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Corso di FILOSOFIA DELLA STORIA Anno Accademico 2010-2011 Prof. Franco Biasutti MODELLI DI FILOSOFIA DELLA STORIA

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Corso di

FILOSOFIA DELLA STORIA

Anno Accademico 2010-2011

Prof. Franco Biasutti

MODELLI DI FILOSOFIA

DELLA STORIA

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SOMMARIO

MODELLI DI FILOSOFIA DELLA STORIA

I - PER UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI STORIA

1.1 Aristotele e Tucidide

1.2 Res gestae e historia rerum gestarum

1.3 Interpretazione e tradizione

1.4 Il problema del classico II - GIOVAN BATTISTA VICO: LA STORIA COME SCIENZA NUOVA

2.1 Metafisica come Scienza Nuova

2.2 La Storia come Scienza

2.3 Natura e Storia

III - GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL: LIBERTÀ E STORIA

3.1 La collocazione sistematica della storia

3.2 La natura della storia

3.3 Il soggetto della storia

3.4 Le epoche della storia IV - WILHELM DILTHEY: SCIENZE DELLO SPIRITO E CRITICA DELLA RAGIONE STORICA

4.1 La distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito

4.2 Critica della ragione storica V - JÜRGEN HABERMAS: LA MODERNITÀ COME PROGETTO INCOMPIUTO

5.1 Moderno e post-moderno

5.2 Il concetto hegeliano della modernità

5.3 Nietzsche e il post-moderno

5.4 Per una autentica critica alla filosofia del soggetto

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I

PER UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI STORIA

1.1 ARISTOTELE E TUCIDIDE

Il primo problema che si deve affrontare è spiegare di che cosa si

tratta, quando si parla di modelli di filosofia della storia.

Aristotele nei Topici (1) dice che quando dobbiamo fare una indagi-

ne, per scoprire la verità, possiamo cominciare a partire da quella che è

l'opinione più accreditata, l'opinione dei più sapienti o di coloro che so-

no reputati tali. Quindi per definire quello che è l'oggetto della filosofia

della storia faremo riferimento ad alcuni autori tra i più sapienti

nell'ambito della materia per cercare di capire che cosa è la filosofia del-

la storia, per cercare di capire che cosa vuol dire mettere in relazione il

pensiero filosofico con il sapere storico. Con il termine modelli si intende

quindi fare riferimento ad alcune prospettive filosofiche, che possono

avere acquisito un valore emblematico nell'ambito di quella che è stata

la filosofia della storia. Se possiamo dare per il momento come non pro-

blematizzato che cosa sia filosofia, resta tuttavia da precisare cosa si

intende per storia. Non si tratta qui di dare una valutazione metafisica

del termine storia, ma semplicemente spiegare il significato del vocabo-

lo.

I termini greci hístor e historía derivano entrambi dalla radice Fid

del verbo oráo = vedo, il cui perfetto oĩda significa ho visto e quindi so,

conosco. Il vocabolo hístor significa quindi in prima istanza colui che sa,

colui che conosce, nel senso di colui che ha visto: e quindi, in senso de-

rivato, hístor è il giudice, l'arbitro o il testimone. Sotto questo profilo, la

parola historía viene ad assumere in primo luogo il significato di: a) in-

dagine, ricerca; in secondo luogo b) relazione verbale o scritta relativa

all'indagine fatta, e perciò racconto, esposizione; in terzo luogo c) storia,

opera storica.

Il termine latino historia si presenta in tutto e per tutto come un

calco perfetto di quello greco, anche per quanto riguarda i suoi significa-

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ti: indagine, conoscenza, notizia, racconto orale o scritto, ricerca storica,

storia, ecc.

Dall'originario termine greco è derivato non soltanto il vocabolo la-

tino, ma anche quello in tutte le principali lingue europee moderne: ad

esempio l'italiano storia, il francese histoire, l'inglese history. Una ecce-

zione parziale è offerta dalla lingua tedesca, la quale al calco greco-

latino Historie (storia, ma anche storiografia) affianca il termine Geschi-

chte.

Originariamente historía significa perciò svolgere un'indagine, una

ricerca, analizzare osservando di persona determinate cose, determinati

fatti o avvenimenti e quindi presentare una relazione che può essere

verbale o scritta. In questo senso il termine assume il significato di rac-

conto, di esposizione e soltanto in forma derivata significa storia od ope-

ra storica. Il significato originario è quindi molto diverso dal modo in cui

noi oggi usiamo correntemente questa parola: un lungo percorso è stato

quindi compiuto e noi possiamo ancora rinvenire una traccia di quello

che era il significato originario non solo nella cultura antica, ad esempio

con la Naturalis historia di Plinio il Vecchio ma anche all'interno della

cultura moderna, ad esempio con l' Histoire naturelle (1749) di Buffon:

tanto nell'un caso come nell'altro historia/Histoire significa esposizione

di una ricerca fatta su vari aspetti delle cose naturali.

Come si arriva a precisare la natura della storia come comunemen-

te la intendiamo oggi?

Probabilmente uno dei primi tentativi di sistematizzazione filosofica

del concetto della storia è rinvenibile nella Poetica di Aristotele. Aristote-

le prende le mosse da quello che è il significato originario del termine

historía vale a dire racconto, narrazione: però ci sono molti tipi di rac-

conto. Da questo lato l‟ historía nel senso peculiare di storia, si presen-

ta come una forma specifica di narrazione, che segna una differenza

nell'ambito del lógos. Nel caso della storia propriamente detta con quale

tipo di racconto, di discorso abbiamo a che fare? Aristotele tenta una

prima approssimazione della definizione della natura della storia pro-

prio attraverso la distinzione tra poesia e storia: "Da ciò che si è detto è

chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali pos-

sono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità.

Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si

potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimeno sarebbe

sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in

questo: l'uno dice le cose avvenute, l'altro quali possono avvenire. Perciò

la poesia è cosa di maggior fondamento teorico (philosophóteron) e più

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importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la

storia i particolari" (2).

Tanto la poesia quanto la storia sono assunte da Aristotele come

un modo del léghein, del dire o del raccontare, però sono due modi diffe-

renti e opposti di racconto. Il problema è cogliere questa differenza: es-

sa comunque non risiede nel diverso modo di esporre, ovvero nel fatto

che nel primo caso avviene in versi, nel secondo in prosa. Una narrazio-

ne di Erodoto, anche se venisse trasposta in versi, resterebbe sempre e

comunque una narrazione storica e non diventerebbe mai poesia. Quin-

di, dal punto di vista aristotelico, la forma dell'esposizione è indifferente

a caratterizzare la natura della storia rispetto alla poesia. La differenza è

soprattutto una questione di contenuto: la poesia, infatti, racconta le

cose quali possono avvenire, il terreno della poesia è il possibile, la sto-

ria invece racconta le cose che sono avvenute: ciò che è già avvenuto è

qualcosa di specifico, determinato e immodificabile. Mentre tutto ciò di

cui la storia parla deve essersi realizzato, non tutto ciò di cui parla la

poesia deve necessariamente realizzarsi. Incentrando il discorso sul

contenuto Aristotele trae delle conseguenze che non possono essere

considerate di poco conto. Dato che la sua sfera d'azione coincide con il

campo della possibilità, la poesia ha per oggetto l'universale; la storia,

muovendosi nell'ambito di ciò che è già avvenuto, ha per oggetto il par-

ticolare, nel senso del determinato. Ma questo a sua volta significa che

la poesia, proprio perché ha di mira ciò che è universale, deve essere

considerata più filosofica e più importante della storia. Questo è il para-

dosso del pensiero aristotelico Per noi è naturale parlare di scienze stori-

che, ma dal punto di vista aristotelico la storia non è scienza Se uniamo

questo discorso al precedente che egli ha fatto, e cioè che la scienza è

solo dell'universale e mai del particolare (3), si vede chiaramente che,

dal punto di vista aristotelico, alla storia sembra essere preclusa la pos-

sibilità di realizzarsi come scienza.

Dovendo affrontare il problema della natura della storia è forse op-

portuno, a questo punto, passare ad esaminare anche il punto di vista

degli storici: la figura di Tucidide, uno dei più grandi storici dell'antichi-

tà, può costituire un buon punto di riferimento.

Per Tucidide la storia si qualifica in primo luogo a) come "ricerca

della verità (zétesis tès aletheías)"; in quanto ricerca della verità essa

possiede una caratteristica peculiare, nel senso che richiede b) "la mag-

giore esattezza (akríbeia) possibile"; sulla base di queste premesse, il

contenuto della storia sono le opere, "i fatti (tà érga)" (4).

Il termine greco érgon significa esecuzione, opera, fatto pratico,

concreto, e come tale si oppone ad esempio a mŷthos (racconto) o a ló-

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gos (parola). In quanto ricerca della verità attuata con la maggiore esat-

tezza e precisione possibile, la storia è un discorso, una narrazione o-

rientata alla concretezza, ovvero alla realtà effettuale.

Quello che è innanzitutto interessante notare è che anche Tucidide,

così come Aristotele, tenta in prima istanza una definizione della storia

attraverso un confronto con la poesia. Anche per Tucidide la poesia si

contrappone alla storia: la poesia è indirizzata al mito, che non ha la

pretesa di avere un aggancio con la realtà; la storia, viceversa, ha come

obiettivo non le belle parole o i discorsi eleganti, ma il vero, la realtà

concreta. Tucidide, tuttavia, capovolge la concezione aristotelica: per

Aristotele la differenza, come si è visto, era data dalla natura dell'ogget-

to; per Tucidide, invece, la differenza è data dal fine radicalmente diver-

so che i due tipi di narrazione si propongono. Secondo lo storico atenie-

se, infatti, poesia e storia possono avere lo stesso oggetto, raccontare gli

stessi avvenimenti, ma lo scopo è totalmente diverso: la poesia è una

narrazione mitica, fantastica dei fatti, la storia è un racconto vero, pre-

ciso. Lo storico, secondo Tucidide, non si preoccupa di abbellire il rac-

conto, e non si prefigge di impressionare i propri lettori.

Dal punto di vista di Tucidide, tuttavia, la storia è anche una ricer-

ca difficile, problematica. Nel capitolo XXII del libro I della Guerra del

Peloponneso, Tucidide inserisce una specie di parentesi di tipo metodo-

logico, in cui spiega i criteri che hanno caratterizzato la sua opera di

storico: "I fatti concreti (tà érga) degli avvenimenti di guerra non ho con-

siderato opportuno raccontarli informandomi dal primo che capitava, né

come pareva a me, ma ho raccontato quelli a cui io stesso fui presente e

su ciascuno dei quali mi informai dagli altri con la maggior esattezza

(akríbeia) possibile. Difficile era la ricerca, perché quelli che avevano

partecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avveni-

menti, ma parlavano a seconda del loro ricordo o della loro simpatia per

una delle due parti" (5).

Tucidide parla qui da vero hístor, da testimone, da colui che sa

perché ha visto e quindi può essere giudice e valutare i fatti. La storia,

tuttavia, non è il racconto delle cose secondo "opinione (dóxa)": se la

storia non può accontentarsi di semplici opinioni, allora essa contiene

al proprio interno anche l'opposizione tra dóxa e verità. Al servizio della

verità sta, come si è visto, la precisione del racconto: ma proprio qui è

contenuto un problema, perché la precisione può essere ottenuta sola-

mente "per quanto è possibile", non c'è mai una esattezza assoluta.

Se da un lato Tucidide racconta gli avvenimenti di cui è stato pre-

sente, ciò non esclude, dall'altro, la necessità di informarsi anche da

altri testimoni: proprio questo rende la ricerca difficile, perché, avverte

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sempre Tucidide, coloro che sono stati presenti ai fatti possono non dire

tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, in quanto ciascuno parla a

seconda del proprio ricordo, o della simpatia per l'una o l'altra delle par-

ti in conflitto. Questo significa che la storia è sì la ricostruzione dei fatti

così come essi sono accaduti secondo verità, ma essa restituisce i fatti

attraverso:

a) la mediazione del testimone;

b) la mediazione della memoria;

c) la mediazione tra molti punti di vista.

Ciò di cui Tucidide si fa interprete è che il problema della verità

della storia nasce sempre e comunque attraverso una dialettica dell'opi-

nione. Il che vuol dire che per quanto lo storico operi con il massimo di

akríbeia, questa volontà di precisione non può mai essere assoluta, per-

ché comunque deve fare i conti con i propri limiti strutturali, che sono

dati dal problema delle testimonianze, dal problema delle fonti e dal

problema della loro credibilità.

1.2 RES GESTAE E HISTORIA RERUM GESTARUM

Le annotazioni metodologiche di Tucidide possono risultare utili

per focalizzare un aspetto specifico dell‟essere storico, quello per cui

questo presenta una sua natura particolare, di essere impastato di in-

terpretazioni: non può essere sottaciuta la insopprimibile presenza del-

la soggettività dello storico.

È stato osservato che esiste una ambiguità di fondo, contenuta nel

termine storia, ambiguità che accomuna tutte le lingue europee moder-

ne, nel senso che il significato tende a sdoppiarsi lungo due direzioni: a)

la storia intesa come res gestae, le cose accadute, la “realtà storica”,

cioè i fatti (il senso oggettivo della storia); b) la storia intesa come histo-

ria rerum gestarum, come narrazione delle cose che sono accadute, come

“conoscenza storica”, come scienza che regola la conoscenza dei fatti,

l‟interpretazione dei fatti (il senso soggettivo della storia) (6). Il problema

su cui è opportuno ancora riflettere è il rapporto che esiste tra significa-

to, valore oggettivo della storia (res gestae) e quello che abbiamo definito

come significato soggettivo della storia (historia rerum gestarum).

Va in primo luogo osservato che i fatti lontani nel tempo noi li pos-

sediamo soltanto attraverso il racconto, ed in questo caso un ruolo es-

senziale è giocato appunto dalla memoria. Il tempo, da questo lato, non

significa soltanto lontananza: esso è anche ciò che rende presente, è la

via attraverso a cui le cose non più presenti giungono fino a noi. Per i

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fatti non più immediatamente presenti, quindi, la historia rerum gesta-

rum è essenziale al costituirsi delle res gestae. Ma anche per i fatti che

costituiscono la nostra attualità storica avviene qualcosa di simile. A

causa infatti della sfera limitata della coscienza, la realtà viene a noi

anche attraverso gli altri e ci viene data nel suo complesso grazie ad un

insieme di rapporti intersoggettivi: la nostra esperienza storica non è

mai qualcosa di immediato, ma piuttosto qualcosa che dipende da un

flusso continuo di mediazioni: anche i fatti che compongono il nostro

presente ci sono dati attraverso il racconto ed in questo senso sono sto-

ria.

Quella tra res gestae e historia rerum gestarum è quindi una distin-

zione che può essere fatta solo a posteriori: nell'effettualità della vita e

dell'esperienza, il punto di vista oggettivo dell'evento, in quanto è un

evento oggettivamente accaduto e non modificabile e unico nel suo ge-

nere, si sintetizza necessariamente e in maniera indissolubile con quello

che è il punto di vista della sua interpretazione, della sua valutazione.

La prospettiva autentica non è che i fatti esistono, e solo successiva-

mente vengono rivestiti di interpretazioni. Il fatto storico si presenta a

noi come qualcosa di già in sé interpretato. Un primo, elementare e-

sempio di questo processo può essere costituito dalla selezione, che vie-

ne fatta già a priori rispetto alla narrazione della storia, tra ciò che è

storico e ciò che non lo è, tra quei fatti che sono "degni" di far parte del-

la storia e quelli che non sono ritenuti tali da diventare oggetto di consi-

derazione storica. Questa selezione tra ciò che resta in quanto viene

trattenuto dalla memoria e ciò che viene lasciato cadere, perso dalla

memoria, è già frutto di una valutazione, di una interpretazione. Si può

quindi parlare di una funzione ontologica dell'interpretazione, in quanto

questa assume un ineliminabile valore costitutivo nei confronti dei fatti.

Sulla base di queste considerazioni appare evidente che quella tra res

gestae e historia rerum gestarum è quindi una distinzione che può essere

fatta solo a posteriori: come Tucidide ha mostrato, l'insopprimibile sog-

gettività dello storiografo fa sì che l'essere storico è sempre l'essere in

quanto interpretato. La storia, certamente, non è riducibile soltanto ad

interpretazione, ma senza interpretazione non ci possono essere acca-

dimenti, fatti, e quindi nemmeno storia.

1.3. INTERPRETAZIONE E TRADIZIONE

All'interpretazione deve essere riconosciuta una valenza costitutiva,

produttiva nei confronti del manifestarsi di ogni fatto storico. In assenza

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di interpretazione l'oggetto storico sarebbe per così dire privato di una

parte di sé, di qualcosa di essenziale al suo modo di essere. Tucidide ha

mostrato come vi sia un rapporto costitutivo tra storia e verità.

L'esattezza del racconto non è un fine, ma piuttosto un mezzo, in

quanto il racconto storico, come si è visto, aspira ad essere narrazione

di cose vere e quindi esso stesso un racconto vero. Ma la pretesa di

verità accampata dallo storico in rapporto ai fatti passa a sua volta

necessariamente attraverso l'interpretazione.

Il problema della verità si intreccia originariamente con quello del

costituirsi dell'oggetto storico: ogni interpretazione di fatti storici, in

quanto interpretazione, aspira alla verità, quindi ad essere

interpretazione vera. Questo pone l'ermeneutica storica di fronte ad una

aporia: da un lato, infatti, ogni interpretazione, in quanto pretende di

essere vera, tende per ciò ad escludere tutte le altre; dall'altro lato, però,

l'esistenza di molte interpretazioni è un fatto incontestabile, che deve

essere almeno in prima istanza accettato. Il diventare consapevoli di

questa aporia strutturale implica il riconoscimento di quella che,

preliminarmente, può essere definita come una dialettica della verità

immanente ad ogni situazione ermeneutica. Il problema che a questo

punto si pone, non è quello di esibire un criterio, individuare un

sistema di regole che permettano di riconoscere l'interpretazione vera e

di isolarla in questo modo dalle altre. Il problema originariamente

contenuto nella situazione ermeneutica è piuttosto, in primo luogo,

quello di vedere in base a quale concetto di verità si debba pensare il

rapporto tra verità ed interpretazione. In relazione alla prima

determinazione dialettica della questione, lo spazio all'interno del quale

procedere alla identificazione del problema va ricercato operando

all'interno delle possibilità che si aprono dopo aver escluso i due

estremi: a) quello per cui una sola è l'interpretazione vera; b) quello per

cui tutte le interpretazioni sono, indistintamente, vere. Deve essere

esclusa ogni forma di dogmatismo assoluto (una sola è l'interpretazione

autentica), in quanto provoca, di fatto, l'annullamento, il soffocamento

dell'oggetto, poiché gli si impedisce di parlare ulteriormente. Ma deve

essere del pari esclusa ogni forma opposta di relativismo assoluto (tutte

le interpretazioni, in quanto tali, sono vere), poiché in questo modo

l'oggetto viene annullato egualmente, polverizzandolo nella molteplicità

indefinita delle interpretazioni stesse.

Adattando a questa situazione una nota espressione kantiana, si

potrebbe arrivare a dire che questo è il factum della ragione

ermeneutica. Dato che si deve escludere sia il relativismo assoluto, sia

il dogmatismo assoluto, ogni interpretazione presuppone altre

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interpretazioni, che si distendono non solo parallelamente, in modo

sincronico, ma anche in serie, diacronicamente. Ogni interpretazione

non solo nasce in un costitutivo rapporto con le interpretazioni passate,

che la hanno preceduta, ma si proietta in un implicito ed altrettanto

costitutivo rapporto anche con le interpretazioni che la seguiranno.

Diventa legittimo parlare di verità dialogica proprio in quanto ogni

pretesa di verità avanzata dall'interpretazione deve saper convivere,

nell'ambito di un dialogo/confronto, con altre pretese di verità. Nasce da

qui, proprio all'interno dell'interpretazione, il concetto di tradizione. In

base a questa prospettiva, la tradizione non è semplicemente il

presupposto della interpretazione, nel senso di ciò che precede: prima

viene la tradizione, e poi la si interpreta. Si deve piuttosto ammettere

che c'è tradizione solo nell'interpretazione e per l'interpretazione. La

tradizione non è la cosa che deve essere interpretata, quanto piuttosto

da un lato il luogo in cui si realizza, scorre il processo

dell'interpretazione, e dall'altro questo processo stesso, considerato nel

suo accumularsi e consolidarsi in risultati. Così come la tradizione non

è una cosa già costituita prima dell'interpretazione, altrettanto la verità,

in rapporto a cui l'interpretazione stessa viene pensata, non si

costituisce come una cosa, ma come processo, all'interno del quale i

termini di essenza, di manifestarsi e di verità stessa diventano concetti

equivalenti. Dato che qui fenomeno non è la rivelazione parziale,

imperfetta di una fantomatica cosa, ma è piuttosto, colto nel suo darsi

storico, il mostrarsi della cosa così come essa è (in questo senso quindi

la sua verità), si viene ad accettare implicitamente che ciò che non

giunge a manifestarsi è appunto il non-vero: il mistero, ciò che program-

maticamente si sottrae alla manifestazione, diventa il principio del falso.

Alla luce di queste considerazioni, diventa evidente che l'interpretazione

è destinata ad assumere un ruolo costitutivo/produttivo tanto nel

costituirsi della tradizione, quanto nel manifestarsi della verità: non c'è

tradizione senza interpretazione, così come senza interpretazione non

c'è nemmeno verità. In questa ottica, il concetto di classico si presta in

modo opportuno ad illustrare e chiarire proprio quello che deve essere

considerato come una delle basi, dei fondamenti di quella che potrebbe

essere definita come la ragione ermeneutica, vale a dire appunto il ruolo

costitutivo/produttivo dell'interpretazione nei confronti della verità e

della tradizione.

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1.4 IL PROBLEMA DEL CLASSICO

Nel "Poscritto" alla terza edizione di Verità e metodo Gadamer

sottolinea la rilevanza del concetto di classico, definendolo come "la

categoria par excellence" della coscienza ermeneutica intesa come

coscienza storica (7). Nell'ambito di questa prospettiva si deve perciò

pensare che il concetto di classico assuma valore esemplare in relazione

all'ermeneutica storica proprio perché certi determinati aspetti

dell'interpretazione sono in esso evidenziati, diventando così più visibili.

