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Corte Costituzionale , 26/6/2002, n. 284

(3) Il canone radiotelevisivo di nuovo dinanzi alla Corte: l'ennesimo capitolo della storia di un tributo controverso.

Giur. cost. 2002, 3, 2062CX1039161

Roberto Borrello

1. Dopo che la guerra del 1866 con l'Austria ebbe comportato, per l'economia italiana, un forte aggravamento del disavanzo del bilancio, fu promulgata il 7 luglio 1868 una legge, fortemente voluta da Cambray-Digne e da Quintino Sella, che stabiliva, a partire dal 1º gennaio 1869, un'imposta di 2 lire ogni quintale di grano macinato, di 1,20 lire per ogni quintale di avena, 0,80 lire per il granturco e la segale e 0,50 lire per gli altri cereali, la veccia e le castagne. Il pagamento doveva avvenire nelle mani del mugnaio, prima del ritiro delle farine e appositi contatori erano applicati alle macine.Contro l'applicazione di tale tributo, conosciuto poi nella storia come «imposta sul macinato», sin dal gennaio 1869 si verificarono agitazioni e rivolte contadine in quasi tutta la penisola, con episodi particolarmente gravi in Emilia. Si calcola che i moti provocarono più di 250 morti e un migliaio di feriti.L'impopolarità dell'imposta raggiunse indubbiamente un picco rimasto storico, segnando il caso limite della possibilità di utilizzo della leva fiscale a fini di risanamento del bilancio in un regime che intende basarsi su di un certo consenso popolare.Le ragioni dell'avversione verso tale tributo appaiono fin troppo evidenti, incidendo esso su bisogni vitali, drammaticamente legati ai già poveri consumi del ceto rurale.Quando allora si pensa alle vicende del c.d. canone radiotelevisivo, si resta interdetti nel cercare di capire come mai susciti altrettanta ostilità, il fatto di colpire con un modesto prelievo la detenzione del moderno Totem iconico, soprattutto in una società che ha conosciuto nella seconda metà dello scorso secolo un forte allargamento del benessere a tutti i suoi strati.Eppure appartiene al notorio l'esistenza di una silenziosa e diuturna «rivolta» contro tale tributo, che si è protratta, fermamente ma pacificamente, per svariati decenni, assumendo i caratteri di una «disobbedienza civile» e cioè «una forma particolare di disobbedienza, in quanto viene messa in atto allo scopo immediato di mostrare pubblicamente l'ingiustizia della legge ed allo scopo mediato di indurre il legislatore a mutarla» (1) .Le pressioni esercitate attraverso, autoriduzioni, autosospensioni ed altre tipiche forme, non hanno sinora trovato risposta da parte delle maggioranze di turno, le quali hanno, anzi, tentato di rafforzare il regime del tributo.Una risposta è invece giunta a livello di magistratura, da parte di alcuni giudici di merito, i quali hanno fornito interpretazioni «restrittive» in ordine alla debenza del tributo od hanno sollevato questioni di costituzionalità intese comunque a rendere inoperante il prelievo.Tali tentativi di avvicinamento allo «spirito popolare», non sono invero stati seguiti dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale, le quali, nell'ambito delle rispettive competenze, hanno trovato una giustificazione alla attuale configurazione giuridica del tributo.Sembrerebbe profilarsi, quindi un conflitto latente tra quello che appare un diffuso sentimento popolare circa una presunta «ingiustizia» del canone, cavalcato a spron battuto, come si osservava, dai giudici di merito e la posizione delle alte giurisdizioni.Sarebbe tuttavia manicheistico e semplicistico ricondurre tale situazione ad una maggiore sensibilità dei giudici della Suprema Corte e della Consulta verso problematiche di «ragion di Stato» connesse al bilancio pubblico.In realtà le ragioni addotte sinora dal versante «alto» della giurisdizione appaiono, ad una analisi tecnica obiettiva, del tutto condivisibili ed anzi coerenti con la tutela di alcuni fondamentali principi

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in tema di garanzia dell'informazione, ben più vitali per la collettività rispetto al modesto sacrificio economico richiesto.L'impressione che si ricava, su di un piano generale, sulle vicende del canone radiotelevisivo è, piuttosto, che la genesi del più sopra menzionato sentimento di ostilità popolare, sia da ricollegare prevalentemente alla difficoltà di percezione corretta, a livello di opinione pubblica, della complessa strutturazione giuridica dell'obbligazione di pagamento del canone, che, non colpisce con la «violenza» corposa dell'imposta sul macinato, ma probabilmente infastidisce proprio per l'intricatezza estrema dei suoi presupposti, con particolare riguardo al collegamento con il servizio pubblico svolto dalla Rai in regime di concessione. Non hanno aiutato ad una giusta informazione negli anni, sotto tale profilo, né i mass media, né gli organi preposti nelle varie sedi ad effettuare la comunicazione istituzionale, venendosi quindi spesso ad ingenerare equivoci e conseguenti malumori presso il pubblico.In questo contesto è giunta l'ennesima decisione della Corte sul canone, che qui si commenta, la quale, nel fornire il proprio contributo sulla ricostruzione della materia, si è in parte collocata in una logica di continuità con la precedente giurisprudenza ed in parte in divergenza.La sentenza n. 284 del 2002, sotto tale punto di vista, nel n. 2 del «Considerato in diritto», ha ritenuto opportuno, prima di ogni cosa, riepilogare quelli che ormai sono da considerarsi punti fermi della materia: 1) la natura tributaria del prelievo; 2) la natura, nell'ambito della tipologia dei prelievi di tipo tributario, di imposta, con conseguenziale esclusione della rilevanza della effettiva fruizione dei programmi della Rai; 3) la riconduzione di tale imposta ad una manifestazione di capacità contributiva sostanziantesi nella detenzione di un apparecchio radiotelevisivo atto od adattabile a qualsivoglia tipo di radioaudizione; 4) la indiscutibile ragionevolezza della manifestazione di capacità contributiva così individuata.Prima allora di esaminare le novità presenti nella sentenza qui in commento, appare opportuno ripercorrere il faticoso e contorto itinerario percorso dalla giurisprudenza di merito, di legittimità e di costituzionalità per giungere alla stabilizzazione dei principi sopra elencati.2. Nel 1963 la Corte, in pieno regime di monopolio pubblico, aveva rigettato la questione concernente la presunta incompatibilità tra la previsione di sanzioni penali per il mancato pagamento del canone ed il preteso regime contrattuale intercorrente tra amministrazione e privati (2).Prendendo posizione sulla querelle della natura civilistica o tributaria dell'obbligazione di corrispondere il canone, prevista dal r.d.l. 21 febbraio 1938 n. 246, convertito con la l. 4 giugno 1938 n. 880, i giudici della Consulta avevano, all'epoca, optato per la connotazione tributaria, senza tuttavia ancora entrare nella ulteriore specificazione, nell'ambito di tale vasto settore, della natura di tassa od imposta (3).Ciò che era stata sottolineata era, più che altro, la dimensione decisamente pubblicistica entro la quale orbitavano la Rai ed i detentori di apparecchi atti od adattabili alla ricezione di radioaudizioni, per i quali ultimi l'obbligazione non sorgeva sulla base dell'espressione di una volontà negoziale, ma della oggettiva situazione di potenziale fruizione di un servizio di interesse generale, non frazionabile in una logica pluripersonale, con conseguenziale sussistenza di meri interessi semplici riguardo le prestazioni in cui tale servizio si sostanziava (4).Negli anni settanta avveniva la rottura del monopolio pubblico attraverso il riconoscimento da parte della Corte della possibilità di iniziativa privata nel settore della ripetizione dei programmi dall'estero e della televisione via cavo (sentt. nn. 225 e 226 del 1974).Tale novità vide l'immediato intervento del legislatore che, per sgombrare il campo da ogni equivoco, stabilì, nell'ambito della legge di riforma del sistema radiotelevisivo (art. 15, l. 14 aprile 1975 n. 103), che il canone era dovuto anche in connessione alla ricevibilità di programmi diffusi via cavo o ripetuti dall'estero.Dopo un periodo di relativo torpore, durante il quale il dibattito si era mantenuto a livello accademico, con tentativi di riproposta della tesi sinallagmatica-civilistica (5), gli anni ottanta videro l'inizio della rivolta.

