Corso di Diritti Umani e Inclusione Anno 2017-2018 ... · citarne alcuni, il Morbo del legionario...
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Corso di Diritti Umani e Inclusione – Anno 2017-2018
Barriere psicologiche, sociali e culturali Stereotipi, pregiudizi verso le persone
Curata da Angela Abasimi Awoenley, Alessio Dal Pos, Sara Gulotta, Milena Lamendola, Federico Vito Maria Marino
1
Indice INTRODUZIONE ........................................................................................ 4
Termini e distinzioni ................................................................................ 4
Bibliografia.............................................................................................. 6
PERSONE CON MALATTIA MENTALE .................................................... 7
Definizione dei termini ............................................................................ 7
Persone con schizofrenia ....................................................................... 9
Persone con autismo ............................................................................ 13
Persone con morbo di Alzheimer ......................................................... 16
Persone con sindrome di Down ............................................................ 19
Conclusione .......................................................................................... 22
Bibliografia............................................................................................ 23
TOSSICODIPENDENZA E STEREOTIPI ................................................ 24
La tossicodipendenza in Italia .............................................................. 24
Cannabis sempre più diffusa ................................................................ 25
Spice e NPS nuove droghe in monitoraggio ......................................... 26
Minori e sostanze psicoattive ............................................................... 26
Ragazze e droghe ................................................................................ 27
Sostanze psicoattive nella storia .......................................................... 28
Tossicodipendenza, stereotipi e società ............................................... 33
L’immagine di sé e la riuscita di un buon percorso ............................... 38
Conclusione .......................................................................................... 39
Bibliografia............................................................................................ 40
INCLUSIONE ED ESCLUSIONE DEGLI ULTIMI ..................................... 41
Etimologia della parola senzatetto ........................................................ 41
La visione degli ultimi nella storia ......................................................... 41
2
Il medioevo ........................................................................................ 41
L’epoca moderna .............................................................................. 43
L’età contemporanea ........................................................................ 44
Conclusione: due diversi punti di vista .................................................. 48
Bibliografia ............................................................................................ 49
LA REALTA’ DEGLI ICAM E LE NORMATIVE IN MATERIA DI TUTELA DEI
MINORI .................................................................................................... 50
Introduzione, Icam: istituto custodia attenuata madri. ........................... 50
Misure alternative di detenzione odierne .............................................. 53
Detenzione domiciliare ...................................................................... 53
Detenzione domiciliare speciale ........................................................ 54
Affidamento in prova al servizio sociale ............................................ 54
Assistenza all’esterno dei figli minori ................................................. 55
La realtà degli ICAM ............................................................................. 55
L’Icam di Milano ................................................................................ 57
L’Icam di Venezia .............................................................................. 58
Regolamentazione della tutela della figura infantile dalle sue origini ad
oggi: la situazione in Italia ..................................................................... 60
Conclusioni ........................................................................................... 63
Bibliografia ............................................................................................ 65
TRA ONDATE DI INCLUSIONE E DISCRIMINI ....................................... 70
Introduzione del quadro istituzionale generale in materia di immigrazione
.............................................................................................................. 70
Convenzioni in materia di asilo, normativa comunitaria e internazionale
.......................................................................................................... 70
Iter storico riguardo la legislazione in materia di politiche per
l’immigrazione ................................................................................... 71
3
Il caso dell’Albania ............................................................................ 74
Gli anni 2000 e l’inizio delle politiche di chiusura .............................. 76
Analisi di concetti di dinamiche sociali nell’incontro tra il “noi” e il “loro”
.......................................................................................................... 80
Conclusioni ........................................................................................... 82
Bibliografia............................................................................................ 83
4
INTRODUZIONE
A cura di Federico Vito Maria Marino
Termini e distinzioni
Per capire cosa sono pregiudizi e stereotipi dobbiamo porci una domanda:
in che modo conosciamo la realtà sociale? La conoscenza del mondo
sociale viene organizzata dalla nostra mente utilizzando processi di
categorizzazione e schemi. La categorizzazione è un processo cognitivo
che consiste nel raggruppare un insieme di oggetti, fisici o sociali, che
hanno una o più caratteristiche in comune (ad esempio, persone
categorizzate in gruppi). Per schema intendiamo invece una
rappresentazione cognitiva di conoscenze organizzate relative a un oggetto
(ad esempio, sé, ruoli, gruppi, eventi sociali), che influenza la percezione,
la memoria e le inferenze (cioè la costruzione di nuove conoscenze circa i
dati mancanti) e ha il vantaggio di semplificare il lavoro cognitivo, cioè
l’elaborazione delle informazioni, perché facilitano la codifica, il ricordo e le
inferenze. Ma dato che le persone si basano su schemi esistenti per
conoscere il mondo, a volte ignorano o negano l’evidenza della realtà
conservando le proprie opinioni e credenze.
Tra i primi a studiare i processi di categorizzazione ci furono Tajfel e Wilkes
(1963) con un esperimento volto a verificare gli effetti su semplici giudizi
quantitativi quando in una serie di stimoli (semplici linee di diversa e
crescente lunghezza) è applicata una classificazione sistematica. L’ipotesi
era che la categorizzazione degli stimoli portasse a percepire uniformità
all’interno delle singole categorie (assimilazione intracategoriale) e, allo
stesso tempo, distintività tra esse (differenziazione intercategoriale), cioè
portasse all’accentuazione percettiva delle somiglianze intraclasse e delle
differenze interclassi. Studi successivi hanno dimostrato gli effetti della
categorizzazione anche considerando stimoli sociali, quindi riferiti a
individui appartenenti all’una o l’altra categoria sociale (vedasi Doise,
Deschamps e Meyer ,1978, sulla categorizzazione in base al genere).
5
L’esperimento di Tajfel e Wilkes può spiegare come nascono gli stereotipi.
Uno stereotipo sociale consiste nell’attribuire alcuni tratti in comune a tutti
gli individui membri di un gruppo e nell’attribuire, a questi stessi membri,
alcune differenze comuni rispetto ai membri di altri gruppi. Un aspetto
essenziale degli stereotipi è, infatti, che si esagerano alcune differenze tra
gruppi rispetto ad alcune dimensioni di giudizio, e si minimizzano le
differenze all’interno dei gruppi; a proposito di ciò lo stesso Herni Tajfel
produsse la Teoria dell’identità sociale (1981). Prima di lui si espresse
Gordon Allport (1954) definendo lo stereotipo: una credenza esagerata
(amplificata) associata ad una categoria. La sua funzione è di giustificare
(razionalizzare) la nostra condotta nei confronti di quella categoria [1].
Mentre John Brigham lo definisce: una generalizzazione fatta su un gruppo
etnico, relativa all’attribuzione di un tratto, che è considerata ingiustificata
da parte di un osservatore [2]. Gli studiosi contemporanei superano invece
la concezione negativa (l’ingiustificabilità di Brigham) e definiscono lo
stereotipo come una rappresentazione cognitiva di un gruppo sociale, in cui
al gruppo sono associate caratteristiche stereotipiche, considerate cioè
descrittive, salienti, o più tipiche del gruppo (non necessariamente
negative).
Quello che va chiarito è che molti studi hanno dimostrato che l’attivazione e
l’applicazione dello stereotipo può avvenire automaticamente, cioè
immediatamente e non intenzionalmente, ed avere, quindi, effetti
inconsapevoli sulla percezione, il giudizio e il comportamento sociale.
Patricia Devine, nel 1989, dimostrò come lo stereotipo relativo a un gruppo
(i neri in USA) veniva attivato automaticamente, cioè senza
consapevolezza, e venisse successivamente utilizzato per il giudizio
sociale, nonostante le credenze personali (positive e controllate) dei
soggetti partecipanti all’esperimento si scontrassero con gli stereotipi
(negativi ma incontrollati) [3].
Il pregiudizio è invece un’idea, opinione concepita sulla base di convinzioni
personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti,
delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e
6
da indurre quindi in errore [4]. Per pregiudizio si intende quindi una
valutazione tendenzialmente negativa di un gruppo o di un individuo in
quanto appartenente a un gruppo; a questo possono essere associati, oltre
che tratti e credenze stereotipiche, anche valutazioni ed emozioni.
Parlando di rapporti sociali tra gruppi o tra persone altri termini meritano di
essere spiegati per non indurre in fraintendimenti. Per stigma (o stimma) si
intende, nell’uso letterale, con significato vicino a quello etimologico,
marchio, impronta, carattere distintivo. In psicologia sociale, è l’attribuzione
di qualità negative a una persona o a un gruppo di persone, soprattutto
rivolta alla loro condizione sociale e reputazione [4] (può essere di natura
psico-fisica, razziale, etnica, religiosa).
