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cucine del territorio

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“cucine del territorio”

volumi già pubblicati:

La cucina abruzzese dei trabocchi, di Maria Teresa OlivieriLa cucina ampezzana, di Rachele PadovanLa cucina aretina, di Guido GianniLa cucina bresciana, di Marino MariniLa cucina della Terra di Bari, di Luigi SadaLa cucina delle Murge, di Maria Pignatelli FerranteLa cucina del Piemonte collinare e vignaiolo, di Giovanni GoriaLa cucina ferrarese, di M.A. Iori Galluzzi, N. Iori, M. JannottaLa cucina fiorentina, di Aldo SantiniLa cucina istriana, di Mady FastLa cucina livornese, di Aldo SantiniLa cucina modenese, di Sandro BelleiLa cucina padovana, di Giuseppe MaffioliLa cucina picena, di Beatrice Muzi e Allan EvansLa cucina reggiana, di M. A. Iori Galluzzi, N. IoriLa cucina trapanese e delle isole, di Giacomo Pilati e Alba AllottaLa cucina trevigiana, di Giuseppe MaffioliLa cucina vicentina, di Giovanni Capnist e Anna Capnist DolcettaLe cucine di Parma, di Marino MariniMangiare triestino, di Mady Fast

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Aldo Santini

La cucina maremmana

Presentazione di Marco Guarnaschelli Gotti

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La cucina maremmanadi Aldo Santini

La prima edizione di questo libro è stata pubblicata nel 1991

Tutti i diritti sono riservati

Nuova edizione: maggio 2013© 2013 Lit Edizioni s.r.l.Orme è un marchio di Lit Edizioni s.r.l.Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 RomaTel. 06.8412007 – fax 06.85865742(su licenza di Tarka/Fattoria del Mare s.a.s. di Franco Muzzio)www.ormebooks.it

Impaginazione ed editing: Monica Sala

Stampa Grafiche del Liri s.r.l.Via Napoli, 85203036 Isola del Liri (FR)per conto di Lit Edizioni s.r.l.Largo Giacomo Matteotti 1Castel Gandolfo (RM)

Referenze fotograficheLe fotografie alle pagine 22, 99, 131, 159, 161, 162, 202, 204, 207

sono di Corrado Bianchi

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Indice

Presentazione di Marco Guarnaschelli Gotti VII

Dalla Maremma degli Etruschi a “porca Maremma!” 1

Il romanzo dell’acquacotta: una per ogni paese 11

Amore e pappardelle per le donne maremmane 35

Zuppe maremmane: cucchiaio nella destra e cipolla nella sinistra 45

Gli altri “primi” cambiano il volto della Maremma 59

Nelle storie del cinghiale troviamo anche il Tiburzi 79

La scottiglia: che abbia pure due padri o addirittura due madri 107

Castellina Marittima festeggia le ricette del suo passato 113

Chicchirichì nel cortile per una buona cucina 119

La Maremma dei pecorai ci ha dato il buglione 139

Per i cacciatori la Maremma non è più quella di una volta 143

Tanti bovi da dipingere ma pochi da mangiare 157

Crostini come majorettes tra antipasti e contorni 165

Parlando di chiocciole e ranocchi troviamo un poeta: Cardarelli 177

Il caldaro dell’Argentario e le anguille di Orbetello 187

Funghi e castagne sull’Amiata, la sentinella della Maremma 201

I dolci? Eccone qualcuno. E niente dieta, per carità 225

E Pitigliano divenne la Piccola Gerusalemme 235

La Maremma del Sassicaia ci offre anche il Morellino 245

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VI la cucina maremmana

Indice dei nomi 255

Indice dei ristoranti 263

Indice analitico delle ricette 265

Indice alfabetico delle ricette 273

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Presentazione

Si diceva una volta, per lodare un libro che non fosse un romanzo, “si legge come un romanzo”, presupponendo che non potessero es-serci romanzi noiosi, errato presupposto se mai ve ne furono: non farò quindi al bel libro di Aldo Santini sulla cucina della Maremma toscana il torto di paragonarlo a un romanzo anche se lo slancio con cui egli affronta i sui temi ha del romanzesco: si tratta piuttosto di un avvincentissimo saggio. La materia aiuta: un territorio che si defini-sce morfologicamente per condizioni ambientali tremende, dove la terra era acqua e anche l’aria era “mala” tanto da divenire addirittura il nome di una febbre terribile; una cucina che si basa sulla miseria locale coniugata con la miseria dei lavoranti stagionali, unici mo-menti di sollievo nella raccolta e nella caccia; questa soprattutto agli animali più feroci, molto più pericolosi dei lupi o degli orsi, che la nostra fauna conosca, i cinghiali, caccia fatta da cacciatori e tiratori mitici, che poco si curano di regolamenti, riserve e tabelle, e molto della propria fama e dei torti subiti, tanto da star sempre con un pie-de sui confini del brigantaggio; personaggi che questo confine hanno ampiamente superato come il famoso Tiburzi e altri, le loro avven-ture, i loro amori; i butteri, centauri moderni dalle favolose qualità equestri, inventori di una cucina all’aperto come quella degli Indiani d’America, da loro vinti in gare di abilità ippica ai tempi di Buffalo Bill e del suo “Circo del West”; e finalmente, come un definitivo rag-gio di sole, l’età dell’oro arrivata, contrariamente al solito, al fine del racconto mitologico e non all’inizio, la bonifica, il turismo di massa e di élite (Capalbio e dintorni), il benessere, i ristoranti dove l’antico spartito della fame viene riletto in chiave di stuzzicante curiosità.Santini è narratore d’istinto, sia che si occupi di Nuvolari o di Tom-bolo o, come di recente, di cucina livornese, ma la disciplina del giornalismo ne ha fatto anche un ricercatore capace di approfondi-menti incredibili come la ricerca sull’acquacotta, una semplicissima

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VIII la cucina maremmana

composizione di verdure in acqua o brodo, simbolo della povertà maremmana, di cui ha scovato più di trenta varianti; o quella sui crostini, o sul cinghiale, o sulle “scottiglie”. Insomma finite le storie di malaria, cacciatori e briganti, c’è da sbrigarsi a mettersi in cucina, perché alcuni son piatti veloci ma molti a cotture lente e profonde specie dove sia questione di cinghiale o d’altra selvaggina.Santini giornalista è poi abituato a ricercare più per persone che per carte: le sue ricette le ha recuperate prevalentemente intervistando ristoratori, massaie e “signore” di vini o cucine. Ne vien fuori anche una corposa guida della Maremma alimentare attuale, non ultimo pregio di questo libro affascinante.

