo cominciare la cerimonia.» Carmelina aveva dato loro un bacio prima di infilarsi a sua volta il lungo vestito candido. Al marito non aveva detto che era il vestito del primo matrimonio. I soldi per comprarne uno nuovo non c'erano. Neanche le due bambine lo sapevano che quello era l'abito con cui era andata sposa al loro padre la loro incantevole madre dai lunghi capelli color pece, dalla bocca tornita e le fossette alle guance. Sembrava una sorella delle sue figlie. Si era sposata la prima volta a diciott'anni

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con un uomo allegro e festoso che fumava come un turco, sapeva ballare il tango e la milonga e adorava la pizza al pomodoro. Era stato un grande amore.

C'è ancora una fotografia di loro quattro. padre madre e le due bambine, in una estate al mare, abbracciati teneramente. Lui stava diventando calvo, ma che importava? Era affettuosissimo con le bambine e sapeva «farle morire dal ridere» come diceva lei orgogliosa. Era un uomo savio, lavoratore instancabile. Anche se gli piaceva il sabato andare a ballare con la giovane moglie. Insieme avevano preso lezioni di tango e i loro numeri sul palco erano molto applauditi. Lui in completo nero e mocassini gialli, lei in un abito aderente di maglina rossa, calze di seta e scarpe dal tacco alto. Erano una bella coppia a vedersi e tutti li consideravano una famiglia modello. Ma dopo appena otto anni di matrimonio, quando le bambine avevano cominciato ad andare a scuola, un cancro ai polmoni aveva portato via il ballerino di tango, il fumatore accanito e Carmelina era rimasta sola con le due figlie da mantenere.

Quel giorno, al secondo matrimonio, quando il prete aveva chiesto allo sposo, Giorgio Politi, se volesse prendere per moglie Carmelina Croci, lui aveva subito tirato fuori un bel sì sonoro.

Mentre Carmelina non era stata capace di aprire bocca. Tutta la chiesa, comprese le due bambine, era rimasta in spasmodica attesa di quel sì che non veniva. Il prete la guardava interrogativo. Lei, pallidissima, aveva sgranato gli occhi dolorosamente e dopo un lunghissimo silenzio che aveva messo in allarme i parenti e gli amici, aveva accennato un sì con la testa. La voce però non era riuscita a tirarla fuori tanto era emozionata. Dopo anni di solitudine e di privazioni, aveva trovato l'uomo che faceva per lei: gentile, colto, artista, appassionato di cinema, apprezzato dagli esperti per il tocco raffinato e leggero delle mani sul pianoforte. Come era potuta capitarle una simile fortuna? Eppure anni dopo si era detta che forse quel giorno il suo corpo, la sua bocca, la sua gola, ne sapevano più del suo cuore, non volendo tirare fuori quel sì. Avevano già deciso dove sistemare il pianoforte di lui, sacrificando il tavolo dove le bambine studiavano. Ma le due sorelline non avevano protestato.

Anche per i loro occhi infantili quell'uomo gentile, dalle mani sempre curate, che correvano svelte e sapienti sulla tastiera bianca e nera, che quando si esaltava pestava

coi piedi il pedale seguendo il ritmo con la testa mentre il ciuffo gli andava su e giù, rappresentava una piacevole sorpresa. E poi erano contente di vedere ridere la madre, che da tempo era nervosa e mugugnava sempre. Con quell'amore

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sembrava essere tornata giovane, e mentre prima non faceva che ricordare il padre scomparso come se le osservasse dall'aldilà, ora spesso si dimenticava di loro e usciva col nuovo marito lasciandole sole e felici di avere la casa a propria disposizione. Fiori, tanti fiori c'erano stati al secondo matrimonio. Si possono ancora vedere le foto scattate da un amico fotografo, che in cambio del servizio si era portato dietro la moglie, la suocera e i cugini. Tutti avevano mangiato a più non posso al banchetto, che aveva seguito la cerimonia, in un albergo di periferia.

Lo sposo, Giorgio detto Gigi, si era dimostrato subito un buon marito.

Lasciava che la moglie decidesse cosa fare e non fare. Era gentile con le figliastre, le portava al mare quando lei lavorava anche la domenica e qualche volta si stirava perfino le camicie da solo. Avevano una domestica ma veniva solo due volte la settimana e non faceva in tempo a stirare le camicie al pianista che le voleva sempre pulite e fresche.

Qualche volta Giorgio Politi partiva per uno dei suoi concerti. Erano soprattutto concerti nelle chiese, perché i suoi protettori erano un cardinale e un deputato di un collegio cattolico che ogni tanto veniva in casa, tutto vestito di scuro e beveva il caffè col mignolo alzato, cosa che faceva ridere le due ragazzine. Giusi e Rosaria erano molto legate. Avevano solo un anno di differenza e si assomigliavano come due gemelle. Giocavano insieme, andavano a scuola insieme, dormivano nella stessa stanza, in due letti uguali. Era stato lo stesso patrigno ad acconciare la loro stanza che aveva voluto tutta foderata di rosa, con appese alle pareti delle copie di quadri di Degas con le ballerine in tutù intente agli esercizi. Carmelina non aveva accettato di vivere dei soldi di lui e aveva tenuto il suo lavoro di segretaria che stava diventando sempre più importante. Il suo capo, un ingegnere elettronico molto stimato, si fidava solo di lei e la chiamava ogni momento. E Carmelina doveva correre. Ma lo faceva volentieri perché sapeva di diventare sempre più indispensabile in quell'ufficio e la sua paga, sebbene lentamente, tendeva ad aumentare. Una volta Carmelina era dovuta partire per Genova col suo capo lasciando a casa le figlie col nuovo marito. Non le era mai successo di passare la notte fuori e si preoccupava che lui si scocciasse di fare il padre. «Guarda che sanno prepararsi da mangiare anche da sole. Tu svegliale solo la mattina alle sette per la scuola, quello sì perché tendono a dormire» aveva raccomandato al marito, «controlla che si facciano la doccia. E controlla che si portino dietro tutti i libri e i quaderni che devono usare. Va bene, amore? Tanto io torno domani, un bacio.» «Ah dimenticavo» aveva aggiunto richiamandolo al telefono, «nel frigorifero trovi i pasti preparati per due giorni. Tu basta che li metti nel forno microonde per qualche minuto, sai come devi fare

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vero?» E lui era stato alle indicazioni della moglie. Aveva cacciato nel forno i recipienti già preparati da Carmelina, e li aveva serviti a tavola caldi. Aveva controllato che le bambine andassero a scuola all'ora giusta, che si portassero dietro i libri e i quaderni necessari. Insomma tutto come aveva suggerito sua moglie che da lontano controllava ogni cosa. O per lo meno così credeva. La sera avevano mangiato popcorn comprati al mercatino vicino casa guardando un film al televisore in salotto. Il patrigno aveva chiesto alle due bambine di sedersi accanto a lui. Poi avevano giocato al solletico. Le due bambine avevano riso tanto sgranocchiando il popcorn e rotolandosi sul divano con quell'uomo bambinesco pronto a tutti i giochi. A un certo punto lui aveva detto; «Ora basta, ora tutti a letto, domattina sennò chi ce la fa ad andare a scuola, eh piccoline?». Le aveva accompagnate nella loro stanza e aveva chiuso la porta con un sonoro buonanotte. Poi però, verso le tre, quando le sorelle già dormivano pesantemente, era entrato di soppiatto nella loro stanza. Aveva sussurrato qualcosa nell'orecchio di Giusi e lei lo aveva seguito stropicciandosi gli occhi. Cosa le aveva detto? Giusi faticava a ricordarsene. Qualcosa come «Sto proprio male, ho fatto un brutto sogno e mi sento morire. Vuoi tenermi un poco di compagnia?». E lei lo aveva abbracciato con fare materno stringendogli la testa sul petto. E lui, che prima tremava, dopo un poco era sembrato placato. A quel punto la bambina si era mossa per tornare nel suo letto, ma lui l'aveva agguantata con due mani ad artiglio e l'aveva stretta a sé.

Giusi si era istintivamente divincolata ma si era sentita tappare la bocca con una mano mentre sentiva il corpo dell'uomo farsi sempre più pesante sul suo. La bambina era stata presa dal panico. Ma non poteva urlare perché lui le teneva chiusa la bocca. Nel buio aveva scalciato, dato strattoni, senza riuscire a liberarsi. Le mani di ferro del pianista l'avevano aperta, squartata. La violenza era durata solo qualche minuto, ma a lei era sembrata una eternità terribile. Mentre lui soffiava e gemeva il soffitto era precipitato su di lei, il pavimento si era aperto e il suo piccolo corpo in frammenti aveva cominciato a cadere nel vuoto, come in un precipizio senza fondo. Si era riavuta fra le braccia dell'uomo che ora, con modi gentili e affettuosi, le leccava la faccia come un gattino, le diceva parole affettuose. «Ti amo» le sussurrava candido. «Ti dirò un terribile segreto: ho sposato tua madre non per amore suo, ma tuo. Non ho mai fatto l'amore con lei, credimi.

Non potrei. Tu sei la mia vera sposa, la mia piccola vera sposa. Una sposa segreta meravigliosa, bellissima. A questa sposa regalerò un anello prezioso. A Giusi la bella, a Giusi la forte, a Giusi la dolce regalerò un anello di brillanti. Lo

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so che ti piacciono i gioielli... Ti ho visto l'altro giorno davanti allo specchio che provavi come una damina gli orecchini di brillanti di tua madre... Oggi abbiamo celebrato il matrimonio segreto che io mi aspettavo. E so che anche tu lo aspettavi, vero, amore mio, vero piccola grande sposa?» Giusi era paralizzata. Svuotata, fatta a pezzi, dolorante, si chiedeva con un filo di pensiero: aveva veramente desiderato il marito di sua madre per sé? Se lo diceva lui che era un uomo fatto ci doveva pur essere qualcosa di vero. Ma era tutto così terribile e sbalorditivo che non capiva.

Dubitava di sé, come dubitano i bambini che hanno una fiducia assoluta negli adulti. «Una sola cosa ti chiedo, amore mio: non parlarne con nessuno. Meno che mai con tua madre. Il nostro è un matrimonio segreto.

