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656 Rassegna di Teologia 56 (2015) 656-694 Recensioni E rik Peterson (1890-1960) è un insigne studioso, passato dal pro- testantesimo al cattolicesimo. Le sue ricerche spaziarono dalla storia delle religioni all’archeologia cristiana (stu- dio sulle testimonianze epigrafiche e iconologiche), dallo studio del NT alla patrologia, esplicitandosi in una lunga e vasta attività didattica e scien- tifica, con un particolare riferimento alla magna quaestio della teologia-po- litica. Il pensiero petersoniano è stato poco recepito dalla teologia italia- na, addirittura inesistente, a quanto sembra, nei rimandi bibliografici dei corsi accademici teologici, pur essen- do egli vissuto in Italia per tantissimi anni. Lo studio di Pancheri affronta il tema della teologia-politica nell’o- pera di Peterson vagliandone i fon- damenti, che vengono rintracciati in due grandi aree del settore teologico: l’escatologia e l’ecclesiologia. L’inte- ra ricerca petersoniana si muove in senso escatologico e questo giustifica anche la collocazione metodologica del primo capitolo all’interno della ricerca. Il tutto prende l’avvio dall’a- nalisi della sua dissertazione discussa nell’estate del 1920 a Göttingen, nel- la quale s’indaga il senso del signifi- cato dell’acclamazione monoteistica Heis eos, testo accolto nella famosa collana Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testa- ments curata da R. Bultmann e H. Gunkel. La critica al deficit escatolo- gico del protestantesimo, con annessi appunti critici mossi nella sua lezione esegetica della Römerbrief, lo porterà ad abbracciare il cattolicesimo. È dal contrasto con il protestantesimo che emergerà in maniera evidente quell’a- spetto “pubblico” del credo cristiano, e da qui inizierà ad emergere uno dei principali interessi di Peterson: la ritraduzione politico-giuridica del messaggio evangelico, centro dei suoi corsi soprattutto negli anni di docen- za a Bonn. Il secondo capitolo, dedi- cato all’ecclesiologia, costituisce insie- me con l’escatologia uno dei temi di maggiore interesse, basti pensare alla postfazione dello scritto Die Kirche, nella quale la questione ecclesiologi- ca è fortemente connessa con il tema dell’autorità dogmatica. La Chiesa presenta questo duplice volto e «si è compreso come alla Zweideutigkeit ecclesiale inerisca necessariamente il rappresentare i contenuti dell’irrotta realtà escatologico-trascendente attra- verso gli strumenti del “residuo” stori- co-mondano» (239). Partendo dall’escatologia e arri- vando all’ecclesiologia quali realtà che non possono essere scisse, ma inter- dipendenti, nell’ultimo capitolo, si MICHELE PANCHERI Pensare ‘ai margini’ Escatologia, ecclesiologia e politica nell’itinerario di Erik Peterson Università degli Studi di Trento, Trento 2013, pp. 390, € 13,00

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656 Rassegna di Teologia 56 (2015) 656-694

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Erik Peterson (1890-1960) è un insigne studioso, passato dal pro-

testantesimo al cattolicesimo. Le sue ricerche spaziarono dalla storia delle religioni all’archeologia cristiana (stu-dio sulle testimonianze epigrafiche e iconologiche), dallo studio del NT alla patrologia, esplicitandosi in una lunga e vasta attività didattica e scien-tifica, con un particolare riferimento alla magna quaestio della teologia-po-litica. Il pensiero petersoniano è stato poco recepito dalla teologia italia-na, addirittura inesistente, a quanto sembra, nei rimandi bibliografici dei corsi accademici teologici, pur essen-do egli vissuto in Italia per tantissimi anni. Lo studio di Pancheri affronta il tema della teologia-politica nell’o-pera di Peterson vagliandone i fon-damenti, che vengono rintracciati in due grandi aree del settore teologico: l’escatologia e l’ecclesiologia. L’inte-ra ricerca petersoniana si muove in senso escatologico e questo giustifica anche la collocazione metodologica del primo capitolo all’interno della ricerca. Il tutto prende l’avvio dall’a-nalisi della sua dissertazione discussa nell’estate del 1920 a Göttingen, nel-la quale s’indaga il senso del signifi-cato dell’acclamazione monoteistica Heis Theos, testo accolto nella famosa collana Forschungen zur Religion und

Literatur des Alten und Neuen Testa-ments curata da R. Bultmann e H. Gunkel. La critica al deficit escatolo-gico del protestantesimo, con annessi appunti critici mossi nella sua lezione esegetica della Römerbrief, lo porterà ad abbracciare il cattolicesimo. È dal contrasto con il protestantesimo che emergerà in maniera evidente quell’a-spetto “pubblico” del credo cristiano, e da qui inizierà ad emergere uno dei principali interessi di Peterson: la ritraduzione politico-giuridica del messaggio evangelico, centro dei suoi corsi soprattutto negli anni di docen-za a Bonn. Il secondo capitolo, dedi-cato all’ecclesiologia, costituisce insie-me con l’escatologia uno dei temi di maggiore interesse, basti pensare alla postfazione dello scritto Die Kirche, nella quale la questione ecclesiologi-ca è fortemente connessa con il tema dell’autorità dogmatica. La Chiesa presenta questo duplice volto e «si è compreso come alla Zweideutigkeit ecclesiale inerisca necessariamente il rappresentare i contenuti dell’irrotta realtà escatologico-trascendente attra-verso gli strumenti del “residuo” stori-co-mondano» (239).

Partendo dall’escatologia e arri-vando all’ecclesiologia quali realtà che non possono essere scisse, ma inter-dipendenti, nell’ultimo capitolo, si

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Pensare ‘ai margini’ Escatologia, ecclesiologia e politica nell’itinerario di Erik PetersonUniversità degli Studi di Trento, Trento 2013, pp. 390, € 13,00

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approda alla riflessione teologico-po-litica di Peterson, dopo averne deline-ato la cornice teorica. Infatti, tale que-stione attraversa come fil-rouge tutta l’opera petersoniana. Interessante l’a-nalisi di alcuni “frammenti” di opere analizzati (244ss) che colgono questa preoccupazione del mettere in siner-gia la realtà escatologico-ecclesiale e quella socio-politica. Infatti «epuran-do il religioso della sua componente pubblico-politica, lo si ridurrebbe alla sfera del privato, banalizzandolo e annacquando la sua valenza trascen-dente; sciogliendo il politico dal suo legame metafisico e pragmatico con la sfera religiosa, lo si assolutizzerebbe, giustificandone la pretesa di assumere un significato pseudo-sacrale e salvifi-co-universale» (247).

Peterson affronta le sfide della teo-logia politica durante gli anni contro-versi dell’epopea nazista, anni in cui si dissocia dal collega Carl Schmitt; in questa prospettiva si affronta la possibilità della plausibilità stessa di una teologia politica. Emerge, tutta-via, una radicale incompatibilità tra Regno di Dio e politica, una distanza assoluta rispetto al cristianesimo e alle sue possibili traduzioni politiche. Pe-terson privilegia l’indiscutibile indole escatologica dell’annuncio cristiano nei riguardi di tutti i sistemi totalita-ristici, invitando a rifuggire qualsiasi sacralizzazione degli ordinamenti poli-tici e difendendo la libertà religiosa da qualsiasi strumentalizzazione politi-co-economica. Occorre ribadire che le convinzioni religiose dei cristiani, no-lens volens, “minacciavano”, per certi versi, l’autorità imperiale, che si apriva alla “nuova” religio, più per compro-

messo che per conversione. Tra Stato e Chiesa deve, comunque, sussistere una tensione dialettica perché da un lato la Chiesa non può esimersi dal suo essere “calata” nella storia e dall’al-tro non può non riconoscere che il suo tempo è un tempo escatologico [esca-thologische Zeit]. Questo non signi-fica che la dissoluzione della teologia politica operata nel suo scritto Mo-notheismustraktat escludesse del tutto la questione, così com’è stata intesa da Carl Schmitt che sostiene una sorta di dietrofront teologico nel Monothei-smus. Lo stesso Schmitt vi aveva letto, nonostante la mancanza di espliciti riferimenti, un attacco personale alla sua teoria. Tuttavia il dibattito Peter-son/Schmitt non si è limitato al pro-blema politico; ciò si evince anche in base al Nachlass di entrambi, grazie al quale si è giunto «a una ridefinizione del rapporto intellettuale e personale dei due autori» (263).

Inoltre, risulta molto elaborata la sezione finale del lavoro dove si rico-struiscono i diversi significati dell’at-teggiamento della Chiesa evangelica tedesca negli anni del nazismo e la conseguente acquiescenza nei con-fronti del Führer. Peterson sente il bisogno di protestare nei confronti di un cristianesimo che perda come punto di riferimento la sua destina-zione escatologica “svendendosi” a un compromesso politico. «Il cristiano è ‘indifferente’ rispetto alla sfera poli-tica nel senso che egli è consapevole della relatività di ogni ordine monda-no, con la conseguenza che il proble-ma della forma fattiva di governo non assorbe tutte le sue preoccupazioni» (271).

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Il libro del gesuita Georg Sans, do-cente di Storia della filosofia con-

temporanea presso la Pontificia Uni-versità Gregoriana di Roma, offre un’introduzione chiara e completa alla filosofia di Kant, accessibile ad ogni lettore in grado di affrontare un primo ciclo di studi universitari. Oltre alla prefazione dell’A. stesso, il manuale di Sans è suddiviso in un’introduzione, sette capitoli e una conclusione.

Nell’introduzione viene presen-tata la nozione di “sintesi a priori”, che l’A. adotta come filo rosso della sua esposizione del pensiero kantia-no, nella convinzione che per Kant, «qualunque conoscenza oggettiva, sia del mondo fisico sia del dovere etico, è resa possibile per l’attività sinteti-

ca del nostro intelletto, descrivibile indipendentemente da qualche dato empirico» (13). La sintesi del giudi-zio presiede, pertanto, all’elabora-zione dell’intero sistema critico, che, nel suo sviluppo progressivo, intende rispondere alle famose quattro do-mande: 1) che cosa posso sapere? 2) che cosa devo fare? 3) che cosa mi è lecito sperare? 4) che cosa è l’uomo? (23-27).

La risposta di Kant alla prima do-manda costituisce l’oggetto dei pri-mi tre capitoli, nei quali si sintetizza il percorso della Critica della ragion pura. Esso prende le mosse dalla di-stinzione tra due facoltà conosciti-ve, la sensibilità e l’intelletto, basate rispettivamente sull’intuizione e sul

Indubbiamente, quello che pre-sentiamo è un testo degno di rilievo, molto bene articolato e strutturato; tuttavia resta un testo ancora “acerbo” in quanto vi manca una più ampia contestualizzazione teologica dei temi affrontati; tale mancanza rappresenta un impedimento per un appropriato bilancio esaustivo sull’opera peterso-niana. L’A. avverte questa difficoltà, ad esempio, all’inizio del secondo ca-pitolo, laddove egli stesso parla della necessità di una contestualizzazione storico-teoretica. Diamo atto, infine,

all’A. del fatto che sia i riferimenti scientifici a testi inediti, sia l’abbon-danza dei rimandi bibliografici, me-ritano, senza eccesso di generosità, un’attenta considerazione anche per essersi egli cimentato nel confronto con un paradigma di pensiero che richiede specifiche competenze per essere studiato e ben compreso: quel-lo di Peterson, che, nonostante la sua complessità, mantiene una valida pro-posta teoretica, ancora oggi, a distan-za di moltissimi anni.

Nicola Salato

GEORG SANS

Sintesi a prioriLa filosofia critica di Immanuel KantEdizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2013, pp. 188, € 18,00

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concetto, e dotate ciascuna di proprie forme a priori. Spazio e tempo, che costituiscono le forme dell’intuizione sensibile, vengono trattati nel capitolo I. Il capitolo II espone, quindi, i con-cetti puri dell’intelletto e la loro dedu-zione trascendentale, cioè la struttura logica del pensiero, mentre i principi dell’intelletto puro, cioè i principi sintetici a priori, che fondano la co-noscenza di tutti gli oggetti dell’espe-rienza in generale, rendendo così pos-sibile la fisica come scienza, vengono presentati nel capitolo III.

Questo capitolo si conclude con la discussione della relazione tra causali-tà e libertà, che fa da transizione alla questione della fondazione della mo-rale nella Fondazione della metafisica dei costumi e nella Critica della ragion pratica, opere nelle quali assumono un ruolo centrale la seconda e la terza del-le quattro domande sopra enunciate. Il problema della fondazione dell’etica kantiana sulla legge morale e delle sue implicazioni per l’autonomia della ra-gione costituisce appunto il tema del capitolo IV.

Dopo aver considerato nei primi quattro capitoli l’Estetica e l’Analiti-ca trascendentale della prima Critica come pure l’Analitica della ragion pura pratica della seconda Critica, l’A. com-pleta la presentazione delle prime due Critiche prendendone in esame, nel capitolo V, le rispettive sezioni dia-lettiche, nelle quali vengono tematiz-zate da Kant le tre idee metafisiche o dell’incondizionato: Io, Mondo e Dio. Il capitolo V offre, pertanto, una sorta di compendio della metafisica kantia-na, mostrando che le «medesime idee dell’incondizionato, di cui la Critica

della ragion pura sostiene l’inconosci-bilità, subiscono una profonda trasfor-mazione con il passaggio dall’ambito della speculazione teoretica alle rifles-sioni pratiche» (113), dove l’immorta-lità dell’anima, la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio sono ammesse come postulati della ragion pratica.

L’esposizione della filosofia pratica di Kant si conclude al capitolo VI, de-dicato alla filosofia del diritto e alla fi-losofia politica, con particolare atten-zione alla concezione della proprietà privata e dello stato di diritto. Alcuni cenni sui giudizi estetici e sulla finalità della natura al capitolo VI riassumono il contenuto della terza Critica, la Cri-tica del giudizio.

