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1 Istituzioni di storia della filosofia moderna Anno Accademico: 2012-2013 Prof. Giuliano Campioni Materiali didattici per il corso Fisiologia delle passioni da Descartes ai moralisti francesi.

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Istituzioni di storia della filosofia moderna

Anno Accademico: 2012-2013

Prof. Giuliano Campioni

Materiali didattici per il corso

Fisiologia delle passioni da Descartes ai moralisti francesi.

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PROGRAMMA A) René Descartes, "Le Passioni dell'anima" In "Opere 1637-1649", a cura di Giulia Belgioioso, Testo francese e latino a fronte, Bompiani Milano 2009 B) A SCELTA David Hume, "Dissertazione sulle passioni", traduzione di E. Mistretta, in In "Opere filosofiche" vol. II. a cura di E. Lecaldano, trad. intr. e note di M. Dal Pra, trad. di E. Mistretta, Laterza, Roma, Napoli Francois de La Rochefoucauld, "Massime" Milano, Editore: Rizzoli Seguendo particolari interessi di studio, potranno essere individuati e concordati – all'interno dei temi affrontati nel corso – testi sostitutivi, in lingua originale o in traduzione (sez. B) In particolare: Blaise Pascal, Frammenti, Rizzoli [con particolare riferimento al tema delle passioni] Michel de Montaigne, Saggi: libro I: 1, 2, 4, 12, 18, 20, 23, 28, 30, 31 libro II: 1, 5, 6, 11, 16, 27, 29 libro III: 2, 9, 10, 13. Spinoza, Etica parti III, IV, V. Avvertenza:

La conoscenza manualistica del periodo e degli autori è un presupposto. Se si possiede una buona preparazione liceale non occorre studiare un manuale di storia della filosofia moderna altrimenti si tratta di procurarsi le conoscenze di base per poter affrontare i temi del corso.

.Avvertenza per i non frequentanti:

i non frequentanti possono utilmente consultare: Introduzione a Descartes di Giovanni Crapulli (Laterza) in particolare il cap. VII ; La morale. Le passioni dell’anima. Il pensiero politico pp. 171-219 Introduzione a Hume di Antonio Santucci (Laterza) in particolare le pagine dedicate alle passioni cap. IV pp. 72-98 Remo Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli Sez. IIa della parte seconda: «Cartesio o del buon uso delle passioni»

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MATERIALI

[per B si intende l’edizione Bompiani a cura di G. Belgioioso di Tutte le lettere 1619-1650, delle Opere 1637-1649; Opere postume 1650-2009].

Il corso intende prendere in esame la nuova prospettiva nella quale il confronto tra passioni e ragione viene posto in età moderna a partire da Descartes. "Le Passioni dell’Anima", che vedono la luce nel 1649,

Quando, nel 1637, pubblica anonimamente Discorso e Saggi a Leida, Descartes ha quarantuno anni e dalla fine del 1628, o al più dall’inizio del 1629, dimora ormai stabilmente nelle Provincie Unite. Nel 1649, ancora una volta nelle Provincie Unite, ad Amsterdam, vengono stampate le Passioni dell’Anima con due frontespizi, due editori (Lodewijk Elzevier e Henry Le Gras) e due luoghi diversi (Amsterdam e Parigi). Ma nel 1649 Descartes si è trasferito in Svezia. Nei dodici anni che vanno dal 1637 al 1649, il filosofo dà alle stampe sette opere; di queste, con il filosofo ancora in vita, le due scritte in francese (Discorso sul metodo e Passioni) saranno tradotte in latino; tutte le altre, scritte in latino, saranno tradotte in francese. La stampa dei manoscritti inediti non tarderà: avrà inizio pochi mesi dopo la morte del filosofo, nel 1650, con il Compendio di Musica. Nel 1701, ossia poco più che cinquant’anni dopo, la maggior parte di questi inediti, comprese le lettere, è già pubblicata.

Paul Valery Frammenti di un Descartes (1930)

(da Adrien Baillet, Vita di Monsieur Descartes, a cura di Lelia Pezzullo, Adelphi edizioni 1996)

Quindici anni or sono esisteva ancora, in una strada vicino alla place Royale, una caserma

della gendarmeria dove i riservisti si recavano a far aggiornare e timbrare i loro documenti militari.

L'interessato entrava e si guardava intorno per orientarsi in un cortile nobile e familiare insieme. Gli uffici che cercava si aprivano alla sua sinistra sotto un breve porticato di archi ad ansa, residuo di un chiostro abbastanza antico. Tali resti non privi di decaduta maestà ben si addicevano all'esistenza sommessa, parte ufficiale parte intima, che era venuta a insediarvisi con il Primo Impero. Vi era un piantone, la mente perduta nel vuoto; qualche gabbia di canarini appesa alle colonne; chepì e vasi di fiori alle finestre; qua e là, stesi ad asciugare su funicelle, dei pantaloni bianchi. Dal più al meno, erano all'incirca centomila all' anno i passibili di mobilitazione che dovevano necessariamente attraversare quello spazio. Dubito che qualcuno di loro si sia mai reso conto di essere chiamato, in realtà, a compiere un pellegrinaggio. Le stesse autorità che lo prescrivevano, ancorché elevate in grado, erano del tutto all'oscuro di quale ne fosse effettivamente l'oggetto. Pensavano di muovere le matricole solo ai propri fini, mentre,

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senza saperlo, ci costringevano a visitare uno dei monumenti più ragguardevoli della storia del pensiero.

La caserma aveva preso il posto di un convento, e i gendarmi si erano sostituiti ai frati minimi. Qui aveva vissuto ed era morto padre Mersenne, uomo di grande utilità e rilievo presso la società colta del primo Seicento: religioso aperto e pieno di curiosità, che proponeva problemi, e talvolta enigmi, a un'Europa intellettuale molto diversa da quella di oggi; motore di fermenti scientifici e di relazioni fra dotti di religione diversa; amico d'infanzia, amico pertinace e debordante di Descartes, propagatore delle sue dottrine, nonché una delle più amabili tra quelle figure di secondo piano il cui ruolo è forse essenziale nell'evoluzione dei grandi uomini e nel prodursi delle grandi cose. Nuovo e a mio avviso non inutile sarebbe uno studio volto alla ricerca sistematica, attraverso la storia, di questi personaggi ausiliari e ufficiosi che sempre si incontrano, confidenti o intermediari, accanto al genio e tra le cause minute e vive dei grandi eventi.

Quando Descartes veniva a Parigi, gli si rendeva visita di mattina presso i minimi della place Royale, nella residenza di questo frate tanto prezioso. Qui, l’11 luglio 1644, il filosofo riceve Monsieur Mélian. Nel giugno del ’47, arrivando dall'Aia, alloggia a casa dell'abate Picot, in rue Geoffroy-Lasnier, e vi stende la prefazione dei Principi. Parte poi per la Bretagna, dove lo chiamano certi affari, e al suo ritorno a Parigi, dopo un giro attraverso il Poitou e la Turenna, è accolto da una buona nuova: il re, su proposta del cardinale ministro, gli ha accordato una pensione di tremila lire di rendita. Notizie del genere sono diventate una rarità.

È in questo periodo che « Monsieur Pascal, trovandosi a Parigi, fu colto dal desiderio di conoscerlo, ed ebbe la soddisfazione di potersi intrattenere con lui presso i minimi, dove gli era stato detto che avrebbe avuto modo di incontrarlo. Descartes si compiacque nel sentirlo descrivere gli esperimenti sul vuoto che aveva compiuto a Rouen e su cui stava dando alle stampe una relazione, della quale poi, tornato il filosofo in Olanda, gli fece avere copia. Descartes fu entusiasta della conversazione con Monsieur Pascal ».

La gloria di quest'ultimo mi è troppo cara perché io trascriva il seguito. Un giorno, passando da quelle parti, sono rimasto urtato nel vedere, al posto dell'antica

dimora dei minimi, un fabbricato cubico dall'intonaco nuovissimo e intatto, sormontato da fregi tondeggianti con pennacchi a fiamma in pietra tenera. Dentro ci sono di nuovo i gendarmi. Li preferivo nel vecchio convento, perché la gendarmeria è una specie di ordine religioso, anche se si mostra tutt'altro che ostile al matrimonio dei suoi membri.

Non sono molte le nazioni in Europa in cui un edificio consacrato da una così illustre

presenza, e testimone di un tale incontro, sarebbe potuto svanire nel nulla in modo altrettanto discreto. Il convento dei minimi non recava alcuna targa che facesse parlare quelle mura di ciò che avevano visto. Nessuno, a quanto pare, era al corrente delle cose che ho riferito avendole trovate in Baillet, dal momento che non si è registrata la minima protesta, né una sola voce si è levata contro l'abbattimento di quelle pietre. Tutto è scomparso tra le nubi di polvere sollevate dalle imprese di demolizione.

Da noi Descartes non ha fortuna. Di quest'uomo mirabile non esiste a Parigi una sola statua - e consento che non si rimedi alla lacuna. Gli è stata dedicata unicamente una strada piuttosto brutta, benché animata dalla rumorosa presenza del Politecnico e resa alquanto sinistra dall'ombra di Verlaine che vi è morto. Per finire, abbiamo perso di vista le sue ossa dalle parti di Saint-Germain- des-Prés, e non mi risulta che le si stia cercando per trasferirle nelle cripte del Pantheon.

Da uomo prudente qual era, però, e artista incomparabile nel trattare le materie più dure, egli si è costruito con le proprie mani una tomba, e una tomba da fare invidia. Su di essa ha posto la statua del suo intelletto, e così nitida, così vera, che a vederla lo si direbbe vivo, si giurerebbe che egli ci parla, che a separarci da lui, da un dialogo possibile, non vi sono trecento anni, ma

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solo lo spazio tra l'una e l'altra mente, per non dire tra una mente e se stessa. Il suo monumento è quel Discorso che si può definire pressoché inattaccabile dal tempo, come lo è ogni cosa scritta con estremo rigore. Un linguaggio alto e familiare insieme, in cui non mancano né l'orgoglio né la modestia, ci consente di cogliere e apprezzare a tal punto gli intenti fondamentali e gli atteggiamenti comuni a tutti gli uomini di pensiero da rendere l'opera non tanto un capolavoro di somiglianza o verosimiglianza quanto una presenza reale, che inoltre si alimenta della nostra.

Nessuna difficoltà, nessun simbolo, nessuna parvenza scolastica: nel Discorso non vi è nulla che non sia espresso nel modo più intrinsecamente semplice e umano, appena un po' più preciso del naturale. Si direbbe che l'autore, del quale ci par di udire gli accenti, si sia limitato ad affinare, a precisare, talvolta ad articolare per maggior chiarezza la voce che gli veniva, senza mediazioni, dai suoi ricordi e dalle sue speranze. E tale voce, che egli ha fatta sua, ci insegna innanzitutto i nostri stessi pensieri, silenziosamente deviando dalle aspettative che ci eravamo prefigurate.

Una parola tanto intima, scevra di effetti e di espedienti, tanto intimamente e incontestabilmente nostra, non può, benché ci appartenga in modo così esclusivo, non essere universale.

Intento di Descartes era farci capire se stesso, cioè ispirarci il suo ineluttabile monologo e indurci a pronunciare i suoi medesimi voti. Dovevamo trovare in noi quel che egli trovava in sé.

Qui è l'originalità del proposito. In campo spirituale, ogni fondatore deve aver cura di rendersi irresistibile. Alcuni ci seducono con il loro fascino; altri ci soggiogano con il rigore; Descartes ci comunica la sua vita, affinché il susseguirsi delle sensazioni e degli atti che la compongono ci introduca al suo pensiero attraverso il medesimo, naturale percorso di eventi e fantasie da lui intrapreso in gioventù, e non dissimile da tanti, non fosse che ci conduce a ben diverse prospettive.

Il racconto dei suoi inizi, dunque, gli serve a farci sentire simili a lui e ben disposti a seguirne l'itinerario: saremo così facilmente indotti a condividere le ribellioni della sua adolescenza, poiché è della nostra che egli ci parla, con le sue renitenze e i suoi giudizi superbi. Dopo aver concluso gli studi, che disprezza e stima pressoché vani (e tali in effetti possono dirsi per chi non sa far uso di quanto non abbia scoperto personalmente), si sposta qua e là per l'Europa sgombrando la mente con i viaggi, al seguito di una delle tante guerre dell'epoca cui si direbbe prenda parte a suo capriccio. Si tiene abbastanza alla larga dai libri, che negli eserciti sono d'impaccio, e si applica alla matematica, esercizio questo che richiede solo una penna e si può svolgere ovunque, a qualsiasi ora e per tutto il tempo che il cervello consente.

Che sontuosa libertà, che modo elegante e voluttuoso di essere se stessi, potersi così dissipare nei fatti senza per questo smettere di avvalorare le proprie idee!...

Ciò che avviene per caso, gli eventi superficiali nel loro repentino mutare, stimolano, illuminano quanto di più profondo e persistente vi è in un individuo realmente votato ad alti destini spirituali. Se l'anima è indipendente il piacere di esistere consiste nel vederci chiaro. Una coscienza ben strutturata trae vantaggio da ogni cosa. Da tutto si distacca, a tutto si riaccosta; non si nega nulla. Più assorbe o subisce connessioni, più si organizza in se stessa, e più si libera e svincola. Giunto a tale estremo, uno spirito perfettamente connesso sarebbe altresì uno spirito infinitamente libero, poiché la libertà, in ultima analisi, altro non è che l'uso del possibile, e l'essenza dello spirito è il desiderio di coincidere con il proprio tutto.

Descartes si isola con il tutto della sua attenzione; e del possibile che è in lui usa al punto da mettere in discussione la propria stessa esistenza nel bel mezzo del racconto della sua vita!... Il giramondo, il guerriero dilettante tutt'a un tratto rientra nella cornice della propria presenza e della propria carne, rendendo relativo l'intero sistema dei suoi riferimenti e delle nostre certezze comuni; egli si fa altro, come accade al dormiente quando un movimento brusco causato da ciò che sta sognando altera, trascende il sogno stesso, trasformandolo appunto in sogno riconosciuto come tale. Egli contrappone l'essere all'uomo.

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Ma cogliere l'essere nell'uomo e distinguere tra i due tanto nettamente, ricercare una certezza di grado superiore attraverso una sorta di procedura straordinaria, sono i primi segni di una filosofia...

Forse arrivato a questa parola dovrei fermarmi, sul ciglio del non saper più di che cosa sto

parlando. Per il momento è bene non mi esponga a difficoltà che esulano dal novero delle mie scelte, e nel cui ambito le più insidiose sono quelle che non riesco a vedere. Non mi sento a mio agio con la filosofia - fermo restando che è impossibile evitarla, e che non è dato di aprir bocca senza pagarle un qualche tributo. Come eluderla, quando essa stessa non è in grado di dirci con certezza che cos'è? Quasi non ha senso affermare, come si ripete spesso, che tutti facciamo della filosofia senza saperlo, dal momento che chi vi si dedica scientemente non è dal canto suo in grado di spiegare con precisione quello che fa.

Da parte mia, sul terreno filosofico mi sento come un barbaro che si aggiri per un'Atene dove sa di essere circondato da oggetti preziosissimi ed è consapevole del pregio di tutto ciò che vede, ma al tempo stesso è turbato, prova un senso di fastidio, un certo disagio e una vaga venerazione, unita a un timore superstizioso e trafitta di tanto in tanto dall'impulso brutale di sfasciare tutto o di dar fuoco a quella moltitudine di meraviglie misteriose di cui egli avverte di non possedere nell'animo il modello. Come si può tollerare la loro esistenza, e la fama che le onora, se di esse non si è mai neppur concepita l'idea? In tal senso paragono me stesso a quegli infelici che hanno orecchie sane e percepiscono tutti i suoni, ma non sono in grado di coglierne le concatenazioni, le mescolanze, le figure, le invenzioni, e i delicati nessi, e gli infiniti - in una parola, la musica. La musica dei filosofi mi è pressoché insensibile.

Se dunque mi azzardo a parlare di Descartes, ciò si deve probabilmente al fatto che da questi io lo distinguo...

