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CRITICA LETTERARIA 171 INIZIATIVE EDITORIALI - NAPOLI PAOLOLOFFREDO GRAZIELLA BASSI Ser Ciappelletto - Manfredi di Svevia: due anime allo specchio

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CRITICA LETTERARIA

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InIzIATIvE EdIToRIALI - nApoLIPAOLOLOFFREDO

graziella Bassi

Ser Ciappelletto - Manfredi di Svevia: due anime allo specchio

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GRAZIELLA BASSI

Ser Ciappelletto - Manfredi di Svevia: due anime allo specchio

L’intuizione dell’esistenza di rapporti intertestuali tra Decameron I, 1 e Purgato-rio III trova conferma nella lettura comparata dei due testi, che offre riscontri di tipo lessicale, retorico e tematico; in particolare, la disposizione a chiasmo de­gli echi danteschi in Boccaccio permette di formulare una proposta interpreta­tiva della figura di ser Ciappelletto e del suo destino ultraterreno, in stretta correlazione con quella di Manfredi di Svevia.

The intuition of intertextual ties linking Decameron I, 1 to Purgatorio III finds confirmation through a comparative reading of the two texts, setting out lexi­cal, rhetorical and thematic similarities. In particular, the chiasmus structure of the Dantean echoes in Boccaccio allows the formulation of an interpretation of the character of ser Ciappelletto and his afterlife, closely tied to that of Manfred of Swabia.

Un segno è qualcosa conoscendo il quale conosciamo qualcosa di più

(Ch.S. Peirce)

Questi segni mi hanno sedotto, sono portatori del movimento che si è

realizzato in me(J. Starobinski)

1. Il presente lavoro è nato dall’intuizione dell’esistenza di uno stretto legame strutturale e tematico tra la prima novella del Decame-ron, quella che le antologie scolastiche solitamente intitolano Ser Ciap-pelletto, e il terzo canto del Purgatorio di Dante. Tale rapporto è sugge­rito da elementi di tipo lessicale e retorico: «E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili, che il somigliante n’averrà, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere» (Decameron, I, 1, § 25). La lettura di questo passaggio richiama alla mente il verso dantesco: «Orribil furon li peccati miei» (Dante Alighieri, Pg., iii, v.

Contributi

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121). La riflessione è scaturita dalla disposizione a chiasmo dell’e­spressione di Boccaccio rispetto al verso di Dante, sui cui possibili si­gnificati si è condotta un’indagine attraverso la lettura comparata dei due testi, indagine che ha permesso di riscontrare altre reminiscenze testuali e calchi verbali.

Se è nota la grande ammirazione che, nel corso di tutta la sua vita, Boccaccio nutre nei confronti di Dante, è altrettanto accertato che la Commedia rappresenti per lui un modello. Come già arguiva Bettinzo­li nel 1982,

[…] non può sorprendere che tanta devota ammirazione si traduca […] in un sistema fittissimo e articolato di riprese linguistiche, stilistiche, di pensiero, che si snoda dalle prime e ancora incerte sperimentazioni letterarie lungo l’intero arco dell’opera boccacciana, trovando nel De-cameron il luogo di più complessa e polivalente definizione, l’asse in­torno a cui ruota e si raccoglie una lunga sequela di prove variamente riuscite1.

Secondo Delcorno, il dantismo in Boccaccio segue un’evoluzione che va dalla citazione scoperta all’allusione segreta e sottile, tramite una particolare tecnica di sfumature e di variazioni che raggiungerà la per­fezione proprio in alcune pagine del Decameron2. Anche Hollander os­serva che il novelliere boccacciano è zeppo di dantismi, ma sembra stupirsi che la loro presenza sia risultata impercettibile a tanti studiosi e trova una risposta a una così scarsa attenzione nel tono dell’opera, che definisce «sbagliato»3. Sia Bettinzoli sia Hollander evidenziano co­me la prima citazione dantesca si trovi già in quello che viene impro­priamente indicato come «sottotitolo dell’opera», Prencipe Galeotto; il secondo, poi, sostiene che tramite il sottotitolo Boccaccio intenda chia­rire che nessun altro testo letterario sia così importante per lui come la Commedia di Dante4. Bettinzoli, inoltre, coglie nell’intitolazione «quel­

1 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, I. I registri ‘ideologici’, lirici, drammatici, in Studi sul Boccaccio, vol. XIII, Firenze, Sansoni, 1981­1982, p. 267.

2 C. Delcorno, I dantismi nella Fiammetta, in Studi sul Boccaccio, vol. XI, Firen­ze, Sansoni, 1979, p. 273.

3 R. Hollander, Boccaccio’s Dante and the Shaping Force of Satire, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1997, p. 3.

4 Id., The proem of the Decameron, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force of Satire, cit., p. 100. La nuova edizione Bur 2013 del Decameron, nella Scheda dell’ope-ra curata da G. Alfano, evidenzia come Boccaccio abbia voluto rendere il lettore consapevole del proprio ruolo, associando al titolo un sottotitolo altamente allu­

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l’uso antifrastico del modello dantesco, che è una delle linee di forza e di originalità del più maturo accostarsi boccacciano al suo primo “ma­estro di studi e di stile”»5, mentre nel ricordo del «libro Galeotto» un’ombra di malizioso sorriso.

L’influenza del poema dantesco è riscontrabile anche nel paralleli­smo tra l’«orrido cominciamento della peste» e la condizione negativa in cui si trova Dante nel primo canto6; la «montagna aspra e erta» e la selva «aspra» e «selvaggia»; il disfacimento fisico provocato dalla pe­stilenza e il disfacimento morale che ha in Firenze il suo centro di rife­rimento costante: il legame che unisce l’apertura di due opere pur di­verse «riaffiora così più chiaramente seguendo la traccia lasciata dalle assidue memorie dantesche nella scrittura di Boccaccio»7. Lo stesso Bettinzoli rileva una netta preponderanza di citazioni dall’Inferno dan­tesco nella prima parte dell’Introduzione, scelte per contiguità temati­ca o stilistica8. Bettinzoli e Hollander, indipendentemente l’uno dall’al­

sivo al verso di Inferno V in cui Francesca spiega a Dante – personaggio che l’amo­re tra lei e Paolo è nato durante la lettura di un romanzo cavalleresco, Le Chevalier de la Charrete, in cui Galehault funge da intermediario d’amore tra Lancillotto e Ginevra, proprio come il romanzo, a sua volta, favorisce il suo adulterio. Si po­trebbe quindi supporre che l’autore intendesse mettere in guardia il lettore dal leggere il Decameron per non rischiare di finire all’Inferno, ma questo pare impro­babile; sembra invece più plausibile che col doppio riferimento – a Dante e a Chrétien de Troyes – egli puntasse a «nobilitare in senso cortese il mondo cultura­le fiorentino» (G. Boccaccio, Decameron, Introduzione, note e repertorio di cose (e parole) del mondo di A. Quondam, Testo critico e Nota al testo a cura di M. Fio­rilla, Schede introduttive e notizia biografica di G. Alfano, Milano, BUR, 2013, pp. 67­68). Secondo Battaglia Ricci e Bragantini, Boccaccio intende chiarire che il fine del libro è quello di «consolare gli afflitti», perché egli ha verificato su di sé il potere salvifico e rasserenante della parola, e difendere la letteratura cortese e cavalleresca dalle accuse di immoralità che le giungevano da Dante e dagli ordini religiosi. Boccaccio ripropone proprio quegli incriminati modelli di vita per la ri­generazione del mondo umano dalla rovina causata dalla peste ed esalta la fun­zione edonistica del libro, sottolineando più volte l’onestà della lieta brigata, mai scalfita dalla tentazione di sovrapporre letteratura e vita in cui erano fatalmente caduti Paolo e Francesca. Cfr. L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 184­187; R. Bragantini, Il governo del comico. Nuovi studi sulla narrativa italiana dal Tre al Cinquecento, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2014, pp. 22­23.

5 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, I, cit., p. 270.