Giova probabilmente a questo punto ripercorrere brevemente la storia

della parola. Nella lingua latina, come è noto, classicus era un termine

che riguardava le "classi" dei cittadini romani, ed indicava appunto un

"cittadino della prima classe"; con la tarda latinità il termine ha

acquisito un significato traslato, venendo a designare ciò che è

eccellente nella sua classe o ciò che in generale appartiene ad una

classe eccellente: classicus scriptor significa quindi scrittore di

prim'ordine, scrittore esemplare, e quindi infine classico semplicemente,

nel senso di autore tenuto come modello. Il termine classico ha avuto

perciò sin dalle origini una applicazione problematica ed in un certo

senso ambigua, in quanto può designare: a) un'opera o un autore

appartenente ad una cultura superiore, venendo così ad esprimere un

giudizio di valore; b) un ideale di perfezione, espressione di un mondo,

l'antichità greca e romana, da cui il presente si è allontanato,

esprimendo in questo modo un giudizio storico di valore; c) un concetto

stilistico, designando ciò che è dotato di determinate caratteristiche,

quali l'armonia, la compostezza, l'equilibrio formale, esprimendo in

questo caso un valore assoluto di perfezione. Da classico deriva

ovviamente classicismo, con cui si intende un movimento, un

atteggiamento culturale che attribuisce valore esemplare ai modelli di

arte e di pensiero dell'antichità classica. Corrispondentemente alla

pluralità di significati impliciti nel termine classico, anche il concetto di

classicismo ha potuto designare una molteplicità di atteggiamenti

culturali: per il passato, comunque, classico e classicismo, hanno

potuto conservare un significato sostanzialmente equivalente, in quanto

mantenevano come punto di riferimento un quadro omogeneo di

contenuti e di valori, vale a dire la classicità o antichità greca e romana.

Occorre tuttavia riconoscere che attualmente, considerato come

categoria storiografica, il concetto di classico trova un uso più ampio

rispetto a quello che un tempo veniva definito dal riferimento ai

contenuti del classicismo ovvero dell'antichità classica: il concetto di

classico non è più espressione di una determinata esperienza storica e

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quindi, di conseguenza, non definisce più un concetto stilistico univoco.

Si parla infatti, indifferentemente, di "classici del pensiero medievale" e

di "classici del pensiero contemporaneo", oppure di "classici della

letteratura inglese" accanto ai "classici della letteratura italiana", in

riferimento perciò sia ad epoche storiche diverse come a situazioni

culturali geograficamente diversificate. In questo modo Dante,

Shakespeare, Kant, Hegel, Leopardi, Heidegger, così come i molti altri

esempi che potrebbero essere ancora enumerati, sono tutti a pari titolo

e motivatamente considerati dei "classici", in relazione tuttavia ad una

molteplicità di esperienze storico-culturali e quindi come espressione di

una molteplicità di stili. In questo modo il concetto di classico non solo

è più esteso in senso quantitativo, occupa, per così dire, più spazio

rispetto al passato, ma si è anche arricchito di contenuto: esso va

quindi ripensato a partire da questo suo nuovo uso. Il problema che si

pone a questo punto non è, ovviamente, quello relativo a chi siano i

classici, ma piuttosto quello relativo a che cosa, in un'opera, la renda

effettivamente un classico.

In Verità e metodo Gadamer comincia con l'osservare che il concetto

di "classico", usato in riferimento all'antichità classica e quindi agli

autori canonici della "scuola", indica in prima istanza soprattutto

un'epoca ed uno stile; dato però che viene usato in connessione con

l'idea di un nuovo umanesimo, classico non indica semplicemente

un'epoca od uno stile, ma qualcosa di diverso che nello stesso tempo è

anche qualcosa di più di tutto questo: nella misura in cui il concetto di

classico opera come categoria storica, non può costituire l'idea di un

valore soprastorico (8). Di esso si può dire piuttosto che si tratta di una

categoria storica che opera in modo particolare. Secondo questa

prospettiva, possiamo allora considerare il classico come "una specie di

presente fuori del tempo, che è contemporaneo ad ogni presente": in

questo senso si potrebbe dire che classico è bensì ciò che si trova "fuori

del tempo, ma in modo tale che questa sua eternità è un modo proprio

dell'essere storico, quindi, di nuovo, un modo di essere nel tempo;

possiamo dire allora che, come carattere generale, nel classico si

esprime quell'aspetto per cui l'essere storico "è conservazione nel

trascorrere distruttivo del tempo" (9). A partire da questo punto di vista,

Gadamer può affermare che in ogni opera (ed in questo caso si può

parlare di ogni forma di espressione, sia essa linguistica oppure no)

sono implicati "tutti i possibili destinatari di oggi e di domani" (10). Una

tale condizione è osservabile ad ogni modo in maniera più macroscopica

nel caso delle arti figurative. L'oggetto artistico, in quanto oggetto

storico, anche in virtù della sua pregnanza fisica (una statua, un

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monumento, un edificio), continua anche al di là delle intenzioni

dell'autore: l'opera dura nel tempo e viene così "letta", interpretata da

più soggetti, diacronicamente. Si potrebbe ricavare da qui il principio

generale per cui le possibilità dell'interpretazione non sono mai

completamente disgiunte dai mezzi materiali a cui una cultura ha

affidato la propria sopravvivenza.

Finora, tuttavia, sono state evidenziate certamente delle proprietà

fondamentali, ma non ancora l'essenza. Infatti, non tutto ciò che si

conserva è un classico. Classico è semmai ciò che si conserva in un

certo modo e questo concerne non solo un problema di trasmissione nel

tempo (conservazione), ma anche di comunicazione. Classico allora

potrebbe essere definito ciò che è sempre immediatamente accessibile

ed è quindi sottratto non solo alla mutevolezza dello scorrere del tempo,

ma anche al variare del gusto: in quanto tale, esso possiede una forza

comunicativa immediata ed in linea di principio illimitata (11). Da

questo lato Gadamer si trova a condividere in pieno una affermazione di

F. Schlegel: "Una scrittura classica non deve mai essere intesa

appieno"(12). È tuttavia possibile obiettare che non è così semplice

riuscire a vedere nel classico un serbatoio illimitato di senso. Se si

ammette, infatti, che la dimensione del classico è un carattere dell'esse-

re storico, ne consegue allora che, proprio in quanto legato ad una

precisa epoca storica, il classico possiede comunque un contenuto

storicamente determinato e quindi di per sé limitato. Resta a questo

punto ancora insoluta la domanda: da dove proviene il conferimento di

senso?

Gadamer osserva che nel concetto di classico confluiscono, per

riunirsi, un aspetto storico da un lato, ed un aspetto normativo (che

coincide con il significato originario di classico) dall'altro: ciò significa

che una determinata fase dello sviluppo storico dell'uomo viene

considerata anche come configurazione matura e completa dell'umano

(13) e quindi, in questo senso, anche come valore. Classico è perciò la

trasmissione/conservazione (aspetto storico) di un contenuto

normativo: ciò che è mantenuto, deve essere sentito in più come norma

o valore. Sotto questo profilo il problema del classico coincide, almeno

per il suo aspetto formale, con quello del valore; a questo punto,

tuttavia si pone il problema: i valori (il significato normativo del classico)

sono voluti in quanto valgono, oppure essi valgono in quanto sono

voluti? Gadamer, per parte sua, sembra propendere per la prima

ipotesi. Classico è ciò che non richiede innanzitutto il superamento

della distanza storica, poiché esso stesso compie, attraverso una

mediazione costante, tale superamento (14). Questo per quanto

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16

riguarda l'aspetto storico: ma una analoga autosufficienza sembra vada

riconosciuta, secondo Gadamer, anche per quanto concerne l'aspetto

più propriamente normativo. Classico, da questo lato, è ciò che si

mantiene valido di fronte alla critica storica (di fronte

all'interpretazione), in quanto la "potenza obbligante della sua validità

che dura e si tramanda, precede ogni riflessione storica e si fa valere in

essa" (15). Rispetto al punto di vista gadameriano va comunque

osservato che indubbiamente nel concetto di classico si esprime un

valore oggettivo: il problema reale, che Gadamer però non affronta, è

piuttosto riuscire a comprendere come ciò avvenga, ossia in quale modo

il contenuto storico, che si esprime nel classico, possa essere elevato a

norma; ma anche come tale contenuto possa acquistare prima e

mantenere poi il proprio valore oggettivo in senso diacronico.

Per quanto concerne le tematiche fin qui discusse, in Verità e

metodo si fa riferimento al Congresso dedicato al concetto di classico,

tenutosi a Naumburg nel 1930 e che fu dominato dalla personalità di

Werner Jaeger (16). L'avvenimento del Congresso è ricordato da

Gadamer anche nella sua autobiografia (17) come un episodio cultural-

mente importante ed in quella sede viene tributato un ulteriore omaggio

a quello che può essere considerato come il padre spirituale del "neo-

umanesimo". Proprio a partire dalle pagine di Paideia, sicuramente la

più celebre delle opere di W. Jaeger, che costituisce ancora oggi una

delle testimonianze più lucide e letterariamente più efficaci per quanto

concerne il significato della cultura antica nel nostro secolo, può

cominciare un approfondimento della problematica relativa al significato

del classico.

Nella "Prefazione" alla prima edizione del volume primo di Paideia,

che porta la data significativa dell'ottobre 1933, W. Jaeger chiarisce che

scopo del suo libro è innanzitutto quello di "esporre il processo

formativo storico dell'uomo greco", vale a dire, come viene precisato più

avanti, "la paideia, nella sua peculiarità e nel suo sviluppo storico

inconfondibili" (18). Il fine che l'opera si propone è quindi, in primo

luogo, quello di una precisa ricostruzione storica, che trova tuttavia la

sua giustificazione da un lato nella "importanza storica dei Greci quali

educatori", dall'altro nella loro "influenza imperitura" (19).

Coerentemente con questa prospettiva, il processo di formazione

dell'uomo greco non rappresenta un "mero complesso di idee astratte",

ma deve essere assunto come espressione della "storia stessa della

Grecia nella concreta realtà delle vicende vissute" (20). Proprio perché,

ai suoi occhi, l'ideale umano dei Greci non costituisce un vuoto schema,

collocato fuori dello spazio e del tempo, Jaeger può sviluppare una

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17

critica decisa del classicismo ed umanismo antistorico che ha dominato

il campo in epoche passate, ed il cui errore fondamentale è stato proprio

quello di concepire l'antichità classica "quale espressione di un'umanità

assoluta, fuori del tempo": ogni volta che questo accade ci si trova di

fronte a quella che potrebbe essere definita una "teologia classicista

dello spirito". Anche se, nella situazione del presente, il pericolo può

provenire da una direzione opposta, quella cioè di "uno storicismo senza

limiti e senza meta", risulta evidente, che i "valori permanenti dell'an-

tichità classica" e in modo particolare "la loro virtù formativa" possono

essere scoperti e rivelati soltanto come forze operanti nella vita storica,

a quel modo in cui sorsero ed agirono nel loro tempo (21). Come si può

vedere, secondo Jaeger, il contenuto ed il significato normativo del

classico non possono essere colti al di fuori di un momento storico

specifico, quindi soltanto come contenuto storicamente determinato,

compiuto e quindi limitato. Ciò che vi è di peculiare nell'esperienza dei

Greci è costituito dal fatto che quella storia vissuta è diventata per sé

una "forma eterna" (22). Spiegare il concetto di classico significa

spiegare, rendere ragione di questo passaggio, di questa trasformazione,

per cui qualcosa, non di illimitato, ma di finito e di intrinsecamente

determinato, ha acquisito un significato universale.

Come è noto, Jaeger guarda ai principi informatori del mondo

classico come ai valori permanenti in vista di un "futuro umanismo": ciò

non vuol dire appunto innalzare i Greci a "idolo extratemporale", ma

all'opposto che la loro importanza storica è data dal fatto che essi

"sembrano fondersi in un'unità col mondo europeo dell'età moderna",

alla luce di una "affinità spirituale fissata dal destino, ancor viva e

operante in noi"; da questo punto di vista, occorre riconoscere che in

realtà compiono uno spostamento antistorico di prospettiva proprio

coloro che si adoperano per separare il mondo dell'antichità classica da

quello delle nazioni occidentali (23). Nella prospettiva di Jaeger signifi-

cato normativo e significato storico del classico si fondono insieme, nel

senso che la possibilità di riconoscere l'antichità come valore ha il suo

fondamento in un atto di consapevolezza storica, ossia nel prendere

coscienza che "la nostra storia non comincia propriamente che con

l'Ellade". È tuttavia importante notare che qui cominciamento non

significa soltanto "inizio temporale", ma vera e propria "arché", ovvero

fondamento, "origine spirituale, cui si risale da ogni gradino per trarne

orientamento" (24). Si può comprendere appieno il significato

dell'atteggiamento di W. Jaeger se si tiene ben presente il contesto

storico immediato in cui egli si trovava ad operare: dalle pagine di

Paideia, infatti, emerge con viva drammaticità la preoccupazione per

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18

"l'ora presente", in cui una intera cultura, "sconvolta da un'immane

esperienza storica propria", ha avvertito la necessità di iniziare una

"revisione dei propri fondamenti" (25). In questo senso, perciò,

diventano pienamente evidenti le ragioni per cui è possibile affermare

che nel nostro atteggiamento di fronte all'umanesimo del passato si

tratta, in realtà, di noi medesimi e non semplicemente solo dei Greci: il

riaccostarsi alla grecità, infatti, ha come fine di conservare non i Greci,

quanto piuttosto la nostra civiltà (26).

Sulla base delle precedenti osservazioni, siamo probabilmente più

prossimi alla soluzione del problema da cui erano state prese le mosse.

Appare innanzitutto l'insufficienza della posizione gadameriana,

secondo cui il classico è, di per sé, immediatamente in grado di colmare

la distanza storica, e come tale il suo valore normativo viene accettato

perché si pone appunto come norma prima di ogni riflessione storica.

Classico è viceversa ciò che il presente riconosce sia come proprio inizio,

stabilendo una unità di passato e di presente, sia come proprio

fondamento, quindi come valore. Ciò che viene definito come classico

rappresenta, sia nel suo aspetto di conservazione, di continuità storica,

sia nel suo aspetto normativo, un momento in cui il presente inizia una

revisione dei propri fondamenti e come tale quindi è sempre il risultato

di un nostro atteggiamento nei confronti del passato. Senza una

coscienza storica che interpreta, ossia che conserva come memoria ed

unifica nella continuità, non vi sarebbe inizio, né fondamento, e quindi

non vi sarebbe classico. La memoria opera in modo selettivo. In

relazione a questo fatto si può probabilmente parlare di qualcosa come

l'inconscio storico, da intendersi come una sorta di serbatoio che

contiene in modo uniforme la storia, concepita appunto come "il

passato" in generale. In virtù dell'operazione di selezione messa in atto

dalla memoria, certe cose emergono, in quanto sono selezionate e

portate a consapevolezza. Certamente il "classico" è qualcosa che

emerge dall'inconscio storico, ma c'è bisogno di qualcosa che

continuamente lo richiami alla consapevolezza: questa funzione è svolta

dal presente, che si impone a sua volta come inizio e fondamento di ciò

che è classico. Il presente è qualcosa di storicamente determinato, così

come la stessa coscienza storica del presente è un qualcosa di limitato e

di finito. Il classico, quindi, non solo è inizio in rapporto a qualcosa di

determinato e di limitato, ma esso stesso ha un fondamento limitato e

determinato. Perdurare nel tempo da parte del classico significa aver

dato luogo a molti inizi e fondamenti, ossia a molti "presenti": nessuno

di essi è tuttavia determinabile a-priori, nel senso che esso sia

analiticamente per così dire già contenuto nel classico fin da principio.

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Ciascun cominciamento si aggiunge sinteticamente al contenuto

originario, a quella specifica esperienza storico-culturale che il classico

in sé è stato. Ciò che assume valore di classico rappresenta un inizio

diverso in relazione ad epoche storiche diverse e ciò significa che esso

veicola un significato sempre differente. In sé, il classico non è soltanto

ciò che ha la capacità di mantenersi nel senso della conservazione di

fronte alla coscienza storica, ma anche di diversificarsi in se stesso: in

quanto dice cose sempre diverse, continuamente si trasforma. Questo

diversificarsi è frutto dell'interpretazione come tale. Un classico diventa

tale vivendo dentro la molteplicità delle sue interpretazioni, che

aggiungono ad esso sempre nuova verità, cioè nuova essenza, in quanto

portano a manifestazione sempre nuovi significati. In questo senso il

classico è uno dei segni più visibili del ruolo costitutivo

dell'interpretazione nei confronti dell'essere storico.

* * *

A partire dalle precedenti osservazioni è possibile prendere in con-

siderazione alcune prospettive ovvero alcuni modelli di filosofia della

storia, intendendo quest'ultima come punto di contatto tra progetto filo-

sofico e fatti storici. Esaminando in successione le prospettive assunte

da G. B. Vico, G. W. F. Hegel, W. Dilthey e J. Habermas si cercherà di

portare alla luce le modalità attraverso cui è possibile l'approccio tra

filosofia e sapere storico. Questi autori sono rappresentativi sia in rap-

porto a se stessi, ossia per il valore intrinseco della loro proposta filoso-

fica, sia in rapporto a paradigmi più generali, ovvero per il significato

storico assunto dal loro pensiero.

Vico rappresenta indubbiamente una delle prime prese di posizione

consapevoli della modernità nei confronti del tema della storia.

Le Lezioni di filosofia della storia tenute da Hegel quando era docen-

te a Berlino rappresentano un modello ancora non superato per quanto

riguarda le ambizioni e l'ampiezza del progetto. Nell'ambito del rapporto

tra filosofia e storia il pensiero di Hegel, in positivo o in negativo, è un

punto di riferimento, un passaggio obbligato da cui non si può prescin-

dere.

Dilthey rappresenta da un lato la reazione allo storicismo di tipo

idealistico e dall'altro uno dei primi atti di fondazione dell'ermeneutica

contemporanea, intesa come metodologia e scienza dell'interpretazione.

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Habermas, per parte sua, tenta di formulare una teoria organica

della razionalità alla luce di quello che viene considerato un mutamento

di paradigma fondamentale nello sviluppo storico della cultura filosofica

della Modernità, ovvero il passaggio a quella che viene definita come la

“filosofia del soggetto”.

NOTE

1) Cfr. Aristot. Top., 100 b 22-23.

2) Cfr. Aristot. Poet., 51 a 36 - 51 b 19.

3) Cfr. Aristot. De an., 417 b 23.

4) Cfr. Thucid., I, 20, 3, 21, 1 (cfr. trad. it. La guerra del Peloponneso,

con testo greco a fronte, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 1985, I, p.

107).

5) Ivi, p. 109.

6) Cfr. H.I. Marrou, De la connaissance historique, Éditions du Seuil,

Paris 1954, pp. 38-39.

7) H.-G. Gadamer, Gesammelte Werke, Band 2, Mohr, Tübingen 1986,

p. 476 (H.-G. Gadamer, Verità e metodo 2. Integrazioni, trad. it. di R.

Dottori, Bompiani, Milano 1996, p. 29).

8) Cfr. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer

philosophischen Hermeneutik, in H.-G. Gadamer, Gesammelte Werke,

Band 1, Mohr, Tübingen 1986, pp. 292-293 (H.-G. Gadamer, Verità e

metodo, trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1988, pp. 336-337).

9) Ivi, pp. 293-295 (pp. 337-339).

10) Gadamer, Gesammelte Werke, Band 2 cit., p. 476 (p. 29).

11) Gadamer, Wahrheit und Methode cit., p. 293 e p. 295 (p. 337 e

p. 339).

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12) Cfr. F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, trad. it. di V.

Santoli, Sansoni, Firenze 1967, p. 21.

13) Gadamer, Wahrheit und Methode cit., p. 291 (p. 335).

14) Ivi, p. 295 (p. 339).

15) Ivi, p. 292 (p. 336, corsivo mio).

16) Ivi, p. 291 (p. 335).

17) Cfr. H.-G. Gadamer, Maestri e compagni nel cammino del pensiero.

Uno sguardo retrospettivo, trad. it. di G. Moretto, Queriniana, Brescia

1980, pp. 39-40.

18) Cfr. W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen,

Erster Band, De Gruyter & Co., Berlin und Leipzig 19362, p. V e p. 5

(W. Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco, Volume I, trad. it. di

L. Emery e A. Setti, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. IX e p. 6).

19) Ivi, p. 8 e p. V (p. 9 e p. IX).

20) Ivi, p. 5 (p. 6).

21) Ivi, pp. 14-16 (pp. 16-17).

22) Ivi, p. 5 (p. 6).

23) Ivi, p. 15, p. 8 e p. 4 (p. 17, p. 9 e pp. 4-5).

24) Ivi, pp. 3-4 (pp. 4-5).

25) Ivi, p. 19 (p. 22).

26) Ivi, pp. V-VI (pp. X-XI).

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II

G. B. VICO: LA STORIA COME SCIENZA NUOVA

G. B. Vico nasce a Napoli nel 1668, e muore sempre a Napoli nel

1744. La vita di Vico si distribuisce in mezzo a due generazioni di filoso-

fi moderni, da una parte quella rappresentata ad esempio da Locke

(1632-1704), Newton (1642-1727) e Liebniz (1646-1716) e dall'altra

quella costituita ad esempio da Voltaire (1694-1778), Hume (1711-

1776) e Rousseau (1712-1778). La sua opera fondamentale è la Scienza

Nuova, di cui abbiamo a disposizione tre edizioni che corrispondono ad

altrettante stratificazioni dell'opera stessa: 1725, 1730 e quella postuma

del 1744.

2.1 METAFISICA COME SCIENZA NUOVA

Le opere di filosofia a volte hanno un titolo che non è stato attribui-

to dal loro autore: ad esempio Metafisica o Etica nicomachea, non sono

stati scelti da Aristotele. Laddove sia l'autore a scegliere il titolo, questo

non ha il valore di semplice etichetta e nemmeno quello di uno slogan

concepito per accattivare il pubblico: esso dice sempre qualcosa di spe-

cifico in relazione al contenuto speculativo di cui l'opera parla. E' legit-

timo pensare che Vico avesse piena consapevolezza storica del fatto che

la propria proposta filosofica, in virtù del suo statuto scientifico, costi-

tuisse un progetto nuovo rispetto al passato.

Nel caso vichiano, già il fatto che troviamo in un'opera di filosofia il

termine scienza può costituire un elemento in controtendenza, rispetto

a quelle che sono le abitudini del pensiero contemporaneo, nel senso

che oggi si tende a distinguere in maniera a volte molto radicale ciò

che è scientifico da ciò che è filosofico. Molti settori della filosofia con-

temporanea si fanno un onore di essere appunto non scientifici. Vico

invece chiama Scienza nuova la sua opera filosofica fondamentale. Non

c'è assolutamente niente di strano, rispetto a quanto avveniva nel pas-

sato, prima e dopo Vico, in quanto anche Fichte, ad esempio, scrive (e

riscrive con atteggiamento quasi vichiano) la Dottrina della scienza, He-

gel pubblica l'Enciclopedia delle scienze filosofiche, e nella tradizione

precedente a Vico autori come Cartesio, Hobbes o Spinoza non avevano

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dubbi sul fatto che la filosofia fosse una scienza. Una prima cosa da ca-

pire è quindi il titolo dell'opera, in quanto, rapportata ai parametri o-

dierni, la Scienza nuova contiene poco di propriamente scientifico. Si

tratta allora di capire in che senso essa possa fregiarsi del titolo di

scienza. Ma prima ancora è opportuno soffermarsi sull'altro termine, e

chiedersi: perché nuova? Questa parte del titolo è qualcosa che nasce

anche da una precisa presa di coscienza sul piano storico: consapevol-

mente Vico offre il suo progetto filosofico come qualcosa di diverso ri-

spetto al passato, e a questo proposito si tratta di mettere in luce non

tanto quello che noi potremmo trovare di nuovo leggendo il testo vichia-

no, ma piuttosto quello che Vico considerava da parte sua come nuovo

nella propria opera.