Da RENÉ DESCARTES Tutte le lettere 1619-1650 (a cura di Giulia Belgioioso, Bompiani, Milano 2005) dall’introduzione di Giulia Belgioioso:

2.2. Un pensiero che si costruisce per ‘risposte’ Le lettere di Descartes sono il collante di un pensiero che a lungo è stato considerato diviso in compartimenti stagni: sviluppato in diversi rivoli e percorsi tra loro irriducibili, quali la matematica, la fisica, la metafisica. Le lettere costituiscono lo sfondo dal quale emergono tanto le opere a stampa, nelle loro specificità e particolarità, quanto i diversi volti del filosofo. Costituiscono, di fatto, delle ‘risposte’ a delle domande di corrispondenti che possono essere stati sollecitati dalla lettura di testi che non sempre hanno compreso appieno, o che non riescono a ricondurre a parametri di sapere tradizionale o che criticano per la loro irriducibilità ai modelli del sapere scolastico (quello coltivato nelle scuole dei Gesuiti, o nelle Università Riformate); sono risposte alle critiche dei ‘geometri’ rivali che denigrano le sue scoperte; sono risposte a richieste di chiarimenti e di consigli da parte di amici e discepoli quali Huygens, Regius, Elisabetta, ecc.; sono risposte alle infinite questioni, spesso ritenute inutili o pretestuose, che Mersenne gli sottopone da parte dei dotti con cui è in contatto. Il Minimo svolge infatti, più di ogni altro, il ruolo di mediatore e di filtro: sollecita e trasmette le obiezioni, ma gli evita anche di corrispondere con obiettori che Descartes espressamente rifiuta perché, secondo lui, interessati

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non alla verità ma alla polemica. Qualche tempo dopo la morte del Minimo, Carcavi esprimerà delle riserve avanzando persino il dubbio che proprio Mersenne sia stato l’artefice della ostilità tra Roberval e Descartes: la ‘pace’ tra i due, scrive, è stata «forse innocentemente turbata dal buon Padre Mersenne, il quale, a volte, prendeva le cose troppo crudamente e le scriveva spesso più secondo il suo estro che come in effetti erano». In quanto rispondono a delle domande, le lettere consegnano un’immagine del filosofo che varia: si staglia composta quando le domande gli vengono poste da teologi e filosofi; è più sciolta quando le interrogazioni provengono da interlocutori che si muovono al di fuori dell’accademia. Il linguaggio usato è una spia: può essere, talvolta, quello più controllato dell’esposizione delle teorie scientifiche e filosofiche, oppure, talaltra quello più immediato proprio delle espressioni dell’affetto, del rispetto, o del fastidio e del disprezzo. In generale, tiene conto dell’interlocutore e ad esso si adegua: nel caso della principessa Elisabetta e delle sue sorelle o della regina di Svezia Cristina, non dimentica le forme del rispetto ossequioso; nel caso di Beeckman le formule di saluto lasciano trapelare un affetto più diretto e spontaneo: «tibi perpetuo amoris vinculo conjunctus» oppure: «Tuus si suus» o ancora: «tuus aeque ac suus». Ma le lettere vivono anche di una loro vita autonoma su due fronti, quello scientifico-filosofico (sviluppano alcune fondamentali dottrine cartesiane che non troveranno posto nelle opere a stampa) e quello più privato, giacché contengono giudizi su persone e su fatti resi senza autocensure (a meno che non sia intervenuto il ‘censore’ Clerselier a smussare l’asprezza di certe espressioni o ad operare interventi ben più significativi, come ad esempio non pubblicare lettere che Descartes gli aveva inviato). Per tutte queste ragioni non si può prescindere dalle lettere, così come non si può prescindere dalle opere a stampa: le une e le altre vanno lette se si vuole ricomporre la figura di Descartes a tutto tondo. Le lettere enfatizzano quella elaborazione del pensiero per ‘risposte’, che si costruisce nel proficuo confronto con i suoi interlocutori, che le Meditationes hanno ‘formalizzato’ nelle appendici delle ‘obiezioni’ e delle ‘risposte’. Considerato in riferimento al genere letterario che gli è proprio, l’epistolario di Descartes attraversa tutti gli stili: consolatorio, satirico, persuasivo, apologetico e, a seconda degli interlocutori ai quali si rivolge e del messaggio che vuole trasmettere, il tono del linguaggio adoperato è amicale o tecnico: è franco e spontaneo, o tocca le corde dell’adulazione, della compiacenza e della dichiarata simulazione: sempre si adegua allo stile di chi ha scritto: «Da parte mia cerco di rispondere ad ognuno nello stesso stile in cui mi ha scritto» (A Huygens, 9 marzo 1638, lettera n. 157, p. 595). Ma il linguaggio assume anche altre tonalità: si colora di insofferenza verso chi mostra una ostilità preconcetta a comprendere, e quindi ad accettare, il punto di vista del filosofo; è offensivo quando si rivolge ai matematici che mettono in discussione le tesi da lui sostenute nelle lettere e nella Géométrie ed è sprezzante quando, con Mersenne, li definisce i “vostri Geometri” o i “vostri Analisti”: «E dopo che essi avranno trovato tutto questo [scoperte relative a problemi superiori a quelli risolti nella Géométrie], pretendo anche che me ne debbano esser grati, almeno se si sono serviti a tale scopo della mia Geometria, per il fatto che essa contiene il cammino da seguire per giungervi; se poi non se ne sono affatto serviti, non devono con ciò reclamare alcun vantaggio su di me, tanto più che non c’è alcuna di queste cose, che io non <possa> trovare nella misura in cui essa è passibile d’esser trovata, quando vorrò prendermi il fastidio di calcolarla. Credo, però, di poter impiegare più utilmente il mio tempo in altre cose» [ A Mersenne, gennaio 1638].

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ELISABETTA di Boemia, Principessa Palatina (Heidelberg, 1618 - Herford, 1680) Principessa, figlia dell’elettore palatino Federico V di Wittelsbach e di Elisabetta Stuart, riformata. Dopo la sconfitta della Montagna Bianca (8 novembre 1620), in cui il padre perse la corona del regno di Boemia, andò in esilio con la famiglia nelle Province Unite (1621) ove studiò presso la Corte dell’Aia e in seguito a Renen (Utrecht). Nel 1646 – dopo che il fratello Filippo aveva ucciso un gentiluomo francese imputato da lui di seduzione nei confronti della sorella Louise Hollandine – Elisabetta ritornò in Germania, ritirandosi presso l’elettore del Brandeburgo, Federico Enrico. Nel 1667 fu nominata Badessa del convento luterano di Herdford in Westfalia, incarico che le garantì un posto nella Dieta tedesca. Fu Alphonse Pollot che nel 1642, su richiesta di Descartes, la mise in contatto con il filosofo. I due corrisposero costantemente (1643-1649) su temi di varia natura (medicina, matematica, filosofia, politica). Descartes le dedicò i Principi della filosofia (1644). Durante una malattia della principessa (estate-autunno 1645) Descartes le inviò una serie di lettere in cui gli espose i principi della morale, cosa che lo indusse poi a scrivere nell’inverno del 1645-1646 un primo abbozzo delle Passioni, che già nell’aprile del 1646 aveva dato da leggere alla principessa. Come risulta sia da Adrien Baillet [ La vie de Monsieur Des-Cartes, 2 voll., Paris, chez Daniel Horthemels, 1691 (rist. anast.: Hildesheim, Olms, 1972; New York, Garland, 1987). Baillet: erudito (1649- 1706) noto per i due grossi volumi della biografia con materiali preziosi e spesso unici . Fonte ineludibile. Nel 1692 una biografia ridotta tradotta nel 1996 da Adelphi] sia dalla corrispondenza, il tempo impiegato nella Redazione del Trattato fu relativamente breve. Da Baillet sappiamo che «un piccolo trattato sulla natura delle passioni dell’anima» avrebbe tenuto occupato Descartes nell’inverno del 1646, con la precisazione che il proposito del filosofo «non era di fare qualcosa di compiuto e che meritasse di essere dato alle stampe, ma solo di fare degli esercizi di morale per sua personale edificazione e di verificare se la sua fisica avrebbe potuto servirgli, come sperava, per stabilire dei fondamenti certi in morale». Una notizia, questa, che trova conferma in una lettera indirizzata da Descartes, il 15 giugno del 1646, a Hector-Pierre Chanut (1601-1662): «Quest’inverno ho abbozzato un piccolo Trattato sulla Natura delle Passioni dell’Anima, senza avere tuttavia l’intenzione di rivederlo».Di contro, la riflessione sulle ‘passioni dell’anima’ è, in Descartes, di lunga data. Lo documentano non solo le numerose indicazioni presenti in Compendio e Uomo, ma, anche la corrispondenza, che attesta la persistenza della problematica (anche se spesso indotta su sollecitazione del corrispondente) sin a partire dagli anni Trenta: con Mersenne, nel 1630; con Pollot, nel 1638; con Regius, nel 1641. È tuttavia solo nella corrispondenza con la Principessa Elisabetta, che il problema delle passioni diviene centrale. Un accenno si trova già nella lettera indirizzata dal filosofo alla Principessa il 21 maggio 1643, sulle tre nozioni primitive: dalla terza di esse, quella dell’unione mente-corpo (il problema al centro della discussione delle prime lettere con la Principessa), «dipende quella della forza che l’anima ha di muovere il corpo, e il corpo di agire sull’anima, causandone sentimenti e passioni»; accenno da cui Elisabetta trae subito spunto per la richiesta di un approfondimento in tal senso: «Voi mi spiegherete la natura di una sostanza immateriale e i modi delle sue azioni e passioni nel corpo altrettanto bene che tutte le altre cose che avete voluto insegnare». È nel 1645 che si delinea l’idea di completare i Principia del 1644 con un’opera che non doveva essere né di oratoria, né di filosofia morale, ma di fisica, secondo il proposito apertis verbis dichiarato dal filosofo. La discussione sulle passioni si intensifica, come mostrano più di ogni altre

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le lettere del 18 e del 24 maggio e di giugno; e si intreccia a quella relativa al Sommo Bene condotta in controluce alla lettura del De vita beata di Seneca. Le sollecitazioni di Elisabetta sul problema delle passioni sono ripetute: «Vorrei ancora vedervi definire le passioni, in modo da conoscerle bene». E Descartes, nella lettera del 6 ottobre, riconosce appieno l’opportunità di un’indagine più precisa: «Ma bisogna che prenda in esame in modo più dettagliato queste passioni, per poterle definire; e ciò mi sarà ora più facile che se scrivessi a qualcun altro. Vostra Altezza, infatti, avendo avuto la pazienza di leggere il trattato che avevo abbozzato in precedenza, sulla natura degli animali, sa già come concepisco» e appronta una definizione di passioni. Ma Descartes lavora anche, su sollecitazione della Principessa, ad una classificazione: «Ho pensato in questi giorni al numero e all’ordine di tutte le passioni, per poter esaminare la loro natura più in dettaglio; ma non ho ancora digerito abbastanza le mie opinioni su questo argomento per osare scriverne a Vostra Altezza. Non mancherò di adempiere a questo compito appena mi sarà possibile». Elisabetta a Descartes L’Aia, 6/16 maggio 1643 (ediz. Belgioioso pp.1745-47) Ho appreso, con molta gioia e rimpianto, dell’intenzione che avevate avuto di vedermi, qualche giorno fa, colpita in ugual misura dalla vostra carità nel voler comunicare con una persona ignorante e indocile e dalla sfortuna che mi ha privato di una conversazione così proficua. Il signor Pollot ha molto rafforzato tale sentimento, ripetendomi le soluzioni che gli avete dato riguardo alle oscurità contenute nella fisica del Signor Regius, sulle quali sarei stata meglio istruita a viva voce da voi, come anche su una questione che ho proposto al suddetto professore, quando è venuto in questa città, a proposito della quale egli mi ha rinviato a voi per ottenere la soddisfazione dovuta. La vergogna di mostrarvi uno stile così disordinato mi ha impedito fino ad ora di domandarvi questo favore per lettera. Ma oggi il signor Pollot mi ha dato una tale assicurazione della vostra bontà nei riguardi di tutti, e in particolare verso di me, che ho allontanato dalla mia mente ogni altra considerazione, eccetto quella di trarne profitto, pregandovi di dirmi in quale maniera l’anima dell’uomo (non essendo che una sostanza pensante) può determinare gli spiriti del corpo, ed eseguire le azioni volontarie. Infatti, sembra che ogni movimento sia determinato dalla pulsione della cosa mossa, dalla maniera in cui essa viene spinta da quella che la muove, oppure dalla qualità e dalla figura della superficie di quest’ultima. Nei primi due casi è richiesto il contatto, nel terzo l’estensione. Voi escludete quest’ultima dalla nozione che avete dell’anima, mentre <il contatto> mi sembra incompatibile con una cosa immateriale. Motivo per il quale vi domando una definizione di anima più particolareggiata che nella vostra Metafisica, ossia della sua sostanza separata dalla sua azione, ossia dal pensiero. Infatti, anche se noi le supponiamo inseparabili (cosa che tuttavia è difficile da provare nel ventre della madre e negli svenimenti prolungati), come gli attributi di Dio, possiamo, considerandole separatamente,acquistarne un’idea più perfetta. Riconoscendo in voi il miglior medico della mia <anima>, vi rivelo assai liberamente le debolezze delle sue speculazioni e spero che, osservando il giuramento d’Ippocrate, senza renderle pubbliche, vi apporterete i rimedi; cosa che vi prego di fare, come di sopportare queste seccature da parte della Vostra affezionataamica per servirvi, Elisabetta

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521 Descartes a Elisabetta Egmond-Binnen, 15 settembre 1645

(ediz. Belgioioso pp. 2083-87) Signora, Vostra Altezza ha notato, con tale esattezza, tutte le cause che hanno impedito a Seneca di esporci chiaramente la sua opinione sul Sommo Bene, e ha avuto la pazienza di leggere il suo libro con tanta cura, che avrei timore di essere importuno se continuassi ora a esaminarne ordinatamente tutti i capitoli ritardando in tal modo di rispondere al problema che ha voluto propormi, sui mezzi per rafforzare il proprio intelletto per discernere ciò che è meglio in tutte le azioni della vita. È per questo che, senza indugiare ora nel seguire Seneca, cercherò solo di spiegare la mia opinione su questo argomento. Possono essere richieste solo due cose, credo, per essere sempre pronti a ben giudicare: una è la conoscenza della verità, l’altra è l’abitudine grazie alla quale ci si ricorda di questa conoscenza e la si segue ogni volta che l’occasione lo richiede. Ma, poiché solo Dio sa perfettamente tutte le cose, dobbiamo accontentarci di sapere solo quelle che ci servono di più. Tra queste, la prima e la principale è che c’è un Dio, le cui perfezioni sono infinite, il potere immenso e i decreti infallibili, da cui dipendono tutte le cose. Questo, infatti, ci insegna a ricevere di buon animo tutte le cose che ci accadono come se ci fossero inviate espressamente da Dio. E poiché il vero oggetto dell’amore è la perfezione, quando eleviamo la nostra mente a considerare Dio qual è ci scopriamo così naturalmente inclini ad amarlo, che traiamo gioia perfino dalle nostre afflizioni, pensando di fare la sua volontà accettandole. La seconda cosa che bisogna conoscere è la natura della nostra anima, in quanto sussiste senza il corpo ed è molto più nobile di questo e capace di godere di un’infinità di gioie che non si trovano in questa vita: questo, infatti, ci impedisce di temere la morte e distacca talmente i nostri affetti dalle cose del mondo, che guardiamo solo con disprezzo tutto ciò che appartiene al potere della fortuna. A ciò può servire molto avere una giusta opinione delle opere di Dio e avere quella vasta idea dell’estensione dell’universo che ho cercato di far concepire nel terzo libro dei miei Principi. Infatti, se immaginiamo che al di là dei cieli ci siano solo spazi immaginari e che tutti questi cieli siano stati fatti per servire la Terra, e la Terra per l’uomo, ne segue che siamo inclini a pensare che questa Terra sia la nostra dimora principale, e questa la nostra vita migliore. Allora, invece di conoscere le perfezioni che sono veramente in noi, attribuiamo alle altre creature, per innalzarci al di sopra di loro, imperfezioni che non hanno e con un’impertinente presunzione pretendiamo di essere i consiglieri di Dio e di condividere con lui il peso di governare il mondo. Ciò causa un’infinità di vane inquietudini e di turbamenti. Dopo aver riconosciuto la bontà di Dio, l’immortalità delle nostre anime e la grandezza dell’universo, c’è ancora una verità che ci è molto utile conoscere, ossia il fatto che, sebbene ognuno di noi sia una persona separata dalle altre, i cui interessi sono, di conseguenza, in qualche modo distinti da quelli del resto del mondo, dobbiamo tuttavia pensare che non sapremmo sussistere da soli e che siamo, infatti, una delle parti dell’universo, e più precisamente una delle parti di questa Terra, una delle parti di questo stato, di questa società, di questa famiglia, cui siamo uniti per dimora, patto e nascita. E bisogna sempre preferire gli interessi del tutto di cui facciamo parte a quelli della propria persona; ma con misura e discrezione, perché avremmo torto ad esporci a un gran male per procurare solo un piccolo bene ai nostri parenti o al

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nostro paese; e se un uomo da solo vale più di tutto il resto della sua città, non avrebbe motivo di volersi perdere per salvarla. Ma se riferissimo tutto a noi stessi, non avremmo paura di nuocere molto agli altri se credessimo di riceverne qualche piccolo vantaggio, e non ci sarebbe nessuna vera amicizia, nessuna fedeltà e, in generale, nessuna virtù; mentre, considerandoci come una parte della collettività, proviamo piacere a fare del bene a tutti e non temiamo nemmeno di mettere a rischio la nostra vita per essere utili agli altri, quando se ne presenti l’occasione; o vorremmo persino perdere la nostra anima, se potessimo, per salvare gli altri. In questo modo, questa considerazione è la fonte e l’origine di tutte le azioni più eroiche compiute dagli uomini. Quanto poi a coloro che si espongono alla morte per vanità perché sperano di essere lodati, o per stupidità, perché non temono il pericolo, credo che siano più da compatire che da lodare. Ma quando qualcuno vi si espone perché crede che sia suo dovere, o sopporta qualche altro male perché ne consegua del bene agli altri, anche se forse non riflette che fa tutto ciò perché deve di più alla collettività, di cui è membro, che a se stesso come singolo, lo fa tuttavia in virtù di questa considerazione, che è nei suoi pensieri in maniera confusa. E si è naturalmente portati ad averla, quando si conosce e si ama Dio come si deve: allora, infatti, rimettendosi completamente alla sua volontà, ci si spoglia dei propri interessi e non si ha altra passione se non quella di fare ciò che si crede essergli gradito. Ne derivano soddisfazioni dell’animo e appagamenti che valgono incomparabil–mente di più di tutte le piccole gioie passeggere che dipendono dai sensi. Oltre a queste verità, che riguardano in genere tutte le nostre azioni, bisogna conoscerne anche molte altre, che sono in rapporto più particolare con ciascuna di esse. Le principali mi sembrano quelle che ho sottolineato nella mia ultima lettera: ossia, che tutte le nostre passioni ci rappresentano i beni che ci incitano a cercare come molto più grandi di quel che sono realmente; e che i piaceri del corpo non sono mai così duraturi come quelli dell’anima, né così grandi, quando ne veniamo in possesso, come ci sembravano quando li cerchiamo. Ciò che dobbiamo osservare con cura, affinché, quando ci sentiamo mossi da qualche passione, sospendiamo il giudizio fino a quando non si sia placata; e affinché non ci lasciamo facilmente ingannare dal falso aspetto dei beni di questo mondo. A ciò non posso aggiungere altro, se non che bisogna anche esaminare in dettaglio tutti i costumi del luogo in cui viviamo per sapere fino a che punto debbano esse seguiti. E sebbene non possiamo avere dimostrazioni certe di tutto, dobbiamo nondimeno prendere posizione e abbracciare le opinioni che ci sembrano più verosimili a proposito di tutte le cose di comune utilità affinché, quando dobbiamo agire, non restiamo mai indecisi. Solo l’indecisione, infatti, causa i rimpianti e i pentimenti. Quanto al resto, ho detto poco sopra che per poter sempre ben giudicare è richiesta, oltre alla conoscenza della verità, anche l’abitudine. Infatti, dal momento che non possiamo essere continuamente attenti ad una stessa cosa, per quanto chiare ed evidenti ci siano sembrate le ragioni che ci hanno convinto in precedenza di una qualche verità, delle false apparenze possono, in seguito, distoglierci dal credervi, se una lunga e frequente meditazione non l’abbia talmente impressa nel nostro animo, che essa sia diventata un’abitudine. In questo senso hanno ragione, nella Scuola, di dire che le virtù sono abitudini; infatti quasi mai siamo manchevoli nel conoscere in teoria quel che dobbiamo fare, ma solo nel non averne la pratica, ossia nel non aver una ferma abitudine di credervi. E poiché, prendendo qui in esame queste verità, ne aumento anche in me l’assuefazione, sono particolarmente grato a Vostra Altezza che mi permette di intrattenerla in tal modo, giacché non c’è modo migliore di impiegare il mio tempo che nel dimostrare che sono, Signora, il molto umile e obbediente servitore di Vostra Altezza, Descartes

