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22 - Avventure nel mondo 2 | 2016 Testo e foto di Salvatore Francesco Bellisario Il viaggio è iniziato e, come ogni volta, nell’attimo che precede il momento della partenza, sento uno sfrigolio risalirmi dalla bocca dello stomaco. E’ una sensazione di ebbrezza e di gioia. Si dimentica ogni cosa, salvo questa sensazione di suprema grazia, di assoluta euforia. L’airbus della Unided Air è mostruo- so e il volo per Houston e per Guatemala city è inter- minabile. Sto atterrando nella terra di Rigoberta Menchù Tum, premio Nobel per la pace e depositaria della cultura degli indios, una dei pochi indigeni so- pravvissuti al genocidio in Guatemala. Un minibus mi trasloca, stordito, fino ad Antigua. E’ notte e non di- sdegno di fermarmi presso un piccolo banchetto all’aperto e mangiare della carne arrostita e bere la prima birra locale chiamata “Gallo” leggermente amara e molto schiumosa. Un giro notturno per Anti- gua rivela strade illuminate a festa, bar aperti dove non servono che birra e di gente sotto i portici di pa- lazzi coloniali; spicca un gruppo di anziani in giacca e cravatta con grandi xilofoni e gente che danza. Al mattino, tre imponenti guardiani la circondano: Agua, Fuego ed Acatenango; con il mio gruppo di “Avventu- re” tra ciottoli e case basse colorate siamo già nella festa, nella piazza centrale di Antigua, animata e so- leggiata. Non sai dove buttare lo sguardo. Chiese an- tiche e palazzi in stile barocco ispano americano, cortili rigogliosi di verde e fontane, case coloniali ri- convertite in hotel, coperte e cappelli, scialli e stoffe coloratissime, tortillas e Queso de Cicero su banchet- ti quasi improvvisati ai margini delle vie.Una ragazzi- na riesce a vendere il suo intero malloppo di chinca- glieria a due coppie di turisti. L’udito è catturato dal suono di strumenti a corda e da un meraviglioso xilo- fono tutto di legno intagliato, talmente grande che viene suonato da sei persone contemporaneamente, insomma, la “Gallo” scivola nuovamente, liscia, nella gola assetata, che festa!!! La piazza centrale dove sorge la chiesa madre è ricoperta da un tappeto di aghi di pino, petali di fiori e segatura colorata. Un vio- RACCONTI DI VIAGGIO | Guatemala Belize Da un Guatemala Belize Breve I ruggiti di Tikal

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Testo e foto di Salvatore Francesco Bellisario

Il viaggio è iniziato e, come ogni volta, nell’attimo che precede il momento della partenza, sento uno sfrigolio risalirmi dalla bocca dello stomaco. E’ una sensazione di ebbrezza e di gioia. Si dimentica ogni cosa, salvo questa sensazione di suprema grazia, di assoluta euforia. L’airbus della Unided Air è mostruo-so e il volo per Houston e per Guatemala city è inter-minabile. Sto atterrando nella terra di Rigoberta Menchù Tum, premio Nobel per la pace e depositaria della cultura degli indios, una dei pochi indigeni so-pravvissuti al genocidio in Guatemala. Un minibus mi trasloca, stordito, fino ad Antigua. E’ notte e non di-sdegno di fermarmi presso un piccolo banchetto all’aperto e mangiare della carne arrostita e bere la prima birra locale chiamata “Gallo” leggermente amara e molto schiumosa. Un giro notturno per Anti-gua rivela strade illuminate a festa, bar aperti dove non servono che birra e di gente sotto i portici di pa-lazzi coloniali; spicca un gruppo di anziani in giacca e cravatta con grandi xilofoni e gente che danza. Al mattino, tre imponenti guardiani la circondano: Agua, Fuego ed Acatenango; con il mio gruppo di “Avventu-re” tra ciottoli e case basse colorate siamo già nella festa, nella piazza centrale di Antigua, animata e so-leggiata. Non sai dove buttare lo sguardo. Chiese an-tiche e palazzi in stile barocco ispano americano, cortili rigogliosi di verde e fontane, case coloniali ri-convertite in hotel, coperte e cappelli, scialli e stoffe coloratissime, tortillas e Queso de Cicero su banchet-ti quasi improvvisati ai margini delle vie.Una ragazzi-na riesce a vendere il suo intero malloppo di chinca-glieria a due coppie di turisti. L’udito è catturato dal suono di strumenti a corda e da un meraviglioso xilo-fono tutto di legno intagliato, talmente grande che viene suonato da sei persone contemporaneamente, insomma, la “Gallo” scivola nuovamente, liscia, nella gola assetata, che festa!!! La piazza centrale dove sorge la chiesa madre è ricoperta da un tappeto di aghi di pino, petali di fiori e segatura colorata. Un vio-