A questo punto ci troviamo di fronte a quello che possiamo definire

come un paradosso, perché proprio nella introduzione che serve a spie-

gare l'idea dell'opera, viene ricordato che "questa Nuova Scienza" altro

non è che "la metafisica" (1). Il paradosso sta nel fatto che Vico propone

il suo progetto sotto una veste che, almeno a prima vista, si propone

come ciò che più di tradizionale è possibile trovare in campo filosofico.

La Scienza nuova, proprio in quanto nuova, si presenta come metafisica

e da questo lato rientra apparentemente dentro la tradizione. Bisogna

cercare di capire allora cosa significa metafisica per Vico.

Come è noto, l'idea dell'opera vichiana è illustrata in modo figurato

dalla cosiddetta "dipintura", il cui contenuto è spiegato e commentato

da Vico stesso: qui la metafisica è ritratta nell'aspetto di una "donna

con le tempie alate che sovrasta al globo mondano, o sia al mondo della

natura" (2). Vico definisce quindi la metafisica secondo il significato let-

terale del termine (tà metà tà physiká), accettandone quindi il concetto

più tradizionale: il sapere che ha come oggetto ciò che va oltre la fisica.

Le analogie con la tradizione però finiscono qui. Per Vico, infatti, il

mondo metafisico rappresenta certamente l'aldilà della fisica, ma non

nel senso del passaggio al sovrasensibile, ovvero dalla physis a Dio. La

metafisica si innalza "sopra l'ordine delle cose naturali, per lo quale fi-

nora l'hanno contemplato i filosofi", per risalire fino al "mondo delle

menti umane": il vero "mondo metafisico" è costituito quindi dal "mondo

degli animi umani, ch'è'l mondo civile, o sia il mondo delle nazioni" (3).

Il compito della metafisica è quello di studiare le menti umane, ovvero la

natura dell'uomo dal punto di vista del suo comportamento come essere

sociale; in questo senso l'oggetto della metafisica è il mondo costituito

dalle nazioni, che rappresenta da un lato il vertice e dall'altro il punto di

massima concretizzazione dell'agire dell'uomo. L'idea che la metafisica è

quella forma di sapere che si sviluppa al di sopra del mondo della natu-

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ra assume per Vico un significato tutto particolare, perché è oltre la fisi-

ca si colloca appunto tutta quella parte di realtà che è costituita dalle

azioni dell'uomo. La critica che muove alla tradizione è quella di avere

svolto sostanzialmente una indagine di tipo parziale, "perché i filosofi,

infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine

naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale a Dio,

come a Mente signora libera ed assoluta della natura (perocché, col suo

eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l'essere, e naturalmente lo ci

conserva), si danno dagli uomini l'adorazioni co' sacrifici ed altri divini

onori; ma nol contemplarono già per la parte ch'era più propria degli

uomini, la natura de' quali ha questa principale propietà: d'essere so-

cievoli" (4). Secondo Vico, quindi, è proprio quel campo sconfinato e fi-

nora totalmente inesplorato che è costituito dalla "vera civil natura

dell'uomo" (5) ad avere bisogno di un attento ed accurato studio siste-

matico. Da questo lato la scienza di Vico è nuova proprio perché è meta-

fisica ed è effettivamente meta-fisica perché il mondo delle nazioni, lo

sviluppo degli stati e quindi le varie forme di costituzione, le varie epo-

che dell'umanità osservate dal punto di vista della loro organizzazione

politica, sono l'oggetto fondamentale della sua indagine. Quindi Vico

pubblicando la Scienza nuova espone in modo consapevole un concetto

storicamente nuovo di metafisica, perlomeno totalmente rinnovato ri-

spetto ai suoi tempi. Sotto questo aspetto, l'innovazione che Vico propo-

ne è la trasformazione della metafisica da teologia naturale a teologia

civile: "Perciò questa Scienza, per uno de' suoi principali aspetti, dev'es-

sere una teologia civile ragionata della provvedenza divina. La quale

sembra aver mancato finora, perché i filosofi o l'hanno sconosciuta af-

fatto, come gli stoici e gli epicurei, de' quali questi dicono che un con-

corso cieco d'atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d'ef-

fetti strascina le faccende degli uomini; o l'hanno considerata solamente

sull'ordine delle naturali cose, onde «teologia naturale» essi chiamano la

metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e'l confer-

mano con l'ordine fisico che si osserva ne' moti de' corpi, come delle sfe-

re, degli elementi, e nella cagion finale sopra l'altre naturali cose minori

osservata" (6). Il passaggio dalla teologia naturale alla teologia civile

comporta anche la distinzione tra quella metafisica che ha "il cuor terso

e puro... non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltà di cor-

porali piaceri" (7) e la metafisica falsa, che assume una prospettiva di

tipo materialistico e che in un passo della edizione del 1730 della Scien-

za Nuova viene descritta nei seguenti termini: "La falsa e quindi rea me-

tafisica abbia l'ale delle tempie inchiovate al globo dalla parte opposta

coverta d'ombre, perché non possa (e non può), perché non voglia (né sa

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perché non vuole) alzarsi sopra il mondo della natura; onde, dentro

quelle sue tenebre, insegni o 'l cieco caso d'Epicuro o 'l sordo fato degli

stoici, ed empiamente oppini che esso mondo sia Dio, o operante per

necessità (quale, con gli stoici, il vuole Benedetto Spinosa), ovvero ope-

rante a caso (che va di seguito alla metafisica che Giovanni Locke fa

d'Epicuro), e (con entrambi), avendo tolto all'uomo ogni elezione e consi-

glio, avendo tolta a Dio ogni provvedenza, insegni che dapperutto debbe

regnar il capriccio, per incontrare o 'l caso o 'l fato che si desidera. Ella

con la sinistra tenga la borsa, perché tali venenose dottrine non son in-

segnate che da uomini disperati, i quali o, vili, non ebbero mai parte allo

Stato o, superbi, tenuti bassi o non promossi agli onori de' quali per la

lor boria si credon degni, sono malcontenti dello Stato; siccome Bene-

detto Spinosa, il quale, perché ebreo, non aveva niuna repubblica, truo-

vò la metafisica da rovinare tutte le repubbliche del mondo" (8). Dentro

la falsa metafisica, come si vede, sono implicati secondo Vico anche

nomi significativi della modernità; esempio di "sublime metafisica" è

piuttosto il pensiero del "divino filosofo", cioè di Platone: così come sono

da rifiutare tutte le metafisiche "che tengono diverso cammino dalla pla-

tonica", altrettanto i "platonici" sono gli autentici "filosofi politici" (9). La

Scienza Nuova si qualifica perciò come una "metafisica della mente u-

mana" che si deve risolvere in "una storia dell'umane idee": in quanto

tale essa "viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna,

sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sor-

gimenti, progressi, stati, decadenze e fini" (10).

Considerando le cose secondo un simile punto di vista, si potrebbe

dire che, se in Vico troviamo una filosofia della storia, si tratta in primo

luogo di una filosofia politica della storia ovvero di una filosofia della sto-

ria politica.

2.2 LA STORIA COME SCIENZA

Resta a questo punto da rispondere alla seconda parte della do-

manda rivolta alla Scienza nuova: perché scienza? Questa domanda ri-

manda al rapporto tra filosofia e scienza: in che senso possiamo parlare

di scienza in Vico? Il rapporto tra le varie scienze e la filosofia è un pro-

blema che si è sviluppato soprattutto ai nostri giorni: si potrebbe quasi

dire che si tratta di uno dei conflitti speculativi del '900, rispetto al qua-

le si sono sviluppate due orientamenti di pensiero. Da un lato stanno

quanti vorrebbero ricondurre la filosofia sul terreno della scienza e que-

sto significa innanzitutto far accettare alla filosofia le regole, i canoni

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che stabiliscono la scientificità nell'ambito delle singole scienze positive;

dall'altro lato stanno invece quanti sostengono l‟estraneità e

l‟indipendenza della filosofia dalle scienze positive. Almeno una parte

del dibattito filosofico del '900 si è focalizzata su questa questione: se la

filosofia deve essere scienza e a quali condizioni lo deve essere.

Un simile dibattito presuppone tuttavia che vi sia già una spacca-

tura tra scienza e filosofia. Il fatto che Vico parli senza remore della sua

opera come di una nuova scienza significa che al suo tempo questa

spaccatura non si era ancora consumata. Anzi il problema fondamenta-

le da cui era nato il pensiero moderno era quello di vedere in che manie-

ra la filosofia potesse riappropriarsi della sua dignità di scienza. Ad e-

sempio, per Galilei, Bacone, Cartesio, Spinoza, Leibniz, per fare riferi-

mento ad alcuni degli autori che Vico cita nelle proprie opere, il proble-

ma non era tanto di accertare se la filosofia fosse o no una scienza, ma

importante era soprattutto determinare le condizioni a partire dalle qua-

li la filosofia poteva effettivamente realizzarsi come una forma di sapere

che fosse al tempo stesso scientifico.

La risposta generale che la modernità dà a questo quesito è che la

filosofia potrà riappropriarsi della sua dignità di scienza se saprà darsi il

giusto metodo e il problema del metodo scientifico passa attraverso l'ac-

coglimento dei criteri stabiliti dal metodo matematico. Galilei parla della

natura come di un libro, ma di un libro il cui linguaggio può essere in-

teso soltanto se noi ci abituiamo a ragionare matematicamente. E que-

sto perché il libro della natura è composto da caratteri che sono figure

geometriche.

Da questo punto di vista Vico intende collocarsi lungo la direzione

segnata dalla modernità; nella Scienza nuova la Sezione quarta del Libro

Primo è dedicata appunto alle questioni di tipo metodologico ed a questo

specifico problema la risposta è la seguente: il contenuto dell'opera è

stato "meditato in idea, giusta il metodo di filosofare più accertato di

Francesco Bacone, signor di Verulamio, dalle naturali, sulle quali esso

lavorò il libro Cogitata et visa, trasportato all'umane cose civili" (11).

Non è forse un caso, da questo lato, che il nome del "Verulamio, gran

filosofo egualmente e politico" (12) sia associato non una sola volta a

quello di Platone (13). L'essenza del metodo baconiano è tradotta da Vi-

co nei due principi del cogitare (il ragionare e la razionalizzazione dei

dati) e del videre (i dati raccolti dall'esperienza) (14). Se Bacone aveva

applicato tale metodo alle cose naturali, Vico intende applicarlo o alle

"umane cose civili": in questo modo con la Scienza nuova egli intende

compiere una doppia operazione: da un lato spostare l'asse dell'interes-

se dalla natura al mondo dell'uomo; dall'altro applicare al mondo delle

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umane cose civili quella metodologia che il pensiero moderno si era limi-

tato ad applicare al solo mondo della natura.

Vico però non sembra essere perfettamente coerente con se stesso,

perché proprio mentre fa professione di fede baconiana in realtà ag-

giunge anche un'altra annotazione: egli infatti che la sua scienza "pro-

cede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il

costruisce o 'l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze;

ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle

faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figu-

re" (15). Quando ci si riferisce al problema del metodo, si parla della via

che una determinata forma di sapere deve percorrere per raggiungere i

propri scopi, seguendo determinati punti di orientamento e sviluppan-

dosi secondo determinate successioni. La scienza vichiana intende pro-

cedere metodologicamente e svilupparsi come la geometria. L'oggetto

della geometria è il mondo delle grandezze e la sua caratteristica epi-

stemologica più rilevante è costituita dal fatto che l'oggetto che essa te-

matizza, è un mondo che essa stessa costruisce.

La Scienza nuova procede allo stesso modo, seguendo cioè lo stesso

metodo, con questa unica differenza: mentre la geometria si occupa di

grandezze astratte, la Scienza nuova si occupa di cose concrete, in

quanto tratta le faccende degli uomini. Se guardiamo le cose da questo

punto di vista, allora il termine di riferimento non è tanto la filosofia di

Bacone, quanto piuttosto la filosofia di Hobbes.

Hobbes è un autore che Vico conosceva sicuramente: nei suoi scrit-

ti ne parla, al pari di Machiavelli, come un seguace di Epicuro e perciò

come un esempio di quella metafisica materialistica, "falsa e quindi rea"

che sosteneva un determinismo meccanicistico, negatore "della libertà

dell'umano arbitrio" e quindi di ogni possibile virtù (16). Il discorso vi-

chiano relativo al metodo ed all'oggetto specifico della Scienza nuova

presenta delle notevoli analogie con le considerazioni sviluppate da

Hobbes nel Capitolo decimo del De homine, dove viene affrontato il pro-

blema della struttura epistemica del discorso scientifico. A questo ri-

guardo Hobbes inizia col distinguere innanzitutto tra scienza e cognizio-

ne: "Per scienza si intende la verità dei teoremi, cioè delle proposizioni

generali, vale a dire la verità delle conseguenze. Quando invece si tratta

di verità di fatto, si dice non propriamente scienza, ma semplicemente

cognizione. Quindi la scienza grazie alla quale sappiamo che un teorema

proposto è vero, è una conoscenza a partire dalle cause, cioè dalla gene-

razione dell'oggetto, derivata mediante un retto raziocinio" (17).

Se la dimostrazione a priori, cioè l'autentico metodo scientifico, è

quella che procede dalle cause e si sviluppa fino agli effetti e per causa

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si deve intendere il processo di generazione della cosa. Se io conosco i

processi che generano la cosa, ne consegue allora che "agli uomini è

stata concessa una scienza con quel tipo di dimostrazione a priori solo

nel caso di quegli oggetti, la cui generazione dipende dall'arbitrio degli

uomini stessi" (18). A partire da questi principi metodologici più genera-

li, Hobbes ricava delle distinzioni più specifiche, in relazione alla qualità

epistemologica delle diverse discipline: infatti "dimostrabili sono... molti

teoremi circa la quantità, la cui scienza si chiama geometria. Poiché in-

fatti le cause delle proprietà che le singole figure hanno risiedono nelle

linee che noi stessi tracciamo, e le generazioni delle figure dipendono

dal nostro arbitrio, non si richiede, alla conoscenza di qualsiasi proprie-

tà di una figura, nulla più della considerazione di tutti gli elementi che

conseguono alla costruzione che noi stessi facciamo delineando la figu-

ra. Quindi, che la geometria sia ritenuta e sia dimostrabile dipende dal

fatto che noi stessi creiamo le figure" (19). Ciò che è possibile nel campo

della matematica pura non accade invece nell'ambito delle discipline

che studiano i fenomeni della natura: "Di contro, poiché le cause delle

cose naturali non sono in nostro potere, bensì della volontà divina, e

poiché la loro massima parte, cioè l'etere è invisibile, non possiamo de-

durre le loro proprietà dalle loro cause, dato che noi non le vediamo. Ci

è invece concesso procedere deducendo le conseguenze da quelle stesse

proprietà che vediamo, fino a poter dimostrare che le loro cause abbiano

potuto essere tali o talaltre. E questa dimostrazione si chiama a poste-

riori, e la scienza stessa, fisica" (20). Se nel campo delle cose della natu-

ra l'uomo è in grado di costruire soltanto una conoscenza che si svilup-

pa a posteriori, ossia che dagli effetti risale alle possibili cause, vi sono

tuttavia altre scienze, oltre alla geometria, capaci di dimostrazioni a

priori, ossia di un sapere genetico-sintetico: "Anche l'etica e la politica

d'altronde, cioè la scienza del giusto e dell'ingiusto, dell'equo e dell'ini-

quo, si possono dimostrare a priori; in quanto che i principi grazie ai

quali si conosce cosa siano il giusto e l'equo, e per contro l'ingiusto e l'i-

niquo, cioè le cause della giustizia, e precisamente le leggi e i patti, li

abbiamo fatti noi. Infatti, prima della istituzione dei patti e delle leggi,

non vi era alcuna giustizia né ingiustizia, né alcun genere di bene o di

male pubblico tra gli uomini, più che tra le bestie" (21). Geometria, etica

e politica presentano delle evidenti analogie di struttura dal punto di

vista del loro statuto epistemologico perché tanto l'oggetto dell'una,

quanto l'oggetto delle altre è qualcosa di prodotto, di costruito dall'uo-

mo.

Vico individua la stessa analogia strutturale tra la geometria, inte-

sa come scienza della grandezze, e la Scienza nuova come scienza delle

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"cose morali pubbliche" ovvero dei "costumi civili, co' quali sono prove-

nute al mondo e si conservan le nazioni" (22). Il principio basilare da

cui si sviluppa la metafisica vichiana è sostanzialmente contenuto in

"questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio:

che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se

ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modifi-

cazioni della nostra medesima mente umana. Lo che a chiunque vi riflet-

ta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono

di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché

Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare

su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'a-

vevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini"

(23). Come si è visto, la novità della filosofia vichiana è costituita dalla

trasformazione della metafisica da teologia naturale a teologia civile: que-

sto spostamento di prospettiva è anche il luogo su cui Vico costruisce la

scientificità del suo progetto. La Scienza nuova, quindi, "ragione con

uno stretto metodo geometrico, con cui da vero passa ad immediato ve-

ro", per cui, al fine di comprenderne il contenuto, "è bisogno di aver fat-

to l'abito di ragionar geometricamente" (23).

2.3 NATURA E STORIA

Il progetto della Scienza nuova è costruito attraverso una serie di

coppie concettuali, che di volta in volta possono essere viste come dei

binomi o come delle opposizioni: mondo della natura/mondo delle na-

zioni; teologia naturale/teologia civile; anima (mente)/corpo. Con il pen-

siero di Vico si ripropone il problema del rapporto tra natura e storia,

che si esprime sia nella forma della differenza che della somiglianza. La

prima differenza riguarda l‟origine del mondo della natura e del mondo

della storia. Dio ha creato la natura; se noi svestiamo questa afferma-

zione dagli echi teologici abbiamo il seguente significato: il mondo della

natura è per l'uomo un mondo trovato, già dato, nei cui confronti si

pongono problemi di adattamento per potervi sopravvivere. La prima

determinazione con cui il mondo della natura si atteggia nei confronti

dell'uomo è in generale quello dell'estraneità, una estraneità che ad e-

sempio il Cristianesimo, proprio svolgendo ed accentuando il dualismo

neo-platonico di anima e corpo, ha tendenzialmente sviluppato e appro-

fondito. Viceversa il mondo della storia è quello che l'uomo contribuisce

a produrre con le sue azioni: il mondo delle nazioni è il mondo fatto

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dall'uomo e questa è la prospettiva di base attraverso cui guardare

all'universo della realtà storica.

Questa divaricazione tra natura e storia non è senza un rapporto di

analogia. Per certi aspetti anche il mondo della storia è qualcosa di già

dato, che ciascuno di noi trova già fatto. Noi non scegliamo il mondo

storico in cui nascere ma entriamo nel tempo e nella storia trovando

una realtà già costituita e nei confronti della quale dobbiamo adattarci.

Per molti aspetti il problema di un adattamento nei confronti della natu-

ra è già risolto all'interno di quella che è la compagine civile in cui cia-

scuno si trova a vivere. Il rapporto con la natura è mediato dal rapporto

con la società: è la società, intesa anche nel senso di cultura e storia,

che tendenzialmente sceglie il tipo di rapporto che ciascuno di noi deve

di fatto avere con la natura.

Per quanto Vico possa parlare di una provvidenza divina che regge

il fondo del divenire storico, non di meno è chiara in lui la rivendicazio-

ne che la storia è fondamentalmente storia dell'uomo e questo suo esse-

re un prodotto dell'uomo è ciò che differenzia il mondo della storia dal

mondo della natura. Il significato originario che il concetto di storia vie-

ne progressivamente ad assumere nell'ambito della modernità è appun-

to questo, la storia rappresenta la sintesi dei comportamenti socializzati

degli uomini, delle varie individualità interagenti le une nei confronti

delle altre e di quelle ulteriori individualità che sono le nazioni.

NOTE

1) Cfr. G.B. Vico, La Scienza Nuova Seconda giusta l'edizione del 1744

con le varianti del 1730 e di due redazioni intermedie inedite, a cura di

F. Nicolini, Laterza, Bari 19423, Parte prima, p. 26.

2) Ivi, I, p. 5.

3) Ivi, I, p. 5.

4) Ivi, I, pp. 5-6.

5) Ivi, I, p. 6.

6) Ivi, I, p. 125.

7) Ivi, II, pp. 171-172.

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8) Ivi, I, p. 8.

9) Ivi, II, pp. 35, 149, 173, 199, 265 e I, p. 75.

10) Ivi, I, pp. 127-128.

11) Ivi, I, p. 131.

12) Ivi, I, p. 214.

13) Ivi, I, pp. 55, 151.

14) Ivi, I, p. 131.

15) Ivi, I, p. 129.

16) Ivi, I, pp. 85, 124 e II, p. 164.

17) Cfr. T. Hobbes, De Homine. Sezione seconda degli Elementi di Filo-

sofia, trad. it. di A. Pacchi, Laterza, Bari 19722, p. 143.

18) Ivi, pp. 143-144.

19) Ivi, p. 144.

20) Ivi, p. 144.

21) Ivi, p. 145.

22) Cfr. Vico, La Scienza Nuova Seconda giusta l'edizione del 1744 cit.,

I, p. 8.

23) Ivi, I, pp. 116-118.

24) Ivi, II, p. 173.

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33

III

G. W. F. HEGEL: LIBERTÀ E STORIA

Hegel nasce nel 1770 e muore durante una epidemia di colera nel

1831: la morte lo raggiunge nel pieno della sua attività filosofica. L'epo-

ca di Hegel è quella di Beethoven (1770-1827) e di Hölderlin (1770-

1853), suoi contemporanei. I compagni di strada di Hegel sono Kant

(1724-1804), Fichte (1762-1814) e Schelling (1775-1854). Schelling è

stato anche compagno di universtà di Hegel a Tubinga insieme a Höl-

derlin. La filosofia hegeliana trova in Kant uno dei suoi fondamentali

interlocutori.