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Sulla questione metafisica dell’unione, la principessa fresca della lettura delle Meditationes si rivolge al filosofo per ottenere una risposta definitiva alla questione. Com’è noto, la questione dell’unione è introdotta nelle Meditationes (II e VI soprattutto). Possiamo aggiungere che essa è oggetto di discussione nelle Objectiones e Responsiones, che torna in Principia I e II (1644) e in Notae in programma quoddam (1648): «Lodo, poi, che chiami [Regius] l’anima razionale col nome di mente umana: in tal modo, infatti, evita l’equivoco che c’è nel nome di anima; ed in questo mi imita». Ora, nelle Meditationes, Descartes aveva sostituito il termine mens a quello di anima nel titolo (De mente humana) di Meditatio II e, in Responsiones II, apertis verbis, aveva stigmatizzato l’equivocità del termine anima: «Parlo qui di mente, piuttosto che di anima, perché il nome di anima è equivoco, e la si usa spesso in modo improprio (usurpari), per cosa corporea». MORALE PROVVISORIA E COSTRUZIONE SCIENTIFICA Descartes a Mersenne B. p. 965) 9 gennaio 1639 Reverendo Padre, 1. dovrei essere assai stanco di vivere se trascurassi di conservarmi <in salute>dopo aver letto le vostre ultime lettere, in cui mi scrivete che voi e qualche altra persona di altissimo merito, vi preoccupate per me temendo che sia malato se restate per più di quindici giorni senza ricevere mie lettere. Ma è da trent’anni che, grazie a Dio, non ho avuto alcuna malattia che meritasse un tale nome. E poiché l’età mi ha tolto quel calore di fegato che in altri tempi mi faceva amare le armi, e poiché ormai faccio professione solo di fiacchezza, e ho anche acquisito qualche conoscenza di medicina, e mi sento vivere, e mi tasto con la stessa cura di un ricco gottoso, mi sembra quasi di essere più lontano dalla morte adesso di quanto non lo fossi da giovane. E se Dio non mi dà una scienza sufficiente a evitare gli inconvenienti portati dall’età, spero che mi lasci, in questa vita, almeno il tempo per sopportarli. Nondimeno, tutto dipende dalla sua provvidenza a cui, scherzi a parte, mi sottometto di buon cuore come può aver fatto padre Joseph; e uno dei punti della mia morale è di amare la vita senza temere la morte. Lettera prefazione, B Op I 2231: «Così, tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e perfetta morale, la quale, presupponendo una completa conoscenza delle altre scienze, è l’ultimo grado della saggezza. Ora, come non è dalle radici, né dal tronco degli alberi, che si colgono i frutti, ma soltanto dalle estremità dei loro rami, così la principale utilità della filosofia dipende da quelle sue parti che non si possono apprendere che per ultime. Ma benché io le ignori quasi tutte, lo zelo che ho sempre avuto per cercare di essere utile al pubblico è la ragione per cui ho fatto stampare, dieci o dodici anni fa, qualche saggio delle cose che mi sembrava di avere appreso. La prima parte di questi saggi era costituita da un Discorso riguardante il metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze, nel quale ho messo in compendio le principali regole della logica e di una

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morale imperfetta, che si può seguire provvisoriamente quando ancora non se ne conosce una migliore». Si tratta di una morale che, tuttavia è bastevole per tenerci al riparo da ogni errore e per indurci a sentirci appagati (contentement) Discorso, III, B Op I 49: «Infine, dato che non basta, prima di incominciare a ricostruire la propria abitazione, abbatterla e provvedere ai materiali e agli architetti, o esercitarsi nell’architettura ed, inoltre, aver con cura disegnato il progetto, ma occorre anche essersi provvisti di un altro alloggio in cui si possa abitare comodamente per tutto il tempo necessario ai lavori, così, per non rimanere irrisoluto nelle mie azioni nel tempo in cui la mia ragione mi costringeva ad esserlo nei miei giudizi, e per cercare di vivere sin da allora il più felicemente possibile, mi formai una morale provvisoria, consistente solo in tre o quattro massime di cui volentieri vi faccio parte» Burman, B Op II 1305: « L’autore non scrive volentieri di etica, ma è stato costretto a scrivere queste regole dalle pressioni dei pedagoghi e di persone di tal fatta: altrimenti avrebbero detto che è senza religione, senza fede, e che vuole rovesciarle con il suo metodo». [Cfr. (AT V 178). Discours, III, pp. 49-51: «La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, continuando ad osservare la religione in cui Dio m’ha fatto grazia di essere educato sin dalla mia infanzia e seguendo, per il resto, le opinioni più moderate e più lontane dall’eccesso che fossero in genere messe in pratica dalle persone più ragionevoli tra coloro in cui mi trovassi a vivere. Infatti, cominciando allora a non tenere più nessun conto delle mie opinioni, poiché volevo tutte sottoporle ad esame, ero certo di non poter fare nulla di meglio che seguire le opinioni dei più accorti. E, per quanto vi siano forse persone altrettanto assennate tra i persiani o i cinesi quanto ve ne sono tra di noi, mi sembrava che la cosa più utile fosse regolarmi seguendo coloro tra i quali mi fossi trovato a vivere e che, per sapere quali fossero veramente le loro opinioni, dovevo fare attenzione piuttosto a quello che facevano che a quello che dicevano: non solo per il fatto che nella corruzione dei nostri costumi sono in pochi a voler dire tutto quel che credono, ma anche perché molti lo ignorano essi stessi. Infatti, poiché l’azione del pensiero per cui si crede una cosa è differente da quella per cui si sa di crederla, spesso c’è l’una ma non l’altra. E, tra più opinioni tutte ugualmente accolte, sceglievo solo le più moderate, sia per il fatto che sono sempre le più comode nella pratica e, verosimilmente, le migliori, essendo ogni eccesso di solito riprovevole, sia, in caso fallissi, per allontanarmi dal vero cammino meno di quanto avrei fatto se, scelto uno degli estremi, fosse poi stato l’altro quello che bisognava seguire. In particolare, ponevo tra gli eccessi tutte le promesse con cui si limita in qualcosa la propria libertà. Non che disapprovassi le leggi che, per rimediare all’incostanza degli ingegni deboli, quando si ha un qualche buon proposito, o anche, per la sicurezza del commercio – se non si nuoce ad alcuno –, permettono di stipulare promesse o contratti che obbligano a perseverare; ma poiché non vedevo al mondo nulla che rimanesse sempre nello stesso stato, e siccome mi promettevo – per ciò che mi riguardava – di perfezionare sempre più i miei giudizi, e non di renderli peggiori, avrei pensato di offendere molto il buon senso se per il fatto che approvavo allora qualcosa, mi fossi costretto a prenderla per buona anche in seguito, quando forse non lo sarebbe più stata, o quando io non l’avessi più stimata tale». Questi stessi concetti ripete in una lettera ad Elisabetta del 4 agosto 1645, B 514, p. 2059: «Ebbene, mi sembra che ciascuno possa raggiungere l’appagamento da sé, senza aspettarsi niente dall’esterno, purché osservi tre cose, cui si riferiscono le regole della morale che ho posto nel

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Discorso sul Metodo. La prima è che cerchi sempre di servirsi della sua mente, al meglio delle sue possibilità, per conoscere quel che deve e non deve fare in ogni circostanza della vita. La seconda è che mantenga un fermo e costante proposito di applicare tutto ciò che la ragione gli consiglia, senza lasciarsi distrarre dalle sue passioni o dai suoi appetiti. È proprio la fermezza di questo proposito, che credo debba essere identificata con la virtù, sebbene non mi risulti che qualcuno l’abbia mai definita così; essa è stata invece suddivisa in più specie, definite in vari modi, a causa dei diversi oggetti cui si estende. La terza è che, mentre si comporta così, consideri per quanto può, secondo ragione, che tutti i beni che non possiede sono completamente al di là del suo potere, e, in questo modo, si abitui a non desiderarli. Infatti, nulla quanto il desiderio e il rimpianto, o il pentimento, possono impedirci di essere contenti, ma se facciamo sempre tutto ciò che ci detta la nostra ragione, non avremo mai nessun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti ci facessero constatare in seguito che ci siamo sbagliati, perché non sarebbe colpa nostra. Se poi non desideriamo avere, per esempio, più braccia e più lingue di quelle che abbiamo, mentre invece desideriamo avere più salute e più ricchezze, è solo perché immaginiamo che queste ultime potrebbero essere ottenute grazie al nostro comportamento, oppure che esse sono dovute alla nostra natura, il che non avviene per le altre; opinione della quale potremo liberarci, se consideriamo che, poiché abbiamo sempre seguito i consigli della nostra ragione, non abbiamo tralasciato niente che fosse in nostro potere, e che le malattie e le sfortune non sono meno naturali per l’uomo della prosperità e della salute». Obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese Discours, II, B Op I 39-41: «È vero che non vediamo mai abbattere tutte le case di una città al solo scopo di rifarle in altro modo e di rendere le strade più belle; si vede tuttavia che parecchi fanno abbattere le proprie per riedificarle e addirittura vi sono sovente costretti quando le loro case sono in pericolo di cadere da sé e le loro fondamenta non sono solide. Allo stesso modo mi convinsi che non era verosimile che un privato si proponesse di riformare uno Stato cambiando tutto a partire dalle fondamenta e rovesciandolo per ricostituirlo. E non era neppure verosimile proporre di riformare il corpo delle scienze o l’ordine stabilito nelle scuole per insegnarle. Ma, per quanto riguardava tutte le opinioni che avevo accolte sino ad allora, non potevo far di meglio che iniziare, una buona volta, ad eliminarle per ristabilirne in seguito altre migliori oppure le stesse dopo che le avessi ricondotte alla ragione. E credetti fermamente che, in questo modo, sarei riuscito a condurre la mia vita molto meglio che se avessi costruito su vecchie fondamenta e se mi fossi appoggiato ai principi che avevo accolto in gioventù senza mai esaminare se fossero veri. Infatti, per quanto notassi in ciò diverse difficoltà, esse non erano tuttavia senza rimedio e neppure erano comparabili a quelle che si incontrano nella riforma delle più piccole cose riguardanti l’ordine pubblico. Questi grandi corpi sono troppo difficili da risollevare una volta abbattuti o anche da sostenere quando ne viene minata la stabilità, e le loro cadute sono sempre troppo rovinose. Poi, per quanto riguarda le loro imperfezioni (se ne hanno), posto che la sola diversità che si trova tra di essi basta per assicurare che molti ne possiedono, l’uso le avrà senza dubbio alquanto addolcite e ne avrà evitate o corrette una grande quantità, alle quali con la prudenza non si potrebbe sopperire altrettanto bene. Infine, poi, tali imperfezioni sono quasi sempre più sopportabili di quanto non sarebbe il loro cambiamento: così i grandi camminamenti che si snodano attorno alle montagne divengono poco a poco tanto agevoli e comodi, a forza di essere battuti, che è molto meglio seguirli che non iniziare a procedere dritto arrampicandosi sopra le rocce e scendendo in fondo ai precipizi. Ecco perché non potrei approvare in alcun modo quei temperamenti disordinati e inquieti che senza essere chiamati, per nascita o per fortuna, ad occuparsi degli affari pubblici, non smettono di progettarvi, con le proprie idee, una qualche nuova riforma. Se pensassi poi che in questo scritto vi fosse la minima cosa per la quale potessi essere sospettato di una tale follia, sarei assai contrario ad accettare che venisse pubblicato. Mai il mio proposito è andato oltre l’intenzione di riformare i miei propri pensieri e di costruire su una proprietà che non mi appartiene completamente».

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Il  trattato  delle  passioni Il trattato delle passioni può essere considerato il quinto libro dei "Principi di filosofia" in quanto estendono la trattazione scientifica della natura – e di quella umana in particolare – ai problemi dell’agire: nella metafora dell’albero della conoscenza, dal tronco (fisica) si passa ai rami: medicina, meccanica, morale.

Due  modelli  concezione  mente/corpo:  

A) modello  platonico.  Per  Platone  anima  e  corpo  sono  due  sostanze  che  convergono  in  una  unione   sostanziale.   Questo   è   il   cosiddetto   dualismo   platonico:   il   corpo   è   prigione  dell’anima,   l’anima   è   incarcerata   nel   corpo.   Nel   Medioevo   questa   concezione   sarà  definita  unio  accidentale:   anima  e   corpo   in  quanto   sono  due   sostanze  e  non  possono  costituire   un’unica   sostanza.   Essendo,   infatti,   la   sostanza   ciò   che   è   per   sé   non   è  possibile  che  due  sostanze  si  uniscano  una  unione  sostanziale;  

B) modello  aristotelico.  Per  Aristotele:  anima  e  corpo  sono  due  principi  che  convergono  in  una  unione  sostanziale.  L’anima  è,  allora,  un  sinolo:  l’anima  è  atto,  forma    del  corpo  e  sta   al   corpo   come   la   forma   sta   alla   materia.   Anche   forma   e   materia   non   sono   due  sostanze,   ma   due   principi   che   formano   una   sola   sostanza:   la   loro   è   una   unione  sostanziale.  Nel  Medioevo  la  dottrina  aristotelica  pose  il  problema  della  separabilità  di  anima  e  corpo.  Se,  infatti,  l’anima  è  forma  del  corpo,  non  può  essere  separata  dal  corpo.  SE   non   può   essere   separata,   non   è   immortale.   Ad  Alessandro   di   Afrodìsia   si   deve   la  vulgata   secondo   la   quale   l’anima   non   è   immortale:   se   noi   pensiamo   anima   e   corpo  come   due   principi   fondiamo   l’unità,   ma   perdiamo   l’immortalità.   Tommaso   fornì   la  soluzione  a  questa  questione:   anima  e   corpo   sono   i  due   co-­‐principi   che   formano  una  sostanza,  però  l’anima,  a  differenza  del  corpo,  è  una  sostanza.  Questo  significa:  l’anima  è  sostanza  e  co-­‐principio;  quindi  l’anima  è  una  sostanza,  un  ente  dotato  di  sotanzialità  che   conferisce   sostanzialità   ad   un’altra   sostanza.   Descartes   è   l’erede   della   teoria  tomistica   modificata:   l’anima   è   una   sostanza   e   per   questo   è   immortale,   ma   è   una  sostanza  che  conferisce  immortalità.  Descartes,  cioè,  accoglie  la  tradizione  tomista,  ma  a  differenza  di  Tommaso,  secondo  il  quale  solo  l’anima  è  sostanza,  ritiene  che  mente  e  corpo  sono  entrambe  sostanze.    Descartes  nega  che  l’unione  tra  anima  e  corpo  sia  ‘accidentale’.  Descartes  ribadisce  che  distinzione   reale   e   unione   sostanziale   (nelle  Meditationes   aveva   usato   l’espressione  ‘unione   strettissima’)   sono   entrambe   vere   e   dunque   respinge   la   soluzione   platonica.  Ciò  risulta  evidente  nelle  Responsiones IV (B Op I 987): «Neppure vedo in che modo questo argomento provi troppo. Per mostrare che una cosa si distingue realmente da un’altra, infatti, il meno che si possa dire è che può esserne separata dalla potenza divina. E mi è sembrato sufficiente impegnarmi diligentemente a evitare che qualcuno ritenesse per questo che l’uomo fosse soltanto un animo che si serve di un corpo. Infatti, nella stessa sesta meditazione, in cui ho trattato della distinzione della mente dal corpo, ho insieme provato anche che essa gli è unita sostanzialmente; ed ho utilizzato argomenti dei quali non ricordo di aver letto, da nessuna parte, di più forti per provare la medesima cosa».  