Trattandosi di un’introduzione di carattere generale, il libro di Sans si limita a presentare i contributi mag-giori del filosofo di Königsberg, trala-sciando ambiti come la metafisica del-la natura o l’antropologia pragmatica, oggi di interesse prevalentemente sto-rico. All’A. preme sottolineare piutto-sto che il pensiero di Kant assume un punto di vista decisamente contrario tanto al naturalismo epistemico quan-to al relativismo etico (13), ribaden-do, nelle considerazioni conclusive, che attribuirgli una posizione scettica, in rapporto alla possibilità della cono-scenza empirica, o una forma di rela-tivismo circa l’obbligazione morale, significherebbe distorcere gravemen-te il senso della sua concezione della sintesi a priori (175). Le tre doman-de che guidano l’indagine kantiana si riassumono nella quarta: la domanda sull’uomo (174). È questa “preoccu-pazione antropologica”, l’interesse cioè per la «questione del senso ultimo

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dell’esistenza umana» (176), a costitu-irne il vero orizzonte.

L’A. presenta il pensiero di Kant con obiettività ed equilibrio, pur sen-za esimersi dall’evidenziarne punti ne-vralgici e questioni aperte. Numerosi

rimandi a una selezione necessaria-mente essenziale ma accurata di titoli della letteratura secondaria orientano utilmente il lettore desideroso di ap-profondimento.

Giovanni Pietro Basile SJ

RAYMOND WINLING

Natale e il Mistero dell’IncarnazioneQueriniana, Brescia 2013, pp. 254, € 23,50

Come è noto, il ciclo liturgico del Natale è più recente rispet-

to a quello della Pasqua. Il primo si è consolidato attorno al IV secolo, ovviamente anche in relazione alle questioni cristologiche sulla Persona e sulle nature di Cristo. L’A. riassume la storia liturgica in materia e pro-pende per una tesi che si è imposta a partire dal XIX secolo: la Chiesa di Roma avrebbe introdotto la festività del Natale per “cristianizzare” la festa pagana del sol invictus (l’A. vi ritorna alle pp. 153-154). Winling la ritiene l’ipotesi che «offre una verosimiglian-za maggiore» (11). È comprensibile che egli si accodi a una corrente che è stata vasta e può vantare anche au-tori noti tra i suoi rappresentanti. So-prattutto perché Winling non è uno studioso di storia della liturgia, perciò è naturale che tenda ad accogliere le proposte di quello che, fino a pochis-simo tempo fa, era il mainstream degli specialisti. Tuttavia, la tesi che sinora veniva avanzata da un po’ di tempo perde consensi e non mancano studi

che propongono argomenti contrari ad essa. Tra questi, il fatto che la vera origine della festa liturgica del Nata-le non andrebbe individuata a Roma bensì in Palestina, ossia nei luoghi dove il Natale avvenne e dove si svi-luppò la prima comunità cristiana ed il suo culto.

Winling riconosce che non si può accettare l’idea che, prima del IV se-colo, i cristiani abbiano ignorato del tutto a livello liturgico il Natale di Cristo, ma rimane dell’idea che fu solo in quell’epoca che si stabilì il 25 dicembre come data comune per la celebrazione della festa (20).

L’esposizione, dopo aver offerto qualche dato sulla prefigurazione di Cristo nell’AT, passa poi a trattare dei Vangeli dell’infanzia. Risalendo l’e-dizione originale del saggio al 2010, l’A. non ha potuto avvalersi del terzo volume del Gesù di Nazaret di J. Rat-zinger/Benedetto XVI, pubblicato nel 2012 e dedicato proprio a L’infanzia di Gesù. Ma Winling si rifa ad autori di valore, quali R. Laurentin e J. Da-

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niélou, come pure a Ch. Perrot e X. Léon-Dufour, tra gli altri. Egli propo-ne una lettura biblica piana dei testi evangelici dedicati ai primi anni della vita di Cristo, seguita da una ripresa dei loro contenuti teologici. L’A. ac-coglie in forma moderata la tesi per la quale tali testi sono una forma cristia-na di Midhrāš, per cui scrive: «Il Mi-dhrāš cristiano in generale, e quello di Luca in particolare, consiste dunque nel partire da Gesù, decifrando la sua identità, narrando la sua opera di sal-vezza con l’uso di elementi narrativi o teologici provenienti dall’Antico Te-stamento, considerato come annun-cio di ciò che si realizza pienamente in Gesù Cristo» (35; cf. 42).

La trattazione sul NT si arricchisce poi di altri testi che riguardano le ori-gini e l’identità di Gesù. Sul discusso brano di Rm 1,3-4 (interpretabile in modo adozionista), l’A. non ha timo-re di affermare che «Cristo non è un uomo che conduce una vita esclusiva-mente umana, prima di risorgere dai morti, per diventare Figlio di Dio in seguito alla sua esaltazione. Egli è il Figlio di Dio che assume la condizione umana nascendo come discendente di Davide» (51). Opportuno è anche il commento all’inno di Fil 2, rispetto al quale Winling osserva che «prima della kénosis, il Cristo preesistente era di condizione divina. Questo termine “condizione” designa il modo divino di esistenza e non la natura divina. La kénosis equivale quindi a uno “sposses-samento” di quel modo di esistenza e non della natura divina in quanto tale» (52). Anche nel commentare al-cuni titoli cristologici, egli mantiene la stessa linea. Ad esempio, circa il titolo

di Signore, scrive che viene usato nelle epistole paoline con riferimento all’in-vestitura di Gesù dopo la risurrezione, ma anche per riferirsi alla divinità di Cristo come preesistente (cita 1Cor 8,6); e conclude: «Di fatto, Paolo dà a Kýrios il significato che gli era già stato dato dai cristiani prima dell’entrata in scena di Paolo. Kýrios equivale al nome stesso di Dio, tradotto con “Signore” dalla LXX. La logica dell’attribuzione vuole che Gesù non diventi Kýrios in seguito alla risurrezione, ma che lo sia da sempre» (54).

Il terzo capitolo si occupa degli apocrifi, dando spazio soprattutto al Protovangelo di Giacomo, e del Cora-no, riguardo alla concezione verginale di Maria e alla nascita di Gesù.

I capitoli quarto e quinto offrono una panoramica ben scritta sulle ere-sie cristologiche e le risposte ad esse fornite dai Padri e dai Concili ecu-menici. Chi conosce la materia non troverà elementi nuovi, ma la lettura è godibile e le informazioni corrette e misurate. Nell’insieme i due capitoli, come il successivo sull’incarnazione, si attengono a una corretta ermeneu-tica applicata alla storia del dogma.

Winling espone alcune categorie soteriologiche strettamente connes-se con l’incarnazione: illuminazione, ricapitolazione, rigenerazione, ado-zione filiale e divinizzazione. Senza poterci diffondere, segnaliamo il tema da lui trattato (157-159), e non sem-pre presente in altre opere simili, di quella che si può chiamare la “denu-mificazione” del mondo. Winling vi dedica un paragrafo apposito dal tito-lo: «Cristo ci libera dalla superstizione e dalle false credenze: astrologia, falsi

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dèi, fatalismo». Chiudono il volume un capitolo sulla spiritualità, in cui tra l’altro si tocca il tema delle «due» o «tre» nascite di Cristo tra Patristica e Medioevo, e si sottolinea opportu-namente il legame che una sana spi-ritualità deve sempre mantenere con il dogma. Quanto a questo secondo aspetto, segnaliamo le pagine del pa-ragrafo intitolato: «Si deve mantenere l’affermazione della concezione ver-ginale oppure concedere che si tratta di una rappresentazione di portata puramente simbolica?» (202-207). Nell’ottavo e ultimo capitolo, infine, la trattazione si sofferma sull’espres-sione poetica del tema dell’incarna-zione: dopo una pagina dedicata a

Clemente Alessandrino, ci si diffonde per tutto il resto del capitolo sul po-ema Éve di Ch. Péguy. Alle pp. 241-246 è inoltre offerto un utile glossario.

Il testo di Winling rappresenta, in senso buono, un utile compendio didascalico. La sua lettura è da rac-comandarsi particolarmente a coloro che si accostano per la prima volta alla considerazione teologica del Natale. Dati il numero e la complessità delle questioni trattate, è chiaro che la bre-vità del volume rappresenta un limite rispetto ad approfondimenti che non trovano spazio. Ma è un pregio, per il fatto che non scoraggia i lettori meno esperti.

Mauro Gagliardi

GIOVANNI ANCONA

Antropologia teologica Temi fondamentaliQueriniana, Brescia 2014, pp. 226, € 24,00

Giovanni Ancona propone ai let-tori un saggio di sintesi dei prin-

cipali temi di carattere antropologico che hanno segnato il percorso della riflessione cattolica. La constatazione da cui muove l’A. è che «l’idea teolo-gica cristiana della grazia, in quanto tale, non può che essere totalmente riferita al Dio di Gesù Cristo. Nella rivelazione di Gesù Cristo, infatti, Dio si autocomunica agli umani in modo assolutamente unico come Dio che si prende cura della sua creazione secondo un criterio amorevole e mi-sericordioso, benevolo e riconcilian-

te, libero e gratuito, al fine di salvare totalmente quanto è uscito dalle sue mani di creatore» (206). La teologia della grazia sviluppata cristologica-mente è il nucleo teoretico centrale della visione antropologica proposta da Ancona. Il volume Antropologia teologica. Temi fondamentali, per di-chiarata ammissione dell’A., non ha la pretesa di essere un manuale nel senso classico del termine. Egli diffida persino della stessa possibilità di uno studio sufficientemente esaustivo di questa disciplina. Tale consapevolezza lo spinge pertanto ad elaborare uno

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strumento che conservi del manuale il linguaggio piano e uno schema di fondo lineare e coerente, ma che di-sponga di quella libertà creativa nel soffermarsi in modo più ampio su alcune questioni specifiche, che di solito la manualistica, per sua natura, deve trattare solo en passant. Il risul-tato di questo sforzo possiede alcuni pregi osservabili già ad occhio nudo.

Innanzitutto, sebbene si tratti di uno studio che possiede una preoc-cupazione pedagogica e che è pensato per l’insegnamento accademico, esso risulta stimolante anche per lo specia-lista. Inoltre, la scelta selezionata di sei questioni fondamentali nella sto-ria del trattato permette all’A. di po-ter rinviare a opere enciclopediche o a monografie più specifiche l’appro-fondimento di alcuni argomenti pe-culiari che non risultano decisivi per un’introduzione di carattere generale, per potersi invece soffermare sugli snodi cruciali che hanno segnato lo sviluppo dell’antropologia teologica.

La scelta di Ancona cade su alcuni cardini tematici autonomi, quasi fos-sero trattati distinti che consentono una lettura non necessariamente in-terdipendente gli uni dagli altri. Na-turalmente, la creazione in Cristo è il filo conduttore che lega tra loro i sei macroargomenti attorno ai quali Ancona articola la propria riflessio-ne. Il testo inizia con il tema dell’e-lezione (predestinazione), prosegue con una teologia della creazione, la trattazione dell’uomo in quanto cre-atura, il tema (centrale) della grazia di Dio, l’immagine deformata, ossia l’uomo peccatore, e infine la grande categoria della giustificazione. Ogni

scelta tematica, tuttavia, ha un suo prezzo. Si può opinare, ad esempio, l’assenza di riferimenti espliciti al XX secolo e ad autori come Rahner e de Lubac, così decisivi per il ripen-samento dell’antropologia teologica in chiave attuale. Eppure occorre ri-conoscere che si tratta pur sempre di un’opzione coerente con l’intenzione originaria, che appare quella di offrire un’introduzione ai grandi plessi pro-blematici della storia della teologia, individuando uno sviluppo tematico che, in realtà, tiene conto anche delle acquisizioni più recenti. Non a caso il volume si apre con una riflessione sulla visione cristica dell’antropolo-gia, cioè sull’elezione di Dio in Gesù Cristo, termine con cui l’A. traduce il più controverso «predestinazione» e che egli pone a fondamento del proprio itinerario teologico. Scri-ve Ancona: «L’evento della elezione (predestinazione) è comprensibile all’uomo nella fede e per la fede gli viene chiarito l’orizzonte del proprio vivere globale. Quando l’uomo, in al-tre parole, riconosce, crede, accoglie l’eterno progetto del Padre, il quale intende salvarlo, per mezzo di Cristo, nella forza dello Spirito, gli viene di-schiuso l’orizzonte della propria sto-ria e della storia universale e in tale orizzonte egli istituisce il suo agire concreto, legato alle vicende dell’e-sistenza» (51). Se dunque l’evento dell’elezione è un’opera interamente dovuta alla grazia di Dio e alla sua iniziativa provvidente, tale dono si riverbera nella storia degli uomini e sul loro concreto porsi nelle vicende dell’esistenza, secondo il criterio della chiamata di Cristo di tutta l’umanità.

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Qui l’A. individua nello spazio della libertà il riflesso antropologico cen-trale dell’elezione-predestinazione. Elezione di Dio e risposta confiden-te e libera dell’uomo sono i due poli che costituiscono dialetticamente la storia della salvezza. Il dinamismo di chiamata e risposta è reso possibile da una «creaturale struttura trascenden-tale», che rende l’uomo capace di de-terminarsi liberamente nei confronti di un dono che risulta decisivo per la sua pienezza di vita. Di tale dono egli avverte già la presenza ed è propria-

mente ciò che contrassegna «tutto il percorso dell’esistenza umana cre-dente e ne plasma l’identità» (52).

Quello di Ancona è in definitiva un volume capace di prendere per mano il lettore e di accompagnarlo nella comprensione (biblica, patristica, sto-rico-teologica e sistematica) delle non semplici questioni che hanno segna-to la strutturazione del rapporto uo-mo-Dio in Occidente. Esso si segnala pertanto come uno strumento prezio-so di sintesi e di raccordo.