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I protagonisti della vicenda, consumatasi giudiziariamente nell'ambito del distretto della Corte app. di Torino, erano degli abitanti del Comune di Marcheno che avevano proposto opposizione (con una serie di ricorsi riuniti in gruppi distinti di giudizi) avverso talune ordinanze-ingiunzioni emanate dall'URAR, allegando la mancata ricezione nella zona di residenza delle trasmissioni irradiate dalla RAI per mancanza di ripetitori idonei, quale fatto estintivo della debenza del canone.I giudici torinesi, a livello di Tribunale, adottarono, a favore di tali opposizioni, diverse strade nell'ottica della «neutralizzazione» del canone radiotelevisivo.In un primo tempo, con riferimento ad uno dei giudizi, fu sollevata nel maggio 1982 questione di costituzionalità degli artt. 1, 10 e 25 del r.d.l. n. 246 del 1938 in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui stabiliscono che l'obbligo di pagare il canone sorge per il sol fatto della detenzione dell'apparecchio radiotelevisivo, a nulla rilevando che sia in concreto possibile ricevere i programmi della RAI (6).In un secondo momento, il Tribunale decise nel merito gli altri giudizi tra la fine del 1982 ed il 1984, accogliendo le opposizioni(7).Le sentenze adottate avevano scelto due strade differenti per giungere all'annullamento delle ingiunzioni fiscali.La prima (8) era caratterizzata dalla surrettizia reintroduzione della più volte menzionata logica di tipo sinallagmatico-privatistico, attraverso la prospettazione della necessità di una fruizione "effettiva" ed "individualizzata" del servizio RAI da parte del detentore d'apparecchio radiotelevisivo.Si è usata la parola «surrettizia», in quanto i giudici torinesi avevano evitato accuratamente di incamminarsi sulla perigliosa strada civilistica «pura» ed avevano accettato l'ormai consolidata logica pubblicistica. Tale logica, tuttavia, aveva visto la riscoperta (9) della natura di "tassa" del canone, sulla base della quale si argomentava che la mancata, effettiva, ricezione delle trasmissioni RAI da parte del singolo detentore dell'apparecchio radiotelevisivo ex art. 1 r.d.l. n. 246 del 1938 lo avrebbe esentato dal relativo obbligo di pagamento ancorché tale norma prendesse in considerazione la mera detenzione dell'apparecchio. Fu utilizzato al riguardo, in modo tecnicamente improprio, il termine di «detenzione qualificata», volendo significare che la relazione tra l'obbligato ed il bene doveva ritenersi integrata, ai fini dell'insorgenza del tributo, da una circostanza di fatto ben precisa: la presenza nella zona, dove l'apparecchio era detenuto, di emissioni televisive della RAI.La seconda strada argomentativa (10) appariva invece più attenta all'evoluzione realizzatasi nel quadro normativo rispetto alla legislazione della fine degli anni trenta, tenendo in particolar modo conto di quell'art. 15 della l. n. 103 del 1975, che, come si ricordava, aveva imposto il pagamento del canone anche in caso di semplice ricezione di trasmissioni via cavo e ripetute in Italia dall'estero.Il Tribunale aveva riconosciuto a tale norma una portata «innovativa», idonea a ridisegnare la disciplina giuridica dei presupposti dell'obbligazione, che risultavano ormai svincolati dall'univoco collegamento con il servizio pubblico della Rai, essendo rilevante anche la possibilità di ricezione delle trasmissioni effettuate da soggetti diversi.Applicando tale criterio, i giudici torinesi erano tuttavia giunti alla conclusione che non sussisteva la prova che, nel periodo in contestazione, nella zona in cui erano detenuti gli apparecchi televisivi degli opponenti, si fossero realizzate le condizioni di potenziale ricevibilità delle trasmissioni dall'estero o via cavo, oltre che quelle della Rai e pertanto accolsero le opposizioni.Tutte le sentenze furono appellate dalla Rai.Nel costituirsi in giudizio nell'appello avverso la sentenza del 1984 che aveva riconosciuto la portata innovativa dell'art. 15 della l. n. 103 del 1975 (pur poi accogliendo le opposizioni), gli opponenti, comprendendo la pericolosità dell'entrata in campo di tale norma, ne eccepirono, sia pure in via subordinata, l'illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 21 e 23 Cost.La Corte d'appello di Torino a questo punto pose in essere una anomala decisione di sospensione del giudizio senza remissione della questione di costituzionalità, dichiarando di volere attendere

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l'esito del giudizio di costituzionalità promosso dal Tribunale di Torino nel 1982 ed ancora pendente (11).La stessa sconcertante decisione fu poi adottata (12) nell'ambito del giudizio riguardante un'altra sentenza del 1984 nella quale si era invece utilizzata la logica della detenzione «qualificata».Tale situazione di stallo che costituì il culmine della guerra contro il canone, fu interrotta dall'intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 535 del 1988, con la quale fu dichiarata inammissibile la questione sollevata nel 1982 dal Tribunale di Torino.In tale sentenza i giudici della Consulta valorizzarono a pieno l'intuizione del Tribunale di Torino circa la portata dell'art. 15 comma 2 della l. n. 103 del 1975, procedendo ad una storicizzazione dei termini della questione.Secondo la Corte, infatti, il problema andava inquadrato distinguendo nettamente tra il periodo antecedente alla l. n. 103 del 1975 e quello susseguente.Nel primo periodo, in cui aveva vigenza la sola normativa del 1938, escludendo senz'altro il carattere di corrispettivo contrattuale, si poteva ben ipotizzare la natura di tassa del canone.In relazione a tale natura, appariva rilevante la circostanza che la pubblica amministrazione non avesse per nulla previsto l'erogazione del servizio in una certa, zona, «al punto da non avere messo nemmeno in opera gli impianti...». In tal caso, ritenne la Corte, «davvero sembrerebbe irragionevole la pretesa di un tributo che, per essere una tassa non può prescindere - come si è rilevato - da una sua relazione con un atto dell'autorità che apporti al privato almeno il vantaggio della mera possibilità d'uso del servizio» (13).Tuttavia, tale ragionamento, sempre secondo la Corte, sarebbe stato messo in crisi dall'entrata in vigore dell'art. 15 della l. 14 aprile 1975 n. 103, che nel suo secondo comma prevedeva, come più volte si è ricordato, la debenza del canone anche in relazione alla ricevibilità delle trasmissioni dall'estero e via cavo.Ciò, veniva sottolineato nella sentenza, faceva sì che non si trattasse più della «mera possibilità di uso del servizio fornito dallo stato italiano, perché in grazia di quella norma la considerazione deve allargarsi anche alla possibilità di fruire dei servizi forniti dagli stati esteri, ed oggi si può soggiungere, dalle emittenti private» (14).A questo punto la Corte, sulla base della constatazione dell'ormai avvenuta cesura tra il tributo ed il servizio pubblico, evidenziò come fosse ormai dubbia la natura di tassa. Occorreva quindi rivedere la categoria classificatoria, partendo dal presupposto che l'imposizione fiscale era stabilita in assenza di uno specifico «atto vantaggioso per il singolo dell'autorità» e facendosi quindi riferimento a servizi generali, in ordine ai quali si entrava nel «vasto campo dei tributi "imposte"»(15).In ordine a tali «servizi generali», svolti in modo indivisibile nell'interesse di tutta la collettività la Corte accennava alla attività di «polizia» ed «amministrazione dell'etere di cui lo Stato è sovrano», fotografando efficacemente una funzione già in atto da tempo, ma che veniva esaltata in presenza di nuovi soggetti, altri dal pubblico non più operatore esclusivo.Appariva in quel momento storico, quanto mai chiaro (16), quantunque taluno ne dubitasse (17) come l'etere, bene scarso in natura, fosse in effetti soggetto a necessaria attività di "polizia" statale, sia per impegni di natura pattizia-internazionale, sia per aspetti di sovranità interna della sede di estrinsecazione dell'attività di diffusione di tipo circolare di onde hertziane,Lo Stato, con riferimento a questo che possiamo considerare un vero e proprio "settore ad attività limitata" ovvero "ordinamento settoriale" che dir si voglia, estrinsecava una serie di attività intese, da un lato, ad organizzare il servizio pubblico propriamente detto (concessione a società privata di rilevante interesse nazionale) e, dall'altro, pianificava le forme di espansione controllata dell'iniziativa privata nei vari settori in cui essa era riconosciuta. Si poteva quindi al riguardo parlare di un "servizio" reso nell'interesse della collettività con riferimento al governo di un bene pubblico che è sostrato materiale di un mezzo di diffusione dei pensiero ex art. 21 Cost. e di forme di iniziativa economica ex art. 41 Cost.Come soggetti coinvolti a livello di benefici da tale servizio erano ricompresi coloro che detenevano

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apparecchi in grado di ricevere tutte le emissioni rese possibili grazie all'intervento statale e che era giusto che contribuissero al suo finanziamento (va rilevato che bene pubblico è anche, sotto tale profilo, il sottosuolo dove corrono i cavi delle televisioni che tale mezzo utilizzano). Per tornare al discorso effettuato in precedenza, si poteva quindi ritenere che l'acquisto di un apparecchio radiotelevisivo fosse la freccia indicatrice dell'appartenenza di un certo soggetto a quel gruppo diffuso di destinatari aspecifici e globalmente considerati del servizio summenzionato.3. Nella sentenza ora esaminata, la Corte aveva quindi dichiarato inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Torino nel 1982, in quanto il giudice a quo aveva omesso di richiedere il giudizio anche su di una norma (l'art. 15 della l. n. 103 del 1975) che appariva essenziale per ricostruire l'ordito normativo complessivamente rilevante.A questo punto la Corte d'appello di Torino, sollecitata a riscuotersi dal suo letargo, essendo venuta meno la ragione della sospensione dei due giudizi sopra ricordata, decise di imboccare la strada prospettata dalla Consulta, sollevando la questione, con l'opportuna estensione del petitum alla declaratoria di incostituzionalità della citata norma (18). Preso atto ormai dell'impossibilità di collegare tributo ed effettuazione del servizio pubblico, il giudice a quo invocò in quell'occasione il parametro rilevante per le imposte: la capacità contributiva ex art. 53 Cost.La Corte intervenne questa volta con ordinanza ed escluse recisamente la violazione dell'art. 53 Cost., essendo la mera detenzione dell'apparecchio radiotelevisivo ragionevole indice di capacità contributiva, sostanziandosi quest'ultima nell'idoneità ad eseguire la prestazione imposta, correlata non già alla concreta capacità del singolo contribuente, bensì al presupposto economico al quale l'obbligazione è collegata (19).Nella decisione, tuttavia, non si prendeva in modo deciso posizione sulla natura del tributo, venendo svolto il ragionamento sulla capacità contributiva, sulla prospettazione ipotetica della natura di imposta («Anche a voler considerare il canone di abbonamento radiotelevisivo come un'imposta»).A mettere una pietra tombale sui giudizi di costituzionalità originatisi a seguito della «rivolta» di Marcheno ci pensò infine l'ordinanza n. 499 del 1989 che dichiarò seccamente «già decise come non fondate e manifestamente infondate» ulteriori questioni che erano state sollevate nel contempo dal Tribunale di Torino con ordinanze del 9 dicembre 1988.A questo punto, la Corte di appello di Torino, nel riprendere il giudizio a quo, non solo si conformò alla decisione della Corte sul piano degli ormai ampliati presupposti dell'obbligazione tributaria, ma prese decisamente posizione sulla natura del tributo stesso, attribuendo ad esso quella qualifica di imposta che la Corte costituzionale aveva prospettato solo in via ipotetica (20).La disfatta degli oppositori del canone fu infine completata, negli anni successivi dalla Cassazione che, con due decisioni, confermò la ormai consolidata linea interpretativa, sancendo che «La giustificazione per l'esistenza del tributo si trova in riferimento alla polizia ed all'amministrazione dell'etere su cui lo Stato è sovrano» (21).4. La sentenza n. 284 del 2002, come si accennava all'inizio, ha dovuto affrontare nuovi profili di pretesa incostituzionalità del canone.In verità, la questione sollevata con ordinanza 11 maggio 2001 dal Tribunale di Milano, riguardava anche, marginalmente, il problema del collegamento della detenzione dell'apparecchio radiotelevisivo con la effettiva fruizione dei programmi della Rai, cercando di sollecitare l'attenzione della Corte non solo sul fatto che il tributo era dovuto anche in caso di ricezione impossibile, ma anche sulla circostanza che il canone determinerebbe una disparità di trattamento anche rispetto a chi si avvale di nuove tecnologie, come Internet, per ricevere le trasmissioni.La Corte ha liquidato sbrigativamente tali censure (22) sulla scorta della consolidata giurisprudenza sopra ricordata, aggiungendo, in ordine al problema della ricezione di trasmissioni in forma diversa dalle onde elettromagnetiche, che è mera questione «interpretativa» della legge cosa debba intendersi per «apparecchio radiotelevisivo», la cui semplice detenzione, a prescindere da ciò che concretamente si riceve, fa scattare l'obbligazione tributaria.In realtà l'aspetto importante dell'ordinanza di rimessione era quello che richiedeva alla Corte una riflessione concernente gli artt. 1, 10 e 25 del r.d.l. n. 246 del 1938 e gli artt. 15 e 16 della l. n. 103

