Costantino Jadecola

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Costantino JADECOLA, L’on. Pasquale Pelagalli e Aquino nelle pagine del Risorgimento. 19/11/2011 Pagina 1 di 6 Firmato Costantino Jadecola L L LA A A T T TO O OR R RR R RE E E ASSOCIAZIONE CULTURALE, AQUINO L E NOSTRE RADICI . L A NOSTRA STORIA . U N PERCORSO CULTURALE NEL PASSATO DI A QUINO . Quello che segue è il testo della conferenza tenuta sabato 19 novembre 2011 presso la Sala consiliare del Comune di Aquino dal dott. Costantino Jadecola. L L O O N N . . P P A A S S Q Q U U A A L L E E P P E E L L A A G G A A L L L L I I E E A A Q Q U U I I N N O O N N E E L L L L E E P P A A G G I I N N E E D D E E L L R R I I S S O O R R G G I I M M E E N N T T O O “Ci è (…) scritto da Aquino esser giunti or ora da Napoli 150 (…) Garibaldini arruolati, di- retti ad ingrossare le bande già esistenti”: questa brevissima notizia viene pubblicata dall’Osservatore romano, organo della Santa Sede, giovedì 10 ottobre 1867. Essa non è del tutto destituita di fondamento: i “Garibaldini arruolati” sono, in realtà, meno di cinquanta. Arrivati il giorno prima, cioè il 9 ottobre, alla stazione di Aquino con un treno merci prove- niente da Napoli, si stavano incamminando verso Pontecorvo quando furono fermati da alcuni soldati di frontiera ai quali dissero di essere operai diretti alla cartiera di proprietà della famiglia Pelagalli il cui esponente più rappresentativo era, a quel tempo, Pasquale essendo non solo sindaco di Aquino ma anche consigliere provinciale di Terra di Lavoro e deputato al parlamen- to nazionale. Interpellato, questi confermò la cosa per iscritto aggiungendo che quei “lavorieri” gli erano stati inviati dal duca di San Donato, discendente da un ramo dei Sanseverino, una delle più il- lustri casate storiche italiane, la prima delle sette grandi Case del Regno di Napoli, e che la loro destinazione era in realtà la miniera di petrolio di San Giovanni Incarico, ovvero una località a due passi dal confine con lo Stato Pontificio, dove la scoperta del prezioso liquido era avvenuta da qualche tempo. Ma che ci facevano questi “Garibaldini” ad Aquino? Essi di fatto costituiscono il primo nucleo di quei volontari del sud che aderendo all’invito di Giovanni Nicotera e di altri, tra cui appunto Pasquale Pelagalli, si erano resi disponibili per tentare con Garibaldi la conquista di Roma e, quindi, annettere lo Stato Pontificio al Regno d’Italia, tentativo che verrà soffocato a Mentana, a due passi dalla futura capitale d’Italia, il 3 novembre successivo. L’iniziativa di Garibaldi, sebbene fosse nota a chi doveva esserlo, andava, però, attuata nella massima circospezione: alla fine, se tutto fosse andato per il meglio, ognuno avrebbe avuto la sua parte di merito; se, invece, come poi accadde, essa non sarebbe stata coronata da successo, qualcuno avrebbe pagato. E pagò Garibaldi, che venne di nuovo arrestato e ricondotto al soggiorno forzato di Caprera ma pagò anche Urbano Rattazzi costretto alle dimissioni del governo da lui presie- duto per connivenza con il cosiddetto “eroe dei due mon- di”. Del resto, che qualcosa fosse nell’aria lo si era percepito nell’estate appena passata quando era stato inviato in zona il vicebrigadiere “della guardia di pubblica sicurezza” Ga- briele Tolomei “per vigilare sul movimento dei viaggiatori alla stazione della ferrovia” dal momento che, scriveva il sotto-prefetto di Sora al sindaco di Aquino (26.8.1867), si ha motivo di ritenere che “drappelli di volontari si avviino alla spicciolata verso la frontiera.” Il ruolo di Pasquale Pelagalli, al di là della fase organizza- tiva della spedizione, si era concretizzato specialmente nel mettere a disposizione dell’iniziativa una sua casella di campagna sita in località Scardatore, sulla strada per con- trada Valli, ed anche nel provvedere al sostentamento degli uomini ed al loro armamento, ancorché precario, tant’è che di lui si scrisse che “cooperò molto, con la persona e con gli averi, alla spedizione dell’Agro romano del 1867 e sep- pe, in tal modo, predisporre un valido appoggio a L’on. Pasquale Pelagalli e, sullo sfondo, il palazzo di famiglia all’imbocco di via Giovenale prima della seconda guerra mondiale Costantino Jadecola

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Storia di Aquino

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Costantino JADECOLA, L’on. Pasquale Pelagalli e Aquino nelle pagine del Risorgimento. 19/11/2011 Pagina 1 di 6

Firmato Costantino Jadecola

LLLAAATTTOOORRRRRREEE ASSOCIAZIONE CULTURALE, AQUINO

L E N O S T R E R A D I C I . L A N O S T R A S T O R I A .