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I ruggiti di Tikal

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lento scoppio di petardo annuncia il passaggio della processione partita da chissà dove. La statua della Madonna viene sommersa di offerte di fiori e frutta, mentre un Cristo gigantesco avanza tra la folla su un baldacchino di notevoli dimensioni, portato a spalla da giovani detti cucuruchos. Da una nebbia d’incen-so appaiono centinaia di penitenti celati sotto lunghe vesti color porpora e fedeli incappucciati, un’esplo-sione di colore che mi lascia senza parole, esterre-fatto. Vamos a ir Bellisario, el viaje acaba de comen-zar, que la felicidad !!! Il mercato di Sololà è una marea di bancarelle e una vasta varietà di colori. Il mercato è animato e vivo perché frequentato non solo da turisti, ma anche dalla gente del luogo che è lì per vendere e per acquistare la merce. Parte del mercato al coperto è destinata ai generi alimentari, un’altra attrez-zata per consentire a chi lo desi-derava di cucinare e di mangiare e qui mi tuffo in mezzo alla gente, ai mille odori e invento tattiche per scambiare parole con qualcu-no, un modo per continuare il so-gno, la festa. Quanto mi piacciono gli bus, sicuramente importati dagli Stati Uniti, ridipinti di tutti i colori. Stiamo rientrando a Pana-jachel dopo un pomeriggio tra-scorso alle terme di Fuentes Ge-orginas, circondate da un alto muro di vegetazione tropicale, felci e fiori, quando Mario, il mio corrispondente, fi-gura storica di Avventure nel mondo, che oggi è sta-to con noi, ci fa una sorpresa portandoci al piccolo paesino di San Andrés Xecul per ammirare la chiesa dalla cupola a strisce colorate e dalla facciata ovest di colore giallo che riporta circa 200 sculture dipinte di figure umane, angeli, scimmie, frutta, mais, uccel-li Quetzel e 2 giaguari che rappresentano gli eroi gemelli della scrittura Maya, il Popul Vuh. La chiesa oggi è gremita di gente per via di un funerale ac-compagnato da una musica molto struggente; riu-sciamo ugualmente a vedere l’interno adornato di candele, immagini cruente di Cristo e lampadari re-alizzati con pietre di vetro, monete e rosari. Aquí estoy en el Lago de Atitlán. I tre vulcani che si affac-ciano sull’acqua: Atitlan, Toliman e San Pedro, sono senza dubbio un miracolo fatto dalle fate che qui si sono trasformate in orchidee e i villaggi un campio-nario di costumi che la gente locale varia da villaggio a villaggio, come divintà assire. S. Marcos, ora è un paesino turistico, un angolo dove ancora è rimasta qualche anima freak. Per le vie più remote sento del-la musica e penso sia una festa, in realtà si tratta di gente che canta e suona, accompagnati da chitarre e flauti, dentro una graziosa dimora tutta colorata, tutta “figlia dei fiori”. Con un sole raggiante sbarco a Santiago dove le donne di etnia Tzutuhil indossano gli huipiles tradizionali, ricamati con stormi d’uccelli e un copricapo formato da un nastro avvolto diverse volte sulla testa come una corona. Le statue della chiesa sono vestite di abiti fatti in casa dalle donne del villaggio. A Gesù hanno messo dei mutandoni viola e una parrucca di capelli corvini. Chiunque ar-rivi a Santiago non può non imbattersi in una figura

alquanto enigmatica, a prima vista, venerato come una divinità. Insieme alla mia tribù prendiamo dei tuk tuk e in pochi minuti ci conducono alla casa di Maximon, mezzo idolo pagano, mezzo santo cristia-no, simbolo della religiosità di questo popolo, in bili-co tra Cattolicesimo e credenze animiste. Si raccon-ta che nel XVI secolo, quando arrivarono in Guatemala gli Spagnoli, vivesse qui un autorevole medico, quasi adorato dalle popolazioni. Egli cercò di aiutare il suo popolo a resistere ai Conquistadores, ma era ormai troppo vecchio e conscio della sua vi-cina morte. Radunò, allora, tutti gli indigeni e consi-gliò loro di costruire una divinità, adorarla e offrirle doni, affinché proteggesse i villaggi dagli stranieri, quando gli uomini erano lontani a lavorare. Fu così