6 G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 73.7 R. Hollander, The sun rises in Dante, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping

Force of Satire, cit., p. 242.8 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, I, cit.,

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tro, sono giunti a conclusioni molto vicine, ovvero alla chiarificazione del concetto che Dante non è mai stato lontano dalla mente o dalle mani di Boccaccio mentre egli componeva il Decameron9. Bettinzoli, in particolare, ha indagato la fitta rete di rapporti che intercorrono non solo tra il Decameron e la Commedia, ma anche con le altre opere poeti­che di Dante (Vita Nuova, Rime, canzoni del Convivio), classificando le presenze dantesche secondo i registri ideologici, lirici e drammatici e le categorie dell’ironizzazione e dell’espressivismo antifrastico e defor­matorio. È stato infatti dimostrato che nella fase più matura della sua vita e della sua produzione letteraria, Boccaccio si avvicina al suo più grande maestro con un atteggiamento diverso, in cui, alla stima e all’apprezzamento, si intrecciano la parodia e l’uso in chiave antifrasti­ca di molti versi danteschi, specialmente della Commedia, ma anche della Vita Nuova e delle Rime. La vena parodistica e antiletteraria del Decameron era già stata individuata da Vittore Branca, nel 1976, come una sorta di controcanto all’interno del complesso canto corale narrati­vo, che Boccaccio ha saputo molto abilmente orchestrare proponendo un risvolto surreale o ultrareale nella sua visione della realtà10. Bettin­zoli evidenzia come i dantismi ascrivibili al registro ironico parodisti­co presentino diverse gradazioni di toni, a seconda dei contesti di cui entrano a far parte11. Tra gli studiosi vi è chi ritiene che al ridimensio­namento della presenza di Dante e al mutato atteggiamento di Boccac­cio nei suoi confronti avrebbero contribuito l’amicizia e la frequenta­zione di Petrarca. Non ci si addentra in questa sede nella complessa questione dei rapporti tra Boccaccio e Petrarca, i cui termini si possono definire, in estrema sintesi, nella contrapposizione tra la tendenza a presentare un Boccaccio profondamente influenzato da Petrarca (Ri­co12, Quondam13) e i sostenitori della necessità di riconsiderarne la fi­gura intellettuale e l’autonomia di pensiero (Bragantini14, Battaglia

p. 271.9 R. Hollander, Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force of Satire, cit., p. 14.10 V. Branca, Introduzione al Decameron, Milano, Mondadori, 1976, p. XXV.11 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, II.

Ironizzazione e espressivismo antifrastico­deformatorio, in Studi sul Boccaccio, vol. XIV, Firenze, Sansoni, 1983­1984, p. 210.

12 F. Rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Roma­Padova, Antenore, 2012, passim.

13 A. Quondam, Introduzione a G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 58.14 R. Bragantini, Petrarch, Boccaccio, and the Space of Vernacular Literature, in

c.s. in Petrarch and Boccaccio. The Unity of Knowledge in the Pre­modern World, Edited by I. Candido, Berlin, De Gruyter, 2016.

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Ricci15), anche alla luce degli studi più recenti16, dai quali sono emerse la ricchezza e l’articolazione della biblioteca di Boccaccio, sorprenden­ti per la quantità e la qualità delle opere filosofiche a lui note e le sue delibazioni di testi classici, indici dello spessore culturale e della den­sità concettuale del progetto implicito nella sua intera produzione.

A riprova della contiguità tra la Commedia e il Decameron, come sot­tolinea Hollander, Vittore Branca ci ha ricordato che entrambe le opere cominciano facendo riferimento a eventi o date che segnano il trenta­cinquesimo anno di vita dei rispettivi autori. La percezione di un au­tore protagonista recentemente sfuggito a una situazione potenzial­mente letale pervade entrambi i testi. Nella loro precedente difficoltà ognuno è stato aiutato dal consiglio di un amico: in Dante questi era Virgilio, inviato da Beatrice; in Boccaccio il consigliere mediato è Ovi­dio con i suoi Remedia amoris, ripresi nel Proemio; ma è anche lo stesso Dante, come dimostra il sottotitolo allusivo a Inferno v17. L’influenza della Commedia, molto ricca dal punto di vista quantitativo, assume le più varie sfaccettature, che vanno dalle coloriture più accese dell’In­ferno all’elegia del Purgatorio alle note polemiche dei canti di Caccia­guida nel Paradiso o ai toni indignati contro la mondanizzazione del clero. L’estrema audacia con cui Boccaccio si muove, fondendo e con­taminando materiali che trasferisce da un contesto all’altro, lo condu­ce alla definizione di uno stile mutevole, che rispecchia la volubilità delle forme di vita e la molteplicità del reale. Egli sovrappone, interse­ca e intreccia i materiali più diversi adattandosi ai differenti codici linguistici e rendendo più efficace la comunicazione. Le citazioni non sono quasi mai scoperte ed immediate, ma, nella loro allusività, rive­lano una rielaborazione profonda. La frequenza policroma delle pre­senze dantesche ha dunque un peso notevole sullo stile di Boccaccio, che si è imposto come modello della tradizione narrativa18.

15 L. Battaglia Ricci, Scrivere un libro di novelle. Giovanni Boccaccio, autore, let-tore, editore, Ravenna, Longo, 2013, p. 36 e passim; cfr. anche R. Bragantini, Il go-verno del comico, cit., pp. 22­23.

16 Tra gli studi più recenti si segnalano: I. Candido, Boccaccio umanista. Studi su Boccaccio e Apuleio, Ravenna, Longo, 2014, p. 14 e pp. 141­158; i due saggi: G. Zak, Boccaccio and Petrarch, pp. 139­154, e T.F. Gittes, Boccaccio and Humanism, pp. 155­170, entrambi in G. Armstrong, R. Daniels et al. (eds.), The Cambridge Companion to Boccaccio, Cambridge, Cambridge University Press, 2015.

17 R. Hollander, The proem of the Decameron, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force of Satire, cit., pp. 100­101.

18 Cfr. A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, II., cit., passim.

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Veniamo ora al protagonista della novella in questione. Ser Ciap­pelletto ha suggerito a diversi studiosi associazioni con altri personag­gi, danteschi e non, come il Brunetto Latini (If, xv) di Hollander, il San Francesco (non dantesco) di Valesio, che ha, fra l’altro, individuato echi dell’Ulisse dantesco in un dettaglio stilistico contenuto nella do­manda che i fratelli fiorentini rivolgono a se stessi riguardo al loro ospite19. Lo studioso ha inoltre ipotizzato la possibile identificazione di ser Ciappelletto con il pubblicano (o gabelliere o appaltatore) Zaccheo, nell’episodio evangelico di Gesù a Gerico (Lc 19, 2­10), anche per la somiglianza fisica: entrambi sono minuti e piccoli di statura. Lo ha infine considerato come «mezzano» della grazia divina, termine tecni­co come «procuratore», entrambi appartenenti al campo semantico dei rapporti legali e diplomatici ed utilizzati con repetitio, il secondo nel proemietto di Panfilo20. Ciappelletto «santificato» è visto come «mez­zano» verso Dio anche da Barbiellini Amidei che considera altresì la novella come parodia del ruolo che lo stesso Decameron riveste presso le donne, quello cioè di «prencipe Galeotto», e il protagonista come intermediario, «procuratore» dell’opera di Boccaccio, che può rappre­sentare un mezzo di conoscenza per i suoi lettori21. Una tale ricchezza di suggestioni dimostra la complessità del testo in questione e, più in generale, del novelliere boccacciano, un macrotesto governato dalla varietas secondo il modello di un organismo reticolare, «con richiami e compensazioni che possono verificarsi anche a distanza»22. La quanti­

19 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, a cura di R. Bragantini e P.M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 402. Così Valesio: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si vede vi­cino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia morire come egli è vivuto?» (Decameron, I 1, § 79); l’anafora del né (ripetuto cinque volte) echeggia la triplice anafora del né del discorso dell’Ulisse dantesco: «né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore» (If, xxvi, vv. 94 e segg.) e pone un problema che va oltre il dettaglio stilistico: Ciap­pelletto diventa un ulisside, così che la burla appare un gesto eroico – umanistico, oppure Ciappelletto diviene il veicolo di un ridimensionamento parodistico del di­scorso di Ulisse?

20 Ivi, p. 411.21 B. Barbiellini Amidei, Boccaccio, Ciappelletto e la funzione del mezzano, in

«ACME», Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, vol. LX, fascicolo I, Gennaio­Aprile 2007, pp. 273­274.

22 R. Bragantini, Appunti sull’ordine dei racconti e l’organizzazione testuale del “Decameron”, in Boccaccio in America, a cura di E. Filosa e M. Papio, Ravenna, Lon­go, 2010, p. 187.

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tà e la varietà di rinvii, accostamenti, intersezioni testimoniano inoltre la straordinaria capacità del macrotesto e del suo autore di porsi in un atteggiamento costantemente dialogico e dialogante rispetto ad altri testi e ad altri autori, dal confronto con i quali non sempre scaturisco­no conclusioni incontrovertibili, ma più spesso si aprono nuovi inter­rogativi, si prospettano nuovi problemi da cui emerge la complessità e la contraddittorietà del reale, che Boccaccio aveva saputo cogliere an­cor prima di comporre il Decameron. Ma è proprio nel suo capolavoro che egli, attraverso il moltiplicarsi all’infinito degli angoli visuali e del­le linee di sviluppo narrativo, tende ad abbattere la prospettiva unica di certe visioni del mondo e a stimolare la consapevolezza dei lettori23.