U N P E R C O R S O C U L T U R A L E N E L P A S S A T O D I A Q U I N O .

Quello che segue è il testo della conferenza tenuta sabato 19 novembre 2011 presso la Sala consiliare del Comune di Aquino dal dott. Costantino Jadecola.

LL’’OONN.. PPAASSQQUUAALLEE PPEELLAAGGAALLLLII EE AAQQUUIINNOO NNEELLLLEE PPAAGGIINNEE DDEELL RRIISSOORRGGIIMMEENNTTOO

“Ci è (…) scritto da Aquino esser giunti or ora da Napoli 150 (…) Garibaldini arruolati, di-retti ad ingrossare le bande già esistenti”: questa brevissima notizia viene pubblicata dall’Osservatore romano, organo della Santa Sede, giovedì 10 ottobre 1867. Essa non è del tutto destituita di fondamento: i “Garibaldini arruolati” sono, in realtà, meno di cinquanta.

Arrivati il giorno prima, cioè il 9 ottobre, alla stazione di Aquino con un treno merci prove-niente da Napoli, si stavano incamminando verso Pontecorvo quando furono fermati da alcuni soldati di frontiera ai quali dissero di essere operai diretti alla cartiera di proprietà della famiglia Pelagalli il cui esponente più rappresentativo era, a quel tempo, Pasquale essendo non solo sindaco di Aquino ma anche consigliere provinciale di Terra di Lavoro e deputato al parlamen-to nazionale.

Interpellato, questi confermò la cosa per iscritto aggiungendo che quei “lavorieri” gli erano stati inviati dal duca di San Donato, discendente da un ramo dei Sanseverino, una delle più il-lustri casate storiche italiane, la prima delle sette grandi Case del Regno di Napoli, e che la loro

destinazione era in realtà la miniera di petrolio di San Giovanni Incarico, ovvero una località a due passi dal confine con lo Stato Pontificio, dove la scoperta del prezioso liquido era avvenuta da qualche tempo.

Ma che ci facevano questi “Garibaldini” ad Aquino? Essi di fatto costituiscono il primo nucleo di quei volontari del sud che aderendo all’invito di Giovanni Nicotera e di altri, tra cui appunto Pasquale Pelagalli, si erano resi disponibili per tentare con Garibaldi la conquista di Roma e, quindi, annettere lo Stato Pontificio al Regno d’Italia, tentativo che verrà soffocato a Mentana, a due passi dalla futura capitale d’Italia, il 3 novembre successivo.

L’iniziativa di Garibaldi, sebbene fosse nota a chi doveva esserlo, andava, però, attuata nella massima circospezione: alla fine, se tutto fosse andato per il meglio, ognuno avrebbe avuto la sua parte di merito; se, invece, come poi accadde, essa non sarebbe stata coronata da successo, qualcuno avrebbe pagato. E pagò Garibaldi, che venne di nuovo arrestato e ricondotto al soggiorno forzato di Caprera ma pagò anche Urbano Rattazzi costretto alle dimissioni del governo da lui presie-duto per connivenza con il cosiddetto “eroe dei due mon-di”.

Del resto, che qualcosa fosse nell’aria lo si era percepito nell’estate appena passata quando era stato inviato in zona il vicebrigadiere “della guardia di pubblica sicurezza” Ga-briele Tolomei “per vigilare sul movimento dei viaggiatori alla stazione della ferrovia” dal momento che, scriveva il sotto-prefetto di Sora al sindaco di Aquino (26.8.1867), si ha motivo di ritenere che “drappelli di volontari si avviino alla spicciolata verso la frontiera.”

Il ruolo di Pasquale Pelagalli, al di là della fase organizza-tiva della spedizione, si era concretizzato specialmente nel mettere a disposizione dell’iniziativa una sua casella di campagna sita in località Scardatore, sulla strada per con-trada Valli, ed anche nel provvedere al sostentamento degli uomini ed al loro armamento, ancorché precario, tant’è che di lui si scrisse che “cooperò molto, con la persona e con gli averi, alla spedizione dell’Agro romano del 1867 e sep-pe, in tal modo, predisporre un valido appoggio a

L’on. Pasquale Pelagalli e, sullo sfondo, il palazzo di famiglia all’imbocco di via Giovenale prima della seconda guerra mondiale

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quell’azzardata impresa spenta nel sangue di Mentana”1. Proprio in questa casella di Scardatore, erano convenuti i volontari giunti da Napoli il mattino del 10 ottobre ai quali se ne

sarebbero poi aggiunti circa altri 400, quasi tutti soldati anziani, partiti da Napoli con un treno speciale formato da dieci va-goni, presente Nicotera in persona.