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del 1975, per contrasto con gli artt. 2, 3, 9 e 21 Cost.Tale riflessione concerneva la legittimità costituzionale della scelta legislativa di destinare i proventi del canone, imposto ai detentori di apparecchi radiotelevisivi, alla sola Rai. Tale scelta, secondo il giudice a quo, appariva in contrasto con i principi costituzionali in materia di promozione dello sviluppo della cultura e di libertà di manifestazione del pensiero, per un duplice ordine di ragioni: a) la natura di servizio pubblico essenziale e di carattere di preminente interesse generale dell'attività radiotelevisiva, determinava l'incostituzionalità della scelta di addossare a singoli soggetti (i detentori di apparecchi televisivi) il costo di un'attività che doveva essere invece finanziata con le entrate generali; b) la circostanza che la Rai, dopo la rottura del monopolio svolgeva un'attività del tutto omogenea rispetto ai soggetti privati, apparendo quindi un irragionevole privilegio attribuire solo ad essa quasi tutti i proventi del canone.La Corte ha ritenuto infondati entrambi i profili sopra individuati.Sul primo profilo ha rilevato come non vi sia «alcuna incompatibilità tra il carattere di interesse generale del servizio pubblico radiotelevisivo e l'imposizione di una prestazione economica, nella specie collegata alla detenzione di apparecchi radiotelevisivi, diretta a finanziare detto servizio».In ordine alla qualificazione di tale prestazione economica la Corte ha compiuto un nuovo passo avanti nel tormentato cammino percorso sino ad ora, che ha visto la sequenza: prestazione tributaria in senso generico, tassa, imposta in senso generico. È stato infatti ora aggiunto un aggettivo (di scopo o speciale) al punto di arrivo della precedente giurisprudenza e cioè l'imposta.L'idea dell'imposta speciale o di scopo - e cioè, per quel che è dato di capire, una forma di prelievo tributario che, senza ricollegarsi direttamente all'effettivo svolgimento di un servizio pubblico (come la tassa), possiede una destinazione specifica e predeterminata, senza quindi affluire nel calderone delle entrate generali, da ripartire successivamente e secondo valutazioni di volta in volta diverse (23) - ha in realtà sempre aleggiato nella vicenda del canone radiotelevisiva, alla stregua di un convitato di pietra.Tutto sommato anche nella più sopra esaminata sentenza n. 535 del 1988, la Corte evidenziava la necessaria e specifica destinazione del canone verso un servizio pubblico, generale ed indivisibile, (la polizia dell'etere) in una logica che sembrava proprio quella sopra descritta.Una parte della dottrina (24) ha in verità insistito all'epoca piuttosto sulla natura di imposta di consumo del canone, anche in connessione al collegamento della capacità contributiva con la detenzione dell'apparecchio, quale manifestazione di ricchezza espressa in relazione, appunto ad un bene di consumo. Al di là delle riserve, che tale impostazione comportava nei confronti della disciplina dell'imposta sotto il profilo di una sua adeguata differenziazione in ordine alla numero, al tipo ed alla qualità degli apparecchi detenuti(25), ciò che ai nostri fini preme sottolineare è che sia la nozione di imposta di consumo, sia quella di imposta di scopo, portano alla fine al medesimo risultato: l'ormai avvenuto distacco da qualsivoglia, anche lontano, collegamento giuridico con il servizio pubblico. L'utilizzo del tributo ai fini del finanziamento del servizio pubblico si configura, infatti, come elemento autonomo rispetto ad un rapporto giuridico che intercorre esclusivamente tra lo Stato e chi abbia consumato reddito per acquistare un televisore o che comunque sia in relazione con tale bene, che, solo per tale circostanza, è chiamato a concorrere ex art. 53 Cost., alle spese pubbliche.In altri termini le «spese pubbliche» a cui è riferito il concorso, sono una nozione generica nella logica dell'imposta, nozione che in ordine alle vicende dell'obbligazione tributaria fa sì che non abbia alcun rilievo a quali, tra le tante spese pubbliche, sia destinato il gettito. Anzi, a tale riguardo, si è osservato nella dottrina tributaristica come il carattere divisibile od indivisibile (26) del servizio a cui l'imposta è destinata diventa del tutto indifferente, anche laddove, come appunto nel caso dell'imposta di scopo, la legge predetermina la destinazione (27).L'assoluta estraneità della destinazione del canone radiotelevisivo, rispetto alle vicende dei presupposti della sua debenza, avrebbe invero dovuto portare, come la difesa della Rai dinanzi alla Corte aveva eccepito, ad una declaratoria di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, o quantomeno per difetto di motivazione sulla rilevanza, dato che il giudice a quo non aveva

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chiarito in che modo le norme sulla destinazione del gettito del canone (in particolare gli artt. 15 e 16 della l. n. 103 del 1975) potessero ricollegarsi alla situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio dall'opponente.La Corte non ha neanche incidentalmente preso in considerazione tale pregiudiziale, confermando la ben nota flessibilità in tema di rilevanza quando appare necessario prendere una posizione in merito a questioni delicate e scottanti (28). Che il canone appartenga a tale novero appare, anche per quanto sopra si osservava, del tutto indubitabile.Su tale base la netta presa di posizione sulla natura giuridica del canone, quale imposta di scopo (aspetto il cui approfondimento tecnico viene a questo punto lasciato agli esperti della materia) sottolinea tale esigenza di fare chiarezza sulla materia, uscendo dalla vaghezza delle sentenze precedenti, anche tenendo conto delle possibili conseguenze pratiche di tale qualificazione(29).Oltre a tale esigenza chiarificatrice, la maggiore «temerarietà» della Corte nell'azzardare definizioni, può ricollegarsi alla circostanza che la disciplina del canone ha ricevuto dal 1990 in poi ulteriori caratterizzazioni che hanno conferito una fisionomia con contorni più coerenti e nitidi rispetto a quella scaturente dalla normativa degli anni trenta e del 1975.Dopo che già nel 1975, l'art. 15 della l. n. 103 espressamente aveva previsto il gettito del canone quale mezzo di copertura, unitamente alla pubblicità, del fabbisogno finanziario della concessionaria pubblica, tale stretto collegamento tra dinamiche finanziarie della Rai e canone fu confermato e ampliato nel 1993, in occasione dell'adozione di una normativa tampone di riforma della Rai (30). Fu stabilito in quella sede che la convenzione tra Rai e Stato dovesse essere integrata, ogni tre anni, da un contratto di servizio nel quale si sarebbero individuati i criteri in base ai quali il Ministero (all'epoca) delle Poste e Telecomunicazioni avrebbe fissato l'adeguamento annuale del sovrapprezzo dovuto dagli abbonati ordinari alla televisione, nonché delle varie forme di canone di abbonamento speciale.Tali criteri erano basati sui «parametri di produttività, su obiettivi di qualità del servizio, nonché su ulteriori indicatori economico-finanziari e di gestione aziendale e non potevano comunque determinare un adeguamento superiore al tasso di inflazione programmata» (31).Tale situazione, come sottolinea la Corte, è stata ulteriormente evidenziata dalla successiva scelta legislativa attuata dall'art. 27 comma 8 della l. 23 dicembre 1999 n. 488, il quale ha stabilito che il canone radiotelevisivo è attributo per intero alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, ad eccezione ormai, soltanto, della modestissima quota spettante all'Accademia di Santa Cecilia (32).A tale proposito la Corte ha affermato che «proprio l'interesse generale che sorregge l'erogazione del servizio pubblico può richiedere una forma di finanziamento fondata sul ricorso allo strumento fiscale» (33). A tale stregua, si è attuata come una sorta di rotazione del punto di osservazione, che non parte più dalla posizione del detentore di apparecchi radiotelevisivi, per valutare se l'obbligo di corrispondere il canone si interconnetta ragionevolmente in forma solidaristica, commutativa o paracommutativa, come dicono i tributaristi, con il servizio pubblico, ma viceversa, parte dal servizio pubblico radiotelevisivo per ricostruire il canone come mezzo univocamente finalizzato a realizzarne i bisogni economico-finanziari.Nella prima angolazione, caratterizzante la precedente giurisprudenza, la Corte ha cioè visto il servizio pubblico sullo sfondo, quale elemento di un quadro che vedeva al centro il contribuente. Nella seconda angolazione, propria della sentenza qui in commento, la Corte ha invece dato una posizione di primo piano al servizio pubblico - attuativo di valori fondanti, quali l'informazione obiettiva ed imparziale al fine della libera formazione dell'opinione pubblica - rispetto al quale, il ruolo del contribuente è quello di compartecipante alla sua realizzazione sul piano economico, in un'ottica che diviene, prima di ogni cosa, quella dell'art. 2 Cost., riguardato sotto il profilo dell'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà e come tale, specificato dall'art. 53 Cost., che viene in considerazione non già nella sua valenza garantistica, ma appunto come espressione del principio di doveroso concorso, attraverso la corresponsione delle imposte, a quelle spese pubbliche che assicurano la realizzazione dei plinti su cui si edifica la società democratica.