Se tu le parli io l'ammazzo e tu non vuoi che tua madre muoia, vero?» Giusi si chiedeva perché avrebbe dovuto uccidere sua madre, non lo capiva. Ma accettava quella minaccia e quelle parole come le parole di un adulto responsabile. Se lo diceva lui che era grande, savio e sposato, doveva essere vero. Eppure c'erano troppe contraddizioni che la inquietavano, ma non osava ribattere. Quell'uomo le faceva paura. Lui aveva continuato a baciarle la faccia inondata di lacrime. Poi, vedendo che seguitava a piangere e a stringere le gambe indolenzite, aveva ripreso con voce suadente: «Tu non sei una bambina, Giusi, sei una donna grande, l'età non conta niente, sei una donna da marito, altro che quella stupida di tua madre! Non lo vedi che ti odia? Se non ci fossi io a difendervi, lei vi avrebbe già chiuso in un istituto. Sono io che l'ho convinta a non farlo. Lei non vede l'ora di sbarazzarsi di voi. Devi credermi, tua madre è una bambina, non capisce niente, si è sposata per vanità, senza capire che la vera sposa, la vera sposa sei tu, amore mio... Non ti piace pensare che siamo marito e moglie e abbiamo un grande e bellissimo segreto insieme? Se parli, ricorda, tua madre morirà. Vuoi che tua madre muoia?». Certo non voleva che sua madre morisse. Per questo piangeva. Ora lui non le faceva più del male ma la carezzava con tanta delicatezza che ne era un poco consolata. «Dove ti fa male amore mio? dove? non sai che questi sono i piccoli dolori di una sposa? non sai che si entra nel matrimonio con un poco di pena, altrimenti che matrimonio è? Sapessi come sei bella così, rossa in viso e innamorata... Perché mi ami anche tu, vero? Noi ci amiamo, ma in segreto, ricordalo, non una sola parola, nemmeno a tua sorella, ne andrebbe della loro vita...» Giusi era stata stordita da tutte quelle parole che suonavano stranamente seducenti e dolci. Mentre il suo corpo gridava di dolore, il suo animo si sentiva accarezzato e blandito. Che importanza aveva il dolore che provava, che importanza aveva la nausea che la scuoteva? Certamente, come diceva lui, era un

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modo. difficile e doloroso, di entrare nel mondo degli adulti. Quella notte era diventata donna. Glielo aveva detto lui mentre la baciava sul collo. Un uomo non poteva mentire. Forse era vero che con sua madre non aveva mai fatto l'amore, che la sua sposa segreta era lei, che insieme potevano sognare un futuro bellissimo. Ne avrebbe parlato volentieri con la mamma, ma lui aveva detto che la mamma ne sarebbe morta e questo non lo poteva accettare. Così erano andate le cose e l'astuto pianista era riuscito a trasformare Giusi in una complice. Alla bambina il sesso con l'uomo adulto non piaceva, ma lo sopportava come il sigillo di un contratto che avevano stipulato insieme. Lui la riempiva di regali preziosi e le aveva insegnato a mentire. «Devi dire che te li hanno regalati le madri delle tue amiche» le suggeriva. «Non fare mai nomi, resta sul vago. Abitua tua madre all'idea che ci sono persone generose, incantate dal tuo fascino, che ti fanno regali per il piacere di farli.» In cambio il patrigno menzognero chiedeva silenzio e il silenzio era diventato un muro difficile da perforare. Perfino con la sorella Giusi aveva conservato il segreto e faceva acrobazie perché non si accorgesse del rapporto che ormai la legava al patrigno. Ogni tanto Rosaria si sorprendeva per quei regali costosi: una borsa firmata, un paio di guanti di pelle, una collanina di perle. Ma lei aveva sempre la risposta pronta. E quando la sorella insisteva, poco convinta, la scoraggiava dicendo «sei piccola Rosaria, sei ancora una bambina, e non puoi capire...» e la lasciava arrovellarsi nella sua curiosità. Una volta che Giusi era tornata a casa con un cappotto rosso fiammante foderato di pelliccia, perfino Carmelina era rimasta di stucco. «Chi te l'ha comprato?» aveva chiesto con tono inquisitorio. «È un cappotto usato» aveva risposto rapida lei, «me l'ha regalato la mamma di Ludovica, una mia compagna di scuola che non conosci, mamma. Siccome a lei stava piccolo, l'ha dato a me.» Giusi tremava pensando che Carmelina avrebbe potuto informarsi, chiamare la madre di Ludovica e chiederle se fosse vero. Ma le mamme si sa, sono distratte, e Carmelina si era accontentata di quella risposta. Non le veniva neanche in mente che la figlia di dodici anni potesse mentire così spudoratamente. La bugia era passata, come erano passate tante altre invenzioni sui regali costosi che il delicato e aggraziato pianista faceva alla figliastra. Il rapporto era andato avanti per quasi due anni. Poi un giorno era successo qualcosa che aveva sconvolto Giusi.

Da un poco di tempo il patrigno non la cercava più di notte. Ma lei non aveva dato troppa importanza alla cosa: aveva pensato che fosse stanco di prove, di studi di registrazioni e di concerti. La cosa in realtà non le dispiaceva. Dopo due anni, non era riuscita a provare piacere con lui, ma si considerava, come lui le aveva garantito, la sua sposa segreta e le spose, lo dicevano tutti gli adulti, devono accontentare il marito. A letto con lui non provava niente, ma si era abituata a

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chiudere gli occhi e pensare ad altro. L'odore soprattutto, l'odore di quell'uomo adulto che si buttava su di lei col corpo acceso per l'eccitazione la disgustava. Eppure nel suo piccolo cuore era nato un sentimento d'amore che non aveva previsto. Provava una specie di sensuale pietà per quell'uomo appassionato che sentiva bambino più di lei. Capiva che dentro il corpo acerbo di lei cercava la notte, ciecamente, come una talpa che scava nella terra nera e sconosciuta, per trovare un rifugio sicuro. Avrebbe voluto solo carezzargli i capelli e sussurrargli parole affettuose, avrebbe voluto giocare con i suoi capezzoli come aveva fatto da piccola con quelli di sua madre. Una notte si era svegliata verso le tre, aveva acceso la luce e aveva visto che la sorella non era nel suo letto. l'aveva chiamata ma non aveva avuto risposta. Forse sarà in bagno, si era detta. Ma in bagno non c'era. Dove poteva essere andata a quell'ora? L'aveva pur vista la sera prima infilarsi nel suo lettino. A quel punto le era venuto un sospetto orribile. E si era incamminata a piedi scalzi verso la camera dove dormivano sua madre e il patrigno. Giusto quel giorno Carmelina era partita per lavoro. Aveva provato ad aprire la porta, ma era chiusa dall'interno. Non aveva avuto la forza di urlare come avrebbe voluto ed era tornata a letto come uno zombi. Era lacerata dal dubbio che il patrigno stesse facendo con Rosaria quello che aveva fatto con lei. Cosa la feriva così profondamente? il tradimento? la certezza della menzogna? Non aveva detto che erano due sposi segreti? era tutta una invenzione? il bellissimo patrigno stava mentendo sia a sua moglie che alla sposa segreta, che alla sorellina di lei? si possono avere due spose, anzi tre? Era andata in bagno a vomitare. La nausea si era impadronita del suo corpo acerbo e già corrotto. Poi si era cacciata nel letto aspettando l'arrivo della sorella per chiederle cosa stesse succedendo.

Intanto tremava e batteva i denti in preda ad una febbre improvvisa.

Quella notte non era riuscita a chiudere occhio. Solo verso l'alba si era abbandonata a una specie di torpore doloroso. Si era svegliata alle sette con l'animo stretto e per prima cosa aveva guardato verso il letto della sorella. Ma era ancora intatto. Non c'erano tracce di Rosaria.

Allora si era precipitata in cucina e l'aveva trovata lì pacifica che si faceva un caffè. «Dove sei stata stanotte?» «Ho dormito sul divano. Tu parlavi nel sonno e io non potevo dormire.» «E Gigi dov'è?» «Non lo so.

È uscito credo.» Giusi era piena di dubbi. Possibile che Rosaria che era sempre stata complice e affettuosa, le nascondesse un segreto così grande? Eppure anche lei le aveva mentito. Perché sorprendersi per quel silenzio? Non erano ormai lontanissime l'una dall'altra? Per quella volta non aveva detto nulla. Poteva anche

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essere vero che la sorella avesse dormito sul divano e che lui fosse uscito all'alba senza dire dove andasse. Purtroppo la notte non aveva controllato il salotto. E le parole della sorella potevano essere vere. Ma il sospetto non la abbandonava. Osservava Rosaria e il patrigno e si chiedeva se fossero sinceri, come pareva, o fossero due bravissimi attori che recitavano una parte stabilita. Sembrava che non avessero niente da nascondere. Eppure Giusi avvertiva che non era così. A tavola un giorno aveva notato uno strano movimento di mani sotto la tovaglia. Proprio come Giorgio faceva con lei. Quante volte avevano sfidato la sorte afferrandosi le mani mentre gli altri mangiavano, sotto il naso della madre che, pacifica, si fidava di lui e lo chiamava «il nuovo buon papà»? Da ultimo marito e moglie si vedevano poco. Il lavoro di Carmelina si era fatto più intenso. Le capitava spesso di restare fuori la notte. Ormai, come aveva previsto, era diventata indispensabile al capo e lui pretendeva che lo seguisse dovunque andava. «Per fortuna è gay» diceva lei quasi a calmare i sospetti del marito. Senza sapere che lui era felicissimo che lei dormisse fuori. In compenso erano arrivati in casa molti più soldi e Carmelina si era potuta permettere una macchina più potente, dei vestiti alla moda per sé e per le figlie. Anche al bellissimo pianista capitava di rimanere fuori per i suoi concerti. Così marito e moglie erano diventati molto indipendenti l'uno dall'altra. Ciononostante, quando erano fuori insieme, capitava loro di tenersi per mano, di baciarsi in pubblico. A lui premeva che l'opinione pubblica li considerasse una coppia felicemente innamorata, ma soprattutto teneva che Carmelina si considerasse una moglie fortunata, di un marito innamorato e premuroso.

Una mattina che lui si preparava a partire per un concerto, aveva detto con aria distratta alla moglie: «Che dici se porto Rosaria con me ad Arezzo per il mio concerto? Le piace tanto la musica. Secondo me ha talento. Già suona benino. Penso che dovresti mandarla in conservatorio». A quel punto Giusi era sicura di avere capito. Carmelina si era dimostrata entusiasta, come al solito quando si trattava di proposte che venivano da lui. Lo aveva guardato con tenerezza considerando ancora una volta quanto gli dovesse per quell'attenzione paterna verso le sue figlie. Giusi era salita in camera senza una parola. Trovava il patrigno rivoltante e la madre di una ingenuità che rasentava l'idiozia. Si era appostata dietro i vetri, e li aveva osservati mentre lui si infilava nella bella macchina scoperta, apriva lo sportello per fare entrare la piccola Rosaria dalla gonna corta e le ballerine rosa. Erano partiti e avevano l'aria felice. Ora era certa: il pianista aveva trovato un'altra piccola sposa segreta. La sera, quando sua madre era tornata dal lavoro, stanca e affamata, le si era seduta accanto e l'aveva affrontata. «Mamma, ti devo dire una cosa.» «Cosa, bambina? Hai l'aria così seria...» «Si

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tratta di tuo marito.» «Be', che c'è?» «Volevo dirti che mi ha portata nel suo letto.» «Come nel suo letto?. Quale letto?» «Il tuo. Il suo. Il vostro letto.» «Non dire stupidaggini, Giusi. Lo sai che vi vuole bene come un padre.» «Un padre che insidia le figlie della sua adorata moglie come lo chiami?» «Tu stai sognando. È sempre tanto affettuoso con voi. Forse hai equivocato. Ma io lo conosco bene. Non farebbe mai una cosa simile. E poi mi ama, è mio marito, Giusi, facciamo continuamente l'amore, cosa mi stai raccontando?» «E se ti dico che in questo momento sta portando nel suo letto anche Rosaria?» «Non voglio più sentire queste scemenze.» «Ha detto che ero la sua sposa segreta, mamma. Con questo mi ha tenuto buona per due anni. Ora ha un'altra sposa segreta ed è Rosaria. Mamma, ascoltami! Gigi ci tradisce tutte e due. E tu sei una stupida, innamorata e cieca.» «Non ti credo, Giusi. Tu hai una fantasia troppo sviluppata. Inventi sempre storie, ti conosco troppo bene, da quando eri piccolina, sei una visionaria... Credo piuttosto che tu sia gelosa di Rosaria e delle attenzioni che Giorgio le dedica. Ma Rosaria vuole fare la pianista, capisci, e lui la aiuta a imparare.» Insomma Carmelina, che pure era una donna concreta e sincera, non aveva voluto credere alla figlia. Forse proprio perché era sincera non riusciva a concepire che uno mentisse con tanta ingegnosa improntitudine. Suo marito non era affettuoso e gentile con lei? non facevano l'amore con trasporto come sempre? Non trattava le "bambine", come le chiamava lui, con tenerezza tutta paterna? Giusi era stata presa dalla disperazione. Cosa doveva fare? L'idea che la sorella più piccola stesse passando quello che aveva passato lei, fra dolori, ricatti, seduzioni e complicità, la feriva. E poi finalmente le era chiaro che quella storia della sposa segreta era solo una scusa per tenerle buone e fare i comodi propri all'insaputa della mamma. Non era nemmeno vero che il loro matrimonio fosse una finzione, che non facessero l'amore. Tutte orribili bugie di cui si riempiva la bocca per ingannarle. Una sera, mentre ascoltava il grande pianista che si esercitava sulla tastiera in salotto con la solita grazia serpentina, aveva avuto una idea. E si era precipitata fuori tappandosi le orecchie. Non voleva più essere sedotta da quella musica, da quella voce, da quelle mani carezzevoli e impudiche. Era andata in un negozio di elettronica e aveva comprato un minuscolo registratore. Poi, alla prima occasione, una sera in cui Carmelina era partita per uno dei suoi viaggi di lavoro, l'aveva nascosto sotto il letto matrimoniale e l'aveva impostato in modo che cominciasse a registrare dopo mezzanotte.