Marco Guarnaschelli Gotti, 1991

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Dalla Maremma degli Etruschi a “porca Maremma!”

Intanto mettiamoci d’accordo sulle dimensioni da dare alla Marem-ma. Dove comincia, dove finisce, fin dove s’allarga, in quali province si estende. E perciò quali confini dare alle sue tradizioni, ai suoi co-stumi, alle sue usanze, ai suoi modi di vivere che, messi tutti insieme nel mixer dello sviluppo sociale, ci offrono anche i sapori e i profumi della cucina, espressi magari in ricette per consentirvi di realizzar-le sui fornelli di casa vostra. Poi, visto e considerato che partiamo dall’abbiccì, non guasta davvero spiegare per filo e per segno cosa significa Maremma. Anzi, prendiamo le mosse proprio da qua.La parola maremma nasce con la emme minuscola perché sta a indi-care una qualsiasi regione bassa e paludosa vicina al mare dove i tom-boli, ovvero le dune, ovvero i cordoni di terra litoranea, impediscono ai corsi d’acqua di sfociare liberamente in mare provocandone il ri-stagno. Con il risultato di creare acquitrini, paludi. Non Maremma, allora, bensì maremma.E siccome la maremma più vasta della penisola, la più nota, la più micidiale, quella dove la malaria ha imperversato spietata per seco-li interi, era la zona costiera della Toscana meridionale e del Lazio occidentale, al punto che nella storia della medicina, e anche della letteratura popolare, la malaria legò il suo nome, il teatro delle sue rabbrividenti nefandezze, a questo territorio, la maremma tosco-la-ziale prese la emme maiuscola. Divenne Maremma per indicare la regione abitata un tempo dagli Etruschi. Una regione così grande che Maremma passò ben presto al plurale. Si parlò di Maremme.I carbonai dell’Appennino pistoiese che l’inverno lasciavano i loro paesi assediati dalla neve per calare al piano, dicevano: “Andiamo nelle Maremme.” Chi nella Maremma di Vada, chi nella Maremma di Bolgheri, o di Scarlino, o di Castiglione della Pescaia, chi nella Maremma di Grosseto. E dovunque l’aria era pestifera. Tanto che Maremma assunse il valore dirompente di una bestemmia. “Marem-ma cane!” si inveiva. “Porca Maremma!” “Maremma boia!” eccetera

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eccetera. Sempre con la emme maiuscola. La Maremma aveva ormai un’identità precisa, era un nemico da combattere e maledire. Però era sempre lei a vincere. Fra le sue paludi, animali e cristiani morivano come le mosche.Meno precisa, invece, era la sua identità geografica. Nel 1746, al-lorché una legge impose ai proprietari, ai latifondisti, di mettere a coltura i loro terreni entro un anno, pena l’esproprio, legge che non venne mai applicata, la cosiddetta “Maremma pisana”, o anche “Ma-remma volterrana”, aveva inizio dalle estreme pendici dei monti li-vornesi, e precisamente da Rosignano Marittimo, da Montescudaio, da Guardistallo.Di parere diverso, nel primo ’800, era Ferdinando Tartini, “segretario della Direzione del Corpo degli Ingegneri” lorenesi: per lui i domini pisani della Maremma, a partire dal 1200, si estendevano tra Lerici e Castiglione della Pescaia.Anche per Emanuele Repetti, autore di un Dizionario fisico storico della Toscana (1845), la Maremma cominciava molto a nord: dalla foce del Magra. Per Antonio Salvagnoli, uno dei manager dell’ope-ra di bonifica durante il regno di Leopoldo II, cominciava invece da Rosignano. E Leopoldo in persona, detto “Canapone”, che ci ha consegnato un diario emozionante dei suoi sopralluoghi in Marem-ma, scrive: “Sotto la parola Maremma s’intende il paese situato lun-go la spiaggia dal mare di Livorno sino ai Stati dei Presidi e poi da quelli sino al confine degli Stati della Chiesa…” Lo Stato dei Presidi comprendeva Orbetello, Talamone, Porto Ercole, l’Argentario, Porto Santo Stefano e Porto Longone nell’isola d’Elba, e venne consegnato alla Spagna nel 1500 per proteggere le sue linee marittime nel Tir-reno.I geografi del nostro tempo hanno trovato un’intesa sulla dimensio-ne da attribuire alla Maremma, stabilendo perfino la sua superficie: circa 5.000 chilometri quadrati. Con una distanza massima dal mare tra i 50 e i 70 chilometri. Confini: a nord il fiume Cecina. A sud: Civitavecchia. Baluardi naturali: la costa e i contrafforti montagnosi, da Volterra all’Amiata giù giù fino ai monti Cimini e a quelli della Tolfa. Province inglobate: Livorno, Grosseto e Viterbo. Perfino di Roma. Con grossi contributi di Pisa e soprattutto di Siena che domi-nò a lungo la Maremma grossetana, influenzandola e rimanendone influenzata, tanto è vero che parecchie ricette maremmane, o co-munque conosciute in Maremma, le ho trovate a Montalcino, tra le

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dalla maremma degli etruschi a “porca maremma!” 3

vigne del Brunello, al di là dell’Amiata, dove i carbonai dell’Appen-nino scendevano abitualmente nella stagione invernale, lavorando con generoso impegno.

Menu del pranzo offero da Ferdinando IV il 9 febbraio 1898 per festeggiare all’Alberese il primo esperimento di aratura a vapore in Maremma.