Le opere di Hegel possono essere suddivise in due grossi gruppi: le

opere pubblicate da Hegel (Fenomenologia dello spirito, Scienza della lo-

gica, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Lineamenti di filosofia del dirit-

to); e le sue lezioni universitarie, trascritte dai suoi studenti e poi raccol-

te e pubblicate: le Lezioni sulla Filosofia della storia, unitamente a quelle

sulla Estetica, sulla Filosofia della religione e sulla Storia della Filosofia,

appartengono a quest'ultimo gruppo.

Quando si parla della filosofia della storia in Hegel ci si riferisce ad

uno degli aspetti, ad una parte della sua filosofia. Generalmente per i

filosofi vale il principio che partendo da un punto specifico è possibile

ricostruire tutto il pensiero ed a maggior ragione per un filosofo dichia-

ratamente sistematico come Hegel questa operazione diventa ancora più

naturale.

Dal punto di vista hegeliano quattro punti sono da mettere in luce:

1. la collocazione sistematica della storia;

2. la natura della storia;

3. il soggetto della storia;

4. le epoche della storia.

Con questi punti non si mettono a fuoco la totalità delle problema-

tiche sviluppate da Hegel nella filosofia della storia ma se ne evidenzia-

no alcuni nodi fondamentali.

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3.1 LA COLLOCAZIONE SISTEMATICA DELLA STORIA

Le Lezioni sulla filosofia della storia non danno una risposta alla

domanda su quale sia la collocazione sistematica della storia in Hegel.

Occorre innanzitutto osservare che all'interno del pensiero hegeliano la

filosofia si colloca in un rapporto costitutivo con la storicità e che a sua

volta questo rapporto si sviluppa lungo una molteplicità di percorsi.

Una prima forma in cui si configura il rapporto tra pensiero specu-

lativo e mondo storico è quella che corrisponde alla celebre definizione

contenuta nella Filosofia del diritto, secondo cui la filosofia "è il proprio

tempo appreso in pensieri". Secondo questa prospettiva, allora, "compito

della filosofia" diventa "comprendere (begreifen) ciò che è", e "ciò che è", a

sua volta, è appunto "la ragione". La traduzione in termini razionali-

concettuali di ciò che è, inteso nel senso di ciò che accade nel tempo, pre-

suppone l'identità tra essere e ragione, ovvero si fonda sul celebre princi-

pio secondo cui "ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale"

(1).

E' nota anche la tesi hegeliana secondo cui "la storia della filosofia è

la filosofia stessa" (2). Sulla base di questa reciproca coincidenza è possi-

bile delineare una seconda forma di rapporto tra la filosofia ed il tempo

storico, che procede però seguendo un movimento inverso rispetto a quel-

lo precedentemente esaminato, in quanto si sviluppa, per così dire, dal

basso. Da questo lato è possibile osservare un duplice svolgimento (En-

twicklung) della filosofia. Il primo è quello che si dà nella "forma del puro

pensiero": in questo caso ci troviamo di fronte ad una forma di sviluppo

che cade certamente "anche nel tempo, ma non ancora nella esteriorità

storica", quanto piuttosto "nella interna coscienza di singoli individui". La

seconda forma di svolgimento è quella in cui la "condizione (Zustand) di

un intero popolo viene presentata come momento della filosofia. Questa

necessità ha innanzitutto la forma che il pensiero deve (muss) cadere nel

tempo" (3). E' quindi anche lungo questa seconda prospettiva che si apre

la strada per la considerazione storica della filosofia. In tal modo si confi-

gura ancora una volta una relazione di unità/identità tra pensiero e

mondo storico, al cui interno però è quest'ultimo ad avere innanzitutto

un potere di determinazione nei confronti del pensiero filosofico: ogni filo-

sofia appartiene infatti al suo tempo e può esprimersi soltanto nei limiti

del linguaggio della sua propria epoca (4).

Le due definizioni della filosofia fin qui prese in considerazione

fanno entrambe riferimento alla storicità, però non aprono ancora uno

spiraglio in direzione della collocazione sistematica della storia, semmai

la presuppongono. Per affrontare effettivamente un tale problema è op-

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35

portuno rifarsi innanzitutto alla Enciclopedia delle scienze filosofiche in

compendio. A questo riguardo, l'Enciclopedia del 1817 sembra presenta-

re delle peculiarità proprio per quanto riguarda la determinazione

dell'essenza della filosofia. Qui infatti si possono mettere in primo luogo

in evidenza due definizioni complementari di filosofia: l'una secondo cui

la filosofia "è essenzialmente enciclopedia"; l'altra secondo cui essa è

"necessariamente sistema" (5). In questo modo l'equivalenza filosofi-

a/enciclopedia/sistema risulta più chiara che non nelle successive edi-

zioni del 1827 e del 1830, dove essa appare enunciata in modo meno

evidente (6).

Ciò che innanzitutto è importante capire è che la struttura siste-

matica non è semplicemente una sorta di rivestimento, un abito che la

filosofia indossa saltuariamente, ma è qualcosa che inerisce all'essenza

stessa del filosofare: per Hegel sussiste una relazione necessaria tra lo

svilupparsi del pensiero filosofico ed il suo strutturarsi come sistema.

Ponendoci quindi il problema della filosofia della storia di Hegel, uno

degli aspetti da considerare è la collocazione della storia e della sua

problematica a livello di sistema. E' a partire da qui che si svilupperan-

no gli altri aspetti che sono stati precedentemente individuati: a partire

dalla collocazione sistematica è possibile analizzare la natura della sto-

ria, capire quale sia il suo soggetto ed infine determinare le epoche del-

la storia stessa: questa partizione, infatti, è a sua volta in stretta con-

nessione con quello che è l'originario ruolo sistematico assegnato al sa-

pere storico.

Dal punto di vista hegeliano la filosofia è essenzialmente sistema e

il sistema si sviluppa a sua volta come enciclopedia delle scienze filosofi-

che. Il sistema della Enciclopedia si struttura in una prima grande tri-

partizione: A. Logica; B. Natura; C. Spirito. La Logica rappresenta il regno

del puro pensiero speculativo: in quanto fondamento assoluto del reale

essa deve essere intesa come l'ossatura del mondo esistente, nella quale

si raccolgono le nervature portanti su cui sono destinati a scorrere il

mondo della Natura e il mondo dello Spirito. La realtà effettuale è costi-

tuita quindi dalla Natura intesa come physis, come regno della necessità

e dell'accidentalità, e dallo Spirito, che racchiude il mondo umano, co-

nosciuto nella sua universalità e verità.

A sua volta lo Spirito si suddivide in: a. Spirito soggettivo; b. Spirito

oggettivo; c. Spirito assoluto. La sezione dello Spirito oggettivo è il luogo

sistematico in cui vengono analizzate "tutte le determinazioni della liber-

tà", in relazione sia con il volere soggettivo che oggettivo, vale a dire i

diritti, i doveri, le abitudini, i modi di sentire, i costumi, i comporta-

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menti (7): entra qui in gioco il problema della vita dell'uomo intesa non

più come semplice vita biologica, ma pensata nel suo senso più pieno.

Lo Spirito oggettivo si suddivide ancora in: a. Diritto; b. Moralità; c.

Eticità. Il Diritto costituisce la sfera che racchiude i rapporti giuridici fra

i singoli individui intesi come persone private: si tratta quindi del diritto

formale ed astratto, che comprende le figure della proprietà e del con-

tratto (8). La Moralità è la sfera della coscienza intesa come "certezza

astratta di se stesso", della "libertà soggettiva" che agisce come volontà

particolare": in questo senso è al contempo il luogo del "dover essere" e

dove operano i concetti di bene e di male (9). L'Eticità costituisce il

"compimento dello spirito oggettivo, la verità dello stesso spirito sogget-

tivo e oggettivo": in questo senso essa rappresenta "il volere razionale

universale in sé e per sé", che ha "la sua realtà come spirito di un popo-

lo"; essendo il luogo dei rapporti intersoggettivi, ovvero dei rapporti so-

ciali intesi come "costume", l'eticità è definita da Hegel "la libertà consa-

pevole di sé, diventata natura" (10).

L'Eticità, intesa come sfera in cui lo spirito si oggettivizza in qualco-

sa di concreto e visibile che sono le sue azioni, si suddivide a sua volta

in quelli che sono i tre tipi del vivere socializzato che Hegel prende in

esame: a. La Famiglia; b. La Società civile; c. Lo Stato. La Famiglia rap-

presenta il modello della società naturale, fondata sulla distinzione dei

sessi (11). La Società civile, definita da Hegel come "il sistema dell'atomi-

stica", costituisce il luogo dei rapporti economici, in cui è operante la

divisione del lavoro e la differenza dei vari ceti sociali (12). La forma più

complessa ma al tempo stesso anche più concreta di struttura sociale è

lo Stato, a sua volta definito come "la sostanza etica consapevole di sé, -

la riunione del principio della famiglia e della società civile". In quanto

luogo dei rapporti politici, lo Stato si pone come "spirito vivente" e come

"totalità organizzata", la cui essenza è l' "universale in sé e per sé, la ra-

zionalità del volere" (13). La vita dello Stato si sviluppa tendenzialmente

lungo due direzioni: a) una direzione centripeta, rappresentata dal diritto

interno dello Stato, con cui viene regolata la dialettica che anima i rap-

porti che intercorrono tra i vari soggetti della vita politica; e b) una dire-

zione centrifuga, rappresentata dalla politica estera, ovvero dall'interagi-

re all'esterno o con una pluralità di soggetti, che sono gli altri stati at-

torno a lui, sottoposti a quella forma di diritto che è il diritto internazio-

nale.

Hegel colloca la Storia come il momento conclusivo dell'Eticità e la

fa coincidere con la sfera dei rapporto dello stato con gli altri stati: sotto

questo profilo le "vicende della storia" rappresentano "la via per la libe-

razione della sostanza spirituale" (14). Dal punto di vista hegeliano esi-

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ste una storia perché esistono degli stati. Il presupposto sistematico del-

la storia è dato dall'esistenza dello Stato, per cui vengono ad assumere

la denominazione di Storia le azioni compiute dagli stati, o le azioni di

quei singoli individui che agiscono in nome degli stati.

La specifica direzione presa dal discorso hegeliano spinge a questo

punto ad affrontare il problema del rapporto tra moralità e storia. Se si

tiene presente che in Hegel il rapporto tra storia e politica è molto stret-

to, discutere il rapporto tra moralità e storia significa anche toccare il

problema del rapporto tra moralità e politica. Il discorso hegeliano diven-

ta inoltre un‟occasione per analizzare queste problematiche in quella

che è la loro portata più generale. Come si è già ricordato, le articola-

zioni del sistema sono funzionali all'organizzazione dei rapporti fra le

diverse sfere della vita umana. Hegel colloca Moralità e Storia in due sfe-

re nettamente distinte, separate da un notevole spazio sistematico: non

si tratta, tuttavia, solo di una distanza logica. Quello che è importante

da rilevare è che nel passaggio dalla moralità alla storia cambia in modo

sostanziale anche il soggetto: il soggetto dell'agire morale è la coscienza

singola, individuale, quello della Storia è viceversa lo Stato. Dal punto

di vista di Hegel è attraverso lo Stato, cioè attraverso la mediazione della

società politica, che le singole persone entrano come soggetti nella sto-

ria. Il soggetto della storia è un soggetto collettivo, perché chi agisce nel-

la concretezza storica sono i vari popoli in quanto organizzati in quella

comunità politica che si costituisce come Stato.

La Moralità rappresenta la sfera dei comportamenti soggettivi, di

quello che uno fa secondo coscienza, ma anche il comportamento della

coscienza è sottoposto alle condizioni storiche all'interno delle quali la

coscienza vive: l'agire nostro come singoli, l'agire morale è un qualcosa

che accade necessariamente all'interno di una sfera più ampia. Sotto

questo profilo non si tratta tanto di vedere se morale e storia sono in

conflitto tra loro, ma piuttosto di capire quanta parte dell‟agire morale

di un soggetto entra effettivamente nella storia e in che misura questo

agire morale può condizionare ciò che accade a livello di storia.

La Storia è l'ultima figura dello Spirito oggettivo nel senso che è la

realtà in cui vanno a confluire tutte le determinazioni precedenti. In

questo senso la Storia è il luogo della massima concretezza, all'interno

della quale agiscono e si trovano concretamente operanti tutte le sfere

precedenti, quindi anche quella costituita dalla moralità. La coscienza

morale, anche se quando agisce astrae da qualsiasi altro tipo di rappor-

to, non può escludere il fatto di essere pur sempre membro di una fami-

glia, di essere comunque parte della società civile e comunque cittadino

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di uno stato, cioè parte integrante di una comunità politica: l'agire mo-

rale è quindi sempre collocato in una situazione.

3.2 LA NATURA DELLA STORIA.

Abbiamo analizzato quella che è la collocazione sistematica della

storia in Hegel e le conseguenze che derivano dal fatto che la storia ap-

partenga ad una determinata sfera di vita. Si tratta ora di determinare

la natura specifica della Storia come tale: a questo riguardo c'è un pos-

sibile equivoco da eliminare. In quanto entra a far parte della enciclo-

pedia delle scienze filosofiche e quindi del sistema, la storia riceve una

precisa collocazione sistematica e diventa per questa via un momento

determinato dello sviluppo dell'idea della filosofia. L'essenza filosofica

della storia, vale a dire l'essenza della storia colta dal punto di vista filo-

sofico, diventa pienamente comprensibile soltanto a partire da tale col-

locazione sistematica. Abbiamo visto la tripartizione della Filosofia dello

Spirito in Spirito soggettivo, Spirito oggettivo e Spirito assoluto. A questo

riguardo la storia è l'ultima e quindi conclusiva figura dello Spirito ogget-

tivo, al di là della quale inizia una ulteriore sfera dello spirito, lo Spirito

assoluto. La Storia si colloca quindi in una posizione cruciale, in un

momento di passaggio tra due fasi ben distinte. Questa collocazione ha

spinto certi interpreti a vedere nella filosofia hegeliana della storia una

sorta di metafisica dell'assoluto. In realtà l'Enciclopedia colloca la Storia

in una dimensione specifica ben diversa.

Considerata alla luce del sistema, la storia, che per Hegel è essen-

zialmente "Weltgeschichte", cioè storia universale, forma, come si è vi-

sto, la figura conclusiva dello "Spirito oggettivo": di conseguenza le sue

determinazioni essenziali più generali saranno desumibili dalle deter-

minazioni della sfera cui appartiene. La "Filosofia dello spirito", conside-

rata come terza parte del sistema, nella sua tripartizione in Spirito sog-

gettivo, oggettivo ed assoluto, si pone complessivamente come "la cono-

scenza di ciò che è la verità dell'uomo" (15). Più determinatamente la

sua seconda sezione, lo "Spirito oggettivo" costituisce quel grado dello

sviluppo dello spirito in cui questo si trova nella "forma della realtà

(Realität), come di un mondo da produrre e prodotto da esso" (16). All'in-

terno della tripartizione sopra accennata può essere rilevato che la "Fi-

losofia dello spirito" lascia intravedere una ulteriore suddivisione, in due

parti, che si rivela della massima importanza per il tema qui trattato.

Hegel avverte infatti che "le prime due parti della dottrina dello spirito

trattano dello spirito finito": lo "spirito oggettivo" nel suo complesso deve

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quindi essere inteso in tutta l'estensione dei suoi momenti essenzial-

mente come "spirito finito", dove la finità va intesa secondo "il suo signi-

ficato proprio, dell'inadeguatezza tra concetto e realtà" (17). Da questo

lato il discorso hegeliano è molto chiaro: l'oggetto della storia non è lo

Spirito assoluto, ma lo spirito che si mostra nella sua finitezza.

Se, in base alle precedenti osservazioni, si deve concludere che la

storia stessa, proprio in quanto figura dello Spirito oggettivo partecipa

costitutivamente della finitezza di questa sfera, resta tuttavia ancora da

determinare in che modo si caratterizzi questa finità della storia.

Introducendo la seconda sezione della "Filosofia dello spirito", He-

gel ricorda che lo "Spirito oggettivo" è sì "l'idea assoluta", ma soltanto

"come idea che è in sé": in questo senso esso si mantiene ancora "sul

terreno della finità" in quanto risulta essere "in relazione con una og-

gettività esternamente data"; il significato più determinato di tale ogget-

tività è a sua volta individuabile "nei dati antropologici dei bisogni par-

ticolari, nelle cose naturali esterne, che sono per la coscienza; e nella

relazione dei voleri singoli ai singoli, i quali hanno l'autocoscienza della

loro diversità e particolarità" (18). Anche la storia, quindi, in quanto

appartenente allo "Spirito oggettivo", ha sempre a che fare con una og-

gettività esternamente data, per cui la considerazione filosofica del

mondo storico deve costitutivamente tenere conto dei condizionamenti

di tipo antropologico, dei bisogni particolari, degli elementi di tipo natu-

rale, così come delle volontà singole. Già a livello di "Antropologia" He-

gel aveva parlato della "vita naturale" dello spirito, che si svolge in ma-

niera ancora confusa (19). A questo proposito veniva osservato che men-

tre l'animale vive essenzialmente in "simpatia" con il proprio ambiente e

rimane quindi, così come la pianta, sostanzialmente sottoposto alla na-

tura, nell'uomo, viceversa, con il procedere della cultura, un simile le-

game di dipendenza dall'ambiente perde progressivamente di importan-

za (20). La storia, intesa come Weltgeschichte, consiste proprio nella

presentazione di questa graduale liberazione dalla natura (21). La di-

pendenza non è tuttavia eliminabile in modo totale. Le distinzioni dei

climi, la diversa natura delle parti geografiche del mondo, le differenze

di razza, sono tutti elementi che determinano la formazione di "partico-

lari spiriti naturali", ovvero di "spiriti locali", le cui differenze non solo si

"mostrano nella maniera della vita esteriore, occupazione, struttura e

disposizione corporale", ma anche influenzano in modo determinante le

tendenze del carattere intellettuale ed etico dei singoli popoli (22). Nella

storia perciò è destinato a manifestarsi anche tutto questo.

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3.3 IL SOGGETTO DELLA STORIA.

Se tuttavia si domandasse quale è, dal punto di vista hegeliano, il

soggetto della storia, vale a dire di chi in essa si parla, proprio perché ne

è l'autore, la risposta più frequente sarebbe con tutta probabilità la se-

guente: soggetto della storia è lo Spirito del mondo. Per quanto una si-

mile risposta possa a prima vista apparire come la più attendibile, oc-

corre tuttavia riconoscere che il concetto di Weltgeist esprime piuttosto

soprattutto un genere; viceversa, dato che essere nella storia significa

essere "nell'esistenza (Dasein)" (23), bisogna ammettere che la storia, in

quanto svolgimento determinato dello spirito, esige un soggetto altrettan-

to determinato. Lo Spirito del mondo è una specie di ipostasi, mentre ciò

che esiste concretamente nella storia sono le vicende dei singoli popoli

concretamente esistenti. In questo modo, il concetto di Weltgeist rinvia a

quello di Wolksgeist, in quanto ciò che determinatamente esiste nella

storia sono gli spiriti dei vari popoli. L'effettivo problema è quindi piut-

tosto quello di individuare su quali basi si definisce lo spirito di un po-

polo.

Si può considerare come caratterizzante la prospettiva hegeliana

l'osservazione che "nell'esistenza di un popolo lo scopo sostanziale è di

essere uno Stato e di mantenersi come tale: un popolo senza formazione

politica (una nazione come tale) non ha propriamente storia; senza sto-

ria esistevano i popoli prima della formazione dello Stato, e altri anche

ora esistono, come nazioni selvagge" (24). Lo spirito di un popolo si defi-

nisce in chiave fondamentalmente politica: la sua essenza è espressa

dalla organizzazione che esso si dà in quanto Stato. Ciò che quindi pro-

priamente esiste ed agisce nella storia è un popolo concepito quale or-

ganismo politico: proprio in quanto "ciò che accade ad un popolo ed ha

luogo entro di esso, ha il suo significato essenziale nella relazione verso

lo Stato" Hegel può affermare che "le mere particolarità degli individui

sono massimamente lontane da quell'oggetto, che è di pertinenza della

storia" (25). Gli stessi individui cosmico-storici, vale a dire hegeliana-

mente i grandi personaggi come Giulio Cesare, Alessandro Magno, Na-

poleone, ecc., hanno fortemente caratterizzato alcune epoche della sto-

ria, ma la loro azione non si è sviluppata in assoluto a partire della loro

individualità singola, ma a partire dal popolo e dallo stato a cui essi

appartenevano. Va riconosciuta dunque una duplice e reciproca impli-

cazione, in quanto il nesso tra spirito del popolo e storia passa attraver-

so il concetto di Stato, mentre il nesso tra spirito del popolo e Stato apre

le porte alla considerazione della storia. Il presupposto è comunque lo

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Stato, in quanto possiamo parlare di storia solo dopo che si è sviluppato

il concetto di Stato. E' evidente in questo modo che la filosofia hegeliana

della storia riceve un ben preciso orientamento: sono soggetti della sto-

ria, della Weltgeschichte, quei popoli che giungono a costituirsi come

Stati, cioè a porsi come organismi politici.

Se lo spirito di un popolo, in quanto soggetto della storia, si carat-

terizza non in termini antropologici ma in termini politici, si rende allora

a questo punto necessaria una ulteriore domanda: su quali basi si defi-

nisce l'essenza dello Stato? Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche si

possono trovare molteplici definizioni dello Stato. Così ad esempio esso

è definito come "la realtà immediata di un popolo singolo e naturalmente

determinato" (26); oppure, nel momento in cui è introdotto quale terza e

conclusiva sezione della "Eticità", è presentato come "la sostanza etica

consapevole di sé" (27); poco più oltre l'essenza dello Stato è definita

come "l'universale in sé e per sé, la razionalità del volere" (28). Infine lo

Stato si pone come "spirito vivente", il quale sussiste soltanto "come una

totalità organizzata". Proprio la definizione dello Stato quale organismo

può risultare la più produttiva in relazione alle tematiche qui analizzate.

In quanto organismo, quello che si potrebbe definire il codice genetico

dello Stato è indubbiamente rappresentato dalla costituzione: essa si

pone come la "articolazione (Gliederung) del potere dello Stato" ed è per-

ciò la via attraverso cui il volere razionale giunge alla propria consape-

volezza ed è posto nella realtà effettuale (29). Hegel sottolinea in manie-

ra molto evidente la corrispondenza tra Volksgeist e Verfassung: la co-

stituzione presuppone lo spirito di tutto il popolo e quest'ultimo a sua

volta presuppone la costituzione (30). L'una e l'altro formano così due

realtà assolutamente inscindibili, al punto che si può sostenere che "la

questione, a chi, e a quale autorità e come organizzata, spetti di fare

una costituzione, è la medesima che se si domandasse, chi abbia da fare

lo spirito di un popolo. Il separare la rappresentazione di una costitu-

zione da quella dello spirito, come se questo esista, o sia esistito una

volta, senza possedere una costituzione a sé conforme, è un'opinione

che dimostra soltanto la superficialità con cui è stata pensata la con-

nessione dello spirito, della sua autocoscienza e della sua realtà" (31).