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Nel contesto qui tracciato, appare allora interessante evidenziare come la Corte abbia ormai abbandonato la strada tracciata tra il 1988 ed il 1989 del riferimento, nell'ottica (ancora criptica) dell'imposta di scopo, al finanziamento del servizio pubblico di «polizia ed amministrazione dell'etere».Il servizio pubblico a cui è finalizzata l'imposta è, come si è visto, solo ed esclusivamente quello svolto dalla concessionaria pubblica e che si sostanzia in alcuni profili prettamente contenutistici attinenti a processi comunicativi di pensiero, di particolare qualità e pregnanza per la collettività.L'individuazione delle peculiarità di tali processi è stato oggetto della seconda parte delle argomentazioni della Corte, intese a confutare la tesi, sostenuta dal giudice a quo, secondo la quale l'attività svolta dalla Rai sarebbe omologa a quella dei privati.A tale riguardo la presa di posizione della Corte è stata netta ed estremamente efficace, nel rivendicare un ruolo autonomo ed ancora attuale del servizio pubblico nel settore radiotelevisivo.Nella sentenza (34) viene ricordato innanzitutto che è l'art. 1 della l. n. 223 del 1990 e non l'art. 1 della l. n. 103 del 1975, erroneamente indicato dal giudice a quo, a qualificare l'attuale posizione della concessionaria pubblica. La seconda delle due disposizioni menzionate riguardava infatti l'epoca del monopolio pubblico nell'ambito della diffusione radiotelevisiva circolare via etere, laddove è la prima che giustifica e definisce la presenza del servizio pubblico all'interno di un sistema configurato, ormai anche formalmente (35), come misto, in connessione alla presenza di soggetti privati, sia a livello nazionale che locale.Tale disposizione, ha ricordato la Corte, individua (comma 2) innanzitutto i principi fondamentali propri dell'attività radiotelevisiva da chiunque esercitata, consistenti, a fronte del «carattere di preminente interesse generale», nel «pluralismo, nell'obiettività, nella completezza e nell'imparzialità dell'informazione, nonché nell'apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione».Tuttavia, tali principi, ha notato sempre la Corte, vengono realizzati, sempre in base alla menzionata disposizione, con il concorso di soggetti pubblici e privati (ancora comma 2).Questo, quindi, significa che gli obiettivi fondamentali così individuati, connessi indubbiamente alla ottimale diffusione di prodotti del pensiero, sono attuati secondo ruoli diversi da ciascuna delle due categorie di soggetti considerati.Questa netta differenziazione si è tradotta sotto un profilo organizzativo nella esplicita previsione nella legge del 1990 di un servizio pubblico radiotelevisivo affidato mediante una certa forma di concessione (art. 2 comma 2) ad una società per azioni a totale partecipazione pubblica, e di una attività denominata «radiodiffusione di programmi radiofonici e televisivi», che viene affidata a soggetti privati sulla base di una diversa tipologia di concessione (art. 16).Viene quindi evidenziato nella sentenza n. 284 del, 2002, come il servizio pubblico in tale contesto, sia chiamato ad attuare i principi fondamentali sopra individuati in forma diversa qualitativamente rispetto ai soggetti privati, la cui sostanza viene individuata dalla Corte in quanto contenuto nell'art. 1 della l. n. 103 del 1975, ancora in vigore. quindi. specificamente e solamente per il servizio pubblico. Soddisfare il diritto dei cittadini all'informazione, diffondere la cultura. ampliare la partecipazione dei cittadini, concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese, sono quindi, nella visione della Corte, compiti esclusivi del servizio pubblico, trasfusi nella concessione e nelle convenzioni allegate, che ne legittimano l'esistenza e ne segnano indelebilmente l'attività (36).In questa ottica si giustifica ed appare pienamente ragionevole, la previsione di una fonte certa di finanziamento, basata sul prelievo di tipo tributario, che, a fronte della indefettibilità dei fini sopra individuati, assicura la stabilità del loro perseguimento, affrancando, almeno parzialmente, la concessionaria del servizio pubblico dalla realtà del mercato radiotelevisivo, «di fatto condizionata dalla quantità degli ascolti», evitando quindi che la programmazione sia piegata «alle sole esigenze quantitative dell'ascolto e delle raccolta pubblicitaria» e non si omologhi alle scelte «proprie dei soggetti privati che operano nel ristretto ed imperfetto "mercato" radiotelevisivo».Le parole della Corte da un lato fanno opportuna chiarezza, attraverso un efficace ricognizione della disciplina vigente, in ordine ai troppi tentativi di negare un autonomo ruolo al servizio pubblico nel

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sistema misto e dall'altro risuonano come un rappel a l'ordre, nei confronti di una Rai che nella realtà dei fatti appare (in verità, precipuamente per l'anomalia del sistema radiotelevisivo italiano), schiava degli ascolti e, quindi, al contrario di ciò che la Corte descrive come comportamento «modello» del servizio pubblico, disposta a sacrificare la qualità dei programmi sull'altare della raccolta pubblicitaria.Emerge infatti, l'esigenza della restituzione al servizio pubblico di una dignità di ruolo che, non potendo più avere le caratteristiche monolitiche dell'epoca del monopolio, deve nondimeno individuare quella specificità che, nel quadro della logica aberrante di concorrenzialità scaturita nell'anomalo duopolio che caratterizza il nostro sistema radiotelevisivo, sembra essere quasi scomparsa, verificandosi una preoccupante omologazione tra il prodotto radiotelevisivo del settore pubblico e di quello privato.In particolar modo le caratteristiche del prodotto radiotelevisivo pubblico devono differenziarsi da quelle dei privati, secondo una direttrice che vede nel servizio pubblico il garante di quelle prestazioni che non possono essere assicurate dalle regole del mercato, secondo un obiettivo di «qualità» (37) .Le affermazioni della Corte appaiono quindi di estrema importanza, a fronte di un dibattito politico e dottrinario iniziato negli anni novanta che ha ingenerato numerosi equivoci e fraintendimenti in ordine, rispettivamente, alle possibili linee di una riforma del servizio pubblico ed alla corretta focalizzazione dell'effettivo significato del concorso dei soggetti privati alla realizzazione dei principi propri del sistema radiotelevisivo nella sua globalità.5. Quanto al primo aspetto, il servizio pubblico è stato messo ed è tutt'ora in discussione sia a livello interno, sotto il profilo della sua perdurante legittimazione nel sistema misto e nel quadro della riforma federalista del tipo di Stato, sia a livello del processo di integrazione comunitaria.La novità più recente, per quanto riguarda il livello interno, è costituita dall'avvenuta approvazione in Consiglio dei ministri e successiva presentazione al Parlamento di un disegno di legge recante «Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della società RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a. e delega al Governo per l'emanazione del Codice della radiotelevisione».Tale disegno di legge, che qui viene esaminato in modo necessariamente sintetico, affronta un po' tutti gli snodi problematici che hanno caratterizzato il sopra menzionato dibattito sul servizio pubblico, dalla privatizzazione al finanziamento, prendendo posizione pregiudizialmente in ordine alla definizione della nozione stessa di servizio pubblico.Un ruolo cruciale è assunto a tale ultimo proposito dall'art. 6, il quale, premettendo che l'attività di informazione radiotelevisiva, da qualsiasi emittente esercitata, costituisce un pubblico servizio (ed è svolta nel rispetto di una serie di principi di seguito elencati), afferma che la legge «individua gli ulteriori e specifici compiti di pubblico servizio che la società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo è tenuta ad adempiere nell'ambito della sua complessiva programmazione, anche non informativa, al fine di favorire l'istruzione, la crescita civile ed il progresso sociale, di promuovere la lingua italiana e la cultura, di salvaguardare l'identità nazionale e di assicurare prestazioni di utilità sociale».Nel riservarci di tornare nel paragrafo seguente sul problema della qualificazione dell'attività svolta dai soggetti privati come «servizio pubblico», sembrerebbe che sia correttamente individuata dalla legge, sulla base delle considerazioni che si sono svolte più sopra, il ruolo tipico di quello che, con una per certi versi comica inversione di aggettivi, si definisce il «pubblico servizio».Tale sensazione appare meno sicura quando, tuttavia si va a verificare secondo quale formulazione organizzativa tale «pubblico servizio» si vorrebbe attuare.A tale proposito il progetto prevede la totale privatizzazione della Rai, portando a compimento un certo disegno perseguito da talune parti politiche sin dall'effettuazione del referendum che l'11 giugno 1995 ha portato all'abrogazione della normativa che riservava alla mano pubblica la titolarità delle azioni della società concessionaria. Tale evento aveva dato origine ad un acceso dibattito in un primo tempo sugli effetti immediati di tale abrogazione ed in un secondo tempo su possibili