Superata la stazione di Cassino all’una di notte, il treno si era fermato fra le stazioni di Aquino e Roccasecca, cioè “al pun-to convenuto con gli amici di Cassino”2, probabilmente all’incrocio della ferrovia con la via Leuciana, la strada che collega la Casilina a Pontecorvo.

Di questo e di ciò che accadde appena dopo lo sappiamo da Felice Cavallotti (Milano, 6 ottobre 1842 - Roma, 6 marzo 1898), estroso personaggio del Risorgimento - fu, infatti, poeta, drammaturgo, garibaldino e più volte deputato - che nel suo libro dal tiolo Storia dell’insurrezione di Roma nel 1867, alla quale egli stesso partecipò, scrive che Nicotera, “disceso dalla ferro-via co’ suoi uomini (…) s’avviò, guidato da questi amici di Cassino, ad una Casina di campagna ove erano state deposte le armi, le munizioni ed i viveri, e dove trovar doveva le guide per traghettare all’altra sponda del Liri. Ma qui lo incolse il pri-mo amaro disinganno: che lungamente ed indarno aspettò fino a che, avvicinandosi il giorno, fu necessaria prudenza il ripa-rare in una vicina selva, per non rimanere esposti durante il giorno alla vista di tutti.

“Arrivati in quella selva, sul far dell’alba, il Nicotera scrisse al Pelagalli dolendosi fortemente degli avvenimenti della notte; e per mettere il tempo a profitto, divise i pochi uomini che aveva in due compagnie e fece ispezionare le armi, delle quali, sopra poco più di duecento, si trovarono 90 o senza luminello o guaste cosi da non poter servirsene. Né questo valse a ri-muoverlo dal pensiero di passar subito la frontiera; ché anzi, appena ricevute assicurazioni dal Pelagalli che tutto era dispo-sto pel tragitto del Liri, mosse di nuovo a quella volta con la sua colonna, sotto una pioggia dirotta. Ma verso mezzanotte, giunto in prossimità di Roccasecca, un avviso di Pelagalli lo informava non essere più possibile il passaggio del Liri, perché for-temente guardato dai bersaglieri! Ed ecco la colonna di bel nuovo costretta ad arrestarsi e a riparare in vicine capanne, dove alla meglio poté provvedersi di viveri.

“Subito Nicotera spedì messi a Napoli per avere fucili che almeno sparassero, e pensò nel frattempo a scegliere qualch’altro punto, dove passare il confine senza conflitto con le truppe nostre. Dovette quindi contentarsi di passar da Pon-tecorvo, non perché quello fosse il punto migliore, ma perchè era il solo non guardato dalle truppe.

“Di quella sosta, frattanto, Nicotera approfittò per dividere la colonna in compagnie, per dare un aspetto di ordine all’ammasso incomposto degli uo-mini che aveva radunati sotto di sé. (…) Certo è che gli indugi in condizioni tanto disastrose”, scrive Cavallotti, “incominciarono a disgustare l’eccitabile animo dei volontari, parecchi dei quali ne approntavano per gittar a terra le armi ed andarsene; e tal sorta di gente meglio è sempre perderla, che trovarla; ma i ritardi frapposti al passaggio del confine, legittimi o no, avevano prodotto ed aumentata la sfiducia, anco dei migliori, nel loro capo. E questo malconten-to che si propagava nelle file sempre sospettose, s’accrebbe a più doppi nella giornata dell’11, quando i volontari si videro per tutto quel dì costretti ad ozia-re, girovagando nei vicini villaggi e facendo meravigliare i viaggiatori di quello insolito andirivieni sulla linea ferrata. Nicotera in questo tempo non cessava di scambiare invii di messi e notizie col generale Fontana comandante la zona di confine (…).

“La sera del giorno 12, finalmente, la colonna mettevasi in moto; invece di recarsi difilato in due ore al confine, prendeva la via di Pontecorvo, sgomberata di fresco dal generale Fontana, dove giunta la mattina del 13, dopo quindici ore di marcia, le riuscì di toccare il confine pontificio alle spalle del villaggio di Falvaterra; e li pose il campo”3.

Su ciò che avvenne a proposito della partenza dei volontari di Nicotera da Aquino, c’è un contributo dello stesso Pasquale Pelagalli che in alcuni suoi appunti, probabile minuta di una lettera da indirizzarsi al Ministro dell’Interno, sottolinea che “il tempo fu tempestoso in quei giorni, e nella marcia notturna molti fucili si guastarono, e le munizioni si bagnarono, sicché fu d’uopo rifornire i volontari di munizioni e di armi”. Cosa che egli fece senza esitare “pronto a dare per la patriottica impresa 16 fucili della Guardia Nazionale che si trovavano in deposito perché coloro ai quali erano stati consegnati o erano morti o non facevano più parte della Guardia Nazionale” stessa.