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Gli etimologi spiegano che Maremma deriva dal latino Maritima: sarebbero stati i Longobardi, poi, a trasformare questo nome in Ma-remma per indicare un distretto amministrativo della Tuscia, la regio-ne etrusca occupata dai Romani, ridotta oggigiorno alle dimensioni della provincia di Viterbo. E furono di sicuro i Longobardi, sotto re Agilulfo (sia mo nel 600 dopo Cristo) a introdurre dall’Africa i bufali, e dall’Asia i buoi con le grandi corna a semiluna che piacevano tanto al Fattori e ai pittori macchiaioli ospitati a Castiglioncello, e quindi nella Maremma ottocentesca, dal loro mecenate Diego Martelli.Carlo Cassola, lo scrittore che amava la Maremma e vi ha ambientato i suoi libri migliori (un titolo per tutti: Il taglio del bosco), diceva che la sua storia è un dramma in tre atti: fioritura, decadenza, rinascita. Il primo abbraccia più o meno cinque secoli, il periodo della domina-zione etrusca. Il secondo dura due millenni. Il terzo si è aperto meno di due secoli fa mettendo a segno prima la vittoria contro la malaria e poi la bonifica con il rilancio agricolo.Gli Etruschi fecero della regione che poi fu chiamata Maremma una piattaforma di civiltà. Lo dimostra la presenza di floridi centri tanto sulla costa che in pianura e sui monti: da Volterra a Sovana, Pitiglia-no, Saturnia, Tarquinia, da Talamone a Populonia, Vetulonia, Vulci, Castro, da Tuscania a Roselle, Magliano, Allumiere, Marsiliana. Era una civiltà che si esprimeva anche a tavola. Sappiamo che gli Etru-schi conoscevano il vino. E gli piaceva, altroché! Sappiamo che an-davano a caccia suonando i doppi flauti per attirare gli animali nelle reti con le loro musiche melodiose. Lepri e cinghiali davano sostanza ai loro banchetti che vedevano bisbocciare anche le donne, eleganti e ingioiellate. Peccato che non avessero il caffè. Digerire il cinghiale non è mai stato troppo facile.La conquista romana segnò l’inizio del tracollo. Per incuria o incom-petenza, l’ingegnoso sistema idraulico etrusco andò in rovina e le acque dei fiumi, del Cecina e del Cornia, dell’Ombrone, del Fiora, dell’Albegna, strariparono. Si formarono paludi e acquitrini. Duran-te il Medioevo la civiltà sopravvisse sulle alture. Massa Marittima ce ne offre la prova. E anche Sovana, patria di Gregorio VII, il papa santo, uno dei maggiori protagonisti religiosi della sua epoca, quello che applicò la riforma ecclesiastica imponendo il celibato e lottando contro la simonia.Tutti i paesi dell’entroterra si costituirono intorno alle rocche e ai castelli feudali dove il clima era più sopportabile: Roccastrada, Roc-

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catederighi, Roccalbegna, Castel del Piano, Sassofortino. Eppure la malaria non li risparmiò. Solo i centri oltre i 700 metri di quota si salvarono dal flagello.Nel ’600, Ferdinando II de’ Medici, per ripopolare Sovana e tentare di ridurre lo spaventoso deficit agricolo, importò 160 famiglie di Greci dalla Morea, sfuggiti alle invasioni turche. In breve morirono

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tutti quanti. Francesco II importò, sempre a Sovana, 58 famiglie di contadini lorenesi, e 14 a Sorano. Nel 1821 moriva a Sovana l’ultima superstite; conosciamo la sua identità, Lucia Callais.Leopoldo II riferisce che “Sovana è di aria pessima. Si può affermare che come Saturnia è il paese più desolato della Maremma… Satur-nia, Sovana, Capalbio e Paganico sono in tale stato di rovina… che, senza un rimedio, che è difficile a trovare, fra pochi anni… non esi-stono più… Quasi tutti gli abitanti sono pastori e gente che ci viene a passare solo l’inverno. In Saturnia si vedono veramente cattivi visi e lo scoraggiamento in tutte le persone, che non fanno nulla… Senza che si sappia il perché, non vi essendo paduli né macchie, essendo in alto e ben ventilata… A Saturnia nei mesi passati sono morte più di cinquanta persone di punture e si attribuisce la mortalità… special-mente negli uomini, ai lavori di campagna…”.L’inverno di cui parla “Canapone” è quello del 1826. Si moriva di punture, avverte. Ma non si era ancora scoperto che la “mal’aria”, così scrivevano, era trasmessa dalla zanzara anofele. “Maremma Ma-remma!” cantavano i boscaioli del Pistoiese e dell’Abruzzo, “l’uccello che ci va perde la penna, il giovin che ci va perde la dama”. Le feb-bri malariche, la perniciosa, le insolazioni, le vipere, le tarantole, i cinghiali feroci, non più ammansiti dai doppi flauti degli Etruschi, mietevano centinaia di vittime.A Grosseto, nelle estati del ’700, gli abitanti si riducevano a una quarantina, non di più. Il censimento del 1871 attribuiva all’intero comune di Grosseto appena 6.316 anime, mentre Massa Marittima, nel 1863, la più salubre delle città e dei paesi di Maremma, aveva 11.000 abitanti, 6 farmacie, 7 medici condotti e 5 ostetriche.Ancora alla fine dell’800 la prefettura di Grosseto, in luglio e in agosto, si trasferiva a Scansano, e la pretura, insieme al delegato del governo, saliva a Montorsaio. I medici consigliavano di mangiare molto aglio, “perché l’aglio scansa la malaria”. E i poveri replicavano che “l’aria bona sta nel pignatto”, come dire che per non soccombere alla malaria bisognava, quanto meno, mangiare bene.Dopo la sua prima visita, Leopoldo II confessa che “allora Maremma diventò per me idea fissa, del giorno e della notte… Il 9 aprile 1828 scendevo con Fossombroni nella Grossetana. Siccome erasi sparsa la voce che si studiasse di buonificare la Maremma, giunti a Batignano si videro da queste mezze dirute case escir alcuni dai volti lividi e confusi, e gridavan: ‘Viva!’…”.