Alla luce di questa prospettiva si può affermare che ciò che Hegel co-

struisce è una filosofia politica della storia, ovvero una filosofia della

storia politica: in questo senso, la Filosofia del diritto, per quanto ri-

guarda l'epoca moderna, individua "l'argomento della storia universale

del mondo" proprio nella storia della "verace configurazione della vita

etica", vale a dire nel processo di perfezionamento dello Stato (32). Pro-

prio perché il concetto di popolo dal punto di vista hegeliano si definisce

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in termini politici, anche la storia nel suo complesso riceve una conno-

tazione fortemente politica: lo spettacolo della storia è lo spettacolo co-

stituito dall'azione di diverse (e anche contrastanti) concezioni politiche,

di diversi modi di organizzare la convivenza sociale degli uomini. Tutto

ciò che di altro si può dire della storia è qualcosa di subordinato rispet-

to a questo principio.

In virtù di questo costitutivo ed originario nesso di storia e politica

si può forse affermare che la filosofia della storia costituisce in Hegel il

luogo in cui la politica raggiunge la sua massima consapevolezza filoso-

fica.

La storia rappresenta il divenire dello spirito nel tempo e, come tut-

to ciò che diviene nel tempo, rappresenta il divenire della finitezza. E'

possibile chiedere quale è qui il significato specifico di finitezza. E' molto

nota quella lettera, scritta pochi giorni dopo la battaglia di Jena, in cui

Hegel afferma di aver visto Napoleone, ed era come se si potesse vedere

"lo spirito del mondo" che entrava a cavallo in città (33). Questa espres-

sione indica che Hegel si trova davanti allo spirito del mondo sotto for-

ma di immagine, di rappresentazione, era lo spirito del mondo in una

manifestazione sensibile, finita. E‟ proprio di ogni cosa finita il non es-

sere adeguata al suo concetto. Potremmo tradurre questa affermazione

dicendo che non essere adeguato al proprio concetto significa avere den-

tro di se qualcosa di non compiuto, e le cose finite non sono come do-

vrebbero essere, sono altro rispetto a ciò che dovrebbero essere. Qui sta

il germe della loro imperfezione, qui sta l'inizio della loro fine.

Hegel afferma che tutto ciò che accade nel tempo, e quindi ciò che

accade nella storia, non è mai adeguato al suo concetto: ciò significa

che nell'ambito della storia nessuno Stato, in quanto concretamente e-

sistente nella storia, adeguerà, realizzandola compiutamente, quella che

è l'idea, ovvero il concetto dello stato.

In ogni realizzazione storica sarà sempre contenuto un margine di

inadeguatezza, di imperfezione, che in relazione a quella specifica realiz-

zazione rappresenta il suo difetto, ciò per cui necessariamente questa

formazione concreta ad un certo punto si esaurirà, scomparendo. Que-

sto margine di inadeguatezza, o di imperfezione, è anche l'effettivo mo-

tore del divenire storico, è ciò che garantisce e assicura una molteplicità

di esperienze. La ricerca dello Stato perfetto è assolutamente priva di

senso, perché ogni stato esistente sarà sempre qualcosa di relativo alla

realtà storica in cui si trova a sussistere. Potremmo parlare dal punto di

vista di Hegel di inadeguatezza reciproca tra concetto e realtà: non è

soltanto la realtà storica ad essere inadeguata al concetto, ma vi posso-

no pure essere dei concetti inadeguati alla propria realtà, per cui certi

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progetti di tipo storico-politico sono falliti per un eccesso di perfezione

delle idee. Ciò che opera nella storia è sempre qualcosa di finito e quindi

ciò che trova realizzazione conterrà sempre in se stesso un margine di

inadeguatezza rispetto al suo concetto. La storia è il punto di massima

maturazione a cui può arrivare la finitezza come tale. Da quanto abbia-

mo detto consegue che il soggetto della storia non potrà che essere un

soggetto finito.

3.4 LE EPOCHE DELLA STORIA.

Le epoche della storia, così come vengono definite dalla tradizione

storiografica ricevono una partizione per certi aspetti arbitraria (storia

antica, medievale, moderna, ecc.), la cui scansione avviene in maniera

convenzionale (la caduta dell'impero romano, la scoperta dell'America,

ecc.). Rispetto alla tradizione Hegel segue un'altra strada nella periodiz-

zazione della storia, in quanto la fa dipendere dalla consapevolezza filo-

sofica di ciò che la storia è. Sotto questo aspetto, un itinerario comune

porta dalla collocazione sistematica della storia alla determinazione del-

le epoche storiche e quindi al concreto del vissuto storico.

Come è noto, nel Libro primo della Metafisica si afferma che "ora

così come nel passato, gli uomini hanno cominciato a filosofare in virtù

della meraviglia". Dato che gli uomini "hanno filosofato per fuggire l'i-

gnoranza" (34), Aristotele sembra svolgere un discorso che potrebbe es-

sere definito di tipo storico-sociologico. Essendo di fatto il segno di una

ignoranza, la meraviglia si presenta come qualcosa che è destinato a

diminuire sempre più: se infatti si rimane meravigliati quando per la

prima volta si assiste ad una eclissi di luna, quando se ne sono indaga-

te e scoperte le cause il ripetersi dello stesso fenomeno non stupirà più.

Ciò significa che non soltanto il progredire nella scienza da parte del

singolo soggetto, ma lo stesso accumulo sociale di conoscenza lascerà

sempre meno spazio alla meraviglia, che quindi tenderà progressiva-

mente a scomparire. Individuando nella meraviglia l'atto fondativo del

filosofare Aristotele parlava certamente dell'inizio della filosofia, ma in-

dicava soprattutto le condizioni trascendentali di possibilità della filoso-

fia come tale. Oltre a tali condizioni trascendentali, esiste anche il pro-

blema di individuare il quando, perché anche il filosofare cade nel tem-

po: sappiamo infatti che la filosofia è cominciata in un determinato pun-

to, in un determinato momento del tempo e dello spazio. Storicamente

quali sono le condizioni concrete che hanno reso possibile il filosofare?

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Hegel si è posto questo problema. Non si tratta di isolare un fatto acci-

dentale: chiedere quando significa anche indicare dove.

Se si dovesse chiedere "dove comincia la filosofia?", la risposta dal

punto di vista hegeliano è: "là, dove il pensiero si espande nell'elemento

della sua libertà" (35). Il determinarsi di questo "dove" non è tuttavia un

evento puramente speculativo, in quanto esige il realizzarsi di precise

condizioni sul piano storico, ossia che sia innanzitutto presente "un cer-

to grado della cultura spirituale" (36). Nelle Lezioni sulla storia della filo-

sofia Hegel accoglie e sviluppa la nota affermazione di Aristotele, secon-

do cui gli uomini "hanno cominciato a filosofare dopo che si è provvedu-

to alle necessità della vita" (37): questo fa della "filosofia un operare

(Tun) libero, non egoistico... un libero rinvigorirsi, sollevarsi, consolidar-

si dello spirito in sé", che è possibile solo dopo che "l'ansia del desiderio

si è dissolta" (38). Ciò comporta che la filosofia, sotto un certo punto di

vista, si presenti effettivamente come un "lusso", ma tuttavia un lusso

che "indica quei godimenti ed occupazioni che non appartengono alla

necessità esteriore come tale" (39). Hegel cerca di spingere questo di-

scorso più avanti e rendere più determinata la risposta alla domanda su

quando e dove di fatto, nella storia è cominciata la filosofia. La risposta

che egli dà a questo problema riconduce al nocciolo delle questioni che

sono state affrontate precedentemente. Il discorso hegeliano, infatti, ac-

quista a questo punto anche una valenza sociale, in quanto ciò che vie-

ne chiamato in causa non è il semplice operare del singolo come tale,

quanto piuttosto è lo "spirito di un popolo" ad essersi "tratto di impiccio

dalla indifferente opacità (Dumpfheit) del primo vivere naturale, così

come dagli interessi passionali" (40). La filosofia inizia quindi là dove il

pensiero è presso di sé e si distacca dalla naturalità: che il pensiero sia

libero significa innanzitutto che è " posta in generale una esistenza tale,

una tale coscienza, da essere una coscienza della libertà" (41). Il comin-

ciamento della filosofia fa così tutt'uno con il "cominciamento storico

della filosofia", e perciò con l'inizio stesso della storia della filosofia: tut-

to questo mantiene una immanente relazione con "la forma concreta"

della vita di un popolo, "il cui principio esprime la coscienza della liber-

tà", così come essa si realizza all'interno della sua propria "costituzione"

(42). Sotto questo profilo "la filosofia compare nella storia soltanto là

dove ed in quanto si formano libere costituzioni": ciò comporta una

stretta "connessione della libertà politica con il farsi avanti della libertà

di pensiero" (43). Nel concetto del pensiero libero, del "pensiero che va

in sé, che è presso di sé", è implicato anche un essenziale "lato pratico",

ossia il fiorire della "libertà effettuale", reale cioè nel senso della "libertà

politica" (44). Lungo questa strada il sorgere della filosofia riceve ulterio-

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ri determinazioni dal punto di vista storico-concreto: se la "coscienza

della libertà" implica il necessario riferimento alla "libertà civile (bürger-

liche)", a "leggi razionali", ad una "costituzione", un simile "concetto del-

la libertà noi lo vediamo farsi avanti innanzitutto nel popolo greco, e

qui perciò comincia la filosofia" (45). Il cominciamento della filosofia esi-

ge come sua condizione necessaria il realizzarsi nella storia concreta del

suo fondamento: in tal modo, "con questa determinazione di ciò che è

filosofia, noi guadagniamo anche il punto d'inizio della sua storia" (46).

La libertà è stata la condizione storica di possibilità della nascita di

quella forma di sapere che noi chiamiamo filosofia: non la libertà in

senso astratto o la libertà interiore della coscienza, ma qualcosa di mol-

to concreto che coincide con la libertà politica. La filosofia nasce in Gre-

cia, ma questo fatto, così importante per tutto il successivo destino del

mondo occidentale, non è dovuto ad un bizzarro gioco del caso: la con-

dizione di possibilità perché si realizzasse questo amore per la sapienza

è dovuto al fatto che in Grecia per la prima volta nel mondo sono nati

degli stati fondati su libere costituzioni, ovvero sulla libertà dei loro cit-

tadini. Qui si tocca qualcosa di speculativamente profondo dentro l'ar-

chitettura del discorso hegeliano, poiché diventa palese un nesso costi-

tutivo tra storia da un lato e filosofia dall'altro. Si è potuto vedere che

uno dei presupposti della storia in quanto tale è l'esistenza di popoli che

si organizzano in una società politica: c'è quindi un nesso costitutivo tra

realtà politica e realtà storica. Però esiste un legame altrettanto stretto

tra il sorgere della filosofia e la presenza di determinate strutture politi-

che: questo comune punto di riferimento è dato dalla libertà.

Nelle Lezioni sulla filosofia della storia è contenuta una definizione

di ciò che è la storia: "la storia del mondo [la storia universale] è il pro-

gresso nella coscienza della libertà" (47); da questo lato sussiste quindi

un nesso molto stretto ed evidente tra il contenuto della storia e il pro-

blema della libertà. Ciò che è in gioco è una libertà cosciente, pienamen-

te vissuta, non una libertà inconsapevole. Questa coscienza della libertà

si dispiega nell'ambito di uno sviluppo, il che vuol dire che la libertà ed

il grado di consapevolezza della libertà non rimangono mai uguali a se

stessi. Quali saranno allora dal punto di vista hegeliano le epoche della

storia? Le epoche della storia sono i gradi che contrassegnano delle fasi

omogenee nell'ambito di uno sviluppo della coscienza della libertà. Il

passaggio da un'epoca storica all'altra segna un cambio di marcia, un

ulteriore livello nella realizzazione della libertà. A questo proposito Hegel

scrive: "Si può dire della storia universale che essa è la raffigurazione

del modo in cui lo spirito si sforza di giungere alla cognizione di ciò che

esso è in sé. Gli Orientali non sanno ancora che lo spirito, o l'uomo come

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tale, è libero in sé. Non sapendolo, non lo sono. Essi sanno solo che uno

è libero; ma appunto perciò questa libertà è arbitrio, barbarie, gravezza

della passione, o magari anche mitezza e mansuetudine della passione

stessa, che anche essa è solo un caso di natura o un arbitrio. Quest'uno

è perciò solo un despota, non un uomo libero, un uomo. Presso i Greci,

per primi, è sorta la coscienza della libertà, e perciò essi sono stati libe-

ri; ma essi, come anche i Romani, sapevano solo che alcuni sono liberi,

non l'uomo come tale. Ciò non seppero né Platone né Aristotele; e perciò

non solo i Greci ebbero schiavi, e la loro vita e il sussistere della loro

bella libertà fu vincolata a tale condizione, ma anche la loro libertà non

fu in parte che una fioritura accidentale, elementare, transitoria e ri-

stretta, e in parte, insieme, una dura schiavitù dell'umano. Solo le na-

zioni germaniche sono giunte nel cristianesimo alla coscienza che l'uomo

come uomo è libero, che la libertà dello spirito costituisce la sua più

propria natura. Questa coscienza nacque dapprima nella religione, nella

regione più interiore dello spirito; ma permeare di questo principio an-

che la natura del mondo era compito ulteriore, per assolvere pienamen-

te il quale occorreva una lunga e difficile opera di educazione" (48).

Hegel individua quindi una tripartizione nella suddivisione delle e-

poche della storia: esse sono definibili come la libertà di uno solo, la li-

bertà di alcuni e la libertà di tutti. Soltanto apparentemente abbiamo una

determinazione di tipo quantitativo, come se si alludesse ad una sorta

di maggiore diffusione della libertà, perché questa progressione -uno,

alcuni, tutti- è in realtà una gradazione di tipo qualitativo. Questa perio-

dizzazione, effettivamente, non è molto utilizzabile dal punto di vista

della storiografia, anche perché si dispiega in forma diseguale, non per-

fettamente omogenea rispetto alla successione cronologica del tempo. E'

ovvio che qui è in gioco la libertà politica, quindi lo sviluppo della storia è

anche caratterizzato dalla successione di differenti organizzazioni politi-

che.

Filosoficamente la storia riceve un senso, una direttrice di sviluppo

determinata, a partire dalla libertà, che viene così a svolgere un duplice,

importate ruolo: essa infatti segna, da un lato, la direzione dello svilup-

po del mondo storico ma anche, dall'altro lato, l'atto di nascita della fi-

losofia. Il problema del senso della storia si connette in maniera molto

stretta con il problema della nascita della filosofia, quindi la filosofia

hegeliana della storia procede anche in evidente connessione con quelle

che sono le tematiche proprie della filosofia in quanto tale. Il problema

del senso della storia è comunque qualcosa che può essere determinato

solo a posteriori. In una nota pagina della Prefazione della Filosofia del

diritto Hegel scrive: "per dire ancora una parola al proposito del dare in-

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segnamenti su come dev‟ essere il mondo, ebbene per tali insegnamenti

in ogni caso la filosofia giunge sempre troppo tardi. In quanto pensiero

del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo

processo di formazione e s‟ è bell‟ e assestata" (49). Dal punto di vista

hegeliano la filosofia non potrà mai, pena il venir meno alla sua propria

natura, avventurarsi in previsioni su quali ulteriori progressi avrà il

principio della libertà, quali nuove strutture politiche e quali popoli po-

tranno giocare un ruolo preminente nelle vicende storiche. La filosofia

potrà analizzare lo sviluppo della storia, dare un senso a questo svilup-

po, attraverso la determinazione delle epoche, però solo a posteriori: lo

sguardo speculativo del pensiero è sempre uno sguardo retrospettivo.

In questo succedersi delle libertà di uno, alcuni, tutti, possiamo

trovare dispiegata una questione già affrontata in uno dei precedenti

paragrafi: quella relativa alla natura della storia. Il mondo storico è il

mondo della finitezza e quindi la filosofia della storia da luogo in Hegel

ad una metafisica del finito e non ad una metafisica dell'assoluto. Ab-

biamo visto che dal punto di vista di Hegel finitezza significa inadegua-

tezza tra concetto e realtà. Tutto ciò che trova realizzazione nell'ambito

della finitezza patisce di una sorta di squilibrio tra il concetto della cosa

e la cosa così come si presenta effettivamente. Indubbiamente i gradi di

realizzazione della libertà possono fornire una esemplificazione di cosa

si deve intendere per inadeguatezza tra concetto e realtà e di cosa si de-

ve intendere per regno della finitezza da un punto di vista filosofico.

La libertà di alcuni è qualcosa di qualitativamente più elevato della

libertà di uno solo, e la libertà di tutti è qualitativamente più elevata

della libertà di alcuni. Questa progressione uno-alcuni-tutti non si deve

intendere come progresso in senso quantitativo come una sorta di mag-

giore diffusione della libertà, ma come un passaggio di tipo qualitativo.

Nel caratterizzare la prima epoca della storia, Hegel ha sicuramente

in mente il mondo orientale, in quanto rappresentato dall'impero per-

siano, e ciò che lo caratterizza è un‟organizzazione politica che ha come

punto di riferimento il re, signore assoluto di tutto. Nella effettualità la

libertà di uno equivale alla libertà di nessuno e quindi all'assenza di au-

tentica libertà. Laddove uno solo è libero, dove solo il despota può con-

siderarsi tale, non solo non esiste libertà per tutti gli altri, in quanto so-

no sottoposti ad una volontà che è arbitrio, ma nemmeno quell'uno è in

realtà libero, perché questo uno singolo, che si pone come arbitrio asso-

luto, non ha la possibilità di riconoscersi come libero in nessun altro

intorno a lui. Questo è un primo livello di inadeguatezza tra concetto e

realtà, perché la libertà di uno è in realtà appunto una non libertà. L'i-

nadeguatezza secondo il concetto della libertà di alcuni è forse più fa-

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cilmente comprensibile. La libertà di alcuni rappresenta, sul piano della

effettualità storica, il mondo greco-romano ed è l'esistenza di quella li-

bertà che ha reso possibile la filosofia. Il limite più evidente di questa

idea di libertà è dato dalla presenza della schiavitù, che probabilmente

si può considerare come una delle condizioni di possibilità dell'esistenza

stessa del mondo antico. Secondo Hegel la libertà di tutti è il principio

attorno a cui nasce e progressivamente viene costruito il mondo moder-

no. Anche in questo caso il discorso non è solo di tipo quantitativo. La

modernità è l'epoca della libertà di tutti, nel senso che è quella epoca in

cui per la prima volta, nello sviluppo storico dell'umanità, si è fatto

strada il principio che l'uomo è libero per natura e da questo consegue

che tutti i singoli uomini sono, e quindi devono essere liberi. Anche qui

dobbiamo fare i conti con la finitezza, l'inadeguatezza tra concetto e re-

altà. Se il concetto della modernità prevede che l'uomo, in quanto uomo,

sia libero, questo concetto trova di fatto una inadeguatezza in quella che

è la sua realizzazione. Che l'uomo sia libero per natura, dice Hegel, non

è originariamente un concetto politico e nemmeno un principio filosofi-

co, è una idea che entra nella realtà storica attraverso la religione: il cri-

stianesimo, sostenendo che ogni uomo è figlio di Dio, sancisce il fatto

che ogni uomo in quanto uomo è libero. L'eguaglianza di tutti gli uomini

viene interpretata da Hegel in tema di libertà: tutti gli uomini sono u-

guali perché tutti gli uomini originariamente vanno concepiti come libe-

ri. Da un lato con il cristianesimo è entrata nel mondo l'idea che tutti gli

uomini sono figli di Dio e quindi questo significa che tutti gli uomini so-

no uguali tra loro, ovvero che tutti sono uguali tra loro in termini di li-

bertà. Ma se il principio della libertà di tutti è entrato nella realtà stori-

ca con il cristianesimo, molto tempo è dovuto trascorrere perché fosse

riconosciuto. Secondo Hegel questo riconoscimento è avvenuto con la

Riforma protestante, attraverso una rivoluzione all'interno del cristiane-

simo stesso, e il principio della libertà di tutti si è affermato come prin-

cipio politico soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese: la prima

parola della rivoluzione è libertè, tutti i cittadini sono eguali di fronte

alla legge senza distinzioni di casta, religione e razza. Ora sarebbe al-

trettanto facile mostrare che il principio dell'eguaglianza politica di tutti

gli uomini ha potuto trovare solo in parte la sua realizzazione. Hegel im-

plicitamente ci avverte che noi non possiamo chiedere alla storia, in

quanto mondo della finitezza, la piena realizzazione di nessuna idea.

Essere nella storia significa avere consapevolezza di vivere nell'ambito di

un paradosso, quello che ci costringe a cercare la migliore delle condi-

zioni possibili di vita, sapendo che comunque le condizioni concrete ed

empiriche non consentiranno la sua completa realizzazione. Il mondo

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della storia è effettivamente il mondo della finitezza proprio perché è va-

riabile e contraddittorio: esso è quel mondo in cui non ci si accontenta

di una libertà puramente teorica, ma si vuole una libertà nella quale

vivere concretamente la nostra vita di persone morali e di cittadini.

Questa possibilità, il diritto di pretendere la realizzazione di quella che è

la nostra libertà nel tempo, ha un prezzo nel fatto che noi sappiamo di

doverla vivere nella consapevolezza che ci sarà sempre qualcosa di ina-

deguato tra l'elaborazione teorica che noi possiamo produrre (i concetti

etici e politici) e quello che sarà la loro realizzazione sul piano concreto.

Questa inadeguatezza non è prodotta né da un difetto di teoria e nem-

meno da una imperfezione della realtà concreta: la realtà storica è finita

in base alla sua natura, ed in questo senso è anche perfetta.

Il problema non è tanto di vedere se quello in cui viviamo sia il mi-

gliore dei mondi possibili, ma quello che conta è che questo è l'unico

mondo reale. Filosofia della storia vuol dire capire a quali condizioni noi

possiamo vivere nell'ambito del mondo in cui di fatto viviamo, che è l'u-

nico mondo reale a nostra disposizione.

NOTE

1) Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Con le Aggiunte di

E. Gans, trad. it. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 20002, pp. 14-15.

2) Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie. Teil

1: Einleitung. Orientalische Philosophie, hrsg. W. Jaeschke, Meiner,

Hamburg 1993, p. 124; cfr. anche pp. 140, 157.

3) Ivi, p. 112.

4) Ivi, pp. 237, 48, 50.

5) Enz. A, § 7.

6) A questo proposito cfr. più in particolare L. Bignami, Concetto e com-

pito della filosofia in Hegel, Pubblicazioni di “Verifiche”, Trento 1990,

147 ss.

7) Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a

cura di B. Croce, Laterza, Bari 1963, § 486.