E così era stato. Quel piccolo registratore aveva cambiato la vita alla famiglia. Carmelina aveva ascoltato col fiato sospeso le parole appassionate del suo Gigi, i suoi sospiri, i suoi ansiti, e il continuo ripetere: «Sei la mia piccola sposa, vero.

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Sei la mia piccola sposa segreta, con tua madre non ho mai fatto l'amore, te lo giuro, solo con te, solo con te, amore mio... Ma non dirlo a nessuno, a nessuno.

Altrimenti tua madre morirà. La ucciderò io come un topaccio di fogna.

Se tu parli lei muore, è chiaro? Tu non vuoi che tua madre muoia, vero?». Aveva sentito il piangere sommesso di Rosaria e poi il suo silenzio. «La prossima volta che ci vediamo ti regalo un anello d'oro» aveva continuato lui suadente. «Sarà il nostro anello di matrimonio. Hai capito, anima mia? Io amo solo te. Tu sei la più bella, la più dolce, la più affascinante ragazza che abbia mai conosciuto. Tu non sei una bambina, sei una donna, la mia donna, la mia sola e unica donna... Ma dobbiamo tenere il segreto, anche con tua sorella, ricordalo. È un segreto fra me e te, ricorda, perché un matrimonio segreto è più bello e più grande.» Tutto questo aveva sentito Carmelina da quel maledetto registratore messole sotto il naso da Giusi e aveva singhiozzato disperatamente. «Adesso mi credi?» aveva detto Giusi asciugando le lacrime a sua madre. Carmelina l'aveva abbracciata con una forza che sembrava volesse stritolarla. «Non ci credo ma devo crederci.» Quella stessa mattina madre e figlia erano andate in questura a denunciare il marito e il patrigno portandosi dietro la piccola preziosa registrazione. Il bellissimo pianista è finito in prigione, accusato di violenza sessuale. su minorenni. Aveva contro sia la moglie. Carmelina, che una delle figlie, Giusi. L'altra, Rosaria, non ha voluto denunciarlo. In seguito se n'è andata via da casa e non ha più voluto parlare con la madre e la sorella. Il pianista dalle mani farfalline d'altronde non aveva fatto una piega di fronte alla grave accusa. «Io amo le donne, non faccio loro del male» aveva detto per difendersi. «Ho amato prima Carmelina poi Giusi e poi Rosaria. Le ho amate con tutto il cuore. Non è colpa mia se mi hanno sedotto. Hanno preso la mia anima e l'hanno fatta a pezzi. Non dovevo ingelosire Giusi, questo è l'unico errore che ho fatto. Le donne gelose sono terribili. Pensi a Medea. È stata capace di uccidere i suoi figli pur di vendicarsi del tradimento.

E Giusi ha fatto come Medea.» Il giudice l'ha ascoltato con molta attenzione e un'aria apparentemente consenziente. Appena il pianista ha smesso di parlare, gli ha detto stancamente di tornare al suo posto.

Poi, guardandolo negli occhi, ha preso a dirgli con molta dolcezza ma anche con severità: «Lei certamente è un artista di valore, ho visto gli articoli che ci hanno fatto pervenire i suoi avvocati. Sappiamo che lei suona nelle chiese, e che tiene nella sua stanza la fotografia di un vescovo con dedica. Il suo avvocato non ci ha risparmiato nessuna notizia sulla sua eccellenza e sulle sue protezioni. Ma si

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rende conto che tutto questo non ha niente a che vedere con la violenza sessuale...? Chi le ha detto che un artista ha diritto di comportarsi come gli pare, senza tenere conto della legge? Lei ha abusato di due bambine che le venivano affidate con fiducia da sua moglie. La prima aveva dieci anni quando lei l'ha stuprata e l'ha ricattata chiamandola sua sposa segreta e minacciandola di far morire sua madre se avesse parlato. Poi, appena si è stufato della prima, ha cominciato a circuire la seconda. Le sembra un comportamento da padre? da sposo? da uomo onesto?».

Due anni dopo, mentre ancora il grande pianista era in prigione, Giusi è morta per overdose. Aveva preso a iniettarsi l'eroina all'insaputa della madre. Era andata a vivere in un piccolo appartamento con un giovanotto che le aveva insegnato a drogarsi. Non lavoravano ne lui ne lei e vivevano dei soldi di Carmelina. Anche se poi la trattavano con disprezzo e ironia. Pure Rosaria era andata a vivere fuori, in una comune, con degli amici. Sembrava contenta. Si era tinta i capelli di viola, portava scarponi da montanara e vestiva come una stracciona.

Aveva due draghi tatuati sulle braccia, un pianoforte sulla schiena e due uccelli volanti sul collo. Carmelina è rimasta sola. I suoi capelli in pochi mesi sono diventati tutti bianchi. Ora le tremano le mani quando beve un caffè. Continua a lavorare perché non può farne a meno ma è diventata sempre più svogliata e distratta. Tanto che il capo non la porta più con sé per i suoi affari. Ogni tanto va a visitare Rosaria alla comune trovandola sempre più scorbutica e rabbiosa. «Cosa hai?» «Niente, mamma, lasciami in pace.» «Non ti drogherai mica come Giusi? Non voglio che finisci come tua sorella.» «Tu, mamma, è meglio che non parli. Hai fatto morire Giusi. Hai mandato in prigione Giorgio. Cosa vuoi da me?» «Vorrei solo che tu stessi bene.» «Dovevi pensarci prima.» Carmelina non sapeva che fare. Si rendeva conto che le sue preoccupazioni non facevano che innervosire la figlia, l'unica figlia che le era rimasta e che amava con doloroso e frustrato amore. Un giorno ne aveva parlato con una psichiatra. Alla fine l'aveva convinta ad andare alla comune, senza dire chi fosse, per parlare con Rosaria e cercare di farla ragionare. Da ultimo la figlia le era sembrata così magra e pallida e infelice! La psichiatra era andata, aveva conversato con Rosaria e poi era venuta a riferirle che sua figlia non si nutriva abbastanza, che fumava come una turca e beveva ma non si drogava. Solo, aveva aggiunto, «fa un uso disinvolto del suo corpo». «Che vuol dire uso disinvolto?» aveva chiesto spaventata Carmelina. «Vuol dire che non vuole bene al suo corpo e lo tratta come fosse un cagnolino, dandogli da mangiare i resti, lasciandolo la notte al freddo.» «Cosa posso fare per lei?» «Bisognerebbe curarla. Ma non vorrà. È testarda e contenta della sua

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scontentezza. Forse col tempo cambierà. Dovrebbe trovare un uomo gentile, che la ami veramente. I ragazzi che ho visto in quella casa mi sembravano persi e disperati più di lei.» «Ma come faccio a persuaderla...?» La psichiatra l'aveva guardata con una specie di ironica pietà.

"È troppo tardi" sembrava che le volesse dire, "è troppo tardi. Carmelina." Carmelina quella sera tornando a casa si era guardata allo specchio e si era vista vecchissima, con i capelli lunghi e bianchi che le cadevano sulle spalle. Aveva pensato a Giusi, la bambina allegra che era stata e come si era ridotta: magra come una acciuga, con i lividi sulle braccia. Da morta aveva pettinato a lungo i suoi capelli e le erano sembrati ruvidi e spinosi, come un cespuglio selvatico. Aveva pensato a Rosaria e alle sue sigarette che lasciava ovunque, mezze fumate. Aveva pensato alle parole della psichiatra: «Fa un uso disinvolto del suo corpo». Due spose segrete, due bambine iniziate troppo presto al sesso e diventate nemiche di se stesse. Era tutta colpa sua, si era detta, perché non aveva capito cosa stava succedendo nella sua casa? perché non aveva visto? da dove veniva la sua cecità materna? possibile che l'amore l'avesse resa così estranea alla sua stessa famiglia? così lontana dalla realtà? Il suo viso tetro pareva ordinarle qualcosa in quello specchio luttuoso che si muoveva come un'acqua indolenzita. Sì lo farò, aveva detto a se stessa. Preso un rasoio, si è rapata la testa, come una monaca tibetana in cerca di espiazione. Si è sfilata le scarpe ed è uscita, rapata e scalza per incontrare il suo nuovo destino. Qualcuno dice di averla vista dalle parti del fiume a chiedere l'elemosina. Una donna delicata e ancora bella, dai capelli tutti bianchi, i piedi nudi incrostati di fango, le mani rovinate, le vesti stracciate.

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La notte della gelosia Gesuino l'ho conosciuto in palestra. Un poco piccolo, l'ho giudicato al primo

sguardo, ma così ben fatto che pareva una statua greca.

Assomigliava a un tiratore di giavellotto che avevo visto in un museo di Londra durante una gita scolastica. La testa piccola e ben salda sul collo lungo e armonioso, le spalle grandi e ampie, la schiena dritta da nuotatore, le gambe snelle e muscolose. Ogni volta che arrivavo in palestra, lo trovavo lì ad allenarsi con i pesi, con la macchina per i dorsali. Qualche volta giocava a squash e sorrideva contento quando mirava giusto. Lo osservavo anche senza volerlo: i miei occhi lo cercavano. Qualcosa in lui mi attirava, non so cosa, forse quell'aria seria e triste, quel corpo bellissimo dalla pelle ambrata, quel sorriso amaro. Non so perché ho pensato subito che fosse un sorriso disperato.

La parola mi è venuta in mente quando ho visto le sue labbra sottili che si stiravano faticosamente su una fila di denti infantili e bianchissimi. Come se sorridere gli piacesse ma gli costasse una sfibrante fatica. Lo guardavo quando era vicino e anche quando era lontano, a portata di sguardo, mentre facevo i miei esercizi col solito senso del dovere. Lui però non rivolgeva mai lo sguardo dalla mia parte.