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Vittorio Fossombroni era il capo del governo lorenese e, in qualità di ingegnere e di agronomo, era già stato incaricato di alcune opere di bonifica. Ebbe così inizio la colonizzazione e l’appoderamento. Vennero favorite le correnti immigratorie. La Maremma cominciò ad essere popolata da un miscuglio di genti. Un proverbio dice: “Per fare un grossetano, uomo di Pistoia e donna di Scansano”. Dove per Pistoia è meglio intendere la Toscana tutta, e non solo la Toscana, ma anche l’Emilia, anche il Lazio, anche l’Abruzzo. Lo dimostra la parla-ta, nota Cassola, quasi priva di inflessioni, una specie di gergo medio.E infatti più l’ascolto e l’osservo, cercando di analizzarne il carattere, e più mi convinco che la gente di Maremma ha poco di toscano, per non dire nulla. Dei toscani non ha lo spirito, la carica. Le manca la crudeltà, tutta di cervello, che è l’arma più affilata di noialtri toscani, e insieme il nostro limite. Le manca l’ironia velenosa che ti scortica nel Valdarno e a Lucca, nel Senese, a Livorno. La gente di Maremma è sanguigna e buona. La pazienza è la sua spina dorsale e la pruden-za la sua palla al piede. Dei toscani autentici non ha la capacità di sdegnarsi e saltar su furibonda. La colonizzazione lorenese miscelò una schiatta composita e umile. Il cielo era basso e Dio lontano. La malaria falciava. Non cerco la testimonianza del Fucini e del Paolieri, così patetici nel loro bozzettismo, preferisco le relazioni della Società dei Georgofili.Ho sott’occhio una memoria presentata nel 1846 che denuncia: “La famiglia Sargardi fabbricò a Montepò 9 poderi e non se ne poté so-stenere nemmeno uno. L’Ospedale della Scala di Siena ne formò altri 6 alla Grancia, presso Grosseto: non se ne vedono oggi che poche rovine. Il Castellini tentò di nuovo ristabilire alla stessa tenuta di Grancia il sistema colonico, ma già le rovine delle case da lui erette si confondono con quelle lasciate dall’Ospedale di Siena. I contorni di Manciano e di Pereta sono funestati dalle reliquie di circa 60 case coloniche costruite dai forestieri…”.I 56.000 abitanti che la Maremma grossetana aveva a metà dell’800 erano testardi e saldi d’animo: erano opachi missionari della terra che morivano un po’ per giorno nel loro inferno, senza mai alzare la testa né proporsi un’alternativa. Coltivavano, allevavano, cacciavano. Un mondo angusto. Malaria e principi, o marchesi, o conti: non avevano altri padroni. Qualcuno si ribellava, non alla malaria bensì al principe, e diventava brigante. La malaria cominciò ad arrendersi, almeno sotto i Lorena, e gli aristocratici latifondisti rimasero sempre

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più potenti. Spiega bene Carlo Cassola: “L’unità d’Italia, come già il periodo napoleonico, interruppe la bonifica granducale. Sordi a ogni appello, i governi che si susseguirono fino al 1883 mostrarono la più vergognosa incuria nei confronti della Maremma. I lavori di bonifica non fecero un solo passo avanti”.“In ventiquattro anni” scrisse un agricoltore grossetano, il Porciat-ti, “cosa incredibile e che il pudore rifugge a confessare, nemmeno di un centimetro si è avvantaggiata la colmazione dei paduli. Se la cura, l’interesse e la solerzia che il Governo costituzionale, con ripro-va di ventiquattro anni, ha spiegato per le bonifiche nella Maremma grossetana, verrà posta in pratica di pari passo per far la guerra alla malaria che ovunque opprime nel Regno d’Italia, può star sicuro il Governo che nessuno gli contrasterà la gloria di aver fatto una nazio-ne di cadaveri, di convalescenti e di febbricitanti”.L’opera fu ripresa per merito del senatore cremonese Stefano Jacini, ex ministro dei Lavori Pubblici con Cavour e con Ricasoli, l’uomo che volle il traforo del Gottardo, meritandosi il titolo di conte, e si oppose al passaggio della capitale d’Italia da Firenze a Roma, il qua-le, nel 1877, promosse un’inchiesta parlamentare sulla condizione agraria del Paese.L’inchiesta dipinge a tinte cupe il degrado della Maremma dopo che i Lorena ci avevano investito fior di capitali. Ce ne vorrà di tempo e di denaro, di forze, per risanare la regione. Agli inizi del ’900 un nobile romano, il Vivarelli-Colonna, scrive di “aver passato intere giornate a cavallo attraverso pantani, pietraie, prati ricoperti di rovi, senza incontrare né una casa né una persona, senza trovare un campo lavorato”.La malaria si arrese con la bonifica realizzata negli anni del fascismo. Eppure durante l’ultima guerra, a causa dell’abbandono di alcune strutture idrauliche, la malaria fece la sua ricomparsa. Nel 1947 ven-nero segnalati 247 casi. Ma il largo impiego del DDT introdotto dall’esercito americano sterminò definitivamente le zanzare anofele. Nel 1951 gli abitanti del comune di Grosseto salirono a 38.262. Dieci anni dopo superavano i 50.000.Luciano Bianciardi, l’autore di La vita agra, che era di Grosseto e, a torto o a ragione, si considerava un maremmano purosangue, mi raccontava: “I braccianti della bonifica, nell’Ottocento, erano trattati peggio delle bestie, a somiglianza dei ‘lombardi’ che un secolo avanti prestavano le loro braccia nel periodo della mietitura, controllati dai

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guardiani a cavallo che poi sarebbero diventati i butteri leggendari, e costretti a dormire sulla nuda terra, all’aperto, senza un giaciglio. Un giorno scriverò un libro, su quei disgraziati. Erano degli eroi senza voce e senza volto, ecco quello che erano… Ma non ne ebbe il tem-po”.Un particolare mi è rimasto impresso, della rievocazione che Bian-ciardi, a un certo punto della sua odissea sentimentale che lo portò lontano da Grosseto, mi fece a Rapallo, dove aveva aperto una libre-ria e dove ero andato a intervistarlo mentre preparava il suo ultimo libro importante, La battaglia soda. I suoi eroi mangiavano nei ca-tini, una dozzina per volta, nello stesso catino che faceva pensare a un trogolo per i porci. “Quasi sempre era panzanella. Pane stantio inzuppato nell’acqua torba, con una goccia d’olio, non più di una goccia, aceto, sale. Null’altro. La domenica, se andava bene, c’era l’acquacotta. Volere o volare l’acquacotta è la prima pietanza calda di cui si parla nella storia sociale della mia Maremma.”Ed è con l’acquacotta che partirà il nostro viaggio a tavola nel piccolo mondo della cucina maremmana. Piccolo e soprattutto povero, un mondo nato nella miseria tra angosce e patimenti, enormi ingiusti-zie, ma affascinante per la sua ricerca di genuinità, per le sue regole elementari. Una cucina con molte concessioni al ricordo viscerale della fame sofferta dai padri di questa terra divenuta finalmente ubertosa. Una cucina dai sapori maschi dove le ricette di base, come questa dell’acquacotta, sono interpretate in cento modi diversi, e non solo per i diversi contributi immigratori che ci riportano ancora alle origini della Maremma attuale. Vedremo subito perché.