2. Prima di procedere alla lettura parallela dei due testi, si riporta, nelle sue linee essenziali, l’interpretazione fornita da Hollander della figura di ser Ciappelletto (Cepparello)24 in relazione a quella di Bru­netto Latini (If xv). L’accostamento tra i due personaggi nasce da un’intuizione immediata – afferma Hollander – e non è suffragato, come egli stesso riconosce, da prove e ipotesi che lo giustifichino o da rimandi testuali, ma, proprio in quanto frutto di un’intuizione, è se­condo lui da considerarsi una plausibile interpretazione. I caratteri che accomunano i due personaggi, oltre alla professione di notaio, so­no l’omosessualità, attribuita a Cepparello da Boccaccio (mentre le

23 L. Battaglia Ricci, Scrivere un libro di novelle, Giovanni Boccaccio autore, letto-re, editore, cit., p. 216.

24 Il nome Cepparello deriverebbe verosimilmente da ceppo, inteso come «stirpe estinta», «arido», «sterile», «senza prole», o, meno probabilmente, potrebbe essere diminutivo di Ciapo, esso stesso deformazione di Jacopo. Il passaggio, in terra di Francia, a Ciappelletto (da chapelet, «cappello», «ghirlanda», «piccola ghirlanda», nell’accezione di «alloro poetico») sarebbe dovuto a un grossolano errore dei Bor­gognoni, che comporterebbe la trasformazione del personaggio in qualche cosa di etimologicamente superiore a ciò che egli è veramente. La questione è trattata da R. Hollander, Imitative distance, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force of Satire, cit., pp. 29­30. Lo stesso problema è affrontato anche da Kurt Flasch, che evidenzia la perfetta assonanza tra il titolo notarile di Ser, attribuito da Boccaccio ad un personaggio storicamente esistito come mercante, e quello di San, oltre alla lunghezza dei due nomi Cepparello e Ciappelletto, quadrisillabi entrambi: è un Sau­lo che è diventato un Paolo? – ci si potrebbe domandare. Se la poesia è l’arte di generare somiglianze tra i suoni, la fine del «titolo» rimanderebbe al suo inizio («Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, es­sendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato San Ciappelletto»), quindi non si sarebbe verificato nessun mutamento. Cfr. K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, Roma­Bari, Laterza, 1995, p. 78.

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note di Branca ci informano che «non era notaio, era ammogliato e aveva figli»25) e l’aver lasciato entrambi la Toscana per andare a vivere in Francia. Brunetto è un onesto notaio, l’esatto opposto di Cepparel­lo. Secondo Hollander, il contesto essenziale della prima novella è co­sì riccamente suggestivo di Brunetto e della sua missione di insegnare a Dante «come l’uom s’etterna» (If xv, v. 85) che sembra probabile che egli abbia costruito la sua versione fittizia di Cepparello Dietaiuti su un’inversa rappresentazione delle virtù di Brunetto Latini. Verso la fine del commento a Inferno xv, nelle Esposizioni sopra la Commedia di Dante26, Boccaccio prorompe nell’approvazione della vera immortalità guadagnata nella fama dai poeti e dagli scrittori in genere. Quando Brunetto afferma di vivere ancora nel suo Tesoro, offre a Boccaccio l’oc­casione finale con cui celebrare le lodi della poesia. E ciò avrebbe altre­sì richiamato alla mente del suo autore il suo Cepparello, perverso conquistatore di un altro tipo di immortalità. Il commento di Boccac­cio, secondo Hollander, può essere visto come pertinente sia al poema di Dante che al suo Decameron27. Anche il Decameron è infatti da inten­dersi come opera di poesia, secondo l’Introduzione alla iv Giornata: «Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon consiglio» (Decameron, iv, Intr., § 35). Se Cepparello ha conquistato l’immortalità, quale essa sia, lo ha fatto grazie alla sua perizia nell’uso della parola e alle sue impareggiabili doti istrioniche, motivi per i qua­li la novella è stata da molti critici (Getto, Bàrberi­Squarotti, Baldisso­ne) interpretata come «il trionfo della parola», il cui protagonismo «regola anche le varie associazioni d’idee che fanno scaturire l’una dall’altra le dieci novelle»28. Quanto alla sorte ultraterrena di Ceppa­rello, Hollander ritiene significativo che Panfilo, a dispetto della pro­pria opinione che il falso santo sia stato molto più probabilmente dan­nato, insista nel presentare la questione come aperta. Sicuramente, nel senso che dà Boccaccio all’opera di Brunetto in Esposizioni 15 c’è il terreno migliore per pensare a lui come salvato piuttosto che dannato. Un Brunetto dannato, sull’autorità di Dante, e un Cepparello poten­

25 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992, p. 49, n. 1.

26 Per le Esposizioni sopra la Commedia di Dante Hollander fa riferimento all’edi­zione del 1965, curata da G. Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, vol. VI, Milano, Mondadori, 1965.

27 R. Hollander, Imitative distance, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping For-ce of Satire, cit., pp. 34 e segg.

28 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, in Prospettive sul Decameron, a cura di G. Bàrberi Squarotti, Torino, Tirrenia Stampatori, 1989, p. 11.

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zialmente salvo, sulla formulazione propria di Dante di che cosa «donna Berta e ser Martino» (Pd, xiii, vv. 139­142) esplicitamente non possono conoscere, tendono a chiamare in causa l’atteggiamento poe­tico di Dante come vate, mentre al tempo stesso fanno del suo Brunet­to una figura di poeta degna di emulazione. Il Cepparello di Boccaccio servirebbe quindi a ricordare al lettore attento che il modo nel quale l’uomo ha reso se stesso immortale è stato degradato in un’età di piombo29. Hollander fonda la sua argomentazione unicamente sulle sue suggestioni personali di lettore esperto di Dante e sulla convinzio­ne che Boccaccio, senza mai citare il testo in questione, faccia affida­mento sulla disponibilità, per così dire, del suo lettore ad essere solle­citato a cogliere somiglianze e paralleli, per apprezzare, prima di tut­to, quanto il Brunetto di Dante sia calzante rispetto al suo Cepparello. La considerazione di Cepparello come «un falso Brunetto» si basa quindi su prove che Hollander stesso definisce «non tanto decisive quanto suggestive». Egli ammira una così delicata «arte della citazio­ne», che consiste nel far appello alla presenza di un testo antecedente alludendovi senza mai citarlo direttamente30. Non è da escludere che il genio combinatorio di Boccaccio, mentre scriveva Ser Ciappelletto, abbia avuto presenti contemporaneamente Inferno xv e Purgatorio iii, insieme a chissà quanti e quali altri testi.

Fra la novella I 1 e il terzo canto del Purgatorio sono invece nume­rose le reminiscenze testuali e i calchi verbali che ora si analizzeranno, distinguendo, con Segre, tra intertestualità e interdiscorsività31. Per il testo del Decameron si seguirà la nuova edizione Bur 2013; per quello della Divina Commedia, l’edizione curata dal Sapegno32 e quella com­mentata da Bosco e Reggio33. Quali elementi possono accomunare due testi apparentemente così diversi come Decameron I 1 e Purgatorio iii? Innanzitutto il carattere «agiografico» di entrambi: la novella è stata definita una sorta di exemplum, arricchito però da una prospettiva sto­

29 R. Hollander, Imitative distance, cit., pp. 36­37.30 Ivi, p. 38.31 Si intendono per intertestualità i rapporti fra testo e testo, scritto, e in partico­

lare letterario, e per interdiscorsività i rapporti che ogni testo, orale o scritto, intrat­tiene con tutti gli enunciati (o discorsi) registrati nella corrispondente cultura e ordinati ideologicamente (Cfr. C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984, pp. 110­111).

32 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di N. Sapegno, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 2004.

33 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988.

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rica che funge da impalcatura narrativa, senza la quale non si regge­rebbe neppure la confessione che ne costituisce il fulcro34. Tra i model­li narrativi di forma breve l’exemplum è infatti costantemente presente nel Decameron. Dagli studi di Delcorno, ai quali è scontato il rinvio, è emerso che dall’exemplum, nelle sue forme più semplici, la narrativa si evolve verso la struttura complessa della novella, attraverso lo sciogli­mento dei legami che uniscono il racconto al contesto e ai suoi fini didattici. Tra novella ed exemplum si instaura un rapporto di inter­scambio35. Mentre nell’agiografia la prospettiva storica è indetermina­ta, imprecisa, falsificata, in questa agiografia sui generis essa è precisa e circostanziata: Carlo di Valois e Bonifacio VIII, la politica e il com­mercio in Francia e in Italia agli inizi del Trecento, insieme ad altre notazioni di storia del costume e della mentalità come quella relativa alla pratica dell’usura. «È la stessa scena che campeggia in molti epi­sodi danteschi»36.

Anche la vicenda conclusiva del terzo canto del Purgatorio, che ha come protagonista Manfredi di Svevia, va intesa nella sua funzione pregnante di exemplum e valutata nella complessità dei suoi significati, tutti riconducibili e riassumibili in una profonda lezione di umiltà. Manfredi è stato ingiustamente e duramente perseguitato in vita da Clemente IV, che ha chiamato in Italia Carlo d’Angiò, combattendo contro il quale il sovrano svevo è morto, e anche dopo la sua morte, con la profanazione della tomba e la dispersione dei resti ordinate dal­lo stesso pontefice. Altro elemento importante comune ai due testi è il tema del pentimento: sincero, avvenuto in solitudine, in punto di morte, quello di Manfredi immaginato da Dante; più ambiguo e pro­blematico quello di ser Ciappelletto, risultato di quanto è stato consi­derato per molti decenni e dalla quasi totalità degli studiosi una falsa confessione, in anni più recenti riesaminato e rivalutato con esiti com­pletamente diversi da Valesio37.