Era come se non mi vedesse, intento com'era alle fatiche di tenere in forma quel corpo perfetto. Mi stavo rassegnando ad ammirarlo da lontano quando una mattina mentre infilavo svelta la porta della palestra col mio borsone appeso alla spalla, ho sentito un "ciao" da una voce sconosciuta. Mi sono voltata ed era lui. Aveva inalberato uno di quei sorrisi stenti e mi fissava. Stava in piedi, a gambe larghe, teneva un borsone verde e nero sul braccio nudo. È stato un amore immediato e travolgente. Ci vedevamo a casa mia, dentro la mia unica piccola stanza vicino all'università, facevamo l'amore con impeto, a volte sul letto, a volte nella vasca da bagno dopo esserci abbracciati sotto l'acqua di una doccia, a volte perfino in cucina sull'unico tavolo di casa. Cucinavo per lui delle magnifiche paste al pomodoro e basilico di cui era ghiotto. Mettevo un poco di zucchero nel sugo, come mi aveva insegnato mia zia che è di Catania. Poi gli preparavo gli involtini di sarde e una insalata con tanto sedano, come piaceva a lui. Parlava poco il mio amato Gesuino. Un nome «così in contrasto col tuo corpo, un nome piccino in un corpo grande» gli dicevo ridendo, mordendogli un orecchio e baciandolo sul collo, le prime volte che ci incontravamo. «Il tuo forse ti assomiglia di più?» «Angela? È un nome banale, comunissimo. Il tuo non l'ho mai

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sentito.» «Era il nome di mio nonno.» «Fa pensare a un pretonzolo timidissimo» dicevo e lui rispondeva che in effetti era timido. «Ma come timido? che mi hai interpellato con un ciao senza neanche conoscermi!» ribattevo e lui tirava fuori quel sorriso triste che mi inteneriva. «Tu credi che non ti conoscessi, ma io sapevo tutto di te, ti guardavo sempre, ti ho pure seguito un giorno fino a casa.» «Davvero mi hai seguita? E io che non mi sono accorta di niente.» «Ti osservavo quando tu non mi vedevi, anche in piscina, io porto gli occhialetti e sott'acqua studio. Ho visto il tuo corpo che nuotava come un delfino e mi sei piaciuta.» «E mi hai seguito fino a casa?» «Non abiti in via della Rondine 22?» «Sì.» «E so pure che stai al quarto piano e vivi da sola.» «Sei proprio un uomo misterioso! E io che credevo che non mi vedessi nemmeno. Sei quasi una spia!» «Quando una persona mi interessa, divento in effetti una spia, ma senza malizia, per capire meglio, per conoscere meglio.» Nella mia balordaggine non gli ho mai chiesto dove abitasse e se fosse solo. Lui non parlava volentieri di sé.

E io non volevo sembrargli noiosa. Pensavo che il nostro amore fosse così robusto e solido da superare ogni sospetto e curiosità inutile. Lo amavo per quello che era, con il suo mistero, il suo silenzio, i suoi sguardi clandestini. Una sola volta gli ho chiesto se vivesse solo e lui mi ha risposto che stava con una vecchia madre malata, per quello non poteva invitarmi a casa sua. E io gli ho creduto. Abbiamo continuato per un anno a frequentarci. Ci ritrovavamo in palestra e facevamo delle lunghe nuotate insieme. Poi prendevamo un succo di carote e sedano al bar e ci lasciavamo con un bacio. Lui doveva andare al lavoro. «Che lavoro fai?» gli ho chiesto una volta. «Finanze» ha risposto laconicamente. «Lavori in banca?» «Più o meno.» Era così affettuoso che ormai mi fidavo completamente di lui. Gli lasciavo le chiavi di casa, gli permettevo di giocare col mio computer, col mio cellulare che lui controllava regolarmente, ma questo l'ho capito dopo, sospettando sempre che ci fossero dei messaggi nascosti. Ero talmente innamorata di lui che non mi importava di nessun altro. Il mio vecchio fidanzato Germano? Avevo rotto con lui da un anno ormai e non ci sentivamo proprio più. Ma Gesuino, come ho scoperto presto, era geloso del presente e del passato.

Sospettava di ogni mio movimento, di ogni mio silenzio. Era inutile dirgli che non mi importava di nessuno salvo che di lui, che lo amavo con tutti i sensi, e non avevo segreti. Quando vedeva che stavo zitta, intenta a correggere i compiti dei miei alunni, mi prendeva la testa fra le mani e con un tono inquisitorio, improvvisamente duro e rabbioso mi chiedeva: «A chi pensi?». «Sto correggendo i compiti, Gesuino, penso a questa frase di italiano che pencola, a questo verbo

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sbagliato.» Ma lui non mi credeva e insisteva: «Tu stai pensando a un altro uomo. Dimmi com'è. Voglio saperlo». I primi tempi lo prendevo in giro. Lo abbracciavo e lo baciavo sussurrandogli che lo amavo e che smettesse di dire stupidaggini. Ma poi mi sono accorta che questo lo mandava in bestia. Non sopportava di essere contraddetto nelle sue fantasie di gelosia. «Dimmi tutto di Germano!» mi ingiungeva prendendomi le mani e guardandomi fisso negli occhi. Non avevo niente da dire su Germano, non avevo nemmeno voglia di pensare a lui. Ma quelle dita che artigliavano le mie erano severe ed esigenti. Ho dovuto imparare a inventare. Cosa voleva sapere Gesuino? Come mi aveva amato Germano? dove ci vedevamo? era quello il letto su cui facevamo l'amore? Voleva dettagli, sempre più precisi e puntigliosi. «Sei perverso!» gli ho detto un giorno sorridendo e lui mi ha lanciato uno sguardo che non dimenticherò mai. Mi ha fatto pensare al lupo del mio libro di favole di quando ero bambina. Un lupo dagli occhi vicini, avidi e curiosi, lampeggianti e famelici. «Forse sono davvero un lupo» ha detto lui sorridendo malizioso, «i lupi vanno a caccia di prede. E tu sei la mia preda amata. Ti mangerò prima o poi. Mi piace pensare che farai parte del mio corpo. Sepolta dentro di me, non è bello? In fondo il cristiano che ingoia l'ostia cosa fa se non seppellire Dio dentro di sé? Tu sei il mio idolo, la mia dea.» L'ho presa per una bella metafora e abbiamo finito per fare l'amore sul divano. Mentre pensavo e speravo che il nostro amore si stesse trasformando col tempo in qualcosa di tenero che ci avrebbe permesso di affrontare un futuro comune, mi sono dovuta arrendere all'idea che il sentimento generoso che ci aveva legati stava degenerando in rivendicazione, rabbia, volontà di sopraffazione e delirio. Le sue telefonate si erano fatte più insistenti e ripetute. Ma mentre all'inizio mi chiamava per dirmi delle cose affettuose, ora mi chiamava per sapere in ogni momento dove stavo e con chi. I pochi amici che avevo li ho dovuti allontanare perché lui mi faceva delle scenate appena li nominavo. «Chi sarebbe questo Mario?» «Insegna nella mia stessa scuola.» «E perché pretende di fare un pezzo di strada con te?» «L'abbiamo sempre fatto. Abita vicino a casa mia. È sposato, Gesuino, e ha due bambini piccoli, conosco bene sua moglie. Chiara, siamo amici. Non c'è mai stato niente fra di noi.» «Poco fa ho trovato il telefono occupato e sono certo che stavi parlando con lui.» Aveva ragione. Mario mi aveva chiamata per qualcosa che riguardava la scuola. Non so come facesse a saperlo. Credo che avesse trascritto tutti i numeri del mio cellulare e controllava... Cominciavo anch'io a sospettare di tutti. Forse il mio collega mi corteggiava senza che io lo sapessi. Cosa voleva da me? Ho dovuto smettere di chiamare gli amici. E appena loro chiamavano me, chiudevo la comunicazione spaventata. Restavano mia sorella Lucrezia e suo marito Giulio che sono sempre stati molto teneri con me. Ma anche di loro

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Gesuino ha preso a sospettare. «Cosa vuole questo Giulio?» «È il marito di mia sorella.» «E con questo? Non mi piace come ti parla.» «Ma se non ci hai mai visti insieme?» «So tutto di te, ricordalo. Devi smetterla di parlare con tuo cognato. È un uomo orribile, non è degno di te.» Quella volta ho avuto un sospetto: che lui avesse trovato il modo di ascoltare le mie telefonate? Ma come faceva? Forse era in possesso di uno di quegli aggeggi da poliziotto che permette di inserirsi nei telefoni altrui. Non lo so, non potevo saperlo, ma tutto me lo faceva sospettare. I

suoi messaggini di controllo mi arrivavano in tutti i momenti della giornata: Cosa fai? cosa pensi? Ti tengo d'occhio.

Ho visto come guardavi l'istruttore di nuoto in palestra. Ti piace? Non ci penso nemmeno, Gesuino, io sono innamorata di te e basta. Ma niente lo acquietava. Piano piano mi accorgevo che non vivevo più con spontaneità, stavo diventando rigida e controllata. Avevo paura di ogni sguardo, di ogni stretta di mano, di ogni parola detta piano, di ogni telefonata. I miei amici avevano capito che stavo vivendo un amore difficile ma non osavano intervenire. Un giorno Mario mi ha fermata all'uscita della classe: «Perché non mi rivolgi più la parola Angela, ti ho fatto qualcosa? Se ho sbagliato senza saperlo, dimmelo, lo sai che ti sono amico». Invece di rispondergli mi sono guardata intorno spaventata.

Ero sicura che Gesuino stesse spiando da dietro la vetrina di un negozio, da dietro la porta di un bar, da dietro una macchina. Lo faceva in continuazione. «No, perché dovrei avercela con te?» ho risposto a Mario «solo che ho molto da fare a casa e sono un poco stanca.» Mario mi ha osservata incredulo, e forse offeso per la mia mancanza di fiducia.

«Lo sai che sei cambiata in questi ultimi tempi, Angela? Non vuoi parlarmi? Lo sai che ti voglio bene.» Non l'ho nemmeno lasciato finire.

Ero talmente preoccupata che Gesuino mi stesse spiando da qualche parte che ho troncato il discorso e sono scappata via. Il fatto è che io stessa mi stavo trasformando in una spia. Osservavo con apprensione tutte le auto in sosta, tutte le vetrine, tutti gli angoli di strada, come se avessi inserito nella mia coscienza una sentinella che seguiva e annotava tutti i miei gesti e quelli di Gesuino con piglio poliziesco.

Infatti, proprio quel giorno, tornando a casa dopo il breve dialogo con il mio collega Mario, ho colto negli occhi di Gesuino la certezza di un delitto. Il delitto del tradimento. Ha sollevato una mano e me l'ha sbattuta contro la guancia e subito dopo un altro schiaffo si è abbattuto contro la mia tempia facendomi

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perdere l'equilibrio. Ero a terra e senza fiato per il dolore e la sorpresa. Non era mai successo che mi picchiasse. Lo guardavo con una meraviglia che deve avere stupito pure lui, perché subito si è inginocchiato e ha preso ad accarezzarmi.

Mi baciava sulla tempia dove aveva colpito e sulla bocca che adesso sanguinava e mi chiedeva scusa con un tono talmente sincero e appassionato che gli ho perdonato immediatamente.