che nacque l’effige di Maximon. La leggenda continua e racconta che, nonostante il culto all’idolo, i villaggi non divennero più sicuri e, anzi, si verificarono stupri sulle donne. Gli uomini indagarono e scoprirono che era proprio il dio che la notte, quan-do gli uomini erano lontani, si intro-duceva nelle case e stuprava le donne sole. Decisero allora di recar-si al tempio e di punirlo, tagliandogli gambe e le mani, così da renderlo inoffensivo. Maximon è una statua lignea, costruita con il legno dell’al-bero del fuoco “il palo de pito i cui fiori fumati assieme al tabacco pro-

vocano allucinazioni”, ed è sempre elegante, cravat-ta e doppiopetto, abiti sgargianti e due cappelli in testa, talvolta porta degli occhiali da sole. A distanza di secoli il culto di Maximon, è ancora molto diffuso. In particolare, durante la Settimana Santa la statua di Maximon viene portata in piazza e posta accanto alla chiesa, così che possa rendere atto delle pre-ghiere esaudite e non esaudite. I pellegrini sfilano chiedendo favori e miracoli in cambio di offerte di candele, birra, sigarette e rum. Dopodichè il Venerdì Santo la statua viene giudicata e bruciata se non ha esaudito sufficienti richieste. Durante la notte una delle confraternite religiose scolpisce un nuovo Ma-ximon, che sarà ospitato da una nuova famiglia. Pur-troppo Santiago, durante la guerra civile, fu teatro di terribili violazioni dei diritti umani. I popoli indigeni infatti vennero considerati universalmente sosteni-tori dei guerriglieri che stavano combattendo contro il governo, e furono oggetto di rappresaglie brutali. Santiago e’ anche il luogo dove nel 1990 furono uc-cisi 13 civili durante una manifestazione contro i soprusi dei militari, uno degli ultimi eccidi dell’eser-cito. La pressione internazionale costrinse il governo guatemalteco a chiudere la base e a dichiarare Santiago”zona libera-militare”. Da qui partì un movi-mento che arrivò progressivamente a ridurre la pre-senza militare in tutto il paese. L’idolo ligneo Maxi-mon, placido, osserva questa umanità in trasformazione. Il fumo del suo sigaro sale al cielo mescolandosi alle esalazioni dei vulcani che minac-ciano e proteggono questa terra. A San Antonio Palo-pò, non lontano da Panajachel, il costume delle don-ne indigene è veramente bello: le gonne sono pesanti stoffe tessute a mano con incredibili motivi a

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righe verticali, coloratissimi! Sopra portano camicet-te simili a ponchos, senza maniche, drappeggiate intorno al busto, ricamate manualmente con colora-tissimi motivi floreali. Le diverse vesti e acconciature comunicano le diverse provenienze, ma anche lo stato civile “nubili, sposate, vedove”. Apparizione estemporanea, si presenta davanti a me uno di quel-li che chiedono di essere fotografati. Mai visto un tipo più snodato, ha incominciato ad annodarsi su se stesso compiendo evoluzioni e contorcendosi ad una velocità impressionante. Poi così come è arrivato, se ne è andato!!! Una gallo por favor, che scivola veloce nel-lo stomaco accompagnata dalle bana-ne fritte, che qui chiamano platanos, secche, croccanti e salate. Mañana temprana de una corta caminata me llevará a la cima del volcán Pacaya. Oggi la strada è la protagonista princi-pale della giornata, disseminata di campesinos con il loro machete che portano legna e mais, che vendono frutta con i loro figli e di piccoli villaggi e sparute case tutte carine e dipinte di giallino e verdino. Mi attende alla bigliette-ria del vulcano l’anziana guida Eusebio, un uomo ol-tre 80 anni, di fibra forte e dal carattere gioviale. Uomini a cavallo seguono la mia squadra pronti per far salire chi non dovesse riuscire a farcela a piedi. Durante la salita Eusebio ci spiega che il vulcano Pa-caya ha eruttato l’ultima volta 5 anni fa, causando molti danni ai paesi sottostanti. Con il sorriso sulle labbra mi spiega però che ha fede in Dio. La pro-fonda fede religiosa guatemalteca è uno dei tratti distintivi di questa popolazione. Persino molti taxi riportano sul parabrezza stikers con frasi inneg-gianti Dio. I segni dell’eruzione sono molto eviden-ti tutto intorno a noi: la lava ha ricoperto ogni cosa, gli alberi sono spogli e secchi, solo qualche mac-chia di verde qua e là spicca tra il grigio antracite del terreno. Dopo quasi 2 ore di percorso raggiun-giamo il punto di arrivo, dove falde di vapore ac-queo caldissimo escono dalle insenature del terre-no. Da qui abbiamo la vista di altri 3 vulcani: Agua, Acatenango e il Fuego, che meraviglia!!! Alla Re-serva Natural Atitlan di Panajachel con la mia tribù al completo viviamo l’esperienza del Canopy tours. Ci sono 8 pedane sopraelevate in mezzo agli albe-ri che si percorrono sospesi, scivolando attraverso corde in pendenza. I primi tratti sono adrenalinici, a tutta velocità, imbracati e sospesi a diversissimi metri dal suolo, con l’obbligo di frenare con dei guanti speciali, simili a quelli da giardinaggio, con i quali si spinge in basso sulla corda per frenare la discesa e fermarsi in prossimità della pedana suc-cessiva. Grande. Respiro felicità. Se non ora, quan-do? Vamos Bellisario per Chichicastenango. Ecco Quiche, come è confidenzialmente chiamata dai locali. Circondata da valli e montagne, detiene il mercato più famoso del Guatemala. Arrivo nel po-meriggio e non voglio perdermene un aspetto. Qui-che ha due distinte comunità religiose e politiche: una la Chiesa cattolica e la Repubblica del Guate-mala che nomina i preti, le autorità religiose e i funzionari comunali. Dall’altro, la popolazione indi-gena che elegge le proprie autorità religiose e po-