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interventi legislativi attuativi di tali effetti.La dottrina prevalente aveva comunque fissato alcuni paletti, al riguardo, ponendo in evidenza che le forme di partecipazione al capitale societario non potessero giungere fino a consentire alla mano privata un effettivo controllo della direzione aziendale, non potendo che essere garantita dalla mano pubblica la predisposizione di quei contenuti tipici del servizio radiotelevisivo stabiliti in linea di direttiva dal Parlamento (38).Il progetto Gasparri prevede entro il 31 gennaio 2004 il collocamento sul mercato azionario della partecipazione statale alla Rai, con il solo limite del possesso azionario dell'uno per cento delle azioni aventi diritto di voto. Sono, inoltre, vietati i patti di sindacato di voto o di blocco, o comunque gli accordi relativi alla modalità di esercizio dei diritti inerenti alle azioni della società RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a., che intercorrano tra soggetti titolari, anche mediante soggetti controllati, controllanti o collegati, di una partecipazione complessiva superiore al limite di possesso azionario del due per cento, riferito alle azioni aventi diritto di voto, o la presentazione congiunta di liste da parte di soggetti in tale posizione. Tali clausole sono di diritto inserite nello statuto della società, non sono modificabili e restano efficaci senza limiti di tempo.Su tale base, il consiglio di amministrazione viene eletto dall'assemblea dei soci (art. 18), tra soggetti aventi requisiti particolarmente vaghi (oltre che ai soggetti aventi i requisiti per la nomina a giudice costituzionale ai sensi dell'art. 135, comma 2 della Costituzione, anche «persone di riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinti in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali».Tale soluzione organizzativa, da public company, lascia a prima lettura estremamente perplessi, finendo per legittimare, dietro una apparente democraticità, l'autoreferenzialità dei dirigenti (39).Sempre sul piano organizzativo il disegno di legge sembra voler bloccare il meccanismo previsto dalla c.d. legge Maccanico (la n. 249 del 1997) che prevedeva un ridimensionamento delle reti pubbliche sul mercato, attraverso la trasformazione di una di esse in rete priva di proventi pubblicitari (40). Tale evenienza, come è noto, non si è ancora realizzata, in quanto politicamente (ma non giuridicamente) collegata con l'invio sul satellite di una delle tre reti Mediaset (41), evento ancora non realizzatosi e, alla stregua del disegno di legge, non più realizzabile (42).Altre sollecitazioni al servizio pubblico (o si dovrebbe dire «pubblico servizio»?) provengono, come si accennava, dal processo di trasformazione del tipo di Stato avviato nel 2001.Dopo una parziale forma di devoluzione, attuata attraverso organi regionali (CORERAT e CORECOM di cui alla l. n. 223 del 1990 ed alla l. n. 249 del 1997), tramontato il d.d.l. n. 1138 che all'art. 8 comma 4 prevedeva una sia pur vaga apertura alle Regioni nel processo gestionale del servizio pubblico, quantomeno sul piano finanziario (43), si assiste allo stato attuale, ad un deciso ingresso delle Regioni nel campo della legislazione in materia di «ordinamento della comunicazione», oggetto di potestà di tipo concorrente (44) ai sensi dell'art. 117 Cost. novellato, che il progetto Gasparri, intende rendere operativa, predisponendo i principi cornice nell'art. 14, in tema di delega al Governo per l'emanazione del Codice della Radiotelevisione. Sono previsti in tale contesto, anche principi riguardanti l'incisione della potestà regionale sul servizio pubblico sostanziantesi in: 1) definizione, da parte della legislazione regionale, degli specifici compiti di pubblico servizio che la società concessionaria del servizio pubblico generale di radiodiffusione è tenuta ad adempiere nell'orario e nella rete di programmazione destinati alla diffusione di contenuti in ambito regionale o, per le province autonome di Trento e di Bolzano, in ambito provinciale; 2) attribuzione alle regioni ed alle province autonome di Trento e di Bolzano della legittimazione a stipulare, previa intesa con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, specifici contratti di servizio con la società concessionaria del servizio pubblico generale di radiodiffusione per la definizione degli obblighi di cui alla lettera e), nel rispetto della libertà di iniziativa economica della società concessionaria anche con riguardo alla determinazione dell'organizzazione dell'impresa.Ulteriori principi fondamentali relativi allo specifico settore dell'emittenza in ambito regionale o provinciale possono essere ricavati, secondo la disposizione in esame, dalle disposizioni legislative

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vigenti alla data di entrata in vigore della legge, in materia di emittenza radiotelevisiva in ambito locale, comunque nel rispetto dell'unità giuridica ed economica dello Stato ed assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e la tutela dell'incolumità e della sicurezza pubblica.Il livello comunitario ha infine rappresentato un banco di prova particolarmente cruciale in ordine all'attività dei servizi pubblici radiotelevisivi nazionali, le cui discipline sono state vagliate sotto il profilo della compatibilità con le norme dei Trattati e specificamente dell'art. 86 n. 1 così come risultante dalle ultime modifiche. Tale disposizione vieta nei confronti delle imprese pubbliche (o comunque titolari di «diritti speciali od esclusivi» l'adozione da parte degli Stati membri di misure contrarie ai principi chiave dell'ordinamento comunitario, rappresentati dal divieto di discriminazione in base alla nazionalità, dalla tutela della libera concorrenza, dal divieto di aiuti di stato alle imprese (45).La Corte di giustizia, il Tribunale e la Commissione hanno avuto modo di vagliare ab imis tale materia, a cominciare dalla compatibilità tra le norme del Trattato e quelle situazioni di monopolio pubblico «integrale» che hanno caratterizzato l'assetto del mezzo radiotelevisivo in Europa fino alla fine degli anni settanta del novecento, sia con riguardo alla loro legittimazione generale (46), sia con riguardo a specifiche problematiche concernenti la possibilità per le imprese pubbliche o titolari di diritti speciali od esclusivi di godere di particolari forme di esenzione ex art. 86 n. 2 del Trattato, dalle norme in tema di libera concorrenza(47).Ai fini della nostra indagine, di particolare interesse sono comunque le decisioni rese in materia di «aiuti di Stato», che proprio nel canone radiotelevisivo hanno trovato materia per importanti precisazioni, dato che tutti i servizi pubblici radiotelevisivi europei trovano in tale forma di contributo pubblico un esclusivo o comunque un fondamentale mezzo di sostentamento (48).L'art. 87 n. 3 del Trattato individua come compatibili solo quelle forme di sussidio che servano a promuovere talune attività qualificate o la «cultura» in generale, senza che tuttavia ciò venga ad alterare le condizioni degli scambi e della concorrenza in misura contraria all'interesse comune. Come ha avuto modo di precisare il Tribunale di I grado in una sentenza del 2000, ciò fa sì che non sia sufficiente l'accertamento del collegamento tra il sussidio ed una finalità di natura pubblica per dedurne l'estraneità alla categoria vietata degli aiuti di stato, ma occorre accertare in concreto se il sussidio sia idoneo a determinare le turbative del mercato sopra ricordate (49). Da rilevare anche l'adozione a livello comunitario di un Protocollo Integrativo sul servizio pubblico radiotelevisivo annesso al Trattato in occasione della Conferenza Intergovernativa di Maastricht del 1997, confermato dal Consiglio europeo con risoluzione del 25 gennaio 1999. In tale protocollo, con una formulazione in verità ambigua, che apre ampi spazi di discrezionalità per la Commissione, chiamata ad applicarlo, si afferma che «le disposizioni del Trattato non pregiudicano la competenza dello Stato membro a provvedere al finanziamento del servizio pubblico di radiodiffusione, nella misura in cui tale finanziamento sia accordato agli organismi di radiodiffusione ai fini dell'adempimento della missione di servizio pubblico conferita, definita ed organizzata da ciascuno Stato membro e nella misura in cui tale finanziamento non perturbi le condizioni degli scambi e della concorrenza nella Comunità in misura contraria all'interesse comune, tenendo conto nel contempo dell'adempimento della missione di servizio pubblico».In base a tale disposizione è quindi lo Stato membro a decidere in ordine alle caratterizzazioni del servizio pubblico (conferimento, definizione ed organizzazione), laddove spetta alla Commissione la ponderazione tra la tutela della concorrenza a livello comunitario e le esigenze proprie del servizio pubblico (50).Un altro aspetto messo in luce nel Protocollo in esame, rilevante in ordine all'assetto dei servizi pubblici radiotelevisivi sotto il profilo del loro finanziamento, è quello della necessità di separare, sul piano della loro destinazione, le entrate da canone da quelle pubblicitarie, secondo tre possibili ipotesi alternative: a) prevedere emittenti pubbliche commerciali distinte dalle reti del servizio pubblico; b) distinguere nell'ambito della programmazione, quella tipica del servizio pubblico da destinarsi solo ad apposite reti, che potrebbero ricevere le sovvenzioni statali; c) conferire mediante

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gara il servizio pubblico a qualsiasi tipo di operatore, a cui sarebbero imposti specifici obblighi e la possibilità di ricevere sussidi.Sotto tale punto di vista il disegno di legge Gasparri, all'art. 6 comma 5, stabilisce che il contributo pubblico percepito dalla società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo, risultante dal canone di abbonamento alla radiotelevisione, è utilizzabile esclusivamente ai fini dell'adempimento dei compiti di servizio pubblico generale affidati alla stessa, con periodiche verifiche di risultato e senza perturbare le condizioni degli scambi e della concorrenza nella Comunità europea (ciò in sintonia con il Protocollo Aggiuntivo del 1997).L'art. 16 stabilisce poi che, al fine di consentire la determinazione del costo di fornitura del servizio pubblico generale radiotelevisivo, coperto dal canone di abbonamento e di assicurare la trasparenza e la responsabilità nell'utilizzo del finanziamento pubblico, la società concessionaria predispone il bilancio di esercizio indicando in una contabilità separata i ricavi derivanti dal gettito del canone e gli oneri sostenuti nell'anno solare precedente per la fornitura del suddetto servizio, sulla base di uno schema approvato dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.Nella stessa disposizione è altresì stabilito che ogniqualvolta vengano utilizzate le stesse risorse di personale, apparecchiature o impianti fissi o risorse di altra natura, per assolvere i compiti di servizio pubblico generale e per altre attività, i costi relativi devono essere ripartiti sulla base della differenza tra i costi complessivi della società considerati includendo o escludendo le attività di servizio pubblico. L'ammontare del canone di abbonamento è determinato con decreto del Ministro delle comunicazioni entro il 10 gennaio di ciascun anno, in misura tale da consentire alla società concessionaria della fornitura del servizio di coprire i costi che prevedibilmente verranno sostenuti nell'anno in corso per adempiere gli specifici obblighi di servizio pubblico generale radiotelevisivo affidati a tale società, come desumibili dall'ultimo bilancio trasmesso prendendo anche in considerazione il tasso d'inflazione programmato per l'anno in corso e le esigenze di sviluppo tecnologico dell'impresa. È fatto, infine, divieto alla società concessionaria di utilizzare, direttamente o indirettamente, i ricavi derivanti dal canone per finanziare attività non inerenti al servizio pubblico generale radiotelevisivo.Come è facile verificare, non si incide sulla materia dei presupposti del canone, ma si attua la separazione contabile, già emersa, come si è visto a livello europeo, tra proventi di origine tributaria ed entrate da pubblicità o da altre forme di ricavo di tipo commerciale.Ancora una volta, quindi, le voci degli «obiettori del canone», sono rimaste inascoltate.Da segnalare, sempre sul piano delle problematiche comunitarie del servizio pubblico, con particolare riferimento al canone, una sentenza del Tribunale di Venezia che ha giudicato non contrastante la disciplina italiana del canone con l'art. 82 del Trattato in tema di abuso di posizione dominante e dell'art. 88 comma 3 ult. parte, in quanto aiuti di stato non notificati(51).In tale decisione viene ribadita la natura tributaria del canone, anche se, ancora una volta, viene lasciata in penombra la sua esatta qualificazione (52), sottolineandosi come non possa configurarsi una condotta integrante l'abuso di posizione dominante in ordine ad un tributo stabilito ed incamerato dallo Stato e quindi da una entità diversa rispetto al soggetto a cui tale abuso si vorrebbe imputare.6. Per quanto riguarda invece il problema del ruolo dei privati nel sistema misto, occorre rilevare che se è pacifica la netta differenza di posizione dei soggetti privati e del soggetto pubblico nel sistema radiotelevisivo, evidenziata dalla Corte nella sentenza qui in commento, vi sono invece luci ed ombre all'interno della giurisprudenza del giudice delle leggi concernente l'esatta focalizzazione di tale ruolo, soprattutto con riguardo alla configurabilità o meno in capo ai privati di aspetti di funzionalizzazione dell'attività, in presenza del già ricordato vincolo al rispetto dei principi fondamentali del sistema radiotelevisivo misto, come configurati dagli artt. 1 e 2 della l. n. 223 del 1990.L'ultima decisione della Corte in argomento è la sentenza n. 155 del 2002 nella quale è stata affrontata la problematica della legittimità costituzionale della l. n. 28 del 2000 in tema di limitazioni della propaganda elettorale sui mezzi di comunicazione di massa.