Per discriminazione si intende la distinzione, diversificazione o
differenziazione operata fra persone, cose, casi o situazioni. Particolare
risalto va dato al termine “operata” in quanto fa riferimento agli atti,
provvedimenti, azioni rivolti a persone portatrici di diversità sociali o
biologiche (ne è un esempio “classico” la discriminazione razziale operata
dai regimi nazista e fascista nei confronti di ebrei e altre minoranze).
Vi è poi l’ostracismo, il comportamento con cui, nell’ambito di un gruppo
sociale o politico omogeneo, le persone che esercitano il potere o
dispongono di particolare influenza escludono o emarginano, spesso
facendo leva su forme di coazione sociale, un loro avversario o, anche,
chiunque abbia violato le regole del gruppo stesso; in particolare, il termine
viene usato in antropologia sociale per indicare l’esclusione da una
comunità di quegli individui che si siano resi colpevoli di determinate
infrazioni [4].
Bibliografia
1. “La natura del pregiudizio”, pag.191, Allport, 1954
2. “Ethnic stereotypes” pag.31, Brigham, 1971
3. “Stereotypes and Prejudice: Their Automatic and Controlled
Components”, Devine, 1989
4. Treccani
7
PERSONE CON MALATTIA MENTALE
A cura di Alessio Dal Pos
“Ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene
considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita
sofferenza che non è stata colta dagli uomini.”
(Alda Merini)
Definizione dei termini
Cos’è un disturbo mentale? Cos’è una malattia? Quando si parla di morbo?
Quando di sindrome? Rispondere a queste domande è doveroso prima di
cominciare una trattazione sui pregiudizi, gli stereotipi, i tabù legati a una
categoria che scopriremo essere eccezionalmente vasta.
Per disturbo mentale intendiamo, in senso generale, la situazione di
carenza di salute che si manifesta prevalentemente con sintomi psicologici,
cioè sul piano di ciò che la persona fa, prova, pensa, dice e percepisce.
Questi possono essere di due tipi: i più frequenti e noti, i sintomi nevrotici
(ansie, fobie, depressioni, ossessioni, ecc.) e i più rari, quelli psicotici (deliri,
allucinazioni, pensieri sconnessi, tendenza all’isolamento, inerzia, povertà
di emozioni, chiusura ai rapporti interpersonali, ecc.). Perché si possa
parlare di disturbo mentale è necessario che i sintomi siano presenti per un
certo periodo e associati in varia misura tra loro [1]. La differenza tra sintomi
psicotici e nevrotici non è mai limpida, tant’è vero che alcuni disturbi
vengono definiti “borderline”.
Per malattia mentale si fa riferimento a una disfunzione comportamentale,
psicologica o biologica della persona, clinicamente significativa, associata
a un malessere o a una menomazione [2]. Spesso è definita come disturbo
mentale, ma una definizione soddisfacente non esiste, dato che di molte
malattie mentali non si conoscono né l’eziologia, né i processi
fisiopatologici. Per avere una più chiara spiegazione ci rifacciamo
8
all’opuscolo informativo “Il pregiudizio sulla malattia mentale è difficile da
scardinare” che definisce la malattia mentale come “particolare disturbo, o
meglio, gruppo di disturbi mentali noti come sindromi schizofreniche. La
schizofrenia è caratterizzata dalla presenza e dalla persistenza nel tempo
di alcuni dei sintomi definiti psicotici”.
La sindrome (quale quella schizofrenica) è quindi l’insieme dei segni e dei
sintomi che compongono una situazione clinica particolare di un individuo;
è anche usato come sinonimo di malattia le cui caratteristiche sono poco
chiare. Ne sono altri esempi la sindrome di Asperger, la sindrome di Down
e la sindrome da immunodeficienza acquisita, malattia virale, più nota come
AIDS [3].
II termine morbo è stato storicamente utilizzato per indicare le malattie a
decorso fatale, soprattutto perché sconosciute e quindi incurabili. Il termine
attualmente è un vocabolo in via di abbandono sia per rispetto del malato
sia perché di molte malattie è stata trovata l'origine e la cura, così, per
citarne alcuni, il Morbo del legionario adesso si nomina legionellosi, il Morbo
di Pott, una malattia una volta devastante perché provocava la paralisi totale
o parziale e la consequenziale morte per inedia, adesso si chiama spondilite
ed è trattabile mediante antibiotici. Per continuità ed uso alcune malattie
gravi molto diffuse (Alzheimer, Parkinson), vengono ancora indicate con il
lemma “morbo” anche nei titoli di pubblicazioni scientifiche, ma poi nelle
trattazioni vengono correttamente descritte come malattia o sindrome pur
essendo ancora non totalmente curabili [4].
A chi allora si può dare del “pazzo” o del “matto”? La pazzia, nel linguaggio
comune, è “qualsiasi forma di alterazione, persistente o temporanea, delle
facoltà mentali” [2]. Dalle nuove regole per un linguaggio inclusivo non può
essere accettata la dicitura “pazzo”, né tantomeno “persona con pazzia”. È
consigliato adeguarsi al linguaggio medico-scientifico, dove si parla invece
di infermità, malattia o disturbo mentale, o più specificamente di morbo,
sindrome, psicosi o psicopatia.
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Da uno studio recente risulta che in Italia poco meno del 10% della
popolazione soffre, nell’arco di un anno, di uno dei disturbi mentali più
frequenti (depressione o ansia), poco meno dell’1% soffre di disturbi meno
frequenti. Un altro studio, su scala mondiale, afferma che una persona su
quattro sperimenta nel corso della vita una malattia mentale; questo
significa che probabilmente ognuno nella propria vita avrà a che fare, in
famiglia o al lavoro, con persone con disturbi o malattie mentali. Tutti prima
o poi ci imbattiamo nella sofferenza psichica. Il nostro modo di approcciarci
alla salute mentale sarà quindi tema del prossimo capitolo.
Per disegnare un quadro il più possibile completo e (speriamo) non
ripetitivo, abbiamo voluto prendere in esame nell’ampia categoria delle
persone con disturbi o malattie mentali solo quattro tipologie di stigmatizzati:
le persone con schizofrenia, le persone con morbo di Alzheimer, le persone
con autismo e le persone con sindrome di Down. La scelta è ricaduta su
queste perché si è voluto ricoprire tutte le età (dal bambino all’adulto, fino
all’anziano), si è inoltre cercato di riportare testimonianze da paesi e culture
diverse, si è voluto mettere in luce come malattie diverse inducano
comportamenti di esclusione diversi e come malattie diverse richiedano
politiche inclusive e incentivino iniziative diverse.
Persone con schizofrenia
La schizofrenia è una patologia mentale caratterizzata da gravi sintomi
psicotici, apatia, ritiro sociale e compromissione delle funzioni cognitive.
Induce deterioramento nell’attività lavorativa, scolastica, familiare e
incapacità da parte del soggetto di prendersi cura di sé, svolgere una vita
indipendente e condurre una buona vita di relazione. (…) Compare tra i 16
e i 25 anni; l’incidenza annuale, simile tra i diversi Paesi, è di circa 1 su
10.000 individui. (…) Le femmine presentano un’età di esordio più tardiva e
un decorso della malattia più favorevole, con minore numero di ricoveri e
migliore funzionamento sociale [2].
Cosa significa essere una persona con schizofrenia? Come viene
rappresentata la persona con schizofrenia dai mezzi di comunicazione?
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Che immagine abbiamo della persona con schizofrenia? La definizione
appena sopra esposta ci chiarisce la natura della malattia, ma non la natura
della persona con quella malattia. Lo psicologo Paul Chadwick, professore
al Dipartimento di psicologia dell'Università di Southampton dipinge la
condizione schizofrenica come “luogo dove si amplifica la creatività, la
sensibilità e l’empatia” [5]. Paul Chadwick è malato di schizofrenia. È un
esempio tra i tanti che spiega come gli effetti di una malattia possono essere
circoscritti entro i confini della salute mentale della persona e non riescono
a influenzare (se non in minima parte) i rapporti della persona malata con
gli altri nella società. Come nascono allora i pregiudizi nei confronti delle
persone con schizofrenia? Perché alle persone con schizofrenia viene
affibbiata l’etichetta o lo stigma di “matto”?
Forse si può ricondurre parte dei pregiudizi nel rapporto stesso che la
persona ha con la propria malattia. Generalmente chi è malato si vergogna
della malattia e si nasconde, si considera debole di carattere, così debole
da “arrendersi” alla malattia (concezione purtroppo diffusa anche tra chi
osserva dall’esterno); nella percezione comune, soffrire di una patologia
mentale equivale a valutarsi negativamente rispetto agli altri. Superare lo
scoglio dell’autovalutazione negativa sarebbe un rilevante passo in avanti:
chi non prova vergogna di sé stesso riesce ad aprirsi più facilmente agli altri.