litiche per occuparsi delle faccende locali, con un consiglio e sindaco autonomi. Passeggio fino alla piazza centrale dove è la chiesa principale di San Thomas. Bancarelle vendono cibo e souvenir. Tutto intorno, i maya Kaqchiquel, con i loro caratteristici costumi. Visito la chiesa e poi giro per assistere allo spettacolo della gente. Sotto i portici del Municipio ci sono bambini che dormono all’aperto mentre sui muri sono affrescati episodi tratti dal Popul Vuh, la Bibbia maya, che fu scritta dopo la conquista spa-

gnola. Sul lato opposto, sui gradini della chiesa la Capilla del Calvario, assisto all’arrivo di alcuni chuchka-jaues capi preghiera indigeni che agi-tano gli incensieri recitando parole magiche in onore dell’antico calenda-rio maya e dei loro antenati. Qui esiste una sorta di sincretismo religioso che fonda la dottrina dei conquistadores con le credenze maya. Su alcuni tavo-li si preparano le classiche tortillas di

farina grezza e bianca. Ritorno alla chiesa di San Thomas dove si sta per celebrare una messa e sono giunti dei sacerdoti maya con tanto di bastone stel-lato, mantello nero e copricapo colorato; si inginoc-chiano all’entrata e recitano dei salmi. Questo è un posto vero e la presenza dei turisti non ha ancora snaturato la sua essenza. Alle 20,00 rivedo la mia squadra e cosi andiamo a cenare “un l’asado del lo-mito e una gallo por favor”. Buenas noches Quiche, mañana por la mañana. Oggi è giovedi, giorno di

mercato; al mattino presto sono già in strada, nelle vie c’è già un lieve fermento. Mentre il sole sta anco-ra sulla linea dell’orizzonte, i primi respiri della chie-sa di San Thomas, bianca come una colomba, danno un senso di profonda religiosità con le teche dei san-ti, gli aghi di pino in terra, le candele che ognuno porta per pregare, gli specchi al petto dei santi che fanno sì di riflettere l’anima di chi prega in cielo, la benedizione di bibite gassate perché ruttando si la-sciano uscire i mali, le uova che una volta benedette si spargono sul corpo per curare i mali e purificare, il suono delle campane e tantissimi fiori dal gambo lungo, come se volessero essere in prima fila crean-do un’atmosfera segreta. Uomini e donne si inginoc-chiano sul pavimento di pietra della chiesa e vi ac-cendono candele secondo un codice sciamanico: il cero nero tiene lontani i nemici, rosso favorisce l’a-more, rosa protegge i bambini, blu migliora gli affari, giallo e bianco salvaguardano chi li accende, verde propizia lunga vita. Insomma qui tutto è colore, le stoffe e di conseguenza i vestiti, le maschere e gli autobus e sono colorati persino i cimiteri. Nella visita a Quiche non si può mancare una visita al cemente-rio. Sì, proprio al cimitero. Per la cultura italiana an-dare a fare un’escursione al cimitero è incomprensi-bile perchè in Italia i cimiteri sono luoghi spesso associati a dolore e tristezza, in cui si ha anche pau-ra ad andare in tarda serata o da soli. Per gli indigeni del Guatemala c’è da aver paura dei vivi e non dei morti! E quindi tombe coloratissime, famiglie che sostano sulle tombe, sciamani. E per la festa dei