Per un mese è stato più gentile, meno ossessionato dalla gelosia. Ma non meno presente e occhiuto. Io cercavo di non creare occasioni che potessero suscitare la sua rabbia. Attribuivo la violenza alla sua possessività che nella mia ingenuità consideravo una conseguenza del troppo amore. Se mi controlla, se mi segue, mi spia, vuol dire che mi vuole tutta per sé. L'amore lo accieca e lo rende ingiusto, ma col tempo imparerà ad avere fiducia, mi dicevo, imparerà a fidarsi. Non ho in testa nessuno all'infuori di lui, perché tanta gelosia? Ma ritenevo la sua intolleranza una mancanza di conoscenza. Mi conosce poco, pensavo, quando mi conoscerà meglio capirà che non mento, non nascondo nulla, sono sincera e trasparente, lo amo senza riserve. Ma più mi ostinavo a garantirgli amore e fedeltà, più lui diventava sospettoso. Ormai non si fidava neppure dei sogni. Mi svegliava in mezzo alla notte, quelle volte che dormivamo insieme, per chiedermi cosa stavo sognando, anzi chi stavo sognando. «Ho sentito che hai pronunciato un nome nel sonno» diceva inventando, «ora non ti lascio dormire finché non mi dici chi era.» Ho cominciato a pensare che avevo a che fare con una persona malata. Ma io quel malato lo amavo. Anche se non era più l'amore fiducioso e appassionato dei primi tempi, anche se si trattava di un rapporto avvelenato dai sospetti e dalla paura, era sempre un amore vivo. Quando non era geloso, era tenero e affettuoso Gesuino. Faceva l'amore con dolcezza, senza sopraffare. Era capace di pazienza, riguardo, delicatezza estrema. Una sera, tornando dalla scuola dove mi ero attardata per una riunione, me lo sono trovato improvvisamente davanti al portone e ho capito subito che era fuori di sé: stringeva i pugni nelle tasche, aveva le labbra bianche per lo sforzo di tenerle chiuse. Non mi ha neanche rivolto la parola. Mi ha preso per un braccio e mi ha trascinata dentro il portone. Mi ha dato uno schiaffo che mi ha tolto il fiato. Poi su per le scale, sempre in silenzio, tirandomi per il polso. Io ero talmente sorpresa che non riuscivo a spiccicare una parola. Ha aperto la porta con le sue chiavi, mi ha sbattuta per terra e ha preso a riempirmi di calci. Io mi ero raggomitolata su me stessa, incapace di difendermi e di reagire. Sapevo di non avere fatto niente. Eppure il suo cavillare e sospettare mi aveva un poco contagiata: mi chiedevo se non fossi colpevole sul serio, senza neanche saperlo. La sua ira doveva avere una ragione. Non poteva

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essere gratuita, fine a se stessa. Forse mi conosceva meglio di quanto mi conoscessi io... Certo era riuscito a suscitare in me un sentimento arcaico e profondo di colpa. Dovevo essere colpevole visto che la persona che diceva di amarmi mi colpiva con tanto accanimento. Forse riuscirò, mi dicevo, appena passa la furia, a spiegarmi, forse riuscirò a convincerlo. Certamente c'era un equivoco che scatenava la sua rabbia, la sua gelosia. Non riuscivo a vederlo come un nemico. Quando è passata la furia, anziché chiedere scusa come altre volte, se n'è andato sbattendo la porta. Non più scuse e tenerezze, ma una truce pretesa di ragione. Era lui l'offeso e io la colpevole. Era lui che era stato minacciato, ferito, bistrattato e io non avrei mai potuto scusarmi abbastanza. L'ho aspettato quella sera, la sera dopo. Invano. L'ho aspettato per una settimana, pensando che sarebbe venuto a scusarsi, a ripetermi che mi amava, nonostante tutto. Ero pronta, stupidamente, a perdonarlo ancora e ancora. Ma lui non si è fatto vivo. Dopo un mese di assenza pensavo che non l'avrei più visto. In un certo senso mi sentivo sollevata, anche se la donna innamorata piangeva in me inconsolabile e priva di dignità. Nonostante la violenza dovevo riconoscere che lo amavo ancora. E con orrore mi sono chiesta se non fosse proprio a causa di quella violenza che lo cercavo, perché veniva a soddisfare un mio antico bisogno di punizione. Mi sono ricordata dell'insegnante di religione che diceva: voi donne avete una colpa imperdonabile, avete mangiato la mela proibita da Dio e avete cacciato Adamo dal paradiso. Niente e nessuno potrà mai perdonarvi. Allora avevo alzato le spalle a quelle parole. Ma ora mi rendevo conto che resistevano in fondo alla mia coscienza come dei corpi imbalsamati che improvvisamente tornavano alla luce e prendevano vita. Io donna ero colpevole, qualsiasi cosa facessi, ero colpevole nel profondo, per il solo fatto di avere un corpo diverso, un sesso diverso, per avere mantenuto nel tempo un rapporto storto e viscerale con il buio, con il sangue, con le forze incontrollabili del sesso e della nascita. Quando proprio cominciavo a rassegnarmi alla perdita, eccolo! Me lo sono trovato sul pianerottolo una mattina uscendo di casa. Stava seduto sui gradini della scala e mi guardava con occhi stralunati. «Che fai qui?» «Ti aspetto, non vedi?» «Sei sparito. Pensavo non tornassi più.» «Dovevo fare pace con me stesso.» «E ci sei riuscito?» «Credo di sì.» «E non hai pensato che forse dovevi fare pace anche con me? Non hai nemmeno detto ciao quando te ne sei andato.» «Perdonami. Credo di avere sbagliato tutto con te... Sono stato violento e ti chiedo perdono. Mi sono allontanato per punirmi della mia violenza.

Io la odio la mia violenza, capisci. Angela? ma è come se non la potessi controllare quando arriva. Per questo sono scappato. Ma ho riflettuto tanto. Sono stato malissimo lontano da te. Ho bisogno di te. Io ti amo.

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Angela, ti amo tanto... Mi vuoi ancora?» La mia credulità non ha fondo, me ne rendo conto. Ancora una volta ero lì, pronta a dimenticare le sevizie, per accoglierlo dentro di me, per sentire il suo respiro, il suo odore, la sua voce. E naturalmente l'ho perdonato, come lui chiedeva e l'ho riaccolto nella mia vita, nonostante tutto. Fiduciosa nel suo cambiamento, nel suo pentimento. Mi sembrava sincero e sono sicura che in quel momento lo era. Mi pareva un miracolo che non fosse geloso. Non mi chiamava tutti i momenti, non controllava il mio cellulare e la mia posta, non mi interrogava ogni istante su cosa facessi e con chi fossi.

Ne ho parlato a Mario e a Chiara sua moglie, che ero tornata a frequentare dopo la scomparsa di Gesuino. Sono riuscita persino a portarli a cena tutti insieme, Gesuino, Mario e Chiara, in un piccolo ristorante cinese dove abbiamo mangiato del maiale in agrodolce, riso bianco e verdura al vapore, accompagnando il tutto col tè verde. Gesuino era tranquillo e ascoltava volentieri Mario che riferiva di un loro viaggio in India, del furto che avevano subito appena arrivati; «Ci hanno rubato tutto, perfino le scarpe. Eravamo in pantofole e pigiama» raccontava ridendo e Gesuino sorrideva a modo suo, con sofferenza ma senza aggrottare la fronte, mangiando tranquillamente. Il sereno però è durato poco, forse due mesi o tre. Poi sono ricominciati gli interrogatori, i sospetti, le accuse assurde. Non si rendeva conto di scivolare piano piano nei comportamenti di sempre. «Hai detto che avevi fatto pace con te stesso, Gesuino, hai detto che sei cambiato, perché ricominci?» «Lo dici perché hai qualcosa da nascondere. Avresti preferito che non tornassi più, dillo! È solo per pietà che mi hai accolto, dillo!» «Sei ingiusto, Gesuino. Io ti ho solo creduto.» «Chissà cosa hai fatto mentre non c'ero. Ma dovrai raccontarmi tutto, tutto...» Quella volta però ne avevo parlato con Mario e Chiara chiedendo il loro aiuto. Mi sono accordata con Mario che se fossi stata in pericolo avrei semplicemente lanciato un allarme attraverso il cellullare e lui sarebbe accorso, avvertendo la polizia. Segno che temevo Gesuino. Ma un demone in me continuava a suggerirmi di avere fiducia, di tentare. Con incosciente presunzione mi convincevo che la forza del mio amore lo avrebbe guarito. Dovevo riuscire a dimostrargli la mia innocenza e lui mi avrebbe amata come meritavo. Dovevo disinnescare la sua violenza che nasceva, secondo il mio giudizio infantile, dalla scarsa conoscenza dei fatti e della persona. Dovevo riportarlo alla dolcezza iniziale, alla tenerezza, all'amore fiducioso. Stupidissime illusioni, di cui mi sarei pentita ben presto. Sentivo arrivare la bufera ma stentavo a ripararmi, ero inebriata da un senso di onnipotenza; io ce la farò, io lo guarirò, io lo farò rinsavire, lo convincerò col mio amore ad amarmi senza sospetti... Ma Gesuino è venuto a sapere - veramente non so come - della mia richiesta di

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solidarietà a Mario e Chiara e me l'ha fatta pagare pochi giorni dopo. Rientrando dalla scuola l'ho trovato in casa, in cucina che fumava in silenzio. «Mi hai fatto paura. Non mi hai detto che venivi.» «Ha paura chi è in colpa. Maledetta troia!» L'ho visto gettare la sigaretta per terra e schiacciarla con una scarpa, brutalmente, come se stesse schiacciando me trasformata in verme. Poi con calma è andato verso i fornelli, ha preso un coltello e l'ha nascosto dietro la schiena. «Perché nascondi il coltello?» gli ho chiesto con voce calma, cercando di tenere in mano la situazione. Ma già avevo lanciato l'allarme col cellulare e sapevo che Mario sarebbe accorso. Dovevo guadagnare tempo. «Tu credi che i traditori vadano puniti?» ha continuato lui mentre i suoi occhi si facevano sempre più bui e determinati. «Quali traditori?» Cercavo di farlo parlare e di mostrarmi tranquilla ma avevo le mani sudate e un groppo in gola. Solo in quel momento, vedendo davanti a me il suo bel corpo amato farsi rigido, pronto a colpire, solo in quel momento ho capito la mia idiozia, la mia enorme presunzione, la mia dabbenaggine. Solo in quel preciso momento ho capito che avevo davanti un nemico inesorabile, non un innamorato da rabbonire. «Cosa vuoi fare con quel coltello, Gesuino? Posalo, ti prego!» «Tu dimmi, onestamente: secondo te i traditori si lasciano andare o si puniscono come è giusto che sia?» «Quello è un coltello per tagliare il pane, Gesuino, non è adatto per ammazzare una persona.» L'ho visto perplesso un momento, poi ha portato l'altra mano dietro la schiena come per tastare il coltello che teneva stretto nel pugno. «Ti taglierò la gola, per quello va bene.» «Quindi non mi pugnalerai al cuore, come avresti voluto.» «Non fare la spiritosa Angela, perché sono venuto per ucciderti.» «L'ho capito, Gesuino. Ma vorrei sapere perché.

Anche i condannati a morte hanno diritto alla lettura della sentenza.» «Ti uccido perché mi hai tradito con Mario, mi hai sempre tradito con lui e hai pure fatto un patto con lui, contro di me, contro di me che mi fidavo. Contro di me che ti amavo. Sono venuto per punirti come meriti...» Dicendo le ultime parole si è lanciato contro di me. Io sono scappata veloce, sono riuscita a raggiungere il bagno e chiudere la porta. Ma non ho fatto in tempo a girare la chiave. Lui ha aperto con una spallata e ha preso a colpirmi col coltello del pane che non aveva la punta ma era lungo e tagliente. Avrebbe voluto sgozzarmi, ma io mi agitavo e tiravo calci per difendermi. Per fortuna siamo stati interrotti da un forte bussare alla porta. Lui si è fermato. Mi ha guardata un momento con occhi pieni di sospetto e di odio. Poi, forse pensando che fosse la portiera o il verduraio che spesso veniva a portare la frutta, ha posato il coltello, si è sciacquato le mani nel lavandino ed è andato ad aprire la porta dopo avermi chiusa a chiave nel bagno. Ha aperto e si è trovato davanti Mario con due carabinieri.