Enrico Brancozzi

SEVERINO DIANICH

La Chiesa Cattolica verso la sua riformaQueriniana, Brescia 2014, pp. 168, € 12,00

Dove va la Chiesa? È la domanda che si pone il teologo Dianich in

questo libro ricco di quaestiones dispu-tatae ecclesiologiche di fondamentale importanza, che invocano una loro impegnativa riformulazione nel con-testo contemporaneo. Tale riformu-lazione se vuol diventare una vera e incisiva riforma non può che nasce-re dall’interno della Chiesa stessa. In questo senso, l’affondo dell’A. sul lai-cato è significativo: la concentrazione del rapporto fra i vertici della Chiesa e quelli della società civile «ha porta-to con sé la riduzione alla passività e la deresponsabilizzazione dei fedeli» (53). Dianich, tra l’altro, ricorda le difficoltà che molti laici hanno nello svolgimento del loro impegno socia-

le e politico, in quanto condizionati, molto spesso, dalle direttive dei loro vescovi. Di grande rilievo è la critica che l’A. compie, sulla scorta della sto-ria dell’ecclesiologia, nei confronti di una Chiesa, ancora oggi, connotata da un’impostazione verticistica/socie-taria che continua ad essere causa «di stili di vita mondani e di carrierismo» (53), una sorta di piaga del clero, per parafrasare Rosmini. A tutto questo si aggiunge la scarsa testimonianza resa dalla povertà evangelica sia del-le istituzioni, sia delle persone che in esse vi operano. Un altro aspetto che esige un approccio riformativo è senza dubbio il CJC che non sembra aver recepito la lezione ecclesiologica conciliare e che non avendo affron-

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tato la questione complessa del rap-porto Chiesa-mondo, rischia di tra-dire in profondo la sua natura. Così come anche la mancanza di una co-dificazione relativa all’esercizio della collegialità episcopale e della sinoda-lità, implica, talvolta, un deprimente ritorno alla societas ecclesiale: tutto si riduce a ordinare le relazioni dei cat-tolici fra di loro senza alcuna respon-sabilità della missione nel mondo, perché tutto si concentra intorno al tema dell’autorità e delle forme del suo esercizio: «un’ecclesiologia au-tosufficiente, che era del tutto con-grua a una società che praticamente coincideva con la Chiesa stessa» (86). Grosse riserve si presentano nell’u-tilizzo del concetto di suddito, che è stato bandito dalla Costituzione Americana del 1787 e che ritorna nell’ordinamento del CJC, lessico tipico delle monarchie assolute. Tale termine è presente anche in LG 27, CD 19, NEP 2, a singolare testimo-nianza di un non completo supera-mento di un’ecclesiologia di natura prevalentemente giuridica. Un ulte-riore motivo di “imbarazzo” nell’or-dinamento attuale è la possibilità di celebrare un “secondo” matrimonio a dei battezzati divorziati civilmente in quanto l’ordinamento canonico ritiene quel matrimonio invalido. «Le ragioni teoricamente plausibili di questa normativa cozzano in maniera clamorosa con la situazione esisten-ziale dei coniugi sposati civilmente, giacché essi si trovano in condizioni assolutamente identiche» (97).

A proposito della teologia del lai-cato, Dianich ritiene che sia ancora appesantita da una Chiesa che affida

il “protagonismo” della sua missione e delle sue decisioni importanti, solo ai suoi pastori; in questa prospettiva però essa «mai potrà essere una comu-nità che cammina insieme, immersa come un lievito nella società civi-le, agli uomini e alle donne in mez-zo ai quali essa esiste e vive» (107). Nell’attuale ordinamento canonico i ministri ordinati, se non i diaconi, si privano di fondamentali diritti dei fe-deli, come quello di sposarsi, di eser-citare professioni civili (salva qualche eccezione) e di impegnarsi in politica, aspetti nei quali possono impegnarsi i laici, che restano una sorta di “bat-titori liberi”. Nel momento, però, di interventi pubblici, in nome della Chiesa Cattolica su grandi problemi della vita sociale e politica, questi li fanno il Papa e i vescovi. Lo stesso Benedetto XVI, nel discorso giubilare dell’enciclica Mater et magistra, aveva affermato che i laici non sono solo esecutori passivi del magistero, ma anche collaboratori preziosi dei pasto-ri nelle singole formulazioni. Le isti-tuzioni ecclesiastiche senza lasciarsi fecondare dalle competenze specifiche dei laici, non possono coprire tutti gli spazi della vita sociale. Nel parlare della questione del laicato, poi, non si può non parlare del ruolo delle don-ne all’interno della Chiesa. Su questo argomento, avvalendosi degli studi di S. Noceti, l’A., pur conoscendo le indicazioni magisteriali al riguardo, profila la possibilità di un’ordinazione diaconale della donna, un riconosci-mento «capace di non clericalizzare la donna, ma di introdurre nel ministe-ro ordinato la ricchezza dei suoi cari-smi specifici» (120).

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Il bisogno di sinodalità nel cam-mino ecclesiale conclude questo ca-pitolo e si tocca il tema delle Confe-renze Episcopali nelle loro rilevanze giuridiche e pastorali. L’attenzione si sposta sulla loro incapacità collegia-le di decidere in maniera obbligan-te per tutti i vescovi, salvo i casi in cui la Sede Apostolica l’abbia loro concesso. La riaffermazione degli esercizi collegiali dopo il Vaticano II si riallaccia al tema, complesso secondo Dianich, del rapporto tra giurisdizione e ordine, per cui se il sacerdozio era il vertice dell’ordine sacramentale, il ruolo del vescovo era di carattere giurisdizionale. Il Vatica-no II ha inteso superarla definendo la consacrazione episcopale quale pienezza del sacramento dell’Ordi-ne e dichiarando che nell’unico atto di consacrazione episcopale vengo-no assegnati l’ufficio di santificare, insegnare e governare. Tuttavia si continua ad avere l’impressione che il vescovo sia un mandato del Papa a governare la Chiesa e che il suo ministero riguardi per lo più aspet-ti amministrativi. «Si pensi a quanti vescovi, soprattutto fra i titolari im-piegati in uffici curiali, non pratica-no la predicazione quotidiana, non confessano mai, raramente benedi-cono matrimoni, eccezionalmente battezzano, celebrano i funerali solo dei preti e delle persone importanti, non visitano i malati se non nelle occasioni ufficiali delle visite pasto-rali, raramente sono a cena in casa di una famiglia che non sia di per-

sone eminenti» (137). L’andamento dell’assunto magisteriale, come quel-lo di Christus Dominus, evidenzia in maniera apodittica l’ufficio pastorale come l’abituale e quotidiana cura del gregge; gli affari giuridici della Dio-cesi, però, molto spesso coinvolgono le attività episcopali a discapito della cura pastorale dei fedeli. L’ultimo ca-pitolo si sofferma sulla forma di vita apostolica e sul fatto che i beni e le proprietà della Chiesa possano essere un impedimento alla realizzazione del suo fine evangelico. La pubbli-cazione dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ha un significato programmatico e conseguenze più che rilevanti per molti dei temi che sono stati affrontati in questo agile libro. Il fil rouge del testo ruota at-torno all’importanza dell’annuncio/comunicazione della fede (tema cen-trale dell’ecclesiologia di Dianich), che non è un dossier di informazioni che si trasmette senza curarsi del de-stinatario!

Il bilancio conclusivo su questo testo non può che essere positivo, dove oltre ad evidenziare una profon-da e matura conoscenza della materia ecclesiologica, vi è una considerazio-ne di fondo, di primaria importanza, che struttura tutto il percorso meto-dologico, ossia che la riforma deve apportare un sano e autentico rinno-vamento affinché la Chiesa di Cristo possa essere un umile strumento nel-le mani di Dio nella tensione verso il Regno.

Nicola Salato

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JEAN GRONDIN

Leggere Paul RicœurQueriniana, Brescia 2014, pp. 154, € 14,50

Con una scrittura estremamente ac-cessibile e coinvolgente, J. Gron-

din – tra i principali esperti dell’erme-neutica contemporanea – riesce a dar conto della complessità teoretica dell’i-tinerario di Paul Ricœur collocandolo nel contesto della filosofia contempo-ranea e della storia del ’900. Ciò che colpisce è la capacità di delineare il filo conduttore della proposta di Ricœur, ripercorrendo gli snodi principali della sua riflessione e lasciando emergere la peculiarità del suo pensiero rispetto a ben noti interlocutori quali Heidegger e gli esistenzialisti, Husserl, Gadamer, Mounier, Marcel e Jaspers. In una pri-ma approssimazione si può dire che il suo percorso, radicato nella tradizione riflessiva francese, nel personalismo e nell’esistenzialismo, mostra costante interesse per una Filosofia della volontà (orig. in due volumi: 1950, 1960) nu-trita da «dialogo, speranza, confronto di idee e apertura all’inedito dell’ini-ziativa umana» (11). Questa filosofia dell’ascolto, intesa fondamentalmente come ermeneutica, rivela radici più consone all’impostazione di Dilthey che a quella di Heidegger, in quanto per Ricœur l’ermeneutica riguarda «l’arte delle manifestazioni vitali fissate per iscritto» (70) e, accogliendo il mo-nito kantiano secondo cui «il simbolo dà a pensare», si pone in sostanziale continuità con le istanze di una filo-

sofia della riflessione che costituisce l’originalità del suo intero progetto. Nel 1965 Ricœur ebbe modo di di-stinguere una via corta e una via lunga dell’ermeneutica: la prima è identifica-ta con la tesi heideggeriana in base alla quale la comprensione è una modalità dell’esistenza, con la conseguente sva-lutazione delle questioni epistemolo-giche tradizionali dell’interpretazione. La via lunga, invece, si delinea in con-tinuità con l’impostazione di Dilthey, ponendo al centro le questioni episte-mologiche, metodologiche e linguisti-che e mantenendo aperto il dialogo con i saperi scientifici.

L’approccio all’ermeneutica, inol-tre, è caratterizzato da profonda at-tenzione a tutte le scienze dell’uma-no – in particolare a quelle attente ai miti e ai simboli – allo scopo di venir a capo della problematica del male: «Il male non potrebbe dunque essere compreso che alla luce dei simboli che l’hanno rappresentato e che occorre interpretare. La svolta ermeneutica della fenomenologia sarebbe allora de-terminata dall’aporia costituita dalla sfida del male, e segnerebbe un limite alla fenomenologia stessa e alla sua via privilegiata, quella dell’introspezione: l’ego non può conoscersi che con un cammino attraverso i simboli, i miti e i racconti nei quali si è tradotto il suo sforzo di esistere» (68).

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Dopo la svolta maturata negli anni ’60, il problema centrale dell’erme-neutica consiste nel capire il sacro nel contesto della modernità, senza però fare della modernità la questione cen-trale della riflessione filosofica con-temporanea. L’ermeneutica presenta una funzione restauratrice nella misura in cui consente di aprirsi meglio al messaggio dei simboli e di superare l’oblio del sacro che caratterizza la nostra epoca. A tal proposito si può parlare dell’esigenza di una seconda ingenuità che trae profitto anche dal-la lezione demistificatrice segnata dal contributo di Freud: Ricœur collega l’ermeneutica con l’interpretazione dei simboli, «ma non contrappone più frontalmente l’ermeneutica re-stauratrice all’interpretazione ridut-trice di Freud. Al contrario, l’inter-pretazione riduttrice e la meditazione restauratrice sono viste sempre più come due vie complementari, quelle del sospetto e della fiducia, essenziali all’arco ermeneutico» (85).

In realtà il progetto di un’erme-neutica restauratrice non è mai stato realizzato fino in fondo in linea con le intuizioni iniziali perché Ricœur ha avvertito l’esigenza di rispettare il confine tra la filosofia e la fede: a partire dal 1965 egli «ha ampliato, ma anche modificato, la sua com-prensione del compito ermeneutico, cessando forse di legare ad esso così direttamente, in nome di una seconda ingenuità, speranze immediatamente religiose suscettibili di contrastare la carenza di senso della modernità. Tuttavia si potrebbe dire che per certi aspetti Ricœur non abbia mai intera-mente rinnegato il suo primo ingresso

nell’ermeneutica, in quanto richiamo a qualcosa di essenziale relativo alle possibilità dell’uomo e alla sua ricerca di senso» (87). L’originalità della sua proposta non è stata colta da quanti hanno visto nell’opera Dell’interpreta-zione (orig. 1965) semplicemente un saggio su Freud: al centro dell’interes-se, infatti, c’è la consapevolezza della priorità del linguaggio come luogo in cui si manifestano tutte le espressioni di senso. La presenza di un doppio sen-so non riguarda dunque solo i sogni, ma caratterizza tutto il campo del lin-guaggio e rinvia alla nozione di sim-bolo: le nozioni di simbolo e di inter-pretazione si spiegano reciprocamente (93). Ciò non impedisce a Ricœur di problematizzare le letture riduttive che intendono il simbolo solo come un’illusione o un sintomo. Prendendo poi le distanze dalla linea heideggeria-na e, almeno in parte, anche da quella di Gadamer, non tutte le funzioni si-gnificanti sono assunte come oggetto dell’ermeneutica in quanto l’inter-pretazione riguarda primariamente la funzione simbolica.

Il problema affrontato in Il conflitto delle interpretazioni (1969) non costi-tuisce uno scacco per il lavoro erme-neutico perché l’esercizio del sospetto praticato da Marx, Freud e Nietzsche aiuta la coscienza a comprendersi me-glio e di conseguenza arricchisce il compito di una filosofia della rifles-sione. Accolti gli stimoli critici della via del sospetto, l’ermeneutica può percorrere la via della restaurazione at-traverso l’apporto dell’esegesi biblica e della fenomenologia che scruta l’inten-zionalità della coscienza: «Essa prende il senso quale si dona, illuminando e

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guidando la coscienza, non senza trar-ne una salutare lezione di umiltà dalle ermeneutiche del sospetto» (98). Ri-spetto alla svolta introdotta da Freud, Ricœur avverte l’esigenza di superare l’assolutizzazione del condizionamen-to dell’inconscio e dell’involontario, non perché essi non esercitino il loro potere, ma perché la loro rilevanza non può indurre la coscienza alla rassegna-zione di chi rinuncia a comprendersi.