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morti si fermano sulle tombe dei propri cari a man-giare, bere, ballare, per festeggiare con l’anima del defunto che in quella occasione “secondo loro” ritor-na in vita! Il tempo stringe e questa sera bisogna pernottare a Coban, un trasferimento abbastanza lungo. Non si può lasciare Quiche senza aver visitato Pascual Abaj. Si trova al sud della città, sull’alto della collina, a fianco del cimitero. Le persone si riunisco-no lì per fare riti maya. Arrivo alla zona delle fabbri-che di maschere e seguo una strada alberata che sale sulla collina. La passeggiata è molto bella, rico-perta di pini sempre verdi. Arrivando sulla cima la prima cosa che si vede è una statua nera, quasi sen-za forma, ingrigita dal fumo: è Pascual Abaj, il Patro-no dei morti. Per i Maya significa “pietra del sacrifi-cio”. Al mio arrivo trovo, una giovane donna che brucia incenso e offre all’idolo di pietra, circondato da croci anch’esse di pietra, fiori e liquore. E’ un san-tuario in onore a Huyup Tak’ah, dio maya della terra e il cui nome significa “painura montagnosa”. Si rac-conta che questa statua di pietra, indescrivibile, ha cento e forse anche mille anni. Ha sofferto alcuni danni da parte di stranieri ma tutto il popolo di Qui-che continua a venerarla. Le streghe e gli stregoni del luogo vi si recano regolarmente per offrire alla divinità cibo, sigarette e fiori. Di solito vanno accom-pagnati da famiglie che hanno bisogno di favori da parte della divinità. E’ affascinante essere presenti a una di queste cerimonie, ma sempre a una certa di-stanza e rispettando il silenzio. Sono perso e vago senza meta precisa, immerso in una umanità che mi

inebria e mi emoziona. Rieccomi nuovamente nel cuore del mercato tra pesce secco, frutta, verdura, polli imprigionati in gabbie, capre e molto altro. Ovunque si levano i fumi dei fuochi dove si prepara da mangiare. Un brulichio di cose e umanità che de-sta stupore e divertimento. El viaje continúa. Altra apparizione estemporanea qui a Coban, avvolto in una plastica colorata cammino sotto la pioggia e la gente del luogo invece passeggia indifferente e non-curante dell’acqua. Rivolto ad un ragazzo: “Ma qui piove sempre ?” e lui di rimando “Si, ma la juvia es vida, no?” “Aqui mucho calor. Juvia e refresca todo.” Queste sono cose che fanno pensare. Domani matti-na mi aspetta un angolo di paradiso. Al minuto villag-gio che porta il nome di Lanquin dove c’è da vivere e basta, si respirano le delizie della vita che sfuggono a noi occidentali. Poche ore da Coban e mille anni di distanza, Lanquin è un quadretto naif, un autentico villaggio guatamalteco e richiama i paesaggi della pittrice Croata Slava Blazekovic. Qui, chi è abituato ad essere sempre connesso, il cellulare all’improvviso smette di suonare, la-sciando “l’avatar” in balia della rete. Con un Pick-up 4x4 raggiungiamo in breve tempo l’ingresso del Parco di Se-muc Champey, nel mezzo delle monta-gne dell’Alta Verapaz, che in lingua maya significa “acqua sacra dove il fiu-me scorre sotto la terra”, un luogo mi-stico dove tutto si riduce al contatto con la natura, e cosi si torna al proprio io, al magico io della nascita. Il Rio Cahabòn scorre sotto una laguna di acqua verde e i minerali hanno colo-rato delle pozze giganti d’acqua rendendo il luogo un dipinto colorato, magico e sognante, quanto una tela del grande Marc Chagall. Salgo in cima alla montagna, al Mirador, tra le palme e gli alberi dell’amore, i “mata palo” per vedere questa mera-vigliosa opera della natura. L’acqua ha modellato ogni singola roccia e quello che è rimasto è uno spettacolo per i miei occhi e l’anima. Il viaggio è un crescente sinfonico e io mi lascio andare in un anarchico deragliamento dei sensi. Ci sono posti così belli che neanche ti aspetti. Non sto sognan-do!!! Altro angolo di paradiso si chiama Finca Tatin e si trova nella foresta tropicale attraversata dal Rio Dulce, lungo 48 chilometri e largo in alcuni punti persino due. Si scorge solo un piccolo molo di at-tracco e una passerella di legno, che la vegetazione sembra ingoiare. Hola Carlos y Gaby, estoy muy fe-liz de estar aquí con ustedes. Un salone d’ingresso con divani ed amache, bungalow molto spartani, colibrì che si avvicinano e rimangono sospesi a mezz’aria, ragni che girano indisturbati senza arre-care fastidio e pappagalli che hanno costruito il loro nido nel salone d’ingresso, insomma un bel angolo di mondo immerso nella natura. Carlos amigo su esposa Gaby baila salsa divina y me quedo encan-tado con el cuerpo que se mueve con gracia. Quan-to adoro l’allegria nelle persone. Con Carlos si ac-cende un’animata conversazione e parliamo del genocidio, perché di questo si tratta, perpetrato anni fa ad opera dei militari ma anche dalla guerri-glia, sulla inerme popolazione Guatemalteca di ori-gine Maya. In quasi quaranta anni di dittatura mili-