34 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., pp. 17­18.35 C. Delcorno, Exemplum e Letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna,

Il Mulino, 1989, pp. 175­180. 36 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., pp. 17­18.37 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 396­412. La falsa

confessione di Ciappelletto sarebbe un atto di amore verso il prossimo, la cui sot­tigliezza morale non sarebbe stata compresa dai due fratelli usurai. Per loro la confessione è un mero atto di legittimazione sociale, utile a sancire la loro rispetta­bilità. Non vi è posto per la grazia, che è imprevedibile, non c’è posto quindi per il pentimento. Chi legge la strategia di Ciappelletto in funzione parenetica è Panfilo, che dà la lettura più appropriata della novella, in quanto riprende il concetto della

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Dal punto di vista narratologico e tematico, Boccaccio dissemina e trasmette segnali metadiegetici a vari livelli della narrazione. Nelle parti riflessive, introduttiva e conclusiva di Panfilo vengono ripresi i grandi temi di natura teologico­dottrinale, presenti nella prima parte del terzo canto del Purgatorio, nei primi 45 versi, in relazione alla spe­ranza in Dio, alla sua bontà e all’imperscrutabilità dei suoi disegni, contrapposta alla limitatezza della conoscenza umana: è da pazzi, o da sciocchi, credere che la ragione umana possa percorrere l’infinita via seguita da Dio; l’uomo deve accontentarsi di sapere che le cose esistano, senza pretendere di conoscerne l’essenza e il fine ultimo: «State contenti, umana gente, al quia» (Pg iii, v. 37). Tale monito all’u­miltà è pronunciato da Virgilio, la ragione stessa, che si ritiene insuffi­ciente a penetrare i grandi misteri e afferma la necessità per l’uomo di rimettersi alla rivelazione. L’inadeguatezza della ragione che confidi solo in se stessa per conseguire la salvezza è rispecchiata dall’incertez­za di Virgilio sulla strada. Anche i grandi spiriti del passato, Aristote­le, Platone e lo stesso Virgilio, dotati di mezzi umani eccezionali, ma tuttavia insufficienti, sono destinati a desiderare invano, in eterno, di raggiungere la verità suprema, che è Dio. Tale dichiarazione dei limiti della ragione umana, posta all’inizio del canto, non è slegata dall’epi­sodio di Manfredi che chiude il canto stesso: tutti, ma soprattutto le più alte gerarchie ecclesiastiche, ritengono il re dannato, in quanto morto scomunicato, mentre egli è salvo grazie all’infinita bontà di Dio che nessun uomo può pretendere di pregiudicare. La polemica si estende anche alla comunità degli uomini, convinti di poter conoscere la sorte ultraterrena di altri uomini, importantissimo motivo che sarà ripreso in Pd, xiii, vv. 139­142. Sono soprattutto tali nodi a legare la prima novella del Decameron e il terzo canto del Purgatorio. Il rapporto che li unisce è indicato da elementi di carattere lessicale e retorico.

In relazione alla speranza in Dio, trattandosi di intersezione a livel­lo tematico, si può parlare di interdiscorsività:

[…] dovendo io, al vostro novellare, sì come primo, dare comincia­mento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in Lui, sì come in cosa impermu­tabile, si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato (§ 2)

«e tu ferma la spene, dolce figlio» (Pg iii, v. 66)

grazia, vista come totalmente gratuita e costantemente disponibile, in forza della quale non si può escludere che Ciappelletto possa salvarsi.

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Da notare la disposizione chiastica tra i due brani: «la nostra speranza in Lui […] si fermi», «e tu ferma la spene». La figura del chiasmo ca­ratterizza tutti i legami intertestuali intercorrenti tra i due testi in que­stione. Panfilo, narratore della prima novella della prima Giornata, per rinsaldare la speranza dei suoi giovani compagni nella Grazia e nella bontà divine, intende dare inizio alla narrazione nel nome di Dio: «Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui, il quale di tutte fu facitore, le dea principio» (§ 2). Come ha rilevato Bragantini, il narratore richiama le parole di San Paolo «Omne quodcumque facitis in verbo aut in opere, omnia in nomine Domini Iesu, gratias agentes Deo et Patri per ipsum» (Ad Col., III, 17)38. Il primo dei narratori inten­de inoltre incominciare raccontando una delle «maravigliose cose» (gli arcana) operate da Dio stesso39. L’autore usa gli stessi vocaboli che Virgilio rivolge a Dante per rassicurarlo e incoraggiarlo a proseguire il cammino, benché impervio, dal momento che vedono avanzare lenta­mente, verso di loro, una schiera di anime40. Se si considera la disposi­zione a chiasmo, che si ritroverà in quasi tutti gli altri richiami di Boc­caccio al terzo canto del Purgatorio nella stessa novella, si può cogliere in essa una spia che potrebbe anticipare il rovesciamento di situazione dei protagonisti, anche se qui non compare ancora la figura del notaio malvagio e vizioso.

Ser Ciappelletto ha commesso nel corso della sua vita tutte le peg­giori nefandezze, ma, dopo una falsa confessione che è un iperbolico e parodistico rovesciamento del ritratto iniziale delineato dall’autore, sarà assolto dal venerando frate, sepolto con solenni funerali e innal­

38 R. Bragantini, Il governo del comico, cit., p. 27. Secondo lo studioso, le parole di Panfilo si ricollegano alla sentenza paolina, che svolge non solo la funzione di richiesta del sostegno divino, ma anche di augurio per il successo dell’impresa.

39 Il sintagma «maravigliosa cosa», che ricorre 12 volte (4 al plurale), riguarda un repertorio di eventi e oggetti eccezionali, ma sempre riferiti alle «cose del mon­do» tranne in I 1 § 2, nell’introduzione alla novella di Ser Ciappelletto, dove si rife­risce agli arcana di Dio (A. Quondam, Le cose (e le parole) del mondo, in Decameron, cit., pp. 1776­1777). Sul concetto di “meraviglioso” nel Medioevo si veda anche J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Bari, Laterza, 1983.

40 Più precisamente, Dante usa la forma accusativale spene, Boccaccio il più moderno speranza. L’antico italiano speme ‘speranza’ è da considerarsi un latinismo di cui la forma spene che si incontra accanto ad essa ne è una trasformazione, sotto l’influsso della sillaba paragogica ­ne (Cfr. G. Rohlfs, Grammatica storica della lin-gua italiana e dei suoi dialetti, Fonetica, Torino, Einaudi, 1966, § 305), ma il verbo fer-mare, nel significato di “rinsaldare”, “rafforzare”, “confermare”, è identico. Dante usa il vocabolo speranza al v. 135, in riferimento alla grazia eterna di Dio.

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zato all’onore degli altari a furor di popolo. Manfredi, secondo Dante, si è sinceramente pentito dei propri peccati in punto di morte ed è salvo in Purgatorio, nonostante la scomunica papale, ma ha ricevuto una sepoltura vile, in quanto morto contumace; del suo corpo è stato fatto scempio, e i vivi potrebbero crederlo tra i dannati all’inferno. Ri­guardo all’intonazione del passo del Decameron, si può notare la sua vicinanza sintattica e lessicale alla letteratura religiosa. Fra Due e Quattrocento gli exempla divennero infatti un genere autonomo e furo­no raccolti nelle Summae exemplorum, considerate da Boccaccio model­li non trascurabili di realismo e di organizzazione della tradizione narrativa, ma contestate ed erose nelle loro motivazioni ideologiche e nella pretesa di imporre rigidi modelli di comportamento etico e reli­gioso. Esse rappresentano per lui una messe di motivi popolari e tipi narrativi che nel contempo riflettono e modellano la mentalità dell’Oc­cidente. Questi materiali, depositi della memoria collettiva, vengono modificati lievemente nel senso e nel messaggio, sia pur mantenendo lo schema noto al lettore e riconoscibile nella novella41. Boccaccio «non si limita a utilizzare in chiave parodistica alcune fonti particolari» – osserva Delcorno – «ma ironizza contro intere classi di exempla, subor­dinate ai grandi temi della religione popolare, modellata e guidata dalla predicazione dei mendicanti»42.

L’attraversamento di temi comuni (interdiscorsività) prosegue con la bontà e la misericordia divine e il potere salvifico delle preghiere dei vivi sulle anime espianti:

La quale [Grazia di Dio] a noi e in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla propria benignità mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sì come noi siamo, furono mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo ora con Lui eterni son di­venuti e beati (§ 4);

41 C. Delcorno, Exemplum e Letteratura. cit., p. 184.42 Ivi, p. 269. Va ricordato il ruolo del francescanesimo, che libera le emozioni,

le istanze, le attese delle classi illetterate e pertanto subalterne all’egemonia della cultura scritta, prima latina e poi romanza, e fornisce all’elemento orale – popolare un progetto di riscatto, rafforzando i legami interni ai gruppi laicali, e contempo­raneamente supera le residue conflittualità tra il momento «laico» e quello «eccle­siale» dell’elaborazione della cultura, accogliendo e variamente assimilando il modello giullaresco. Cfr. C. Bologna, Fra devozione e tentazione. Appunti su alcune metamorfosi nelle categorie letterarie dall’agiografia mediolatina ai testi romanzi medieva-li, in Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, a cura di S. Boesch Gajano e L. Sebastiani, L’Aquila­Roma, L.U. Japadre Editore, 1984, pp. 319­320.