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Descartes non dirà mai che anima e corpo costituiscono una unica sostanza: nella VI Meditazione costituiscono un unum quid. Ad Elisabetta dirà che sono vere entrambe: distinzione reale ed unione sostanziale lettera ad Elisabetta del 4 agosto 1645, B 514, p. 2059: «Ebbene, mi sembra che ciascuno possa raggiungere l’appagamento da sé, senza aspettarsi niente dall’esterno, purché osservi tre cose, cui si riferiscono le regole della morale che ho posto nel Discorso sul Metodo. La prima è che cerchi sempre di servirsi della sua mente, al meglio delle sue possibilità, per conoscere quel che deve e non deve fare in ogni circostanza della vita. La seconda è che mantenga un fermo e costante proposito di applicare tutto ciò che la ragione gli consiglia, senza lasciarsi distrarre dalle sue passioni o dai suoi appetiti. È proprio la fermezza di questo proposito, che credo debba essere identificata con la virtù, sebbene non mi risulti che qualcuno l’abbia mai definita così; essa è stata invece suddivisa in più specie, definite in vari modi, a causa dei diversi oggetti cui si estende. La terza è che, mentre si comporta così, consideri per quanto può, secondo ragione, che tutti i beni che non possiede sono completamente al di là del suo potere, e, in questo modo, si abitui a non desiderarli. Infatti, nulla quanto il desiderio e il rimpianto, o il pentimento, possono impedirci di essere contenti, ma se facciamo sempre tutto ciò che ci detta la nostra ragione, non avremo mai nessun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti ci facessero constatare in seguito che ci siamo sbagliati, perché non sarebbe colpa nostra. Se poi non desideriamo avere, per esempio, più braccia e più lingue di quelle che abbiamo, mentre invece desideriamo avere più salute e più ricchezze, è solo perché immaginiamo che queste ultime potrebbero essere ottenute grazie al nostro comportamento, oppure che esse sono dovute alla nostra natura, il che non avviene per le altre; opinione della quale potremo liberarci, se consideriamo che, poiché abbiamo sempre seguito i consigli della nostra ragione, non abbiamo tralasciato niente che fosse in nostro potere, e che le malattie e le sfortune non sono meno naturali per l’uomo della prosperità e della salute». Obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese Discours, II, B Op I 39-41: «È vero che non vediamo mai abbattere tutte le case di una città al solo scopo di rifarle in altro modo e di rendere le strade più belle; si vede tuttavia che parecchi fanno abbattere le proprie per riedificarle e addirittura vi sono sovente costretti quando le loro case sono in pericolo di cadere da sé e le loro fondamenta non sono solide. Allo stesso modo mi convinsi che non era verosimile che un privato si proponesse di riformare uno Stato cambiando tutto a partire dalle fondamenta e rovesciandolo per ricostituirlo. E non era neppure verosimile proporre di riformare il corpo delle scienze o l’ordine stabilito nelle scuole per insegnarle. Ma, per quanto riguardava tutte le opinioni che avevo accolte sino ad allora, non potevo far di meglio che iniziare, una buona volta, ad eliminarle per ristabilirne in seguito altre migliori oppure le stesse dopo che le avessi ricondotte alla ragione. E credetti fermamente che, in questo modo, sarei riuscito a condurre la mia vita molto meglio che se avessi costruito su vecchie fondamenta e se mi fossi appoggiato ai principi che avevo accolto in gioventù senza mai esaminare se fossero veri. Infatti, per quanto notassi in ciò diverse difficoltà, esse non erano tuttavia senza rimedio e neppure erano comparabili a quelle che si incontrano nella riforma delle più piccole cose riguardanti l’ordine pubblico. Questi grandi corpi sono troppo difficili da risollevare una volta abbattuti o anche da sostenere quando ne viene minata la stabilità, e le loro cadute sono sempre troppo rovinose. Poi, per quanto riguarda le loro imperfezioni (se ne hanno), posto che la sola diversità che si trova tra di essi basta per assicurare che molti ne possiedono, l’uso le avrà senza dubbio alquanto addolcite e ne avrà evitate o corrette una grande quantità, alle quali con la prudenza non si potrebbe sopperire altrettanto bene. Infine, poi, tali imperfezioni sono quasi sempre più sopportabili di quanto non sarebbe il loro cambiamento: così i grandi camminamenti che si snodano attorno alle montagne divengono poco a

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poco tanto agevoli e comodi, a forza di essere battuti, che è molto meglio seguirli che non iniziare a procedere dritto arrampicandosi sopra le rocce e scendendo in fondo ai precipizi. Ecco perché non potrei approvare in alcun modo quei temperamenti disordinati e inquieti che senza essere chiamati, per nascita o per fortuna, ad occuparsi degli affari pubblici, non smettono di progettarvi, con le proprie idee, una qualche nuova riforma. Se pensassi poi che in questo scritto vi fosse la minima cosa per la quale potessi essere sospettato di una tale follia, sarei assai contrario ad accettare che venisse pubblicato. Mai il mio proposito è andato oltre l’intenzione di riformare i miei propri pensieri e di costruire su una proprietà che non mi appartiene completamente».

Discours, VI, B Op I 97

«Non ho mai tenuto in gran conto le cose che provenivano dal mio ingegno e, fin quando non ho raccolto altri frutti dal metodo di cui mi servo a parte la soddisfazione nel risolvere difficoltà che appartengono alle scienze speculative o cercare di condurre i miei costumi secondo le ragioni che tale metodo mi insegnava, non ho creduto di essere tenuto a scriverne nulla. Infatti, per quanto riguarda i costumi, ciascuno pensa di essere cosi ben provvisto di buon senso, che si potrebbero trovare altrettanti riformatori che teste se fosse permesso ad altri di mutarli, oltre coloro che Dio ha posto come sovrani sui suoi popoli o a cui ha donato grazia e zelo sufficienti per essere profeti; e, anche se le mie speculazioni mi piacevano molto, ho creduto che anche altri ne avessero che piacevano loro forse anche di più». Conviene tener conto più di quel che fanno che di quel che dicono Discours, I, B Op I 35 «Mi sembrava, infatti, che avrei potuto incontrare una maggiore verità nei ragionamenti che ciascuno fa sugli affari che lo riguardano, ed il cui esito lo punirà subito se ha mal giudicato, di quanto se ne trovi in quelli fatti da un uomo di lettere nel suo studio, su speculazioni che non producono effetto alcuno, e che non hanno per lui altra conseguenza se non che, forse, ne trarrà una maggiore vanità quanto più esse saranno lontane dal senso comune, per il fatto che avrà dovuto impiegare più ingegno ed artificio per cercare di renderle verosimili. Avevo sempre un grandissimo desiderio di imparare a distinguere il vero dal falso, per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza in questa vita». Perché è ragionevole mettere tra gli «eccessi tutte le promesse»:

a) «perché non vedo alcuna cosa al mondo che perduri nello stesso stato…» Mondo, cap. III (La durezza e la fluidità), B Op II 223-225 «Considero che nel mondo c’è un’infinità di diversi movimenti che durano perpetuamente. E dopo aver osservato i più grandi, che danno origine ai giorni, ai mesi e agli anni, mi rendo conto che i vapori della terra non cessano di salire verso le nuvole e di discenderne, che l’aria è sempre agitata dai venti, che il mare non è mai in riposo, che le fonti e i fiumi scorrono senza sosta, che gli edifici più solidi alla fine vanno in rovina, che le piante e gli animali non fanno che crescere o corrompersi: insomma, che non c’è nulla, in nessun luogo, che non muti»

b) in cosa le modificazioni della natura modificano il nosro corpo e in qual modo il nostro spirito sia modificato da ciò che modifica il nostro corpo

Passions, artt. XXVII e XVIII, B Op I 2359 ARTICOLO XXVII (La definizione delle passioni dell’anima): «Dopo aver considerato in che cosa le passioni dell’anima differiscano da tutti gli altri suoi pensieri, mi sembra che si possa definirle in generale come percezioni o sensazioni o emozioni dell’anima che si riferiscono a essa in particolare e che sono causate, mantenute e rafforzate da qualche movimento degli spiriti». ARTICOLO XXVIII (Spiegazione della prima parte di questa definizione): «Possiamo chiamarle

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percezioni quando ci si serve di questo termine in senso generale per significare tutti i pensieri che non sono azioni dell’anima o delle volontà, ma non quando lo si usa per significare delle conoscenze evidenti. Infatti, l’esperienza mostra che coloro che sono più agitati dalle passioni non sono quelli che le conoscono meglio, e che esse rientrano in quel novero di percezioni che la stretta alleanza tra anima e corpo rende confuse e oscure. Possiamo anche chiamarle sensazioni, in quanto sono ricevute nell’anima allo stesso modo degli oggetti dei sensi esterni, e non sono conosciute da essa in maniera diversa. Ma ancora meglio possiamo chiamarle emozioni dell’anima, non soltanto perché questo nome può essere attribuito a tutti i cambiamenti che avvengono in essa, cioè a tutti i diversi pensieri che le vengono, ma in particolare perché di tutti i tipi di pensieri che può avere, non ce ne sono altri che la agitino e la scuotano con tanta forza come tali passioni». Sull’incostanza degli spiriti deboli Passions, art. XL, B Op I 2369,

a) ARTICOLO XL (Qual è il principale effetto delle passioni): «Bisogna, infatti, notare che il principale effetto di tutte le passioni negli uomini è che esse incitano e dispongono la loro anima a volere le cose per cui preparano il loro corpo, di modo che il sentimento della paura la incita a voler fuggire, quello dell’audacia a voler combattere, e così via».

b) Articolo XLIX, B Op 2379: (La forza dell’anima non basta senza la conoscenza della verità): «È vero che vi sono pochissimi uomini così deboli e irresoluti da volere soltanto quello che detta loro la passione. La maggior parte ha giudizi determinati, in base ai quali regola una parte delle proprie azioni. E benché spesso tali giudizi siano falsi, o anche fondati su passioni dalle quali la volontà si è in precedenza lasciata vincere o sedurre, tuttavia, poiché essa continua a seguirli anche quando la passione che li ha causati è assente, possiamo considerarli come le sue proprie armi e pensare che le anime siano più forti o più deboli, a seconda che possano seguire più o meno tali giudizi e resistere alle passioni presenti che sono contrarie ad essi. Rimane tuttavia una grande differenza tra le risoluzioni che procedono da una falsa opinione e quelle che non si appoggiano che sulla conoscenza della verità, in quanto, se si seguono queste ultime, si è certi di non avere mai un rimpianto, né un pentimento, mentre se ne hanno sempre di aver seguito le prime, quando si scopre l’errore».

Procedimento nelle Meditationes

a) Esistenza dell’io (Meditatio: II) b) “ “ di Dio (Meditatio: III) c) Essenza dei corpi (Meditatio: IV) d) Distinzione reale; esistenza dei corpi (Meditatio V). L’esistenza dei corpi nasce da un’idea rispetto alla quale sono passivo («me invito»: Meditationes I: B Op I 708; Responsiones VII: B Op I 1344): il mio rapporto con i corpi è passivo. Sono propenso a credere che le idee delle cose derivano da cose fuori di me; questa propensione è vera in quanto Dio non ci inganna; io sono passivo rispetto a queste idee. Excursus sulle tre tipologie di idee: innate, fattizie, avventizie. La veracità di Dio, ens summe perfectum et infinite, mi garantisce anche rispetto alla affidabilità delle mie propensioni naturali. e) Unione sostanziale (Meditatio: VI): tale teoria presuppone l’esistenza dei corpi (ordo rationum). Se non ci fosse questa premessa, la teoria sarebbe contraddittoria perché non avrebbe un termine.

Meditatio VI, B Op I 787/789: «Ora, non c’è nulla che questa natura mi insegni in modo più espresso del fatto che ho un corpo, che sta male quando sento dolore, che ha bisogno di mangiare o di bere, quando ho fame o sete, e altro di simile; e quindi non devo dubitare che in ciò vi sia

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qualcosa di vero [unione ‘nel mio corpo’]. La natura mi insegna anche, attraverso queste sensazioni di dolore, di fame, di sete ecc., che io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si trova nella sua nave, ma sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi commisto, così da comporre con esso un qualcosa d’uno [unione strettisima]. Diversamente, infatti, io, che non sono null’altro che una cosa pensante, quando il corpo è ferito non per questo sentirei dolore, ma percepirei questa ferita col puro intelletto, come un pilota percepisce con la vista se qualcosa si rompe nella nave; e quando il corpo ha bisogno di mangiare o di bere, lo intenderei in modo espresso, e non avrei confuse sensazioni di fame e sete [Descartes respinge l’idea riconducibile a Platone, come Aristotele racconta, al quale si attribuisce l’idea che l’anima è estrinseca al corpo – unione accidentale – che è il luogo dell’anima: corpo è carcere]. Certamente, infatti, queste sensazioni di sete, di fame, di dolore e così via, non sono altro che modi confusi del pensare originati dall’unione, quasi una commistione, della mente col corpo» [Cfr. A Regius, dove si fa una differenza con gli angeli che sentono con l’intelletto]. Responsiones  IV  (B  Op  I  987):  «Neppure  vedo  in  che  modo  questo  argomento  provi  troppo.  Per  mostrare  che  una  cosa  si  distingue  realmente  da  un’altra,  infatti,  il  meno  che  si  possa  dire  è   che   può   esserne   separata   dalla   potenza   divina.   E   mi   è   sembrato   sufficiente   impegnarmi  diligentemente   a   evitare   che   qualcuno   ritenesse   per   questo   che   l’uomo   fosse   soltanto   un  animo  che  si  serve  di  un  corpo.  Infatti,  nella  stessa  sesta  meditazione,  in  cui  ho  trattato  della  distinzione   della   mente   dal   corpo,   ho   insieme   provato   anche   che   essa   gli   è   unita  sostanzialmente;   ed   ho   utilizzato   argomenti  dei   quali   non   ricordo   di   aver   letto,  da   nessuna  parte,  di  più  forti  per  provare  la  medesima  cosa».    Descrizione  del  corpo  umano  (B  Op  II  511):  «Non  c’è  niente  di  cui  ci  si  possa  occupare  con  maggior  profitto,  che  cercare  di  conoscere  se  stessi.  E   l’utilità  che  si  deve  sperare  da  questa  conoscenza   non   concerne   solo   la   Morale,   così   come   appare   sulle   prime   a   molti,   ma  particolarmente   anche   la   Medicina   nella   quale,   credo,   si   sarebbero   potuti   trovare   molti  precetti   sicurissimi,   sia  per  guarire   le  malattie   che  per  prevenirle,   e  persino  per   ritardare   il  corso  della  vecchiaia,  se  ci  si  fosse  sufficientemente  dedicati  a  conoscere  la  natura  del  nostro  corpo   e   non   si   fossero   attribuite   all’anima   le   funzioni   che   dipendono   solo   da   esso   e   dalla  disposizione  dei   suoi  organi.  Ma  poiché  noi   tutti   abbiamo  provato,   sin  dalla  nostra   infanzia,  che   molti   dei   suoi   movimenti   obbediscono   alla   volontà,   la   quale   è   una   delle   potenze  dell’anima,   ciò   ci  ha   indotti   a   credere   che   l’anima  è   il  principio  di   tutti.  A   ciò  ha   contribuito  anche   molto   l’ignoranza   dell’Anatomia   e   delle   Meccaniche:   infatti,   non   considerando  nient’altro   se  non   l’esterno  del   corpo  umano,  noi  non  abbiamo  affatto   immaginato   che  esso  avesse   in  sé  a   sufficienza  organi,  o   ingranaggi,  per  muoversi  da  se  stesso  nelle   tante  diverse  maniere  in  cui  vediamo  che  esso  si  muove».     Uomo, B Op II 361/363: «Questi uomini saranno composti, come noi, di un’anima e di un corpo. E bisogna che vi descriva, a parte, in primo luogo, il corpo, poi, dopo, l’anima, anch’essa a parte; ed infine che vi mostri come queste due nature debbano essere congiunte ed unite in modo da comporre uomini che ci rassomiglino. Suppongo che il corpo non sia altra cosa se non una statua o una macchina di terra, che Dio forma di proposito per renderla quanto più possibile simile a noi, di modo che non solo le dia all’esterno il colore e la figura delle nostre membra, ma anche che ponga all’interno tutti i pezzi che sono richiesti per far sì che cammini, mangi, respiri e, infine, imiti tutte le nostre funzioni che si immagina possano procedere dalla materia e dipendere dalla sola disposizione degli organi. Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine simili che, pur essendo fatte da uomini, non per questo non hanno la forza di muoversi da se stesse in molti e diversi modi; e mi sembra che non saprei immaginare tante specie di movimenti in questa che suppongo essere fatta dalle mani di Dio, né attribuirle tanti artifici, che voi non abbiate motivo di pensare che ne possa avere ancora di più».