tare sono stati trucidati e fatti sparire nel nulla intere generazioni. Sapere della cancellazione dalla faccia della terra di 400 paesi della provincia guatemalte-ca; sapere che 200.000 persone sono state assassi-nate; sapere che 40.000 sono state fatte scomparire che 120.000 si sono rifugiate in Messico; sapere che 1.500.000 si sono rifugiate nelle montagne; sapere che prima di essere massacrati i contadini sono sta-ti torturati e stuprati; sapere che i soldati si divertiva-no ad uccidere i bambini; a sparare sulla popolazio-ne; di capifamiglia a cui venne tagliata la testa e impalata, come monito alle comunità; di fenditure naturali del terreno nella regione del Quiché riempite di cadaveri e di persone scappate in Messico. In-somma, una guerra sanguinosa, terminata nel 1996 con un accordo di pace tra la guerriglia e il governo del presidente Álvaro Arzú, negoziata dalle Nazioni Unite. La nostra conversazione continua e non si può non parlare della pacifista Rigoberta Menchù Tum: Nella sua vicenda personale racchiude la condizione

di tutto un popolo, quello degli indios del Guatemala: oppresso, torturato, massacrato, come suo padre, sua madre, suo fratello. Un popolo che ha visto prima il colonizzatore spa-gnolo, poi il nuovo sfruttatore impe-rialista. I grandi occhi di questa pic-cola donna, Rigoberta Menchú Tum, raccontano tutto questo. Una vicen-da personale nella quale è maturata la volontà di servire il suo popolo per

riscattarlo da decenni di oppressione, attraverso un impegno fermo ma sempre illuminato dalla scelta della nonviolenza per il quale, nel 1992, le è stato conferito il premio Nobel per la pace. È portatrice di una cultura millenaria rimasta nel silenzio e nell’iso-lamento per troppo tempo. Ora, pur nel rispetto dei suoi antenati, si propone come innovatrice facendosi portavoce del popolo indios presso il Consiglio gene-rale delle Nazioni Unite e come ambasciatrice di pace e dei diritti umani nel mondo su mandato dell’Unesco. Ha istituito, inoltre, un fondo che prende il nome di suo padre col quale finanzia la sua attività in favore della popolazione indigena guatemalteca. La sua storia inizia nel 1952 nel piccolo villaggio dei Quiché, ultimi eredi della cultura indios, situato nel nord ovest dell’altopiano guatemalteco. Lì Rigoberta cresce in grande povertà ma ricca di valori traman-dati oralmente di generazione in generazione: l’amo-re per la terra, lo stretto legame con la natura, gli animali, il sole. C’è una saggezza armonica nel tutto che viene assorbita già da quando il bambino è nel grembo materno. Nella sua autobiografia,“Mi chia-mo Rigoberta Menchú”, scritta dall’antropologa Eli-sabeth Burgos descrive come le donne, passeggian-do per la foresta, parlino al figlio che sta per nascere, di tutto ciò che è la natura: “Di questa natura che ci circonda non dovrai mai abusare e dovrai vivere la tua vita allo stesso modo che la vivo io”. Una vita dura, improntata sul lavoro della terra, sulla semina del mais, sacro sostentamento dell’uomo. “Il mais è al centro di tutto - racconta - è la nostra cultura”. Una cultura che rispetta l’unico Dio, il sole, che è il cuore del cielo. Padroni delle loro terre, gli indios se le sono viste portare via, espropriare dai potenti di