Questo assume notevole importanza nelle fasi iniziali della malattia, nella
quale il precoce riconoscimento dei sintomi e la valutazione di un medico
psichiatra consentono un accesso migliore e anticipato alle cure e una
maggiore probabilità di superamento rapido della condizione di malattia.
Se c’è un motivo per il quale le malattie mentali incutono paura è la loro
“originalità”: di gran parte di esse non si conoscono le cause, non esistono
marcatori biologici che le individuano e non si può quantificare il rischio di
svilupparle. Questa mancanza di conoscenza è senz’altro una delle cause
che portano alla stigmatizzazione. Il rischio è valutare e valutarsi “pazzo”
alla comparsa di un solo sintomo, magari nemmeno grave, e costruire la
tragica evoluzione di una malattia mentale incurabile che, con ogni
probabilità, non si svilupperà.
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La mancanza di conoscenza favorisce l’affermarsi di idee distorte e
pregiudizi. In tal senso, in che modo operano i mezzi d’informazione? Male.
In quali casi si sente parlare di persone con malattie mentali? Nei casi di
cronaca nera: “ha ucciso perché depresso”, “è stato un raptus di follia”.
Un’indagine inglese del 1996 rivela che il 66% delle malattie mentali
rappresentate in televisione è associato a fatti di violenza. In realtà i crimini
commessi da persone con malattie mentali sono sporadici rispetto alla
totalità delle persone con malattia e inoltre risulta che queste sono più
spesso vittime di reati che autrici di reati. L’immagine della persona con
malattia mentale proposta dai media è quindi falsificata dalla ricerca
dell’audience: fa più ascolti l’omicidio efferato che il servizio d’informazione
medica. Ne risulta una tendenza a pensare che i disturbi psichici siano
qualcosa di cui vergognarsi, che segnano per sempre e che per curarli si
possa fare ben poco. La ricerca medica ha invece confutato queste false
credenze; esistono strumenti efficaci (farmacologici e psicoterapeutici) che
permettono il pieno o il parziale recupero delle capacità sociali e intellettive,
senza dimenticare l’importanza di una diagnosi precoce.
Ma il fattore stigmatizzante più pericoloso è l’emarginazione. Se si
considerasse il malato mentale come un malato qualsiasi, si accetterebbe
il concetto di cura e di soccorso, ma così non avviene: chi soffre di disturbi
psichici viene troppo spesso isolato. Il 13 maggio 1978 la legge 180 della
Repubblica Italiana (detta “legge Basaglia” dal nome del neurologo e
psichiatra Franco Basaglia che la ispirò) decretò la chiusura dei “manicomi”
e stabilì l’eguale diritto di cittadinanza alle persone con disturbi mentali. Il
professor Peppe Dell’Acqua dell’Università di Trieste a tal proposito scrive
“…il malato di mente entra in scena, diventa cittadino cui lo Stato deve
garantire i suoi fondamentali diritti costituzionali, una persona la cui dignità
deve assumere un valore assoluto, un soggetto singolare che pretende
ascolto, cure, attenzioni altrettanto singolari…” [6]. La fine dell’internamento
delle 89mila persone con malattia mentale coincise con la fine
dell’emarginazione negli ospedali psichiatrici, ma non con la fine
dell’emarginazione sociale, che persistette dal 13 maggio 1978 in poi. La
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legge prevedeva infatti la creazione di una rete di centri ambulatoriali e una
progressiva integrazione nella società; le intenzioni però si scontrarono con
lo stigma: la società non era preparata ad accogliere i malati più gravi e
l’onere della cura e dell’assistenza ricadde sulle famiglie, spesso senza
alcun sostegno sociale.
Cosa si può fare allora per abbattere lo stigma e abbandonare i pregiudizi?
Il primo passo potrebbe essere quello di considerare la malattia mentale per
quello che è: una malattia come un’altra, meno grave di altre perché
curabile e associata a risorse solo minimamente esplorate. Darne una
connotazione positiva è un proposito che nelle società industrializzate
occidentali sembra utopistico; eppure in paesi come la Cina, l’India e il
Ghana la malattia mentale è vista come fase della vita in cui la mente lavora
con maggiore creatività. Le allucinazioni uditive, che in occidente vengono
considerate demoniache o persecutorie, in quei paesi vengono collegate a
divinità dispensatrici di consigli o ad amici e parenti morti.
Un altro modo per abbandonare i pregiudizi è dare voce alle persone con
schizofrenia; lo ha fatto Paul Chadwick con i suoi studi, l’ha fatto la
psichiatra Kay Redfield Jamison (affetta da disturbo bipolare), l’ha fatto la
psicologa Marsha Linhear (affetta da disturbo della personalità), lo hanno
fatto alcuni malati di mente con i loro interventi al parlamento del Vermont il
30 gennaio 2014, interventi che convinsero il premio Pulitzer Ron Powers
(padre di due figli con schizofrenia) a scrivere il libro “Chissenefrega dei
Matti”, fotografia della condizione tragica delle cure destinate alle persone
con malattie mentali negli USA.
Ulteriore modo per abbattere lo stigma è cambiare le parole. In Giappone
dal 2002 la parola “schizofrenia” è stata sostituita ufficialmente da “disturbo
dell’integrazione”; da quel momento medici e pazienti hanno affrontato
l’argomento con più leggerezza, le diagnosi precoci sono aumentate e i
trattamenti sono diventati più efficaci.
Il consiglio migliore ci viene però dall’opuscolo informativo “Il pregiudizio
sulla malattia mentale è difficile da scardinare” pubblicato nel 2011 dal
13
Ministero della Sanità: “Tratta chi soffre di schizofrenia come vorresti essere
trattato tu. Le cose che servono a queste persone (…): cordialità, amicizia,
la possibilità di frequentare luoghi di incontro aperti a tutti senza sentirsi
discriminati, un lavoro o una attività che li faccia sentire utili. Aiutali a fissare
obiettivi, anche piccoli e a lavorare per raggiungerli, (…), scherza e sorridi
con loro e non di loro…” [14].
Persone con autismo
Nella classificazione del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali” (DSM) non si fa più riferimento all’autismo “vero e proprio” ma ai
“disturbi dello spettro autistico”, comprendenti anche: sindrome di Asperger,
sindrome di Rett, disturbo disintegrativo infantile e altre. Questa
riunificazione sotto lo stesso spettro avrà i suoi vantaggi, ma probabilmente
complica l’analisi delle singole malattie che sono portatrici di unicità
distintive che non possono essere generalizzate. Per non appesantire il
resto della relazione faremo riferimento alle sole persone con autismo.
L’autismo è una sindrome caratterizzata da vari sintomi, non tutti sempre
presenti nei singoli casi. Tra tali sintomi ricordiamo: comportamento di
autosufficiente isolamento sia nelle attività esteriori, sia nei rapporti emotivi;
assenza o povertà di linguaggio, tendenza ai manierismi o a comportamenti
ritualistici (…); risposte anormali a stimoli sensoriali; perseverazione negli
stessi comportamenti e attività; opposizione ai tentativi di modificare tali
comportamenti “stereotipi”; “isole” di normale capacità mentale in un quadro
di generale insufficienza [7]. Né risulta un quadro complesso della malattia
che, a seconda della presenza o assenza di un dato sintomo, o dell’intensità
dei vari sintomi, conduce il pensiero comune a confondere la condizione di
autismo con altre simili (dello stesso spettro) e confinanti, quali potrebbero
essere certi ritardi mentali (più o meno lievi), oppure condizioni di estrema
timidezza. Generalmente viene diagnosticato attorno ai due anni di vita,
“complisce” meno dell’1% della popolazione mondiale con un rapporto
maschi/femmine di 4/1.
14
Qual è l’immagine tipica della persona con autismo? La maggior parte della
popolazione non-autistica risponderebbe in due modi: il bambino seduto in
un angolo che si dondola o sbatte la testa su un muro, oppure Dustin
Hoffman nei panni di Rain Man. Dove sta la verità? Nella prima o nella
seconda? In entrambe? O in nessuna delle due? Sfatiamo una credenza:
Rain Man non ha l’autismo. La vita di Kim Peek alla quale il film si ispira non
è segnata dall’autismo, ma dalla Sindrome del savant (del sapiente), che
non è una forma di autismo, né rientra nei disturbi dello spettro autistico. Si
possono invece legittimamente considerare i comportamenti ripetitivi e
manieristici del bambino che si dondola in un angolo associabili alla
condizione autistica, mentre è esagerato associarne l’autolesionismo. Ma è
totalmente sbagliato fermarsi sulle apparenze del comportamento
osservabile, che rischiano di creare stereotipi attorno alla sindrome autistica
e false credenze sulle capacità sociali delle persone con autismo.