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ma la bontà infinita ha sì gran braccia,che prende ciò che si rivolge a lei (Pg iii, vv. 122­123);

[…] se tal decretopiù corto per buon prieghi non diventa (Pg iii, vv. 140­141).

Il tema della misericordia divina, che secondo Dante agirebbe al di sopra dei precetti dottrinari terreni, viene ripreso da Boccaccio insie­me all’altro grande nodo dottrinario del potere di intercessione che le preghiere dei vivi possono esercitare a favore dei defunti. Dante po­trebbe aver inventato la conversione per mostrare la grandezza della misericordia divina, ma era solito basarsi su fatti storici o ritenuti tali, o svelati da lui contro altre opinioni, comunque è rimasta qualche traccia che negli ultimi decenni del Duecento circolassero leggende intorno alla salvezza di Manfredi. In Decameron I 1, i due fratelli fio­rentini, origliata la confessione di Ciappelletto, commentano fra sé: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla quale si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia morire come egli è vivuto?» (§ 79). Le loro parole richiamano il brano evangelico del «buon ladrone» (Lc 23, 39­43), in cui il protagonista, rivolgendosi al malfattore che insulta il Cristo crocifisso, lo rimprove­ra così: «Non hai proprio nessun timore di Dio, tu che stai subendo la stessa condanna?». Poi aggiunge: «Gesù, ricordati di me, quando ver­rai nel tuo regno». Gesù gli risponde: «In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso». Tale episodio mette ancora una volta in risalto l’infi­nita benevolenza divina: basta un atto di fede e di pentimento, ed ecco la promessa del paradiso. Data la plausibilità del legame con la vicen­da dantesca di Manfredi, si potrebbe ipotizzare una valenza di sotto­fondo scritturale dell’episodio narrato da Luca. Dante giudica la sco­munica di Manfredi sostanzialmente un atto politico, quindi, appog­giandosi all’autorità di San Tommaso, che considerava la scomunica data per odio o per ira ingiusta e priva di effetto, presenta la vicenda di Manfredi come polemica nei confronti di un metodo di lotta che egli disapprova recisamente43. Secondo Dante, la bontà infinita di Dio

43 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit., p. 43.

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accoglie nelle sue braccia chi si affidi a lei, salva cioè chiunque le si rivolga con sincerità, malgrado la gravità dei peccati, malgrado la con­danna della Chiesa, anche in punto di morte. Sono le gerarchie eccle­siastiche a osteggiare la trascendenza della «bontà infinita» che limita il loro potere e il loro controllo sugli uomini. È il vescovo di Cosenza, mandato da papa Clemente IV a perseguitare Manfredi, che non rie­sce a comprendere questo aspetto della benevolenza divina, la sua inesauribile inclinazione al perdono, e gli dà la caccia, ordina cioè che le sue spoglie mortali, fatte tumulare da Carlo d’Angiò in capo al pon­te sul Calore, presso Benevento, siano dissotterrate e disperse44. Il principe svevo, nonostante le travagliate vicende del suo corpo, di cui peraltro non esistono documenti45, è salvo, la sua anima si trova nel­l’Antipurgatorio, nella prima schiera dei negligenti, gli scomunicati, in attesa di ascendere al Paradiso. Il sorriso con cui egli si presenta a Dante, oltre che di un atteggiamento gentile e quasi confidenziale, è anche indice di distacco e lontananza dalla propria vicenda terrena e dalle meschine contese intorno alle sue spoglie mortali.

Un altro importante tema dottrinario, quello dell’inconoscibilità, dell’imperscrutabilità dei disegni divini, che provengono da una men­te onnisciente, interseca con relazione interdiscorsiva il terzo canto del Purgatorio:

E ancora più in Lui, verso noi di pietosa liberalità pieno, discerniamo, che, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avviene forse tal volta che, da oppi­nione ingannati, tale dinanzi alla sua maestà facciamo procuratore che da quella con etterno essilio è iscacciato (§ 5);

Matto è chi spera che nostra ragionepossa trascorrere la infinita viache tiene una sustanza in tre persone. (Pg iii, vv. 34­36).

Per comprendere come si arrivi alla necessità di riconoscere l’umana ignoranza delle cose dell’aldilà, secondo Flasch occorre tenere presen­te il contesto di crisi epistemologica e linguistica del XIV secolo, da cui

44 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di N. Sapegno, cit., p. 33, n. 124.

45 Il fatto è tuttavia narrato dal Villani (da cui Dante quasi sicuramente ricava la notizia, come prova l’espressione «mora di sassi») e da Ricordano Malispini. Sull’etimologia del vocabolo mora, inteso come «mucchio di pietre», si veda ancora il commento al Purgatorio di Bosco­Reggio.

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consegue il ridimensionamento delle entusiastiche prospettive della conoscenza. La prima novella del Decameron avrebbe proprio la fun­zione di esplorare e valutare l’apparente, premessa una dichiarazione di umiltà, senza abbandonare l’equiparazione dantesca di poesia, filo­sofia, specialmente morale, e teologia. È possibile che Boccaccio, alla corte di Roberto d’Angiò, sia entrato in contatto con la filosofia di Gu­glielmo da Ockham, da lui annoverato tra le maggiori autorità del sapere nell’epistola del 1339 in cui ne fa menzione a proposito della dialettica, probabilmente allusiva alla Summa logicae nella quale si ri­definisce il rapporto tra segni linguistici e cose. Ciò autorizzerebbe a supporre la sua ricezione della sfiducia nel contenuto di realtà dei concetti generali e della critica al parallelismo tra pensiero e mondo. Panfilo in I 1 fa fallire un saggio e buon frate, esperto in teologia; pro­blematizza il nome di Dio e l’etimologia; mette in rilievo l’effetto prag­matico della lingua sul piano etico – sociale; accentua l’onnipotenza divina, ma rendendo il discorso impermeabile alla metafisica; rifonda la razionalità del parlare e dell’argomentare; sottrae alla sfera dell’oc­culto l’ambito dell’apparente, elementi, questi, che rimandano a Gu­glielmo da Ockham46. Bettinzoli ha evidenziato come, nell’introduzio­ne alla prima novella, la densità degli stilemi di intonazione religiosa non possa non destare qualche sospetto nel lettore, per il netto contra­sto con la materia cui prelude. Egli ha inoltre sottolineato come la fi­gura di ser Ciappelletto introduca «una particolare tecnica antifrasti­ca, per altri versi ampiamente sperimentata nella relativa novella»47:

Io non la vidi tante volte ancorach’io non trovassi in lei nova bellezza (Rime, xci, vv. 71­72);

io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente (§ 34).

Ironia e parodia «sono modalità dell’interdiscorsività e dell’intertestua-lità che comportano tutte un arricchimento di senso»48. L’ironia è un tropo retorico, ma il significato moderno del termine è quello di sot­toinsieme espressivo che comprende tutti i fenomeni di connotazione allusiva e di doppio strato del testo, a cominciare dalla parodia. Ma

46 K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, cit., passim.47 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, II.

cit., p. 230.48 C. Delcorno, Ironia/parodia, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 162­163.

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Dio esaudisce anche le preghiere rivolte a intermediari indegni, che magari sono persino dannati all’inferno. Il narratore – osserva Alfano nella scheda introduttiva alla novella del Boccaccio – sottolinea la dif­ferenza tra il piano divino, che è perfetto e perfettamente regolato per «sua propria benignità», e il piano umano, imperfetto e dominato dal­la «oppinione»49. Procedendo nell’analisi, due sono i casi di interte­stualità: il più evidente, il primo che balza agli occhi e che ha dato il via alla presente indagine, come anticipato nella premessa, è il seguente:

E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili, che il so­migliante n’averrà, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere (§ 25);

Orribil furon li peccati miei (Pg iii, v. 121)

Boccaccio, per tratteggiare indirettamente la figura del protagonista, fa pronunciare a uno dei due fratelli usurai fiorentini che lo ospitano in casa le stesse parole con le quali Dante fa riconoscere i propri pec­cati a Manfredi di Svevia nel terzo canto del Purgatorio. L’unica diffe­renza è l’aggiunta dell’aggettivo indefinito «tanti», a sottolineare an­che l’aspetto quantitativo: notaio falsario, falso testimone, seminatore di discordie, complice di omicidi e altri reati, bestemmiatore di Dio e dei santi, sodomita, giocatore e baro, non frequentava la chiesa e deri­deva i sacramenti. «Orribili peccati e bontà infinita» di Dio sono le due parole – tema del terzo canto, la cui unità lirica è stata individuata e descritta da Binni nella sua lettura del canto50. Ser Ciappelletto non confessa mai le proprie colpe, ma, di fronte alla preoccupazione dei suoi ospiti, chiede loro di precettare un frate confessore che lo assolva delle «tante ingiurie fatte a Domenedio», consapevole di fargliene ora un’altra proprio in punto di morte, ma convinto che Dio non ne terrà conto, mentre Manfredi definisce egli stesso, profondamente contrito, «orribili» le proprie colpe. L’aspetto di ambivalenza del gesto di ser Ciappelletto consiste nel fatto che la confessione, in quanto falsa, ap­partiene all’area semantica della negatività, ma come atto che salva dai guai i suoi due ospiti rappresenta anche l’unica buona azione com­

49 G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 144.50 A. Jacomuzzi, L’imago al cerchio e altri studi sulla Divina Commedia, Milano,

Franco Angeli, 1995, p. 200. La lettura di Binni è quella tenuta a Ravenna nella Casa di Dante nel 1953, pubblicata anche in La Rassegna della Letteratura italiana, 3­4 (1955) e raccolta poi nelle Letture dantesche a cura di G. Getto, vol. II, Firenze 1964, pp. 725­745.