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Il romanzo dell’acquacotta: una per ogni paese

La maestra di un paese della provincia grossetana ha dato di recente un tema in classe: “Cos’è il maiale?”. E uno dei suoi alunni, eviden-temente spiritoso, lo ha svolto in poche righe: “Il maiale è una bestia che non finisce mai. Ha quattro zamponi, quattro prosciutti crudi o cotti e un musetto. Cucinato in mille modi lo troviamo a tutti i pranzi della Maremma”.Uno svolgimento abbastanza simile avrebbe potuto avere un tema sul cinghiale, sulla zuppa di funghi, sui crostini, sulle pappardelle alla lepre e in primo luogo sull’acquacotta. Eccoci al punto. Nessun’altra pietanza maremmana ha tante variazioni come l’acquacotta. E se è vero che, senza la malaria che per secoli interi ha gravato mortale sulla pianura isolando i paesi e le cittadine abbarbicati ai crinali dei monti, probabilmente la Maremma non avrebbe avuto così numero-se interpretazioni dei medesimi piatti, questo è ancora più vero per l’acquacotta.Essendo la zuppa più primitiva della cucina maremmana, la più sem-plice e in sostanza la più povera, quella che ha bisogno di meno ingredienti, i meno costosi, i più facili da reperire, si è prestata più di ogni altra a divenire l’espressione di una famiglia, di una comunità, di un paese.E così l’acquacotta, che evoca in un flash la Maremma del Fattori, del Fucini, la Maremma dei butteri, degli armenti, dei paduli e, di-ciamolo, della “mal’aria”, ed è ormai la protagonista di un romanzo, di un’età entrata nella leggenda, di un’avventura scandita dal galoppo in technicolor dei cavalli, ci permette di capire una verità legata alla storia maremmana.Abbiamo dieci, cento interpretazioni dell’acquacotta, tutte simili e tutte squisite, tutte diverse, non tanto per la sottile diversità dei prodotti forniti un tempo con avarizia dal territorio, quanto per il diverso carattere dei paesi e delle cittadine vicini uno all’altro, ma rimasti isolati troppo a lungo, eppure simili per il minimo comune

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denominatore della loro cultura, del loro sviluppo sociale sotto lo stesso cielo, fra le stesse difficoltà. Capite? La malaria ha tenuti lon-tani i centri di una medesima regione, nati dalla medesima matrice.Certo, l’avventura maremmana appare fascinosa oggi che ne parlia-mo uno, due secoli dopo, anche tre, seduti comodamente a tavola, nel caldo di una sala o nella penombra di una veranda, allorché il ro-manzo acquista i tratti definiti di un affresco a tinte vigorose. Oggi la Maremma è un bacino di fertilità, Grosseto vanta alberghi di lusso e i ricordi di quando d’estate aveva appena 40 abitanti sono affidati alla letteratura. L’acquacotta ha ormai il ruolo di un “primo” di successo in tutti i ristoranti, irrobustito da ricchi ingredienti, uova, brodo di carne, olio extravergine d’oliva.Chi ci pensa più alle sue origini? Per fortuna interviene una raffinata scrittrice, Mara Cini, con il suo libretto Maremma cucina, ad avver-tirci che l’acquacotta conserva il nome antico di quando era fatta di sola acqua, pane e qualche verdura, di quando in Maremma prospe-ravano i “mignattai”, i venditori di sanguisughe. E questa immagine dei “mignattai”, forse, serve più di tanti discorsi a illuminare il pas-sato di una regione che ai turisti, adesso, appare splendida e serena, e su, verso Montemerano, addirittura dolce.“Chi lavorava in campagna si portava dietro un pignattino e a mez-zogiorno lo riempiva ai ruscelli mettendo a cuocere quello che dava la stagione. Un capo d’aglio, un cipollotto, qualche pomodoro, un po’ di sale e tanto pane a fette. Oggi è un’altra cosa” conclude la Cini.Appunto, è un’altra cosa. Anche se Luciano Momini, chef di talento, commenta: “Tutti gli ingredienti usati oggigiorno, cipolla, sedano, bietola, le massaie d’un tempo li avevano nell’orto. O comunque sottomano: il pane raffermo, il cacio pecorino. E non è vero che solo oggi l’uovo arricchisce l’acquacotta. Le uova la massaia le trovava nel pollaio, belle calde”.Ma l’acquacotta della Maremma romanzesca, quella dell’affresco so-ciale, era fatta di sola acqua, pane e qualche verdura. Era la minestra dei carbonai, dei pastori, dei guardiani di bestiame. Fortunati noi che possiamo gustarla nei ristoranti, discettando sulle cento versioni paesane e riempiendoci la bocca (a parole) di cucina povera.E i ristoranti, le trattorie, le osterie dei cento paesi della Maremma ci propongono, quasi sempre, la ricetta dell’acquacotta del loro paese, e spesso le ricette, perché gli ingredienti cambiavano con il mutare delle stagioni. Non è più, mi sembra chiaro, l’acquacotta povera di

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cui parla Mara Cini. In fondo ha ragione Luciano Momini: quella che di paese in paese ci entusiasma, ogni volta diversa, è l’acquacot-ta delle massaie, con le verdure nell’orto e le uova nel pollaio. Con la speranza, s’intende, che il cuoco del ristorante, della trattoria o dell’osteria rimanga fedele al modello ricevuto o ereditato. Anche se a Montemerano, dove la cucina maremmana ha trovato da qualche anno la sua espressione più alta, hanno avuto l’onestà di mettermi in guardia: “Stia attento. Ogni famiglia l’acquacotta la preparava a modo suo. Non ce n’era una uguale all’altra, nel paese”.Dovremmo parlare, allora, non più di un’acquacotta per ogni paese ma per ogni famiglia di ciascun paese. Non esageriamo. E non allar-matevi. I paesi dove mi sono fermato, o da cui ho avuto l’informa-zione, non sono cento, ci mancherebbe! E oltretutto nella Maremma livornese e in quella pisana l’acquacotta c’è arrivata di straforo, senza mettere radici profonde.

Acquacotta di Capalbio

Sembra che la prima acquacotta giunta agli onori di un menù sia quella di Capalbio. Me lo assicura Tullio Sassi, lo chef che negli anni Sessanta ha debuttato nel ristorante “Da Maria”, oggi tra i più noti di Capalbio, e tra i meglio frequentati. Il paese dove fu ucciso il brigante Tiburzi è diventato una riserva di lusso per i “vip” romani dell’editoria, della letteratura, della tivù, del giornalismo, della po-litica. Qui è cresciuto professionalmente Tullio Sassi, maturandosi poi a Porto San Stefano, e di recente è salito a Scansano dove con un socio livornese ha aperto l’“Antico Casale”, un ristorante-albergo nuovissimo, con cavalli, prati, relax nel verde, produzione di vino, olio, formaggi, marmellate e una fattoria che garantisce le materie prima alla sua cucina.Sentiamo come e perché ha fatto dell’acquacotta la sua bandiera.“La Maria del ristorante di Capalbio è mia zia. Io sono di Capalbio, certo. Non lo capisce a occhio? Noi di Capalbio siamo i migliori di tutta la Maremma. Il successo che abbiamo avuto lo dimostra. Un tempo laggiù c’era una sola trattoria. Ora i ristoranti sono set-te. Mi chiede dell’acquacotta. Guardi, non la faceva più nessuno, al paese. L’avevano abbandonata. Se ne erano liberati. Io ne conserva-vo un ricordo traumatizzante. Mi pare ancora di vedere mio padre, nell’immediato dopoguerra, che andava al lavoro e mia madre che gli