È una credenza comune che il bambino con autismo non parla. Sbagliato!
È vero invece che alcuni posseggono un linguaggio verbale, altri lo
sviluppano in ritardo oppure in modo incompleto o inappropriato. Chi invece
non riesce a sviluppare un linguaggio verbale può imparare a comunicare
con altri strumenti; è stato appurato come l’utilizzo dell’iconografia (in
special modo fotografie) aiuti il bambino ad avere una visione più chiara,
comprendere meglio e rispondere (nel senso di reagire) al significato del
contenuto della fotografia.
È una credenza comune che il bambino con autismo non vuole comunicare
con gli altri. Sbagliato! La maggior parte delle volte non sa come comunicare
con gli altri, non possiede le abilità comunicative, ma lo vuole.
Gola con lacci impedisce uscita parola richiesta per
scolastica riuscita [8]
Ad aver detto questa frase, in riferimento ai suoi anni scolastici in tenera
età, è stato Pier Carlo Morello attraverso la tecnica della “comunicazione
facilitata”, un mix di supporto tecnologico (un computer) e supporto umano
(uno psicologo facilitatore adeguatamente formato). La “comunicazione
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facilitata” non ha permesso al Pier Carlo Morello solamente di esprimere
questa frase, ma gli ha permesso anche di scrivere un libro pieno di frasi e
prima ancora una tesi di laurea piena di frasi per ottenere e meritare la
laurea in Scienze umane e pedagogiche all’Università di Padova a 33 anni.
Il suo esempio è stato seguito da Andrea Terrin che all’età di 25, nel marzo
2018, ha conseguito la laurea in Scienze dell’Educazione e della
Formazione. Loro ci insegnano che “autistico” non equivale a “stupido”, ma
non bisogna nemmeno credere che “intelligente, competente” equivalga a
“non autistico”, è pregiudizio anche questo: quando i genitori di Pier Carlo
iscrissero il figlio all’Università, l’Usl volle togliergli i 400 euro di
accompagnamento affermando che chi va all’università non può essere
autistico. Servirono altri accertamenti per convincere l’Usl che il loro figlio
aveva ancora l’autismo.
È una credenza comune che il bambino con autismo è chiuso nel suo
mondo e non vuole essere toccato. Sbagliato! Solo ad alcuni non piace
essere toccati, ma per molti il contatto fisico è piacevole e molto divertente
e gradiscono il gioco fisico. Lo sport è basilare; i bambini autistici hanno
necessità di scaricare la tensione quotidiana. Possono presentare una
coordinazione motoria precaria e talvolta non sono capaci a svolgere
semplici movimenti, ma si sono riscontrati benefici comportamentali nella
pratica della corsa, dell’equitazione e persino nelle arti marziali. Nell’ottica
dei miglioramenti comportamentali e dei diversi strumenti d’espressione si
inserisce l’utilizzo della musica; la pratica del pianoforte ha, per esempio,
dato un senso alla vita di Carlo De Liso, oggi 26enne, che durante la sua
esistenza si è scontrato con il rischio di finire (come molti) nei centri diurni
per persone con disabilità e con l’incapacità di alcune scuole di accoglierlo,
ma è riuscito a trovare la sua strada nel Conservatorio di Matera, nelle
domeniche in chiesa, nelle esibizioni in concerti, convegni ed eventi [9].
Il bambino con autismo non migliorerà mai e da adulto non lavorerà mai.
Sbagliato! Sui miglioramenti comunicativi e i successi accademici ottenuti
attraverso la “comunicazione facilitata” ne abbiamo già parlato. Ci sono poi
interventi educativi che consentono miglioramenti nell’interazione sociale e
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nell’autonomia del bambino e dell’adulto con autismo. Ci sono infine
testimonianze valide di persone con autismo inserite nel mondo del lavoro;
merito di progetti ad hoc e società specializzate come la danese
“Specialisterne” che in base a valutazioni sulle capacità di attenzione e
memoria inseriscono persone con autismo generalmente nel settore
tecnologico in ruoli quali tester di programmi e app e analisi dei dati. Vi è
poi il progetto PizzAut che ha già consentito l’ingresso, in alcune pizzerie in
tutta Italia, a ragazzi con autismo come camerieri e pizzaioli, prevedendo
l’apertura di un ristorante-pizzeria gestita da ragazzi autistici a Monza [9].
Altre due false credenze, o fake news, accompagnano l’autismo o, meglio,
la sua diffusione nella società contemporanea. Una è la presunta “epidemia”
di autismo, un aumento anomalo di diagnosi (più o meno decuplicate tra il
1987 e il 2000 in 13 nazioni studiate). La spiegazione è semplice: i tassi
d’incidenza del disturbo non è cambiata di molto; ciò che è cambiato è la
facilità nella diagnosi, unita alla diffusione più ampia dei migliori strumenti
di valutazione. L’altra bufala riguarda la correlazione tra vaccini e autismo.
A lanciare l’allarme fu il medico inglese Andrew Wakefield nel 1998
attraverso i suoi studi pubblicati sul Lancet; nel 2010, in seguito a una
inchiesta, lo stesso Wakefield ammise di aver falsificato i dati. Ciò non fu
sufficiente ad arrestare le proteste delle correnti di pensiero Novax.
Persone con morbo di Alzheimer
Il morbo di Alzheimer, con 600mila malati in Italia, rappresenta il 50-80%
dei casi di demenza (termine generale che si riferisce alla perdita di
memoria e di altre abilità intellettuali talmente grave da interferire con la vita
quotidiana). Il morbo di Alzheimer non rappresenta un normale elemento
dell’invecchiamento, anche se il massimo fattore di rischio conosciuto è
rappresentato dall’aumentare dell’età e la maggior parte delle persone
affette dal morbo di Alzheimer ha 65 e più anni. Tuttavia, il morbo di
Alzheimer non è solo una malattia della vecchiaia. Fino al 5% delle persone
che soffrono di questa malattia riscontra un’insorgenza precoce del morbo
di Alzheimer (noto anche come “insorgenza anticipata”), che spesso appare
17
quando una persona ha tra i 40 e 50 anni, o tra i 50 e 60 anni. Il morbo di
Alzheimer è una malattia progressiva, nella quale i sintomi di demenza
peggiorano gradualmente in un certo numero di anni. Nelle sue fasi iniziali,
la perdita di memoria è leggera; tuttavia, in fase avanzata, le persone
perdono la capacità di portare avanti una conversazione e di reagire nel loro
ambiente. Chi ne soffre vive in media 8 anni dopo che i sintomi diventano
evidenti agli altri; tuttavia, la sopravvivenza può variare da 4 a 20 anni, a
seconda dell'età e di altre condizioni di salute. Attualmente, il morbo di
Alzheimer è incurabile, tuttavia sono disponibili dei trattamenti per i sintomi.
Anche se gli attuali trattamenti del morbo di Alzheimer non possono fermare
la sua progressione, essi possono rallentare temporaneamente il
peggioramento dei sintomi della demenza e migliorare la qualità della vita
delle persone affette e di chi si occupa di loro [15].
L’uomo è spaventato da ciò che è diverso da lui. E la sua reazione più
istintiva alla paura è l’attacco finalizzato all’eliminazione della causa di
questa paura. Alla base del problema c’è l’Ego, inteso come entità capace
di generare l’Egoismo. È nell’ambito di questo microcosmo dell’Egoismo
che il malato di Alzheimer, e più in generale la persona con demenza,
insieme con altre categorie appartenenti alle più disparate minoranze, si
trova a dover vivere, anzi a sopravvivere. Queste “sottocategorie” sono tali
perché non appartengono alla maggioranza, che proprio al fine di
categorizzarle ha affisso loro, per comodità ma soprattutto per ignoranza,
una etichetta “Stigma” [10].
Sulle persone con morbo di Alzheimer aleggiano diversi pregiudizi; uno
riguarda i familiari al momento dell’apparizione dei primi sintomi.
Un’indagine dell’Alzheimer’s Foundation of America e condotta su 539
cittadini che si occupano di persone affette dalla grave malattia
neurodegenerativa ha stabilito che il rifiuto di accettare la malattia ne ritarda
la diagnosi di anche 6 anni; ciò impedisce di pianificare il proprio futuro, di
usufruire dei trattamenti disponibili, ciò rappresenta un danno alla ricerca
delle cure per fronteggiare l’Alzheimer che chiedono di studiare anche
persone nelle fasi iniziali della malattia. Secondo un’altra indagine
18
americana [11] il 24% delle persone con demenza nasconde la propria
diagnosi citando come ragione lo stigma. Allora come nasce lo stigma delle
persone con morbo di Alzheimer?