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Tale legge era stata impugnata sotto il profilo: a) della violazione della libertà di manifestazione del pensiero delle emittenti private locali, in ordine alla possibilità di esprimere una propria identità politica; b) della disparità di trattamento tra stampa e radiotelevisione sotto il profilo del maggiore rigore utilizzato nei confronti del secondo mezzo di diffusione del pensiero; c) della disparità di trattamento tra emittenti nazionali ed emittenti locali, con riguardo alla previsione per le prime dell'obbligo di diffondere gratuitamente i messaggi autogestiti, laddove per le seconde è previsto un rimborso dei costi da parte dello Stato.Il punto di maggior interesse è quello sub a), in quanto esso ha dato spunto alla Corte per effettuare talune precisazioni sulla natura dell'attività svolta dai privati, in ordine alla quale è stata recisamente negata ogni ipotesi di funzionalizzazione che avrebbe portato ad una omologazione dell'intera attività radiotelevisiva, sotto la forma del servizio pubblico in senso oggettivo.A tale riguardo è stato evidenziato come il valore primario di una corretta informazione dei cittadini-utenti costituisce la possibile giustificazione di limiti di tipo «modale» imposti, in una logica di bilanciamento, alla libertà di opinione delle emittenti, che resta, pur in presenza di tali limiti, pur sempre espressione di libertà.In realtà occorre considerare come questo della imposizione di limiti modali o contenutistici all'attività delle emittenti private, sia uno dei punti più controversi nell'ottica di una armonica composizione dei principi costituzionali in materia di manifestazione del pensiero attraverso il mezzo radiotelevisivo.Il disegno originario della Corte, espresso nella sentenza n. 148 del 1981, prevedeva infatti la sufficienza di una normativa antitrust nel settore privato, operante quindi solo sull'aspetto numerico dei soggetti, per evitare che il mezzo radiotelevisivo potesse negativamente esercitare il suo potere di influenza dell'«immagine unita alla parola».Nella sentenza n. 826 del 1988, la Corte, pur continuando a distinguere nettamente tra la posizione dei privati e quella della Rai, con l'esclusione che i primi svolgano attività avente la natura di pubblico servizio e pur distinguendo, a tale riguardo tra pluralismo «esterno» e pluralismo «interno» ha escluso che il «pluralismo esterno» potesse realizzarsi nel duopolio caratterizzante l'assetto fattuale del sistema radiotelevisivo italiano.Su tale base la l. n. 223 del 1990 e altre leggi successive hanno previsto obblighi gravanti sulle emittenti che, in sostanza hanno surrogato il pluralismo numerico, attraverso forme sostanziali di pluralismo «interno» sia pure costruito a misura dell'emittenza privata (53).Su tale problematica, con particolare riguardo all'utilizzo dello strumento concessorio anche per l'emittenza privata, benché nella sent. n. 202 del 1976, quantomeno per l'emittenza locale si fosse parlato di regime autorizzatorio, è intervenuta la sent. n. 112 del 1993 (54).Nel riprendere il concetto di pluralismo "esterno", come presenza del maggior numero possibile di "voci", attraverso le quali "il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti" (55), la Corte ha giustificato l'imposizione di obblighi riferiti alla "obiettività ed imparzialità dei dati forniti" o alla "completezza, correttezza e continuità dell'attività di informazione erogata" (56), ricollegandosi alla ben nota ed altrettanto problematica figura dei diritto "ad essere informati", una cui certa ricostruzione troppo ampia in realtà possiede una nota deriva "funzionalistica", rispetto al diritto ad informare in senso attivo.Al di là infatti dei limiti propri della manifestazione del pensiero (dignità umana, buon costume, tutela dei minori, ecc.) non si vede infatti come si possa imporre ad un privato una "obiettività" che sia logicamente compatibile con "i punti di vista differenti" e gli "orientamenti culturali contrastanti" che consentono al cittadino di formarsi liberamente un'opinione.La verità è che la Corte, realisticamente, ha tenuto conto dell'esistenza di fatto nella realtà italiana (a dispetto di una serie di leggi che hanno sempre finto il contrario) di un monopolio privato, nell'ambito del quale il pluralismo delle voci deve essere surrogato, come si diceva più sopra, con "criptofunzionalizzazioni" derivate dalla logica del servizio pubblico.Tale esigenza, del resto, si è avvertita specificamente nel settore della comunicazione politica, dove,

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come giustamente ha detto la Corte nella sopra citata sentenza n. 155 del 2002, il pluralismo «esterno», anche nella sua migliore realizzazione concreta, non è idoneo ad assicurare la possibilità di espressione della pluralità delle opinioni nel settore politico (57).Tuttavia, al di là del settore specifico in questione, resta il dubbio sulla esatta qualificazione dell'attività delle emittenti private come espressione di una situazione giuridica soggettiva avente la consistenza di un diritto di libertà.In realtà ci sembra che la Corte debba prendere atto (cosa che ancora non ha fatto) dell'impossibilità di continuare a sostenere la tesi della conciliabilità di tale situazione con un regime concessorio incidente non solo sulla possibilità di utilizzo della frequenza, ma anche sull'attività e su obblighi a chiara connotazione contenutistica e non solo «modale».Ci sembra invece condivisibile l'autorevole opinione che ha parlato di mercato «chiuso» per qualificare il settore dell'emittenza privata, all'interno del quale gli artt. 21 e 41 Cost. operano come valori oggettivi e non come situazioni giuridiche soggettive(58).Il disegno di legge Gasparri, al riguardo, sembra aver imboccato la strada della «funzionalizzazione», definendo all'art. 4 limiti contenutistici a tutela dei «diritti dell'utente» ed, all'art. 6, disponendo una disciplina dell'informazione come «servizio pubblico» soggetto a vari obblighi, sostanziantesi ad esempio nella «presentazione leale dei fatti e degli avvenimenti nei telegiornali e nei giornali radio, in modo tale da favorire la libera formazione delle opinioni» .Nel ricordare che tale normativa riguarda la radiotelevisione digitale, tante volte sbandierata come la frontiera tecnologica in grado di annullare l'archeologica scarsità delle frequenze radioelettriche via etere terrestre, non si può che manifestare delusione per la perdurante, mancata, possibilità di realizzazione di quel semplice pluralismo delle voci, che consente di far circolare efficacemente le opinioni senza lacci e laccioli ed è più vicino, nelle società evolute, al cuore della democrazia.

(1) Bobbio, Disobbedienza civile, in Dizionario di politica (a cura di Bobbio, Matteucci e Pasquino, Torino-Milano 1990, 316. V. anche Rawls, The Justification of Civil Disobedience,

in Bedau (a cura di), Civil Disobedience, New York 1969, trad. it. in J. Rawls, La giustizia come equità. Saggi (1951-1969), a cura di G. Ferranti, Napoli 1995, 259 s., il quale esamina il fenomeno della disobbedienza civile, ritenendola compatibile con la democrazia costituzionale, nel momento in cui operi come «un'azione politica che si rivolge al senso di giustizia della maggioranza, per stimolare la riconsiderazione delle misure contro cui si protesta».

(2) In questa Rivista 1963, I, 1, 680, con ivi a p. 682 ss., commento di Giannini, Ancora in tema di prezzo o tassa.

(3) Per una ricostruzione dei termini del dibattito ab imis v. i contributi di De Fina, Il rapporto di utenza radiotelevisiva, in Giur. merito 1970, IV, 63 s.; Franco, Natura e profili costituzionali

del canone di abbonamento nel quadro del rapporto di utenza radiotelevisiva, in questa Rivista 1983, I, 1629; M.A. Sandulli, voce Radioaudizioni, in Enc. dir., XXXVIII, Milano 1987, 220; Esposito, Commento all'art. 27, in AA.VV., Il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, Milano 1991, 460; Id., Il canone, in Tratt. dir. amm., diretto da Santaniello, XV, Radiotelevisione (a cura di Zaccaria), Padova 1996, 353 ss.; Zaccaria, Diritto dell'informazione e della comunicazione, Padova 1998, 442 ss. Nettamente prevalente era comunque l'adesione alla tesi della natura tributaria: a livello di giudici di legittimità v. Cass. civ., 17 ottobre 1955 n. 157; Cass. civ., 16 gennaio 1975 n. 164, in Foro it. 1975, 1, 563; Cass. civ., 1 febbraio 1983 n. 864, ivi 1983, 1, 303; Cass. civ., 1 febbraio 1973, in Giust. pen. 1973, 11, 729; tra i giudici di merito Trib. Roma, sent. 21 giugno 1965, in Foro it. 1965, 1, col. 1975.

(4) V. sull'argomento, all'epoca, tra gli altri Pace, Trasmissioni radiotelevisive e c.d. diritti dell'utente, in questa Rivista 1976, I, 1975 s., nonché in Stampa, giornalismo, radioteleivisione,

Padova 1983 e Zeno Zencovich, Canone radiotelevisivo ed effettiva fruizione dei programmi

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irradiati dalla RAI, in Il diritto dell'informazione e dell'informatica 1985, 211 s., nota a Corte d'appello di Torino, sent. 14 novembre 1984, ivi, 205, con indicazioni ulteriori.

(5) In tal senso è il citato contributo di Franco del 1983.

(6) V. l'ord. 14 maggio 1982, in Foro it. 1984, I, c. 319.

(7) Di tali sentenze, risulta pubblicata solo quella del 28 ottobre 1982 (Min. Fin.c/Giacomelli), in Dir. radiodiff. e telecom. 1983, 67 ss.