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preparava l’acquacotta per il mezzogiorno. Cicoria lessata, o bietola, schiaffata tra due fette di pane raffermo e bagnato, e un uovo spac-cato in mezzo. Non era nemmeno un’acquacotta. Era un estratto di acquacotta…Venne a me, sissignori, l’idea di riproporla ai clienti dei ristoranti dove facevo il cuoco. E preparai un’acquacotta con tutti i sentimenti. La stessa che ho continuato a cucinare fino a oggi. Un’acquacotta tradizionale ma migliorata, s’intende.”Ed ecco, finalmente, l’acquacotta di Capalbio.“Prendo cipolla, sedano e carota, li lavo e li taglio sottili, aggiungo del basilico e li faccio rosolare in un tegame con olio buono. Il mio. Quello che produco io. Poi segue il peperoncino, per dargli brio, e del pomodoro pelato, per dargli colore. Allungo con acqua. Un bic-chiere a persona. Niente brodo di carne come usano in certi ristoran-ti. Sennò che razza di acquacotta viene fuori? Sarebbe un brodocotto! Lascio bollire a fuoco lento. Più bolle e meglio è. La regola è proprio questa. E semmai allungo con altra acqua se si ritira troppo. Non metto sale. Dopo mezz’ora dovrebbe essere a tiro: dovrebbe avere la densità giusta. Attenti a non esagerare, comunque. Ora spacco un uovo a persona in modo che i tuorli rimangano interi. Li faccio ras-sodare un po’. E verso nelle scodelle dove ho collocato delle fette di pane raffermo, poche e nemmeno abbrustolite. Con l’uovo al centro di ogni scodella.”E il formaggio? “Abbondante.” D’accordo, ma parmigiano o peco-rino? “Il pecorino è la sua morte, per l’acquacotta. Il pecorino è il formaggio della Maremma. Ma i clienti, in genere, sono di bocca delicata, trovano che il pecorino ha un sapore troppo intenso, e allora ci grattugio sopra il parmigiano.”Ricetta del ristorante “Antico Casale” di Scansano (Grosseto)

Acquacotta di Pitigliano

Nella vertiginosa Pitigliano eretta a strapiombo su un costone lungo e stretto di tufo (che arrivando da Saturnia ci appare improvvisa, con un colpo di teatro, lasciandoci senza fiato, stupefatti e insieme sbigottiti, lei in alto, fiabesca, noi in basso, con ripidi tornanti ancora da scalare) c’è l’albergo ristorante “Guastini” condotto dalla signora Loretta. Lo aprì agli inizi del secolo suo padre Ubaldo che negli Stati Uniti, da emigrante avventuroso, aveva fatto un po’ di tutto, il boxer,

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il musicista, l’impresario. Tornato al paese con il gruzzolo, si sposò e mise su questo locale, ricostruito ex novo dopo che nell’immediato dopoguerra fu letteralmente ingoiato da una frana.L’acquacotta di Loretta Guastini è classica, con un sorprendente bi-vio nel finale. Soffritto. Cipolla tagliata fine. Sedano, solo la costola. Olio. Pepe e sale. Poi aggiungere foglie di spinaci tritate. Un po’ di brodo di carne. Cuocere a fuoco lento. Colorire con dei pelati. All’ul-timo spaccare un uovo a persona. Versare nel recipiente di servizio dove è stato preparato del pane raffermo abbrustolito con il burro e grattugiarci sopra del pecorino. Portare in tavola.E il bivio? Cosa c’è al bivio? Al posto delle uova della ricotta fresca.Ricetta del ristorante “Guastini” di Pitigliano (Grosseto)

Acquacotta di Montemerano

Qui a Montemerano c’è una fermata obbligatoria: la trattoria “Da Caino”. Accomodiamoci. Il santuario della buona cucina marem-mana raffinata e valorizzata, elevata a espressione d’arte, ci accoglie cordialmente. Caino era Carisio Menichetti, ma tutti nel paese lo chiamavano Caino. E il nome di Caino è rimasto anche oggi che il locale è condotto da suo figlio Maurizio, che l’ambiente è divenuto molto elegante e che il clima è signorile e discreto, che le luci felpate inducono a una gustosa, serena riflessione. In cucina impera la nuora Valeria Piccini. Sul suo cappello bianco splendono le stelle della be-nemerita confraternita dei ghiottoni.Nell’acquacotta di Montemerano “rivissuta” da Caino non c’è sof-fritto. Sedano (foglie e costole), cipolla e basilico vengono cotti a crudo in un tegame con poco olio e acqua. “Non faccio rosolare per impedire che la cipolla, in seguito, torni a gola” dice Valeria. Quin-di si lascia restringere, si cura il bollore perché l’acquacotta divenga morbida, suadente. Si aggiunge il pomodoro per colorare in misura delicata. Sale, olio e peperoncino. Rovesciare nel tegame un uovo a persona, che il tuorlo rimanga intero. E servire sulle fette di pane raffermo. Ma non esagerare, con il pane. E non tostarlo. Molto par-migiano all’ultimo momento.Ricetta della trattoria “Da Caino” di Montemerano (Grosseto)

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Acquacotta dei Poderi di Montemerano