Lo stigma nasce innanzitutto dall’uso di un linguaggio sbagliato, sul ricorso
indiscriminato a termini allarmistici e distruttivi (“morbo ladro di ricordi e
personalità”) che aggravano gli aspetti negativi della demenza e trasforma
i malati e i loro familiari in vittime impotenti. Lo stigma si basa su un “circolo
vizioso” di disinformazione e pratiche assistenziali negative: “il pregiudizio
più diffuso è che la malattia di Alzheimer sia una malattia psichiatrica e che
il malato sia semplicemente “fuori di testa”. Questo fa sì che spesso si
mettano in atto comportamenti o si assumano atteggiamenti inadeguati che
provocano reazioni che spesso vengono male interpretate: si crea così un
circolo vizioso che alimenta lo stereotipo fuorviante (ma ben radicato!!!) del
malato di Alzheimer che non sa quello che fa [12]”, e ancora “un altro
pregiudizio diffuso è che la relazione con un malato di Alzheimer sia
unidirezionale: chi assiste si muove intorno al malato come si muovesse
intorno a un essere inanimato, dispensando azioni, gesti e parole senza
aspettarsi nulla. Ma soprattutto, senza attribuire alcun significato a ciò che
arriva dal malato: se urla, sorride, è aggressivo, non reagisce… tutto rientra
nella sintomatologia e quindi non ha significato. Chi invece la malattia la
vive da dentro (e questo non capita solo ai familiari) sa che la realtà è ben
diversa”.
Cosa serve allora? Serve maggiore consapevolezza della malattia, non solo
in termini medici, ma anche e soprattutto dal punto di vista dei diritti e della
dignità umana. Il rischio serio è che all’angoscia generata dai sintomi si
sommino le conseguenze di una emarginazione decretata dalla società che
si rifiuta di riconoscere dignità e diritti a chi si ammala. Il rischio si è palesato
e continua a palesarsi in casi di abbandono, maltrattamenti, sevizie, stupri,
segregazioni. Per superare il pregiudizio servono delle raccomandazioni,
come quelle pubblicate dall’Alzheimer’s Disease Intrenational (10 in totale),
delle quali la prima dice «educare l’opinione pubblica», la quarta dice
19
«riconoscere i diritti delle persone con demenza…», la decima «potenziare
la ricerca su come affrontare e superare il pregiudizio».
Persone con sindrome di Down
La sindrome di Down è un’anomalia di origine cromosomica che presenta
caratteristiche fenotipiche riconducibili a un quadro clinico abbastanza
tipico, descritto per la prima volta dal medico inglese J.L.H. Down (1828-
1896). La sindrome è dovuta alla presenza, nel corredo cromosomico di
tutte le cellule, di un cromosoma soprannumerario della coppia 21 (trisomia
21). (…) Caratteristiche sono le pliche palpebrali oblique, che richiamano
quelle di alcune popolazioni orientali [2]. I sintomi variano da persona a
persona, da lieve a grave. Lo sviluppo fisico è spesso più lento di quello
normale. La maggior parte dei bambini con sindrome di Down non
raggiungono mai l’altezza media degli adulti. I bambini possono anche
avere un lieve ritardo mentale e nello sviluppo sociale. Diverse condizioni
mediche sono presenti in bambini nati con la sindrome di Down, come:
difetti di nascita che coinvolgono il cuore (difetto del setto atriale o del setto
ventricolare); problemi agli occhi (cataratta); blocchi gastrointestinali;
problemi di udito; dislocazione dell’anca; apnea del sonno; ipotiroidismo. I
bambini Down hanno anche un rischio più elevato di contrarre leucemia
linfocitica acuta.
Il quadro sintomatologico della persona con sindrome di Down si presenta
quindi complesso e coinvolgente non solo le funzioni mentali, ma anche
funzioni neuro-muscolo-scheletriche e correlate al movimento, funzioni del
sistema cardiovascolare e dell’apparato respiratorio, funzioni dell’apparato
digerente, funzioni sensoriali, funzioni della voce, funzioni riproduttive [13].
Per questi motivi è improvvido definire la sindrome di Down come malattia
mentale, ma è più opportuno considerarla una condizione in cui
un’alterazione genetica influisce sull’esecuzione di molte funzioni. Ci
sembra quindi doveroso rintracciare gli stereotipi legati alle persone con
sindrome di Down senza limitarci alle ripercussioni sul pensiero comune dei
soli disturbi mentali ma considerando la natura complessiva della persona,
20
l’essere una persona con sindrome di Down. Per fare ciò ci siamo avvalsi
delle chiarificazioni dell’Associazione Italiana Persone Down (AIPD) [16].
Primo stereotipo: i bambini con sindrome di Down sono tutti uguali
(affettuosi, amanti della musica, biondi ecc.). Realtà: non è così. Le uniche
caratteristiche che hanno in comune sono un cromosoma in più rispetto agli
altri (47 invece che 46), un deficit mentale e alcuni aspetti somatici. Per il
resto, ogni persona con sindrome di Down è diversa dall’altra. Le differenze
dipendono da fattori costituzionali, dal tipo di educazione ricevuta in famiglia
e a scuola, dalla presenza o meno di servizi specifici sul territorio.
Secondo stereotipo: sono sempre felici e contenti. Realtà: è lo stereotipo
più comune. Come per chiunque altro, la serenità di un bambino, di un
adolescente, di un adulto con sindrome di Down è legata al suo carattere,
all’ambiente e al clima familiari, alle sue attività sociali e dunque alla qualità
della sua vita. Una persona con sindrome di Down manifesta in modo molto
esplicito le sue emozioni (felicità, tristezza, gratitudine, ostilità, tenerezza
ecc.) e qualsiasi comportamento affettivo.
Terzo stereotipo: esistono forme lievi e forme gravi di sindrome di Down.
Realtà: il grado di ritardo mentale non dipende dal tipo di trisomia (anche se
esiste una forma rarissima – “mosaicismo” – in cui il ritardo può, ma non
sempre, essere lieve). Le differenze tra una persona con sindrome di Down
e l’altra dipendono dai fattori di cui sopra.
Quarto stereotipo: non vivono a lungo. Realtà: la durata della vita è
aumentata enormemente. Oggi, grazie al progresso della medicina, l’80%
delle persone con sindrome di Down raggiunge i 55 anni e il 10% i 70 anni.
Si stima che in un prossimo futuro la sopravvivenza raggiungerà quella della
popolazione generale.
Quinto stereotipo: possono eseguire solo lavori ripetitivi che non implichino
responsabilità. Realtà: sono sempre più numerosi gli esempi di persone con
sindrome di Down che – grazie a un inserimento mirato – possono svolgere
21
lavori su macchinari complicati, che possono risolvere problemi nuovi con
creatività e mantenere il posto al di là di ogni precedente aspettativa.
Sesto stereotipo: sono ipersessuati oppure eterni bambini privi di interessi
sessuali. Realtà: gli adolescenti con sindrome di Down non differiscono
sostanzialmente dagli altri né per quel che riguarda l’età d’inizio della
pubertà né l’anatomia degli organi sessuali. Provano desideri e hanno
fantasie sessuali come gli altri loro coetanei. Vi sono ancora incertezze sulla
capacità riproduttiva del maschio con sindrome di Down. Sappiamo che la
sua fertilità è molto ridotta, anche se si conosce il caso di un uomo con
sindrome di Down che ha avuto un figlio. Le donne sono perlopiù fertili.
Settimo stereotipo: hanno genitori anziani. Realtà: attualmente il 75% circa
dei neonati con sindrome di Down ha genitori sotto i 35 anni (il dato è legato
alla differente distribuzione dei nati nella popolazione: nascono in assoluto
più bambini da donne giovani che da donne anziane, quindi anche se la
possibilità di avere un bambino con sindrome di Down per una donna
giovane è più bassa, in numeri assoluti ci sono più bambini con sindrome di
Down figli di coppie giovani).
Ottavo stereotipo: sono incapaci di avere rapporti interpersonali che
possano portare ad amicizia, fidanzamenti o matrimoni. Realtà: l’affettuosità
delle persone con sindrome di Down è selettiva e intelligente. L’inserimento
scolastico nel nostro paese ha permesso nell’età scolare un inserimento
sociale soprattutto nell’età in cui le amicizie vengono almeno in parte gestite
dai genitori. Tuttavia, l’adolescenza coincide con il periodo della vita di un
giovane con sindrome di Down nel quale i compagni, gli amici e anche i
fratelli cominciano ad allontanarsi e a includerlo sempre meno nelle loro
attività: quando desidera (e avrebbe bisogno) di staccarsi dal suo nucleo
familiare, la sia unica alternativa è di stare a casa o uscire solo con i genitori.