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8) Ivi, §§ 487, 488, 493.

9) Ivi, §§ 503 e n., 507, 511.

10) Ivi, §§ 513, 514.

11) Ivi, § 518.

12) Ivi, §§ 523, 524, 525, 527.

13) Ivi, §§ 535, 539, 537.

14) Ivi, §§ 536, 549.

15) Ivi, § 377.

16) Ivi, § 385.

17) Ivi, § 386.

18) Ivi, § 483.

19) Ivi, § 392.

20) Ivi, § 392 n.

21) Ivi, § 392 n.

22) Ivi, §§ 393, 394.

23) Ivi, § 549.

24) Ivi, § 549 n.

25) Ivi, § 549 n.

26) Ivi, § 545.

27) Ivi, § 535.

28) Ivi, § 537.

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29) Ivi, § 539.

30) Ivi, § 540.

31) Ivi, § 540 n.

32) Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto cit., § 273 n., p. 218.

33) Cfr. G.W.F. Hegel, Epistolario I. 1785-1808, trad. it. di P. Mangana-

ro, Guida, Napoli 1983, p. 233.

34) Cfr. Aristot. Metaph., 982 b 12-13.

35) Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie Teil 1

cit., p. 134.

36) Ivi, p. 59.

37) Cfr. Aristot. Metaph., 982 b, 22-28.

38) Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie Teil 1

cit., p. 59.

39) Ivi, p. 59.

40) Ivi, p. 59.

41) Ivi, p. 190.

42) Ivi, p. 190.

43) Ivi, p. 266.

44) Ivi, p. 265.

45) Ivi, p. 196.

46) Ivi, p. 14.

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47) Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. di G.

Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze19733, Vol. I, p. 47.

48) Ivi, I, pp. 46-47.

49) Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto cit., p. 17.

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IV

W. DILTHEY: SCIENZE DELLO SPIRITO

E CRITICA DELLA RAGIONE STORICA

Con Wihelm Dilthey (1833-1911) si entra nella generazione imme-

diatamente successiva ad Hegel, per arrivare fino al nostro secolo. Per

certi aspetti l'età di Dilthey è quella di Nietzsche (1844-1900), e la gene-

razione successiva è quella ad esempio di Henry Bergson (1859-1941),

di Edmund Husserl (1859-1938) e Benedetto Croce (1866-1952). Dilthey

non è un pensatore tra i più noti, tuttavia egli è egualmente molto im-

portante per determinati sviluppi della filosofia tedesca, in particolare

quella di M. Heidegger e di H.-G. Gadamer, e attraverso questi per buo-

na parte della filosofia del Novecento.

Le opere di Dilthey si possono suddividere in due blocchi: i saggi a

carattere storiografico, come ad esempio la biografia di Schleiermacher e

la biografia di Hegel; gli studi a carattere teoretico-metodologico, la cui

serie si sviluppa a partire dall'ultimo ventennio dell'800, con la Introdu-

zione alle scienze dello spirito (1883), La nascita dell’ermeneutica (1900),

per finire con gli ultimi lavori degli anni precedenti alla sua morte, gli

Studi per la fondazione delle scienze dello spirito (1905-10), La costruzio-

ne del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Da qui in poi, l'er-

meneutica come tale entra definitivamente a far parte della problematica

filosofica: sostanzialmente quando si parla, nella cultura contempora-

nea, di ermeneutica ci si riferisce ad uno stile di pensiero che ha le sue

origini nell'opera di Dilthey.

Il tema della filosofia di Dilthey sono le scienze dello spirito. Egli ha

sicuramente determinato non solo le modalità con cui le scienze stori-

che si sono sviluppate in questo secolo, ma ha, per certi aspetti, anche

condizionato la nostra comprensione storiografica del passato. Se do-

vessimo sintetizzare in alcuni punti la sua problematica filosofica, po-

tremmo riconoscere almeno due nuclei fondamentali:

la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito;

il problema della critica della ragione storica.

La distinzione dal punto di vista metodologico tra scienze della na-

tura e scienze dello spirito, è una frattura che si consuma a partire da

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Dilthey : d'ora in avanti la filosofia si separa, forse in maniera definitiva,

dalle scienze della natura.

4.1 LA DISTINZIONE TRA SCIENZE DELLA NATURA E SCIENZE DELLO SPIRITO

Distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito e critica

della ragione storica costituiscono due problemi per certi aspetti com-

plementari di un unico progetto filosofico. Per quanto riguarda il primo

punto, per la sensibilità contemporanea è abbastanza usuale distingue-

re tra scienze della natura e scienze dello spirito. Questa situazione di

divaricazione o di conflitto, tuttavia, non è sempre esistita. Agli albori

della Modernità si era viceversa affermata l'idea di racchiudere le diver-

se forme di sapere (i saperi rivolti verso la natura e quelli rivolti verso il

mondo dello spirito) in un unico sistema. In un celebre passo del Saggia-

tore, ad esempio, Galilei afferma che la filosofia non è un libro scritto dal-

la fantasia di un uomo, come potrebbero essere l'Iliade o l'Odissea; la filo-

sofia è invece scritta nel grande libro dell'universo, che sta aperto davanti

agli occhi di ognuno. Tale libro tuttavia non può essere compreso se pri-

ma non si impara a conoscere la lingua ed i caratteri con cui è scritto: ed

esso è stato scritto in lingua matematica, ed i suoi caratteri sono triango-

li, cerchi, ed altre figure geometriche; senza questi mezzi è impossibile

comprendere anche il minimo fenomeno naturale (1). E' difficile, leggendo

queste parole, che non venga in mente un passo spinoziano dal suono

molto simile. Nella "Prefazione" alla Parte Terza dell'Etica Spinoza avvisa

il lettore di accingersi a trattare "i vizi degli uomini", con "procedimento

geometrico"; in questo senso egli prosegue: "Tratterò pertanto della natu-

ra e delle forze degli affetti, e del potere della mente nei loro confronti col

medesimo metodo con cui, nelle parti precedenti, ho trattato di Dio e del-

la mente e considererò pertanto le azioni umane e gli appetiti come se si

trattasse di linee, superfici o corpi" (2). In questo modo Spinoza dimostra

di essere in sintonia con il punto di vista di Galileo. L'ordine geometrico

(genetico-sintetico) non serve soltanto alla chiarezza espositiva: esso è

l'unico strumento in grado di rendere accessibile all'intelletto umano la

struttura sintetica della Natura (Deus sive Natura). Nella prospettiva spi-

noziana tuttavia il progetto galileiano viene ulteriormente ampliato ed e-

steso. Il metodo geometrico, infatti, deve operare non soltanto nella Natu-

ra fisica, ma anche nella sfera del mondo umano e di qui far sentire la

propria efficacia anche nella critica della religione. Nel capitolo settimo

del Trattato teologico-politico Spinoza afferma infatti che "il metodo per

l'interpretazione della Scrittura non si differenzia affatto dal metodo per

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l'interpretazione della natura, ma anzi si accorda in tutto e per tutto con

quello" (3). L'evoluzione del pensiero scientifico è connessa allo sviluppo

del pensiero filosofico. La strada percorsa in questo modo da Spinoza era

stata tuttavia tracciata, nelle sue linee fondamentali, già da Galilei.

Si è già potuto vedere nelle pagine precedenti come una simile im-

postazione sia per certi aspetti condivisa anche da Vico. La Scienza nuo-

va, la teologia civile, si muove con lo stesso metodo della geometria e

Vico sembra quasi suggerire che la conoscenza del mondo prodotto

dall'uomo si sviluppa secondo una metodologia che questa nuova scien-

za condivide con le altre scienze della natura. Come la geometria produ-

ce essa stessa le grandezze che poi studia, ovvero le figure geometriche,

così la scienza nuova di Vico analizza l'universo della storia che è un

mondo prodotto dagli uomini. L'unica differenza è data dal fatto che l'u-

na studia grandezze astratte, l'altra cose concrete. Il procedimento è pe-

rò identico, il che vuol dire che il sistema della scienza è unico.

Una situazione per molti aspetti analoga è rintracciabile anche nel-

la filosofia kantiana. In Kant la ragione costruisce un unico sistema do-

ve da un lato si considera la ragione pura, cioè l'attenzione che la ragio-

ne ha nei confronti dell'esperienza e della natura (scienza dei fenomeni)

e dall'altro la ragione nel suo aspetto pratico, l'attenzione della ragione

nei confronti di quello che è l'agire umano. Ecco che la conoscenza della

natura e la conoscenza del mondo morale dell'uomo fanno parte di un

unico sistema della scienza. Il punto di tangenza tra questi due sistemi,

e quindi il concetto che è in grado di restituirci l'unità del sistema della

ragione, è la libertà (4). La libertà è la chiave di volta del sistema com-

plessivo della ragione, essa permette il sussistere di entrambi i sotto-

sistemi della ragion teoretica e della ragion pratica. Il concetto di libertà

è sicuramente un concetto pratico, appartiene alla sfera morale, ma

svolge una funzione anche nei confronti del mondo teoretico, della

scienza dell'esperienza. Anche con Kant dunque è possibile concepire

un unico edificio sistematico, uno schema unitario, al cui interno con-

fluiscono le diverse scienze, della natura e dello spirito.

Anche in Hegel troviamo qualcosa di molto simile, in quanto è pos-

sibile parlare di un unico sistema: all'interno della Enciclopedia delle

scienze, infatti, trovano posto sia la filosofia dello spirito sia la filosofia

della natura.

Con Dilthey quello che viene a spezzarsi è l'unicità del sistema.

D'ora in poi sistema della natura e sistema dello spirito apparterranno a

due ordini completamente diversi, disomogenei tra loro e non ricondu-

cibili l'uno all'altro.

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Scienze della natura e scienze dello spirito secondo Dilthey si diffe-

renziano tra di loro non soltanto perché si riferiscono ad oggetti diversi

ma soprattutto in rapporto alla loro natura di scienze: "Sulla base delle

forme e delle operazioni generali del pensiero si fanno qui valere compiti

specifici, che trovano la loro soluzione nell'intreccio dei propri metodi.

Nell'elaborazione di queste forme di procedimento le scienze dello spirito

sono state sempre influenzate dalle scienze della natura; e poiché que-

ste hanno elaborato prima i loro metodi, si è avuto in un vasto ambito

un adattamento di essi ai compiti delle scienze dello spirito... Anche og-

gi, nello sforzo di soluzione dei compiti particolari, lo studioso di psico-

logia, di pedagogia, di linguistica o di estetica si chiede spesso se i mezzi

e i metodi scoperti nelle scienze della natura per la soluzione di proble-

mi analoghi, possano venir sfruttati nel proprio campo. Ma, nonostante

tali particolari punti di contatto, la connessione delle forme di procedi-

mento delle scienze dello spirito è, fin dal suo inizio, del tutto diversa

dalla connessione delle scienze della natura" (5).

Questo è il risultato di uno sviluppo che appartiene anche alla sto-

ria della cultura. Un primo punto di riferimento e una delle prime gran-

di svolte nell'ambito dello sviluppo delle varie forme del sapere è stato

costituito, secondo Dilthey, dal Rinascimento e dalla Riforma protestan-

te, cioè dalla nascita della modernità, che segna una svolta epistemica,

secondo la quale il centro dell'attenzione passa dallo studio della meta-

fisica e della teologia allo studio delle scienze empiriche autonome, delle

scienze della natura: "Grazie al comune lavoro di Keplero, di Galilei, di

Bacone e di Descartes, la scienza matematica della natura si costituì

nella prima metà del secolo XVII come conoscenza dell'ordine legale del-

la natura: e mediante un numero sempre crescente di indagatori essa

ha esplicitato, ancora nello stesso secolo, tutta la sua capacità operati-

va. Essa ha costituito pure l'oggetto, la cui analisi è stata in prevalenza

compiuta dalla teoria della conoscenza dell'ultimo secolo XVII e del se-

colo XVIII, per opera di Locke, Berkeley, Hume, d'Alembert, Lambert e

Kant" (6).

Questo comporta che la conoscenza della natura è la prima forma

di sapere che giunge a darsi uno statuto scientifico all'interno della mo-

dernità, così da rappresentare non tanto l'attività di singole persone, ma

piuttosto un progetto epistemologico comune, del cui processo di svi-

luppo Kant rappresenta il culmine ed anche il punto di arrivo.

Il progetto di una fondazione delle scienze dello spirito trova la sua

base nell'oggettività storico-sociale ed il "sistema naturale" di queste

scienze ha il suo punto di riferimento nella religione, nel diritto, nell'eti-

cità, nell'arte. Ma quanto più era destinato a mostrarsi "il carattere sto-

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rico delle scienze dell'economia, del diritto, della religione, dell'arte",

tanto più, secondo Dilthey, "ciò a cui erano giunte le scienze naturali,

l'elaborazione di un sistema concettuale universalmente valido, si dove-

va... mostrare impossibile nelle scienze dello spirito, mentre appariva la

diversa natura dell'oggetto nei due campi del sapere" (7). La costituzione

delle scienze della natura è determinata dal modo in cui si presenta il

loro proprio oggetto, vale a dire appunto la natura. Ma la caratteristica

fondamentale della natura, secondo Dilthey, è quella di essere per l'uo-

mo un qualcosa di estraneo: sotto questo profilo essa "è trascendente al

soggetto conoscitivo, ed è appresa da questo in costruzioni strumentali,

mediante il dato fenomenico" (8). "La connessione del mondo spirituale

sorge nel soggetto, ed è il movimento dello spirito fino alla determina-

zione della connessione di significato di questo mondo che collega tra

loro i processi logici particolari. Così da una parte questo mondo spiri-

tuale è la creazione del soggetto conoscitivo, ma d'altra parte il movi-

mento dello spirito è diretto a raggiungere in esso un sapere oggettivo"

(9). La distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello

spirito passa attraverso la distinzione-opposizione tra natura e storia:

"nella natura esterna la connessione è riposta al di sotto dei fenomeni,

in un nesso di concetti astratti, mentre nel mondo spirituale la connes-

sione viene immediatamente vissuta e intesa". La configurazione indi-

pendente della costruzione delle scienze dello spirito trova quindi il suo

fondamento nella totale diversità di questa costruzione rispetto alla co-

struzione delle scienze della natura: le prime, infatti, "ritraducono sem-

pre e principalmente la realtà esterna storico-sociale dell'uomo, che si

estende in una maniera che non consente alcun calcolo, nella vitalità

spirituale da cui essa è scaturita" (10). Per Dilthey la diversità dell'og-

getto determina anche una sostanziale diversità nell‟ambito dell‟uso me-

todologico dei concetti: le scienze dello spirito poggiano su categorie di-

verse da quelle su cui poggiano le scienze della natura ed anche laddove

le categorie sono le stesse, il procedimento metodologico del loro impie-

go è sostanzialmente diverso.

Ad esempio, un concetto che trova applicazione tanto nell'ambito

della natura quanto in quello della storia, è il concetto di tempo. Il tem-

po, così come viene concepito nell'ambito delle scienze della natura è

qualcosa di misurabile in maniera uniforme, e anche qualcosa di rever-

sibile: è possibile scorrere lungo la scala dei valori del tempo e trovare

che la misurazione è fatta per unità identiche, e ciascuna unità indistin-

tamente può occupare lo spazio dell'altra: tutti gli spazi del tempo sono

uguali ed hanno perciò lo stesso valore.

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Nell'ambito di quello che è il mondo storico il tempo ha un notevole

peso, però esso si dispiega attraverso più dimensioni, il passato, il futu-

ro ed il presente, che può essere considerato come il punto di tangenza

delle prime due e che, osserva Dilthey, è "ciò che esiste sempre, e nulla

esiste che non abbia luogo in esso" (11). Queste dimensioni non sono

uguali e l'esperienza che il soggetto storico fa del tempo è diversa in re-

lazione a quale delle tre dimensioni egli di volta in volta si rapporta: in

questo senso "le parti del tempo reale non sono differenti tra loro soltan-

to qualitativamente, ma, se guardiamo dal presente indietro verso il

passato e avanti verso il futuro, ogni parte del divenire nel tempo, pre-

scindendo da ciò che in esso si presenta, ha un diverso carattere" (12).

Il passato si presenta sotto la dimensione del già dato e sotto la ca-

tegoria della necessità. Esso è qualcosa di immodificabile (13). Il futuro,

in quanto ancora non è, ci viene incontro sotto la dimensione o catego-

ria della possibilità: esso assume l'aspetto di un essere da noi domina-

bile, nei cui confronti noi ci possiamo atteggiare in maniera attiva e libe-

ra (14).

In un certo senso, c'è una reversibilità anche del tempo dello spiri-

to: noi infatti possiamo tornare indietro attraverso la memoria (anamne-

si). Si può dire che, in generale, proprio la storia è lo sforzo di rendere

reversibile il tempo, quindi di rendere di nuovo attuale quello che era il

passato, di renderlo nuovamente fruibile. Tuttavia, osserva Dilthey, la

"serie delle immagini della memoria" vengono sempre "disposte secondo

il valore per la coscienza e la partecipazione affettiva" (15). La memoria

non è mai disgiunta dalla soggettività, così ognuno ha la sua memoria e

ciascuno di noi rivive in maniera diversa anche gli stessi avvenimenti.

Pur nella loro capacità di diventare reversibili il tempo della natura e il

tempo della storia rivelano ancora la loro diversità fondamentale. Sa-

rebbe assurdo tentare di applicare, nell‟interpretazione delle leggi fisi-

che, il tempo così come noi lo utilizziamo nell‟ambito delle scienze dello

spirito, cioè il tempo vissuto, il tempo della vita; altrettanto assurdo pe-

rò sarebbe il voler misurare il tempo della vita in base ai parametri uti-

lizzati per il tempo della natura.

Un altro concetto che appartiene sia alle scienze della natura sia

alle scienze dello spirito è indubbiamente quello di causa. L‟idea di cau-

salità nel mondo fisico esprime il rapporto necessario tra due fenomeni

in ambito storico il concetto di causalità continua a mantenere un ana-

logo valore, cioè a rappresentare un legame necessario tra due eventi,

tra due fatti, tra il soggetto che compie l‟azione e l‟azione in quanto

compiuta. Il modo in cui viene applicata la causalità in un campo e

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nell‟altro risponde tuttavia a criteri e normative che sono molto diversi e

per certi aspetti anche diametralmente opposti.

Il nesso causale è il collante fondamentale del costituirsi di ogni fe-

nomeno e di ogni legge scientifica. Dal punto di vista dell‟indagine natu-

rale, inoltre, la ricerca delle cause viene effettuata tramite l'analisi del

fenomeno in laboratorio, attraverso la sua riproducibilità per mezzo

dell'esperimento. La causalità naturale, in quanto sperimentabile, è una

causalità ripetibile all‟infinito.

Certamente, anche nell'ambito delle scienze storiche si parla di leg-

gi e si ricercano cause: però, osserva Dilthey, "nel mondo storico non c'è

alcuna causalità nel senso naturalistico, poiché la causa in tal senso

provoca degli effetti secondo leggi necessarie; mentre la storia conosce

soltanto i rapporti del fare e del subire, di azione e di reazione" (16). La

natura degli eventi storici, i casi della nostra vita, hanno caratteristiche

diverse, essi sono unici, ciascun fatto, ciascun avvenimento della vita,

sia a livello micrologico che a livello macrologico, ha il carattere della

irripetibilità e questo vuol dire che nei casi della vita e della storia

l‟esperimento è impossibile.

La sfera dell'agire morale può costituire un interessante esempio di

applicazione del concetto di causa nell'ambito delle scienze dello spirito.

Nell‟ambito dell‟agire morale si parla di causalità nel senso di responsa-

bilità, di imputabilità delle proprie azioni. La causalità, tuttavia, non è

mai in questo caso una causalità pura, diretta, ma è sempre implicata

in una serie di circostanze. Chi agisce, infatti, riconosce come effetto

delle proprie azioni, cioè ammette un rapporto di causalità tra se stesso

e ciò che si produce nell‟esperienza sola nella misura in cui ciò che si

produce era contenuto nelle intenzioni che hanno determinato l‟azione.

La singola coscienza morale si riconosce responsabile e quindi si ritiene

imputabile non di tutto ciò che di fatto è entrato nell‟esperienza in con-

seguenza della propria azione, ma soltanto di quella parte

dell‟esperienza che rientrava nelle proprie intenzioni. In questo modo

"anche l'azione si stacca dallo sfondo della connessione della vita: e sen-

za la determinazione del modo in cui in essa si congiungono le circo-

stanze, lo scopo, il mezzo e la connessione della vita, non consente al-

cuna determinazione compiuta dell'elemento interno da cui è sorta"

(17).

4.2 CRITICA DELLA RAGIONE STORICA.

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Con Dilthey e con la fine del XIX secolo, come si è visto, si consu-

ma il divorzio tra scienze della natura e scienze dello spirito ovvero tra

discipline scientifiche e scienze umane: questo significa in primo luogo

la rinuncia, da parte della filosofia contemporanea, di elaborare un uni-

co sistema delle scienze.

Da questa distinzione o separazione Dilthey ricava quello che è il

compito di una critica della ragione storica, il cui punto di partenza è

costituito da Kant. Kant ha elaborato in maniera radicale una "critica

della ragione", come ricerca delle condizioni di possibilità di ogni espe-

rienza. Le scienze, in modo particolare la matematica e la fisica, hanno

fornito l'esempio da seguire sul piano metodologico. Da questo punto di

vista, secondo Dilthey, la critica kantiana è stata capace di offrire una

analisi del sapere matematico e del sapere delle scienze naturali. Ma le

scienze della natura, a loro volta, sono soltanto una parte dell'esperien-

za possibile. Al di là del punto toccato dalla critica kantiana rimane an-

cora aperto il problema di fondare una "teoria della conoscenza storica",

cosa che il criticismo non è stato capace di dare (18).

Dopo Kant, nemmeno Hegel è riuscito a pervenire "all'aria aperta

del mondo storico reale" (19). Certamente, secondo Dilthey, in Hegel si

può riconoscere uno "dei più grandi geni storici di tutte le epoche"; la

grandiosità del progetto hegeliano è misurata dal proposito di assumere a

proprio oggetto l'intero dominio del mondo storico: in questo modo alla

"sistematica della ragione" è stato reso accessibile "tutto ciò che il razio-

nalismo settecentesco aveva escluso dalla connessione della ragione in

quanto esistenza individuale, in quanto forma particolare della vita, in

quanto caso e arbitrio" (20). Tuttavia, sempre secondo Dilthey, occorre

riconoscere che la storia universale, così come la storia della filosofia, so-

no state interamente costruite da Hegel partendo dal punto di vista della

filosofia assoluta, per cui esse sono state chiuse nell'edificio del sistema

come in una prigione: in questo modo la comprensione storica è stata fa-

talmente sacrificata allo schema metafisico (21). Lo scopo cui Hegel mira-

va era indubbiamente quello di pensare le forme della coscienza, in modo

da rappresentare lo sviluppo dello spirito come un sistema di relazioni

concettuali e l'attuazione di tale connessione di idee nel mondo reale tro-

vava il suo punto centrale nella Weltgeschichte, la storia universale: una

tale via doveva però necessariamente portare ad una intellettualizzazione

del mondo storico (22).