Prima di salire brevemente a Montemerano, per chi arriva da Orbe-tello e da Manciano, c’è l’incontro con i Poderi di Montemerano, il terzo vertice del triangolo gastronomico Saturnia-Montemerano-Poderi di Montemerano di cui si parla tanto e si sproposita nella Maremma del bel mangiare.“Laudomia” è l’insegna di un’antica locanda di posta e fu Laudomia, questo era proprio il suo nome, a lanciarla facendo una ottima cu-cina paesana e riuscendo a valorizzare la zona. Ora Laudomia non c’è più e in cattedra è salita la nuora, Clara Detti, che cerca di non discostarsi troppo dall’acquacotta dei carbonai adottata con successo da Laudomia. La sua ricetta è molto semplice e l’enunciazione molto sbrigativa. I cuochi maremmani, esclusi gli innovatori che guardano a Gualtiero Marchesi e ad Angelo Paracucchi e che si fanno foto-grafare con il cappellone di chef piantato in testa, in cucina vanno molto a occhio, usano poco o punto il bilancino e si fidano soltanto della loro esperienza e del loro intuito.Dunque: Clara Detti per 4 persone usa un litro d’acqua, la fa bollire, la sala quanto basta e la rovescia nella casseruola dove ha messo le verdure di stagione, lavate, affettate e rosolate con un po’ d’olio e di cipolla. Dopo mezz’ora versa la minestra ottenuta in una teglia con le fette di pane arrostite sul fondo. Fuoco lento. Sulla zuppa rompe un uovo a persona, cercando che i tuorli rimangano interi, al solito, e distanti uno dall’altro. Appena le uova sono cotte, serve in tavola con pecorino grattugiato sopra.Ricetta della “Locanda da Laudomia” a Poderi di Montemerano (Gros-seto)

Acquacotta all’Oliveto

Un’altra versione dell’acquacotta di Montemerano. La fornisce il ri-storante “L’Oliveto”: s’incontra in bella posizione prima della rampa che conduce al centro del vecchio paese. La cuoca è Rosanna. E non la fa tanto complicata per dettarmi la ricetta. La sua acquacotta è forse quella che ogni signora o signorina, anche poco esperta ai for-nelli, può realizzare facilmente con un minimo di applicazione e di buona volontà. Basta non perdersi d’animo al primo insuccesso (e nemmeno al secondo…).

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Anche questa, fra l’altro, è un’acquacotta naturale, senza arricchi-menti di sorta. Parente stretta dell’acquacotta dei poveri cristi ma-remmani d’una volta.Pirofila. Soffritto con sedano e cipolla in quantità uguali. Aggiun-gere pomodori pelati, sale e peperoncino. Cuocere per 30 minuti allungando ogni tanto con l’acqua e, appena il minestrone è denso, rovesciare nella pirofila un uovo cotto in camicia per ogni commen-sale. Versare infine nelle terrine (o nelle scodelle, a piacer vostro) sulle fette di pane abbrustolite.Ricetta del ristorante “L’Oliveto” di Montemerano (Grosseto)

Acquacotta alla Pinchiorri

Una maestra della grande cucina d’Italia, la… francese Annie Feolde, mo-glie di Giorgio Pinchiorri, che ha il ruolo di chef nel famoso ristorante fiorentino di via Ghibellina, dedica periodicamente, nel suo ampio menù, un omaggio ai piatti più tradizionali della Toscana, “rivedendoli” e magari affinandoli, alleggerendoli. Così, insieme al cacciucco livornese, al farro lucchese, alle torte d’erbe della Lunigiana, al cibreo della stessa Firen-ze, eccetera eccetera, ha voluto interpretare alla sua maniera (e con la sensibilità premiata dalle stelle Michelin) anche l’acquacotta maremma-na. Racconta di averla scoperta in un ristorante di Grosseto, “L’Ombrone” (quando era il primo della città) e di averla trovata meravigliosa. Lei ha cercato di realizzarla partendo proprio dall’acqua e rinunciando al brodo di manzo o di pollo. Vi sembra poco?

ingredienti per 4 persone• 100 g di carote, 100 di sedano, • 1 litro d’acqua• 100 di cipolla tutto già sbucciato, pulito e lavato• 4 tuorli d’uovo• 1 cucchiaio di prezzemolo tritato• 100 g di porcini secchi, di prima scelta, oppure 500 g di porcini freschi • Un sorso d’olio d’oliva • 2 spicchi d’aglio, 1 peperoncino• Sale e pepe • Pane abbrustolito nell’olio e aglio facoltativo

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Sminuzzare carota, cipolla e sedano. Farli bollire nell’acqua con il pepe-roncino e poco sale per mezz’ora. Nel frattempo pulire i porcini se sono freschi, tagliarli a fettine. Se sono secchi, farli rinvenire in poca acqua fredda per 10 minuti, controllandoli bene per eliminare le impurità. Quindi strizzarli e tritarli, insieme a 2 spicchi d’aglio. Lasciare riposare l’acqua dei funghi secchi e filtrarla, per aggiungerla al brodo vegetale. Saltare i porcini in padella con il sorso d’olio, salare e pepare e finire di cuocere con mezzo cucchiaio di prezzemolo. A questo punto aggiungere i porcini al brodo, aggiustare di sale e versarlo bollente nelle scodelle, dove si met-teranno i tuorli d’uovo, il rimanente prezzemolo tritato e l’eventuale pane abbrustolito.Avvertenza finale di Annie: “L’acquacotta deve essere ben profumata di funghi e con un sottofondo piccante per via del peperoncino”.

Ricetta dell’“Enoteca Pinchiorri” di Firenze

Acquacotta di Montalcino

Donatella Cinelli dei Barbi, figlia di Francesca Colombini definita a pieno merito “la regina del Brunello”, non si interessa solo di vino ma anche di cucina. E pubblica le ricette del tempo che fu, legate al suo territorio, in bei quadernetti che hanno per titolo ricorrente Beccamorti e buongustai.I “beccamorti” sono i montalcinesi rei di essere giunti con calcolato ritardo alla battaglia di Montaperti, nel 1260, dove l’Arbia si colo-rò di rosso (ricordate Dante?) e dove i ghibellini senesi sconfissero i guelfi fiorentini. Per punirli, i senesi gli fecero seppellire i morti. E malgrado i montalcinesi abbiano riscattato l’infelice soprannome con numerose prove di coraggio, giungendo addirittura a sfidare l’e-sercito spagnolo, per i senesi sono rimasti dei “beccamorti”.L’acquacotta riesumata da Donatella Cinelli è quella dei logaioli. E chi sono i logaioli? domando. “I logaioli erano i contadini di quei poderi di collina particolarmente disagiati per le colture agricole ma generalmente forniti di orti rigogliosi. Le loro mense erano fornitis-sime di verdure di stagione…” Ecco il dato di partenza dell’acqua-cotta. Ed ecco anche gli ingredienti suggeriti per quattro persone:

ingredienti• 6 pomodori maturi di media grandezza• 200 g di pane • Olio di oliva

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• 1 kg di zucchini rotondi • Aglio• 1,5 litri di brodo di carne o di pollo • Peperoncino• Sale