In questa età è più facile che rapporti affettivi e amicizia possano nascere
in condizioni “alla pari”, con interessi e capacità di comunicazioni simili. È
stato verificato che tra persone con sindrome di Down o problemi analoghi,
possono nascere amicizie e fidanzamenti. Ci sono anche alcuni casi, anche
22
se molto rari, di matrimonio in cui la coppia è in grado di vivere da sola in
modo relativamente autonomo. Stare insieme tra pari non significa un
ritorno all’emarginazione, ma avere la possibilità di avere amici con cui
svolgere varie attività.
Nono stereotipo: non sanno di avere una disabilità intellettiva. Realtà: un
bambino con sindrome di Down è in grado di capire fin da quando è piccolo
la propria diversità rispetto ai compagni e ai fratelli. Il suo rapporto con la
propria disabilità sarà tanto più sereno quanto più i genitori riusciranno ad
affrontare con lui il discorso sui problemi connessi alla sindrome,
sottolineando le sue capacità e i suoi limiti ed aiutandolo ad acquisire un
senso di autostima.
Decimo stereotipo: dovranno sempre vivere con i genitori e poi con i fratelli.
Realtà: una persona con sindrome di Down desidera fin dall’adolescenza
rapporti alternativi a quelli esclusivi con i familiari. È necessario quindi
potenziare le iniziative di aggregazione volte a favorire l’affermazione di una
vita adulta relativamente autonoma dalla famiglia quali, ad esempio,
comunità alloggio e case-famiglia, ancora molto scarse in tutto il territorio
nazionale.
Conclusione
Il pensiero è condizionato dagli schemi mentali. Gli schemi hanno il pregio
di semplificare e velocizzare il ragionamento. Quando di ragiona sulle
persone si attua inevitabilmente la categorizzazione, una divisione netta tra
quelli appartenenti a una data categoria e quelli esclusi da quella stessa
categoria. La categoria delle persone con disturbi o malattie mentali ha
subito e subisce in continuo atti di discriminazione volontari o involontari ad
opera di chi afferma la propria piena salute mentale. Quindi, per questi, la
salute mentale è la caratteristica discriminante, “o ce l’hai o non ce l’hai” e
non possedere quella caratteristica significa essere un individuo di serie B.
Con questa relazione abbiamo voluto affermare il principio dell’uguaglianza
sul piano sociale, il principio del diritto di godere degli stessi diritti universali
e il principio dell’unicità della persona, unicità che abbisogna di cure e
23
assistenze particolari, unicità in cui si riconoscono abilità e capacità
particolari e inimitabili.
Bibliografia
1. “Il pregiudizio sulla malattia mentale è difficile da scardinare”,
opuscolo informativo del Ministero della Salute, 2011
2. Treccani
3. Il Sabatini Coletti - Dizionario della Lingua Italiana
4. Wikipedia
5. “La terapia cognitiva. Per i deliri, le voci e la paranoia”, Paul
Chadwick, Max Birchwood, Peter Trower
6. “Chissenefrega dei Matti”, Ron Powers, 2018
7. “Psicologia dell’Handicap”, pag.131, Rosemary Shakespeare, 1979
8. “Famiglia Cristiana” del 23 agosto 2016 - Comunicativo, poetico,
anticonvenzionale Pier Carlo Morello: «Autistico a chi?»
9. “Il Fatto quotidiano” del 2 aprile 2018 – Carlo e la musica
10. “Notiziario della Federazione Alzheimer Italia”, editoriale – anno 26,
numero 55
11. “World Alzheimer Report” dell’Alzheimer’s Disease International
12. “L’operatore e il paziente Alzheimer, Manuale per prendersi cura del
malato”, prefazione, Raffaella Galli e Mariarosaria Liscio, 2007.
13. “ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della
Disabilità e della Salute” dell’OMS
Sitografia:
14. https://www.ministerosalute.it
15. https://www.alz.org/
16. https://www.aipd.it
24
TOSSICODIPENDENZA E STEREOTIPI
A cura di Sara Gulotta
“Ogni uomo però non è soltanto lui stesso è anche il
punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante,
curioso, dove i fenomeni del mondo si incrociano una
volta sola, senza ripetizione.”
(Hermann Hesse)
All’interno di questa parte di argomentazione verrà trattato il fenomeno della
tossicodipendenza visto come qualcosa che non riguarda solo il singolo ma
un’intera comunità. La tossicodipendenza come costruzione sociale
soggetta anche a dinamiche di etichettamento e stereotipi. La trattazione si
articolerà in tre fasi.
Nella prima parte si farà una sintesi di quella che è la panoramica italiana
attuale cercando di fornire dati relativi a consumi e popolazione. Nella
seconda si affronterà la questione da una prospettiva storica, mostrando
attraverso documenti datati l’evoluzione del consumo e della valenza
sociale delle sostanze psicoattive. Per finire verrà affrontata la percezione
sociale del tema e lo stigma odierno.
La tossicodipendenza in Italia
I dati che verranno illustrati sono stati presi dalla relazione annuale al
parlamento dell’anno 2017 sullo stato della tossicodipendenza in Italia. Tale
relazione è stata curata dal dipartimento per le politiche antidroga che si è
avvalso del supporto tecnico dell’Istituto di fisiologia clinica del CNR.
Secondo questo documento ci sono stati mutamenti radicali all’interno dello
scenario italiano per quanto riguarda il consumo di stupefacenti. Da una
parte, infatti, esso risulta stabilizzato per quanto riguarda sostanze che si
erano cominciate a diffondere nel decennio scorso e, dall’altro lato I
consumi di alcune altre droghe sono diminuiti anche a fronte del radicarsi di
progetti di prevenzione e trattamento. Con l’incremento degli interventi
25
statali in questo ambito si può dire che in linea generale i quantitativi totali
di sostanze sequestrate e utilizzate sono diminuiti.
Tuttavia, possiamo trovare un incremento del consumo di alcune sostanze
specifiche rispetto ad altre.
Prima di continuare nella trattazione vorrei appellarmi a quella corrente della
criminologia che si ritiene critica nei confronti della veridicità del dato
statistico per quanto riguarda fenomeni legati a reati o comportamenti
devianti. Il tasso di denunce e soggetti che hanno fatto uso e abuso di
sostanze, come quelli che si sono recati nei centri per fruire di un percorso
di riabilitazione non possono essere considerati come un dato
completamente certo. Infatti, esso dipende da quante persone hanno voluto
denunciare, quanti hanno deciso di riabilitarsi e quante sono state
segnalate. Senza contare che vi è una “selezione a priori “legata a quali
sostanze sono considerate legali e quali no. Cosa è considerato dal
legislatore reato e cosa no. Tutto ciò può compromettere in linea non
indifferente il dato statistico che non tiene conto del cosiddetto “Numero
oscuro”, ossia di tutte quelle variabili e quegli atti che non sono riusciti per
varie ragioni a essere inclusi all’interno delle statistiche ufficiali [6].
Cannabis sempre più diffusa
Secondo i dati ufficiali, in termini di quantità, la cannabis rappresenta la
percentuale più ampia tra le sostanze illecite presenti sul mercato
nazionale. L’attività di contrasto risulta sempre più complessa, questo
perché si mostra aumentato non solo il numero di paesi da cui si effettua
importazione ma anche la produzione sul territorio nazionale.
Il 90% delle sostanze sequestrate corrisponde a cannabis della quale l’80%
risulta uso personale. Essa è la sostanza più in uso non solo tra i giovani
ma anche negli adulti. Almeno una volta nel corso della vita si stima che un
terzo della popolazione abbia usufruito della sostanza. Si registra inoltre, un
notevole aumento riguardo la disponibilità di prodotti derivati della cannabis
nel quale varia molto anche la quantità di principio attivo.
26
Il dato risulta preoccupante se si pensa che circa 90.000 studenti riferiscono
un uso pressoché quotidiano e quasi 150.000 sembrerebbe farne un uso
spropositato e problematico. Tuttavia, l’utenza in carico ai servizi per
dipendenza da cannabis risulta coprire solo l’11% totale dell’utenza trattata.
I ricoveri ospedalieri da imputare a questa stanza da presentano solo il 12%
di quelli correlati a droga.
Spice e NPS nuove droghe in monitoraggio
Sotto questa sigla rientrano i cannabinoidi sintetici, essi rappresentano il più
largo gruppo di sostanze monitorate in Europa dai sistemi di allerta
nazionale. Questi prodotti sono interamente chimici e si presentano come
misture di erbe. Questi prodotti offrono una grande varietà di tipologie con
differenti composizioni chimiche che non solo le rendono pericolose ma
anche difficilmente identificabili. Infatti, per questa famiglia di droghe
appena le autorità riescono a rilevare e inserire nel bando quella sostanza
come il legale già è disponibile nel mercato lo stesso prodotto con una
composizione chimica leggermente modificata.