(8) V. ad es. la sentenza citata nella nota precedente e la sentenza 30 ottobre-8 novembre 1984 resa nella causa Min. Fin.c/Gorrfried (ined.).

(9) Come ricorda Esposito, Il canone, cit., 357, è addirittura del 1933 la prima sentenza che ha inquadrato come tassa tale tributo

(10) V. in tal senso la sent. 30 ottobre-22 novembre 1984 resa nella causa Ardesi c. Min.Fin (ined.).

(11) Ord. 19 marzo 1986, in questa Rivista 1986, II, 1, 41, con ivi, 43, commento di Chiola, Sospensione del giudizio senza remissione della quaestio legitimitatis in tema di canone

radiotelevisivo: un'abdicazione illegittima.

(12) Ord. 24 novembre 1986 in questa Rivista 1986, II, 1, 115, con ivi, 117, se si vuole, nota di Borrello, Ancora sciopero dell'esegesi da parte dei giudici di Torino in materia di canone

radiotelevisivo.

(13) In questa Rivista 1988, I, 2534.

(14) Loc. ult. cit.

(15) Ivi, 2535. V. in tale stessa pagina, su tali aspetti tributaristici, la nota adesiva di A. Fantozzi, Brevi note sulla qualificazione tributaria del canone radiotelevisivo.

(16) Si veda al riguardo in pratica tutta la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di radiodiffusioni, dalla fondamentale sentenza n. 60 del 1959 fino alle ultime, quali la n. 237

del 1984, la n. 826 del 1988, la n. 112 del 1993, la n. 420 del 1994; v. anche le sez. un. civ. della Cassazione nelle fondamentali decisioni 10 ottobre 1980 n. 5536; 19 febbraio 1982 n. 1051; 3 dicembre 1984 n. 6335 e 6337. Per indicazioni sull'argomento e sulle sentenze citate ci si permette di rinviare a R. Borrello, Giudici e governi dell'etere: la difficile gestione dell'anarchia delle antenne, in questa Rivista 1983, I, 540; Id., Verso la fine dell'era della supplenza: luci ed ombre del processo di normalizzazione del sistema radiotelevisivo, ivi 1985, I, 830 s. Sulla rilevanza della natura pubblica dell'etere, in una prospettiva che tuttavia porta a conclusioni qui non condivise, v. S. Fois, Brevi note sulla natura giuridica del canone radiotelevisivo, in Diritto dell'informazione e dell'informatica, 1985, 1208 s.

(17) V. Zeno Zencovich, op. cit., 213.

(18) App. Torino ord. 24 giugno 1988 adottata nella causa Min. Fin. c. Gorrfied

(19) Ord. n. 219 del 1989, in questa Rivista 1989, I, 1956.

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(20) App. Torino sent. 9 febbraio 1990, in questa Rivista 1990, I, 2428, con, ivi, nota di R. Niro, Brevi osservazioni in materia di canone radiotelevisivo. Ivi, v. anche la sent. 10

novembre 1989 della medesima Corte, in termini.

(21) Cass., sez. I civ., 3 agosto 1993 n. 8549, in Giur. it. 1994, I, 1, 1192 e Id. 13 settembre 1993 n. 9486, in Foro it. 1994, I, 3157. Sull'argomento v. gli ulteriori contributi di Contaldo,

La natura del canone radiotelevisivo: problematiche giuspubblicistiche, in Dir. inf. 1994, 279; Di Nunzio, Sulla natura giuridica del canone di abbonamento alla televisione, in Giur. it. 1994, 1191 ss.; Bodrito, Non ancora sopita la controversia sulla natura giuridica del canone di abbonamento radiotelevisivo, in Dir. prat. trib. 1995, 763 ss.; Azzariti, La temporaneità perpetua, ovvero la giurisprudenza costituzionale in materia radiotelevisiva (rassegna critica), in questa Rivista 1995, 3037 ss.; Succio, La cassazione conferma: il «cono d'ombra» non libera dall'obbligo di corrispondere il canone Rai, in Dir. e prat. trib. 1995, II, 441; Dedrito, Non ancora sopita la controversia sulla natura giuridica del canone di abbonamento radiotelevisivo, ivi, 763; Falsitta, Canone tv, utenti nell'ombra e giudici nella nebbia, in Riv. dir. trib. 1995, II, 813; Grandinetti, in Trattato di dir. amm. (a cura di Cassese), Dir. amm. spec., t. 2, Milano 2001, 1845 ss.

(22) V. il n. 5 del Considerato in diritto.

(23) Di tale nozione non si è trovata traccia nei più diffusi manuali di diritto tributario, ma sicuramente per nostro demerito di non specialisti della materia.

(24) Fantozzi, op. cit., 2538 ed Id., Natura e disciplina IVA del canone di abbonamento radiotelevisivo. Disciplina attuale e progetti di riforma, in Riv. trim. dir. pubbl. 1988, 585 s.

(25) Ciò soprattutto per effetto dell'art. 27 della l. n. 223 del 1990 che ha previsto che il pagamento del canone di abbonamento alla televisione consente la detenzione di uno o più

apparecchi televisivi ad uso privato da parte dello stesso soggetto nei luoghi adibiti a propria residenza o dimora. Su tali aspetti v. Fantozzi, Brevi osservazioni..., cit., 2541; Esposito, Il canone, cit., 361. In giurisprudenza v. Cass., sez. I civ., 24 febbraio 1999, in Riv. giur. trib. 2000, 133 ss., con nota di Graziano, Si paga un solo canone anche in presenza di più apparecchi televisivi, nella quale si afferma che il soggetto titolare di due abbonamenti per più apparecchi televisivi detenuti nella stessa abitazione (o in abitazioni diverse), ha l'obbligo di pagare un solo abbonamento, senza che egli sia preventivamente tenuto a svolgere alcuna attività per fruire del beneficio. V. anche, da ultimo, sull'evoluzione del canone da tassa ad imposta, come fenomeno ricompreso in un più generale processo di trasformazione della tipologia dei prelievi tributari, Del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino 2000, 92.

(26) Sul carattere indivisibile del servizio pubblico radiotelevisivo v. comunque Corte cost., sent. 6 dicembre 1977 n. 139, in questa Rivista 1977, I, 1441; Trib. Roma 12 marzo 1969, in

Foro it. 1970, I, 343 e 2619; Pret. Roma 15 aprile 1972, in Rass. dir. cinem. 1972, 90; Pret. Bari 26 novembre 1974, in Foro it. 1975, I, 460; Trib. Roma 6 luglio 1978, in Foro it. 1978, I, 2062; T.A.R. Lazio 11 aprile 1979, in Foro it. 1979, III, 524).

(27) Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova 1999, 22.

(28) V. sul tema Ruggeri e Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 1998, 264.

(29) In primo luogo in sede penale. Da segnalare, da ultimo, a tale riguardo una sentenza assolutoria (G.i.p. Trib. Belluno 11 ottobre 1997, in Giur. mer. 1998, parte 2, 484 ss., con, ivi,

nota adesiva di F. Romano, In tema di microribellione tributaria) in ordine al pubblico invito a non

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pagare il canone radiotelevisivo, che non integrerebbe il reato di cui all'art. 1 d.lg.C.p.S. n. 1559 del 1947, giacché il canone avrebbe, ad avviso del giudice, natura di tassa mentre la condotta penalmente sanzionata si riferirebbe all'istigazione a non pagare le imposte, propriamente intese..

(30) Attuata con l. 25 giugno 1993 n. 206, art. 4.

(31) Art. 4 comma 2 cit.

(32) V. sempre il n. 3 del Considerato in diritto. Prima di tale modifica legislativa la ripartizione del canone avveniva per il 3,24% al Ministero delle Finanze, per il 3,70% al

Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, per il 6,17 al Ministero del Turismo e per l'1% all'Accademia di S. Cecilia. Mentre quindi prima la Rai percepiva l'85,89%, ora percepisce il 99%.

(33) Ivi.

(34) V. il n. 4 del Considerato in diritto.

(35) Come è noto tale presenza, di fatto, era già operante sin dal 1976, allorché la Corte ipotizzò (e non ammise in via immediata) l'iniziativa privata nel settore della radiodiffusione

circolare via etere, ove fosse stato realizzato un adeguato regime di tipo autorizzatorio (V. sul punto Pace, La radiotelevisione in Italia con particolare riguardo all'emittenza privata, in Dir. radiodiff. telecom. 1987, 453 ss.).

(36) V. su tali aspetti in generale, Fois, La natura dell'attività radiotelevisiva alla luce della giurisprudenza costituzionale, in questa Rivista 1977, I, 429; Tosato, Sul regime giuridico della

radiotelevisione, in Studi in onore di Costantino Mortati, Milano 1978, III, 429; Capotosti, Modelli normativi della concessione radiotelevisiva: problema del servizio pubblico, in radiotelevisione pubblica e privata in Italia, a cura di Barile, Cheli e Zaccaria), Bologna 1980, 93 s.; Borrello, Cronaca di un'incostituzionalità annunciata (ma non dichiarata), in questa Rivista 1988, I, 3958 s. e Id., Incaricato di pubblico servizio e servizio pubblico radiotelevisivo: un binomio problematico, ivi, 1990, 486 s.; Roppo-Zaccaria, Sub artt. 1 e 2, in Il sistema televisivo pubblico e privato. Commento alla l. 6 agosto 1990 n. 223 (a cura di Roppo-Zaccaria), Milano 1991, 33; Pace, Problematica delle libertà costituzionali, parte spec., Padova 1992, 437; Id., Comunicazioni di massa (diritto), in Enc. sc. soc. Treccani, II, Roma 1992, 171 ss.; Santaniello, La riforma del servizio pubblico, in Rapporto '93 sui problemi giuridici della radiotelevisione in Italia, Torino 1994, 421 ss.; Santacroce, Potere politico ed informazione televisiva, in Foro amm. 1994, II, 1324; Pace, La radiotelevisione pubblica in Italia, in Foro it. 1995, V, 245 ss.; De Martini, Spunti per una riforma del sistema radiotelevisivo, in Dir. inf. 1995, 243; Barile, Idee per il governo. Il sistema radiotelevisivo, Bari 1995. Zaccaria ed altri, La struttura ed i compiti della società concessionaria del servizio pubblico, in Trattato dir. amm. (a cura di Santaniello), XV, t. 2, Radiotelevisione, Padova 1996, 395 ss.; Id., Diritto dell'inf. e della com., cit., 379 ss.; Pace, Il sistema radiotelevisivo italiano, in Pol. dir. 1997, 109 ss.; Bianchi, Il servizio pubblico radiotelevisivo, in Trattato dir. amm. (a cura di Santaniello), XXVIII, Informazione e telecomunicazioni, Padova 1999, 711 ss.

