Crescere con il cancro -...

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Prefazione all’edizione italiana (di Paolo Cornaglia Ferraris) 7 Introduzione 11 Capitolo primo Una visione d’insieme 15 Capitolo secondo Adolescenza e cancro 59 Capitolo terzo Situazioni difficili 107 Capitolo quarto Il sostegno ai familiari 179 Capitolo quinto L’ambiente terapeutico 209 Capitolo sesto Linee guida per il futuro 257 Bibliografia 263 Indice

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Prefazione all’edizione italiana (di Paolo Cornaglia Ferraris) 7

Introduzione 11

Capitolo primo Una visione d’insieme 15

Capitolo secondo Adolescenza e cancro 59

Capitolo terzo Situazioni difficili 107

Capitolo quarto Il sostegno ai familiari 179

Capitolo quinto L’ambiente terapeutico 209

Capitolo sesto Linee guida per il futuro 257

Bibliografia 263

Indice

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Il terzo volume della collana Il Sole a Mezzanotte è dedicato ancora al bambino e all’adolescente obbligati dalla propria malattia a «crescere col cancro». Un pesante fardello, fatto di ricoveri, viaggi, irregolarità del corso di studi, dolori e ansie, che contrastano con la felicità tipica di quell’età. Una felicità negata anche dall’organizza-zione dei Servizi, che vive un’epoca nella quale i progressi scientifici della medicina rischiano di ridurre a una pratica sequenza di atti tecnici la relazione di cura. Eppure un bambino felice, accompa-gnato da genitori meno stressati, ha maggiori possibilità di guarire, non solo grazie ai processi biochimici cerebrali, che investono il funzionamento del sistema endocrino e di quello immunitario, ma semplicemente perché lo stato generale di nutrizione e risposta ai farmaci è migliore. Basta farne esperienza diretta per convincersene, ma l’esperienza è antica, visto che perfino l’antico medico Galeno aveva indicato come le persone intristite dalla malattia ne venis-sero sopraffatte più rapidamente di coloro che reagivano in modo positivo. C’è spazio dunque per una terapia della felicità? Forse non ancora nel cervello degli accademici dell’oncologia pediatrica ita-liana, ma tentativi in tal senso sono partiti e non faremo a meno di indicarne l’esistenza, accogliendo in questa collana le testimonianze dei risultati migliori. Per capire quanto ci sia bisogno di sviluppare un tale approccio, dopo il contributo di Angela Guarino sulla psi-concologia pediatrica, vediamo ora, insieme a Daniel Oppenheim, cosa significhi crescere con il cancro.

Questo libro testimonia l’importanza di prendere in attenta considerazione l’etica della risposta ai bisogni assistenziali, dando la parola ai pazienti. Il contributo, che vi proponiamo nella parte-cipata e attenta traduzione di Nicoletta Sciarrone, descrive infatti

Prefazione all’edizione italiana

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l’esperienza vissuta da un bambino o un adolescente che subisce un trattamento chemioterapico, radioterapico o chirurgico, con lo scopo di guarire da una neoplasia. Vengono descritti i modi con cui si può aiutarlo, insieme alla sua famiglia, ad attraversare il difficile percorso di vita. Questo testo identifica e aiuta a valutare e utilizzare risposte a domande nate dalla sofferenza. Lo fa poggiandosi sulla lunghissima esperienza clinica di Daniel Oppenheim, uno psico-terapeuta fortemente interessato al concetto di «presa in carico globale» in oncologia. La sua lucida analisi di quanto accade nella clinica di tutti i giorni e la creatività con la quale riesce ad affrontare situazioni oggettivamente molto difficili fanno capire come il divenire del processo di cura con l’alternarsi di speranze, ansie, fallimenti, illusioni, rassegnazione, sia un processo che coinvolge i sanitari, obbligati a erigere scudi di difesa, fatti perfino di cinismo. Un cinismo apparente, forse, ma doloroso per chi ne subisca gli effetti.

La prima parte del testo sviluppa le specificità del bambino colpito da neoplasia. La seconda tratta delle situazioni difficili: angoscia, dolore, opposizione al trattamento, previsione di morte, tentazioni di eutanasia, terapie d’avanguardia che svelano, con la genetica del tumore, i vissuti familiari e i sensi di colpa. La terza parte del testo descrive le modalità di sostegno ai familiari (gruppi di mutuo aiuto di genitori e fratelli). La quarta analizza l’ambiente di cura, con il rispetto della scolarità, del gioco e della creatività artistica, col divertimento dei clown, la fatica e l’usura di chi lavora per erogare la miglior assistenza possibile.

Sono tutti temi sui quali la Scuola del Sole a Mezzanotte la-vora da anni, proponendo processi formativi di tipo esperienziale, gli unici capaci di modificare i comportamenti degli operatori e dei volontari coinvolti, ma anche utile a superare e prevenire il burnout professionale.

Il libro non sarà utile soltanto a professionisti quali psichiatri, psicologi, psicanalisti, ma interesserà moltissimo genitori e fami-liari di bambini e adolescenti passati attraverso questa difficile esperienza. Interessa anche il personale medico, infermieristico e gli educatori coinvolti nei centri regionali e nazionali dedicati alla emato-oncologia pediatrica e, con loro, gli studenti e gli specializ-zandi che cominciano ad affrontare la durezza di un ambiente nel quale è oggettivamente difficile lavorare. Né vale rifugiarsi nelle larghe braccia della ricerca scientifica su terapia genica e cellule staminali, futuribili, certo, ma incapaci di consolare. Nonostante i

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progressi della medicina scientifica abbiano contribuito ampiamen-te a speranze e gratificazioni, è sempre più chiaro che il prezzo da pagare subito e a distanza è notevole. Chiaro che i tempi necessari a superare gli ostacoli, obbedendo a strategie aggressive, sono lunghi. Evidente che impongono sacrifici, lunghi ricoveri, dolori ulteriori. La ricerca non sarà capace, in altre parole, di vincere ogni frustrazione e contenere le troppe emozioni negate o condivise.