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Ha subito detto che io ero partita. Ma aveva delle macchie di sangue sulla camicia. E l'hanno ammanettato. Nel frattempo io gridavo dal bagno e Mario è venuto a liberarmi. L'ho abbracciato tremando, coperta di ferite e di sangue. Ho sentito la voce di Gesuino che diceva: «Ecco la prova, signori, la mia donna aveva un amante e io l'ho semplicemente punita».

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Anna e il Moro Anna l'aveva conosciuto in teatro: lui preparava il suo concerto, lei aspettava

che il palcoscenico si liberasse per cominciare le prove dei Sei personaggi in cerca d'autore. Era contenta che l'avessero scelta per la parte della figlia. Mi aveva telefonato gridando: «Papà mi hanno presa, mi hanno presa!». Ero contentissimo anch'io. Le ho detto che ero fiero di lei. Era appena uscita dall'Accademia e già aveva trovato un lavoro! Mi parlava di lui, del Moro, con un entusiasmo che mi sembrava eccessivo. Ma lei era infatuata. Mi diceva che era un uomo generoso e intelligente, che aveva una voce meravigliosa e sapeva suonare tre o quattro strumenti. «Pensa, papà, mentre suona la chitarra tiene un'armonica fissata davanti alla bocca e fa musica con i due strumenti contemporaneamente. È stato sposato, ma ora è divorziato» mormorava con fare compreso, «mi ama tanto, papà e vuole che ci mettiamo a vivere insieme.» Quando le ho chiesto quanti anni avesse questo "dio della musica", ho sentito una esitazione. Non voleva dirmi che aveva venti anni più di lei. «Ma sapessi, papà, che uomo dolce è mi tiene in palmo di mano.» Una sera me l'ha portato a cena. Ho preparato io la pasta con il sugo e le melanzane. Volevo che Anna facesse una bella figura.

L'ospite va trattato con riguardo. Soprattutto se si tratta di un musicista conosciuto e, a detta di tutti, bravissimo. Mia figlia mi aveva fatto leggere delle critiche entusiaste su di lui, che esaltavano la sua voce incantatrice, la sua abilità nel suonare tanti strumenti.

Quando ho aperto la porta e l'ho visto davanti a me, ho avuto una strana impressione, come di un corpo di uomo con la testa di pietra, una di quelle divinità egizie che stanno sempre di profilo e mostrano un volto di marmo, rigido e impenetrabile. Aveva una testa di capelli nerissimi incollati al cranio: tanti riccioli scolpiti, lucidi, metallici. Quando ha sorriso mi è sembrato che facesse luce con quella bocca dai denti finti, ma non era una luce benigna, bensì qualcosa di cupo e rabbioso.

Eppure era chiaro che voleva piacermi. Mi ha teso la mano con fare amichevole. Ho cercato di cacciare via quella impressione sfavorevole.

Mi premeva fare contenta mia figlia. Avessi dato retta alla prima impressione, non sarei qui a piangerla! Se avessi detto ad Anna: bambina mia, questo tuo innamorato non mi piace per niente, è affascinante, lo capisco, ma il cuore mi dice che non è innocente, è torvo e disperato.

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Il suo sorriso, soprattutto, è strano: vorrebbe essere cordiale ma risulta imperioso e lugubre! Forse non l'avrei convinta, ma le avrei messo una pulce nell'orecchio. Forse. Ma, dopo la morte di sua madre, i nostri rapporti erano cambiati. Non riuscivo più a fare il padre severo e protettivo. Mi sentivo in dovere di addossarmi anche l'indulgenza che sua madre ha sempre avuto verso di lei, la comprensione, la solidarietà.

Volevo essere padre e madre contemporaneamente e questo ci ha perduti entrambi. Quando ho stretto la mano di quell'uomo dalla testa di pietra e l'ho sentita molliccia e sudata, sono rabbrividito. Quella contraddizione era inquietante. Non mi piaceva quella mano, non mi piaceva la sua stretta, non mi piaceva nemmeno l'odore che emanava il suo corpo giovanile e ben fatto, un odore di sudore che veniva sapientemente coperto da un profumo orientaleggiante, dolcissimo e stordente. Il Moro, come lo chiamano tutti - anche se il suo vero nome è molto più triviale, si chiama Tito Porcelli -, ha mangiato poco e svogliatamente tenendo d'occhio la piccola Anna, la mia Anna di cui avrebbe fatto scempio. Ma come potevo saperlo? Lei lo amava e io, che avevo sempre predicato il rispetto della libertà altrui, non potevo tirarmi indietro alla prima manifestazione di libertà di mia figlia. «Mi sembra un poco vecchio per te, Anna mia» ho detto timidamente quella sera dopo che il Moro se n'era andato, «e poi è già sposato e ha due figli.» Ma lei ha guardato di traverso con due occhi limpidi e maliziosi dicendo; «Sarai mica geloso, papà?». Ci teneva tanto che io mi facessi un'idea lusinghiera di lui. Perciò mi teneva d'occhio e mi spronava a parlargli. Lui, il Moro, il cantante famoso, stava zitto. Ero io che dovevo portare avanti la conversazione, quelle rare volte che è venuto a casa nostra. Gli parlavo di musica ma mi rispondeva con frasi smozzicate come se volesse farmi capire che non ne sapevo niente, pretendevo forse di conversare di musica con lui? Allora affrontavo l'argomento della politica, ma anche lì non mi rispondeva a tono. Per lui la politica era «tutta merda» e non valeva la pena neanche di pensarci. Metteva una tale attenzione nello sminuzzare la carne nel piatto che sembrava non esistesse altro per lui. Da quando mia moglie è morta vivevamo Anna ed io nella grande casa. Lei ha subito detto che avrebbe cucinato per me, ma era negata. Perciò mi sono messo io a trafficare in cucina. Andavo anche a fare la spesa la mattina presto, mentre ancora Anna dormiva. Era una cosa che mi piaceva: mi inoltravo fra le bancarelle di frutta e verdura quando l'aria era fresca e croccante come le mele che lei amava.

Sceglievo i pomodori verdi, i meloncini che schioccavano sotto il pugno chiuso. Tastavo le zucchine ad una ad una facendo arrabbiare la verduraia, ma io

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volevo che fossero dure e corpose come piacevano alla mia bambina. Le portavo a casa, le tagliavo a metà per il lungo, le riempivo di pan grattato. di uvetta, di parmigiano e le cacciavo al forno. Era uno dei piatti preferiti dalla mia piccola Anna. Ora quando le preparo a casa, da solo, non riesco a mangiarle. Finisce che le butto nella pattumiera. A me è sempre piaciuto cucinare. Le chiedevo solo di stirare le camicie. Per il ferro caldo non sono buono. Per il resto ci arrangiavamo. Avevamo una donna che veniva una volta alla settimana a fare le pulizie più importanti. Passava l'aspirapolvere e scopava per terra. Per il resto ce la cavavamo noi due dandoci il cambio. La sua camera l'ho lasciata com'era, coi suoi orsacchiotti di quando era bambina, le sue collane di ambra appese a un chiodo piantato nello sportello dell'armadio, i suoi quadretti indiani. Ho solo strappato e buttato dalla finestra i manifesti del suo amato Moro, il Moro maledetto che me l'ha tolta per sempre. «Possiamo venire da te stasera, papà? Il Moro ieri si è tanto stancato con un concerto in provincia, ma ha avuto un successo strepitoso.» «Certo, Anna, vi aspetto.» Arrivavano in ritardo. Non so se per colpa di lui o di lei, fatto sta che i miei cibi diventavano scotti e io avevo paura di fare brutta figura. Lei si scusava, sapeva che odio aspettare, mi riempiva la faccia di baci dicendo: «Papà lo sai che non riesco mai a essere puntuale, il Moro non ha colpa, sono io che gli ho fatto fare tardi, scusami, perdonami» e con questo mi rabboniva. Anche se io le spiegavo che non era per l'attesa in sé, ma perché il riso scuoceva, perché le fettine panate diventavano nere. Lui entrava dietro di lei, tetro e trionfante, vestito come un poveretto anche se guadagnava un sacco di soldi. Mangiava poco, parlava poco. Stringeva la mano di Anna sotto il tavolo e pretendeva che non lo vedessi. Avrei preferito che le tenesse la mano sopra il tavolo, non sotto, come un amante clandestino. Ma a lui piaceva quell'ardimento. Gli piaceva ingannarmi quasi fossi un padre padrone. Mentre la sola cosa che chiedevo era che fosse affettuoso con mia figlia. Quando lo fissavo con insistenza cercando di capire il suo carattere, lo sentivo diventare inquieto. C'era qualcosa in lui che non mi convinceva, ma cosa? Non avrei saputo dirlo allora. Poi ho capito che era la sua invincibile e disperata violenza che cercava di dominare. Ma, quando l'ho capito, era troppo tardi. Dopo, solo dopo, col processo, ho saputo che il padre l'aveva abbandonato quando era piccolo e che la madre si era suicidata.

Che era stato messo in collegio dove lo picchiavano di santa ragione. Un bambino prepotente e ribelle. Tutto questo l'ho saputo dopo e mi ha fatto pietà, ma non riesco a perdonarlo. Avrei dovuto dare retta al mio istinto, avrei dovuto portare via la mia Anna in qualche posto lontano.

Avrei dovuto impormi, urlare, fregandomene del sospetto di gelosia.

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Avevo il dovere di proteggerla e non l'ho fatto. Ma questi sono tutti ragionamenti che si fanno a posteriori. Allora ero contento vedendo che lei era contenta. Da quando era morta sua madre non l'avevo più vista ridere a quel modo. Sembrava una raganella in amore. Era quasi oscena nella sua infantile donnesca felicità sentimentale. E lui? Lui era indecifrabile. In certi momenti mi sembrava sinceramente innamorato di mia figlia. Più che guardarla, la rapiva con lo sguardo. Era geloso, in un modo ingiusto e irragionevole. Intanto per prima cosa le ha proibito di recitare la parte della figlia nei Sei personaggi in cerca d'autore.

Un giorno, ma questo l'ho saputo dopo, ha stracciato melodrammaticamente la tessera dell'Accademia di Anna. Non voleva che stesse gomito a gomito con altri uomini per ore e ore sul palco. L'accusava di provare attrazione per i suoi colleghi attori. Dopo molte insistenze, Anna ha finito per lasciare il teatro. E quando io ho protestato, mi ha gridato: «Sono io che non voglio, papà. Sono io che decido della mia vita, non tu! Ricordati che sono maggiorenne! Da poco ma lo sono, ricordalo. Vuoi che rompa tutti i rapporti con te? Devi accettare il mio amore per quello che è, non puoi intrometterti, non puoi trattarmi sempre come una bambina bisognosa di protezione. So cosa fare della mia vita, papà». È stata aggressiva quella volta, di una aggressività inusuale in lei. In altri momenti mi sembrava che il grande Moro si annoiasse con lei. Lo vedevo sorridere paterno, un poco disincantato, un poco intenerito, ma anche scocciato come di fronte a un amore sconsiderato e stupido, troppo infantile e inconsapevole per i suoi gusti. Ma allora perché insisteva a mettere su casa con lei? Me lo sono chiesto tante volte. Senza trovare risposta. Forse dopo anni di vizi voleva una persona innocente e devota accanto a sé. Si raccontava che sua moglie fosse una americana ricchissima che gli aveva pagato i primi strumenti e gli aveva permesso di farsi un'orchestra. Ma si diceva anche che lei lo tradisse in continuazione, che spendesse e spandesse, tanto i soldi erano i suoi.