Soffritto con olio, aglio e peperoncino. Sale. Aggiungere i pomodori spaccati grossolanamente. Portarli a completa cottura. Unire la parte esterna degli zucchini tagliati a grossi pezzi. Quando sono cotti, ver-sare il brodo. Cuocere ancora a fuoco basso per 15-20 minuti. Ser-vire caldo in una zuppiera dove è stato collocato del pane casalingo tagliato a fette sottili.La figlia della “regina del Brunello” ci offre un particolare interes-sante sulla vita nelle campagne di ieri e ieri l’altro dicendo di aver volutamente omesso ogni consiglio sull’abbinamento con il vino (lei che il vino lo produce) dato che questa minestra, e molte riportate nei suoi quadernetti, erano in origine le minestre dei giorni di lavoro quando nelle case contadine si pasteggiava con l’acquato, una bevan-da a bassa gradazione alcolica ottenuta facendo fermentare le vinacce con l’acqua.Ricetta raccolta da Donatella Cinelli dei Barbi, Montalcino (Siena)

Acquacotta dei boscaioli

Anche questa acquacotta ci arriva da Montalcino. E come la prece-dente ha una caratteristica di fondo. Non prevede l’impiego delle uova. Donatella Cinelli, studiosa di gastronomia, avverte: “Presu-mibilmente ha un’antica origine grossetana, ma è comunque la più nota a Montalcino. Ha un gusto austero e deciso che può sembrare nuovo ai palati moderni; è invece molto molto vecchio. Si chiama boscaiola perché le famiglie dei taglialegna la cucinavano quando si trasferivano nelle capanne di terra in mezzo al bosco”.

ingredienti per 4 persone• 400 g di bietole • 1 cipolla rossa• 1 cucchiaio di conserva di pomodoro • 200 g di pane• 1 litro di brodo di carne • Sale e pepe• Olio d’oliva

Soffriggere nell’olio la cipolla tritata finemente. Aggiungere le bietole tagliate in modo grossolano. Sale e pepe. Quindi unire la conserva, il

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brodo e continuare a fuoco basso per 40 minuti circa. Tagliare a fette sottili il pane e gettarlo nella padella rimestando dolcemente. Dopo qualche minuto la minestra è pronta per essere servita.Ricetta raccolta da Donatella Cinelli dei Barbi, Montalcino (Siena)

Acquacotta di Roccalbegna

Luciano Momini, già proprietario e chef della “Buca San Lorenzo”, il ristorante collocato nelle mura medicee di Grosseto, è di Roccalbe-gna e mi sottopone la ricetta di sua madre.Casseruola. Olio. Soffritto con cipolla e molto sedano. Basta variare le quantità degli stessi ingredienti e l’acquacotta cambia colore, sapo-re: identità. In seguito aggiunge la bietola selvatica. Appena la bietola è rosolata mette dentro 3-4 pomodorini maturi, con la buccia e tut-to, ben lavati. Quindi del peperoncino. Allunga con brodo di pollo. Fa bollire per 20 minuti. Alla fine ci rompe sopra due uova, dose giusta per quattro commensali. E le gira. Lui usa un’altra espressione, più tecnica, dice: “Poi si minestra tutto quanto”. Le uova si sfanno, ecco. E versa il suo capolavoro in una zuppiera dove ha adagiato delle fettine di pane raffermo e tostato. Ultima operazione: grattugiare sopra, con generosità, il formaggio pecorino.Non chiedete a Momini quale acqua ha cotto. L’acqua è rimasta nel nome del piatto e nella leggenda di una Maremma che provviden-zialmente non è più quella del passato.Ricetta di Luciano Momini

Acquacotta di Scansano

A Scansano, la cittadina che ai tempi della malaria sostituiva Gros-seto come capoluogo provinciale nei mesi della terribile calura, l’ac-quacotta è rimasta, almeno a parole, la più tradizionale dell’intera Maremma, con poche concessioni all’agiatezza conquistata dopo enormi sacrifici.Le parole sono di Maddalena Pinzuti, proprietaria dell’“Antica Bot-te”, che è di Arcidosso ma vive a Scansano da vent’anni, dove si è sposata. Maddalena è simpatica e spiccia di modi. Sembra proprio che di lei ci si possa fidare. Intanto usa una padella nera, ben capace, e questo ci riporta subito al passato. L’ascoltiamo con interesse. Che Scansano sia davvero l’ultimo baluardo della vecchia cucina?

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Andiamo a verificare. L’eterno soffritto con cipolla e costole di sedano. Niente foglie. Olio, naturalmente. Sale e peperoncino. Rosolare bene. Pomodoro per co-lorire. Ma ora la cuoca aggiunge del brodo di carne.Le premesse vengono tradite. Sarebbe questa l’acquacotta dei poveri diavoli? E la signora Maddalena confessa che nel soffritto ci mette addirittura un po’ di dado, per accrescere il sapore dell’insieme. Ma se ha tradito le premesse di “purezza”, questa acquacotta con un uovo intero per persona, versata sul pane abbrustolito delle terrine, non delude i commensali. Credevamo di trovare l’acquacotta più sem-plice, più nature, e abbiamo trovato l’acquacotta più gustosa, più sapida.Ricetta del ristorante enoteca “Antica Botte” di Scansano (Grosseto)

Acquacotta del Peccianti

I Peccianti tengono banco a Grosseto da almeno quattro generazioni. Augusto Peccianti, il bisnonno degli attuali proprietari del ristorante “La Maremma”, il più popolare e il più frequentato (specialmente nei giorni di mercato) di Grosseto, era il cocchiere di Palazzo Ponti-celli. I suoi eredi facevano servizio di carrozze e diligenze, e anche di barrocci, su tutte le strade maremmane, buone e cattive che fossero (più cattive che buone, polverose d’estate, fangose d’inverno) e ave-vano un purosangue indomabile, Nizzardo, che un giorno fuggì sulla strada ferrata galoppando davanti al treno.“E ora siamo qui riuniti tutti quanti/ evviva la cavalla del Peccianti” cantavano in coro i clienti della mescita di vino di Gino Peccianti, che sostituì i cavalli con le prime automobili di piazza e preparava un’acquacotta resuscitamorti. La cavalla si chiamava Pupa e nella loro acquacotta i fratelli dell’attuale generazione, fedeli al passato, metto-no più cipolla che sedano (nel soffritto), poca bietola e aggiungono asparagi e funghi porcini a seconda della stagione. Senza dimenticare le uova di rigore, intere e al centro della terrina servita in tavola.Ricetta del ristorante “La Maremma” di Grosseto

Acquacotta di Roselle

“Il Tordaio” è un ristorante che ha un’insegna nostalgica. “I tordi non ci sono più da un pezzo” dice la cuoca, Cristina Bertelli, moglie del

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