Crescere con il cancro è titolo duro perché disperato è il si-gnificato di una parola che porta con sé il senso di morte. E invece chi leggerà questo libro si renderà conto di quanta speranza esista nel percorso di chi cresce col cancro, persone obbligate dal dolore a diventare adulte più rapidamente dei propri coetanei. Per capire quanta speranza esista in chi, come Daniel Oppenheim, insegna a rapportarsi utilizzando la tecnica e la scienza, senza permettere che entrambe sopraffacciano la capacità di comprendere, sorprendere, ridere, giocare, vivere comunque, sino alla guarigione o sino alla fine, se questo fosse il destino.

Paolo Cornaglia Ferraris

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Questo libro descrive e analizza alcuni aspetti fondamentali dell’esperienza che i bambini e gli adolescenti in cura per cancro vivono. Si tratta di malattie rare e la maggior parte di esse sono curabili, con i mezzi che la medicina moderna mette a disposizione delle équipe mediche. Non per questo tali malattie costituiscono per il bambino una prova meno sconvolgente non solo per lui stesso, ma anche per i suoi genitori, per i fratelli e le sorelle. L’esperienza di questi bambini ci permette di capire meglio le domande che tutti i bambini, ma anche tutti gli adulti, colpiti da una malattia grave si pongono; permette anche di capire meglio in che modo possono attraversare questo periodo della loro vita nelle migliori condizioni possibili, senza essere traumatizzati, rimanendo se stessi, senza portarsi dentro complicazioni e problematiche psicologiche che sa-ranno di ostacolo al loro sviluppo e alla loro dinamica esistenziale. I bambini restano, malgrado tutto, dei bambini ed ecco perché questa esperienza intensa contribuisce a una migliore comprensione delle altre difficoltà alle quali può andare incontro ogni bambino, ogni adolescente, ogni famiglia.

Questo libro riprende e offre una panoramica di studi e rifles-sioni elaborati da quindici anni di pratica come psichiatra e psicana-lista in seno al Dipartimento di Oncologia pediatrica dell’ospedale Gustave Roussy, nel quartiere di Villejuif (Parigi). Questo volume segue altri tre libri, ciascuno dei quali affrontava un tema unico nel vasto panorama dei temi che costituiscono l’esperienza della ma-lattia oncologica. Ne jette pas mes dessin à la poubelle, pubblicato nel 1999, descriveva con dovizia di dettagli — nella continuità dei colloqui di psicoterapia tenuti in tre anni — i pensieri, le emozioni e lo sguardo sulla situazione di un bambino in cura per tumore ce-

Introduzione

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rebrale e l’utilizzo che faceva dei disegni per farsi capire. Dialogue avec les enfants sur la vie et la mort, pubblicato in Francia nel 2000 e tradotto in italiano da Erickson nel 2004 con il titolo Dialoghi con i bambini sulla morte, mostrava in che modo discutere della morte con i bambini e con gli adolescenti. Parents en deuil, pubblicato nel 2002, descriveva e commentava un «gruppo di parola» di genitori in lutto. Questo libro, che è la continuazione di L’enfant et le cancer, la traversée d’un exil, pubblicato nel 1996, affronta numerosi temi importanti che, in quel momento, non erano ancora così attuali.

Il libro è suddiviso in sei capitoli. Il primo presenta una visione d’insieme dell’esperienza vissuta da questi bambini, dalle loro fa-miglie, da chi presta loro le cure e analizza il modo in cui i bambini utilizzano il disegno per fare capire all’esterno ciò che vivono. Il secondo affronta le domande specifiche sul cancro nell’adolescenza, in particolare il dubbio, il sentimento della bellezza e le difficoltà degli operatori che si confrontano con gli adolescenti. Il terzo ca-pitolo prende in esame le questioni cruciali della medicina attuale: l’angoscia e il dolore dei pazienti, il rifiuto delle terapie, il confronto con la morte, la tentazione dell’eutanasia, i trattamenti estenuanti e dolorosi, i tumori maligni di origine genetica. Il quarto analizza la situazione difficile e complessa delle famiglie, dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, in particolar modo quando il bambino muore, e l’aiuto che può essere loro offerto. Il quinto capitolo descrive gli elementi più importanti dell’ambiente terapeutico del bambino malato, come la scuola, la creazione artistica, i clown, indissociabili dalle cure mediche e infermieristiche. Il capitolo comprende anche una descrizione dei rischi di usura che corrono gli operatori, le cause dello stress e i mezzi per prevenirlo. Infine, il sesto capitolo traccia le prospettive di lavoro dei prossimi anni, in relazione allo sviluppo dell’oncologia e alle aspettative della società. La questione dei bambini in terapia per un tumore cerebrale non è stata inclusa in questo libro ma la tematica sarà oggetto di una mia prossima pubblicazione.

Il contesto del mio lavoro

Il Dipartimento di Oncologia pediatrica dell’Institut Gustave Roussy, che è il più grande centro di oncologia in Europa, è stato fondato cinquant’anni fa dal dott. Odile Schweisguth. La struttura

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accoglie ogni anno 300 nuovi bambini, ammalati di cancro. Accanto all’équipe sanitaria, della quale fanno parte uno psichiatra-psica-nalista a tempo pieno e da poco anche uno psicologo, interven-gono anche tre insegnanti della scuola primaria, un professore di educazione artistica, alcuni insegnanti della scuola secondaria (di I e II grado), una educatrice d’infanzia, dei clown professionisti, un’assistente sociale e dei volontari. I genitori e i fratelli e le sorelle hanno libero accesso al servizio; la Maison des Parents (Residenza per i Genitori) permette di alloggiare chi abita troppo lontano. I bambini ricoverati hanno un’età che va da qualche settimana di vita ai 18 anni, addirittura vengono accolti anche i più grandi, quando si tratta di ex pazienti in recidiva. I 2/3 guariscono. Vengono preva-lentemente dalla regione intorno a Parigi, ma anche da altre regioni della Francia, dalle Antille e Réunion, dagli altri Paesi europei e dai Paesi del Maghreb.