Eppure credo che il Moro fosse sinceramente innamorato di Anna. Per lo meno all'inizio, voglio crederlo, altrimenti dovrei disprezzarlo più di quanto lo disprezzi. E questo mi impedirebbe ogni sentimento di pietà e di perdono, come invece mi suggerisce la ragione. Una volta mia figlia mi ha portato ad un concerto del suo amato Moro. In un campo di calcio.

A mezzanotte. Il palcoscenico era ingombro di strumenti. Luci rosse e arancione saettavano con le loro lame colorate in mezzo alla folla di ragazzini. La luce della luna, che trapelava misteriosa in mezzo alle nuvole bianche, veniva coperta e umiliata da quei riflettori potenti e arroganti. Quando il gruppo è

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apparso sulla scena, centinaia di mani si sono levate in segno di saluto. Alcune voci femminili hanno scandito il nome del cantante; Moro, Moro! E il Moro è apparso sul palco come un fantasma, dal nulla. Ha fatto una piroetta su se stesso, un salto a piedi uniti e poi si è piegato inchinandosi davanti al grande pubblico.

Anna, ritta accanto a me sul prato, batteva le mani felice. Intanto un ragazzo dalla testa pelata, e due lunghi orecchini in forma di croce appesi ai lobi, ha iniziato a scandire il tempo sulla batteria. Un altro giovanotto dalle treccioline legate sulla nuca con un fiocco rosso, i jeans stracciati e un serpente d'oro attorcigliato attorno a un braccio, ha eseguito un assolo col sax, mentre un ometto dalla testa piccola e una gran pancia seminuda, saltava sul palco abbracciato al suo violino.

A questo punto il Moro ha afferrato il microfono con una mossa rapace, come fosse un pollo da spennare, e se l'è portato alla bocca. La sua voce ha invaso il campo, potente, roca, una voce da condannato che chiede pietà mentre sta per salire sul patibolo. L'enorme folla di ragazzi lo ascoltava rapita. Alcuni ballavano da fermi, abbracciati.

Altri se ne stavano estatici, con gli occhi chiusi, altri ancora piangevano come se assistessero al sacrificio di un povero animale innocente. In quel momento ho pensato che doveva essere quella l'essenza del concerto rock; qualcosa che assomiglia alla brutale ed emozionante immolazione di un animale sacrificale. Una immolazione necessaria per purificarsi di un peccato originale, che appartiene alla collettività, e deve essere compiuta davanti a tutti, come i grandi sacrifici dell'antichità. Non era chiaro però se lui fosse il sacrificato o il sacerdote che avrebbe cacciato il coltello nella gola dell'animale sacro. La sua voce torva, rabbiosa esprimeva dolore, ira, disgusto per i patimenti che forse solo il suo corpo ricordava, una sete di vendetta che aveva perso la memoria di chi dovesse pagare l'offesa. Si rivolgeva a tutto e a tutti come se la responsabilità di una infanzia tradita fosse colpa proprio di quella folla che lo idolatrava. Non avevo mai assistito a un concerto rock in vita mia. Da piccolo, mia madre, che era pianista, mi aveva educato alla musica classica. In casa mia si ascoltavano solo Bach e Beethoven. Perfino Rossini o Verdi erano considerati troppo popolari per essere all'altezza dell'empireo. La musica cosiddetta leggera era semplicemente ignorata. Mio padre a volte canticchiava un motivo dei Beatles ma lo faceva quasi di nascosto. Lui da ragazzo aveva frequentato i locali da ballo. Aveva amato Charles Trenet e Edith Piaf. Ma non lo raccontava mai davanti a mia madre. Io ero tutto dalla parte della bellissima e serissima Anna de Lutis che preparava i suoi concerti con una furia quasi ossessiva, riempiendo la casa e le nostre giornate delle sue

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note sublimi. Spesso si dimenticava di mangiare e mentre mio padre da solo in cucina si preparava, vergognandosi della sua fame, una fetta di carne ai ferri, io me ne stavo sdraiato sul divano del salotto, proprio dietro il pianoforte a coda e ascoltavo rapito le fughe di Bach che uscivano dalle dita nodose e robuste della mia amata madre. Ma proprio quando meno me l'aspettavo, i miei si sono separati. Mia madre si è innamorata di un pianista, hanno cominciato a suonare in coppia e infine sono andati a vivere insieme a Bruxelles. Eravamo rimasti soli mio padre ed io in una grande casa, senza musica e senza donne. Mia madre si era portata via il pianoforte su cui avevo cominciato ad esercitarmi. E mi mancava quel pianoforte come mi mancava lei con la sua volubile saggezza, la sua distrazione, la sua disciplina, la sua delicatezza. Era stata una grande emozione penetrare nel mistero delle note, sentirmi a mio agio nella casa solenne della musica classica. Per questo volevo seguire le sue orme e mi ero anche inventato un talento che in realtà non avevo. Mi volevo pianista e sognavo di partire con la mia valigetta per città lontane, mangiando panini e dormendo in alberghi anonimi, come mi raccontava mia madre. Ma che importava la comodità e anche il denaro se la musica era con me ed ero capace di regalare delle emozioni ai miei ascoltatori? Qualche volta ero stato ammesso ai concerti di mia madre. Com'era diversa l'atmosfera della musica classica dal rock! Nelle sale di concerto che avevo frequentato si compiva un rito solenne e misterioso. Nel concerto rock si compivano altri riti che volevano essere satanici e catartici ma che stavano ai riti classici come il teatro fescennino di fronte al teatro di Eschilo. La vicinanza di mio padre architetto e la sua ragionevole molto umana compagnia mi hanno portato a scegliere un'altra strada. Sono diventato anch'io architetto e l'ho seguito nei suoi cantieri sparsi per il Paese. La musica è rimasta come un fantasma tenero che mi carezza il cuore. Ogni tanto mi sedevo davanti al pianoforte che mi ero regalato: niente di importante, un pianoforte giapponese dai tasti scintillanti, senza coda, appoggiato al muro della mia camera da letto. Quando suonavo pensavo a mia madre, alle sue mani piccole e nodose, capaci di tirare fuori l'anima dalle note. Ogni tanto mi scriveva, mi telefonava. Ma non l'ho più vista. Quando ho sposato Erminia ho smesso di suonare. E quando è nata Anna ero talmente impegnato col mio lavoro che non ho neanche provato una grande emozione. Erminia era la segretaria di mio padre ed è per puro caso che è rimasta incinta. Non pensavo affatto di sposarla.

Ero fidanzato con una brava ragazza, figlia di un amico di mio padre, la bella e atletica Alessia. È successo che una sera ci siamo trovati insieme, Erminia ed io, a fare dei conti in studio. Le ore passavano senza che ce ne rendessimo conto e a un certo momento ci siamo trovati quasi addormentati l'uno addosso all'altra. Il suo

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corpo, che non avevo mai preso in considerazione, l'ho scoperto quella sera, morbido e profumato, accogliente e generoso come mai avevo sentito un corpo di donna. Tutto il contrario della mia Alessia che era bella, alta, sportiva ma legnosa e poco portata alle affettuosità. Improvvisamente ci siamo trovati abbracciati e la dolcezza della sua stretta mi ha sorpreso e conquistato. Mi sono tuffato in quel seno profumato e non ho pensato più a niente. Dopo sono cominciati i guai. Perché lei è rimasta incinta e io non avevo il coraggio di dirlo a mio padre e meno che mai alla mia fidanzata Alessia che mi considerava ormai suo marito. Mi ha salvato Erminia col suo carattere sincero e risoluto. È andata a parlare con la sua rivale, le ha detto che era incinta di me. Ha aggiunto che avrebbe rinunciato a me se lei glielo avesse chiesto. Con chiarezza però e dichiarando il suo amore. Lei non voleva fare del male a nessuno. Ma Alessia era di un'altra stoffa. Ha urlato allo scandalo. Le ha dato della puttana, della rubamariti. L'ha praticamente cacciata di casa. E poi è andata a raccontare tutto ai suoi, che a loro volta hanno raccontato ogni cosa alla mia famiglia. Mio padre non se l'è presa. È stato spiritoso. Mi ha detto: «Sai, il nostro corpo spesso decide per noi. Dobbiamo saperlo ascoltare. Comunque è bene che sia successo perché hai avuto modo di conoscere le due donne. Quale ti sembra che si sia comportata con più coraggio e generosità? Erminia? Ebbene, sposa Erminia e lascia stare Alessia. Ho sbagliato io a proportela». Mio padre in quell'occasione mi ha dato una lezione. È stato più leale e più saggio di me che titubavo e tremavo. Purtroppo Erminia è morta di un cancro alle ovaie quando Anna aveva sette anni. E stato un periodo di sofferenza e di paura. Non potevo accettare che se ne andasse. Lei è stata molto coraggiosa, si è curata con costanza e serietà. Ha subito tre operazioni, ha fatto tutte le chemio richieste senza mai un lamento.

Ha perso i capelli che aveva bellissimi, castani, dorati, lunghi fino alla schiena. Sempre allegra, sempre coraggiosa. Credeva di guarire ma non ce l'ha fatta. È stata una esperienza atroce. Le ho tenuto la mano fino all'ultimo. È morta sorridendo. È per rispetto alla sua memoria che non mi sono risposato. Ho avuto degli amori, ma sempre brevi e poco impegnativi. Volevo dedicarmi completamente ad Anna, che assomiglia poco a sua madre, così fragile, così delicata, così pronta a credere all'ultimo venuto. Neanche a me somiglia, per la verità. Deve essere stata la solitudine di cui ha sofferto dopo la morte della madre a renderla così incerta e insicura. Sono andati a vivere insieme, Anna e il Moro. Una bella casa in un, quartiere elegante di Milano. Appena potevo andavo a trovarli. Ma preferivo farlo quando lui non c'era.

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D'altronde lui non c'era quasi mai. I concerti lo portavano lontano. E lei se ne stava in casa ad aspettarlo. Con una pazienza, una devozione che non le sospettavo. Prima di lui aveva avuto diversi fidanzati. Con loro faceva i capricci, li trattava male, era incostante e volubile. Con il Moro invece sembrava essere diventata un'altra. Aveva rinunciato al teatro per cui aveva tanto studiato. Passava il tempo a fare i conti per lui. Rispondeva al telefono per lui, gli organizzava le tournée, teneva viva la casa riempiendola di animali; nell'ingresso aveva piazzato un acquario pieno di pesci esotici blu elettrico e giallo uovo, aveva due bassotti intelligentissimi, un gatto di nome Mercurio che era grasso e cieco e lo accudiva come un neonato. Aveva anche una papera che teneva sul terrazzo, dentro una vasca di plastica che veniva pulita e riempita di acqua fresca ogni giorno. A volte accompagnava il Moro in tournée quando non si trattava di andare troppo lontano. Ma lui preferiva che stesse a casa ad aspettarlo. «Devo avere un punto di riferimento» diceva, «e tu sei la persona giusta. La mia casa, i miei animali, la mia terraferma.» Così mi ha riferito mia figlia una volta. E lei era felice di essere quel punto di riferimento. Una notte Anna mi telefona dall'ospedale di Rimini; «Non ti spaventare, papà, mi sono rotta un polso cadendo sul lungomare. Mi stanno mettendo il gesso. Ma non è grave. Non ho neanche dolore. Volevo che non stessi in pensiero. Ti voglio bene. Stai tranquillo». «Vengo subito» ho gridato al telefono ma lei mi ha fermato sostenendo che non avrei fatto in tempo ad arrivare, che la sera stessa sarebbe ripartita per Milano. Ho preso comunque un aereo per Milano. Avevo sentito qualcosa nella sua voce che non mi convinceva. La conoscevo troppo bene. Mi ha aperto la porta con aria allegra. Ma ho capito subito che fingeva. Aveva troppo cerone sulla faccia, lei che di solito si truccava pochissimo. Eppure, nonostante lo sconcerto e i dubbi. non ho indagato, non ho approfondito. Avevo sempre paura di essere indiscreto. Ormai mia figlia è una donna, mi dicevo, non posso più trattarla come una bambina da proteggere. Erano le parole di lei che mi risuonavano nelle orecchie, ammonitive. Quando mi ha raccontato della caduta sul lungomare di Rimini le ho creduto. Non mi aveva mai mentito. Mi ha fatto vedere con un certo orgoglio la firma di tutti i concertisti sul gesso che teneva stretto il polso rotto. «Ma come hai fatto a cadere?» le ho chiesto allarmato. Lei si è messa a ridere ed ha cambiato discorso. Così pronto a mandare giù le sue bugie, così inerte e stupido davanti ai segni evidentissimi di una mano pesante. Il Natale dell'anno scorso Anna l'ha voluto passare con me. Mi ha detto che il Moro era impegnato in una tournée in America Latina. Ma quando mi parlava di lui non aveva più gli occhi scintillanti. Era come se covasse un pensiero grave, come se si stesse interrogando sul futuro.