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RACCONTI DI VIAGGIO | Guatemala Belize

turno. Rigoberta, nella vita di stenti del suo popolo incarnata nella vita dei suoi genitori, che erano gli “eletti” della sua comunità, e vivendo direttamente su di sé tremende ingiustizie dettate dal razzismo nei confronti degli indigeni, sente crescere in lei una co-scienza, sente l’umiliazione vissuta dal suo popolo considerato alla stregua di animali. “Io sono cristia-no, e il dovere di un cristiano è di combattere contro tutte le ingiustizie che vengono commesse contro il nostro popolo… C’è a chi tocca dare il proprio san-gue e c’è a chi tocca dare le proprie forze; perciò, finché possiamo, diamo la forza”. Queste parole di-ceva suo padre, Vicente Menchú, diventato leader degli indios, prima di morire nel tragico rogo dell’Am-basciata di Spagna a città del Guatemala, durante una pacifica occupazione per richiamare l’attenzione internazionale sulle arbitrarie espropriazioni delle terre agli indios e sull’oppressione governativa. Era il 31 Gennaio 1980. Prendendo coscienza della propria cultura e appropriandosi della lingua spagnola, la lingua dei conquistadores, Rigoberta diviene, come suo padre, simbolo di liberazione e di speranza per il suo popolo. “Questa è la mia causa - dice nel libro - ed è una causa che non è nata da qualcosa di buono, ma da qualcosa di cattivo, da qualcosa di amaro. In particolare la mia causa ha radici nella miseria in cui vive il mio popolo, nella denutrizione che ho visto e che come indigena ho sofferto, nello sfruttamento e nella discriminazione che ho provato nella mia pro-pria carne”. “Il lavoro dei cristiani rivoluzionari - con-tinua - consiste soprattutto nel condannare e nel denunciare le ingiustizie che vengono commesse contro il popolo”. Rigoberta Menchù Tum recita que-ste parole: Io so che nessuno potrà togliermi la mia fede cristiana, né il regime, né la paura, né le armi, ed è anche questo che devo insegnare alla gente. Che uniti possiamo costruire la Chiesa popolare, una vera Chiesa, che non sia solo gerarchia o un edificio, ma che porti un reale cambiamento in noi come per-sone”. Il Rio Dulce, dal colore smeraldo opaco, scor-re denso e lento tra una vegetazione fittissima e ca-panne sul margine dell’acqua. Una fila di cormorani appoggiati sul molo e musiche africane in lontanan-za danno il benvenuto a Livingston, raggiungibile solamente per via acquatica. Attracchiamo. Si respi-ra un’aria tutta particolare. Il colore, la vita, la musica e il ritmo della gente non hanno somiglianza con nient’altro in Guatemala. Qui vive infatti una popola-zione nera con discendenza Giamaicana, comunità Garifuna, e il reggae è molto diffuso. La popolazione garifuna ha origine nell’isola caraibica di St.Vincent, dove nel XVII secolo gli schiavi africani naufragati si mescolarono ai nativi. Quando i britannici, dopo aspre lotte, riuscirono a sottomettere l’isola nel 1776, decisero di deportare i garifuna. Molti moriro-