Se problemi specialmente di natura organizzativa avevano caratterizzato la successiva partenza dei volontari dalla campa-gna di Aquino ed altri, soprattutto logistici, non erano mancati finché essi si trovavano ancora in territorio del Regno, ben diversamente erano andate le cose una volta superato il fiume Liri, cioè il confine con lo Stato Pontificio: l’occupazione di Falvaterra tutto sommato non aveva creato grossi problemi; diversamente, molto diversamente, le cose erano invece andate a Vallecorsa dove le truppe pontificie erano state ben sollecite a fronteggiare la situazione mettendo in serie difficoltà i gari-baldini.

Protagonista sia dell’occupazione di Falvaterra che di quella di Vallecorsa era stato Aristide Salvatori, eccentrico personag-gio originario di Ripi ma esiliato a Pontecorvo dove, c’è da supporre, sia entrato in contatto con Pasquale Pelagalli con il qua-le condivideva quell’idea della liberazione di Roma ed il modo in cui attuarla. Quando Nicotera gli affida l’incarico di occupa-

1 Elio GALASSO, Montecitorio. Le litografie di Antonio Manganaro. (Edizione integrale dell’Album dei Cinquecento). Edizioni del Museo del San-nio. Benevemto, 1988. 2 Felice CAVALLOTTI, Storia dell’insurrezione di Roma nel 1867. Collana dei martiri italiani. Milano. 1869, p. 426. 3 Felice CAVALLOTTI, Storia dell’insurrezione di Roma nel 1867. Collana dei martiri italiani. Milano 1869, pp. 426-428

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re Falvaterra coll’unico fine, però, di provvedersi di viveri e di avere dai patrioti del luogo delle brave guide, egli ed i suoi, invece, intimoriti i pochi gendarmi presenti in paese, fecero molto di più.

“Falvaterra, paese della provincia di Frosinone posta presso il confine Pontificio”, scriverà l’Osservatore Romano, “fu ieri in-vasa da una banda di circa 200 garibaldini i quali in mezzo alla costernazione di quegli abitanti, abbatterono con la solita vio-lenza gli stemmi pontifici, proclamarono il governo provvisorio di Garibaldi così espillarono le casse del Comune e del ma-cinato, commettendo anche altri eccessi.

“La truppa marciò immediatamente a quella volta, ma prima del suo arrivo i garibaldini si erano già ritirati nelle limitrofe montagne del Regno di Napoli.”4

Ben diversamente, invece, andarono le cose di lì a qualche giorno a Vallecorsa dove i garibaldini vennero di fatto sconfitti e fra i molti prigionieri vi fu lo stesso Salvatori: rinchiuso dapprima nella rocca di Ceccano, egli fu successivamen-te trasferito a Castel Sant’Angelo e quindi al carcere di Civitavecchia dal quale evase per arruolarsi quindi nella squadra na-zionale per la lotta al brigantaggio dove raggiunse il grado di aiutante maggiore.

Se Aquino dimenticherà Pasquale Pelagalli, Ripi, al contrario, dedicherà ad Aristide Salvatori l’attenzione che merita: a lui, infatti, è intitolata una strada del centro storico dove anche una lapide lo ricorda.

Dopo Vallecorsa i garibaldini proseguono la non facile marcia attraverso Monte San Giovanni Campano, l’abbazia di Ca-samari, che saccheggeranno, per arrivare, infine, a Frosinone. Qui Nicotera avrebbe proclamato la fine dello Stato Pontificio e organizzato il consueto plebiscito per l’annessione al Regno d’Italia. Tutto, però, sarebbe svanito di lì a qualche giorno, dopo la sconfitta subita da Garibaldi a Mentana il 3 novembre 1867.

Si concluse così quella spedizione che aveva preso le mosse da Aquino ed alla quale, per la cronaca, avevano preso parte anche due aquinati, entrambi, si legge nelle carte, dalla “condotta politica e morale mediocre”: se Libero Romani, 19 anni, studente, aveva motivato la sua adesione “per principio”, l’altro, invece, che si chiamava Tommaso Patriarca, aveva 18 anni ed era contadino, non ebbe difficoltà a dichiarare che quella sua adesione alla causa era dettata solo ed esclusivamente dal bisogno5.

Se dunque Aquino può vantare la sua presenza nelle pagine della storia del Risorgimento per essere stato il punto d’incontro dei volontari del sud diretti alla conquista di Roma, Pasquale Pelagalli, dal canto suo, un nome nell’ambiente di coloro i quali ambivano all’unità nazionale se lo era già fatto una ventina di anni prima quando di anni ne aveva appena 22 ed era fresco di laurea.