L’intenzione di recuperare il nesso esistente tra verità e metodo – oltre a ribadire una parziale distanza rispetto al progetto ermeneutico di Gadamer – sospinge Ricœur a un confronto con lo strutturalismo, mosso però dalla consapevolezza che l’interes-se per le questioni sintattiche non può mai prescindere dall’attenzione alla semantica e ai contenuti espres-si: «Costituendo il linguaggio come un’entità autonoma di dipendenze in-terne, la linguistica strutturale riesce a porsi come scienza, ma vi giunge a prezzo di esclusioni. In effetti esclude “l’intenzione prima del linguaggio, che è quella di dire qualcosa su qual-cosa”» (106). La portata referenziale del discorso, la “freccia del senso”, co-stituisce la tesi centrale dell’ermeneu-tica di Ricœur: il senso manifesta nel discorso il suo impulso ad avanzare e, avanzando, provoca nel destinatario l’interpretazione di sé. Tale program-ma è palesemente espresso sin dal tito-lo dell’opera Dal testo all’azione (orig. 1986): «la comprensione del testo che noi siamo, rinvia in ultima istanza all’azione da compiere, che rappre-senta il punto di partenza e di arrivo dell’interpretazione» (115). Questa consapevolezza prepara l’ultima svol-

ta, quella espressa dalle summae della maturità che si collocano sul piano dell’ermeneutica del tempo e del rac-conto, dell’etica e del pensiero della storia. Ovunque gli uomini racconta-no delle storie: «la comprensione che abbiamo di noi stessi proviene dai rac-conti che ci costituiscono e di cui ci siamo appropriati. Essi costituiscono ciò che Ricœur chiama la identità nar-rativa: rispondere alla domanda “chi?” vuol dire raccontare la storia di una vita» (122). Un’ermeneutica dell’i-dentità narrativa ha inevitabilmen-te delle conseguenze etiche: la storia apre al campo dell’azione possibile e responsabile, ponendo in primo pia-no l’attenzione alla coesistenza e alla reciprocità. Le questioni dell’identità e dell’etica rinviano all’interesse per un’ontologia che non si concentri sul senso dell’essere in generale, ma sul-le possibilità dell’uomo. Da questo punto di vista la distanza rispetto al progetto ermeneutico di Heidegger e di Gadamer risulta, almeno in parte, parzialmente attenuata. Attraverso la meditazione sulla storia, sul raccon-to e sui percorsi del riconoscimento, l’interesse conclusivo di Ricœur ap-proda alla scoperta della positività di un oblio di riserva, di una possibilità di dimenticare che non consiste nella cancellazione delle tracce del passato, ma indica disponibilità a un’attiva in-curanza: essa restituisce all’uomo la possibilità di vivere la libertà dei gi-gli dei campi e degli uccelli del cielo che, pur non seminando, mietendo e accumulando nei granai, vivono in pienezza la felicità dell’amore.

Antonio Trupiano

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Mettersi nei panni dell’altro. Quante volte si sente questa

espressione, che inconsapevolmente cela una delle più grandi sfide della vita: la relazione con l’altro. P. Man-ganaro in questo agile libretto prova a mettere in pratica l’empatia (dal greco én – páthos), ossia a sviluppare un di-scorso, come lei stessa attesta nell’in-cipit, che introduca il lettore nella capacità di vivere una vera e propria avventura nei confronti dell’altro. Il punto di partenza è affidato a quan-to, molti anni or sono, sosteneva L. Wittgenstein a proposito dell’alterità: senza di essa ci sentiremmo smarriti e confusi incapaci di ritrovare noi stessi senza aver ritrovato anche l’altro. Ri-prendendo i primi studi del '900 sulla tematica in questione, si affronta la problematica di quel quid che ci accu-muna tutti e che ci offre la possibilità non solo di comunicare, ma anche di relazionarci. L’empatia, tuttavia, non è immedesimazione – traduzione er-ronea del concetto – quanto piuttosto la capacità di entrare in sintonia con l’altro. Non a caso l’A. nello scrivere si propone di stabilire con il lettore que-sta sorta di correlazione, come a suo tempo aveva fatto anche W. Dilthey, e non solo lui. «Chi dice empatia dice pensiero, parola, azione. Dice lógos e páthos, atto intenzionale, formativo e

performativo» (25). Il pensiero sog-giacente a queste riflessioni è la filoso-fia fenomenologica di Edith Stein che si era occupata a più riprese di questa tematica che per E. Husserl, anche nelle lezioni della maturità, restava una sorta di enigma oscuro, conti-nuando virtualmente a discutere con Th. Lipps. Il tutto si gioca, secondo l’A., in uno scavo profondo di que-sta esperienza, fenomenologicamente, originaria per il soggetto che la vive e non originaria per chi si de-centra e cerca di fare spazio e accogliere in sé l’altro. In nome di queste premesse si prosegue nel viaggio conosciuto e sconosciuto insieme del pianeta em-patia. In questo percorso trasversale, indiscutibilmente, ci s’incontra/scon-tra con il dolore e la sofferenza, nel senso che siamo patici ed empatici insieme. Il dolore rinchiude l’uomo in se stesso nella solitudine più arida o dischiude nuovi orizzonti? Se lo è domandato lo psicopatologo B. Cal-lieri, che distingue il dolore cronico, fisico e l’esperienza di chi vive nella sofferenza, nella depressione; in que-sto caso il dolore si distingue dalla sofferenza. Sul patire che dischiude una vasta gamma di nuove possibilità si è interrogato V. Frankl, per il quale la sofferenza diventa anche una possi-bilità di maturazione per chi la vive.

PATRIZIA MANGANARO

Empatia Edizioni Messaggero, Padova 2014, pp. 143, € 14,00

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Risulta consequenziale che dire em-patia significa fare spazio alla verità su noi stessi dando vita a un movimento di uscita da sé: primato della ragion pratica in questo squarcio di luce che diventa un vero e proprio percorso di conoscenza di sé stessi. Il quarto capi-tolo tenta un excursus sulla questione a partire dalle ricerche estetiche di R. Vischer, passando attraverso il “con-tinente sommerso” della fenomenolo-gia di E. Stein, letta talvolta – in mol-ta letteratura contemporanea – come una variante di un languido spiritua-lismo cattolico.

Nella mia esperienza vissuta non-originaria (nicht-originären), io mi sento accompagnato da un’espe-rienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta in prima persona da me, eppure si presenta in me, mani-festandosi nella mia esperienza vissuta non-originaria, scrive la Stein nella sua tesi di laurea. Se io sono capace di vivere empaticamente con un al-tro, avrò la costituzione della perso-na estranea nella sua datità: anche un semplice sorriso (Lächeln), può offrir-mi la possibilità di lanciare “un’oc-chiata”, uno sguardo nel nucleo della persona (Kern der Person). L’individuo psico-fisico è una realizzazione del-la persona spirituale; il rapporto con l’altro svela la nostra contingenza, il nostro continuo cercare, in sostanza il nostro non auto-possederci in nessun modo se non in relazione con altre persone. Anche per Stein, la via misti-ca della passione che sente dentro di sé l’altro (Einfühlung) viene interpre-tata come “l’autentica pratica dell’em-patia” (R. Kühn). L’ultimo capitolo del libro coglie la sfida dell’empatia in

una società, come la nostra, multietni-ca e multireligiosa, dove il fenomeno della globalizzazione tenta di azzerare le differenze. Il riscatto potrà avvenire recuperando due singolari universali: l’humanitas e la communitas, e come sosteneva Husserl nella Krisis, spet-ta alla filosofia il compito più arduo quale responsabilità di fronte all’inte-ra umanità. Vorrei richiamare, come fa l’autrice, il “no alla globalizzazione dell’indifferenza” denunciato da papa Francesco, in occasione della sua vi-sita all’isola di Lampedusa (8 luglio 2013), contro l’ipertrofia dell’io, dove l’altro, in questo caso lo straniero, non è il diverso o il nemico (J.P. Sar-tre), ma il prossimo, il fratello. L’in-differenza è un “cancro” che paralizza le nostre relazioni e crea una vacua forma di solipsismo. L’invito è quello di ritornare alla forte valenza antropo-logica dell’esperienza e del pensiero di Francesco d’Assisi, richiamato nel te-sto dalle parole di M. Cacciari. A que-sto punto non posso non soffermarmi sulla parte più incisiva e brillante di questo libretto che è il poscritto, qui si narra dell’incontro dell’autrice con l’estro artistico di G. Sanmartino (1720-1793): il Cristo velato, che si trova nell’affascinante ed enigmatica cappella di famiglia del principe di Sansevero in Napoli. «Trascendenza e presenza si fondono in questo che non è un corpo inerte, inanimato, adagiato su un letto di morte, la te-sta reclinata su due morbidi, eleganti cuscini, la vena della fronte che pulsa sangue e morte, sangue e sofferenza, sangue e vita» (133). Un’opera straor-dinaria, dove il marmo acquista una plasticità tale che sembra essere infor-

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mato di vita, diventando apparente-mente una materia flessibile e leggera come il velo che ricopre la sofferenza del Cristo. Qui lo scultore dimostra come l’empatia assurga a una vera e propria commistione d’intenti; chi lo guarda non può restare impassibile

di fronte ad esso. In ultima istanza, consigliamo vivamente la lettura di questo scritto, che introduce in paro-le semplici, per quanto mai distante dal suo tratto scientifico, un tema di grande attualità nel nostro tempo.

Nicola Salato

ROCCO PITITTO

La Christus, Hoffnung der Welt di Heinz Tesar: tra architettura, filosofia e teologia Diogene Edizioni, Pomigliano d’Arco 2014, pp. 100, € 25,00

«Le Chiese sono le ancore della trascendenza e della pietà nel

caos dei mercati globali […] Scrivere sulla costruzione di una chiesa signi-fica per me, sostanzialmente, descri-vere le proprie costruzioni e verbaliz-zare i pensieri che producono questi edifici» (89). Con quest’affermazione di H. Tesar si chiude il preludio del testo di R. Pititto: chiave di lettura dell’opera e riferimento sintetico del pensiero del noto progettista austria-co. Lo studio è apprezzabile per la convincente argomentazione critica che suggerisce e consente di aprire un interessante fronte di speculazione storico-architettonica, al cui interno si intrecciano questioni propriamente filosofiche e teologiche, nonché stret-tamente liturgiche. L’idea di architet-tura di Tesar è allo stesso tempo sem-plice e complessa: idea che si realizza in una visione d’insieme dell’arte del costruire e dell’abitare. Le sue propo-ste progettuali evidenziano nel tempo oltre a una sicura e originale sintesi

architettonica, espressa in modelli in cui la sintesi formale si coniuga con una intelligenza pianificazione fun-zionale, anche un impegno intellettua-le atto a realizzare un dialogo profondo sull’uomo e sulle sue attese con i suoi interlocutori, come scrive felicemente l’autore nel paragrafo Come un prelu-dio. Lo studio di Pititto si articola in nove capitoli ed è un’analisi fenome-nologica sullo spazio sacro e sul tipo di spazio sacro adatto all’uomo di oggi, comprendendo anche la presen-tazione dettagliata del progetto archi-tettonico. Il volume presenta un ricco corredo documentario, con immagi-ni, studi preliminari e schede e ripor-ta in appendice due scritti di Tesar. Il panorama dell’architettura religiosa odierna è sicuramente vasto e variega-to, diversificato in molte declinazioni dello stesso senso di architettura sa-cra. In questo contesto l’architettura di Tesar va letta innanzitutto nel suo ruolo sociale, esperienza dello spazio in una forma semplice che si deforma

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attraverso il processo. Su questa linea di matrice fenomenologica, aperta alla presenza nel mondo umano dello spazio sacro, la Cristus, Hoffnung der Welt è assunta sul piano scientifico e narrativo come un caso-studio: rifles-sione dell’uomo religioso che è alla ricerca di un contatto con Dio e di un luogo dove incontrarlo e dialogare con Lui. Uno spazio sacro che coniu-ga proposte antropologiche, aspetta-tive religiose e sapere architettonico secondo i dettami del Concilio Vati-cano II. Costruita nel 2000 l’architet-tura si presenta esternamente come un volume semplice e compatto: un cubo che si trasforma in una Chiesa a pianta ottagonale, rivelandosi una soluzione corretta dal punto di vista teologico, segno di un popolo disper-so che si ritrova unito attorno alla mensa. Una trama di oblò permette alla luce di entrare nello spazio inter-no. Si accede a una zona filtro prima dell’aula; l’interno è rivestito in le-gno, l’assemblea è disposta intorno al presbiterio rialzato dove sono col-locati l’altare e l’ambone; agli angoli, illuminati da appositi lucernai, sono il tabernacolo e il fonte battesimale. Questa disposizione favorisce l’azio-ne liturgica: presbiterio, tabernacolo, fonte battesimale, come luoghi di luce e il celebrante si muove tra que-ste sorgenti luminose. Il luogo litur-gico è dunque pensato e realizzato in funzione della liturgia del movimen-to, dove i poli liturgici sono “in luce” e dove l’assemblea riunita celebra re-almente e simbolicamente il mistero pasquale. Consapevole dei processi storico-teologici del tempo Tesar non

può non prendere atto del cambia-mento di prospettiva e di funzione che assume il luogo di culto cattolico dopo il Concilio e nella contempo-raneità. L’architetto ha realizzato un segno fortemente riconoscibile, che possa essere di passaggio dalla vecchia Vienna alla nuova: un edificio sacro sulla piazza, reinventato e rovesciato nella concezione tradizionale e ridi-segnato con aspetti nuovi e originali, senza nulla o quasi concedere al pas-sato; non vi è la torre campanaria che svetta per affermare il suo ruolo pre-minente nella città e nella storia. L’in-tero complesso consente di sviluppa-re e fruire di tutta l’articolazione di pieni e di vuoti, mentre l’assetto delle strutture verticali consente di definire lo spazio interno senza racchiuderlo. L’obiettivo è realizzare una “comu-nità viva” in una città in espansione. Il lavoro architettonico risulta una risposta efficace alla doppia esigen-za di trascendenza e di orizzontalità. È questo il motivo che illumina in prospettiva la costruzione. Lo spazio sacro così concepito non rappresenta una spaccatura con il mondo ma un suo pieno completamento. Precarietà e incertezza nel cammino dell’uomo rendono più immediato il ritrova-mento di una protezione nel segno della Croce. Forse è per questo che l’architetto colloca la sola croce bian-ca intagliata sulla facciata, una sorta di porta d’ingresso aperta al mondo. La “Croce” viennese di Tesar diventa il percorso di ogni essere umano: il suo compimento e la sua salvezza de-finitiva.

Giuliana Albano

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XAVIER TILLIETTE

Gesù romantico a cura di A. Sabetta Lateran University Press, Città del Vaticano 2014, pp. 521, € 40,00

In questo nuovo libro, il gesuita francese X. Tiliette offre un “mi-

scuglio dei generi”, attraverso cui misurarsi con il romanticismo, vero e proprio «stato dello spirito o dell’a-nima» più che mero «fenomeno d’e-poca» (19). Lo si potrebbe pensare come una sorta di splendido catalogo di esperienze poetiche della figura di Gesù, da gustare una per una, sapen-do che neanche la partizione del vo-lume, la sua scansione nei vari capi-toli, risponde alla solida logica della trattazione, che si dipana per argo-menti rigorosamente concatenati.