Esse sono particolarmente monitorate poiché non si sa molto del loro
funzionamento sull’organismo e degli effetti a livello di salute. Le spice sono
in commercio da circa un decennio e questo rende ancora poco conosciuta
la loro incidenza sull’organismo, tuttavia sono la seconda sostanza
stupefacente più utilizzata a livello italiano soprattutto tra i giovanissimi.
Le NPS sono nuove sostanze psicoattive (es. mefredone, ketamine e
oppiacei sintetici), disponibili soprattutto grazie al mercato del Web, di cui
però non si conoscono quasi per nulla effetti e non sempre sono comprese
all’interno del catalogo di sostanze illegali, molte riescono a nascondersi
sotto la dicitura di farmaci.
Minori e sostanze psicoattive
I minori che fanno consumo di sostanze costituiscono una popolazione che
necessita di particolare attenzione, questo perché spesso chi inizia in età
precoce ad utilizzare sostanze psicoattive ha molte più probabilità di farne
27
un uso problematico durante l’età adulta, inoltre vi è anche un rischio per
l’incolumità della persona in quanto l’utilizzo di droghe è spesso fatto in
maniera esplorativa e priva di cautela.
Molti minori risultano ricoverati per conseguenze derivate dall’uso di
sostanze, ma quello per la salute non è l’unico rischio in cui questi giovani
incorrono. Infatti, nell’ultimo anno sono aumentate le denunce per
precedenti giudiziari aperti a carico dei minori nonché il numero di minori
affidati ai servizi sociali e alla giustizia minorile per reati di droga o correlati.
A fronte di questo fenomeno si deduce che la prevenzione soprattutto
scolastica possa essere comunque sempre uno tra gli strumenti più efficaci.
Ragazze e droghe
Tra le dinamiche più nuove nel mondo delle sostanze illegali è il crescente
numero di donne che fanno uso costante di sostanze.
Storicamente il genere femminile è risultato più orientato verso una
percezione del rischio correlato all’uso di stupefacenti.
Negli ultimi anni si rileva un’attitudine opposta.
È aumentato sia il numero di donne che in vita studentesca fa uso di
sostanze psicoattive sia quello di coloro che utilizzano droghe ad alto rischio
o ne fanno un uso rischioso come può essere quello della poliassunzione o
quotidiano.
Secondo quanto riportato dai centri che offrono servizio per le dipendenze
la maggior parte di loro è sotto trattamento per uso di oppiacei. Aumentata
anche l’età in cui le donne decidono di denunciare la propria situazione e
chiedere aiuto. Si è registrato inoltre, sempre nel dato femminile, una
preoccupante aumento dei casi di HIV.
In linea generale quindi, nonostante la propensione attuale delle donne
caratterizzate da consumo, denunce, arresti e trattamenti sia comunque
inferiore rispetto a quella maschile è sicuramente in aumento [1].
28
Per iniziare percorsi di recupero e tutelare la loro salute sono attivi in Italia i
servizi per la tossicodipendenza corrispondenti alla sigla di ser.T.
Inseriti nel territorio sono stati pensati quasi principalmente per il contrasto
della dipendenza da eroina. Anche se attualmente stanno ampliando il
servizio ad altri tipi di sostanze.
Fino a qualche decennio fa la formazione degli operatori e la maggior parte
del loro operato era orientato intorno all’eroina, ma negli anni il fenomeno
della dipendenza patologica e della modalità di diffusione uso di sostanze
si è evoluta. Pertanto, anche le istituzioni stanno cercando di rispondere alle
nuove istanze.
Ciascuna di queste sostanze e il loro relativo consumo è stato visto e
connotato nel tempo in maniera assai differente. Esse però aldilà del luogo
e dell’epoca vengono scelte perché rispondono ad un bisogno che può
essere individuale o di gruppo: possibilità di migliorare le proprie
prestazioni, trasgressione, piacere, facilitare relazioni interpersonali, auto
terapia curativa, alterazioni del sé, estraniazione.
Pertanto, con il passare dei secoli e dei decenni abbiamo assistito alla
comparsa e diffusione di sostanze psicoattive di vario genere che non solo
rispondevano a nuove esigenze di mercato ma soprattutto nuove
circostanze comunitarie [3].
Sostanze psicoattive nella storia
Lo studio delle pratiche religiose e magiche mostra che in molte società che
ci hanno preceduto la modificazione del proprio stato di coscienza
occupasse un posto di privilegio. Ragionare su questi concetti ci aiuterà a
capire come la stigmatizzazione e l’utilizzo negativo che oggi si fa delle
sostanze psicoattive sia in realtà una cosa moderna.
Era presente nelle civiltà precolombiane, nelle tribù della Siberia, nei riti
sacri dell’antica Grecia, in pratiche magiche ancora oggi vigenti in alcune
località amene del pianeta.
29
Si può modificare la propria coscienza con l’uso abituale di sostanze
psicotrope, e se non sono per forza tra quelle appartenenti al nostro
decalogo di droghe, alcune possono essere estratti di fiori, bacche o altri
elementi naturali.
Quando l’utilizzo di sostanze si abbina ad un rituale, lo scopo è quello di
stabilire un legame con un’altra dimensione (divina, degli spiriti, degli
antenati, di una coscienza del sé più illuminata etc..).
Questa altra realtà risulta al di fuori dell’esperienza quotidiana e non può
essere raggiunta in altro modo senza modificare la propria coscienza.
Finché questa pratica ha conservato una dimensione religiosa, la droga non
ho mai costituito un problema, né a livello individuale nel sociale.
Non esisteva pertanto alcuno stigma negativo legato a questi
comportamenti. Anzi in molte situazioni erano le persone predilette,
sciamani, capi religiosi e politici che attraverso questa peculiarità di entrare
in contatto con altri piani di realtà affermavano il loro prestigio e il loro potere
sociale.
Oggi invece la drogata rappresenta un problema, è difficile capire come e
quando lo sia diventato.
Forse con l’età dei lumi, nel quale si sono messi accanto i riferimenti mitici
ed è stata eletta solo la scienza empirica come unica ragione; forse quando
con la secolarizzazione è venuto meno il compito sacro del sacerdote,
oracolo o Shamano a cui era affidato il compito di mediare tra la collettività
e le esperienze legate alla sfera dello straordinario. Forse si è creata questa
stigmatizzazione quando il concetto di peccatore si è legato al mondo della
droga. Oppure quando si è capito che ormai si utilizzavano le droghe non
per scoprire una dimensione differente del sé e quindi seguire un desiderio
di conoscenza, ma si utilizzavano per la paura di vivere e per rifiuto della
realtà.
La costruzione di uno stereotipo affonda le sue radici troppo in profondità
della storia dell’uomo perché possiamo districarli in poche pagine.
30
Verranno mostrate ora di seguito alcune date con i rispettivi avvenimenti o
documenti nel quale si testimonia l’uso di sostanze e si evince il significato
individuale e sociale che ad esse veniva attribuito.
5000 a.C. Un documento cinese parla della coltivazione di cannabis per la
produzione di sostanze droganti a scopo medico.
4000 a.C. L’oppio è conosciuto e usato dai Sumeri che indicano la pianta
del papavero con il nome di pianta della felicità, si conosce infatti un
ideogramma che si riferisce a tale sostanza significa gioia, allegria.
3500 a.C. La prima notizia storica della produzione di alcol è la descrizione
di una distilleria di un papiro egiziano.
1500-1000 a.C. Il Rigveda, più antico testo della letteratura indiana, parla di
una bevanda divina, il soma, usata nelle cerimonie liturgiche dai
conquistatori arii. Secondo molti biologi, si tratta dell’Amanita Muscaria, un
fungo delle proprietà allucinogene che cresceva nella valle dell’Indo.
IV secolo a.C. Il filosofo greco Epicuro parla dell’oppio come strumento per
liberare il corpo dei dolori e l’anima dall’ansia.
Il medico Ippocrate lo raccomandava quale sonnifero.
450 d.C. Un antico detto babilonese: “il vino è alla testa di tutte le medicine,
dove manca esso c’è bisogno di droghe”
1090. Il persiano ismailita Hasan fonda la confraternita degli assassini,
costruita sulla cieca obbedienza ottenuta con regolari somministrazioni di
hashish.
1200. Gli Incas conquistano il Perù. Si adeguano all’uso di masticare
cocaina, si stima che le venissero utilizzate 60 g di foglie al giorno per ogni
individuo adulto.
31
Dal 1600 in poi, con l’introduzione del tabacco in Europa esso comincia ad
essere visto negativamente e insieme a lui altre sostanze che alterano il
metabolismo.