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L’esperienza del cancro vissuta dal bambino, dai genitori e dal personale sanitario

Al di là della prognosi e del trattamento e nonostante i grandi progressi medici realizzati negli ultimi anni, il cancro in un bambino rimane una prova che sconvolge tutti i suoi punti di riferimento: il rapporto con il suo corpo, con la sua famiglia, con la società e con il posto che il bambino occupa in essa, il modo in cui percepisce la sua identità, il suo valore e la fiducia in se stesso (Oppenheim, 1996).

Questa esperienza lo rende, inevitabilmente, consapevole della possibilità di morire, lo pone innanzi alla riflessione sul senso e sul valore della sua vita e, più in generale, sul posto che la malattia occupa nella sua esistenza («Perché proprio a me, alla mia famiglia? Di chi è la responsabilità?»). La sfida del trattamento consiste nel guarire il bambino nelle migliori condizioni possibili, nell’aiutarlo ad attraversare questo periodo della sua vita preservando la sua dinamica esistenziale, cioè rimanendo se stesso, facendo sì che non rimanga indietro nel percorso di formazione scolastica e non perda i rapporti con gli altri. Inoltre, è fondamentale che il bambino mantenga viva la fiducia in se stesso e negli altri, innanzitutto nelle persone di famiglia.

La prevenzione e la gestione dei fattori destabilizzanti

Nell’individuare, capire, prevenire e trattare i sintomi precoci della destabilizzazione del bambino e della famiglia — lo smarri-mento, la difficoltà di adattamento, l’angoscia, la depressione (Noll, 1999; Worchel, 1998), la ribellione e l’opposizione al trattamento

CAPITOLO PRIMO

Una visione d’insieme

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(Alvin, 1995; Bearison, 1994; Spinetta, 2002) — l’équipe medica si occupa non solo della loro condizione presente, ma anche del loro divenire. Le sequele psicologiche o esistenziali appaiono precoce-mente o in momenti significativi della vita (adolescenza, fine degli studi, ingresso nella vita professionale, primi rapporti sessuali, nascita di un bambino, situazione in cui il bambino raggiunge l’età che uno dei due genitori aveva quando ha iniziato la terapia), e tal-volta si presentano nella generazione successiva (relazione difficile con i propri figli). Alcuni bambini sono fieri di aver attraversato positivamente questa prova e di aver scoperto in se stessi o nei loro genitori qualità insospettate; altri, invece, si vergognano di essere rimasti passivi rispetto alla malattia e può permanere in essi un sentimento di fragilità, di ingiustizia, di fallimento, di amarezza o di rabbia verso gli altri.

A partire dai 3-4 anni il bambino è in grado di capire ciò che gli succede (Eiser, 1992), percepisce la preoccupazione dei genitori, sente la loro fiducia sia nell’équipe medica che nel risultato del trat-tamento, avverte la solidarietà da parte dei genitori nei confronti dei medici — malgrado le cure fastidiose o dolorose — coglie l’evoluzione (talvolta negativa) della sua malattia. Ora, se mancano informazioni sufficienti per ritrovare se stesso, per orientarsi, se non può esprimere il suo punto di vista, può accadere che si ripieghi su se stesso, che assuma un atteggiamento passivo e che, in qualche modo, smetta di scommettere sul trattamento o lo rifiuti del tutto.

La modalità di svolgimento dei trattamenti

La prima consulenza è di particolare importanza ed è necessario che sia sufficientemente lunga; permette, infatti, di fare la diagnosi e di proporre il trattamento, introduce il bambino e i suoi genitori nella realtà dell’oncologia pediatrica e incomincia a tessere un’alleanza terapeutica con i genitori del bambino. I genitori, non di rado, hanno le loro personali teorie sull’origine delle malattie e sui mezzi per uscirne. È auspicabile che chi presta le cure conosca e comprenda sia il senso che la funzione dei trattamenti: il bambino e i suoi genitori si sentiranno così rispettati, considerati interlocutori responsabili e, oltretutto, la relazione tra loro e il personale sanitario rischierà meno di essere ostacolata da sentimenti di sfiducia, dall’incomprensione e dai conflitti. Se è vero che la diagnosi, il trattamento e il personale sono fonte di preoccupazione, essi sono tutti, comunque, elementi

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rassicuranti: il medico si rivolge ai genitori e al bambino, insieme e separatamente; ciò che i genitori devono ascoltare e devono dire può, infatti, essere diverso, ma è loro necessaria una base comune di informazione.

I genitori sono sotto choc, spesso incapaci di ascoltare, di capire (Eden, 1994), di ricordare: in questi casi è necessario riprendere l’argomento in un secondo momento. Generalmente essi tendono a leggere la situazione attraverso ciò che conoscono della realtà del cancro nell’adulto. È importante evitare sia gli eccessi di ottimismo che gli eccessi di pessimismo, le spiegazioni troppo rassicuranti o le spiegazioni che alimentano preoccupazione; è fondamentale spie-gare la logica e lo svolgimento dei trattamenti, senza fare promesse di guarigione o di durata. I malintesi che possono nascere da una spiegazione troppo sbrigativa, troppo tecnica o da dettagli eccessivi forniti a discapito di punti di riferimento di maggiore rilevanza — o, ancora, il riportare alla memoria le malattie più vecchie nella storia della famiglia che fanno quasi da schermo alla reale situazione del bambino — spiegano alcune reazioni paradossali (Koch, 1996) e possono a posteriori essere causa di conflitti, in modo particolare quando il trattamento fallisce.