Occorre quindi ritornare al punto in cui era pervenuto il criticismo

per superarlo, in modo "che la ragione storica risolva il compito rimasto

fuori dall'ambito visuale della critica della ragione di Kant" (23). Il compito

storico assolto dalla filosofia kantiana è stato quello di svolgere una cri-

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tica dei fondamenti epistemologici delle scienze della natura: proprio per

questo la ragione kantiana ha di mira l'esperienza scientifica, che è una

esperienza asettica, da laboratorio. Agli occhi di Dilthey è necessario

"uscire dall'aria pura e raffinata della critica della ragione kantiana per

soddisfare alla natura del tutto differente degli oggetti storici" (24).

Il mondo storico si presenta innanzitutto con una fondamentale ca-

ratteristica, di essere intrecciato all'individuo in una relazione che non è

possibile sciogliere; in tal modo "si presenta il primo importante mo-

mento per la soluzione del problema conoscitivo della storia: la prima

condizione per la possibilità della conoscenza storica sta nel fatto che io

stesso sono un essere storico, e che colui che indaga la storia è il mede-

simo che fa la storia". Secondo Dilthey l'uomo è essere storico prima di

considerare la storia e soltanto in quanto è costitutivamente un essere

storico, l'uomo si volge alla considerazione del mondo storico: in questo

modo "l'uomo si conosce soltanto nella storia" (25). Sulla base di questa

prospettiva ciò che viene ad essere privilegiato è il rapporto storia/vita:

scienze dello spirito, ovvero scienze storico-sociali, vita ed esperienza

della vita si trovano in una connessione interna costante ed in un altret-

tanto costante reciproco scambio. L'elaborazione concettuale è in questo

caso determinata continuamente dalla vita stessa: da quest'ultima, in-

fatti, muove l'elaborazione concettuale intorno al destino, ai caratteri,

alle passioni, ai valori ed agli scopi dell'esistenza per culminare alla fine

nella costruzione della storia intesa quale disciplina scientifica: nella

storia la vita afferra la vita (26). L‟oggetto della ragione storica è la vita,

il vivere umano, non la vita biologica, e quindi si dispiega in una molte-

plicità di direzioni e di scienze: la storia propriamente detta, la storia

delle religioni, l‟antropologia, la psicologia, ecc., tutte quelle che oggi

continuiamo a chiamare scienze umane e che per Dilthey erano le

scienze dello spirito.

La vita è un fenomeno complesso perché da un lato si sviluppa co-

me vita individuale; essa è in primo luogo la vita di ciascuno di noi pre-

so come singolo individuo: "Tra questa realtà e l'intelletto non sembra

possibile alcun rapporto conoscitivo, poiché il concetto separa ciò che è

legato nel fluire della vita, e rappresenta qualcosa di valido universal-

mente e per sempre, indipendentemente dalla mente che lo ha formula-

to, mentre il fluire della vita è ovunque soltanto singolare, e ogni onda

va e viene entro di essa" (27). Il fatto di non poter essere rappresentata

da alcuna formula di operazioni logiche, comporta che la vita, in quanto

individualità, racchiude sempre in sé un "elemento irrazionale" (28).

L'individualità è qualcosa che sfugge alla comprensione categoriale nel

senso appunto che non è totalmente riconducibile a principi di carattere

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generale e quindi in questo senso l‟individualità racchiude sempre qual-

cosa di non spiegabile. Nel nostro stesso comportamento, che è sicura-

mente sottoposto a una infinità di regole a cui obbediamo in maniera

anche irriflessa, c‟è pur sempre un aspetto che non è riconducibile a

queste norme e il problema che devono risolvere le scienze dello spirito è

proprio quello di dover fare i conti con questo residuo di irrazionalità,

che essendo costitutivo della vita è a sua volta ineliminabile dalla vita

stessa

La vita è qualcosa di singolo, di soggettivo, ma che, pur in quanto

singolo, partecipa di una totalità: "La vita è la connessione dei rapporti

reciproci tra le persone, che hanno luogo sotto le condizioni del mondo

esterno, compresa nell'indipendenza di tale connessione dal mutare dei

tempi e dei luoghi" Vita vuol dire perciò sia la vita singola del soggetto

sia la vita sociale condivisa da tutti: in questo senso "la vita consiste

nell'azione reciproca delle unità viventi" (29). La vita individuale non si

sviluppa e non si gestisce mai da sola, ma sempre nella interazione di

altre vite: questo fa sì che una delle categorie basilari per la compren-

sione della vita sia la relazione parte-tutto. L'essenza della vita può esse-

re intesa soltanto per mezzo di apparati categoriali che sono estranei

alle scienze della natura: "Anche qui il momento decisivo sta nel fatto

che queste categorie non sono applicate a priori alla vita come qualcosa

di esterno, ma risiedono nell'essenza della vita stessa"; così come il loro

numero complessivo non può venir stabilito una volta per tutte, altret-

tanto la loro connessione non può essere ricondotta ad una formula lo-

gica: "Significato, valore, scopo, sviluppo, ideale" -ricorda Dilthey- "sono

tali categorie. Ma tutte le altre dipendono dal fatto che la connessione

del corso della vita può venir appreso solo mediante la categoria del si-

gnificato delle varie parti della vita in rapporto alla comprensione della

totalità, e che ogni sezione della vita dell'umanità può venir intesa solo

in tal modo" (30).

La relazione parti/tutto è di natura reciproca: infatti, da un lato,

ogni momento particolare riceve il suo significato attraverso il rapporto

con la totalità; dall'altro lato la totalità, a sua volta, sussiste soltanto in

quanto può essere compresa per mezzo delle sue parti (31). Lungo que-

sta direzione si determina il nesso tra vita e storia: "La vita, che scorre

nel tempo o si distingue spazialmente nella contemporaneità, è articola-

ta categorialmente secondo il rapporto tra il tutto e le sue parti: e la sto-

ria come realizzazione della vita nel corso del tempo e nella contempo-

raneità è pure considerata categorialmente come un'articolazione in

questa relazione delle parti con il tutto" (32). Da questa peculiare forma

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di azione reciproca discende anche il compito del sapere storico: "La sto-

ria deve osservare la vita come una totalità" (33).

E' evidente, da quanto detto, che uno dei problemi epistemologici

che le scienze dello spirito, ed in particolare il sapere storico, devono

saper affrontare è dato dalla struttura basilare dell‟oggetto che esse

studiano: l‟individualità da un lato e la totalità dall‟altro, senza poter

fare una scelta definitiva né per l'una né per l‟altra. Optando per la pura

singolarità le scienze dello spirito perderebbero il loro carattere di scien-

za e si polverizzerebbero in una babele di discorsi particolari. Ma

dall‟altro lato le scienze dello spirito non possono nemmeno optare per

la pura universalità, perché in questa maniera perderebbero irrimedia-

bilmente di vista uno dei caratteri costitutivi dell'ambito di esperienza

che esse hanno come oggetto.

NOTE

1) Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano

1965, p. 38

2) Cfr. B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, trad. it.

di S. Giametta, Boringhieri, Torino 19675, Parte III, Prefaz., pp. 130-

131

3) Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, trad. it. di A. Droetto e E.

Giancotti-Boscherini, Einaudi, Torino 1972, p. 186.

4) Cfr. E. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, riv. da

E. Garin, Laterza, Bari 19669, p. 2.

5) Cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica, trad. it. di P. Rossi, Ei-

naudi, Torino 1982, p. 213.

6) Ivi, pp. 158-159.

7) Ivi, pp. 164 e 169.

8) Ivi, p. 159.

9) Ivi, p. 293.

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10) Ivi, pp. 196-198.

11) Ivi, p. 296.

12) Ibidem.

13) Ibidem.

14) Ibidem.

15) Ibidem.

16) Ivi, p. 301.

17) Ivi, p. 312.

18) Ivi, p. 294.

19) Ivi, p. 376.

20) Ivi, pp. 172-174.

21) Cfr. W. Dilthey, Storia della giovinezza di Hegel e

Frammenti postumi, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, Guida, Napo-

li 1986, pp. 314, 356.

22) Cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica cit., p. 174.

23) Ivi, p. 273.

24) Ibidem.

25) Ivi, pp. 372-374.

26) Ivi, pp. 220-221.

27) Ivi, p. 375.

28) Ivi, p. 228.

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29) Ivi, p. 332.

30) Ivi, p. 337.

31) Ivi, pp. 338-339.

32) Ivi, p. 352.

33) Ivi, p. 360.

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V

HABERMAS: LA MODERNITÀ

COME PROGETTO INCOMPIUTO

Jürgen Habermas (1929) può essere considerato come uno dei

rappresentanti della cosiddetta seconda generazione della Scuola di

Francoforte. Assistente di T.W. Adorno presso l‟Institut für Sozialfor-

schung, dopo una parentesi all‟Università di Heidelberg, fu chiamato

proprio a Francoforte, quale successore di M. Horkheimer. Successiva-

mente è stato direttore del Max-Plank-Institut di Starnberg, per tornare

nuovamente a Francoforte nel 1883, sulla cattedra che già era stata di

Adorno. L‟abilità di Habermas è stata quella di essersi tempestivamente

inserito nelle principali controversie teoriche a cavallo degli anni Ses-

santa a Settanta (ad esempio il dibattito sull‟epistemologia delle scienze

sociali; sull‟ermeneutica; sulla teoria dei sistemi), guadagnandosi così

un posto centrale nella cultura filosofica tedesca. Tra i suoi lavori più

noti si possono ricordare Storia e critica dell’opinione pubblica (1962),

Conoscenza e interesse (1968), La logica delle scienze sociali (1970), Per

la ricostruzione del materialismo storico (1976), per giungere ai più recen-

ti Etica del discorso (1983), Il discorso filosofico della modernità (1985),

Fatti e norme (1992). La sua opera maggiore resta comunque la Teoria

dell’agire comunicativo, apparsa in due volumi nel 1981, la cui tesi di

fondo è costituita dalla assunzione della comunicazione come paradig-

ma fondamentale della razionalità, dell‟agire sociale e della stessa teoria

critica. Il nucleo comunicativo, che forma la sostanza del linguaggio, è

la condizione del nostro stesso agire.

5.1 MODERNO E POST-MODERNO

Con l‟espressione progetto della modernità Habermas intende rife-

rirsi al processo di autocomprensione avviatosi all‟interno della cultura

non soltanto filosofica della società post-illuministica: in tal senso il di-

scorso della modernità è qualcosa che continua fino all‟età presente e

che diventa riconoscibile in tutte quelle forme di pensiero che prendono

avvio dalla coscienza delle crisi, intesa come rottura della tradizione fi-

losofica. Sotto questo profilo, Habermas si propone di delineare i tratti

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caratteristici della modernità in quanto elevata a tema per la filosofia.

Con età moderna ci si riferisce all‟epoca storica delimitata a monte dalla

scoperta del Nuovo Mondo, dal Rinascimento e dalla Riforma, che sono i

fenomeni storico-culturali che segnano la soglia epocale nei confronti

del Medioevo; ed a valle dall‟Illuminismo e dalla Rivoluzione francese.

L‟età moderna nasce pertanto alla luce di “concetti di movimento”, come

“rivoluzione”, “progresso”, “emancipazione”, “sviluppo”, “crisi”, “spirito

del tempo”: si tratta pertanto di ricostruire, alla luce di una storia dei

concetti, il problema costituito dalla coscienza storica della moderna

civiltà occidentale (1). Nell‟ambito di questo progetto di ricostruzione, un

primo punto da tenere presente è costituito dal fatto che lo sviluppo del-

la società moderna si è organizzato attraverso i mezzi offerti da una cul-

tura diventata oramai profana, in quanto uscita dalla dissoluzione delle

immagini religiose del mondo: l‟elemento vetero-europeo si è dissolto, in

quanto il ricorso a verità religiose o metafisiche non ha più significato

all‟interno del discorso filosofico della modernità: in questo senso il

post-moderno segna l‟estinzione di ogni forma di esegesi unificante del

mondo, che intenda svilupparsi alla luce di principi. A partire dal XVIII

secolo, il mondo moderno sviluppa sostanzialmente un unico tema, no-

nostante lo rivesta continuamente di nuove denominazioni: il venir me-

no delle forze sociali connettive, la privatizzazione, la scissione sono tut-

ti segni della deformazione di una prassi quotidiana, che, in quanto ra-

zionalizzata in modo unilaterale, fa sorgere l‟esigenza di qualcosa che

possa essere riconosciuto come equivalente della antica potenza unifica-

trice della religione(2).

Alla diagnosi della modernità appartiene un ulteriore elemento: la

critica della “ragione strumentale”, corrispondente ad un agire economi-

co guidato da una razionalità che opera esclusivamente in vista di un

fine. Con la critica al concetto di ragione strumentale si intendono fare i

conti con le forme di un intelletto calcolante che ha preso il posto della

ragione e che, in quanto operare concepito esclusivamente in vista di

uno scopo, si è assimilato al potere, rinunciando ad ogni forza critica.

Congiuntamente alla critica della ragione strumentale, appartiene al

patrimonio tematico del discorso della modernità anche un terzo punto:

la critica al soggettivismo. Se la prigionia della modernità è segnata

dall‟universo chiuso della ragione strumentale, c‟è la necessità di supe-

rare quella forma di soggettivismo che avvolge il mondo con il suo potere

reificante, irrigidendolo in una totalità di oggetti tecnicamente disponi-

bili ed economicamente utilizzabili. Se la libertà deve essere riconosciu-

ta come principio della modernità, bisogna contestualmente ammettere

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che essa non si lascia cogliere effettualmente attraverso i concetti fon-

damentali di una filosofia del soggetto(3).

Secondo Habermas, con il mondo nuovo viene alla luce anche una

nuova esperienza del tempo, in quanto all‟interno dell‟orizzonte aperto

dall‟età moderna, il presente, in quanto storia contemporanea, gode di

una posizione privilegiata. Alla modernità appartiene la consapevolezza

che la filosofia è giunta alla sua fine, e questa consapevolezza rinvia a

quella rottura con la tradizione che è stata ben evidenziata da K. Lö-

with(4), quando la coscienza moderna del tempo ha assunto il potere

sulla filosofia. Questa rottura con la tradizione si è espressa in varie

forme: come “superamento” (Aufhebung) della metafisica (ad esempio

con i Giovani Hegeliani), come “oltrepassamento” (Überwindung) della

metafisica (ad esempio con Nietzsche e Heidegger) oppure come com-

miato dalla filosofia (ad esempio con Wittgenstein e Adorno). Il significa-

to globale di tutto questo è che comunque la modernità si sente total-

mente affidata a se stessa, in quanto non intende più ricavare i propri

criteri di orientamento dai modelli di un‟altra epoca: essa deve trovare e

riconoscere i propri valori normativi in se stessa e da se stessa. Sotto

questo profilo, i concetti di “ontologia fondamentale”, di “critica”, di “dia-

lettica negativa”, di “decostruzione”, di “genealogia” non sono oramai

più dei punti di riferimento, alle cui spalle possa ancora farsi in qualche

modo valere la figura tradizionale della filosofia(5).

Secondo Habermas, al discorso filosofico della modernità appartie-

ne anche un‟ulteriore caratteristica, determinata dal fatto che la storia

viene esperita come un processo di crisi, e questo significa: il presente

viene visto “come improvviso balenare di diramazioni critiche, il futuro

come l‟affollarsi di problemi irrisolti; ne nasce quindi una coscienza esi-

stenzialmente affinata circa il pericolo di decisioni mancate e di inter-

venti tralasciati”. Lungo questa direzione ci si incammina su di una

strada, alla fine della quale la ragione viene definitivamente privata della

propria esigenza di validità. Il pensiero scientifico e la ricerca condotta

con metodo vanno incontro ad una svalutazione globale, ma quanto più

ci si ritiene dispensati dal lavoro scientifico, tanto più si corre il rischio

di farsi ingannare dalle mode scientifiche del momento. Mettere da parte

l‟esigenza della metodicità conduce fatalmente a procedimenti di tipo

intuizionistico, alla necessità di ricorrere ad un sapere speciale, che

possa promettere un accesso privilegiato alla verità. Così ad esempio

Heidegger sviluppa una distruzione così radicale della ragione moderna,

che non è più possibile distinguere tra i contenuti universalistici

dell‟Umanesimo o dell‟Illuminismo e le idee particolaristiche

dell‟autoaffermazione, proprie del razzismo e del nazionalismo: “Su que-

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sto sfondo diventa comprensibile come negli anni più oscuri della se-

conda guerra mondiale poté consolidarsi più che mai l‟impressione che

l‟ultima scintilla di ragione fosse scomparsa da questa realtà, lasciando-

si dietro le rovine desolate di una civiltà in decadenza”(6).

Secondo Habermas, tuttavia, la filosofia non può assumere il carat-

tere esoterico di una cultura di esperti e deve contestualmente preoccu-

parsi di non rendere inefficace o poco tagliente la lama della critica della

ragione: se il pensiero filosofico viene esonerato dal dovere di risolvere

problemi, esso viene privato non solo della sua serietà metodica, ma an-

che della sua stessa produttività. Sotto questo profilo la lotta contro la

filosofia del soggetto non può lasciare aperta come via di fuga soltanto

l‟evasione nella immediatezza di una concezione mistica: si possono in-

dividuare pertanto anche altre vie che conducono fuori delle strettoie

della filosofia del soggetto. In quanto sapere che si caratterizza per le

sue proiezioni universalistiche e per le sue forti strategie teoretiche, la

filosofia deve mantenere aperto il suo interesse per i fondamenti delle

scienze, della morale e del diritto. In questo senso la filosofia mantiene

un rapporto molto stretto con il mondo della vita concepito nella sua

totalità e con il sano intelletto umano; nello stesso tempo, tuttavia, la

filosofia si deve assumere il compito di scuotere, in un modo che può

anche essere “apertamente sovversivo”, le certezze della prassi quotidia-

na. Pur accettando una certa dose di “fallibilismo”, nel senso che non

insiste più sui concetti “forti” di teoria, di verità e di sistema, la filosofia

deve saper mantenere aperto un riferimento alla totalità e non rinuncia-

re pertanto alle proprie pretese di verità(7).

5.2 IL CONCETTO HEGELIANO DELLA MODERNITÀ

Secondo Habermas Hegel è stato il primo filosofo ad aver elaborato

un chiaro e consapevole concetto della modernità, nel senso che per

primo ha elevato a problema filosofico il processo di distacco del mondo

moderno dalle suggestioni del passato: il problema dell‟autoaccertamento

della modernità diventa pertanto il problema fondamentale della sua

filosofia. Se si vuole comprendere fino in fondo il significato storico di

quella stretta relazione tra modernità e razionalità che è stata ritenuta

cosa ovvia almeno fino all‟epoca di Max Weber, è necessario risalire fino

al filosofo di Stoccarda: pertanto il concetto hegeliano di modernità di-

venta il necessario banco di prova nei confronti di tutte le pretese di co-

loro che svolgono analisi in base a premesse diverse(8).

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Hegel individua nel principio della soggettività, ovvero nella strut-

tura dell‟autorelazione, il principio cardine dell‟età moderna: partendo

da tale concetto egli spiega la superiorità del mondo moderno ed al tem-

po stesso il suo carattere di epoca percorsa da crisi, per cui il suo tenta-

tivo di “portare la modernità al concetto” si qualifica al tempo stesso

come il tentativo di una critica della modernità. Indubbiamente anche

Kant esprime la realtà del mondo moderno in un sistema di idee: ciò

significa che nella sua filosofia si riflettono, quasi come in uno spec-

chio, i tratti essenziali di questa epoca, senza tuttavia che egli sia riusci-

to a comprendere la modernità come tale. Kant infatti non avverte come

scissioni le differenziazioni che si sono sviluppate nella ragione, le arti-

colazioni formali che si sono generate dentro la cultura e più in generale

le divisioni che si sono consolidate all‟interno di queste sfere: egli in so-

stanza ignora il bisogno che nasce dalle separazioni prodotte dal princi-

pio della soggettività. Questo bisogno si impone alla filosofia non appe-

na la modernità giunge a concepirsi come epoca storica e ciò significa:

non appena essa diviene consapevole del distacco da ogni passato che

abbia per lei valore esemplare e quindi consapevole della necessità di

giungere da se stessa e per se stessa all‟attingimento di ciò che deve es-

sere per lei sostanza normativa(9).

Sulla scorta dell‟analisi hegeliana, la soggettività può essere ricom-

presa secondo Habermas all‟interno delle seguenti connotazioni: in pri-

mo luogo l‟individualismo, nel senso che nel mondo moderno

l‟infinitamente particolare fa valere le proprie pretese; in secondo luogo

il diritto alla critica, in quanto il principio del mondo moderno richiede

che ciò che si mostra come un che di legittimo sia riconosciuto come

tale; in terzo luogo l‟autonomia dell’agire, in quanto nel mondo moderno

ciascuno si considera responsabile di ciò che fa; da ultimo la filosofia

idealistica, in quanto il compito dell‟età moderna dal punto di vista spe-

culativo è cogliere l‟idea che sa se stessa. Più in particolare, i concetti

morali dell‟età moderna implicano il riconoscimento della libertà sogget-

tiva degli individui: ciò significa che tali concetti sono fondati da un lato

sul diritto del singolo di poter da se stesso considerare come valido ciò

che deve fare, dall‟altro lato, tuttavia, sull‟esigenza che a ciascuno è leci-

to realizzare il proprio bene particolare solo in quanto questo si accorda

con il bene di tutti. Nella modernità tanto la vita religiosa, lo Stato e la

società, così come la scienza, la morale e l‟arte, sono tutte altrettante

incarnazioni del principio della soggettività. Il problema consiste nel ve-

dere se questo principio, ovvero la struttura dell‟autocoscienza che è ad

esso immanente, possa proporsi quale sorgente di orientamenti norma-

tivi, i quali siano in grado di dare un assetto stabile alla modernità inte-

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sa come formazione storica. Questo significa: verificare se soggettività

ed autocoscienza siano da un lato capaci di elaborare criteri desunti

dallo stesso mondo moderno, dall‟altro se tali criteri siano adatti per

orientarsi in esso, ovvero a criticare una modernità che non è in pace

con se stessa. La soggettività si rivela un principio unilaterale, in quan-

to tale principio mostra di possedere forza sufficiente per produrre la

formazione della libertà soggettiva e della riflessione, ma non risulta ca-

pace di rigenerare la potenza dell‟unificazione nel medium della ragione.