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Ho pensato che qualcosa fosse cambiato fra loro due. Lo capivo anche se lei fingeva che tutto fosse come prima. Sentivo che faticava a mentire.

Ma lo faceva per proteggermi. E io, a mia volta, per proteggere lei, mentivo sulle mie preoccupazioni. Stupide menzogne fra un padre e una figlia che si amavano e pensavano di salvaguardarsi raccontandosi delle bugie. E invece, se avessi parlato sinceramente e se lei mi avesse detto delle percosse, forse oggi sarebbe ancora viva. Passati due mesi in cui l'avevo vista pochissimo, ecco che una sera mi arriva una telefonata del violinista del gruppo. «Sua figlia è in ospedale a Bolzano e mi incarica di dirle che non si preoccupi, si tratta di una piccola frattura, soprattutto di non venire perché tanto domani la dimettono e lei tornerà a casa. Si è fratturata una costola cadendo.» Salto sulla sedia: «Come fratturata una costola? cadendo da dove? e perché non mi telefona lei?».

Il violinista collaboratore del Moro che, ora ricordavo, era il più anziano del gruppo, l'omino dalla pancia sporgente e le gambette sottili che saltava sulla scena abbracciato al suo violino, ha buttato giù il telefono senza lasciarmi il tempo di capire come stavano le cose. Decido di partire subito nonostante la proibizione per interposta persona. A Bolzano trovo Anna in un lettino di corsia, la faccia gonfia e tumefatta, le braccia nude coperte di lividi, i capelli incollati alla cute, gli occhi opachi e disperati. «Che ti hanno fatto, Anna mia, come ti hanno conciata?» Lei si sforzava di sorridere. «Perché sei venuto, papà, lo sapevo che ti saresti impressionato. Avevo raccomandato a Michele di dirti di non venire, papà, che sei venuto a fare?» «Prima di tutto sei ancora mia figlia e se ti fai male, accorro. Non saresti venuta tu se io mi fossi spaccato una costola? Secondo, mi devi spiegare come, cadendo su un marciapiede, ti sei conciata in questo modo.

Comincio a pensare, Anna mia, che tu faccia di nascosto il pugile e ti batta sul ring senza dirmi niente.» Cercavo di fare dello spirito per non allarmarla. Ma soprattutto per non allarmare me stesso. Da dove venivano tutti quei lividi poco probabili in una semplice caduta? Non mi passava neanche per la mente che potesse essere stato il Moro. E poi c'erano tante persone attorno a lui, non mi avrebbero avvertito? Non potevo sospettare che gli avessero creato un cerchio che lo proteggeva e lo nascondeva. Tutti sapevano che batteva la sua giovane moglie, salvo io. Sono stato un idiota, lo confesso, sono stato cieco. Di fronte alle frottole di Anna non ho dubitato, non ho cercato con energia la verità.

Mi sono arreso alla sua finzione. Nascondendo la testa sotto la sabbia, caparbiamente, irresponsabilmente. Pensando, in buona fede, di farlo per amore paterno. Se Anna mi diceva che era caduta perché non avrei dovuto crederle? Che

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ragioni poteva avere mia figlia per nascondere la verità? Perché avrebbe dovuto difenderlo contro se stessa? Ero ingenuo e pavido, oggi mi rimprovero di essere stato vile, oggi mi dico che dovevo indagare, dovevo andare a fondo. C'era qualcosa di assurdo in una giovane ragazza che cadeva in continuazione, che si riempiva di lividi nei posti più strani. Ma mi ostinavo a non capire. O mi rifiutavo ostinatamente di capire? Non lo so. Perché avrei dovuto nascondere a me stesso il pericolo che correva mia figlia? Era solo la paura di essere tacciato di gelosia? Avevo timore di interferire nella sua vita familiare senza peccare di arroganza? Anna aveva ventidue anni, me lo ripeteva in continuazione, era una donna fatta, non era più una bambina bisognosa di protezione. Non mi sono nemmeno preoccupato del fatto che il Moro non si facesse vedere. Era sempre «in prova», sempre in qualche studio insonorizzato, davanti a qualche microfono, a registrare qualche nuova canzone. D'altronde mia figlia mi rassicurava in continuazione; il Moro ti saluta, il Moro ti chiede se vieni al concerto di domenica sera, e così via. Sentivo che mi nascondeva qualcosa ma pensavo a una rissa, a una rapina che non avevano voluto denunciare. Immaginavo le cose più incredibili pur di non affrontare la verità. Ma la verità che oggi mi appare così lampante allora mi si nascondeva. Non riuscivo a tirare le conseguenze di quei segni. Il linguaggio dei lividi mi sfuggiva. Certo mia figlia faceva di tutto perché mi sfuggisse. Non so se per orgoglio o per amore, se per masochismo o per pietà verso l'uomo che aveva scelto come compagno di vita, faceva in modo di mostrarmi sempre una faccia diversa da quella reale. Mi rassicurava, mi coccolava, mi trasmetteva la sua profonda voglia di vivere, la sua indulgenza, il suo rispetto per quell'uomo che ammirava e amava. Anna mia, perché non mi hai chiesto aiuto? Perché hai voluto rassicurarmi? Perché ti sei consegnata, mani e piedi legati, a quello schiavista? Non riesco a capire. Non riuscirò mai a capire. Io certamente ho peccato di ingenuità, ma tu, tu, perché non ti ribellavi, anima mia? Oggi penso che avrei dovuto portarla via, con le buone o le cattive. Ma si può imporre a una persona la sua salvezza se non la vuole, anzi se vi si oppone con tutte le forze? È questo che mi tormenta. Perché una giovane donna bella, intelligente e fiera si riduce ad essere complice del proprio carnefice? Non lo so e non lo saprò mai. Il mio amico Mark, che è psicanalista, mi dice che spesso fra carnefice e vittima si stabilisce un rapporto di complicità, anche se involontaria. La vittima vuole proteggere il suo aguzzino per liberarsi dai sensi di colpa. «Ma colpa di che?» gli chiedo. «Colpa di avere accettato la prima, la più subdola e inaspettata delle violenze. Da quel momento la distinzione fra i due si fa sottile e ambigua. La vittima diventa sempre più vittima, il carnefice sempre più carnefice in un gioco perverso che si avvita su se stesso.» Questo succede, secondo Mark soprattutto quando il carnefice è una

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persona che ci è familiare; la persona che abbiamo amato, di cui ci siamo fidati e che ci si è rivoltata contro. Vivevo in apprensione. Ricordo di averne parlato anche con un medico. «Secondo te» gli ho detto, «cosa significa se una donna cade continuamente e si fa male?» Lui mi ha guardato con un'aria maliziosa: «Davvero non capisci? Tua figlia ha qualcuno che la picchia, e anche di brutto. Cerca di capire chi. Possibile che il suo compagno non si sia accorto di niente?». «Ma lui è sempre in viaggio.» «E tu vai a parlare a lei. Cerca di farti dire la verità. È importante.» Quella volta ho deciso: metto a posto questo cantiere e vado a Milano. Se lei non mi dice la verità, vado a parlare con il Moro, dovunque sia lo raggiungo. Ma era troppo tardi. Maledettamente tardi e non lo sapevo.

Due giorni dopo quel discorso, mi arriva una telefonata dall'ospedale di Sanremo. «Abbiamo qui sua figlia in condizioni deplorevoli. È stata selvaggiamente picchiata. Ancora non sappiamo da chi. È in rianimazione. La volevamo avvertire.» Mi sono precipitato col primo aereo a disposizione. Sono atterrato a Nizza e da lì sono andato a Sanremo in taxi. All'ospedale non volevano farmi entrare nella sala rianimazione. Poi hanno avuto pietà per il mio stato e mi hanno dato il permesso dopo avermi fatto indossare un camice verde, una mascherina e una cuffia. Una lunga fila di letti. Corpi immobili sotto le lenzuola come cadaveri. Camminavo in punta di piedi, accompagnato dal sibilo delle bombole di ossigeno e dal lieve gorgoglio dei tubi che portavano alimentazione, sangue e ossigeno ai corpi. Cercavo fra le teste appoggiate ai cuscini, le facce pallide, gli occhi chiusi. Non è lei, non è lei, non può essere lei mi dicevo a ogni faccia di donna che vedevo durante quel viaggio interminabile fra i letti. Ma eccola. Ho saputo subito che era lei anche se i miei occhi stentavano a credere a quello che stavano vedendo. Mia figlia aveva la testa rapata e una benda macchiata di sangue le copriva la fronte. Mi sono avvicinato mentre il cuore mi si torceva come uno straccio bagnato. Non avevo più saliva in gola. Tutto in me gridava guardando le palpebre livide, di mia figlia. Osservando le sue mani delicate dalle lunghe dita flessuose rattrappite e contratte, una guancia era bucata, come trapassata da un punteruolo. Il collo aveva una collana di lividi violacei. Dal naso le uscivano due tubi e uno dalla bocca, «Anna mia! Come è possibile, come è possibile?» Mi sono inginocchiato per terra e le ho baciato le mani che hanno avuto un sussulto. «Sono io, tuo padre, mi senti?» Ma non mi sentiva. Non mi vedeva. Respirava appena e ogni volta che tirava l'aria si sentiva un rantolo roco. «Amore mio, piccola Anna, ti prego, guardami! sono io, papà, ti prego, ti prego...» È morta quella notte, mentre le stringevo una mano.

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Il medico mi ha impedito di sollevare il lenzuolo che la copriva. «Lasci stare, è troppo per lei» ha detto. Ho saputo solo dopo che aveva una gamba spezzata, il ventre squarciato da dieci coltellate, il petto preso a rasoiate. Anna mia, Anna mia, continuavo a dire in un mormorio, non avevo altre parole. Ero morto con lei. L'hanno portata via per l'autopsia. E mentre me ne stavo con la testa fra le mani in uno stato di prostrazione senza fine, mi sono sentito battere sulla spalla. Era un giornalista. «Hanno arrestato il responsabile. Si tratta del suo compagno, il cantante Tito Porcelli, detto il Moro. Lei si costituisce parte civile? Cosa ha da dire?» L'ho guardato senza capire. Poi, non so perché, mi sono alzato e gli ho sferrato un pugno. Non c'era ragione. Non c'entrava niente. Ma l'ho fatto. Quindi ho preso la mia giacca, appesa allo schienale della sedia, e sono uscito.