Gli interrogativi dei genitori e dei bambini mostrano la loro com-prensione, le loro preoccupazioni, i loro punti di fragilità, il senso che essi provano a dare al cancro. I loro modi di pensare possono essere molto diversi rispetto a quelli dei medici, ma non necessariamente in conflitto con essi; occorre conoscerli, capirne la logica e la funzione, correggere i loro errori che rischiano di farli entrare in conflitto con le decisioni terapeutiche: solo così si riesce a stabilire una fiducia reci-proca e il bambino non è diviso tra genitori, da una parte, e chi presta le cure, dall’altra. Il racconto che i genitori e il bambino fanno della vicenda, dai primi sintomi percepiti, aiuta a comprendere il loro modo di pensare e di agire, l’incessante ricerca di una causa della malattia, il rapporto con gli operatori che stanno più a contatto con il bambino. La situazione materiale, finanziaria e sociale dei genitori, l’idea che essi hanno della responsabilità, la struttura e la dinamica familiare hanno conseguenze sulle capacità di sostenere il bambino senza essere destabilizzati. È importante che genitori e bambini possano dire se pensano di poter reggere la situazione, per quanto tempo, e possano esprimere liberamente che cosa per loro sarebbe insopportabile.

La caposala presenta il reparto in tutte le sue parti: personale medico e infermieristico, responsabili delle strutture ricettive per i

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familiari e l’ambiente in cui si svolge la terapia. Il medico di riferi-mento rimane l’interlocutore privilegiato, ma non è l’unico poiché questo ramo difficile della medicina è un vero lavoro di squadra e il reparto tesse legami con tutto l’ospedale e con una rete di supporti ospedalieri vicini, alla quale ci si può appoggiare se necessario.

Il ruolo del tempo

Una malattia oncologica si svolge nel tempo, in modo rara-mente lineare, perciò è importante conoscerne le tappe principali. Dopo la consulenza che permette la diagnosi, l’avvio del trattamento è un periodo di scoperta progressiva dell’oncologia pediatrica: dal servizio, gli operatori sanitari e non — nel loro modo di parlare, di agire, nei modi di pensare —, agli altri bambini, alcuni dei quali in fin di vita. Emerge la discordanza tra ciò che essi avevano imma-ginato o sentito e la realtà, la morte possibile; genitori e bambini prendono progressivamente coscienza delle implicazioni della malattia e del trattamento. Non è solo una questione di vita o di morte, ma anche di durata, di vincoli sulla vita della coppia, di vita della famiglia. La malattia coinvolge il lavoro, la scuola, il tempo libero, i progetti, le relazioni. Tutti gli interrogativi, anche quelli più remoti, riguardanti la loro storia, le loro scelte di vita, il senso della loro vita, possono allora riapparire bruscamente. Genitori e bambini scoprono le loro qualità e le loro debolezze; accade che imparino nuovamente a conoscersi.

I momenti di destabilizzazione sono legittimi, non necessaria-mente drammatici, a patto che vengano riconosciuti per tempo, che siano comprese le ragioni (sfinimento dei genitori o del bambino, intervento chirurgico, dubbio sull’efficacia del trattamento). Questi momenti non riducono le possibilità di guarigione, contrariamente a quanto credono alcuni ma, come campanelli d’allarme, sono occa-sione per riconfigurare l’alleanza terapeutica e trovare un secondo slancio. Per esempio, il bambino può riporre speranze eccessive nell’intervento per accettarlo meglio, ma dopo sopporta male la chemioterapia. I disegni del bambino o il suo comportamento aiu-tano a cogliere i momenti di destabilizzazione, mostrano l’immagine che egli ha di se stesso e l’immagine che i suoi genitori hanno di lui. La chemioterapia somministrata in dosi sovramassimali in camera sterile, soprattutto se non è stata prevista e annunciata dall’inizio, costituisce una fase difficile, per via dell’isolamento, della durata,

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dell’intensità degli effetti collaterali e della preoccupazione del ri-sultato. Quando è necessario ridefinire il trattamento per via della sua inefficacia, il bambino percepisce bene lo stato di smarrimento dei genitori, il cambio di orientamento e si chiede quale sia il senso e la gravità di tutto ciò.

La fine del trattamento è un momento estremamente delicato, atteso con impazienza e allo stesso tempo con preoccupazione perché la protezione medica finisce e i genitori temono la recidiva. Fare il punto con il bambino e con i genitori di ciò che hanno vissuto dal-l’inizio è utile per chiudere bene questa fase e impegnarsi bene nel post-trattamento. I genitori riferiscono quali sono stati i momenti particolarmente difficili, se il trattamento ha corrisposto a ciò che essi avevano immaginato, come prevedono il futuro, i loro punti di forza e di debolezza, speranze e paure, esprimono critiche, pongono domande alle quali non avevano pensato o che non avevano osato porre in precedenza. Il loro apprezzamento nei confronti della te-rapia non è necessariamente quello del medico, e l’apprezzamento del bambino non è necessariamente quello dei genitori. Ampliare la prospettiva individuale sullo svolgimento del trattamento aiuta a superare la visione parziale, frammentata, che essi potrebbero aver avuto, evita i malintesi e le angosce e le loro conseguenze negative. I genitori si aspettano informazioni equilibrate, senza eccessi di ottimismo né di preoccupazioni. Il bambino e i suoi genitori devo-no riadattarsi alla vita quotidiana: i problemi tralasciati durante il trattamento riappaiono bruscamente, e potrebbe venire fuori la differenza tra il bambino e gli altri. Il bambino può temere i contatti con gli altri, non sa come rispondere alle inevitabili domande che essi gli faranno. I genitori si chiedono in che cosa l’esperienza della malattia li ha trasformati: è stata solamente una perdita che ora li svaluta, ora li rende fragili, che li induce a una vita troppo limitata o, al contrario, un’esperienza positiva che ha dato loro una nuova maturità e che ha fatto emergere qualità preziose?

