Critica Della Ragion Pratica

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Critica della ragion Critica della ragion pratica pratica

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Sulla base dei manuali di filosofia in adozione nel Liceo Vailati di Genzano di Roma, una sintesi dei temi affrontati nella seconda critica kantiana

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Critica della ragion praticaCritica della ragion pratica

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La critica della ragion pratica studia le condizioni del mondo morale.

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Nell’umanità è presente una legge morale, cosa non spiegabile con i dati sensibili entro i limiti teoretici della ragione.

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La legge morale si presenta come imperativo categorico.

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Kant distingue tra imperativo ipotetico ed imperativo categorico.

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L’imperativo ipotetico comanda un’azione in vista di un fine ad essa esterno.

L’imperativo categorico comanda un’azione incondizionatamente “come necessaria per se stessa, fuori di ogni rapporto a un fine diverso, e cioè oggettivamente necessaria.”

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L’imperativo categorico, ovvero la legge del dovere, non prescrive un’azione specifica e non è finalizzato ad un contenuto particolare. Esso determina la volontà a priori, prescrivendo la forma della nostra azione, la norma del volere, che altro non è che obbedienza alla prescrizione della ragione.

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La norma morale è quindi agire secondo ragione; la ragione è universalità; l’agire morale è quindi razionalità ed universalità ed in esso si riconoscono tutti gli spiriti razionali.

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La norma morale ordina al nostro agire di essere universale; conseguentemente vi è un solo imperativo categorico o legge fondamentale della ragion pratica.

Di questo imperativo categorico, Kant fornisce tre diverse determinazioni che, tuttavia, sono in definitiva riconducibili allo stesso presupposto.

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Dice Kant:

“Agisci secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere divenga legge universale.”

“Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura”.

Agisci in modo tale da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai come solo mezzo.”

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N.B.

Per Kant:

Massima è un principio soggettivo dell’agire, mentre Legge è un principio oggettivo.

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La legge morale determina quindi la volontà non secondo il contenuto, che è sempre particolare e si riferisce, per esempio, a questo o quel particolare piacere. Se così non fosse la volontà sarebbe sottoposta ad un principio empirico.

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La legge morale determina, invece, la volontà secondo una forma, un principio, universale e puramente morale: il dovere per il dovere. Pertanto la morale, o se vogliamo la bontà di ogni atto, è data dalla conformità della volontà al principio razionale formale.

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L’imperativo morale come fatto di ragione presuppone una volontà libera e non determinata da alcun oggetto, in grado quindi di conformarsi spontaneamente ed autonomamente alla legge morale.

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L’imperativo morale non colloca l’uomo in ambito empirico, perché in tal caso l’uomo sarebbe sottoposto alla legge causale della natura.

L’imperativo morale, invece, postula la libertà, o se vogliamo l’autonomia di un essere intelligibile.

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La moralità, inoltre, postula l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio.

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Un essere finito, l’uomo cioè, non può conseguire il bene sommo e perfetto, ovvero l’assoluta corrispondenza di felicità e virtù, condizione in cui si realizza la totale conformità delle intenzioni alla legge morale. L’uomo aspira sempre a questo bene con un progresso all’infinito, ma in questa vita non può ottenerlo. Se la morale comanda la realizzazione del sommo bene come totale conformità delle intenzioni alla legge morale e se questa realizzazione è possibile solo come un progresso all’infinito, allora non si può non postulare l’immortalità dell’anima.

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Inoltre, se il sommo bene è accordo tra felicità e moralità è da ammettersi l’esistenza di Dio come volontà santa, volontà, cioè, che è spontanea coincidenza di legge ed intenzione, e come garanzia dell’accordo di virtù e felicità, accordo realizzabile per l’uomo solo in una vita futura.

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Come afferma Kant: “Questi postulati non sono dogmi teoretici, ma presupposti necessari dell’ordine pratico; essi non sono quindi in grado di ampliare la conoscenza speculativa, ma conferiscono realtà alle idee della ragione speculativa in generale, giustificandole come concetti la cui possibilità la ragione non sarebbe diversamente in grado neppure presumere di affermare.”

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Una delle conseguenze della riflessione kantiana sul tema della moralità è l’assunzione della religione nei limiti della ragione.

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Una morale che si fondasse su forme storicamente date o su precetti diversi da quelli dell’autonomia della ragione pratica non sarebbe morale. Ne consegue che la religione dev’essere conoscenza di tutti i nostri doveri come comandi divini e non come sanzioni, perché se di sanzioni si trattasse ci si troverebbe davanti a precetti in sé contingenti, determinati da una volontà estrinseca. Sono quindi le leggi razionali della volontà a doversi considerare divine e la religione non può che essere ricondotta nell’ambito della ragione, essendo riconducibile ad un solo fondamento: la ragione pratica.

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Pietro Volpones

2005