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maggio 1643 Epistola a Voetius teologo di Utrecht distinzione tra erudito e dotto Voetius non è un erudito, ma il dotto che la scuola produce e che usa la stessa arte dialettica «mediante la quale una volta i Sofisti, privi di ogni solida scienza, dissertavano e discutevano copiosamente di qualsivoglia argomento» (B Op I 1549; AT VIII-2 50). in questa epistola uno spaccato della vita accademica nelle Provincie Unite che fissa dall’interno immagini vive dell’insegnamento universitario e del peculiare legame tra Accademia, Chiesa riformata, magistrature cittadine. La distinzione fra ‘doctus’ ed ‘eruditus’ ed i tre generi di libri Essa riprende ed amplia, a proposito dei dotti, sia l’accenno presente nel Discorso («Considerando quante diverse opinioni su uno stesso argomento siano sostenute dai dotti»), sia, soprattutto, la definizione di bona mens delle Regole «Tutta l’erudizione, tutto il buon senso, tutta la sapienza umana» consistono nel buon uso della ragione; che la vera sapienza non consiste in «sillogismi disgiunti, ma soltanto in un collegamento avveduto e accurato di tutto ciò che è richiesto alla conoscenza delle verità che si cercano»; che la vera erudizione non dipende dai soli libri; che erudito è colui che pratica la meditazione solitaria, dotto è definito colui che non sa far buon uso della ragione. Il doctus usa l’arte della dialettica e la tecnica dei sillogismi disgiunti e, conoscendo solo indici e lessici, non solo non può diventare più sapiente, né migliore, ma, diventa anzi sempre più incapace di usare la ragione naturale e finisce con il sostituirla ‘con una artificiale e sofistica’. Di contro, l’eruditus usa correttamente la ragione naturale; legge i libri ricolmi di umana sapienza; conversa con praestantes vires; contempla le virtù e ricerca la verità; perfeziona «l’ingegno e i suoi costumi»; diventa, via via, sempre più capace di usare correttamente la ragione.[Belgioioso] La contrapposizione doctus/eruditus serve ad introdurre una serie di precisazioni a proposito di talune affermazioni avanzate nel Discorso su pregiudizi, librie letture: l’espressione ‘deporre i pregiudizi’ non va intesa, come vorrebbe Voetius, con ‘dimenticare’ quanto si è appreso (B Op I 1531), né come un invito a non ‘far uso dei libri’ (B Op I 1533; AT VIII-2 38). Nel Discorso sul Metodo, tutt’al contrario, si afferma «che noi cogliamo dalla lettura dei buoni libri il medesimo frutto che dalla conversazione con i grandi uomini che li hanno composti; e forse anche alquanto maggiore, per il fatto che essi sono soliti esprimere con gli scritti non qualunque pensiero ovvio, come in una conversazione familiare, bensì i loro pensieri migliori» (B Op I 1535). In effetti, questo giudizio sui buoni libri è all’interno di un elenco di effetti positivi che non scalfiva il giudizio negativo su un «intero corso di studi alla fine del quale si è solitamente annoverati tra i dotti» (B Op I 29; AT VI 4). Da questo il filosofo aveva, anzi, fatto scaturire il proposito «di non cercare altra scienza eccetto quella che avessi potuto trovare in me stesso o nel gran libro del mondo» (B Op I 35). Quanto a Voetius egli, in quanto dotto, si è formatosui libri cattivi. Descartes li distingue in tre generi: il primo è costituito da libri ‘malvagi e vacui’; il secondo da quelli ‘polemici’ «i cui autori, per spirito di parte, considerano

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spesso un atto di riguardo insultarsi l’un l’altro» (B Op I 1537); il terzo costituito da quelli che raccolgono «luoghi comuni, […] commentari, […] compendi, […] indici, e simili, che sono stati composti dalle varie sentenze di altri autori» […] L’erudito va, alle fonti, che, grazie ad una «lettura frequente e più volte ripetuta» (B Op I 1537) ‘trasforma in suo succo’. Da questo genere di libri deriva quella vera erudizione che tuttavia «non dipende dai soli libri», ma si alimenta anche della meditazione ‘solitaria’ e delle relazioni con gli altri. Rigorosa distinzione fra il dominio della filosofia e quello della teologia : la tesi della distinzione fra i due domini viene qui ricollegata da Descartes al tema della libertas philosophandi. Se «per quel che concerne la religione, è inopportuno voler introdurre delle novità: infatti, tutti sostengono di credere che la religione che abbracciano sia stata istituita da Dio, che non può sbagliare: e di conseguenza tutti credono che niente di nuovo possa essere introdotto in essa, che non sia pericoloso» (B Op I 1519), per quel che attiene al dominio della filosofia, invece, con l’esclusione di quanti «insegnano la vecchia filosofia, o qualche altra scienza ad essa connessa, qual è la teologia scolastica e la medicina» (B Op I 1529), tutti riconoscono che la filosofia è ‘ricerca libera’ e che, in quanto non «ancora ben conosciuta dagli uomini», può «essere accresciuta da molte egregie scoperte». In quest’ambito, conseguentemente, niente è più degno di lode «dell’essere un novatore» (B Op. I 1519). «Il filosofare […] è sempre stato talmente libero, e così tanti uomini hanno sinora sbagliato, senza conseguenze, nella conoscenza della natura che, quand’anche io sbagliassi dopo di loro, il genere umano non avrebbe da temere alcun pericolo » (B Op I 1493). Le verità che essa consente di conoscere sono quelle «che possono essere percepite con il lume naturale e che possono giovare all’umanità: a tal punto che nessuna occupazione può essere più onesta, più degna dell’uomo, e più utile in questa vita» (B Op I 1519).

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NIETZSCHE. LE PASSIONI

135. A Franz Overbecki <Sils-Maria, 30 luglio 1881> Sono assolutamente sbalordito, incantato! Ho un predecessore, e quale poi!ii Spinoza mi era quasi sconosciuto: il fatto che ne abbia sentito ora il bisogno, è stato un «moto istintivo». Non soltanto il suo orientamento complessivo coincide con il mio – nel considerare la conoscenza come la passione più potente– ma io mi riconosco anche in cinque punti fondamentali della sua storia; questo pensatore, il più singolare e il più isolato, è quello più vicino a me proprio in queste cose: egli nega il libero arbitrio, i fini, l'ordine morale dell'universo, il disinteresse, la malvagità. Anche se le differenze naturalmente sono enormi, esse tuttavia risiedono più nella diversità dei tempi, della cultura e della scienza. In summa, la mia solitudine, che tante e tante volte, come accade alle grandi altitudini, mi ha tolto il respiro e mi ha fatto sgorgare il sangue, ora almeno è una solitudine a due. Strano! Per il resto le mie condizioni non rispondono affatto alle mie aspettative. Anche una stagione insolita! Un continuo mutare delle condizioni atmosferiche! Questo mi spinge a lasciare anche l'Europa! Ho bisogno di cielo limpido per mesi, altrimenti non faccio il minimo progresso. Già sei attacchi violenti di due o tre giorni!! – Con vivo affetto il Vostro amico.

Al di là del bene e del male

23. Tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a pregiudizi e apprensioni

morali: essa non ha osato scendere nel profondo. Concepirla come morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: – questo non è stato da nessuno neppure sfiorato col pensiero: stando al fatto, cioè, che ci è consentito di riconoscere, in quel che finora è stato scritto, un indizio di quel che finora è stato taciuto. La forza dei pregiudizi morali è penetrata a fondo nel mondo più intellettuale, in apparenza più freddo e più scevro di presupposti – e, come è facile comprendere, in maniera nociva, inibitoria, accecante e distorcente.* Una peculiare fisio-psicologia deve lottare con resistenze inconsceienti poste nell’animo dell’indagatore, essa ha il “cuore” contro di sé: già una dottrina del vicendevole condizionamento dei “buoni” e dei “cattivi” istinti provoca, come più sottile immoralità, in una coscienza vigorosa e impavida, pena e disgusto, – più ancora una dottrina della derivabilità di tutti gli istinti buoni da quelli cattivi. Posto invece che qualcuno assuma addirittura le passioni dell’odio, dell’invidia, della cupidigia, della brama di dominio come passioni che sono condizioni vitali, come qualcosa di fondamentalmente e originariamente indispensabile alla complessiva economia della vita, qualcosa che deve quindi ulteriormente potenziarsi ove la vita debba essere ulteriormente potenziata – in questo caso egli soffrirebbe di un simile orientamento del suo giudizio come di un mal di mare. Eppure anche quest’ipotesi non è di gran lunga la più penosa e la più bizzarra in questo sterminato regno, quasi ancora nuovo, di pericolose conoscenze: – ed esistono, in realtà, cento buone ragioni perché ognuno se ne resti lontano, se . . . può! D’altro canto: se ci si è spinti

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fin qui con la nostra nave, ebbene! avanti! stringendo ora i denti da prodi! gli occhi ben aperti! la mano salda sul timone! – navighiamo, lasciandoci risolutamente dietro la morale, calpestiamo, schiacciamo forse, così facendo, i nostri stessi residui di moralità, mentre compiamo e osiamo il nostro viaggio laggiù – ma che c’importa di noi! Mai sino ad oggi un più profondo mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e avventurieri temerari, e lo psicologo in tal modo “compie il sacrificio” – non il sacrifizio dell’intelletto* al contrario! – potrà per lo meno pretendere che la psicologia sia nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e alla preparazione della quale è destinata l’esistenza delle altre scienze. La psicologia infatti è ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali.

117. La volontà di vincere una passione non è in fin dei conti che la volontà di un’altra o

di diverse altre passioni.

198. Tutte queste morali che si rivolgono all’individuo singolo, allo scopo – come si dice

– della sua “felicità” – che altro sono se non proposte di comportamento in rapporto al grado di pericolosità secondo il quale l’individuo singolo vive con se stesso; ricette contro le sue passioni, le sue tendenze buone e cattive, in quanto queste hanno la volontà di potenza e vorrebbero signoreggiare; piccole e grandi accortezze e artificiosità cui si è rappreso l’odore stantio di vecchi rimedi familiari e di una saggezza da vecchie donnicciole; tutte quante barocche e irrazionali nella forma – giacché vogliono indirizzarsi a “tutti” e generalizzano là dove non è lecito generalizzare –, tutte assolute nel linguaggio e atteggiantisi ad assolute, tutte condite non con un unico grano di sale, ma appena tollerabili e talora persino seducenti quando sanno sprigionare un effluvio saturo d’aromi e pericoloso, quello soprattutto “del mondo di là”; tutto questo ha poco valore, se lo si misura con l’intelletto, ed è ben lontano dall’essere “scienza”, tanto meno poi “sapienza”; è soltanto, diciamolo pure una seconda e una terza volta, accortezza, accortezza, accortezza commista a stupidità, stupidità, stupidità – sia che si tratti di quell’indifferenza e statuaria gelì-dità contro l’estuante follia delle passioni, consigliata e raccomandata come terapia dagli Stoici; o di quel non più ridere e non più piangere di Spinoza, della sua tanto ingenuamente perorata distruzione delle passioni mercé l’analisi e la vivisezione delle medesime; oppure di quella riduzione delle passioni a una innocua mediocrità al cui livello è lecito vengano soddisfatte, cioè dell’aristotelismo della morale; owerossia che si tratti anche della morale in quanto godimento delle passioni intenzionalmente assottigliate e spiritualizzate mediante il simbolismo dell’arte, ad esempio come musica, o come amore verso Dio e verso gli uomini per amore di Dio – giacché nella religione le passioni tornano ad avere diritto di cittadinanza, sempreché ...; o si tratti, infine, sinanche di quel condiscendente e malizioso abbandono alle passioni, quale hanno insegnato Hafis e Goethe, di quell’ardimentoso lasciar cadere le briglie, di quella spìrituale-carnale licentìa mortivi nel caso eccezionale di vecchi e

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saggi tipi originali e di beoni, nei quali tutto ciò “presenta ormai un lieve pericolo”. Anche questo per il capitolo “morale come pusillanimità”.

284. Vivere con una immensa e superba imperturbabilità; sempre al di là –. Avere e non avere a proprio talento le nostre passioni, il nostro pro e contro, concederci per qualche ora a esse, su di esse assiderci come su cavalli o spesso come su asini – si deve infatti saper utilizzare tanto la loro stupidità quanto il loro fuoco. Conservarci i nostri trecento prosceni; e pure gli occhiali neri: giacché esistono casi in cui nessuno deve guardarci negli occhi e ancor meno nei nostri “fondali”. E sceglierci per compagno quel vizio birboncello e gioviale che ha nome cortesia. E restare padroni delle nostre quattro virtù, coraggio, perspicacia, simpatia, solitudine. La solitudine è infatti presso di noi una virtù, in quanto sublime inclinazione e trasporto per la pulizia, i quali indovinano come nel contatto tra uomo e uomo-“in società” – debba risultare un’inevitabile mancanza di pulizia. Ogni comunità rende in qualche modo, in qualche cosa, in qualche momento – “volgari

Il crepuscolo degli idoli

Vi è per tutte le passioni un tempo in cui esse sono soltanto funeste, in cui deprimono le loro vittime con il peso della stupidità – e un tempo, più tardo, assai più tardo, in cui si sposano con lo spirito, si «spiritualizzano». Una volta, a causa della stupidità insita nella passione, si faceva guerra alla passione stessa: si congiurava al suo annientamento – tutte le antiche mostruosità morali concordano unanimemente sul fatto che «il faut tuer les passions». La più famosa formula al riguardo sta nel Nuovo Testamento, in quel Discorso della Montagna in cui, sia detto per incidenza, le cose non vengono assolutamente considerate dall’alto. Qui si dice, per esempio, con applicazione pratica alla sessualità, «se l’occhio tuo ti reca molestia, strappalo»:45 fortunatamente nessun cristiano agisce secondo questo precetto. Annientare le passioni e le brame, semplicemente per la loro stupidità e per prevenire le spiacevoli conseguenze della loro stupidità, non ci appare oggi che una forma acuta di stupidità. Non ammiriamo più i dentisti che strappano i denti perché non facciano più male ... Si ammetterà d’altro canto, non senza ragione, che sul terreno su cui è allignato il cristianesimo il concetto di «passione spiritualizzata» non poteva affatto essere concepito. La Chiesa primitiva combatteva anzi, come è noto, contro gli «intelligenti» a favore dei «poveri di spirito»:46 come ci si potrebbe aspettare da essa una guerra intelligente contro la passione? – La Chiesa combatte la passione con l’estirpazione in ogni senso: la sua pratica, la sua «terapia» è il castratismo. Essa non domanda mai: «Come si può spiritualizzare, adornare, divinizzare un desiderio?» – in ogni tempo essa ha messo l’accento della disciplina sulla distruzione (della sensualità, della superbia, della sete di dominio, dell’avidità di possesso, della bramosia di vendetta). – Ma attaccare le passioni alla radice significa attaccare alla radice la vita: la prassi della Chiesa è ostile alla vita . . .

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APPUNTI SU NIETZSCHE E DESCARTES IL PROBLEMA DEL METODO (G. CAMPIONI) 1. L’ “artigiano Descartes” contra Nietzsche “nobile e guerriero” “L’allure de Descartes est inoubliable”. L’avanzare del suo pensiero è uguale «in

rettitudine, in vigore limpido e senza affanno, al procedere algebrico. Ingegnere e architetto, Descartes ammassa meticolosamente, con sicurezza, senza esitazioni i grandi blocchi pesanti e puri dei suoi sillogismi di pietra [...]. Nietzsche ha senza dubbio un po’ di disprezzo per questa meticolosa lentezza, che giudica plebea [...]. Nietzsche disdegna i bisogni, servi del pensiero, che sono di concatenare, precisare, approfondire. Procede per illuminazioni [...] . Contro l’‘artigiano Descartes’, Nietzsche è ‘nobile e guerriero’»

Così si legge all’inizio del volume che ha per titolo Nietzsche, dove Thierry Maulnier cerca di definire l’andatura del creatore1. Il testo è interessante in quanto ripropone, attraverso queste due figure filosofiche, l’eterno confronto tra l’ esprit allemand e l’ esprit français, tra il misticismo eroico del germanesimo e il limpido razionalismo cartesiano della tradizione francese. Nietzsche è ‘tipicamente tedesco’, quindi ‘squilibrato per essenza’, indubbiamente stimolante ma essentiellement ‘différent’. Egli resta tutto dentro il misticismo germanico da cui si crede, a torto, affrancato: vittima dell’‘eredità romantica’ che invano ha rinnegato: «Nella Grecia, a cui ricorre, è il germanesimo greco ch’egli scopre»2. Qui, Maulnier riprende un consolidato, quasi indiscusso, luogo comune della tradizione interpretativa.

La sua lettura si impernia solo sul filosofo wagneriano/germanico e ‘antilatino’ della Nascita della tragedia che valorizza la musica del maestro come dionisiaca resurrezione dell’antichità classica, capace di ‘rigenerare’ la cultura tedesca. Fraintende, quindi, l’intero percorso compiuto da Nietzsche e, soprattutto, non tiene conto del fatto che liberatosi dalle pastoie wagneriane e schopenhaueriane, Nietzsche vedrà nei francesi del XVII secolo, gli eredi più genuini della grecità, un importante anello nella ‘grande catena del Rinascimento’. Le opere di Montaigne, La Rochefoucauld, La Bruyère, Fontenelle, «scritte in greco sarebbero state capite anche dai Greci» (Il viandante e la sua ombra, 214).— ha affermato il filosofo tedesco. La

1 Thierry Maulnier, Nietzsche, Paris, Gallimard, 1933, p. 17 e sgg. Citato in Jacques Le Rider, Nietzsche en France, de la fin du XIXe au temps présent, Paris, Puf, 1999, pp. 146-47. Le Rider coglie bene il significato di questo contrasto all’interno del confronto Francia-Germania. In particolare, non specificamente in relazione a Descartes, cfr. il capitolo II Nietzsche ‘romanisé’? Une controverse in cui l’autore riproduce e commenta importanti documenti tra cui, a tal proposito, le diverse posizioni, in diverse epoche di Elisabeth Förster-Nietzsche, ivi, pp. 25 e sgg. Sempre raccomandabile, inoltre, il pregevole libro di Geneviève Bianquis, Nietzsche en France, L’influence de Nietzsche sur la pensée française, Paris, F. Alcan, 1929. 2 Thierry Maulnier, cit., p. 224

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diversa lettura della Grecità e del XVII secolo significa una cesura definitiva col ‘germanesimo’: questo è visibile al lettore — non prevenuto — a partire da Umano, troppo umano, e più volte intenzionalmente sottolineato dal medesimo Nietzsche che afferma di essere ora «cento passi più vicino ai Greci, di quanto lo fossi prima...»3.

Löwith, nella sua rassegna delle letture più significative di Nietzsche (1894-1954), in appendice al volume sull’eterno ritorno, valorizza il testo di Maulnier. Löwith considera specificamente tedesco il tentativo nietzscheano di identificare uomo-mondo e, anzi, un fenomeno specificamente tedesco il medesimo Nietzsche: Maulnier, «in quanto francese, si colloca all’interno della tradizione cartesiana» e da francese «rifiuta tutti gli elementi essenziali della filosofia di Nietzsche». Troppo forte, personale e sofferto, il coinvolgimento di Löwith nelle vicende legate all’ideologia germanica e nazionalsocialista, come rivela il resoconto autobiografico4, per non abbandonare quel Nietzsche “compendio dell’antiragione tedesca o dello spirito tedesco” a cui aveva affidato la sua romantica e indifesa giovinezza fino a partire volontario nella prima guerra mondiale.

Questi i termini nei quali è diventata senso comune l’immagine di Nietzsche imposta dalla leggenda. Ad essa speculare è l’immagine di Descartes quale mitico rappresentante dello spirito nazionale francese. Ragione/misticismo, essere/divenire, classicismo francese/Romanticismo, ordine/caos, misura ‘umanistica’ /aspirazione al divenire sovrumano e inumano etc.: il confronto diventa la cifra che segna la distanza tra gli ‘spiriti nazionali’ divisi dal Reno.