Il post-trattamento e il divenire dei bambini e degli adolescenti in terapia

La fine del trattamento non coincide con la fine dell’esperienza che il bambino attraversa: il bambino continua, di fatto, a essere seguito per diversi anni dai pediatri oncologi, attenti a una recidiva nonché alle possibili conseguenze fisiche o cognitive. È un periodo

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di riadattamento progressivo alla vita «normale»; il bambino e i genitori possono anche prendere coscienza delle eventuali compli-cazioni fisiche, intellettuali e psicologiche.

Tuttavia, gli effetti sulla psiche non spariscono così facilmente, sia quelli positivi che quelli negativi: non sono necessariamente in rapporto automatico con la pesantezza del trattamento, con la sua durata, con la gravità della prognosi, con i rischi che rimangono e con l’importanza o la presenza di sequele fisiche. Di sicuro è impor-tante tener conto di questa realtà, ma senza sottomettersi ad essa in modo meccanico.

Tipologie di evoluzione psichica

In che modo il bambino utilizzi l’esperienza che ha vissuto dipende dal modo in cui si è svolta. La competenza medica, infer-mieristica e relazionale del servizio ospedaliero e degli operatori che stanno più a contatto con il bambino, nonché l’aiuto apportato dallo psicoterapeuta, hanno una funzione importante in tutto questo, così come l’essere pienamente calati nel ruolo di genitori. La per-sonalità del bambino e quella dei suoi genitori, la peculiarità della loro storia familiare, hanno anch’esse la loro importanza, perciò occorre dare attenzione e aiuto ai genitori, ai fratelli e alle sorelle. Il divenire del bambino, la sua evoluzione psichica, dipende anche dal contesto sociale e culturale: una protesi alla gamba o una cicatrice, per esempio, proprio in virtù di questo contesto, può essere più o meno ben accettata dalla famiglia e da chi le sta attorno.

La valutazione del futuro del bambino si può fare in diversi modi; per esempio può essere rivolta verso la situazione oggettiva dalla quale proviene: livello scolastico o universitario raggiunto, professione e attività esercitata, indipendenza rispetto all’alloggio, situazione familiare (celibe/nubile o in coppia, con o senza bambi-ni); dall’altro, la situazione psicologica ha anche la sua importanza: ansia, depressione, sindrome post-traumatica da stress o psicosi possono influire in maniera determinante.

La letteratura medica internazionale mostra risultati diversi, e questo non stupisce: in vent’anni le terapie si sono ampiamente evolute (in alcune patologie di cancro la percentuale di guarigione è passata dal 5-30% al 95%); l’evoluzione delle tecniche chirurgiche e radioterapiche nonché quelle dei protocolli di chemioterapia e tera-pie di supporto hanno notevolmente diminuito gli effetti collaterali.

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Allo stesso modo, i progressi effettuati per una migliore gestione del dolore, delle sofferenze psicologiche e delle destabilizzazioni, del-l’ambiente terapeutico (proseguimento della formazione scolastica, possibilità di occupare il tempo libero, impegno in attività ricreative e di animazione grazie alla presenza di figure ludico-terapeutiche come i clown, possibilità di espressione della creatività artistica o attività sportive), nonché il supporto psicoterapico hanno trasforma-to le condizioni del trattamento. Inoltre, la maggior parte di questi studi non tiene conto delle differenze di età e, spesso, neanche delle differenze di patologia (l’esperienza di un tumore celebrale non è la stessa di un osteosarcoma alla tibia e un nefroblastoma all’età di sei mesi non è vissuto come la malattia di Hodgkin).

Nei colloqui che da oltre quindici anni abbiamo con i bambini e gli adolescenti che hanno finito il trattamento, possiamo trovare un’enorme diversità di situazioni, di modi di essere e di modi di pensare, ma questa diversità può essere esaminata per coppie d’op-posti, ecco perché la presentazione che segue deve essere presa come modello ideale, che fornisce un aiuto a orientarsi nella complessità delle situazioni; poi, nella realtà, possono coesistere o alternarsi diversi modelli di comportamento.

IL SENTIMENTO DI FRAGILITÀ O DI FORZA. Il bambino può sentire che il cancro ha lasciato in lui una fragilità fisica e psichica che dura nel tempo (Pendley, 1997), che lo pone in una posizione di diversità ri-spetto agli altri, che lo spinge ad avere una vita solitaria o limitata nei rapporti relazionali, alla quale si aggiungono, in alcuni casi, aspetti fobici, come l’evitare i rapporti sociali o affettivi con gli altri. Questo può condurlo — talvolta complici i genitori (Van Dongen Melman, 1995), che condividono lo stesso modo di pensare — a chiudersi in questo universo familiare protettore.

Altri bambini, che non sempre dispongono più delle capa-cità fisiche che avevano in precedenza, sentono, al contrario, che l’esperienza li ha arricchiti, che hanno acquisito una maturità, un’esperienza della vita piena e preziosa che è utile al di là del con-testo medico e della durata della malattia e può essere trasformata in energia positiva. Sono fieri di aver mostrato le loro capacità di adattamento a situazioni difficili, a un ambiente medico molto di-verso dagli ambienti cui erano abituati; infatti, anche se a un certo punto del trattamento sono crollati e hanno sperimentato angoscia, depressione, ne hanno avuto abbastanza, si sono ribellati, hanno

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subìto gli effetti dello smarrimento, dello sgomento, dello sconfor-to e dello scoraggiamento, questi momenti non hanno annullato le qualità che i bambini si erano scoperte e che rimarranno loro patrimonio nel tempo.