Era il 1848, l’anno, per intenderci, delle “cinque giornate di Milano” e dell’inizio della Prima guerra d’indipendenza. Anche il Regno delle Due Sicilie, lo stato al quale Aquino apparteneva, così come tutti gli altri stati che a quel tempo si di-

videvano la penisola italiana, ebbe i suoi problemi con i liberali che manifestavano per far sì che re Ferdinando II di Borbo-ne concedesse la costituzione. Cioè maggiori libertà. Poi, la caduta di Metternich, il potente cancelliere di stato austriaco, a-veva dato ulteriore vigore ai democratici italiani educati alla lotta soprattutto dall’ideale mazziniano e dal fronte più progres-sista della borghesia liberale. Le prime reazioni ebbero luogo nelle regioni controllate direttamente o indirettamente dall’Austria: fu Milano ad insorgere per prima, tra il 18 ed il 23 marzo, appunto con le ricordate memorabili cinque giornate di lotta divenute una pietra miliare della storia pre-unitaria; poi l’insurrezione si estese alle altre regioni della penisola: a Na-poli la protesta esplode il 25 marzo. E Pasquale Pelagalli fu tra coloro - raccontano le cronache del tempo- che protestarono contro la legazione d’Austria cercando, nel contempo, di intimorire Ferdinando II per costringerlo ad inviare le sue truppe in aiuto dei Piemontesi che combattevano contro gli Austriaci: in questa occasione il giovane aquinate osò strappare prima e gettare poi in mezzo al popolo, che confortava con grida e con applausi l’azione, gli emblemi con l’aquila bicipite posti sul cancello della villa dove aveva sede la legazione austriaca presso i Borbone, emblemi che furono successivamente dati alle fiamme in piazza Santa Caterina a Chiaia.

Ma chi era Pasquale Pelagalli? Discendente di una famiglia che a ragione può ritenersi fra le più antiche, se non la più antica fra quelle di ceppo aquinate - del resto, il suo stemma, il gallo, è parte di quello del comune di Aquino - Pasquale era nato il 10 novem-bre 1826 da Gaetano e da Rosalinda Carrocci, originaria di Pon-tecorvo, primo di cinque fratelli fra cui quel Francesco Antonio pittore che lascerà testimonianza sulla tela di scorci dell’Aquino del tempo.

Orfano di madre quando aveva appena dieci anni, Pasquale, dopo aver compiuto il corso di “belle lettere” presso il “Tulliano” di Arpino, meritando il “diploma d’onore”, si era iscritto all’Università di Napoli ove, a 21 anni, aveva conseguiti i diplomi in Lettere e Filosofia e, quindi, in Giurisprudenza per iniziare, appena dopo, ad esercitare l’avvocatura presso la Gran Corte Ci-

vile del Regno, non certo con continuità, deve supporsi, per via del suo impegno dapprima patriottico e poi amministrativo e politico a vari livelli. L’anno dopo aver conseguito la laurea, si trovò coinvolto, come si è detto, nei moti rivoluzionari napo-letani la qualcosa, ovviamente, lo degnò di particolare attenzione da parte della polizia borbonica. Ma nonostante ciò e no-nostante una condanna in contumacia, egli, che aderiva alla Giovane Italia, continua ad impegnarsi nell’attività patriottica:

4 L’Osservatore Romano. Martedì 15 ottobre 1867. Anno VII, numero 237. 5 A.S.Ce, Prefettura Gabinetto, busta 272, f. 3050.

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rischia sia il carcere che l’esilio e sebbene venga più volte fermato per misure di “alta polizia”, riesce, però, sempre a farla franca.

Seguace di Salvatore Pizzi, che è il leader dei liberali in Terra di Lavoro, e come lui iscritto alla “setta dei pugnalatori”, pre-sunta filiazione della carboneria, le relazioni fra i due divennero molto strette allorché Pizzi, nel 1855, fu confinato in San Donato Val Comino e schedato come “attendibile”, ovvero come persona sottoposta a stretta sorveglianza da parte della polizia borbonica. Ciò non toglie, tuttavia, che Pasquale trovi il tempo di convolare a nozze con Alessandra Ferdinandi di Pontecorvo dalla quale avrà tre figli tra i quali Gaetano, il primogenito, che sarà sindaco di Aquino a cavallo tra il XIX e XX secolo.

Arriviamo, quindi, a settembre del 1860 quando si concretizza l’invasione piemontese del Regno delle Due Sicilie per ma-no di Giuseppe Garibaldi il quale, tra i suoi primi atti, nomina Salvatore Pizzi governatore della provincia di Terra di Lavoro con pieni poteri. È inevitabile, visti rapporti tra i due, che questi voglia al suo fianco, quale fidato e diretto collaboratore, l’amico Pasquale Pelagalli che inizia, così, quell’attività pubblica che avrebbe poi svolto per quasi tutto il resto della sua vita.