(37) V. al riguardo Carlassare, Cultura e televisione: i principi costituzionali, in Dir. inf. 1994, 7. V. sulle motivazioni sociologiche del tema, McQuail, I media in democrazia, trad. it.,

Bologna 1995, 28, che esemplifica i classici ruoli del servizio pubblico: servizi per minoranze geografiche e culturali, attenzione alle culture nazionali, servizi di informazione e di educazione di ampio raggio ecc.

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(38) V. Pace, La società concessionaria del servizio pubblico: impresa come «sostanza» e proprietà pubblica come mera «forma»?, in questa Rivista 1995, 12 ss.; Grandinetti, I

referendum sulle tv: il nuovo che avanza, in giornale di dir. amm. 1995, fasc. 2 e, se si vuole, Borrello, Televisione e referendum : una nuova strada irta di incognite per modificare l'assetto del sistema radiotelevisivo italiano, in questa Rivista 1995, 153 ss. Per riflessioni più recenti v. Pace, Il sistema radiotelevisivo it., cit., 114 e Bianchi, Il servizio pubblico, cit., 741 ss.

(39) Come nota criticamente F. Debenedetti, Riforma Rai, buoni principi e ambiguità, in Il Sole 24 Ore del 20 settembre 2002.

(40) V. l'art. 3 comma 19 della l. n. 249 del 1997, su cui v. Pace, Il sistema, cit., 109; D' Alfonso, Commento all'art. 3 comma 9, in Lipari, Bocchini e Stammati, Sistema

radiotelevisivo ed Autorità per le Telecomunicazioni, Commento alla l. n. 249 del 1997, Padova 2000, 512 e ss.

(41) V. l'art. 3 commi 6 e 7 della l. n. 249 del 1997.

(42) L'art. 22 del disegno prevede una norma transitoria che (commi 5 e 6) così dispone: «Nella fase di attuazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze televisive e

radiofoniche in tecnica digitale, durante la quale si determina il progressivo ampliamento del numero globale dei programmi irradiabili ed assentibili, e fino alla data di cessazione delle trasmissioni analogiche, il limite del 20 per cento di cui all'articolo 12, comma 1 è calcolato sul numero complessivo dei programmi televisivi o radiofonici concessi o irradiati, anche ai sensi dell'articolo 21, comma 1, in ambito nazionale su frequenze terrestri, indifferentemente in tecnica analogica o in tecnica digitale. I programmi televisivi irradiati in tecnica digitale possono concorrere a formare la base di calcolo ove raggiungano una coperture pari al 50 per cento della popolazione. Nella suddetta fase di attuazione gli esercenti la radiodiffusione televisiva che superino il limite di cui al comma 5 possono proseguire l'esercizio delle reti eccedenti tale limite, con l'osservanza degli obblighi stabiliti per le emittenti nazionali destinatarie di concessione, a condizione che le trasmissioni siano effettuate contemporaneamente via cavo o via satellite o su frequenze terrestri in tecnica digitale, e che siano convertite alla tecnica digitale secondo il programma di attuazione stabilito dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Le reti terrestri eccedenti detto limite sono disattivate nel termine stabilito dall'Autorità in relazione all'effettivo e congruo sviluppo dell'utenza dei programmi radiotelevisivi via cavo o via satellite o su frequenze terrestri in tecnica digitale».

(43) Su cui v. Caretti, Le regioni nel nuovo ordinamento delle telecomunicazioni, in Trattato dir. amm. (a cura di Santaniello, XXVIII, cit., 512 ed, ivi, v. anche Bianchi, op. cit., 752 e ss.

(44) V. su tale tema Cassetti, Potestà legislativa regionale e tutela della concorrenza, 12 ss., reperibile nel sito www.statutiregionali.it.

(45) Su tali aspetti, specificamente per il settore televisivo, v. Bonelli, Media, diritto comunitario e principio di parità di trattamento fra imprese pubbliche e private, in Dir. inf. e

dell'inf. 2001, 281 ss., spec. 295 ss.

(46) V. ad es. sul monopolio in Italia, la sentenza della Corte di Giustizia c.d. «Sacchi» del 30 aprile 1974 in causa 155/73 in Racc. 1974, 409 ss.. V. altre decisioni indicate in Bonelli, op.

cit., 297 ss.

(47) V. Bonelli, op. cit., 299 ss. e D' Alfonso, op. cit., 508 ss.

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(48) V. per riferimenti alle normative nazionali in tema di finanziamento dei soggetti pubblici, Zaccaria, Diritto dell'inf., cit., 649 ss. V. anche Orlandi, La Corte Costituzionale tedesca e la

televisione: ancora una sentenza in materia controversa, in Dir. comm. int. 1995, 217 ss. e Tosto, Il servizio pubblico radiotelevisivo in Belgio, in DRT, n.s., 1999, n. 3, 305 ss.

(49) Sentenza 10 maggio 2000 in causa T-46-97, riguardante la radiotelevisione pubblica portoghese, su cui vedi ancora Bonelli, op. cit., 305.

(50) V. Mastroianni, Il protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica, in Dir. inf. 1999, 282 e Bonelli, loc. ult. cit. A tale proposito la Commissione ha adottato una comunicazione

relativa all'applicazione delle norme sugli aiuti di Stato al servizio pubblico di radiodiffusione (2001/C 320/04), pubblicata sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 15 novembre 2001.

(51) Trib. Venezia sent. 8 agosto 2000 n. 1091, in questa Rivista 2002, 430 ss., con ivi, 433 nota di L.F. Pace, In tema di illegittimità comunitaria della disciplina del c.d. canone Rai, con

riferimento al combinato disposto degli artt. 82 ed 86 comma 1 TCE e dell'art. 88 comma 3 ult. parte TCE.

(52) Mancando ancora, ovviamente, le indicazioni scaturenti dalla sentenza n. 284 del 2002 qui in commento.

(53) Esemplari sono le disposizioni che impongono alle emittenti di dedicare una parte della programmazione giornaliera all'informazione su problematiche sociali (art. 5 della l. 27 agosto

1993 n. 323) o quelle che obbligano le emittenti nazionali a effettuare trasmissioni per almeno dodici ore e di trasmettere quotidianamente un telegiornale (art. 5 della l. n. 223 del 1990). Su tali aspetti v.. Chiola La natura dell'attività radiotelevisiva e regime giuridico, in Rapporto 1993 sui problemi giuridici della radiotelevisione in Italia (a cura di Barile-Zaccaria), Torino 1994, 29 e Capotosti, L'emittenza radiotelevisiva privata tra concessionari ed autorizzazioni, in questa Rivista 1993, 2128. Se si vuole v. infine Borrello, Il prodotto radiotelevisivo, in Tratt. dir. amm. (a cura di Santaniello), XV, t. 2, Padova 1996, 518 ss. Sulla distinzione tra norme a tutela della concorrenza e norme in favore del pluralismo in senso «esterno» v. da ultimo Santoli, La tutela del pluralismo nel settore delle comunicazioni di massa: differenza e sovrapposizione rispetto alla tutela della concorrenza (comunicazione relativa al Coonvegno Diritti, interessi ed Amministrazioni indipendenti, Siena 31 maggio-1 giugno 2002, i cui atti sono in corso di pubblicazione).

(54) In questa Rivista 1993, 939 s.

(55) V. n. 7 del Considerato in diritto.

(56) Loc. ult. cit.

(57) V. sullo sviluppo del dibattito italiano sul tema C. Pinelli, Può la pari opportunità di voci convertirsi nell'imposizione del silenzio?, in questa Rivista 1995, 1366 s.; E. Lamarque,

Propaganda e pubblicità elettorale nella sentenza n. 161 del 1995 della Corte costituzionale, in Dir. inf. 1995, 860 s.; O. Grandinetti, La Corte sui conflitti tra i poteri dello Stato, in Corr. amm. 1995, 717 s.; E. Bettinelli, Par condicio, Regole, opinioni, fatti, Bologna 1995; G. Corso, Propaganda, pubblicità ed autopromozione nella campagna referendaria, in Nuove autonomie 1995, 406 s.; G. Gardini, La disciplina delle campagne elettorali, Padova 1996; L. Bianchi, La disciplina delle campagne elettorali, in Trattato di diritto amministrativo (dir. da G. Santaniello), XV, t. 2, Radiotelevisione (a cura di R. Zaccaria), Padova 1996, 624 s.. Ad essi vanno aggiunti, quali contributi più recenti, più di recente, T.E. Frosini, Il decreto legge sulla par condicio nella forma di

Page 20: Corte Costituzionale , 26/6/2002, n - Movimento … · Web viewEmerge infatti, l'esigenza della restituzione al servizio pubblico di una dignità di ruolo che, non potendo più avere

governo in transizione, in Par condicio e costituzione (a cura di F. Modugno), Milano 1997; E. Bettinelli, voce Propaganda elettorale, in Dig. pubbl., XII, Torino 1997; E. Colarullo, Casi e materiali del diritto della comunicazione, Torino 1998, 77 s. M. Gobbo, La disciplina della propaganda elettorale nel sistema radiotelevisivo, in Tratt. dir. amm. (dir. da G. Santaniello), XXVIII, Informazione e telecomunicazione (a cura di R. Zaccaria), Padova 1999, 677; A. Contaldo, La pubblicità elettorale, in Diritto della comunicazione pubblicitaria, cit., 273 s.; C. Pinelli, Spot e par condicio, in Quad. cost. 1999, 576 s.; v. anche gli Atti del convegno La comunicazione politica in Tv-Diritto di accesso e libertà di informazione, svoltosi il 20 ottobre 1999 presso la Sala del Cenacolo della Camera dei deputati, riportati in Tempo presente, fasc. n. 288 del 1999. Per profili di carattere comparatistico, v., se si vuole Borrello, Soggetti politici e trasmissioni radiotelevisive, in questa Rivista 2000, fasc. 1.

(58) Pace, Autorità e libertà nel settore delle telecomunicazioni e della televisione, in DRT, n.s., 1999, n. 3, 20 ss.