IL CONFRONTO DIFFICILE CON GLI ALTRI E CON IL PASSATO. Talvolta il bam-bino si sente in qualche modo schiacciato da questa maturità che lo pone in una situazione di diversità rispetto agli altri, che non lo capiscono più, con i quali non sente più nessuna affinità, sui quali talvolta esprime un giudizio e che osserva con uno sguardo negativo ed elitario. Questo comportamento, quando è eccessivo, è nocivo e può nascondere il timore dello sguardo degli altri, capace di svalu-tarli. Ne emerge a volte una fragilità narcisistica. La relazione con gli altri è difficile, ed è questo il motivo per cui è importante, nel corso del trattamento, parlare con il bambino e con i suoi genitori dell’immagine che ha di se stesso, delle difficoltà di confrontarsi con gli altri fuori dall’universo medico, nella vita quotidiana. Poi, quando il trattamento finisce, è fondamentale aiutare il bambino a riadattarsi, a reinserirsi nella società, a tessere nuovamente i legami con gli altri senza provare vergogna della sua malattia (non è responsabile del cancro, che non è una malattia della quale ver-gognarsi), né di ciò che è divenuto (una discreta alopecia residua, una cicatrice, uno zoppicamento possono farlo soffrire, ma non alterano il suo valore).

Le difficoltà relazionali possono portare al moltiplicarsi di incontri «mordi e fuggi» per evitare un confronto stabile e dura-turo con l’altro («vagabondaggio» professionale e/o affettivo) o al contrario possono portare a chiudersi in una relazione esclusiva con un simile (una persona che ha vissuto una situazione analoga alla sua o che ha attraversato una prova difficile e si porta dentro un sentimento di fragilità).

Tuttavia, perché il bambino possa confrontarsi con gli sguardi e con le domande degli altri, è importante non solo che abbia capito cosa gli è successo (la natura della sua malattia, la logica dei trat-tamenti che ha ricevuto), ma anche che abbia potuto prendere le distanze rispetto all’esperienza che ha vissuto e superare il trauma che essa ha potuto costituire. Allora, il bambino potrà meglio sop-portare, senza destabilizzazione né rabbia eccessiva, gli sguardi di compassione, di sofferenza e di imbarazzo relazionale, di evitabilità, di curiosità voyeuristica ed egoistica degli altri.

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ALLA RICERCA OSTINATA DI UNA CAUSA E DI UN COLPEVOLE. Alcuni sono ten-tati di negare l’esperienza attraversata, cercano di dimenticarla in modo artificiale e forzato o di relegarla in un passato inaccessibile; si sforzano di mostrare un’apparenza neutra, piatta, di cancellare tutte le differenze con gli altri, ogni segno residuo del cancro e del trattamento. Altri, invece, in un moto di ribellione e di rabbia contro l’ingiustizia, non smettono di parlare di ciò che hanno vis-suto, di mostrare i segni delle conseguenze in modo provocatorio («Guardate cosa mi è stato fatto...! Guardate che ingiustizia ho subito! Prendete su di voi una parte della mia angoscia!»). Altri si fossilizzano in posizioni vittimistiche e si aspettano tutto dall’al-tro, l’aiuto, la compassione e la permanente riparazione della loro infelicità. Altri ancora, poi, sono convinti che esistano dei fattori esterni responsabili del loro cancro, come l’inquinamento o le fonti di energia nucleare.

LA MEMORIA CONSAPEVOLE E INCONSAPEVOLE DELLA MALATTIA. Non sempre il bambino si sente a suo agio nel ricordo di ciò che ha vissuto. Alcuni cercano di sbarazzarsi dei cattivi ricordi e, così facendo, amputano nel vero senso della parola una parte importante della loro vita; altri rimangono alterati nella personalità rispetto a questo periodo così intenso e non smettono di pensarci, come se esso avesse eliminato tutti gli altri; altri ancora fanno una sele-zione artificiale dei ricordi, idealizzando il periodo o, viceversa, non vogliono ricordare e desiderano parlare solo dei momenti più difficili che hanno vissuto.

È importante distinguere la memoria consapevole e imme-diatamente disponibile dalla memoria inconsapevole che, non per questo, non produce minori sintomi. Perciò, somatizzazioni, fobie, difficoltà relazionali, sentimenti di fragilità, comportamenti e scelte esistenziali paradossali possono comparire in modo particolare nei momenti significativi della vita: passaggio all’adolescenza, fine degli studi, morte dei genitori, primo rapporto sessuale o relazione di coppia duratura, nascita di un bambino, oppure il momento in cui il bambino raggiunge l’età che il genitore aveva quando è insorta la malattia. I bambini molto piccoli fissano nella la memoria ciò che hanno vissuto (impressioni visive, udi-tive, sensazioni e percezioni, esperienze del corpo), ma questa memoria ha necessità di confrontarsi con i ricordi dei genitori e di chi ha prestato le cure e ha necessità di riattivarsi nei colloqui

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con lo psicoterapeuta per ritrovare la sua coerenza e per essere sufficientemente riformulata.