L’idea di fondo che accompagna il libro è la convinzione che il roman-ticismo non sia solo ateo. La la mor-te di Cristo come parabola dell’a-teismo sono solo un aspetto della cultura del sec. XIX. La riflessione si dipana dal riferimento alla prima apparizione del Cristo romantico dovuta a Jean Paul. Si trova nel ro-manzo Siebenkäs e si intitola Discorso del Cristo morto dall’alto dell’edificio del mondo, annunciante che non vi è nessun Dio. Gesù discende dai cieli dopo che non vi ha trovato Dio ma solo «l’eterna tempesta che nessuno governa». La conclusione è: «Siamo tutti orfani, io e voi, siamo tutti sen-za padre». Tilliette spiega che tale apparizione è divenuta famosa nella

traduzione francese di Germaine de Staël che lo ha fatto conoscere come Sogno di Jean Paul. Poiché ella ne ha omesso la rassicurante conclusione originaria (il risveglio dell’autore che ringrazia Dio del fatto che fosse solo un sogno, anzi un incubo), il Sogno ha finito per divenire una rivelazio-ne o “apocalisse dell’ateismo”, i cui echi «si sono propagati fino alla fine del secolo e oltre; non vi è scrittore, grande o piccolo, che non gli abbia fatto da coro» (30-31).

Dalla lettura di questo momen-to decisivo della vicenda del Gesù romantico ci avvertiamo sollecitati a una considerazione che ci appa-re altrettanto decisiva, e che investe ogni altro dei momenti che costitu-iscono la coinvolgente narrazione/presentazione di Tilliette. Il lettore non vi trova soltanto l’occasione per una meditazione di carattere estetico e sentimentale. La presenza decisiva di Gesù comporta presso colui che vi si avvicina con sensibilità teologica un’ulteriore opportunità, di carattere marcatamente spirituale: quella della relazione alla persona da cui si cerca e si spera pienezza di senso e risposta alle più profonde attese del cuore. In tal senso la figura del Cristo di Jean Paul/de Staël che torna dal cielo a mani vuote, e che si limita a comu-

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nicare che non vi è alcun Padre e che di conseguenza si è tutti condannati per sempre alla condizione di orfani, risulta deludente, estranea, incom-prensibile. Non semplicemente sotto il profilo edificante pur richiesto dal-la sensibilità cristiana, quanto piut-tosto – ed è ciò che interessa qui rile-vare – sotto il profilo marcatamente estetico. Se difatti la figura di Cristo viene privata di ciò che la costitui-sce nell’esperienza viva del credente, questi non la riconosce se non come immagine scialba e priva di interesse. Di conseguenza, lo stesso elemen-to cruciale della fruizione estetica sembra venire meno. È possibile che un’opera come Gesù romantico pos-sa aiutare a cogliere questo nesso tra esperienza estetica e identità teolo-gica? Forse. In ogni caso, va ricono-sciuta gratitudine a Tilliette che ci consente in tal modo di riflettere sul-la grande vicenda intellettuale della relazione tra vero e bello.

Su questa linea, della relazione vero-bello, un momento estetico che certamente si può vivere appieno, es-sendovi descritto un Cristo pieno di pathos e rispondente ad attese e ten-sioni del credente, è quello di Génie du christianisme. Chateaubriand vi insiste su temi teologici sicuri come quello dell’abbassamento e della com-passione. Gesù è «Dio dei miseri», chinato sull’umanità sofferente, e che non per caso, come sottolinea Tilliet-

te, «si manterrà a lungo e s’imporrà a parecchie generazioni di credenti» (116). Tra coloro che se ne faranno attrarre, George Sand, la più celebre delle muse romantiche, scrittrice in-faticabile che sceglie amanti deboli ed effeminati e all’occasione si fa chia-mare “compagno George”. È come rapita dall’opera di Chateaubriand, perché essa «rende la religione ama-bile, accomodante, […] è il libro del chiostro per eccellenza, è il codice di chi ha ricevuto la tonsura […] Cha-teaubriand diventava il mio prete e il mio iniziatore» (cit. a p. 260).

Alla luce di queste considerazioni, riteniamo il titolo, Gesù romantico, particolarmente felice, nonostante l’A. puntualizzi che si è trattato di una scelta di ripiego, in quanto il titolo desiderato – il Cristo romantico – era già stato utilizzato (e difatti nel corso del libro Tilliette si riferisce sempre a il Cristo più che a Gesù). Ma l’im-pressione che ne abbiamo ricevuto è che il titolo attuale faccia il paio con la natura del libro: “Gesù”, più che “il Cristo” è il nome proprio di Colui con cui si entra in relazione attraverso la considerazione poetica offertane dal libro, è Colui col quale ci si avverte in empatica prossimità, al punto da sen-tirne la presenza e la compagnia nella gioia, nel pianto, nella commozione propri dell’esperienza estetica più alta e più profonda.

Roberto Di Ceglie

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DARIO VITALI

Verso la sinodalità Edizioni Qiqajon, Magnano 2014, pp. 158, € 15,00

Con l’elezione di papa Francesco si è tornati a invocare più colle-

gialità, dottrina espressa dalla Lumen Gentium e che ha ricevuto una debole ricezione. Si è riacceso il desiderio di un governo della Chiesa meno affetto da una sindrome di “centralismo” (cf 5), di cui è sembrata soffrire in modo sempre più drammatico la Chiesa ne-gli anni del postconcilio. Molto spesso il collegio è stato confuso con la Curia romana e ciò non solo ha sostanzial-mente lasciato lettera morta la pagina conciliare, ma «ha tentato di imporre un’ermeneutica – o un’attuazione – che ha stravolto le linee originarie della collegialità disegnate dal Concilio Va-ticano II» (6). L’A. vuole rispondere ad alcune domande: come ristabilire le linee originarie di quel disegno? Come attuare la pagina conciliare sulla colle-gialità? Più che interrogare i significa-tivi gesti e le parole di papa Francesco, che stimolano ad imboccare una «salu-tare decentralizzazione» (EG 16), Vitali sceglie una via particolare: tornare alla pagina conciliare. Il saggio è articolato in sei capitoli. Il primo capitolo è un commento del testo conciliare. Più che ascoltare i commentatori del Concilio, l’A. interroga il testo al fine di liberare il tema della collegialità da interpreta-zioni ideologiche. La concentrazione cade sui paragrafi 22-23 del capitolo III di LG, una sorta di dittico che «pre-

senta due scene distinte e separabili, ma che solo accostate possono rivelare l’interezza del discorso» (14). Sebbene sia LG 22 il testo che affronta ex profes-so la dottrina della collegialità, tuttavia la sua comprensione non può avvenire senza il riferimento a LG 23 che illu-stra le relazioni dei vescovi all’interno del collegio. Nel capitolo secondo l’A. verifica i diversi motivi del difficile e debole processo di ricezione, spesso le-gato a una interpretazione che ha fini-to per ridurre il collegio al suo capo. Si richiama l’asse portante necessario per disegnare un modello ecclesiologico, ossia il nesso costitutivo tra Chiesa uni-versale e Chiese particolari: l’una non può esistere senza le altre, e viceversa (cf 51; cf. LG 23). Inoltre sono esplici-tate le conseguenze rischiose dell’appli-cazione della precedenza ontologica e temporale della Chiesa universale sulle Chiese particolari al tema della colle-gialità (cf 54). Nel terzo capitolo l’A. mette in luce i nodi da sciogliere dal momento che impediscono o rallen-tano un corretto esercizio della colle-gialità: il primo nodo è rappresentato dal rapporto tra collegialità e primato, ossia dal rapporto tra i due soggetti di piena e suprema autorità nella Chiesa; il secondo nodo riguarda il rapporto tra il popolo di Dio e i suoi pastori. Si sot-tolinea in modo particolare il vincolo tra il sensus fidei del popolo di Dio e il

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munus docendi dei pastori, vincolo che impone una «doppia ricollocazione»: il Papa dentro il collegio e questo dentro il popolo di Dio. Il terzo nodo riguarda la composizione del collegio episcopa-le, capace di ricomporre in armonica corrispondenza la communio fidelium, la communio ecclesiarum e la commu-nio hierarchica, con il Papa come prin-cipio e fondamento di unità delle tre forme di communio. Il capitolo quarto è quello della proposta teologica. L’A. disegna un sistema di relazioni che rea-lizzano una circolarità effettiva tra uni-versitas fidelium, collegio dei vescovi e Papa. Occorre riavviare il movimento circolare di tre momenti, a cui fanno capo tre azioni necessarie e tre soggetti interdipendenti della Chiesa: il mo-mento della profezia (appartenente al popolo di Dio), il momento del discer-nimento (appartenente ai pastori della Chiesa) e quello dell’attuazione di ciò che nel discernimento è stato indivi-duato nel collegio come volontà di Dio per la Chiesa (cf 103-104). Il quinto capitolo, a partire dal dato neotesta-mentario, presenta l’ascolto come la regola d’ora della vita ecclesiale, il mo-mento iniziale di ogni processo eccle-siale: «senza ascolto, la partecipazione, la sinodalità, la collegialità rimangono parole vuote o, peggio, diventano ban-

diere ideologiche» (122). Nel capitolo conclusivo Vitali presenta la sua ipotesi di un’articolazione della communio ec-clesiale in cerchi concentrici, capace di favorisce una feconda comunicazione dal centro alla periferia e dalla periferia al centro. Il cerchio più esterno sarebbe quello delle singole Chiese particolari; i tre cerchi intermedi si situerebbero a livello delle province ecclesiastiche, del-le Chiese nazionali (o delle Conferenze episcopali nazionali), dei patriarcati continentali o subcontinentali; infine il collegio episcopale, sempre cum Petro e mai sine Petro. La proposta di Vitali di un possibile esercizio della collegialità a tutti i livelli della communio e pen-sata a partire da LG 22-23, ricollocati nell’orizzonte più ampio del capitolo II di LG sul popolo di Dio, costitui-sce il tentativo onesto di coniugare in armonia la compresenza di due sog-getti di piena e suprema autorità nella Chiesa e di orientare concretamente e coraggiosamente la vita della Chiesa e i processi ecclesiali nella direzione del-la collegialità, della sinodalità e della partecipazione corresponsabile di tutti, rompendo, una volta per sempre, quel-la incomunicabilità tra i pastori della Chiesa e il popolo di Dio.

Agostino Porreca

KLAUS BERGER

Commentario al Nuovo Testamento I. Vangeli e Atti degli apostoli Queriniana, Brescia 20142, pp. 656, € 73,00

Fin dal titolo del libro si compren-

de che K. Berger ha l’intenzione di fornire un commento ai primi libri

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del Nuovo Testamento (Vangeli e gli Atti degli Apostoli). Il volume mol-to articolato offre, per ogni singolo testo, informazioni generali per fa-vorire un contatto con le questioni principali riguardanti l’autore, la da-tazione, i destinatari e il contesto so-ciale e storico in cui è stato concepito lo scritto. A completamento di ogni introduzione vi è un commento alle singole sezioni del testo per fornire le linee teologiche generali dello stesso.

Approfondendo il contenuto del lavoro notiamo che l’autore esordisce con la presentazione del Vangelo di Matteo per il quale offre un’ipotesi di datazione piuttosto bassa (50-60 d.C.) basandosi su alcuni dati quali l’insistenza della continuità tra giu-dei e credenti in Cristo e per la quasi assoluta assenza delle questioni sulla circoncisione. La Cristologia, rin-tracciata a partire dai titoli, è legata alle immagini del pastore di Israele e degli altri, del maestro e taumaturgo e del Messia di Israele. Il commento è offerto per grandi sezioni, sebbene si tocchino tutti i capitoli. La meto-dologia di analisi è quella classica con un apporto specifico del confronto con la letteratura giudaica e cristia-na, biblica ed extra-biblica, per for-nire un’interpretazione profonda del testo. Nota l’insistenza dell’evangeli-sta Matteo sui tratti di educatore ri-guardanti Gesù, sottolineando come egli unifichi varie sezioni dell’insie-me (Mt 5-7; 8-10) intorno al topos dei dialoghi. Molto entusiasmante è l’interpretazione delle parabole in relazione ad alcune categorie quali la “crescita”, la “decisione” e il “lasciar andare” e l’evidenza data alle parole

differenti per il racconto dell’ultima cena, rispetto agli altri evangelisti. Infine è offerta una rilettura della se-poltura di Gesù mediante il confron-to con il vangelo apocrifo di Pietro per accentuare il carattere drammati-co dell’evento.

Nel presentare il Vangelo di Mar-co, Berger esordisce con un elenco di dati negativi per sostenere un’ipotesi di datazione. In effetti, a partire dal rifiuto del titolo di figlio di Davide da parte di Gesù, dalla constatazio-ne che il Vangelo di Marco scagioni Pilato dalla responsabilità della morte del nazareno e dall’evidente diversi-ficazione nel racconto tra i disordini nelle città e le attese future dei cre-denti, l’autore paventa la possibilità che l’ambiente di nascita e il tempo di redazione del Vangelo sia in un conte-sto di persecuzione, visto il tentativo di “tenere buoni” i romani (cf 159). A questo dato l’esegeta aggancia i riferi-menti di Mc 10,35-45 che descrivo-no un clima di tensione nell’ambiente sociale e storico della vita comunita-ria. Identifica questo periodo di ten-sione con gli anni di Erode Agrippa (41-44 d.C.) e propone come data di redazione del Vangelo il 45 d.C., pre-sentando i destinatari come “giudeo/etnico cristiani” mediamente istrui-ti. Analizzando alcune affermazioni interessanti per la riflessione, frutto del commento al testo, evidenziamo la proposta di rileggere la categoria del “segreto messianico” non come espediente letterario, legato alla te-ologia dell’evangelista, bensì come paradigma pedagogico utilizzato da Gesù per educare i discepoli alla sof-ferenza del Messia e diversificarli da

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altri suoi seguaci (cf 222). Egli fa ruo-tare l’intera teologia dell’evangelista intorno all’identità di Gesù, Messia e Figlio di Dio, dapprima velata e poi progressivamente svelata mediante la sofferenza. A tal proposito attribuisce notevole rilevanza all’episodio della trasfigurazione (Mc 9). Esprime una sua opinione, non distante da quella della maggioranza degli esegeti, cir-ca la doppia conclusione del Vange-lo di Marco. Circa quella più antica (Mc 16,1-8) la ritiene enigmatica per il lettore, giacché invitato a prende-re posizione rispetto al silenzio delle donne, partendo dall’evento della tomba vuota che enuncia l’avverar-si delle predizioni di Gesù di morte e resurrezione. Per le apparizioni del risorto (Mc 16,9-20) riscontra di-pendenze con gli altri evangelisti e aggiunge che esse sono una chiusura tematica, aggiunta in seguito, con il tentativo di fare da ponte tra il Van-gelo e l’annuncio.