no di fame sull’isola di Roatan al largo dell’Honduras, mentre gran parte di loro si stabilì nella zona costiera di Trujillo. Da li si sparsero lungo tutta la costa. In Guatemala, la comunità maggiore è proprio qui, a Livingston. Con Juan, un giovane rasta, è un incon-tro di sguardi e sorrisi, beviamo una birra e ci diver-tiamo a cantare “A lalala long” di Bob Marley. Poi mi porta nella sua capanna di paglia e fango, una sorta di piccolo laboratorio musicale dove costruisce e vende strumenti musicali, mi parla della sua gente veramente povera ma anche allegra e disponibile. Guardo i bambini con le uniformi felici a scuola, poi scorrazzare per la strada polverosa, ciucciano succhi di frutta da sacchettini di plastica e le bambine pet-tinate con i riccioli a bananina sulle teste si lisciano le gonne di pizzo e raso rosa e celeste. Tre percus-sionisti neri con capigliatura rasta si dondolano flemmatici con le loro tipiche movenze, passano per la via principale, lasciano una scia di ritmo frenetico e io porto con me un dono semplice che le mani di Juan hanno lavorato. Prima di rientrare alla Finca Tatin facciamo sosta ad Aqua Caliente. E’ un luogo singolare. Sulla riva hanno costruito una specie di piccola piscina con delle pietre e aperta al fiume, cosi da intrappolare parzialmente l’acqua calda che sgorga da sottoterra. Mi ci immergo mentre tratten-go una smorfia di piacere per l’alta temperatura di queste acque. Il giaciglio questa notte è un lettone enorme sotto una zanzariera robusta, le capanne non hanno finestre e, sotto il tetto, una famigliola di pipistrelli. Il viaggio prosegue tra valli odorose di ce-dro e alberi enormi, palme, bananeti a perdita d’oc-chio. Sto andando verso il Peten, la giungla del Gua-temala. Il panorama diventa di colpo più vergine. Distese notevoli di una curiosa veste vegetale che si erge verso il cielo. Giungo a Tikal nelle prime ore del pomeriggio, il sito Maya più visitato del Guatemala. Tra le piramidi del Mundo Perdido, volti che sembra-no uscire dalla pietra e alberi giganteschi mi sento smarrito, perso in un mondo magico, indecifrabile. Un sentiero battuto si snoda per qualche kilometro all’interno di un mondo verde e conduce ai primi al-tari maya e alle prime stele. Ecco Plaza Mayor, due altissime piramidi, il tempio del Gran Giaguaro, co-struito in onore del re Doppio Pettine, e quello delle Maschere si fronteggiano maestosi. Un vecchio alta-re scolpito mostra due personaggi, uno Maya, l’altro stranamente di sembianze asiatiche. Dalla cima del tempio IV, il più alto del sito archeologico, la foresta del Peten è fantastica, misteriosa, oscura. Il ruggito apocalittico della scimmia urlatrice, simile a quello di un giaguaro, rompe il silenzio nell’attimo in cui la luna, piena, solenne e placida si alza come se en-trasse nel tempio di soppiatto e io, come stregato da quel verso, provo un brivido feroce lungo la schiena,

un contorno di magia che porta all’estasi. A dire il vero, a tanta solenne bellezza provo anche un pro-fondo dolore scaturito da tutti i massacri e maltratta-menti subiti da migliaia di schiavi da parte degli spagnoli, per non parlare dei sacrifici umani eserci-tati da folli sacerdoti in nome di un Dio Maya. Che i ruggiti, le urla di Tikal non siano altro che i tanti uo-mini indifesi che subirono atrocità e ora stanno a vegliare sui templi? Sul sentiero dell’uscita uno splendido esemplare di ceiba, albero simbolo del Guatemala, chiude la scena del mio viaggio a Tikal insieme alle scimmie urlatrici. Sono davvero soddi-sfatto. Estoy casi en la frontera con Belice tararean-do la canción de Bob Marley “A lalala long, qué boni-to. Questa piccola striscia di terra abitata da un vero crogiolo di etnie, di colori della pelle e di lingue, mi mette colpi di passione nel sangue. Si possono in-contrare i creoli dalla pelle ambrata, discendenti dei pirati britannici che popolarono queste terre e degli schiavi africani che furono importati qui, che parlano il kriol, i maya che parlano spagnolo e i garinagu che discendono anch’essi dagli schiavi africani, caratte-rizzati da una pelle molto più scura e simile a quella africana, che parlano un loro idioma incomprensibi-le, misto di parole inglesi, spagnole ed africane. “Un café con leche, por favor, para mí y para mi conduc-tor, gracias” A Caye Caulker, un’isola di sabbia tra palme e mangrovie, casette di legno coloratissime e strade di sabbia bianca si circola a piedi o su auto-mobiline elettriche che sembrano giocattoli. Non più donne dagli abiti colorati ma in stile quasi caraibico. Con Marcos, un giovane pescatore, stringiamo subi-to un’amicizia sincera legata anche alla musica reg-gae. Mi racconta che qui, a parte gli uragani, che di tanto in tanto rovinano le coste, tutto scorre nell’ar-monia più grande. Mi concedo con Marcos alcune uscite in barca, per pescare e girare tra rigogliose mangrovie, coralli, squali nutrice e tartarughe mari-ne. Un vecchio Rasta senza denti ride e sbuffa men-tre tenta di vendermi una statuetta in legno, resta un tempo lunghissimo a guardarmi mentre prendiamo una Belikin, la birra più diffusa in Belize. Con l’alba dorata mi incammino verso il molo della Belize Ex-press. Lo sguardo si perde su una piccola lapide, forse di un bambino, dove dorme un gatto tigrato, battuta dal vento e dal mare la cui acqua indolente e torbida batte appena la riva. Rigoberta Menchù Tum recita cosi i suoi sogni: “Io ho molti sogni e molti sogni lascio nei diversi posti dove sono stata. I sogni che devo conservare li conservo dentro ad un picco-lo baule. Non si può aprire, perché altrimenti i sogni scappano. Non si possono dire i sogni”. Fine delle trasmissioni.