In quello stesso 1860, in riconoscimento dell’impegno patriottico, delle benemerenze politiche e della stima che ha saputo guadagnarsi, Pelagalli viene nominato sindaco di Aquino, incarico che conserverà per diversi anni; l’anno dopo, nel 1861, a tale incarico si unisce quello di consigliere per il mandamento di Roccasecca presso l’Amministrazione provinciale di Terra di Lavoro (lo sarà fino al 1881), ente del quale sarà presidente dal 5 settembre 1870 al 23 luglio 1875. Con decreto del 10 a-prile 1862, poi, viene nominato, in sostituzione di Pasquale Visocchi, “delegato straordinario per l’amministrazione interinale del Comune di Palazzolo”6 fino all’insediamento del nuovo Consiglio comunale.

Ma la sua ascesa politica non si arresta e culmina, infine, con l’elezione al parlamento nazionale per il collegio di Pontecor-vo nelle consultazioni del 22 e 29 ottobre 1865.

In vista di queste consultazioni, Francesco de Sanctis, il maggior critico e storico della letteratura italiana, lo addita in un suo scritto (29 settembre 1865) fra gli uomini nuovi cui affidare le sorti del giovane regno. “E così”, egli scrive, “nella Came-ra torneranno degli antichi deputati i più degni, e ci andranno molti uomini nuovi, liberali e progressisti. E così scomparirà l’antica maggioranza co’ suoi famosi gruppi, e si formerà la nuova maggioranza liberale e progressista, scevra da odi persona-li, da prevenzioni anti-piemontesi, libera da impegni e da legami artificiali, facile ad intendersi intorno a’ principi, dove ben possono entrare i liberali più progressivi dell’antica maggioranza e i più assennati e temperati della Sinistra parlamentare.”7

Naturalmente è grande la soddisfazione dello stesso De Sanctis all’indomani delle elezioni: “noi abbiamo fatto il nostro dovere”, scrive (2 novembre 1865), “e possiamo dire con una legittima soddisfazione, compenso di tanti dolori e di tanti travagli sostenuti per il ben pubblico, possiamo dire che i nostri candidati sono quasi tutti riusciti, e sono ciò che di meglio c’è nel paese per onestà, per capacità, patriottismo”8. Oltre Pasquale Pelagalli ci sono, tra gli altri, Alfonso Visocchi di Atina eletto a Cassino e il ricordato Salvatore Pizzi eletto a Capua.

In quelle elezioni, antagonista di Pelagalli è il parlamentare uscente del collegio, cioè Giustiniano Nicolucci, antropologo di chiara fama nativo di Isola del Liri. Come è consuetudine in quei tempi, la battaglia elettorale si svolge senza esclusione di colpi. Più che i candidati, sono i loro grandi elettori a tirare le fila. Un giornale, Il Pensiero Italiano, il 30 settembre attacca Ni-colucci accusandolo di immobilismo; sul fronte opposto, invece, attraverso manifesti si rivolge un caldo appello agli elettori del collegio ricordando i suoi meriti. Ma gli elettori la pensano diversamente e questi è così costretto a tornare ai suoi studi: “Forse avremmo avuto un mediocre intrigante e faccendiere anziché un dotto e immortale scienziato”, scriverà Arduino Carbone9.

Conclusa la IX legislatura, Pasquale Pelagalli è rieletto deputato anche per la X, nel 1867, l’anno dell’impresa di Mentana. Intanto, la crisi economica divide la Camera e quella sociale spacca il paese: si prendono dei provvedimenti e, come ancor

oggi accade, è sempre e solo il popolo ad esserne colpito. Tra gli altri, approvati nel giugno del 1868 con l’opposizione com-patta della sinistra - schieramento al quale Pelagalli appartiene - e di qualche rappresentante della destra ed entrati in vigore nel successivo mese di gennaio è da annoverarsi la tristemente nota “tassa sul macinato”, ovvero quella che qualcuno definì una vera e propria tassa sulla miseria. Di certo tra le più impopolari, la sua istituzione genera una reazione che nessuno aveva messo in conto: infatti, nei tumulti che ne derivano, restano uccise oltre 250 persone e ferite oltre un migliaio. Ma si attiva anche una rivolta passiva col rifiuto di pagare la tassa stessa ai mugnai che talvolta sono anche costretti a fermare i contatori posti sulle macine.

Il trasferimento della capitale da Firenze a Roma consente a Pasquale Pelagalli di essere più vicino sia alla famiglia che ad Aquino: viene rieletto, infatti, deputato nelle elezioni del 1870 e, poi, di nuovo, in quelle dell’8 novembre 1874 (XI e XII le-gislatura). Altri anni non facili per l’Italia appena unita, con problemi vecchi e nuovi, alcuni dei quali, come quello del mez-zogiorno, ancor oggi insoluti.