Per il Vangelo di Luca, conside-rando che è concepito come opera insieme agli Atti degli Apostoli, ma cronologicamente è anteriore, e che gli Atti sono redatti prima della mor-te di Paolo, poiché essi riportano solo il processo a Paolo e non l’esecuzio-ne di una condanna a morte, Berger individua come margine di redazio-ne dei due libri gli anni tra il 66-70 d.C., optando per una data inter-media 66/67, escludendo il 70 d.C., vista la trascrizione sommaria della distruzione del tempio riportata nel Vangelo (Lc 21). Elementi contenu-tistici emergenti sono legati dall’au-tore all’analisi dei testi che ricorrono solo nel Vangelo di Luca in quanto

salienti per identificare la cristologia lucana. Tra essi suggerisce il ruolo di Gesù come redentore, liberatore che riconcilia l’uomo con Dio e che invia i discepoli dopo averli istruiti. Individua come particolarmente ri-velativa la sezione del viaggio verso Gerusalemme per esprimere i termi-ni attraverso cui Gesù, come agnello immolato, redime l’uomo. Anche per i racconti di passione l’esegeta lascia emergere i particolari del rac-conto per rintracciare l’attenzione dell’evangelista per la preghiera, la carità, il perdono, eventi probabil-mente significativi per la comunità cui il Vangelo era destinato.

Evidente il cambiamento di strut-tura del Vangelo di Giovanni, basato, secondo Berger, non sulle parabole, ma sulle metafore, secondo lo schema “Io-sono + metafora” (cf 412). Il fine esegeta ritiene che, l’evangelista Gio-vanni, faccia emergere quegli aspetti cristologici lasciati ai margini dagli altri evangelisti a partire dallo spo-stamento di attenzione dall’annuncio del regno alla persona stessa di Gesù. L’attenzione principale del Vangelo verte su alcune questioni rilevanti, quali il rapporto Gesù-Dio e il con-tenuto delle affermazioni di Gesù per verificare se sono bestemmie. Appog-giandosi ai dati degli scavi di Qumran identifica i destinatari del Vangelo come giudeo-cristiani della prima ora e propone come data di redazione il 68/69 d.C., in quanto il Vangelo at-tribuisce a una donna, Marta, la prin-cipale confessione di fede (Gv 11,27), non menziona la necessità di più persone per autenticare una testimo-nianza, facendo andare solo Maria di

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Magdala al sepolcro, non accenna alla caduta del tempio durante l’episo-dio della sua purificazione. L’esegeta accenna un’ipotesi di riformulazione dell’ordine delle lettere di Giovanni, sia storicamente sia teologicamen-te secondo questa successione: 2Gv; 3Gv; 1Gv; Gv. Mentre nelle lettere i temi sono l’ospitalità e la fraterni-tà, nel Vangelo è sviluppato l’unico tema della Cristologia. La redazione di Giovanni sarebbe quindi indipen-dente dagli altri Vangeli.

Un’unica nota si sottolinea per la presentazione degli Atti degli apo-stoli, così come descritta dall’autore, legata alla teologia lucana, ovvero il tentativo di includere il più possibile posizioni diverse. Berger vede il libro degli Atti come un’opera di media-zione tra il giudaismo farisaico e la missione ai pagani; tra cristianesimo antiocheno e gerolosomitano; tra la missione Petrina e quella Paolina; tra l’azione dello Spirito Santo e la pia-nificazione umana (cf 538). Elenca, tra i motivi per unificare intorno a un unico autore il terzo Vangelo e gli Atti, il prologo, l’attenzione ai poveri e la sostanziale continuità organica tra Israele e la Chiesa. Circa la data di redazione è ipotizzato un periodo tra il 66-67, prima della morte di Pa-olo, perché non è descritta.

Il contenuto dell’opera in ana-lisi si presenta ricco, affascinante e stimolante per ulteriori approfondi-menti e consegna al lettore la possi-bilità di comprendere il nucleo es-senziale dei Vangeli e degli Atti degli

Apostoli. Tra gli aspetti innovativi del lavoro va evidenziato l’aver af-fiancato all’analisi mediante i criteri della critica-storica, quella condotta tenendo conto della prospettiva giu-daica, quale sfondo principale in cui si sono sviluppate le teologie dei di-versi scritti. Un ulteriore aspetto di novità è il tentativo ben riuscito di avvicinare all’analisi dei testi evan-gelici, scritti antico-testamentari, apocrifi dell’Antico e del Nuovo te-stamento e gli scritti dei padri, alla ricerca di conferme per l’interpreta-zione offerta. Tali approfondimen-ti consegnano al lettore intuizioni complementari a quelle di altri studi dello stesso genere.

Un aspetto critico dell’insieme è legato alle notizie introduttive ai sin-goli libri. In particolare si evince la scarsa argomentazione offerta a soste-gno delle ipotesi innovative quali la datazione dei testi anticipata di diver-si anni rispetto a quella generalmente condivisa e offerta da tanti studiosi. Ad esempio ritenere Marco redatto nel 45 d.C., solo per il clima di perse-cuzione che si respira nel testo e l’at-teggiamento accomodante rispetto ai romani, ci sembra fare un torto alla previsione della caduta del tempio (Mc 13), che necessita un contesto più prossimo all’evento stesso, per poterlo oggettivamente prevedere. Lo stesso vale per le altre ipotesi basate su dati facilmente criticabili, perché non supportati da corrispondenti ar-gomentazioni.

Bartolo Puca

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GIULIO CESAREO

Battesimo e vita morale L’ethos dell’uomo nuovo in Cristo Miscellanea Francescana, Roma 2014, pp. 286, € 16,00

Qual è il senso e il contenuto della vita che l’uomo riceve gratuita-

mente dall’incontro trasformante con Cristo? Come si articola il suo «cam-minare in novità di vita» (Rm 6,4)? È a questo interrogativo che l’A., docen-te di teologia morale presso il Seraphi-cum di Roma, cerca di rispondere con questo saggio in cui tratteggia «l’ethos dell’uomo nuovo in Cristo». Anziché ripercorrere il contenuto dei nove ca-pitoli in cui si organizza il (forse trop-po) ricco materiale raccolto, vorrei segnalare alcune intuizioni particolar-mente feconde per delineare il volto di un’etica – anzi di un ethos, come opportunamente sottolinea l’A. – che scaturisce dal battesimo.

Si tratta anzitutto di un ethos della persona o della libertà. La concezione antropologica di fondo è definita dalla polarità fra natura e persona: l’uomo possiede una natura, ma è una persona. Se la natura esprime il «che cosa», la persona fa riferimento al «chi». Quella dice universalità, datità, necessità; que-sta singolarità, relazionalità, libertà. Ordinariamente, in teologia morale, la persona si pensa come concetto «li-minale», per asserirne la dignità inalie-nabile e inviolabile; qui il concetto di persona è, potremmo dire, «massima-le»: persona è eccedenza sulla natura, è singolarità, apertura, vocazione. In

una parola, è libertà. Da qui l’idea che l’uomo è certo persona, ma soprattut-to è chiamato a realizzare il compito di diventare persona, in un processo di progressiva personalizzazione.

Tutto ciò ha fondamento in Dio: il concetto di persona, com’è noto, è pri-ma teologico che filosofico. Il fonda-mento delle riflessioni proposte dall’A. è Dio non solo perché egli tratteggia le linee essenziali di un ethos del cri-stiano, ma nel senso che il suo sfondo teoretico è quello della grande teolo-gia trinitaria. Appoggiandosi sulla te-ologia dei primi concili, propone un ethos trinitario, radicato nella «libertà amante» delle Tre persone divine. Un ethos in cui la persona emerge quale alterità nella comunione e comunione nella distinzione, libertà nell’amore, creatività ek-statica (34-35).

In terzo luogo si deve parlare di un ethos ecclesiale. La Chiesa è real-tà personale, «modalità di essere» che consente l’identità tropica (Zizioulas), «stile» rinnovato di esistenza, auten-tica «dimora» dell’uomo. La novità di vita del cristiano la si può cogliere nella contrapposizione di due moda-lità di esistenza: quella biologica, defi-nita dall’A. secondo gli slogan «si salvi chi può» oppure mors tua vita mea, e quella ecclesiale, definita dalla «libertà ipostatica di donare la vita e di ripren-

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derla di nuovo» (43). In altri termini si può affermare che la vita nuova non scaturisce dalla datità della natura, ma dalla eccedenza della persona che, di-morando in un nuovo stile di esisten-za, assume la natura quale strumento di libertà amante.

L’uomo, chiamato a diventare per-sona in Cristo, può anche fallire que-sta vocazione. Può cioè stravolgere, invertire il rapporto natura/persona, mettendo la persona a servizio del-la natura, riducendosi al «che cosa»: de-ipostatizzandosi. Il rifiuto di met-tersi in rapporto con l’altro (Dio, al-tri, se stessi) è l’aseitas, il peccato radi-cale (Florenskij). È un vero e proprio «dramma antidivino» (Balthasar), che si può comprendere solo a par-tire dall’amore di Dio che è arrivato fino in fondo (nella croce). Il pecca-to diventa così esperienza di morte, rottura delle relazioni con l’altro, au-tismo, malattia, schiavitù. Per questo l’ethos battesimale deve essere ethos di conversione: il peccato richiede lotta, purificazione, ascesi. L’A. si ispira alla «dottrina delle tre vie» (purgativa, il-luminativa, unitiva), a cui vengono associate le tre virtù teologali (rispet-tivamente fede, speranza, carità), in un itinerario teso ad acquisire una seconda natura, che è in realtà l’uni-ca natura umana, l’essere uomini in e alla maniera di Cristo: una natura,

cioè, trasparente, plasmabile dall’ipo-stasi amante.

Infine, ed è questo il tratto riassun-tivo, si può parlare di un ethos escato-logico. Nell’agire dell’uomo purificato e unito a Dio si dà già ora l’irruzione dell’ottavo giorno nel tempo dell’uo-mo. È la novità di Cristo, del suo co-mandamento nuovo (al tempo stesso per qualità e per definitività): novità ricevuta e continuamente da rinnovare, di inizio in inizio (Gregorio di Nissa).

Il testo qui presentato si inserisce in una ricca tradizione dogmatica e ecclesiale. Oltre agli autori occidenta-li (Bonaventura in primis), l’A. attinge in modo abbondante ai Padri greci e a filosofi e teologi ortodossi (Evdoki-mov, Yannaras, Bulgakov, Zizioulas, ecc.). La consonanza con la tradi-zione orientale è sottolineata anche dalla presentazione di un’etica che è essenzialmente ethos, concepito come dimora di libertà, esistenza ecclesiale, e non come codice normativo.

La lettura del saggio, superato l’o-stacolo di una certa dispersività del materiale presentato, si raccomanda per il respiro spirituale e l’attenzione pratica. Esso presenta un itinerario esigente perché l’uomo possa pro-gressivamente «personalizzarsi», fino a raggiungere la pienezza escatologica nella vita divina, libertà amante.

Stefano Zamboni

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FRANCESCO PAOLO CASAVOLA

Tornare alle radici Per la ricostruzione delle basi della democrazia Cittadella, Assisi 2014, pp. 106, € 11,80

Costruire una nuova patria giuri-dica dei cittadini europei fondata

sui valori cardine della democrazia e sul diritto. Il nuovo orizzonte della democrazia non può che essere globa-le perché «il cammino del mondo non è solo quello verso mercati globali ma anche verso società globali» (99). È la riflessione, di grande attualità anche alla luce degli attuali eventi migratori, del prof. Francesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Corte Co-stituzionale e massimo esponente del Comitato nazionale per la bioetica.

L’analisi, prettamente giuridica, si sviluppa fra temi di cultura laica e di cultura religiosa e ha come punto di partenza quei valori che costituiscono i pilastri di qualsiasi sistema democra-tico. Primo fra tutti la dignità dell’uo-mo che, un anno dopo la Dichiara-zione Universale dei diritti dell’uomo, trova il suo riconoscimento più forte, dal punto di vista giuridico, nel pri-mo articolo della Legge Fondamenta-le della Repubblica Federale Tedesca (“La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale ri-spettarla e proteggerla”) e, dal punto di vista religioso, nel magistero della Chiesa con la Pacem in terris. Tappe storiche importanti verso il riconosci-mento del «genere umano non come specie biologica ma come universo politico» (18). La dignità della perso-

na umana è anche uno dei temi cen-trali del Concilio, strettamente col-legato, evidenzia l’A., a quello della libertà religiosa «che più di ogni altra può portare la pace nel mondo, col dialogo fra tutti gli uomini che den-tro di sé si appartano per ascoltare la voce di Dio, quale che ne sia l’imma-gine ricevuta dalle diverse tradizioni e culture» (29).

I diritti rappresentano un patri-monio culturale che ha trovato un riconoscimento giuridico dopo un percorso storico segnato da momenti anche dolorosi della vita dei popoli, da difendere dalle insidie dei poteri che operano ormai in un alveo senza confini, che “governano risorse pla-netarie non perimetrabili da frontiere politiche”: i poteri della scienza, della tecnologia, dei media.

Le carte dei diritti umani hanno evi-denziato l’insufficienza del diritto dei singoli Stati a garantire i diritti dell’uo-mo e del cittadino. Quando quei dirit-ti vengono calpestati dalle leggi o dalle istituzioni l’istanza suprema diventa la comunità internazionale. L’evoluzione dei rapporti sociali propone nuove fi-gure di diritti che, scrive il presidente emerito della Consulta, «richiedono ri-conoscimento e costituzionalizzazione meno dai legislatori e più dall’interpre-tazione dei giudici» (97). Una nuova giurisdizione europea è l’orizzonte di

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riferimento. Un orizzonte nuovo ma con origini filosofiche antiche legate ai progetti di pace perpetua di ispirazione kantiana. In fondo, dopo la Seconda guerra mondiale, il processo di pace in Europa è stato avviato seguendo la strada indicata da Kant, quella del di-ritto, sulla quale non è possibile torna-re indietro.