In questo senso i moderni fenomeni di ciò che Hegel definisce come il

“positivo” (vale a dire religione e Stato ridotti ad essere un puro ingra-

naggio, una macchina) sono in grado di smascherare il principio della

soggettività come un principio di dominio. Il mondo moderno soffre per-

tanto di false identità(10).

Fino al secolo XIX, la tradizione aristotelica ha ininterrottamente

rappresentato il concetto vetero-europeo della politica concepita come

una sfera che doveva comprendere in sé tanto lo Stato quanto la stessa

società. Agli occhi di Hegel si è fatto progressivamente chiaro che una

simile costruzione concettuale non era più adatta alle società moderne,

dove l‟economia di stampo capitalistico, organizzata in base al diritto

privato, si era oramai resa indipendente. L‟elemento sociale si era sepa-

rato da quello politico ed la società economica, come sfera spoliticizzata,

era diventata autonoma rispetto allo Stato burocratizzato. Si era trattato

di uno sviluppo storico che aveva messo fuori gioco la dottrina politica

classica per quanto riguardava la sua capacità di comprendere

l‟esistente. Pertanto la dottrina politica, alla fine del XVIII secolo, si era

scissa in una teoria della società basata sull‟economia politica ed in una

teoria dello stato fondata sul diritto naturale. Da questo lato Hegel è il

primo ad elaborare, anche sul piano terminologico, un sistema di con-

cetti in cui può trovare adeguata espressione la modernità, nel momen-

to in cui separa la sfera politica dello “Stato” dall‟ambito della “società

civile”, come luogo dei rapporti economici. Si pone tuttavia a questo

punto il problema di come sia possibile concepire la società civile non

soltanto come la sfera della decadenza della sostanza etica, ma al tempo

stesso anche come momento necessario dell‟eticità stessa. Il punto di

partenza di Hegel è dato dalla consapevolezza che l‟ideale antico della

comunità politica non è riproponibile nelle condizioni in cui opera la

modernità: quindi egli si trova nella necessità di trovare una mediazione

tra l‟ideale etico della classicità, per quegli aspetti per cui esso è supe-

riore all‟individualismo dell‟età moderna, e l‟effettualità della modernità

sociale. Secondo Habermas, tuttavia, la ragione filosofica hegeliana è

capace di pervenire ad una riconciliazione solo parziale(11).

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Al fine di riconciliare la modernità decaduta, Hegel giunge a pre-

supporre una totalità etica, che non è stata elaborata sul terreno stesso

della modernità, ma che è derivato da un passato idealizzato, quello del-

le comunità religiose proto-cristiane e, soprattutto, quello della polis

greca. Hegel sviluppa l‟idea di un “positivamente universale”, distinto

dalla società civile, in modo da bloccarne le tendenze

all‟autodistruzione, conservando al tempo stesso i risultati

dell‟emancipazione: questo positivo è costituito dallo stato, cosicché il

problema della mediazione viene risolto attraverso l‟Aufhebung della sfe-

ra sociale nella forma della monarchia costituzionale. Si tratta tuttavia,

secondo Habermas, di una soluzione che risulta praticabile solo sulla

base del presupposto di un Assoluto, che viene concepito ancora in base

al modello della relazione di un soggetto conoscente con se stesso: “He-

gel può comprendere la modernità partendo dal suo stesso principio,

grazie al concetto di un Assoluto che sopraffà tutte le assolutizzazioni, e

che solo mantiene, in quanto incondizionato, l‟infinita processualità

dell‟autorelazione che assorbe in sé tutto il finito”. Sulla base di questo

generale impianto logico deriva il primato di una soggettività di grado

superiore, spettante allo Stato, sulla libertà soggettiva del singolo: la

logica del soggetto che concepisce se stesso impone quindi

l‟istituzionalismo di uno Stato forte. Alla facoltà riflessiva applicata a se

stessa si accompagna indubbiamente anche un lato negativo, quello di

una soggettività autonomizzata, posta assolutamente(12).

Il bisogno di autofondazione della modernità, secondo Habermas, è

soddisfatto in questo modo al prezzo di un indebolimento della critica:

“La filosofia non può insegnare al mondo come esso deve essere; nei

suoi concetti si riflette soltanto la realtà così come essa è. Non si rivolge

più contro la realtà, bensì contro le oscure astrazioni che si inseriscono

fra la coscienza soggettiva e la ragione oggettivamente conformata. Dopo

che lo spirito della modernità „ha dato una scossa‟, dopo aver trovato

ancora una via di uscita dalle aporie del moderno, e non soltanto è en-

trato nella realtà effettuale, ma vi è divenuto oggettivo, Hegel ritiene che

la filosofia sia sgravata dal compito di confrontare l‟intera esistenza del-

la vita sociale e politica con il suo concetto”(13).

Hegel non è il primo filosofo che appartiene all‟età moderna, ma è

indubbiamente il primo, secondo Habermas, ad averla posta come pro-

blema. Così facendo, tuttavia, egli non voleva affatto una rottura con la

tradizione filosofica. Nella teoria hegeliana appare per la prima volta e

diviene pienamente visibile la costellazione concettuale che collega mo-

dernità, coscienza del tempo e razionalità: è però lo stesso filosofo a far

saltare questa costruzione, in quanto la realtà elevata a Spirito assoluto

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finisce per neutralizzare le condizioni grazie alle quali la modernità ave-

va raggiunto la coscienza di se stessa. Hegel perciò non ha risolto il

problema dell‟autoaccertamento della modernità, dal quale aveva preso

le mosse la sua filosofia. Il suo tentativo, agli occhi di Habermas, lascia

tuttavia all‟epoca post-hegeliana una eredità nella forma di un suggeri-

mento che potrebbe rivelarsi prezioso: “soltanto colui che concepisce in

termini più modesti il concetto della ragione ottiene un diritto di prefe-

renza nel trattare questo tema”(14).

5.3 NIETZSCHE E IL POST-MODERNO

Secondo Habermas, né Hegel e nemmeno i suoi discepoli, di destra

o di sinistra, hanno in realtà mai voluto mettere in discussione i fonda-

menti di ciò da cui l‟età moderna traeva la coscienza di se stessa: in

questo senso, la modernità si colloca innanzitutto sotto il segno della

libertà soggettiva. Ma il dominio del soggetto fa sì che le sfere all‟interno

delle quali ciascun individuo svolge la sua vita, come borghese, come

cittadino e come uomo, si separino sempre più l‟una dall‟altra fino a di-

ventare indipendenti. Nel passato, era la religione a costituire il legame

indissolubile che legava insieme le parti della totalità: ora questo legame

si è spezzato. Le forze religiose che consentivano l‟integrazione sociale si

sono dissolte a causa di un processo di Aufklärung, che così come non

può essere indiscriminatamente messo da parte, altrettanto non può

considerarsi il prodotto del caso e dell‟arbitrio(15). L‟Illuminismo, osser-

va ancora Habermas, “è caratterizzato dall‟irreversibilità dei processi di

apprendimento derivante dall‟impossibilità di dimenticare a proprio libi-

to idee, che invece possono essere soltanto rimosse, oppure corrette con

idee migliori. Perciò l‟Illuminismo può compensare le sue lacune sola-

mente per mezzo di un Illuminismo radicalizzato; perciò Hegel e i suoi

discepoli devono porre le loro speranze in una dialettica

dell‟Illuminismo, nella quale la ragione possa fungere da equivalente

della potenza unificatrice della religione”(16). La soluzione hegeliana,

come si è già visto, si è rivelata troppo forte.

Di fronte a questa situazione, il progetto nietzschiano si propone di

valorizzare la coscienza moderna del tempo, allo stesso modo in cui, in

precedenza, i Giovani Hegeliani si erano mossi contro l‟oggettivismo del-

la filosofia hegeliana della storia. Conformemente a questo programma,

nella seconda della Considerazioni inattuali (Sull’utilità e il danno della

storia per la vita), Nietzsche analizza l‟inefficacia di una tradizione cultu-

rale che si era oramai completamente staccata dall‟azione e trasferita

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nell‟interiorità. L‟entrata di Nietzsche nel discorso della modernità modi-

fica tuttavia in maniera radicale la natura dell‟argomentazione. Fino ad

allora la ragione era stata pensata secondo le più diverse modificazioni,

affinché tuttavia potesse presentarsi come un equivalente dell‟antica

potenza unificatrice della religione, fornendo in questo modo le forze

propulsive per il superamento delle scissioni prodotte dalla modernità.

L‟aspetto nuovo del progetto nietzschiano consiste tuttavia nel rinun-

ciare ad una ulteriore revisione del concetto di ragione: infatti “la de-

formazione storicistica della coscienza moderna, l‟afflusso indiscrimina-

to di contenuti arbitrari e lo svuotamento di tutto ciò che è essenziale lo

inducono a dubitare che la modernità possa ancora attingere da se

stessa i propri criteri”(17).

Il fulcro del progetto nietzschiano è la concezione dionisiaca della

storia: tra gli elementi costitutivi di questa concezione deve essere ri-

compresa quella forma peculiare di teodicea, in base alla quale il mondo

può trovare giustificazione soltanto come fenomeno estetico. Nella de-

scrizione del dionisiaco, infatti, che viene concepito come elevazione del

soggetto fino al totale oblio di sé, è compresa anche l‟esperienza, indub-

biamente resa più radicale rispetto ad analoghe posizioni romantiche,

dell‟arte contemporanea(18). Il mito di Dioniso, del dio errante

dell‟ebbrezza e della follia e delle continue metamorfosi, osserva Haber-

mas, poteva esercitare un notevole fascino su di un‟età illuministica che

andava progressivamente perdendo la fiducia in se stessa, in quanto

poteva alimentare speranze di redenzione. Nietzsche conduce alle con-

seguenze più estreme il processo di depurazione, già iniziato dai roman-

tici, del fenomeno estetico da ogni implicazione di carattere teoretico e

morale: “Nell‟esperienza estetica la realtà dionisiaca è isolata dal mondo

della conoscenza teoretica e dell‟agire morale, dalla quotidianità, tramite

un „baratro dell‟oblio‟. L‟arte apre l‟accesso al dionisiaco soltanto al

prezzo dell‟estasi – cioè al prezzo della dolorosa abolizione delle differen-

ze, della disindividualizzazione, della fusione con l‟amorfa natura inter-

na ed esterna. Perciò l‟uomo della modernità, privo di miti, dalla nuova

mitologia può attendersi soltanto un tipo di redenzione che elimina tutte

le mediazioni”. Ciò che si propone è un distacco radicale dalla moderni-

tà, oramai svuotata dal nichilismo: “Con Nietzsche la critica alla moder-

nità rinuncia per la prima volta a mantenere il contenuto emancipativo.

La ragione centrata nel soggetto viene messa a confronto con il total-

mente altro dalla ragione”(19). L‟energia che crea il senso forma così il

nucleo estetico della volontà di potenza, la quale al tempo stesso si pre-

senta anche come volontà di apparenza: sotto questo profilo l‟arte è de-

stinata a diventare l‟autentica attività metafisica dell‟uomo, in quanto è

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la vita stressa che si fonda sull‟apparenza, sull‟inganno, sulla illusione.

Il dominio nichilistico della ragione soggettocentrica viene a sua volta

concepito come il risultato del pervertimento della volontà di potenza:

con la sua critica alla ragione della modernità, critica che si pone essa

stessa al di fuori dell‟orizzonte della ragione, Nietzsche intende elabora-

re gli strumenti utili a smascherare una scienza ed una morale che sono

in realtà le forme in cui si esprime l‟ideologia di una volontà di potenza

pervertita(20).

Sotto questo profilo, la Genealogia della morale, secondo Hebermas,

deve essere considerata come il “grande modello” di quella lunga catena

di pensatori del post-moderno, da Martin Heidegger a Georges Bataille e

Jacques Derrida, da Max Horkeimer, Theodor W. Adorno a Jacques La-

can e Michel Foucault, in ciascuno dei quali, è dato di scorgere un “ac-

cusatore della modernità”(21).

Agli occhi di Habermas le finalità che Nietzsche si proponeva di re-

alizzare con i mezzi di una critica totalizzante ed autodistruttiva

dell‟ideologia sono le stesse che Heidegger vuole perseguire attraverso la

distruzione immanente della metafisica occidentale. L‟originalità di Hei-

degger su questo piano è semmai costituita dal fatto che nella prospetti-

va di una storia della metafisica viene collocato anche il dominio del

soggetto. Secondo l‟autore di Essere e tempo, “l‟inizio dell‟età moderna è

contrassegnato […] dalla svolta epocale della filosofia della coscienza,

che ha inizio con Descartes; e la radicalizzazione di questa comprensio-

ne dell‟Essere attuata da Nietzsche contraddistingue l‟età contempora-

nea, che domina la costellazione del presente; la quale a sua volta si

presenta come il momento della crisi”(22). Dopo Heidegger, anche Ba-

taille deve essere annoverato tra quanti si sono schierati sotto la ban-

diera di Nietzsche. Al filosofo della volontà di potenza Bataille è collegato

da un fondamentale tratto anarchico: se il pensiero si deve rivolgere

contro ogni forma di autorità, allora esso si deve volgere anche contro il

sacro, in quanto è esso stesso espressione di una autorità; ne deriva

pertanto che la dottrina della morte di Dio non può essere intesa che in

un senso deliberatamente e rigorosamente ateistico(23). Un “autentico

allievo” di Heidegger è considerato da Habermas anche Derrida, il quale

prosegue secondo questa direttrice la critica nietzschiana alla moderni-

tà. Il tentativo compiuto da Derrida di decostruire la filosofia del sogget-

to segue fedelmente l‟andamento del pensiero heideggeriano: la gramma-

tologia diventa da questo lato il filo conduttore per la critica della meta-

fisica(24).

Per parte loro, anche Horkheimer e Adorno intendono mettersi sul-

la linea della radicale critica a cui Nietzsche sottopone la ragione. In

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questo senso la Dialettica dell’Illuminismo assume come punto di parten-

za proprio le posizioni nietzschiane allo scopo di sviluppare in forma

concettuale un processo autodistruttivo dello stesso Illuminismo, dal

momento che non è più dato sperare nella sua capacità liberatoria: “la

critica nietzschiana della conoscenza e della morale anticipa un‟idea che

Horkheimer e Adorno sviluppano nella forma di una critica della ragione

strumentale: dietro gli ideali di oggettività e le pretese di verità del posi-

tivismo, dietro gli ideali ascetici e le pretese di giustezza della morale

universalistica, si nascondono imperativi di autoconservazione e di do-

minio”(25). Se Heidegger e Derrida intendevano continuare il program-

ma impostato da Nietzsche di una critica della ragione lungo la strada

della distruzione della metafisica, Foucault si ripromette di farlo attra-

verso la distruzione della scienza della storia. L‟autore di Histoire de la

folie deriva l‟idea di una storiografia che si presenta come antiscienza

dalla recezione della Seconda considerazione inattuale, che risulta per

lui una vera miniera di concetti. Se Nietzsche aveva sottoposto lo stori-

cismo del suo tempo ad una critica severa, con Foucault viene eliminata

l‟idea stessa di una riconciliazione, alla quale aveva ancora mirato la

critica alla modernità che era rimasta collegata a Hegel: “Da questa de-

costruzione di una storiografia che rimane attaccata al pensiero antro-

pologico ed a fondamentali convinzioni umanistiche, si delineano i con-

fini di uno storicismo trascendentale, per così dire, che contemporanea-

mente eredita e super la critica di Nietzsche alla storia trascendentale, in

senso debole”(26).

5.4 PER UNA AUTENTICA CRITICA ALLA FILOSOFIA DEL SOGGETTO

Secondo Habermas nelle critiche finora rivolte alla filosofia della

soggettività, di un soggetto che, riferendosi a se stesso, acquista la pro-

pria autocoscienza pagando il prezzo dell‟oggettivazione della natura e-

sterna così come della propria natura interna, restano problemi metodo-

logici non ancora chiariti. Pertanto, per affrontare in maniera rigorosa il

discorso filosofico della modernità ed uscire dalle sue aporie concettuali,

è necessario ripercorrere ancora una volta la via tracciata, per tornare

fino al punto di partenza, verificando ad ogni singolo crocevia la direzio-

ne che è stata seguita e le alternative che non sono state scelte. Già e-

saminando le proposte hegeliane erano venute alla luce ipotesi diverse

rispetto alle soluzioni poi effettivamente adottate: una prospettiva non

presa in considerazione dal filosofo di Stoccarda poteva effettivamente

avviare ad una trasformazione del concetto di riflessione nel senso di

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una teoria della comunicazione. In tal modo, rispetto a quello che è sta-

to definito come “istituzionalismo forte”, da intendersi quale primato di

una oggettività superiore, quella dello stato rispetto alla libertà soggetti-

va del singolo, poteva offrirsi un diverso modello di mediazione fra uni-

versale ed individuo, costituito questa volta da una intersoggettività di

grado superiore, quella della libera formazione della volontà, che è pos-

sibile realizzare all‟interno di una comunità della comunicazione(27).

Habermas definisce la razionalità come “la disposizione di soggetti

capaci di parlare e di agire ad acquisire ed impiegare un sapere fallibi-

le”. Non vi è nessuna ragion pura, che soltanto in seguito rivesta abiti

linguistici: essa è originariamente incarnata in contesti di agire comuni-

cativo ed in strutture del mondo della vita. La ragione soggettocentrica è

il prodotto di una scissione, vale a dire di un progetto sociale in cui dei

momenti subordinati si sono resi autonomi nei confronti delle strutture

comunicative, rappresentate dai rapporti di intesa e di riconoscimento

reciproco. La totalità etica scissa di cui parla Hegel e la prassi estrania-

ta di cui parla Marx possono pertanto essere riconosciute come forme di

un‟intersoggettività mutilata, ovvero come i prodotti di una comunica-

zione alterata. Per questo motivo, la teoria dell‟agire comunicativo può

ricostruire il concetto hegeliano del contesto di vita etico senza dover

più far ricorso ai presupposti della filosofia della coscienza(28).

Il paradigma della filosofia della coscienza deve pertanto essere so-

stituito dal paradigma dell‟intesa che si stabilisce tra soggetti che sono

capaci di parlare e di agire. All‟interno del modello dell‟azione orientata

verso l‟intesa non gode più di una posizione privilegiata l‟atteggiamento

oggettivante del soggetto che identifica se stesso come unico punto di

orientamento: “Nel paradigma dell‟intesa è fondamentale piuttosto

l‟atteggiamento performativo dei partecipanti all‟interazione, che coordi-

nano i loro piani d‟azione, intendendosi reciprocamente nel mondo. In

quanto Ego compie un‟azione linguistica e Alter prende posizione verso

di essa, entrano entrambi in una relazione interpersonale… Ora questo

atteggiamento di partecipanti ad un‟interazione linguisticamente media-

ta rende possibile una relazione del soggetto con se stesso diversa da

quella puramente oggettivante, che un osservatore assume di fronte ad

entità nel mondo”(29).

La critica portata avanti ad esempio da Heidegger e da Foucault

contro la ragione risulta, secondo Habermas, solo apparentemente radi-

cale, in quanto nonostante tutto rimane ancora compromessa con i pre-

supposti della filosofia del soggetto, dai quali pensava di potersi libera-

re: in questo modo l‟Altro della ragione riproduce specularmente

l‟immagine della ragione tirannica, cioè soggettocentrica. Questa critica

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della razionalità paga inoltre un prezzo molto alto, in quanto non ven-

gono rifiutate unicamente le conseguenze di un autoriferimento oggetti-

vante, ma vengono respinte anche una serie di altre istanze, che la mo-

dernità aveva portato avanti, sia pur come “promesse non mantenute”, e

ciò significa: “La prospettiva di una prassi autocosciente, nella quale

l‟autodeterminazione solidale di tutti dovrebbe potersi collegare con

l‟autentica autorealizzazione di ciascun singolo”(30). Solo con il muta-

mento di paradigma rappresentato dalla ragione comunicativa si è fi-

nalmente rinviati ad un‟altra, e questa volta plausibile, via di uscita dal-

la filosofia del soggetto. La decostruzione della razionalità soggettocen-

trica può essere ottenuta soltanto se il paradigma dell‟autocoscienza,

dell‟autoriferimento è sostituito dal paradigma della relazione intersog-

gettiva di individui che risultano socializzati comunicativamente e che

per questo si riconoscono in maniera reciproca. Solamente in questo

caso “la critica al pensiero disponente della ragione soggettocentrica si

presenta in forma determinata – cioè come una critica al „logocentrismo‟

occidentale, che non diagnostica un troppo, bensì un troppo poco di ra-

gione. Invece di surclassare la modernità, essa riprende il contro-

discorso immanente alla modernità, e lo trae fuori dalla contrapposizio-

ne frontale e senza vie d‟uscita fra Hegel e Nietzsche”(31).

Alla luce della prospettiva di Habermas, pertanto, solamente una

intersoggettività linguisticamente prodotta, in cui la socializzazione si

realizza come individuazione ed in cui, nello stesso tempo, reciproca-

mente gli individui stessi si costituiscono, in quanto individui,

all‟interno dei rapporti sociali, può risultare in grado di superare i tratti

patologici delle società moderne(32).

NOTE

1) Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni,

trad. it. di Emilio Agazzi e Elena Agazzi, Laterza, Roma-Bari 19972,

pp. VII, 5-7.

2) Ivi, pp. 1, 60, 142-144.

3) Ivi, pp. 1, 7, 122, 137, 216-217, 295.

4) Habermas si riferisce qui alle analisi svolte nel noto volume di K. Lö-

with, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del

secolo XIX, trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 19712.

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5) Cfr. Habermas, Il discorso filosofico della modernità cit., pp. 7, 53-54.

6) Ivi, pp. 59, 115, 119-120, 137, 140, 142.

7) Ivi, pp. 141, 211-214.

8) Ivi, pp. 4-5, 16.

9) Ivi, pp. 17, 20-21.

10) Ivi, pp. 17-19, 21, 28-29, 34.

11) Ivi, pp. 38-40.

12) Ivi, pp. 31-34, 41-43.

13) Ivi, pp. 44-45.

14) Ivi, pp. 45, 52.

15) Ivi, p. 86.

16) Ivi, p. 87.

17) Ivi, pp. 87-88.

18) Ivi, pp. 94, 96, 98.

19) Ivi, pp. 96-97.

20) Ivi, pp. 98-99, 132.

21) Ivi, pp. 57, 100, 123.

22) Ivi, pp. 101, 137-138.

23) Ivi, pp. 135, 218.

24) Ivi, pp. 100, 164, 166, 170, 184.

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25) Ivi, pp. 109, 125.

26) Ivi, pp. 252-253, 257.

27) Ivi, pp. 34, 42.

28) Ivi, pp. 315-316, 317, 323, 347.

29) Ivi, pp. 258, 299.

30) Ivi, pp. 311, 336-337.

31) Ivi, pp. 303, 312.

32) Ivi, pp. 345-347.