Nelle successive elezioni per la XIII legislatura (20 novembre 1876) il suo avversario, sempre nel collegio di Pontecorvo, è l’avvocato Federico Grossi di Arce. La campagna elettorale viene caratterizzata da toni molto aspri e si svolge senza esclu-sione di colpi. Ed alla fine vince Federico Grossi.

Si conclude così l’attività parlamentare di Pasquale Pelagalli, della quale sappiamo che fece parte di varie commissioni, fu membro della delegazione incaricata dal governo di porgere i propri omaggi alla famiglia reale per la nascita, avvenuta a Na-poli l’11 novembre 1869, del principe Vittorio Emanuele III, futuro re d’Italia, riferì, quale componente la giunta delle ele-

6 Archivio Costantino Jadecola. Carte Pelagalli. Il documento, datato Torino, reca le firme di Vittorio Emanuele II e di Urbano Rattazzi. 7 Francesco DE SANCTIS, Il Mezzogiorno e lo stato unitario. Giulio Einaudi editore. 1960, p. 435. 8 Idem, p. 456. 9 Giustiniano Nicolucci e la sua patria. Comune di Isola del Liri editore. 1971.

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zioni, sulle operazioni elettorali nei collegi di Aosta e Manfredonia, fu autore di alcuni studi in materia di rapporti di lavoro e sulle relazioni tra stato e chiesa quando, all’inizio del 1871, venne discussa prima e approvata poi la cosiddetta legge delle “guarentigie”. Su quest’ultimo argomento disse, tra l’altro: “Un grave dovere sento nella mia coscienza: regolare le relazioni della chiesa con lo stato, garantire l’indipendenza dell’uno e dell’altro senza contraddire a quelle istituzioni comandate dalle nostre leggi”.

Chiamato a dare un suo contributo per un progetto di legge sul lavoro dei fanciulli nelle miniere e nelle fabbriche, scrive che un tal genere di occupazione oltre a deteriorare lo sviluppo fisico dei fanciulli ne abbatte anche la morale. “I lavori nelle miniere e nelle fabbriche sono lavori che debbono essere sopportati da giovani già sviluppati e ben nutriti i quali portano con se non solo valide braccia ma ancora l’intelligenza bene sviluppata in grado di comprendere ciò che fanno (…) L’ingordigia de’ produttori per il risparmio della mano d’opera può condannare delle generazioni alla scrofola (ovvero l’adenite tubercolare che identifica una infezione delle ghiandole linfatiche, in particolare quelle del collo, dovuta al batterio della tubercolosi, nda) ed all’ebetismo facendo lavorare dei corpi teneri e delle tenere menti in luoghi malsani, umidi, oscurii, ecc. ecc. (…) Quindi è che io son di parere che il progetto di legge debba spingersi innanzi perché è di grande beneficio alla classe operaia e merita l’appoggio di quanti sono industrianti onesti e veri amici della dignità e della forza del paese”.

Questo suo contributo è della fine del 1879, quando cioè non è più parlamentare, ma è tornato ad interessarsi alle attività di famiglia, prima fra tutte quella cartiera che suo padre Gaetano aveva fondato nel 1843 e che a quel tempo doveva occupa-re un’ottantina di persone.

Alla Camera, a Firenze prima ed a Roma poi, Pasquale Pelagalli emerse per il vivacissimo ingegno, per l’alto senso di re-sponsabilità che determinò le proprie azioni e per la costante avversità a qualunque specie di monopolio e di privilegio. Di frequente pronunciò discorsi dai quali, se non fece rilevare arte oratoria, al contrario dimostrò di essere di natura schietta e di animo che non si piega a transazione alcuna. Questo, almeno, riferisce qualche biografo più o meno coevo che si è inte-ressato alla sua vita anche se, e non poteva essere diversamente, vi fu chi tentò di screditarne la figura. Secondo Achille Lau-ri, ma anche secondo altri, una cosa è certa: “Portò in ogni suo ufficio quello spirito schietto di ardente patriota e di amore verso il popolo, che era proprio del suo carattere”.

In buone relazioni con alcuni dei maggiori esponenti politici del tempo, oltre Giovanni Nicotera, anche Benedetto Cairoli ed Urba-no Rattazzi, che gli avrebbe offerto la direzione generale delle fer-rovie, però rifiutata, Pasquale Pelagalli deve annoverarsi tra coloro i quali operarono in alta Terra di Lavoro per l’unificazione nazionale. Non a caso è tra coloro i quali - Lorenzo Iaconelli di Picinisco, Al-fonso Visocchi di Atina, Giuseppe Polsinelli di Arpino, Francesco Loffredo e Alessandro Ferrari di Sora, Giustiniano Nicolucci di I-sola del Liri, Federico Iucci di Cassino e [Gaetano] Calcagni di Arce - all’indomani dell’ingresso di Garibaldi a Napoli daranno vita a So-ra ad un governo provvisorio destinato però a durare non più di tanto.