IL FRAGILE SENTIMENTO DELLA CONTINUITÀ E DELLA COERENZA DELLA SUA VICEN-DA. Il bambino può avere la percezione che il cancro si sia iscritto nella continuità di un avvenire personale o familiare infelice. Ripete a se stesso che, se il cancro è arrivato una volta potrebbe anche ritornare, o che altri potrebbero esserne colpiti, lui stesso o i suoi familiari. Può pensare che la malattia abbia creato una frattura difficilmente superabile nella sua vita, e che ormai la sua storia sia spezzata in due parti prive di rapporto tra loro: il suo passato gli è inaccessibile e non si riconosce più nel presente. Alcuni bambini dicono di non sapere più chi sono, tanto si sentono estranei a ciò che erano prima e a ciò che sono divenuti adesso. Questa situazione, già di per sé difficile, è maggiormente accentuata quando i genitori o i parenti dicono loro: «Come sei cambiato... non ti riconosciamo più (questo significa che tutto è cambiato in te: il tuo fisico, la tua personalità, il tuo carattere)». In ogni caso, il comportamento opposto che si rifiuta di vedere ogni cambiamento, che nega ogni differenza rispetto a ciò che il bambino era in passato — come se il tempo non fosse passato, come se non fosse successo nulla — è fortemente negativo e non solo relega il bambino in un’immagine statica e artificiale di se stesso ma gli fa sperimentare una grande solitudine.

IL DIFFICILE RAPPORTO «GENITORI-BAMBINO». Non è raro che il rapporto con i genitori si evolva: la prova del cancro rende il rapporto più difficile oppure più ricco. Il bambino o l’adolescente è in grado di sentire che i genitori sono stati all’altezza delle sue richieste, che ha potuto autenticamente contare su di loro, che gli uni e gli altri hanno potuto scoprire in loro ma anche tra loro qualità insospetta-te; hanno imparato a conoscersi meglio, l’esperienza ha tessuto tra loro legami più solidi e di grande spessore e qualità. Al contrario, il bambino talvolta considera, a torto o a ragione, che i suoi genitori non hanno corrisposto alle sue aspettative e ai suoi bisogni e hanno perso di credibilità ai suoi occhi; può tenersi dentro una grande solitudine — l’impressione di non poter contare su nessuno e in particolare sui suoi familiari —, una rabbia permanente contro di loro e addirittura contro il mondo. Idee di questo tipo possono in-durre un comportamento di rivendicazione e di recriminazione, di richieste permanenti, come per far pagare agli altri la loro incapacità

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di essere sufficientemente adeguati per affrontare la situazione, per compensare ciò che non si è ricevuto e che si pensava di dovere ricevere quando si era malati.

Il bambino, divenuto adolescente o adulto, può anche sentirsi in debito rispetto ai suoi genitori (e in senso più ampio rispetto agli altri), pensare con un certo senso di colpa che la sua malattia, e quindi lui stesso, è responsabile della loro sofferenza, delle loro difficoltà finanziarie, della loro crisi di coppia o della loro separa-zione e della loro solitudine duratura. Può arrivare alla conclusione (e così anche i fratelli e le sorelle) che essere genitore è veramente troppo difficile, che esiste il rischio di avere un bambino malato di cancro e che, perciò, è meglio non diventare genitori.

L’ADOLESCENZA. L’adolescenza è un passaggio difficile e sia i geni-tori che i bambini possono essere tentati di evitare i conflitti e le turbolenze tipiche dell’età: l’adolescente rinuncia, allora, alle sue esigenze di autonomia e di evoluzione, preferisce regredire a uno stadio anteriore, all’infanzia; i genitori accettano senza reagire i suoi comportamenti inadeguati che di fatto esprimono problemi e domande alle quali, così facendo, si toglie la possibilità di rispondere. Il ragazzo attraversa così l’adolescenza in modo artificiale e rischia di diventare un adulto che mantiene i tratti della sua immaturità infantile.

LA STIMOLAZIONE O L’INIBIZIONE INTELLETTUALE. Vivere l’esperienza del cancro può avere conseguenze sull’investimento intellettuale del bambino, che arriva a ritenere che gli adulti non l’abbiano suffi-cientemente informato, sia per negligenza, sia volontariamente, e che gli abbiano addirittura nascosto gli elementi essenziali che riguardavano la sua malattia e il suo trattamento. Nasce così il so-spetto di non aver capito ciò che ha vissuto, ciò che gli è stato fatto. Può, dunque, cominciare a pensare che riflettere, cercare di sapere, cercare di comprendere sono attività prive di interesse e, non essen-do desiderate dagli adulti, cessa di fare un investimento sulla sua curiosità intellettuale e sul suo percorso scolastico. Altri pensano di non aver compreso abbastanza o che l’enigma del cancro rimanga loro misterioso, perciò si buttano a capofitto in un intenso lavoro intellettuale o si lanciano nella ricerca delle cause biologiche della malattia. Questo investimento intellettuale può essere autentico o, al contrario, maniacale, e può non portare a nessun risultato, con

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il rischio di lasciare nel bambino divenuto adulto un gran vuoto, un sentimento di confusione e smarrimento quando un giorno si troverà di fronte a domande alle quali non può rispondere o quando si sarà rivelato il suo carattere artificiale.

LA PROVA ORDALICA. L’esperienza della malattia può aver avuto per il bambino il significato di una prova ordalica: egli può, così, con-siderare di aver vissuto e portato vittoriosamente a compimento l’impresa, di aver addotto le prove sufficienti del suo coraggio e del suo valore e di aver mantenuto vivo il sentimento di una grande e duratura fiducia in se stesso. Al contrario, il bambino può pensare di non aver fatto nulla per guarire e di dovere tutto ai medici e ai suoi genitori, e si sente prigioniero di un debito impagabile o pensa di dover sostenere nuovamente la prova, e ciò spiega certi compor-tamenti a rischio. Allo stesso modo, il bambino può considerare di non essere stato all’altezza della prova, sperimenta la vergogna e i suoi comportamenti a rischio non farebbero che dimostrare il suo valore; altri ancora pensano che, se sono guariti, sono indistruttibili e possono permettersi tutto e questo spiega anche alcune negligenze rispetto al loro stato di salute o anche alcuni loro comportamenti a rischio.