L’Unione Europea è fondata sui trattati e su organi rappresentativi de-gli Stati membri ma anche sulla Carta dei diritti fondamentali. Il processo di integrazione dell’UE iniziato con la Comunità del Carbone e dell’Ac-ciaio è culminato nell’adozione della moneta unica. Parallelamente la giu-risprudenza della Corte di Giustizia, inizialmente costituita da materie riguardanti i rapporti commerciali internazionali, si è evoluta arricchen-dosi di controversie relative ai diritti fondamentali. Ciò dimostra che non basta il mercato per dare vita a una società europea «perché il mercato scambia ricchezza non valori sociali e perché lo spazio economico è glo-balizzato e non racchiudibile in un

orizzonte europeo» (93). Quindi una giurisdizione europea può costituire un passo importante verso l’adozione di una Costituzione europea e, nell’ “età dei diritti” (espressione che l’A. mutua da Bobbio), può rappresentare il fisiologico superamento del limite e dell’inadeguatezza delle Costituzioni nazionali di fronte al proliferare di nuove figure di diritti scaturite dall’e-voluzione dei rapporti sociali, soprat-tutto di quelli di più recente afferma-zione come il diritto all’ambiente, alla qualità della vita, alla pace.

La Carta dei diritti fondamentali rappresenta già un punto di riferi-mento e una sintesi di figure ricono-sciute dalle Costituzioni nazionali. «Può diventare il nucleo di una costi-tuzionale formale in progress se da essa si fa scaturire il soggetto in cui la cit-tadinanza europea trova la sua iden-tità giuridica» (98). Il popolo come insieme giuridico dei cittadini di ogni nazione che possano trovare garanzie dei propri diritti in una Patria giuridi-ca comune europea.

Annalisa Latartara

FERNANDO BELLELLI

Etica originaria e assoluto affettivo La coscienza e il superamento della modernità nella teologia filosofica di Antonio Rosmini Prefazione di P. Sequeri e Postfazione di N. Galantino Vita e Pensiero, Milano 2014, pp. 377, € 30,00

Il pensiero filosofico e teologico di Rosmini, che ha vissuto fasi alterne

nella tradizione culturale dell’Occi-dente – dal sospetto e dalla condanna da parte della Chiesa alla sottovaluta-zione da parte della cultura laica, fino

a una parziale (ma ancora limitata) riabilitazione a partire dalla seconda metà del secolo scorso – sembra aver trovato negli ultimi decenni una sta-gione di rinnovata attenzione. Si sono infatti moltiplicati, in questo periodo

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soprattutto in campo cattolico (for-se anche a seguito della sua beatifi-cazione) gli studi attorno ad alcuni aspetti della sua ricerca teoretica, la quale contiene (come viene sempre più emergendo) elementi di grande attualità.

Un significativo contributo a questo lavoro di analisi e di attualiz-zazione della proposta rosminiana è costituito dal presente robusto saggio di Fernando Bellelli, edito di recen-te nella prestigiosa collana “Ricerche filosofia” dell’editrice Vita e Pensiero di Milano, che propone una “nuova ermeneutica” della concezione filoso-fico-teologica del Roveretano, legata a quella che lo stesso Bellelli definisce come la “quarta fase” della ricerca. La questione di fondo, che è fatta oggetto di accurata indagine, è rappresentata dal rapporto tra filosofia e teologia o, più specificamente, tra l’apertura del-la coscienza alla trascendenza e l’ac-cesso alla rivelazione. L’obiettivo per-seguito dall’autore è quello di istituire un confronto tra la ricerca rosminiana e alcune istanze emergenti nell’attuale contesto postmoderno, fatte critica-mente proprie, sul versante filosofi-co in particolare da E. Lévinas, e su quello teologico da P. Sequeri e, più in generale, dalla Scuola della Facoltà teologica di Milano.

Il volume, che è suddiviso in due grandi parti, delinea nella prima la proposta antropologica di Rosmini nella sua originalità, mettendo in luce come l’elemento proprio dell’essere morale costituisca la “cifra” della sua riflessione sull’uomo. L’uomo è per lui il soggetto nel quale si attuano le tre forme dell’essere – essere reale, essere

ideale ed essere morale – tra le quali il primato va ascritto all’essere morale. Partendo da questo assunto, Bellelli si sofferma anzitutto sul rapporto tra essere-morale e coscienza, mettendo in evidenza la circolarità tra loro esi-stente. La coscienza è infatti quella componente antropologica attraverso la quale l’uomo, tramite la riflessione su di sé, perviene alla consapevolezza sulla moralità delle proprie azioni me-diante un giudizio speculativo relati-vo a un giudizio pratico.

Ma la coscienza, nella sua strut-tura originaria e nella messa in atto del giudizio, non è riconducibile uni-camente a un dato razionale e di vo-lontà; in essa un ruolo determinante esercita l’affezione, che fa soprattutto di essa l’ambito entro il quale l’uomo percepisce l’elemento religioso come momento unificante dell’essere mo-rale, e dunque come l’elemento che conferisce unità alla persona, apren-dola alla trascendenza e consentendo il darsi della rivelazione. Si istituisce così per Rosmini un nesso stretto tra rivelazione e coscienza morale; nesso che ha nell’ontologia dell’affezione il proprio fondamento assoluto. A ren-dere possibile questo nesso è il sen-timento fondamentale, che sta alla radice della stessa affezione e che fa della coscienza il luogo dove si verifica l’incontro tra la libertà della persona e il donarsi della grazia. Si realizza in questo modo in Rosmini una profon-da interazione tra filosofia e teologia; interazione che ha poi un ulteriore riscontro nel rapporto che il Rovere-tano evidenzia tra il sistema dell’essere uno e trino e il mistero trinitario in cui tale sistema confluisce.

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Non è difficile, secondo Bellelli, trovare una conferma di questa impo-stazione (e un suo ulteriore approfon-dimento) nella “teoria della coscienza credente”, che Sequeri pone alla base della propria teologia fondamentale. Reagendo alla deriva razionalistica della modernità, che ha prodotto l’e-strinsecismo della grazia da un lato, e l’immanentismo positivista dall’al-tro, il teologo milanese coglie infatti nella costituzione della coscienza, sia trascendentale che pratica, il legame fondamentale tra il logos e gli affetti, e dunque la struttura antropologica che dà ragione dell’affectus fidei come proprio della libertà finita e inten-zionale all’apprendimento del vero e del bene. La struttura salvifica della fede teologale è in tal modo colloca-ta dentro l’orizzonte epistemico del-la coscienza della verità – sta qui la convergenza più significativa con la dottrina rosminiana – determinando il superamento dell’estrinsecismo del-la fede e dando conto dell’esperienza del soggetto storico, che non può es-sere ridotto al soggetto trascendentale proprio della modernità.

Bellelli si inoltra successivamente – è questo il contenuto della seconda parte del volume – in un’analisi accu-rata del contributo che Rosmini può fornire alla cultura posmoderna, con-trassegnata dalla crisi della metafisica classica e della ragione illuminista e tentata, al tempo stesso, di incorrere nel fideismo fondamentalista o, in-versamente, nell’irrazionalismo nichi-lista. Essenziale diviene qui il ricorso alla svolta operata nei confronti della tradizione classica e moderna dalla fi-losofia di Lévinas, il quale, collocan-

do l’etica al di là dell’ontologia (anzi considerandola una nuova ontologia) mette in stretta connessione il deside-rio e il bene, attribuendo al desiderio un effettivo carattere metafisico e fon-dando l’esigenza etica sull’esperienza dell’alterità, che rinvia, come a fonda-mento, al riconoscimento di un’alteri-tà assoluta. Bellelli sottolinea la com-patibilità di questa concezione con la dottrina dell’essere morale di Rosmi-ni, che – come già si è visto – gode, a livello antropologico, del primato sul-le altre forme di essere. Ma egli mette soprattutto in evidenza – in questo andando oltre Lévinas – come, consi-derando la coscienza quale forma ori-ginaria dell’essere morale e rilevando come in esso converga l’affettività, si giunga alla convinzione che l’origina-rio affettivo è ontologico e l’ontologi-co è originariamente affettivo.

Il rimando, secondo Bellelli, è allora ancora una volta alla teologia fondamentale di Sequeri, il quale, partendo dalla constatazione che la modernità ha trascurato il soggetto concreto, insiste sull’importanza del desiderio e sulla necessità di ricupe-rare una fenomenologia dell’affectus e una metafisica della coscienza nella quale si dia la convergenza tra ratio e fides, facendo interagire l’affettivo e il simbolico con gli altri fattori costitu-tivi dell’umano. In questa prospettiva il sensibile diventa l’ambito da cui la teologia deve ripartire, rintracciando nell’estetica l’elemento di connessio-ne tra le discipline filosofiche e quelle teologiche. Verità razionale e verità salvifica sono infatti nel kerygma cri-stiano realtà che devono mutuamente integrarsi in una prospettiva unitaria.

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A creare le basi della possibilità di questa integrazione – è questo l’as-sunto di Bellelli – concorre in misura decisiva l’etica dell’incontrovertibile, che ha nella percezione dell’alterità – ritorna qui il pensiero di Lévinas – la propria specificità. La fede cristiana affonda in questo humus le proprie radici: il rapporto con Dio è infatti concepito in essa nella forma della charitas-agape, che è la realizzazione più alta della relazionalità. La rifles-sione di Rosmini è pienamente ricon-ducibile a questa visione: l’essere mo-rale, che è la componente ontologica dell’antropologia, rinvia, a livello filo-sofico, al pulchrum, che ha una chia-ra dimensione metafisica e religiosa e apre al trascendentale assoluto della charitas-agape, che definisce, a livello teologico, la natura del Dio-Trinità.

L’approccio ermeneutico di Bel-lelli alle opere di Rosmini – in par-ticolare al Trattato sulla coscienza, alla Teosofia e all’Antropologia sopranna-turale – ha dunque, in definitiva, lo scopo di interpretare l’intenzionalità del suo pensiero, traducendolo nel codice della postmodernità. Si rende così evidente l’originalità e l’attualità di una riflessione che, prendendo sul serio la soggettività nella sua ecceden-za rispetto a qualsiasi ordine oggettivo e, nel contempo, in quanto orienta-ta, grazie all’apertura della coscienza, alla trascendenza, sollecita il pensiero postmoderno a riacquisire la fidu-cia in una capacità razionale, che ha nell’essere morale e nella cifra dell’af-fezione una portata ontologica.

L’attenzione privilegiata alla co-scienza, e alla coscienza credente, e il passaggio attraverso Lévinas e la sua

provocazione aprono inoltre la strada alla ricerca teologica, specificamente a quella dell’odierna teologia fonda-mentale – come è testimoniato dal costante riferimento di Bellelli alla proposta di Sequeri – offrendo un ap-porto decisivo all’approfondimento delle strutture antropologiche della fede. Attraverso questa via viene al-lora, da un lato, fornita al pensiero teologico contemporaneo una base fondativa arricchente; e vengono pro-posti, dall’altro, stimoli fecondi alla riflessione culturale contemporanea. La novità di Rosmini rispetto al pro-prio tempo (e non solo) sta infatti nel superamento del modello teologico del duplex ordo e del razionalismo te-ologico mediante l’instaurarsi di una fusione di orizzonti tra filosofia e te-ologia, che consente il superamento tanto dell’estrinsecismo quanto di una totale identificazione.

L’essere morale come dato origi-nario e l’ontologia dell’affezione, che determina le condizioni fenomenolo-gico-trascendentali per pensare Dio, fanno sì che l’accesso alla rivelazione non venga concepito come estraneo alla realtà della coscienza, ma venga pienamente integrato in essa. L’espe-rienza della grazia sperimentata dalla coscienza è perfettamente sintoniz-zata con questo processo: l’originaria struttura affettiva di quest’ultima si apre, in modo connaturale, all’espe-rienza simbolico-sacramentale della charitas-agape, che è la trascrizione teologicamente più fedele dell’evento cristiano.

Il sistema aperto di Rosmini, ripen-sato alla luce dell’apporto della ricerca fenomenologico-personalista odierna,

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non può, in definitiva. che condurre all’elaborazione di una “teologia filo-sofica”, destinata a superare gli sche-mi della classicità senza incorrere nei rischi del soggettivismo e del relativi-smo. Si tratta, perciò, di un contributo innovativo che fa del filosofo e teologo roveretano un anticipatore della svolta antropologica del Vaticano II, la qua-le, superando l’apologetica allora do-minante, ha dato il via all’elaborazione di una forma di ragione teologica che offre un servizio all’intelligenza della fede nel pieno rispetto della dimensio-ne misterica che le è connaturale.

È merito di quest’opera di Bellel-li l’aver fornito una originale chiave interpretativa del contributo di un

pensatore di grande rigore quale è Ro-smini, la cui importanza è a tutt’oggi sottovalutata e che può, invece, costi-tuire – come già si è ricordato – un utile riferimento per lo sviluppo di un dialogo costruttivo tra cristianesimo e cultura odierna. Si sarebbe (forse) potuto auspicare un’esposizione più lineare e l’uso di un linguaggio meno criptico, nonché un periodare più snello. Ma sono appunti del tutto se-condari, che nulla tolgono al valore di un saggio, che costituisce un essenzia-le apporto non solo all’interpretazio-ne del pensiero di Rosmini, ma, più in generale, alla ricerca filosofico-teo-logica contemporanea.