Circa, invece, il suo interesse per il territorio d’origine, al tempo in cui oltre ad essere sindaco di Aquino è anche commissario di quello di Palazzolo, s’interessò, tra l’altro, alla bonifica del territorio non lontano dalle sorgenti di Capo d’acqua reso malsano dalle esalazioni di un basso fondo detto ‘Landa dell’Aspide’.

Ad Aquino, invece, si dedicò alla ristrutturazione dell’assetto urbano e, in particolare, alla realizzazione della piazza princi-pale su un fondo già della famiglia Frattale e da lui permutato con uno di proprietà e quindi donato al comune. I due platani che oggi caratterizzano la piazza sono probabilmente coevi dell’iniziativa cosicché può affermarsi con una qualche sicurezza, anche per dare una risposta a quanti se lo chiedono, che la loro età potrebbe aggirarsi sui 140 anni.

E s’interessa anche al seminario come edificio che potrebbe ospitare gli uffici comunali a quel tempo ubicati in locali mal-sani e insalubri. Scrive: “esistendo nel comune un edificio detto Palazzo Vescovile, dove, peraltro, il Vescovo non è mai sta-to, e che essendo disabitato vada piuttosto anzichenò in deterioramento. Che il piano superiore di questo stabile per la sua disposizione si presterebbe bene all’uso di cancelleria comunale… fino a che il Vescovo non venga effettivamente in Aquino e che il Comune non migliori l’attuale condizione della sua cancelleria.”

Poi, in una successiva lettera (23 aprile 1861) al Governatore della provincia di Terra di Lavoro evidenzia che “questo Pa-lazzo vescovile per anni non è stato abitato da alcun Vescovo, risiedendo tutti in Roccasecca dove esiste il Seminario Dioce-sano. Il Montieri, nei suoi ventiquattro anni di Vescovato è venuto solamente due volte in Diocesi e non ci ha mai pernotta-to. Il Palazzo vescovile dunque è una casa al servizio dei satelliti del Vescovo che ne usano come granile e peggio ancora.”

Ma l’idea di trasferire gli uffici comunali nei locali del seminario deve restare tale anche perché è lo stesso Pasquale Pela-galli ad attivarsi per il ritorno del seminario, quale istituzione, ad Aquino, cosa che accade nella prima metà degli anni ’70, da dove era stato trasferito a Roccasecca verso la metà del 1700.

Pasquale Pelagalli si spegne in Aquino il 19 novembre 1882 a soli 56 anni. All’unanime cordoglio che la sua scomparsa de-sta tra i suoi concittadini e tra le popolazioni della zona si associano i maggiori personaggi politici del tempo. Re Umberto I, in particolare, lo ricorda come “devoto servitore della dinastia”.

La giunta comunale di Castrocielo, dal canto suo, “commossa al triste annunzio e ricordando oltre le sue rare virtù cittadi-ne, i titoli speciali di benemerenza che l’illustre estinto ebbe verso questo Comune, di cui tenne tanto degnamente e con di-

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Costantino JADECOLA, L’on. Pasquale Pelagalli e Aquino nelle pagine del Risorgimento. 19/11/2011 Pagina 6 di 6

sinteresse senza pari l’Amministrazione come Regio Commissario” il 25 novembre, delibera all’unanimità di “intervenite uf-ficialmente alle esequie e deporre sulla tomba di Pelagalli Pasquale una corona civica in attestato di profonda stima e di pe-renne gratitudine, ed in omaggio alle peregrine sue virtù cittadine”10

Il comune di Aquino, per tramandarne la memoria ed in segno di riconoscenza, volle intitolargli la piazza principale. Piaz-za che restò a suo nome sino a quando, dopo l’ultima guerra, il consiglio comunale, il 16 gennaio 194911, non decise che “per rendere omaggio al Gran Santo di Aquino” era “doveroso dedicargli la denominazione della piazza principale”.

Se trentuno anni più tardi lo stesso consiglio comunale, il 5 marzo 198012, riscoprirà il suo nome intitolandogli una delle nuove strade periferiche, di fatto, il nome di Pasquale Pelagalli può dirsi scomparso dalla storia di Aquino tant’è che di lui non si fa cenno alcuno nemmeno nei siti istituzionali.

Ed è anche per questo che l’associazione La Torre ha voluto ricordarlo nel giorno della sua scomparsa, 129 anni dopo, e nel contesto del 150mo di quell’ unificazione nazionale alla quale aveva dato il suo disinteressato e generoso contributo mai pensando che un giorno il paese che gli aveva dato i natali ed al quale era stato fortemente legato gli avrebbe, come dire, vol-tato le spalle.

10 Il Sindaco è Raffaele Abbatecola; gli assessori sono Livio Turco e Giuseppe Marragony; il segretario comunale è Annibale Cerasi. 11 Delibera n. 44. 12 Delibera n. 11.

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