Alcuni considerano di dover tutto ai medici e alla medicina (ai quali restano legati in modo eccessivo), aspettandosi il loro aiuto per tutte le difficoltà e non soltanto per quelle mediche. Viceversa, altri mantengono un ricordo statico, immobile, delle sofferenze che hanno vissuto, colpevolizzando genitori e medici anche per tutte le sequele.

IL SENSO DI COLPA. Alcuni bambini mantengono nel tempo un senso di colpa, per diversi motivi: perché non hanno realizzato le speranze che i genitori avevano riposto in loro, perché sono stati causa di difficoltà per i genitori oppure perché sono guariti, mentre altri bambini che hanno conosciuto sono morti.

LA RECIDIVA. La recidiva può essere una sorpresa a tutti gli effetti, l’occasione di una nuova battaglia, la conferma del pessimismo o del destino tragico della famiglia. I genitori e il bambino si confrontano con essa secondo il modo in cui hanno vissuto, capito, accettato pienamente il primo trattamento, secondo il modo in cui hanno riflettuto sul senso della malattia. Gli studi sperimentali di fase I e

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II1 realizzati in certi servizi ospedalieri, pongono ai genitori e agli operatori problemi etici delicati. I genitori li accettano dicendo: «Come potremmo rifiutare anche solo una possibilità su un milio-ne?» poi, però, potrebbero farsene una colpa.

Come favorire una crescita positiva?

Non c’è fatalità nel divenire dei bambini e degli adolescenti che sono stati curati per questo tipo di malattie. Non c’è nessuna relazione meccanica tra il peso del trattamento e la presenza o l’im-portanza delle sequele (anche se bisogna certamente tener conto della realtà) e il sentimento di vivere una vita che vale la pena di essere vissuta. È importante che il bambino tenga vivo il sentimento del suo valore (nella sua identità preservata) insieme al sentimento della continuità della sua vita. È importante che senta che valeva la pena fare il trattamento, che la sua nascita non deve essere rimpianta, né da parte sua né da parte dei suoi genitori. È importante, infine, che il bambino si fidi pienamente dei suoi genitori, della medicina, della società che è la sua, che tenga vivo il sentimento del suo posto all’interno della famiglia, con i suoi coetanei, nella società, benché alle volte siano presenti handicap fisici o cognitivi.

Nel lavoro con gli psicoterapeuti e con gli psicanalisti è importante conoscere sufficientemente la realtà dell’oncologia pediatrica, la realtà di quella malattia che il bambino ha vissuto e dei trattamenti che ha ricevuto. Le tracce lasciate dall’esperienza della malattia si iscrivono nella realtà fisica e sociale ma sono anche tracce soggettive che entrano in contatto con tutto l’insieme dei suoi punti di riferimento: l’immagine che il bambino ha del suo corpo, il suo rapporto con i genitori, con la famiglia, con i fratelli e le sorelle, con gli altri, il suo posto nella società, i suoi riferimenti culturali e simbolici, i suoi centri di interesse, il suo narcisismo e il suo sentimento di identità.

Le conseguenze di una tale esperienza non sono necessaria-mente negative, ma possono anche essere positive. Perché alcuni bambini ne escono meglio di altri? Non ci sono segni premonitori e l’evoluzione dei bambini e delle famiglie spesso riserva qualche sorpresa, che può essere buona oppure cattiva. Le ragioni di ciò

1 Si tratta di studi clinici sperimentali di farmaci. I test di fase I valutano la tollerabilità del farmaco sul paziente, i test di fase II l’efficacia. [ndt]

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possono essere diverse e molto dipende dal modo in cui il bambino sarà stato aiutato dai suoi genitori, da chi ha prestato le cure, dal modo in cui egli sarà riuscito a elaborare l’esperienza con l’aiuto dello psicoterapeuta: non esiste, infatti, un «cancro piccolo», ma è sempre un’esperienza sconvolgente anche quando la prognosi è molto favorevole e i trattamenti relativamente semplici. Le sequele negative possono apparire nella continuità del trattamento oppu-re riaffiorare in altri momenti significativi del corso della vita del bambino. Tutto questo valorizza fortemente il lavoro di prevenzione che deve essere portato avanti nell’arco di tempo in cui si svolge il trattamento e che tiene conto dei genitori e dei fratelli e delle sorelle del bambino ammalato. La prevenzione rende più facile l’aiuto che può essere fornito a questi bambini divenuti adolescenti o giovani adulti alla fine del trattamento, quando essi si confrontano con le conseguenze fisiche, sociali o psicologiche dell’esperienza che hanno vissuto o sono posti di fronte a problemi di qualsiasi tipo: scelte esistenziali, affettive, familiari, sociali, professionali, politiche ed etiche.

Quando il bambino non guarisce

La fine della vita

Non sempre le équipe sanitarie sono in grado di farsi carico (Wolfe, 2000) di questo periodo particolarmente importante (Mar-tison, 1994; Masera, 1999), per via di una mancata formazione spe-cifica (Papadatou, 1997). Il bambino non può più fare ciò che faceva prima, il medico non dispone più di terapie tradizionali o di cure palliative che permettano una vita sufficientemente lunga e soddi-sfacente. La vita può svolgersi nel reparto di Oncologia Pediatrica, nell’ospedale più vicino, a casa con il sostegno di cure domiciliari e il supporto della rete locale. Bisogna tener conto del desiderio del bambino e dei genitori, ma anche delle possibilità psicologiche e materiali della famiglia. Il bambino in fin di vita sa di poter morire e sa che questo momento potrebbe essere vicino, ma si riserva un margine di dubbio e spera nella guarigione, altrimenti come potrebbe continuare a pensare, ad esistere? Alle volte chiede se morirà, per poter discutere di problemi medici o relazionali con i suoi genitori («È sempre lo stesso bambino, amato malgrado il suo disfacimento fisico o intellettuale? I genitori ne rimpiangono la nascita, il tratta-