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piuta nella sua vita, quasi il sacrificio estremo dell’ultimo barlume di salvezza che gli resta in punto di morte. La disposizione chiastica, uni­tamente all’uso della terza persona in Boccaccio e della prima in Dan­te, non fa che confermare e rimarcare il capovolgimento di situazione che intercorre tra i due protagonisti, precedentemente illustrato.

L’altro momento intertestuale, con disposizione speculare, di in­dubbia rilevanza, è il seguente:

E sì perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato» (§ 72);

[…] io mi rendei,piangendo, a quei che volontier perdona (Pg iii, vv. 119­120).

Il buon frate, confessore di ser Ciappelletto, rassicura il protagonista di fronte al timore di non essere perdonato del peccato di aver offeso, da «piccolino», la propria mamma. È il momento culminante, il colpo di scena cui approda la lunga serie di menzogne, accompagnato da un profluvio di lacrime. La bestemmia contro la madre lascerebbe emer­gere un elemento caricaturale: la figura del santo – mammone, quasi un’ulteriore provocazione rivolta all’ingenuità del frate, che risponde lasciando trapelare una certa insofferenza per tanta irreprensibilità. In questo passo è ben evidente la teatralità di Ciappelletto, ma, più in generale, si può asserire che tale carattere accomuna tutti i personaggi della Giornata I, compresi i narratori della cornice, che «parlano come attori e oratori consumati, anche quando il discorso è lungo e complesso»51; tale aspetto sarebbe riconducibile all’origine orale della novella, che si rivolge ancora ad un pubblico di spettatori, più che di lettori, che fissano i tempi della narrazione con i limiti della loro capa­cità di attenzione nell’ascolto. Anche gli elementi fondamentali di questa scena trovano riscontro in più di una raccolta esemplare, in quel tipo di exemplum rubricato come confessio. Boccaccio si dimostra buon conoscitore dei repertori di exempla anche quando fa rivelare al protagonista della novella il suo peccato nascosto, contrariamente ai modelli esemplari a cui si ispira, nei quali rimane segreto pur trattan­dosi di una colpa molto grave (omicidio, infanticidio, incesto). Il nome della mamma, accostato al verbo bestemmiare, «ha un suono un po’ stridulo […], produce uno strano effetto, quasi di una profanazione»52;

51 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., p. 13.52 G. Getto, Vita di forme e forme di vita nel Decameron, Torino, Petrini, 1966, p.

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nei repertori di exempla si trovano spesso racconti che descrivono le tremende punizioni inflitte ai figli ingrati e ribelli e questo deve aver suggestionato non poco Boccaccio. La scelta di un peccato d’ira come peccato nascosto non è casuale; infatti, quando il frate, nella sua pre­dica, traccerà il profilo del nuovo santo, non dimenticherà quello che ser Ciappelletto, piangendo, gli aveva confessato come la sua più gra­ve colpa, in perfetta isomorfia con la natura riottosa dei borgognoni, ricordata all’inizio della novella, che ora costituiscono il suo pubblico di ascoltatori, contro i quali il predicatore inveisce maledicendoli, mosso da una santa ira53. Il carattere spiccatamente teatrale di I 1 è dimostrato anche dalla presenza di quattro dialoghi, il più importante dei quali è certamente la confessione al «santo frate», che rappresenta la metà del testo; la novella come genere avrebbe dunque un’origine teatrale, gestuale, orale, mimica54. Il sacramento della confessione era il più popolare nel Basso Medioevo, molto presente nelle predicazioni, specialmente in Quaresima, e in molti racconti inseriti nelle raccolte di exempla e rubricati sotto la voce confessio55. In Decameron I 1 il fine del protagonista è la drammatizzazione della sua confessione, che viene trasformata in un gesto di enorme portata sociale. Ciappelletto affina la sua tecnica variando la forma base del genere letterario della con­fessione da un punto di vista teologico e letterario­psicologico56. Egli rassicura i due fratelli preoccupati dicendo loro: «e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti», intendendo per acconciare «adorna­re, disporre con abilità, con arte (le parole di un discorso); comporre, atteggiare il viso, i gesti»57. Da buon penitente, egli non si limita a elencare i peccati commessi dopo l’ultima confessione, ma sceglie la pratica della «confessione generale», che consiste nell’enumerare tutti i peccati dal giorno della nascita fino a quel momento, e afferma di usare abitualmente tale forma ogni qualvolta si confessa.

L’invocazione finale di Manfredi, a differenza della confessione di Ciappelletto fatta di molte, studiatissime parole, e udita, oltre che dal frate confessore, dai due fratelli fiorentini e dal più vasto pubblico dei lettori, non viene ascoltata da nessuno fuorché da Dio, certo il più

53 C. Delcorno, Exemplum e letteratura, cit., pp. 273­276.54 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., passim. 55 C. Delcorno, Exemplum e Letteratura. cit., pp. 269­270.56 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, cit., p. 396.57 S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, vol. I, Torino, Utet, 1961,

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eminente di tutti gli uditori, ma anche il più discreto e riservato, che non andrà a divulgare il pentimento in punto di morte del principe svevo, con la conseguente diffusione, tra i vivi, dell’opinione che lui si trovi tra i dannati all’Inferno. Quella di Manfredi è un’invocazione di perdono pronunciata a fior di labbra, tra le lacrime, da un uomo ferito mortalmente, solo di fronte a Dio, l’unico in grado di giudicare la sin­cerità del suo pentimento e di decretarne il destino ultraterreno. C’è anche, in lui, la preoccupazione di far conoscere la sua condizione alla figlia Costanza, non solo per ottenere le preghiere che abbrevieranno la sua permanenza in Purgatorio, ma anche per un naturale desiderio di estirpare le false credenze sul proprio conto.

Il caso di intertestualità sopra riportato è particolarmente interes­sante per la presenza del tema del perdono: il verbo perdona, che ha come soggetto Dio in entrambi i passi, è collocato in posizione forte, all’inizio della frase e a fine verso ed è, in entrambi i casi, accompagna­to dall’avverbio volentieri. Dio perdona volentieri, a condizione che ci si penta sinceramente dei propri peccati. In questo, come negli altri passi riportati, la figura del chiasmo, secondo la classificazione di Mortara Garavelli, corrisponde a quella del chiasmo grande (con in­crocio di intere frasi) e complicato (o antimetabole o antimetatesi), in­teso come permutazione nell’ordine delle parole, tale da produrre un capovolgimento del senso, con incrocio di tipo sintattico ovvero spe­cularità delle funzioni sintattiche e parallelismo delle corrispondenze di significato58. Nell’ultimo caso la disposizione è la seguente: verbo – soggetto – avverbio – complemento di termine / soggetto – verbo – complemento di termine – avverbio – verbo, dove il complemento di termine del verso di Dante diventa soggetto della proposizione di Boccaccio. Boccaccio potrebbe aver usato il chiasmo per rimarcare la profonda discrepanza tra giudizio umano e giudizio divino, e avergli altresì attribuito una funzione ermeneutica. In tal caso, si potrebbe for­mulare un’ipotesi interpretativa rappresentabile graficamente nel mo­do seguente.