La guerra mondiale aveva certo disperso e resa più difficile la lettura simpatetica e complessa che caratterizzava la prima ricezione di Nietzsche in Francia: venivano riproposti, da una parte e dall’altra del Reno, stereotipi nazionali di cui Descartes e Nietzsche erano rappresentativi. Visibili i percorsi di allontanamento. Il francese Julien Benda prima nietzscheano confesso, non esita a definire (nel 1927) il filosofo tedesco “il chierico che tradisce” mentre Léon Daudet nel 1932, dopo aver preso progressivamente le distanze da Nietzsche, parla del filosofo tedesco come di un ‘Attila metafisico’5. Dall’altra parte del Reno la mitizzazione germanica aveva trovato — in modo diverso ma altrettanto forte — progressivamente, fino a Bertram (1919) come poi all’interpretazione eroica e metapolitica di Alfred Baeumler (Nietzsche, der Philosoph und Politiker, 1931) il suo apogeo contro ogni possibile romanisation del filosofo. Ogni riferimento francese è letto come una ‘maschera’ polemica attraverso cui Nietzsche denunciava le insufficienze del Reich. La Francia, in questo

3 A Mathilde Maier, 15 luglio 1878, Epistolario III , p. 302 4 Karl Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano, Il Saggiatore 1988. 5Diverse, fin dall’inizio, le posizioni di George Sorel che vede in Socrate, Descartes, Voltaire, Rousseau, Comte i ‘grandi antenati’ della democrazia liberale e, quindi, della decadenza a cui contrappone i valori del pessimismo eroico dai confusi elementi nietzscheani. Ne Les illusions du progrès, (1908), richiamandosi direttamente a Taine e a Brunetière, Sorel vede nella filosofia francese “quella impronta razionalistica, del tutto particolare, che la renderà così gradevole agli uomini di mondo. La fisica cartesiana potrà essere abbandonata e perfino dichiarata ridicola dal secolo seguente, ma il cartesianesimo resterà sempre il tipo di filosofia francese, perché esso si adattava perfettamente alle tendenze di un’aristocrazia piena di spirito, che si piccava di ragionare ed era desiderosa di giustificare la propria leggerezza”, trad. it., a cura di R. Vivarelli, Utet, Torino1963, p. 467.

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modo, veniva ad essere il segno rovesciato delle ‘impossibilità’ germaniche del filosofo tedesco e il rapporto con la cultura francese appariva derivato — polemicamente derivato — da un primato germanico che Nietzsche mai avrebbe messo in discussione.

Non sono mancati comunque giudizi più equilibrati, quali quello del romanista Julius Wilhelm: «Nietzsche ha giudicato Descartes come filosofo con asprezza; egli dovette anzi respingerlo come rappresentante di una ‘psicologia razionale’ e di una teoria della conoscenza idealistico-dualistica. Ma in tanto gli ha usato giustizia, in quanto ha visto nella filosofia cartesiana il fondamento per l’atteggiamento spirituale (die geistige Haltung) del grande secolo diciassettesimo»6. E da parte francese, in questa direzione, voglio ricordare l’interpretazione “juste bien qu’incomplète” (Bianquis) di Èmile Faguet (1904), un critico letterario e teatrale di largo successo — pubblicava sul “Journal des Débats” — , professore alla Sorbona, e dei cui primi scritti7, probabilmente, Nietzsche aveva letto qualcosa. Pur criticando, da un punto di vista moralistico e conservatore, l’aspetto ‘neroniano’-istrionico di Nietzsche che fa presa sulla colorata e ‘grottesca’ congerie di lettori più sprovveduti e superficiali, è proprio Faguet a valorizzare nel filosofo il ‘Don Juan de la connaissance’ e l’avventuriero dello spirito - più radicale di Montaigne, Sainte-Beuve, Renan (p.43) -. Egli sottolinea che, attraverso la Francia (p. 9), Nietzsche si affranca ben presto dal romanticismo e dal germanesimo (“il était né Allemand, sans l’avoir demandé” p. 6) e afferma il legame che il filosofo pone, nella comune, assoluta volontà di chiarezza, fra la classicità dei Greci e quella dei Francesi (“absolument féru des Français des XVIIe et XVIIIe siècles et des Grecs du temps de Sophocle”) (p. 30) “il a adoré la clarté grecque et la clarté française” (p. 303). “Il voulait voir clair absolument et jusqu’au fond dans les autres, dans lui-même, dans les idées et dans les systémes” (p. 3). La ‘probité intellectuelle’ e la passione della conoscenza sono un tratto distintivo di Nietzsche che afferma le “passioni come manifestazioni della vita” nella stessa direzione di Descartes (“les passions en elles-mêmes sont des choses saines, comme savait déjà le dire Descartes”: p. 190). Non l’originalità caratterizza la filosofia di Nietzsche (“avec La Rochefoucauld, Goethe e Renan on le reconstituerait tout entier assez facilement”) ma la capacità di liberarsi dal peso della tradizione — ‘disloquant et dissolvant avec maîtrise’ (p. 320) — e la decisione di poggiare su se stesso. In questo si incontra con Descartes: “Et, précisément, surtout, Nietzsche, a rendu au monde l’immense service d’être loyal, d’être brave, de ne s’incliner devant aucun préjugé, ni même devant aucune doctrine vénérable, de ne reculer devant aucune idée de lui, si scandaleuse qu’elle pût paraitre, de tout remettre en question, intrépidement, comme Descartes, plus, je crois, plus à fond que Descartes lui-même; d’avoir eu un imperturbable courage intellectuel, qu’il pousse quelquefois jusqu’à la forfanterie; mais c’est le défaut de la qualité, a quoi il faut toujours s’attendre et de quoi il faut toujours prendre son parti”. Si tratta di esempi isolati e di letture precedenti la prima guerra mondiale. Camus, da una ottica e in un contesto del tutto diversi, pone, nel capitolo de L’uomo in rivolta (1951), dedicato a ‘Nietzsche e il nichilismo’, una

6Julius Wilhelm, Friedrich Nietzsche und der französische Geist (Hamburg, 1939), p. 25 7 A partire dal 1887, pubblica una serie diEtudes littéraires: il primo dedicato a scrittori del XVII secolo (da Descartes e Malebranche fino a La Bruyère e Saint-Simon). Dello stesso anno il volume dedicato agli scrittori del XIX secolo.

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analogia tra la pratica della ‘negazione metodica’ degli idoli che mascherano la morte di dio, e il dubbio metodico cartesiano: “A suo modo Nietzsche ha scritto il Discorso sul metodo del proprio tempo, senza la libertà e l’esattezza di quel Seicento francese che tanto ammirava, ma con la folle lucidità che caratterizza il XX secolo”8.

Generalmente, in Francia, la ricerca di una via nazionale, passa dalla volontaria ‘epurazione’ dei capostipiti dell’Action française (Maurras) da influssi nietzscheani e quindi germanici: “Nous avons découvert la Méditerranée tout seuls”9: In tal modo si arriva a Descartes e alla valorizzazione del metodo e l’esempio più significativo di questa via nazionale è visto in Maurice Barrès, lo scrittore che, nel 1889 (Un homme libre), aveva ossessivamente posto al centro della sua ricerca l’individuazione del metodo necessario per arrivare a essere se stessi. E poco importa se il metodo, per Barrès, invece che legittimare l’evidenza razionale, individua l’identità di un inconscio razziale e se la sua tabula rasa è divenuta solo epurazione da tradizioni non ‘indigene’.

In un panorama che, complessivamente, tende a separare e opporre simbolicamente e — in certa misura — ideologicamente Nietzsche e Descartes, si pone, in modo innovativo, Heidegger. Con una mossa che scarnifica, Heidegger avvinghia l’uno all’altro i due filosofi in un processo metafisico-destinale, che li sovrasta e li segna. Paradossalmente: la vicinanza si ha in una direzione opposta a quella voluta da Nietzsche, attraverso la ‘germanizzazione’ di Descartes. Heidegger, mettendo in campo e facendo valere problemi che appartengono essenzialmente ad una tradizione estranea al cartesianesimo, arriva a dire che “Descartes celebra il suo trionfo sommo nella dottrina del superuomo”. A suo giudizio, Nietzsche “si rivolge di continuo contro Descartes, la cui filosofia è la fondazione della metafisica moderna” perché Descartes non ha ancora posto l’uomo in modo sufficientemente completo e deciso come subiectum. La metafisica di Descartes è l’inizio decisivo della metafisica moderna in quanto ha avuto il compito di “fondare il fondamento metafisico per la liberazione dell’uomo nella nuova libertà in quanto autolegislazione sicura di se stessa” 10. Descartes ha fondato in anticipo il fondamento metafisico della nuova libertà dell’età moderna: il cogito è la certezza che fonda il fondamento della nuova libertà.

Il rapporto tra i due filosofi è essenziale per comprendere la lettura ‘metafisica’ di Nietzsche proposta da Heidegger. Importante, dal mio punto di vista, sottolineare che Heidegger evidenzia giustamente la “connessione storica che non è dipendenza storiografica”, riconoscendo che i confronti con i grandi pensatori in Nietzsche avviene per lo più sulla scorta di scritti filosofici su questi pensatori. Tali confronti, per questo modo di procedere di Nietzsche, “sono già problematici nei dettagli” (p. 678). Descartes non fa eccezione. Per questo, la lettura nietzscheana di Descartes è un insieme di interpretazioni erronee, ma anche di ‘intellezione essenziale’.

8 Albert Camus, pp. 77-78 9 Citato in G. Bianquis, op. cit., p. 51. 10 M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Milano Adelphi, p. 656.

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Per Nietzsche il confronto con Descartes vale come confronto par excellence con una civiltà, quella francese del XVII secolo, che egli giudica superiore. In questo confronto raramente Nietzsche va direttamente alle fonti: il materiale per valorizzare Descartes e il Seicento in funzione consapevolmente/strategicamente antigermanica, è ricavato ad esempio da Brunetière, da manuali di letteratura, ad esempio quello di Paul Albert, da autori francesi minori come Joly e Saint-Ogan. Seguendo queste tracce, credo possa essere messa a fuoco, al di là di interessati e riduttivi stereotipi nazionali, ormai lontani, un immagine più complessa di quella di un Nietzsche esclusivamente mistico/romantico/germanico.

In questa direzione troviamo Paul Bourget, un autore sul quale dovremo soffermarci per la sua centralità. In lui, conviene fin da ora precisarlo, con più nettezza, Nietzsche ha trovato i termini del confronto tra ‘l’eprit latin’ (di cui Descartes con il suo Discours de la méthode è l’esemplificazione costante e più forte). e “l’eprit germanique”(il ‘divenire’ romantico): “d’un côté, appliqueée à l’art dramatique, au conte, à la métaphysique, c’est la méthode ordonnatrice et volontiers déductive qui emploie de préférence l’analyse, la simplification et la succession; de l’autre, c’est la même vue de choses, complexe et synthétique, désordonnée et divinatrice, qui embrasse à la fois plusieurs objets. Racine, l’abbé Prévost et Descartes semblent considérer la vie comme une réalité definie, fixe et nette en se lignes, tandis qu’au regard de Shakespeare, de Goethe et de Carlyle, cette même vie paraît un je ne sais quoi de mouvant et d’indéterminé, peut-être un songe, toujours en train de se faire et de se défaire. La première de ces deux méthodes s’est surtout développée chez les peuples de tradition gréco-latine qui lui ont dû leur art de logique et de belle clarté. La seconde a porté ses meilleurs fruits chez les Allemands et les Anglais, qui lui doivent leur art de suggestion et de profondeur”11. La confusione di elementi provenienti dalle due tradizioni culturali la cui ‘metafisica’ procedeva da un fondo fisiologico, da une cause initiale et costitutive, poteva produrre i ‘casi’ più interessanti della décadence, nature ibride e complesse: da Baudelaire ad Amiel. Nietzsche accetta questa caratterizzazione, rendendola più articolata e sfumata, in particolare il confronto tra la chiarezza che conquista una forma definita e l’oscurità caotica che si lega all’inquietudine del divenire.

La sua ultima parola, in tale direzione, è affidata ad Ecce homo, l’autobiografia scritta per “distruggere alla radice ogni mito” possibile sulla propria persona dove l’antigermanesimo diventa lo sfondo preliminare alla necessaria “pulizia” del pensiero: i Tedeschi “non sono mai passati attraverso un diciassettesimo secolo di duro esame di se stessi, come i Francesi: un La Rochefoucauld, un Descartes sono cento volte superiori per rettitudine ai primi fra i Tedeschi, che finora non hanno avuto un solo psicologo” (EH, Il caso Wagner, 3).

2. La ‘menzogna necessaria’ e la ‘veracité du Dieu de Descartes’

11P. Bourget, Amiel, in Nouveaux Essais de psychologie contemporaine, Paris 1886, BN, p. 258.

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Descartes (del tutto assente nei precedenti scritti giovanili) è richiamato da Nietzsche, per la prima volta, nella Nascita della tragedia. Nell’ottica della ‘metafisica dell’arte’ che vede come avversario dello spirito tragico il socratismo (Socrate rappresenta il mistagogo della scienza) Descartes è evocato accanto ad Euripide, colui che distrugge la tragedia distruggendo il mito: “una divinità doveva garantire al pubblico lo svolgimento della tragedia e togliere ogni dubbio sulla realtà del mito, in maniera simile a quella in cui Descartes poté dimostrare la realtà del mondo empirico solo appellandosi alla veracità di Dio e alla sua incapacità di mentire. Della stessa veridicità divina Euripide ha bisogno di nuovo a chiusura del suo dramma, per assicurare il pubblico circa l’avvenire dei suoi eroi: è questo il compito del famigerato deus ex machina”.

Qui il riferimento è solo in apparenza occasionale ed esterno: il suo senso è più complesso. L’argomentazione sembra derivare da Schopenhauer. Il primo saggio dei Parerga (Schizzo di una storia della teoria dell’ideale e del reale), inizia con la forte valorizzazione del filosofo francese ‘a buon diritto padre della filosofia moderna’: “ha avviato la ragione a reggersi sulle proprie gambe, con l’insegnare agli uomini a servirsi del proprio cervello, sino allora duplicemente sostituito dalla Bibbia e da Aristotele”12. Descartes, per Schopenhauer “è divenuto cosciente per la prima volta del problema dell’ideale e del reale [...] scoprì l’abisso che separa il subiettivo, o ideale, dall’obbiettivo, o reale, ed espresse questa sua tesi nel dubbio sull’esistenza del mondo esterno”. Schopenhauer arriva a dire: “a rigore, il suo celebre principio [“dubito, cogito, ergo sum” — che scopre che l’unica cosa data realmente e incondizionatamente è l’autocoscienza — ] equivale al mio punto di partenza: “il mondo è la mia rappresentazione”. L’unica differenza sta nel fatto che egli pone in rilievo l’immediatezza del soggetto ed io la mediatezza dell’oggetto”13 (p. 20). Descartes prova poi l’esistenza del mondo partendo dall’esistenza e dalla veracità di Dio “misero espediente per uscire dalla difficoltà: il buon dio non ci vorrà certo ingannare”. Schopenhauer indica quella che fin dai primi interpreti (Malebranche, Spinoza etc.) era apparsa una difficoltà ed una debolezza della metafisica di Descartes: la soluzione cartesiana è estrinseca e, per questo, sottolinea la profondità e il permanere del problema del rapporto tra ideale e reale. Il ‘misero espediente’ deprecato da Schopenhauer corrisponde al deus ex machina evocato dal giovane Nietzsche a proposito della scena teatrale di Euripide: la spiegazione ad ogni costo è imposta dal primato di una razionalità vincolata alle categorie dell’individuazione (spazio, tempo, causalità); ma essa rimane del tutto esterna e inadeguata rispetto al fondo tragico inesplicabile che muove gli eventi. E’ questa un’esigenza pratica e di sicurezza che può soddisfarsi, comunque, solo attraverso una inventio, una fictio: ancora un’ illusione lontana però da quella sublime illusione artistica che permette invece un rapporto non distruttivo col fondo vitale. «La causalità è il mezzo per sognare profondamente, l’artificio per ingannare se stessi sull’illusione, l’apparato più sottile dell’inganno artistico» (Inizio 1881, 10[E94]). Nel passaggio dalla ‘consolazione metafisica’ allo

12Tale giudizio (“Cartesio fu uno spirito grandemente insigne”) è ripreso in Die Welt, ( I, Appendice) dove maggiormente Schopenhauer insiste sulla mancanza di consequenzialità nella “liberazione del pensiero da ogni catena” e sulla “scepsi ancora priva di serietà autentica e perciò così malamente e prestamente cedente”.(p. 589) 13 Già nella Quadruplice radice Sch. mostra grande interesse per il filosofo francese (par. 7).

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‘scioglimento’ mondano di un intreccio mediante un deus ex machina si consuma la fine della tragedia14.

Più in profondo: la pretesa ‘veracità’ del Dio che non inganna si contrappone al ‘dio ingannatore’ che irretisce nell’illusione artistica. In un frammento del 1872-73 (19[138]), schema per un lavoro da fare in ‘apologia dell’arte’, si legge: “ della ‘menzogna necessaria’ e la veracité du dieu des Descartes”. La giovanile ‘metafisica dell’arte’, propone un dio che sogna e il mondo come l’ingannevole sogno del dio/Ur-Ein; e presuppone, vuole, il dio che inganna (artisticamente) attraverso ‘l’istinto’. L'accettazione di meccanismi di illusione — gli istinti — funzionalizzati alla costruzione di una civiltà superiore, è imposta dal postulato dell’impossibilità pratica della negazione della vita: l'istinto si esprime direttamente come volontà che sottomette con l'inganno l'individuo. La struttura di questo inganno è quella individuata da Schopenhauer nella ‘metafisica dell'amore sessuale’: l'istinto è illusione che perpetua la volontà di vivere, è l'inganno da parte del “genio della specie” a spese dell'individuo. L'arte e il mito sono l'immagine illusoria più alta di seduzione alla vita: “correggere il mondo — ecco la religione o l'arte. Come deve apparire il mondo, perché valga la pena di vivere?”15. La scelta per la Grecità è lontana dal puro dionisiaco (letargico) come dal “nefando ottimismo” alessandrino del mondo moderno: la civiltà greca è una costruzione piramidale che ha al suo culmine la realtà del genio, ed è saldamente vincolata alla vitalità dell'istinto. In tal modo essa mantiene un rapporto non distruttivo con il fondo tragico che nel genio soddisfa in modo potenziato la sua capacità artistico-rappresentativa. Saggezza tragica significa adeguarsi all'inconscia teleologia della natura: l’ Uno primordiale, il dio che inganna, si libera dalla contraddizione originaria attraverso le belle immagini del sogno.