Giannino Piana

M. COPPOLA – G. FERNICOLA – L. PAPPALARDO (EDD.)Dialogus Il dialogo filosofico fra le religioni nel pensiero tardo-antico, medievale e umanistico Città Nuova, Roma 2014, pp. 619, € 50,00

Come si evince dal titolo, il focus dell’opera è quello di verificare,

in un arco di tempo di circa mille-trecento anni, il ruolo della filosofia nell’esercizio del dialogo tra i grandi monoteismi della storia europea: il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam. All’origine della ricerca, vi è l’inten-to di accertare se, fin dall’epoca tar-do-antica, si possano scorgere delle tracce di una riflessione filosofica – e quindi basata sulla ragione – che ten-ti di individuare le principali verità condivise dalle tre grandi religioni. In altri termini: andando oltre alle

differenze di ciascuna confessione religiosa, nel corso dei secoli si è ri-usciti – attraverso la filosofia – a tro-vare un terreno comune, sul quale innestare una forma di confronto? Il volume raccoglie una serie di studi su quelle che sono ritenute le opere più significative del dialogo interreligio-so dall’età tardo-antica fino all’uma-nesimo. L’Introduzione, curata da G. D’Onofrio, esplicita lo scopo della raccolta ed il significato della cate-goria di “paradigma medievale”. Tale categoria, secondo D’Onofrio, serve ad indicare il riconoscimento di una

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duplice via di accesso alla verità: la via parziale e limitata è rappresentata dalla ragione (lumen rationis); quella piena e indefettibile è data dalla fede (lumen fidei). Questa visione, tenden-zialmente dicotomica, della realtà ca-ratterizzerebbe il pensiero medievale non solo cristiano ma anche ebraico e musulmano. Tale approccio, sempre secondo l’A., non impedisce ai grandi pensatori medievali, come ad esempio Tommaso d’Aquino, di valorizzare la ragione e la filosofia quali preziosi strumenti preparatori (preambula) per accogliere il dato rivelato. Inol-tre, sempre alla luce della lezione del Dottore Angelico, la ragione e la filo-sofia svolgono la funzione di verifica interna (aletologia) della congruenza delle verità teologiche e di smasche-ramento delle obiezioni degli avversa-ri, cogliendone gli errori di ragiona-mento. «La concezione medievale del rapporto tra ragione e rivelazione, tra scienza e fede», seppur caratterizzata dall’uso strumentale e ancillare della filosofia e della ragione, può essere assunta «come un osservatorio par-ticolarmente utile e stimolante per suggerire condizioni e metodo anche alla ricerca teologica attuale, inevi-tabilmente impegnata sul fronte del dibattito con le religioni» (53). All’In-troduzione fanno seguito ben diciotto contributi, che, attraversando la storia della cultura occidentale dal II sino al XVI secolo, studiano una ricca pano-ramica di autori: Giustino, Temistio, Pier Damiani, Gilberto Crispino, Ruperto di Deutz, Abelardo, Tomma-so d’Aquino, Pico della Mirandola, Bartolomeo de Las Casas, Seripando, solo per citarne alcuni.

Va riconosciuto innanzi tutto l’interesse della raccolta e il valore di numerosi contributi, che mettono a disposizione del lettore testi noti e meno noti e permettono di apprezza-re un percorso millenario di tentati-vi di incontro tra le grandi religioni, propiziato dal ricorso alla ragione. Ci permettiamo però alcuni rilievi, quasi per avviare un ipotetico “dialogo” con i curatori del volume. Il primo rilie-vo concerne la categoria di dialogus, che forse meritava una più distesa contestualizzazione. È vero che qua e là i singoli interventi, e soprattutto l’Introduzione, tentano di precisar-ne il significato ma avrebbe giovato un’inquadratura più puntuale e com-plessiva, magari in un saggio d’aper-tura. Il lasso di tempo preso in esame – da Giustino alla Riforma – non ha aiutato a individuare una categoria univoca di “dialogo”. Probabilmente, restringere il contributo a uno spa-zio di tempo più circoscritto (alto o basso medioevo) avrebbe facilitato il compito. Un po’ sorprende l’assenza di qualsiasi riferimento allo studio: C. Cardelle de Hartmann, Lateinische Dialoge 1200-1400. Literaturhisto-rische Studie und Repertorium, Lei-den-Boston 2007. La poderosa opera analizza, all’interno di un periodo più facilmente dominabile, le varie formae assunte dal genere letterario dialogus. A nostro avviso, l’approccio ermeneu-tico è quello da privilegiare ed aiuta a leggere con più equilibrio il linguag-gio “controversistico” di alcuni autori medievali. Ci riferiamo, in particola-re, al saggio di A. Galonnier, dall’e-loquente titolo: La duplice impostura del richiamo al dialogo filosofico nel

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‘Contra sectam sive haeresim Saraceno-rum’ di Pietro Venerabile (323-352). La ricerca di una forma di dialogo, basato su ragioni filosofiche, in Pietro Venerabile, è effettuata dall’A. senza alcuna “simpatia previa” e sembra ca-ratterizzata da aspettative tipiche del pensiero contemporaneo, che non possono essere rintracciate tout-court in un pensatore medievale. Ci sentia-mo invece in sintonia con altri autori della raccolta e in particolare con R. Mocerino, che nel suo saggio La lette-ra di Pio II a Maometto II (429-456) esordisce avvertendo della necessità di una contestualizzazione storica: «Date queste premesse, si pone un primo obiettivo alla lettura dell’epistola: quello di sottrarsi necessariamente ai pre-giudizi, nel senso proprio di svin-colarsi da una forma mentis che sottin-tende già specifici criteri e condizioni per il dialogo tra credi differenti e tra religione e laicità» (430). In secondo luogo, a nostro avviso, suscita qualche perplessità la stessa categoria di “para-digma medievale”, se non altro per il fatto che l’approccio alla verità attra-verso le due vie della ragione e della fede non pare esclusivo appannaggio del medioevo, ma anche di altre cor-renti di pensiero teologico, che sono giunte sino al XX secolo. Entrando più nel merito, viene da chiedersi se il tentativo di analizzare il contributo dei singoli autori, separando gli argo-menti di ragione (filosofici) da quelli di fede (teologici), sia il più adeguato.

In altri termini, ci chiediamo se la di-stinzione tra ratio e fides sia davvero di aiuto: se, da un lato, è innegabile che ci sia una distinzione formale tra le due forme di conoscenza, dall’altro è vero – come in più occasioni viene ribadito nel volume – che soprattut-to nell’epoca medievale la fides non è mai senza la ratio e la ratio non è mai pensata autonomamente, a prescinde-re dalla fides. Il contributo – citato ma forse non adeguatamente valorizzato – di M.L. Arduini (Ruperto di Deutz e la controversia tra Cristiani ed Ebrei nel secolo XII, con testo critico dell’“A-nulus seu dialogus inter Christianum et Iudeum”, a cura di R. Haacke, Roma 1979) si muove sullo stesso binario e presenta la stessa ambiguità. Forse varrebbe la pena di riconoscere che la distinzione, non solo formale, tra ragione e fede è un fenomeno tipico dell’epoca moderna e pertanto di-stinguere “argomenti di ragione” da “argomenti di fede” non corrisponde del tutto al sentire dei pensatori me-dievali. Da questo punto di vista, ci sembra emblematica la prospettiva di Abelardo, il più “filosofo” tra i teologi, ricordata nel volume da M. Coppola: «A sotterraneo governo del Dialogus opera un ideale di contiguità tra filo-sofia e cristianesimo, imperniato sulla unicità del lògos e del vero. […] La ra-zionalità intera si è manifestata soltan-to in e tramite Cristo […]» (La «ratio» nelle ‘Collationes’ di Abelardo, 251).

Alessio Magoga

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ARISTIDE FUMAGALLI

Il tesoro e la creta La sfida sul matrimonio dei cristiani Queriniana, Brescia 2014, pp. 169, € 12,00

Uno sguardo realista e appassio-nato sulla realtà matrimoniale

del nostro tempo, la scelta tematica del Sinodo degli anni 2014 e 2015, il dibattito voluto e promosso da papa Francesco nella Chiesa sulle questio-ni legate alla coniugalità hanno col-locato il tema della famiglia al centro dell’interesse della comunità creden-te. Anche se spesso la divulgazione ha colto ben poco della posta in gioco, talvolta strumentalizzando le posizio-ni degli uni contro quelle degli altri e rileggendo tutto in categorie di potere e di influenza, la discussione sul ma-trimonio e sulla famiglia è nata e si è sviluppata all’interno di coordinate teologiche e pastorali molto precise. Non a caso, tra gli interpreti più ri-levanti di questo scambio vi sono W. Kasper e J. Ratzinger, sulla cui autore-volezza teologica nessuno avanzereb-be dubbi. In questo senso, il volume di Fumagalli è un testo prezioso per leggere, alla luce di una fede incarna-ta nella storia, i fenomeni culturali e religiosi che stanno attraversando la nostra società e che interpellano i cri-stiani in modo profondo, forse addi-rittura inedito rispetto al passato.

Fumagalli struttura il suo saggio a partire da una consapevolezza di fon-do: la Chiesa, ogni volta che è emersa una questione etica, ha sempre cercato una via al di là del rigorismo e del las-

sismo, in forza dell’autorità di legare e sciogliere conferita dal Signore. Tale atteggiamento è propriamente ciò che è richiesto per leggere la situazio-ne che si presenta ai cristiani di oggi: «Lungi dal fissarsi in un rigore dottri-nale che esclude a priori ogni nuovo adattamento pastorale, come pure dal cedere a un lassismo pastorale che di-mentichi la dottrina tradizionale, la chiesa è oggi nuovamente sfidata a intraprendere la via che, nella conti-nuità della tradizione, sappia incedere pastoralmente a partire dal punto in cui lo Spirito l’ha recentemente con-dotta nella comprensione dottrinale della verità dell’amore matrimonia-le, e di lì determinare la conferma o l’eventuale modifica della disciplina pastorale» (36-37). È questo, in defi-nitiva, il motivo ultimo che spinge i credenti di ogni generazione ad accet-tare come sfide (come sottolinea il ti-tolo del libro) quelle che sono trasfor-mazioni epocali nella comprensione di alcuni dati, anche secolari, della tradizione e della prassi della Chiesa. Interrogarsi sulla disciplina cristiana, ed eventualmente ripensarla, non è quindi una resa alla cultura del tem-po, o addirittura il tradimento di un deposito intangibile, ma, al contrario, una necessità intrinseca della stessa parádosis della fede.

Il volume si struttura in tre parti.

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Nella prima (Inquadratura), l’A. col-loca gli interrogativi relativi al ma-trimonio nell’alveo di una rinnovata attenzione pastorale, al di fuori del quale essi perderebbero gran parte del loro significato. Accanto a un’analisi teologico-fondamentale sul dinami-smo della tradizione, l’A. si sofferma esplicitamente su alcuni testi del Va-ticano II come imprescindibile busso-la per il nostro tempo, e rilegge, alla luce del dettato conciliare, anche la riflessione del magistero successivo, in modo particolare quello di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Bene-detto XVI. Colpisce, ed è certamente merito di Fumagalli che li ha riportati alla luce, la lucidità dei numerosi in-terventi del papa emerito, tra i primi autori a prendere atto con intelligenza ecclesiale che andava posta una “que-stione matrimoniale” con cui inter-rogare la riflessione eminentemente teologica. In particolare, un passaggio di questa sezione è imprescindibile per qualsivoglia giudizio di merito si possa avere sull’argomento: «L’attuale crisi dei matrimoni sacramentali non ha peraltro nella loro instabilità, cer-to maggiore che in passato, il criterio di giudizio, per lo meno il criterio di giudizio cristiano. Quest’ultimo non dipende dal solo fatto che i due co-niugi permangano insieme, ma si fonda sulla qualità cristiana della loro relazione, ovvero sul loro amarsi così come Cristo, per mezzo del sacramen-to, consente ed esige che essi si ami-no. L’odierna instabilità, come pure la precedente stabilità dei matrimoni, sono un indice sociologico che descri-ve un fenomeno, ma ancora non ne spiega la causa. Da che cosa dipende-

va la maggiore stabilità dei matrimoni del passato? Da una maggior corri-spondenza delle coppie alla grazia del sacramento? Se così fosse stato, il raf-fronto tra la qualità delle relazioni tra marito e moglie e tra genitori e figli vissute in passato e al presente dovreb-be mostrare il più alto grado di amore cristiano dei matrimoni di un tempo. […] Si può, tuttavia, negare che nei matrimoni del passato il rapporto tra i coniugi sia stato spesso vissuto con l’uno – il marito – in posizione di do-minio sull’altro – la donna?» (18-19).

Nella seconda sezione (Messa a fuoco), il teologo milanese richiama la comprensione cristiana del matrimo-nio, offrendo una rilettura del dato biblico vetero e neotestamentario e mostrando come la Chiesa abbia au-tenticamente interpretato nei secoli la verità e la dignità di una peculiare vocazione battesimale.

Nel terzo momento (Prospettive), il più ampio e complesso, l’A. prende in considerazione svariati temi lega-ti al sacramento del matrimonio nel tentativo di problematizzare lo status quaestionis della disciplina cattolica e, nello stesso tempo, suggerendo alcuni sentieri di superamento. Si tratta di una sezione particolarmente feconda sia perché si offre una lettura acces-sibile anche ai non addetti ai lavori delle complesse questioni che l’A. solleva, sia perché Fumagalli riesce in poche pagine a non sottrarsi ad alcuna domanda spinosa: il rapporto tra fede battesimale e matrimonio sa-cramentale; la validità e la nullità del matrimonio; la cura dei matrimoni feriti; l’indissolubilità e l’eventuale fallimento del matrimonio; l’esclusio-

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ne di nuove nozze sacramentali; l’am-missione ai sacramenti e il riconosci-mento ecclesiale delle nuove unioni. La questione chiave che si presenta alla Chiesa di oggi è il ripensamento del rapporto tra la fede personale dei nubendi e il matrimonio sacramenta-le: «Lo scarto tra la dottrina conciliare della chiesa circa il sacramento del matrimonio e la diffusa crisi dei matrimoni cristiani sollecita a fuoriu-scire da una comprensione acritica del principio canonico secondo il quale “tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale che non sia per ciò stesso sacramento” (CIC, can 1055 § 2)» (87).

Il volume di Fumagalli, lungi dall’imporre risposte definitive ed af-frettate, è piuttosto un equilibrato in-vito alla riflessione che riesce a coniu-gare con efficacia il rigore dell’analisi teologica con la passione della prossi-mità alle situazioni di fragilità e di fati-ca relazionale. Il risultato è uno studio agile, irrinunciabile per chi opera nella formazione dei fidanzati o nei consul-tori familiari, ma anche per tutti co-loro che vogliano mettere a fuoco con strumenti adeguati il quadro di com-prensione della famiglia nel panorama odierno senza cedere a facili nostalgie o a scorciatoie non veritiere.

Enrico Brancozzi