Lo schema, evidenziando il chiasmo come chiave interpretativa, illustra la discrepanza tra giudizio umano e giudizio divino, tema por­tante di entrambi i testi: il giudizio umano, «oppinione», trascina Manfredi verso il basso, reputandolo dannato all’Inferno, mentre il giudizio divino lo colloca in Purgatorio, per poi innalzarlo al Paradi­

58 B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1999, pp. 246­247.

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so; specularmente, Ser Ciappelletto, innalzato dagli uomini allo status di santo, dovrebbe essere da Dio destinato all’Inferno. Ma il paralleli­smo semantico cui conduce il chiasmo di tipo sintattico farebbe pre­supporre la condizione purgatoriale anche per il protagonista della novella. Nel punto d’intersezione si colloca Panfilo/Boccaccio, che narra il tutto seguendo il giudizio degli uomini, non quello divino, e lasciando giudicare al lettore. Che Ciappelletto si sia pentito non è dimostrabile, ma il solo fatto che abbia deciso di confessarsi per salva­re i suoi due ospiti dalla rovina depone a suo favore, in quanto gesto di generosità verso il prossimo. Si è già detto dell’ambivalenza della sua confessione, falsa nella sostanza, ma ineccepibile nella forma. Se ci interroghiamo sul suo destino ultraterreno, questione lasciata aperta da Panfilo nel suo intervento conclusivo, potremmo ipotizzare per lui che non si trovi piuttosto «nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso» e neppure che sia «beato nella presenza di Dio» (§ 89) – per lo meno, non ancora – ma dovremmo immaginarlo in Purgatorio co­me Manfredi, in quanto, come lui, potrebbe «in su lo stremo aver sì fatta contrizione» (§ 89) da indurre Dio a perdonarlo e a collocarlo tra le anime espianti, in attesa della beatitudine eterna. Che un intervento così esteso ed esplicito del narratore in chiusura della novella sia l’u­

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Ser CiappellettoPurgatorio

Paradiso

BoccaccioPanfilo

PurgatorioGiudizio Divino

ManfrediInferno

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nico in tutto il Decameron, e il fatto che ciò avvenga nel racconto inau­gurale può avere una funzione di orientamento e disorientamento in­sieme nei confronti del lettore, lasciato arbitro di un giudizio impossi­bile da formulare, per chi abbia in mente il sostrato poematico­teolo­gico della Commedia.

L’interpretazione qui proposta parrebbe rispondente alla defini­zione di «intentio operis» di Eco, da lui esemplificata mediante il pas­so del De doctrina christiana in cui Agostino afferma che «un’interpre­tazione, se a un certo punto di un testo pare plausibile, può essere ac­cettata solo se essa verrà riconfermata – o almeno non verrà messa in questione – da un altro punto del testo»59, visto che i punti del testo dai quali si può ricavare sono almeno due. Quanto al problema dei molti miracoli che Dio avrebbe mostrato per intercessione di san Ciap­pelletto, come ci ricorda Padoan, «per il Medioevo […] i miracoli deri­vano tutti da Dio, e non dal santo venerato, ed è l’intenzione del cre­dente quel che conta: è pertanto indifferente rivolgersi a un falso san­to, perché i santi sono solo un mezzo affinché si esplichi la venerazio­ne di Dio»60, che può ricompensare con miracoli la vera fede del cre­dente. La falsa confessione si ispira, rovesciandoli, ai testi penitenziali diffusi tra Duecento e Trecento, le Summae confessorum, in cui si consi­gliava di interrogare il penitente seguendo il canone dei sette vizi ca­pitali, con «le loro varie e numerose ramificazioni61. Tali testi seguiva­no regole precise e fornivano lo «specchio dei peccati», che, nel caso di ser Ciappelletto, viene capovolto e sostituito alla realtà, dando luogo ad un ritratto agiografico basato sull’iperbole e sull’invenzione. In questo caso, «il discorso è più forte della realtà»62.

Riguardo alla centralità della parola, in questa novella Boccaccio parrebbe voler dimostrare come sia insorto un certo attrito nel rappor­to, finora armonioso, tra nomi e cose; non ci si può più fidare delle parole, divenute ormai strumenti del potere, in primo luogo ecclesia­stico, e dell’inganno, su cui si basa anche la ricchezza di Firenze, città di mercanti. Le parole possono essere al tempo stesso mezzo di libera­

59 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, pp. 32­33.60 G. Padoan, Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di

Giovanni Boccaccio, in Studi sul Boccaccio, vol. II, Firenze, Sansoni, 1964, p. 57.61 C. Delcorno, Exemplum e letteratura, cit., pp. 269­270. Sulla nascita e la dif­

fusione dei libri poenitentiales si veda A. Gurevic, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1986, pp 3­61.

62 G. Barberi Squarotti, Il potere della parola, Federico & Ardia, Napoli, 1983, p. 107.

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zione, di consolazione e di divertimento; con le parole si può fare po­esia e mostrare che essa è verità. Dissoltasi ormai la sua spontaneità originaria, la lingua rivela dunque la sua ambiguità, in quanto può essere manipolata dall’autorità politica e religiosa e da chiunque abbia la capacità di farlo63. Si ribadisce dunque il significato metalinguistico di questa novella: il discorso è importante non solo come mezzo di conoscenza e di comunicazione della realtà, ma in quanto strumento costitutivo e creatore della realtà stessa; il discorso novellistico, in par­ticolare, è metabolizzazione della realtà, che si trasforma in idee, gesti, consuetudini64.

Un aspetto interessante della confessione di ser Ciappelletto è il meccanismo da lui innescato: negando di aver commesso i peccati o ammettendone di lievi, egli riesce a mettere in soggezione il santo fra­te, che nelle sue risposte rivela le proprie riflessioni di contrasto ri­guardo a se stesso, finché la burla diventa quasi per lui insostenibile. Lo scrittore ammicca al lettore facendo confessare il confessore in que­sto modo: il peccatore ser Ciappelletto, nella sua sacrilega confessio­ne, spinge il «santo frate» a dichiarare a se stesso e al confessando peccati e vergogne non solo suoi ma dell’intera istituzione ecclesiasti­ca65. Il confessore è convinto di avere di fronte a sé un santo, mentre ha davanti a sé «il piggiore uomo forse che mai nascesse» (§ 15). L’errore decisivo del frate sarebbe stato quello di aver creduto di assistere ad un pentimento, condizione non visibile in quanto la vita interiore de­gli altri è entrata in una sfera occulta secondo il pensiero di Ockham, pensatore che avrebbe influenzato in modo significativo Boccaccio66. Un ulteriore elemento di confronto tra i due protagonisti può essere rappresentato dall’aspetto fisico: «piccolo di persona era e molto assettatuzzo»67 (§ 9), un piccolo demonio ben agghindato insomma, a

63 K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, cit., pp. 81­82.64 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., p. 22. Che si tratti di una

Giornata tutta metalinguistica è provato anche dalla presenza, a conclusione, di una ballata il cui significato è riferito a tutta la Giornata: «Io son sì vaga della mia bellezza, / che d’altro amor già mai / non curerò né credo aver vaghezza» (Ivi, p. 15).

65 Ivi, pp. 20­21.66 K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, cit., p. 93.67 L’aggettivo «assettatuzzo», che significa «agghindato, di un’eleganza un po’

affettata», deriva da Dante Alighieri, Rime dubbie, LXXIII, (Dubbie, VI, v. 4); Con­tini fa notare come Boccaccio s’impadronisca magistralmente di questo suffisso istituzionale nella poesia burlesca (Cfr. G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, vol. I, Torino, Einaudi, 1980, p. 52, n. 6).

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fronte di un Manfredi che «biondo era e bello e di gentile aspetto» (Pg, iii, v. 107), un principe con i tratti convenzionali della tradizione me­dievale e con gli attributi estetici del cavaliere, la bellezza, su cui con­cordano tutti i cronisti, guelfi e ghibellini68. Con tale descrizione colli­mano anche quelle tramandate da Saba Malaspina («Homo flavus, amoena facie, aspectu placibilis») e dal Villani, cui si sovrappongono la reminiscenza biblica del Davide del Libro dei Re «Erat autem rufus et pulcher aspectu decoraque facie» (xvi, 12) e quella romanza «Bels fut e forz e de grand vasselage» (v. 2278 della Chanson de Roland)69. Alla bellezza si accompagna la giovinezza, storicamente provata (Manfredi diviene re a 18 anni e muore a 34), e desunta fantasticamen­te anche dal colore dei capelli o della barba, tanto simili al David gio­vane nel Libro dei Re. La regalità e l’impronta della nobiltà della stirpe e dei costumi («gentile aspetto») si sposano perfettamente con la gio­vane bellezza virile70. Le insegne della regalità sono trasferite sulla li­nea incontaminata dell’ascendenza e discendenza femminile: «nepote di Costanza imperatrice» (v. 113); e padre dell’altra Costanza, «genitri­ce de l’onor di Cicilia e d’Aragona» (v. 116), con l’esclusione di ogni riferimento al padre e ai nipoti, portatori dei segni della pubblica lotta, dell’eresia, della perversione e della corruzione71. L’analogia con ser Ciappelletto potrebbe risultare un po’ forzata, ma chi scrive non può non pensare al riferimento del notaio morente alla propria madre, il cui nome confessa di aver oltraggiato con una bestemmia da piccolo (§ 71). Tornando all’aspetto fisico, se si considera che piccolo di perso­na era anche San Francesco, si pone la questione se ser Ciappelletto debba essere considerato un piccolo demonio o un santo. San France­sco spesso si chiamava e faceva chiamare «Francesco piccolo» o addi­rittura «Francesco piccolino», come osserva Valesio, che evidenzia al­tresì l’ironica corrispondenza di tipo figurativo tra il parvo Ciappellet­to e la sua confessione minimalistica, fatta di peccati piccoli piccoli72. Ma nella descrizione fisica di Manfredi troviamo elementi inquietanti,

68 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit., p 46.