Il tema, centrale, dell’inganno del Dio e del carattere ‘ingannevole’ della natura, verrà ripreso da Nietzsche più volte negli anni della maturità a caratterizzare la posizione di Descartes come non sufficientemente radicale: “il Dio moralmente fatto come noi” è il presupposto della stessa ricerca della verità che non può quindi spingersi fino in fondo. “Lasciato da parte questo Dio è lecito domandarsi se l’essere ingannati non faccia parte delle condizioni di vita” (36[30]). E ancora: “la confutazione di Dio, propriamente solo il Dio morale è confutato [...]. Punto di partenza. Ironia contro Descartes: posto che ci fosse in fondo alle cose qualcosa di ingannevole da cui derivassimo, a cosa gioverebbe de omnibus dubitare, Potrebbe essere il più bel mezzo per ingannarsi. Inoltre: è possibile?” (39[13]). Nella soluzione è contenuto ciò che si cercava: non si ricerca la verità ma la sicurezza; la volontà che inganna se stessa pone immediatezze e certezze (ed anche ‘chiarezza’ e ‘semplicità’) dove ancora è da dubitare e porre in crisi. La parte profonda dell’uomo corporeo vuole rassicurazioni e le trova nell’inganno vitale, nell’errore vitale: la ricerca della “verità” cioè “un mondo che non si contraddica, che non illuda, non cambi, un mondo vero un mondo in cui non si soffra...” (9[60] Autunno 1887). Si confida sulla ragione come capace di correggere gli inganni dei sensi (“ingannatori, bugiardi, distruttori”) e di

1414[2]' kgw='III-3.395' ksa='7.375' 15 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente, in KGW, III, III, p.105; Opere, III, III/1, p. 99.

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condurre a ciò che permane: “Il disprezzo di Descartes per tutto ciò che muta; parimenti quello di Spinoza”16.

La volontà di verità è desiderio di un mondo permanente, di ‘sostanze’ che le strutture grammaticali - con la loro ‘metafisica incorporata- contribuiscono a creare: “A prescindere dalle istitutrici, che ancor oggi credono nella grammatica come veritas aeterna e quindi come soggetto, predicato e oggetto, nessuno è più oggi tanto innocente da porre ancora, alla maniera di Descartes, il soggetto “io” come condizione del “penso”” (1885, 40[20]). Il cogito è il prodotto della immaginazione, una finzione, una invenzione, una illusione, non il percorso intenzionale della ragione. Dietro le ‘imprudenze’ teoriche di Descartes si nasconde la superiore saggezza di un essere vivente, di un corpo, che pone le ‘sue’ condizioni di vita17.

La possibilità di un ‘Dio che inganna’ al centro della giovanile metafisica si trasforma ora in ‘Chaos sive natura’, dispositivo antimetafisico che opera contro ogni teleologia: “La natura non inganna noi individui e non promuove i suoi scopi abbindolandoci; bensì siamo noi, gli individui, a costringere tutta l’esistenza in metri individuali, cioé sbagliati” (FP 1881, p. 280). Se la scienza fisica oggi può concordare “con tutti i metafisici sul fatto che noi viviamo in un mondo di illusione; è fortuna che su ciò non si debbano più fare i conti con un Dio, sulla cui ‘veracità’ si potrebbero pensare cose strane. Il carattere prospettivistico del mondo giunge fin dove arriva oggi la nostra ‘comprensione’ del mondo”18 E’ il prospettivismo degli istinti e dei bisogni che fissa, rispetto al caos delle forze, unità e ‘sostanze’, causalità e forme, errori primari che permettono la vita. “Confutazione del dio morale che non inganna: “il diavolo inganna, crea intelletti che ingannano”” (39[14])

Il Nietzsche metafisico vedeva, dunque, nel razionalismo antico (Socrate/Euripide) e in quello moderno (Descartes) le forze negative capaci di distruggere la bella illusione legata alla

16 9[160] autunno 1887. Questa breve annotazione viene ripresa letteralmente da Paul Albert (1827-1880) Maître de Conférences à l'École Normale Supérieure e dal 1878 professore di letteratura francese moderna al College de France: “Or Descartes professait un mépris absolu pour tout ce qui est sujet à changement, pour tout ce qui passe, tout ce qui se modifie indéfiniment”. (La littérature française au dix-neuvième siècle. Tome deuxième, Paris: Hachette et C.ie, 1885, p. 5). La sottolineatura è di Nietzsche; Il brano presenta anche una linea a margine. E’ questo un esempio di extratesto, (una lettura, una sottolineatura) che diventa testo, appunto di Nietzsche. Cfr. anche: 9[26] (autunno 1887). La riflessione su Descartes è all’interno di una forte valorizzazione, da parte di Paul Albert, del senso storico del XIX secolo. Il brano citato continua: “A quoi bon étudier les hommes? Il faut étudier l’homme. Supprimons toutes les réalités passagères. Voilà une des causes pour lesquelles il n’y a pas eu d’histoire au XVIIe siècle”. Paul Albert, ha scritto altresì ne La littérature française au dix-septième siècle, (Paris: Hachette, 1878) un saggio su Descartes, di forte valorizzazione, che Nietzsche ha letto. Descartes, in tutte le scienze, è stato un novateur, un creatore; ha intravisto ‘la sintesi universale’, resta grande per il suo metodo, la raison sostituita all’autorità inaugura la libera ricerca (p.59). “Corneille, Racine, Pascal, La Rochefoucauld, la Bruyere, Bourdaloue, Bossuet, Mme de la Fayette, tous ces écrivains procèdent plus o moins directement de Descartes (p. 68)” anche sul silenzio verso la politica e la religione. (...) Descartes porta in sé: “avant de rien écrire, une ardeur de foi, une passion pour la verité et la science qui ne purent s’épancher sans imprimer à l’oeuvre quelque chose de la flamme intérieure”. Descartes pensa in latino, e traduce se stesso da quella lingua: “C’est le langage même de la raison; seulement on croit encore saisir ça et là comme l’écho de la lutte soutenue, on voit briller comme un éclair de la tempête domptée” (p. 71) Nella biblioteca di Nietzsche vi sono, oltre a quelle citate, altre due opere di Paul Albert: La littérature française des origines à la fin du XVI siècle Troisième édition, Paris: Hachette et C., 1878, La littérature française au dix-huitième siècle, Paris: Hachette et 1876, p. 5. Su Paul Albert si veda Bérard-Varagnac, Portraits littéraires, Paris, C. Lévy, 1887, pp. 233-251. Il testo è nella biblioteca di Nietzsche. 17 Cfr. Sarah Kofman, Descartes piégé in Nietzsche et la scène philosophique, UGE, Paris 1979, pp.227-261. 18 40[39] agosto-settembre 1885

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vita istintuale: il ‘razionalismo’ è esso stesso un’illusione ottimistica, di più basso valore, che conferma e rinchiude l’individuo nelle maglie del fenomenico scambiato per la vera realtà. Ma sullo sfondo - progressivamente - si fa avanti, come figura alternativa al genio-artista, il filosofo che non accetta l’inganno del Dio, portatore del ‘pathos della verità’, che scuote il dormiente, che sveglia l’uomo che sogna “sospeso, per così dire, sul dorso di una tigre”.

Nietzsche mette in luce nei filosofi presocratici la lotta contro il mito, la posizione

favorevole alla scienza ed alla conoscenza contro le religioni del tempo. Le sue lezioni sui preplatonici presentano vari excursa legati alla riflessione sulle scienze naturali a lui contemporanee. In quei filosofi, trova nuove concrete possibilità di una vita superiore che sa fare a meno del mito che illuminava, ma anche circoscriveva, la ‘polis’. Si avverte un ‘piglio cartesiano’ nella decisione di rinunciare alla tradizione: i filosofi presocratici si spogliarono del mito che faceva risplendere la vita dei Greci, eppure riuscirono a vivere in modo superiore. L’individuo “vuole poggiare su se stesso”19, questi filosofi scelsero un modo di vita al di fuori delle illusioni “in cui le difficoltà sono enormemente accresciute... Chi vuole la conoscenza dovrà sempre nuovamente abbandonare la terra su cui vive l’uomo, avventurandosi nell’incertezza; e l’impulso che vuole la vita, dovrà sempre nuovamente cercare a tastoni un luogo abbastanza sicuro, per potersi fissare su di esso” (6[48] 1875). Alla immediata intuizione geniale e al ‘sogno vero’ dell’arte, centrali nella Nascita della tragedia, si contrappone ora un cammino ordinato, un difficile percorso di liberazione.

4. Le battaglie di Descartes In questi termini, intorno agli anni 1875-1876, matura il ‘nobile tradimento’ di

Nietzsche, ossia l’affermazione della superiore fedeltà a se stesso e al proprio corso, interrotto dall’oscuramento romantico sentito come un arresto, una deviazione, una ‘malattia’. Umano, troppo umano, pubblicato nel maggio del 1878, rappresenta l’evento decisivo della ‘grande separazione’ da tutto ciò che aveva venerato e l’inizio della sperimentazione di nuove possibilità di vita. Nella prima edizione, consacrata alla memoria di Voltaire per celebrarne l’anniversario della morte, in luogo di una prefazione si trova un brano dalla terza parte del Discorso sul metodo di Descartes.

« “— per un certo tempo considerai le occupazioni disparate, alle quali gli uomini si abbandonano in questa vita, e feci il tentativo di scegliere la migliore tra queste. Ma non è necessario, qui, raccontare quali pensieri mi vennero nel far ciò; basti dire che, per parte mia, nulla mi sembrò essere meglio che attenermi rigidamente al mio proposito, vale a dire: impiegare tutto il tempo della vita a sviluppare la mia ragione e a seguire le tracce della verità così come io

19 Ivi, p. 161.

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mi ero proposto. Giacché i frutti che già avevo gustato mettendomi su questa strada erano tali che, secondo il mio giudizio, non si può trovare in questa vita nulla di piuù gradevole e di più innocente; oltre a ciò, da quando mi ero giovato di quel modo di considerare le cose, non passava giorno senza che io non scoprissi qualcosa di nuovo, che era sempre di un qualche peso e niente affatto conosciuto dalla generalità degli uomini. La mia anima finalmente divenne allora così piena di gioia , che tutte le altre cose non potevano più offenderla in alcun modo”. Dal latino di Cartesio».20

Anche l’attribuzione di questo passo, inizialmente nell’edizione Grossoktav-Ausgabe, (Leipzig 1895 sgg.) poi in Schlechta (1954 sgg), ripresa nella prima edizione Colli-Montinari (1965)21, genericamente alle Meditationes, è indicativa, non solo di una scarsa attenzione filologica ai testi, ma anche di una linea interpretativa che sanciva l’incomunicabilità tra due filosofie ormai presentate come definitivamente estranee l’una all’altra. Ciò ha portato a una conseguenza di errori tra cui, data l’autorevolezza, quello di Walter Kaufmann che scrive: “il fatto che il suo libro successivo Umano, troppo umano, avesse nella sua prima edizione come prefazione una lunga citazione dalle Meditazioni di Descartes, suggerisce che probabilmente le Betrachtungen furono così chiamate dall’opera di Descartes”22.

Il brano dal Discorso sul metodo di Descartes è importante: se la dedica e i frequenti riferimenti negli aforismi a Voltaire come espressione della ‘libertà dello spirito’, sono l’accecante simbolo della rottura di Nietzsche con il suo passato wagneriano ed hanno il sapore della provocazione23, il motto rafforza e sintetizza il nuovo spirito che anima l’intrapresa della conoscenza ed ha veramente il senso di una prefazione.

20 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches : (An Stelle einer Vorrede), in KGW, IV, II, p. 3; Opere, p. 489. Per il brano citato cfr.: R. Descartes, Specimina philosophiae, ristampa anastatica dell’edizione 1644: a cura di J-R. Armogathe, G. Belgioioso, Conte, Lecce, 1998, p. 25 (ma cfr. anche Dissertatio de Methodo, traduz. latina di Etienne de Courcelles, in AT VI 555. La traduzione tedesca di Nietzsche è la seguente: “eine Zeit lang erwog ich die verschiedenen Beschäftigungen, denen sich die Menschen in diesem Leben überlassen und machte den Versuch, die beste von ihnen auszuwählen. Aber es thut nicht noth, hier zu erzählen, auf was für Gedanken ich dabei kam: genug, dass für meinen Theil mir Nichts besser erschien, als wenn ich streng bei meinem Vorhaben verbliebe, das heisst: wenn ich die ganze Frist des Lebens darauf verwendete, meine Vernunft auszubilden und den Spuren der Wahrheit in der Art und Weise, welche ich mir vorgesetzt hatte, nachzugehen. Denn die Früchte, welche ich auf diesem Wege schon gekostet hatte, waren der Art, dass nach meinem Urtheile in diesem Leben nichts Angenehmeres, nichts Unschuldigeres gefunden werden kann; zudem liess mich jeder Tag, seit ich jene Art der Betrachtung zu Hülfe nahm, etwas Neues entdecken, das immer von einigem Gewichte und durchaus nicht allgemein bekannt war. Da wurde endlich meine Seele so voll von Freudigkeit, dass alle übrigen Dinge ihr Nichts mehr anthun konnten” (aus dem Lateinischen des Cartesius). 21 Cfr. GOA, II, p.432 sgg, Schlechta, Werke, III, p. 1385-86; Colli-Montinari, Opere , IV, II, p. 489 (KGW, IV, 4, p. 45). La seconda edizione Colli-Montinari (F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, DTV, München und de Gruyter, Berlin 1980, vol. XIV, p.116-117) corregge l’errore. La scoperta dell’errore si deve a Robert A. Rethy, The Descartes Motto to the first edition of Menschliches, Allzumenschliches, in “Nietzsche-Studien”, Bd. V, 1976, pp.289-297. 22 (trad. it. p. 55) 23E come provocazione fu avvertita la simbolica presenza del filosofo francese in Umano, troppo umano, da Wagner che, come risulta dai Diari di Cosima, in questo periodo torna più volte su Voltaire, di cui rilegge le opere, con giudizi fortemente critici: fin dal momento in cui riceve per posta il libro di Nietzsche: “25 aprile 1878: "Verso mezzogiorno, riceviamo un nuovo scritto dell'amico Nietzsche — sentimento di viva inquietudine dopo la prima occhiata; R. ritiene di rendere all'autore un servizio di cui dovrà essere grato, non leggendolo. Vedo in questo, mi sembra, molta ira e rabbia repressa., e R. ride di cuore, quando gli dico che, se vi é un uomo che sarebbe stato incapace di capire La nascita della tragedia questo è proprio Voltaire qui celebrato" (Tagebücher II, 87); Si veda anche, per es.,: 28 maggio: "R. voleva

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Il motto introduce infatti due tematiche centrali: il metodo e la gioia/passione della conoscenza Il metodo è contrapposto alle pretese intuizioni immediate del genio metafisico cadute in grembo improvvisamente, per ‘ispirazione’. Ad esse Nietzsche oppone la necessità di un ‘cammino’ ordinato e per gradi verso la conoscenza, il ‘metodo’. Descartes segna l’inizio di una nuova via che Nietzsche vuole intraprendere con maggiore radicalità e senza le esitazioni che avevano caratterizzato Voltaire e gli esprits forts del secolo XVIII: “La figura dello spirito libero è rimasta incompiuta nel secolo scorso — aveva già scritto in un frammento postumo, di qualche anno precedente Umano, troppo umano —: essi [gli esprits forts] negarono troppo poco e conservarono se stessi” (FP 16[47] 1876).Il metodo cartesiano viene, dunque, radicalizzato in quanto incompiuto, e indica con sicurezza la via da seguire opposta ora a quella del genio schopenhauriano24 con la cattiva illusione dell’immediatezza e la mistificazione dell’intuizione privilegiata. “Il perfetto non sarebbe divenuto”: il sapere è processo anche se, nella necessaria presentazione scenica del genio che ha bisogno di venerazione, non deve comparire.“La compiuta arte della rappresentazione respinge ogni pensiero circa il divenire; essa tiranneggia come perfezione presente” (UMANO, TROPPO UMANO 162). Nietzsche critica come cattiva mitologia e mistificazione l’occultamento del lavoro, l’illusione dell’istantaneità nella genesi dell’opera d’arte che caratterizzavano gli atteggiamenti romantici e metafisici di Wagner (UMANO, TROPPO UMANO 145). “Anche il genio non fa nient’altro che imparare, prima a porre le pietre e poi a costruire, che cercar sempre materiale e plasmarlo continuamente. Ogni attività dell’uomo è complicata fino a sbalordire, non solo quella del genio: ma nessuna è un “miracolo”” (UMANO, TROPPO UMANO 162). Ancora nel 1885, Nietzsche vede in Schopenhauer un rappresentante dell’“esultante reazione al razionalismo di Descartes [...] a favore dell’intuitivo” in quanto, in continuità con la filosofia idealistica tedesca, pone la Volontà come una nuova facoltà: “attraverso essa si imparò a credere in una specie di “apprensione intuitiva ed istintiva della verità”: “Si credette che la via della conoscenza fosse ormai accorciata, che si potessero affrontare le “cose” direttamente, si sperò di “risparmiare lavoro”, e ogni felicità che nobili perdigiorno, virtuosi, sognarori, mistici, artisti, cristiani per tre quarti, oscurantisti politici e concettuali ragni metafisici sono capaci di sentire, fu ascritta a onore dei Tedeschi”25.