69 A. Jacomuzzi, L’imago al cerchio, cit. p. 205.70 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e

G. Reggio, cit., p. 46. 71 A. Jacomuzzi, L’imago al cerchio, cit. p. 205.72 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, cit. pp. 399­400. Francesco si

fa piccino e umile secondo la concezione evangelica (Mt, XVIII, 3). «Parvulus et minimus servus»; «servus parvulus et despectus»; si definisce il santo nei suoi scritti e designa i suoi frati con l’espressione evangelica «pusillus grex».

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che rompono l’armonia: «l’un de’ cigli un colpo avea diviso» (v. 108) e «mostrommi una piaga a sommo ’l petto» (v. 111). Se la ferita sul volto rimanda a Orlando, la «piaga» nella parte alta del petto è il segno di riconoscimento, il gesto rivelatore accompagnato dalle parole «or ve­di» che rimandano al Cristo risorto e apparso ai suoi discepoli incre­duli (Lc 24, 39), come evidenziato già dal Binni. Altri echi danteschi sono i seguenti:

l’ossa del corpo mio sarieno ancoraIn co del ponte presso a Benevento,sotto la guardia de la grave mora.Or le bagna la pioggia e move il ventodi fuor del regno quasi lungo ’l Verde,dov’e’ le trasmutò a lume spento (Pg iii, vv. 127­132);

Con i libri in mano e con le croci innanzi cantando andarono per que­sto corpo e con grandissima festa e solennità il recaron alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popol della città, uomini e donne (§ 84);

Poi, la vegnente notte, in un’arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella: e, a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti a andare a accendere lumi e a adorarlo (§ 87).

Manfredi viene disseppellito dal luogo in cui era stato sepolto, all’e­stremità del ponte sul fiume Calore, presso Benevento, e, «a lume spento», com’era consuetudine per gli scomunicati e gli eretici, le sue ossa vengono disperse lungo il fiume Verde 73 come racconta Villani (Cron. vii, 9), e «or le bagna la pioggia e move il vento» (v. 130); ser Ciappelletto ha rischiato di essere «gittato a’ fossi a guisa d’un cane» (§ 24), ma ha mentito al suo confessore e ha ricevuto solenni funerali, onorevole sepoltura in un’arca di marmo, e quella venerazione che i fedeli possono tributare solo ai santi, quando si recano «a accender lumi e ad adorarlo». La disparità di trattamento del corpo del defunto ser Ciappelletto rispetto a quello di Manfredi sta ad indicare l’erronei­tà e l’infondatezza del giudizio umano. Boccaccio sembrerebbe voler insistere sul relativismo dei valori mondani. Nella prima parte della novella la sorte del protagonista sembra identificarsi con quella «pie­

73 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit., p. 57, nn. 131­132. Per quanto riguarda l’indicazione geografica, probabilmente si tratta del Liri o Garigliano, denominato «Viride»; in documenti medievali, confine settentrionale del Regno di Napoli. Secondo altri si tratterebbe invece del Castellano, affluente del Tronto.

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tosa di Manfredi», come ha sottolineato Bettinzoli: «niuna chiesa vor­rà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane»74. Riguardo alla sepoltura possiamo riscontrare anche una situazione di netta contrapposizione rispetto a S. Francesco, che «al suo corpo non volle altra bara» (Pd xi, v. 117) che la nuda terra, grembo della Povertà, la donna a lui più cara, mentre ser Ciappelletto «Poi, la vegnente not­te, in una arca di marmo sepellito fu in una cappella» (§ 87). Una se­poltura importante, come quelle riservate agli alti prelati o ai santi, per ser Cepparello da Prato, «reputato per santo», e la nuda terra per San Francesco d’Assisi, che santo è davvero e nella maniera più in­transigente e radicale. Di Manfredi conosciamo le vicissitudini narrate da lui stesso nella sua realtà ultraterrena, che è una condizione tempo­rale, non eterna, è la condizione di chi attende la beatitudine e confida nelle preghiere dei vivi per abbreviare la sua permanenza ai margini del Purgatorio. Di ser Ciappelletto conosciamo la vicenda terrena, al termine della quale, come dimostrato sopra, possiamo immaginarlo probabilmente in Purgatorio:

ma per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che può apparire ragiono, e dico costui piuttosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso (§ 89);

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,revelando a la mia buona Costanzacome m’hai visto, e anco esto divieto (Pg iii, vv. 142­144).

Nella conclusione di Panfilo si riconduce l’attenzione sui due aspetti più importanti della questione: la fede non va separata dalla razionalità dei comportamenti e dei giudizi e i disegni della Provvi­denza sono assolutamente impenetrabili.

L’ultima intersezione tematica riguarda la conoscenza che ci è data del destino ultraterreno dei due personaggi: quello di ser Ciappelletto ci è «occulto», possiamo solo trarre delle conclusioni, ragionando «se­condo quello che ne può apparire» (§ 89). Manfredi si rivolge a Dante con la richiesta finale di farlo «lieto», «revelando» alla sua «buona Co­stanza» la sua attuale condizione e anche il divieto di accedere al Pur­gatorio prima che sia trascorso un periodo di trenta volte il tempo in cui è rimasto nella sua ostinata ribellione, a meno che il tempo decre­

74 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, II, cit., p. 230.

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tato non sia abbreviato dalle preghiere dei vivi. «Occulto» contrappo­sto a «revelando»: possiamo solo immaginare il destino oltremondano di Ciappelletto, mentre conosciamo con certezza e precisione quello di Manfredi, desideroso di dare notizie a chi sta ancora sulla Terra circa il suo stato. I due momenti meditativi, nel prologo e nell’epilogo, sot­tolineano il divario tra il livello divino e quello umano, che dà luogo al relativismo: l’uomo, fondandosi sulla ragione, può formulare ipote­si, ma non può conoscere il modo con cui si manifesta la volontà divi­na, poiché esso gli rimarrà «occulto». L’agiografia del martire laico, del peccatore – santo Manfredi, si conclude nel segno della speranza, durante la vita, nonostante gli orribili peccati e le feroci persecuzioni, ma anche oltre la vita, nella preghiera delle anime buone della terra, che abbreviano il tempo dell’espiazione alle anime del Purgatorio, av­vicinando il cielo alla terra, nell’unione mistica tra umano e divino. L’agiografia del peccatore proclamato santo, Cepparello, si conclude invece nel segno dell’ambiguità: l’autore lascia nell’area semantica della negatività tutto ciò che concerne il «come» egli sia divenuto san­to, ma non nega gli effetti miracolosi che il culto di quel santo potrà produrre; «l’ambivalenza è dunque la vera forza semantica che muo­ve tutta la novella»75. Se tuttavia assumiamo come chiave di lettura la figura del chiasmo tra i due testi, Manfredi si serve di intermediari terreni per raggiungere la beatitudine eterna, mentre ser Ciappelletto, di cui non è dato sapere agli uomini se abbia raggiunto la condizione purgatoriale, diviene egli stesso intermediario tra i fedeli e Dio, che bada alla purezza della fede e non «al nostro errore», facendo suo in­tercessore «un suo nemico, amico credendolo» (§ 90).

Graziella Bassi(Liceo scientifico “L. B. Alberti” di Valenza ­ AL)

75 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., p. 19.

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ANNO XLIV FASC. II N. 171/2016

Comitato direttivo-scientifico: Giancarlo Alfano (Napoli) / Guido Baldassarri (Padova) / Giorgio Bar­beri Squarotti (Torino) / Andrea Battistini (Bologna) / Nicola De Blasi (Napoli) / Arnaldo Di Benedet­to (Torino) / Valeria Giannantonio (Chieti) / Antonio Lucio Giannone (Lecce) / Pietro Gibellini (Vene­zia) / Raffaele Giglio (Napoli) / Gianni Oliva (Chieti) / Matteo Palumbo (Napoli) / Francesco Tateo (Bari) / Tobia R. Toscano (Napoli) / Donato Valli (Lecce).

Comitato scientifico internazionale: Perle Abbrugiati (Université de Provence) / Elsa Chaarani Le­sourd (Université de Nancy II) / Massimo Danzi (Università di Genève) / Paolo De Ventura (University of Birmingham) / Francesco Guardiani (University of Toronto) / Margharet Hagen (Università di Bergen) / Srecko Jurisic (Università di Spalato) / Massimo Lollini (University of Oregon) / Paola Moreno (Université de Liegi) / Irene Romera Pintor (Universitat de València).

Direzione e redazione: Prof. Raffaele Giglio ­ 80013 Casalnuovo di Napoli, via Beneven to 117 ­ Tel. 081.842.16.93; e­mail: [email protected]; [email protected].

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Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 2398 del 30­3­1973.

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Questo fascicolo è stato stampato il 16 maggio 2016.

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