E’ nota e ampiamente discussa la posizione critica di Nietzsche che matura proprio negli anni Ottanta nei confronti del cogito: Descartes è rimasto impigliato ‘nella trappola delle parole’, ha creduto all’’io come sostanza’, non ha portato a fondo la critica e il dubbio. E’ stato anche segnalato, come tale messa in discussione del cogito cartesiano abbia come premessa — talvolta negli stessi termini letterali — le formulazioni di Teichmüller26. Pur nella critica, come mostra

divertirsi e mandare al prof. Nietzsche un telegramma di auguri per il compleanno di Voltaire, ma l'ho dissuaso e anche in questo caso, come in altre occasioni, mi sono pronunciata a favore del silenzio".(p. 101). 24 Su questo tema cfr. Metodo/cammino contra il genio schopen–haueriano (MA 155,156,163,256,263, 635) 25 Framm. 38[7] del giugno/luglio 1885. Cfr. anche JGB, 11; 34[185] giugno-luglio 1885. 26 Su questo si veda Andrea Orsucci, Teichmüller, Nietzsche e la critica delle mitologie scientifiche, in ### pp. 47-63. Si veda anche: Hermann Nohl, Eine historische Quelle zu Nietzsches Perspektivismus: G. Teichmüller, die wirklichde und die scheinbare Welt , in “Zeitschrift f. Philos. u. philos. Kritik, Bd, 149, 1913, pp. 106-115 e .

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anche il frammento commentato precedentemente, appare comunque costante la valorizzazione da parte di Nietzsche del filosofo francese. Si ha un confronto filosofico e un superamento (“bisogna dubitare più a fondo” “siamo più prudenti di Descartes, meno ingenui etc....”)27, non una radicale opposizione, tanto meno la pretesa radicale opposizione della vulgata: raison contra intuizione. Se a tale schema Nietzsche sembra talvolta piegarsi, è per stare completamente dalla parte della raison e della probità nel cammino della conoscenza. Anche se, certamente, per “ragione” il filosofo tedesco intende qualcosa di assolutamente inconciliabile con la posizione cartesiana. Del filosofo francese, Nietzsche sottolinea, più volte, il rigore e l’audacia scientifica: “Per quanto riguarda gli animali, Descartes, con una audacia degna di rispetto, ha osato per la prima volta concepirli come macchine: l’intera nostra fisiologia si sforza di dare una dimostrazione a questa tesi. Ma noi, logicamente, non mettiamo da parte l’uomo, cosa che ancora Descartes fece: ciò che oggi in genere si comprende dell’uomo giunge esattamente allo stesso punto della sua comprensione meccanicistica” (L’anticristo 14). Ed ancora ne L’anticristo Nietzsche insiste sull’importanza dei ‘metodi scientifici’, sulla “grande incomparabile arte di leggere bene” (L’anticristo 59). “ Le idee più preziose vengono trovate per ultime; ma le idee più preziose sono i metodi. Tutti i metodi, tutti i presupposti del nostro attuale costume scientifico hanno avuto contro di sé, per millenni, il più profondo disprezzo” (AC, 13). Nietzsche stabilisce un filo rosso che lega Aristotele e Descartes, Bacon e Comte: i ‘grandi metodologi’— scrive in un frammento dell’autunno del 1887 (9[61]). Anche in questo caso, il giudizio del filosofo tedesco è espressione del senso comune della cultura dell’epoca ed è, infatti, direttamente influenzato dalla recente lettura del volume di Eugen de Roberty, L’ancienne et la nouvelle philosophie (1887), in cui, più volte, i nomi dei quattro filosofi vengono uniti per indicare un percorso ideale della ragione filosofica.28. De Roberty, interessante figura di sociologo, è uno dei casi più significativi di un autore — ma già abbiamo visto il caso di Faguet — che scriverà su Nietzsche ignorando di essere stato letto dal filosofo tedesco29.

Il metodo è quindi posto, fin dagli anni giovanili, come indispensabile al sapere e più importante dei risultati parziali che le singole scienze possono raggiungere: “Non la vittoria della scienza è ciò che distingue il XIX secolo, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”

2740[10] [23] [25]) 28 Si veda, ad es. : “Aristote a dominé de haut la pensée de son temps, occupant dans l’antiquité la place que Bacon a occupée au XVIIe siècle et que Comte occupe de nos jours”. (E. de Roberty, L’ancienne et la nouvelle philosophie, Alcan, Paris 1887, p. 21). L’esemplare di Nietzsche porta a lato un segno di lettura. Cfr. anche: “Une valeur particulière s’attache au nom de Descartes, comme ecrivain sur des questions de méthodologie scientifique et philosophique. Ce côté de l’activité de Descartes a trouvé des apologistes zélés dans Auguste COMTE et d’autre positivistes” (ivi, p. 334). L’esemplare di Nietzsche porta la sottolineatura e, a lato, un segno di lettura. La conferma indiretta viene dal frammento successivo che è un appunto di lettura da questo volume. Ma anche nello scritto di Mill su Comte, Nietzsche aveva trovato la forte valorizzazione del metodo di Descartes da parte di Comte. In particolare il filosofo aveva sottolineato e glossato una pagina dedicata a questo tema con la frase: “ Comte considera Descartes e Leibnitz come i suoi principali precursori” (John Stuart Mill, Auguste Comte und der Positivismus., Leipzig: Fues (R. Reisland), 1874, in John Stuart Mill's Gesammelte Werke. Autorisierte Uebersetzung unter Redaktion von Theodor Gomperz,. Neunter Band, p. 141 [BN]). 29E. DE ROBERTYNietzsche. Contribution à l’histoire des idées philosophiques et sociales à la fin du XIXe siècle, Paris, F. Alcan, 1902. Contro questa interpretazione polemizza Jean Bourdeau, Les Maitres de la pensée contemporaine, Paris 1904, p. 138 e sgg. nel saggio dal titolo: Nietzsche socialiste malgré lui . Sulla figura di De Roberty siveda lo studio di R. VERRIER Roberty. Le positivisme russe et la fondation de la philosophie, Paris, F. Alcan, 1934.

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(15[51] 1888). Senza il metodo, e l’‘istintiva’ complementare ‘diffidenza’ verso i pregiudizi che si annidano nel linguaggio che incorpora la tradizione, v’è lo spettro di un ritorno della superstizione e dell’insensatezza. Sempre in agguato il pericolo che gli aspetti esteriori della scienza vengano dogmatizzati e fanatizzati, che la ‘scientificità’ quando non sia “il risultato di una lunga disciplina”, lasci il posto alla forza degli ‘istinti’ morali da lungo tempo incorporati (Cfr. 14[132]Primavera 1888). Per questo “ognuno dovrebbe aver imparato dalle fondamenta almeno una scienza” (UMANO, TROPPO UMANO 635). L’insofferenza verso il ‘metodo’, verso il cammino ordinato che tende alla conoscenza, caratterizzava, tuttavia il ‘genio’ romantico di cui, nel primo periodo, Nietzsche affermava la ‘patria metafisica’: l’accettazione per fede di tale figura mitica era una rinuncia oltre che al metodo, anche alla probità , un accecamento per ‘venerazione’. Mutata la prospettiva, il ‘genio’, viene progressivamente sottoposto da Nietzsche ad una analisi genealogica e fisiologica: il suo tipo come ”tipo superiore“ “rappresenta una complessità incomparabilmente maggiore, una maggiore somma di elementi coordinati; perciò anche la disgregazione diviene incomparabilmente più probabile” (14[133] Primavera 1888). Il frammento 9[68] presenta una raccolta di citazioni, disorganiche, sulla ‘fisiologia’ di vari personaggi: Enrico IV, Federico il Grande, Mirabeau, Napoleone, Voltaire. Il genio appare ora non un ‘miracolo’ ma il risultato ultimo del “lavoro accumulato di generazioni”, un lungo esercizio di ascesi, disciplina e ordinamento di energia. Nietzsche riassume: “Le génie n'est qu'une longue patience”. La frase è direttamente ripresa da un testo, Psychologie des grands hommes (1883), in cui lo psicologo positivista Henri Joly — collaborava tra l’altro alla “Revue philosophique” di Ribot — riporta un giudizio di Flourens su Buffon. In Joly, Nietzsche trova una conferma della sua idea secondo la quale il ‘grande uomo’ è il risultato dell’assommarsi di più fattori: accumulazione atavica di energia che deve essere distribuita ed spesa metodicamente. Ed è all’interno di una esemplificazione della complessità e laboriosa perseveranza dell’attività geniale che, nel frammento 9[68] sopracitato, Nietzsche riprende un’ affermazione di Joly su Descartes che ricopia fedelmente: «Descartes ha paragonato le scoperte di un dotto a una serie di battaglie che si combattono contro la natura»; «La volontà di verità: 1) come conquista e lotta con la natura/ giudizio dei dotti in Descartes [...]» (9 [46], autunno 1887). Joly rimanda alla sesta parte del Discours de la méthode. Il testo di Nietzsche (che non esplicita la fonte) è stato più volte commentato e ci sono quindi buone ragioni per un esame più ravvicinato.Esso sarebbe espressivo della tecnica e della scienza naturale come esercizio di volontà di potenza e come una conferma di una linea che unisce Descartes e Nietzsche nella direzione della metafisica occidentale. Joly riassume e tradisce fortemente il testo di Descartes giacché nella sesta parte del Discours non compare l’espressione ‘battaglie con la natura’. Descartes ha scritto: “Quelli che scoprono a poco a poco la verità nelle scienze sono come quelli che cominciano a divenir ricchi e duran meno fatica ad acquistare grandi ricchezze di quella che dovevan sopportare prima quando erano poveri, per realizzarne di ben minori. Essi possono essere pure paragonati a comandanti degli eserciti le cui forze di solito aumentano a misura delle loro vittorie e che necessitano di maggior abilità per tener le posizioni dopo una sconfitta che per conquistare città

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e province dopo una vittoria: e, in effetti, tentare di vincere tutte le difficoltà e tutti gli errori che ci impediscono di giungere alla conoscenza della verità è come dar battaglia, mentre equivale ad una sconfitta accogliere un errore a proposito di un argomento un po’ generale e di qualche rilievo [...] il superamento di cinque o sei difficoltà fondamentali stimo altrettante battaglie dove la fortuna è stata dalla mia parte»30. Si tratta di una metafora pregnante di Descartes che mostra le complessità e le difficoltà del cammino della conoscenza: la necessità di conquistare punti fermi su cui avanzare sicuramente, il pericolo di errori che facciano retrocedere. Nulla di guerriero e nessun esercizio di potenza: la prima metafora usata è infatti quella dell’accumulare ricchezza. Nietzsche — sulla base di un riferimento più errato che approssimativo — sembra annettere Descartes alla prospettiva, tutt’affatto differente, di una volontà di potenza tecnica sulla natura. Ancor più gli interpreti.

Per Nietzsche la prudenza metodica indica esplicitamente, come si legge più volte, il cammino ordinato della conoscenza: “le verità piccole e non appariscenti, che furono trovate con metodo severo, più che non gli errori letificanti e abbaglianti” sono alla base del sapere. “Ciò che è faticosamente raggiunto, certo, durevole e perciò ancora ricco di conseguenze per ogni ulteriore conoscenza, è tuttavia superiore; attenersi ad esso è virile, rivela coraggio, schiettezza e temperanza” (UMANO, TROPPO UMANO I, 3).

5. Sum, ergo cogito: cogito, ergo sum Nietzsche, sin dal motto di Umano, troppo umano, sottolinea, oltre alla necessità del

‘metodo’ anche e soprattutto l’altro aspetto che Descartes legava alla ricerca: la ‘gioia’ che si esprimeva come passione della conoscenza: “la mia anima finalmente divenne così piena di gioia, che tutte le altre cose non potevano più offenderla in alcun modo”31.

E, tuttavia, per il filosofo tedesco, la ‘gioia’ per la conoscenza è solo un desideratum più che una realtà: in Umano, troppo umano è prevalente il ‘gelo’ e il ‘disincanto’ di una terapia antiromantica volta a frenare qualsiasi entusiasmo e ubriacatura romantica. “Un errore dopo l’altro viene tranquillamente messo sul ghiaccio, l’ideale non viene confutato — congela”32. Se la scienza “toglie gioia” per i risultati che gettano sospetto sulle consolazioni, come la religione, la metafisica e l’arte, essa è invece fonte di piacere per chi lavora e ricerca (UMANO, TROPPO UMANO I, 251). L’estrema ‘beatitudine’ del conoscere caratterizza “l’attività di un intelletto bene esercitato, che sa rinvenire e inventare”. “Similmente giudicavano Cartesio e Spinoza: come devono averla goduta la conoscenza tutti costoro!” . Il ‘rapimento’ nasce già “al più piccolo, sicuro, definitivo passo e progresso della conoscenza” anche se “non viene creduto da

30 AT VI 66-67; Descartes, Opere scientifiche,vol. II, a cura di Ettore Lojacono, Utet, Torino 1983,: pp. 165-166. 31 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches : (An Stelle einer Vorrede), in KGW, IV, II, p. 3; Opere, p. 489. Per il brano citato cfr.: R. Descartes, Dissertatio de Methodo, traduz. latina di Etienne de Courcelles, in Oeuvres de Descartes, ediz. C. Adam e P. Tannery, Paris 1897-1910, VI p. 555. 32 EH, VI, 3, pp. 331-332.

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tutti coloro che si sono abituati a cadere in estasi soltanto quando abbandonano la realtà e balzano negli abissi dell’apparenza” (M. 550). Il procedere metodico va contro l’intuizione dei teologi e filosofi tedeschi, contro la visione dei mistici ma anche contro l’attività degli uomini pratici, che “rotolano come rotola la pietra, con la stupidità del meccanismo” (UMANO, TROPPO UMANO, 283). Col conoscere “si acquista coscienza della propria forza” superando le vecchie idee e i loro esponenti e sentendoci in tal modo “elevati al di sopra di tutti” (UMANO, TROPPO UMANO I, 252). La strada della conoscenza può diventare anche strada della saggezza al momento in cui l’uomo è capace di trovare in sé “una scala con cento scalini” (UMANO, TROPPO UMANO 292) per i quali salire ad una conoscenza capace di giustizia storica verso il passato ed i suoi errori, verso religione ed arte. La vita acquista “il valore di uno strumento e mezzo per la conoscenza” di una realtà che non ha in sé la chiarezza e trasparenza di un ordine dato e garantito: “Quando il tuo sguardo sarà divenuto abbastanza forte per vedere il fondo dello scuro pozzo del tuo essere e delle tue conoscenze, ti diverranno forse visibili nel suo specchio anche le lontane costellazioni delle future culture” . Nessuna fatica e pericolo potrà distrarre da questo cammino chi ha imparato che “nessun miele è più dolce di quello della conoscenza” che porterà alla fine al “mite splendore di sole di una costante letizia intellettuale [...] Verso la luce — l’ultimo tuo movimento; un giubilo di conoscenza — l’ultimo tuo accento” (UMANO, TROPPO UMANO I, 292). In questa “passione della conoscenza” Nietzsche, nel 1882, si incontrerà con Spinoza come suo ‘predecessore’: “Non soltanto il suo orientamento complessivo coincide con il mio — nel considerare la conoscenza come la più forte delle passioni — ma io mi riconosco anche in cinque punti fondamentali della sua teoria; questo pensatore, il più singolare e il più isolato, è quello più vicino a me proprio in queste cose: egli nega il libero arbitrio, i fini, l’ordine morale dell’universo, il disinteresse, il male”33. La considerazione di Spinoza, sub specie aeternitatis, è comunque per Nietzsche l’espressione tipica della “mancanza di senso storico” dei filosofi, della loro diffidenza verso il divenire.

La gaia scienza arriva alla fine di un percorso che inizia con Umano, troppo umano, e porta con sé la conquista di una nuova energia - dopo la malattia - capace di coniugare pienamente la sfera della conoscenza a quella della gioia contro la tradizione della filosofia che per la ‘purezza’ del conoscere reprime i sensi e mortifica la carne. L’intelligere, viene inteso — nel confronto con ‘la semplicità e sublimità’ di Spinoza — non come un’impossibile distanza dal “ridere, lugere, detestari” ma come “la forma in cui appunto ci diventano ad un tratto avvertibili questi tre fatti [...] un certo rapporto degli impulsi tra loro” (FW 333). Anche nel caso di Spinoza, tale concezione, che si unisce “alla sua tanto perorata istruzione delle passioni mercé l’analisi e la vivisezione delle medesime” (JGB 198), esprime un accorgimemento vitale di un essere sofferente. La piena energia vitale, invece, conosce, controlla, accetta di nuovo, con piena consapevolezza, il gioco delle passioni e dell’arte che coniuga la gioia alla bella menzogna: l’arte che insegna ad “essere i poeti della nostra vita e in primo luogo nelle cose minime e più quotidiane” (FW 299). E proprio all’inizio del quarto libro de La gaia scienza, dove questo tema

33 Lettera a Franz Overbeck del 30 luglio 1881 in KGB, III, II, p. 111.

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è sviluppato con più leggerezza e forza, il giubilo della conoscenza trova le parole di Descartes per esprimere la piena fisicità e corporeità che unisce la passione, il pensiero, la vita: “Io vivo ancora, io penso ancora: io devo vivere ancora perché devo ancora pensare. Sum, ergo cogito: cogito, ergo sum”.

Da Les lectures françaises de Nietzsche (Puf 2001)

i 135. Cartolina, indirizzata a Basilea. ii Ho un predecessore, e quale poi] l‘8 luglio 1881 Nietzsche si era fatto spedire da Overbeck il libro di Kuno Fischer su Spinoza: cfr. lettera 123 e nota. Una discussione esplicita di questo libro si trova nella seconda dissertazione della Genealogia della morale, § 15. Si vedano anche i frammenti postumi 11[132], 11 [193], 11[194] (Opere V/2, 376, 402, 404).