1650. L’uso del tabacco e proibiti in Bavaria, Sassonia e a Zurigo ma le
proibizioni non portano a una riduzione del consumo.
Il sultano dell’impero ottomano decreta in quel tempo la pena di morte per
chi fuma tabacco ma in un suo scritto si evince che “nonostante tutti gli
oratori di questa persecuzione, la passione per il fumo non viene meno”.
Nonostante questo inizio coercitivo si alterneranno sempre personaggi ed
episodi che incoraggiano al consumo di sostanze.
1680. Un famoso medico inglese, Thomas Sydenham, dichiara: “tra i rimedi
che l’altissimo signore si è compiaciuto di dare all’uomo per alleviare le sue
sofferenze, nessuno è così universale ed efficace come l’oppio”.
Agli inizi del 1700. In Europa il caffè è dichiarato sostanze illegale.
1800. In Cina, a causa del vertiginoso aumento di tossicomani l’imperatore
vietato impostazione dell’oppio.
Prima guerra dell’oppio. Gli inglesi costringono la Cina ad entrare nel
commercio dell’oppio nonostante cinesi lo avessero dichiarato illegale.
1865. La morfina viene usata sistematicamente negli stati uniti durante la
guerra di secessione prima, dopo e durante gli interventi chirurgici. È in
questa occasione che ci si accorge della dipendenza fisica causata da tale
sostanza.
1874. Il ricercatore inglese Wright, riscaldando la morfina con l’anidride
acetica, scopre un altro derivato dell’oppio. Una ditta inglese lo lancia sul
mercato come farmaco miracoloso dell’apparato respiratorio e per curare la
dipendenza da morfina. Per sottolineare l’eccezionalità del prodotto, (che a
parità di peso è 10 volte più potente della morfina), lo chiama eroina.
32
1885. Gli Stati Uniti dichiarano fuori legge il consumo: la legge sarà revocata
solo nel 1921. Viene costituita una commissione per studiare le
conseguenze del consumo di oppio, la conclusione della relazione di
concluderà che esso somiglia più alle sostanze alcoliche che non a una
sostanza tossica per cui non è da temere né evitare.
1886. L’esperto di droghe John Pemberton in Atalanta inventa una medicina
brevettata, pubblicizzata poi con il nome di coca-cola, che contiene due
stimolanti presenti natura: caffeina e cocaina.
1894. Viene istituita una commissione da parte del governo inglese sulle
droghe indiane, essa giunge alla conclusione che: “non esiste prova alcuna
a proposito dei danni di tipo mentale e morale che un uso moderato della
canapa indiana potrebbe provocare”.
1898. Viene sintetizzata in un laboratorio della Germania l’eroina,
largamente lodata in quanto “preparato sicuro, privo delle proprietà di
assuefazione”. Alcune fabbriche di coloranti affidano a medici l’incarico di
sperimentare gli effetti di questa sostanza sul genere umano. Dopo sei mesi
veniva introdotto in commercio.
1900. appare un articolo sul Boston medical journal
“L’eroina possiede molti vantaggi rispetto alla morfina (…) Non è una
sostanza ipnotica, non c’è rischio di acquisirne l’abitudine”.
1902. Viene sintetizzata la cocaina.
1903. Viene tolta la cocaina dalla composizione della coca-cola. Fino a quel
momento ne aveva contenuti circa 60mg per porzione da otto once.
1906. Prima atto inglese che impedisce comprare nei negozi medicine
contenenti morfina, cocaina o eroina.
1912. Si svolge all’Aja la prima convenzione internazionale che raccomanda
diverse misure per il controllo internazionale del commercio di oppio e i suoi
derivati (morfina,eroina, codeina) è stata la prima in senso tecnico giuridico.
33
1930. In Italia, il decreto del codice penale Rocco disciplina compiutamente
le sostanze stupefacenti e ne punisce il traffico e l’agevolazione dolosa
all’uso.
1954. In Italia, a causa del clamore suscitato da un caso che riguardava la
morte per droga di una giovane donna su una spiaggia viene emanata la
legge numero 1041 che prevede non solo la punizione degli spacciatori di
sostanze stupefacenti ma anche quella dei tossicomani con obbligatorietà
per entrambe le categorie del mandato di cattura.
1974. l’Italia ratifica il protocollo di Vienna nonostante che la
documentazione sulla liceità dell’uso personale dislocazione ti amente in
contrasto con lo spirito vincente nelle leggi del 54.
1988. Il consiglio d’Europa evidenzia la dimensione politica del problema e
propone interventi di carattere repressivo. La convenzione di Vienna,
contemporaneamente, sottolinea il pericolo legato alle droghe per tutta la
società civile [2].
Tossicodipendenza, stereotipi e società
Ad oggi nell’uso corrente e nel vocabolario professionale, il termine
“tossicodipendenza” si riferisce più a una forma di devianza che ad una
malattia. Di conseguenza il termine tossicodipendente si carica di una
valenza di significato che lo inquadra non come un vero paziente, ma
piuttosto come un’identità stigmatizzata. Come tutti gli stigmi solitamente è
un’etichetta applicata contro la volontà della persona.
In quest’ottica la tossicodipendenza assomiglia dunque più ad una malattia
mentale e la persona con tossicodipendenza diviene connotata come la
persona pericolosa, strana, fuori controllo, da evitare.
Una volta che la categoria è stata assimilata dalla società essa non è stata
solamente considerata come vera, ma anche estremamente importante. Gli
spazi in cui queste categorie devianti devono essere confinate si sono
ampliate.
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Dalla fine del settecento discipline come la farmacologia e la psichiatria
sono state accettate come discipline mediche. Da quel momento chimici e
medici, psicologi industriali hanno cominciato a cercare sostanze che non
diano aspirazione per alleviare il dolore, facilitare il sonno e stimolare
l’attenzione. Ogni sostanza che può alleviare dolore, indurre sonnolenza o
aumentare le capacità percettive cerebrali benché venga chiamato farmaco
possiede una radice di principio attivo comune ad alcune sostanze
etichettate come droga.
Quindi se si volesse essere provocatori si potrebbe dire che non esiste una
vera distinzione tra farmaci e droghe, quanto piuttosto droga che non
creano assuefazione e quelle che ne creano.
L’utilizzo o l’astensione dall’assunzione di certe sostanze legato con
prescrizione e proibizione. In senso lato potremmo dire con ciò che è
considerato legale o lecito e ciò che è considerato illecito.
La scienza della medicina moderna genera idee, valori e obiettivi che si
ricoprono di così tanta valenza e autorità scientifica e sociale che potremmo
indicare quasi come una religione. Ciò che è stabilito da un corpo di medici
viene innalzato a sacro quasi quanto ciò che è gestito da un gruppo di
sacerdoti. In questo senso potremmo dire che la medicina può essere
considerata come una religione. Ogni religione pertanto distingue ciò che è
sacro, in questo caso farmaci, da ciò che è impuro cioè le sostanze
psicoattive.
Sempre in questo paragone possiamo notare infatti come alcune persone
cercano di evitare l’alcol e il tabacco, l’eroina e la cocaina mentre altri
cercano di evitare il vino non kasher e la carne haram.
Quando si affronta il problema dell’abuso di sostanze applica un punto di
vista medico una condotta morale.
Secondo Jaffe, l’abuso di droga è una questione di convenzione. È quindi
un problema che riguarda più l’antropologia e la sociologia, la religione e la
legge, l’etica e la criminologia rispetto che la medicina o la psichiatria.
35
La sua posizione forte e provocatoria fa notare un punto importante, cioè
quello legato alla costruzione sociale dell’identità di una persona con
problemi di tossicodipendenza. Viene sminuito l’aspetto della sua salute, e
ampliato quello della sua presenza negativa in società [5].
Va sottolineata una questione importante. Ossia che per essere oggetto di
devianza una persona deve essere notata all’interno della comunità mentre
compie atteggiamenti devianti. In questa ottica possiamo notare che le
persone che vengono colte nell’atto di assumere sostanze sono anche
quelle che appartengono a classi più deboli della società.
Difficilmente un ricco industriale, politico, giudice che consuma sostanze
stupefacenti in casa sua senza destare sospetti verrà indagato dalle
autorità. Molto più facilmente indagheranno le tasche di studenti, immigrati
e altre categorie di popolazione più facilmente additabili come colpevoli.
Essi infatti pur consumando sostanze psicoattive restano per esempio
politici indenni che contemporaneamente possono condurre una campagna
efferata contro l’abuso di droga.
Da questo punto di vista la criminologia critica e le scienze sociali, scettiche
del diritto penale, leggono le norme giuridiche come gli artefatti entro cui si
possono costruire capri espiatori e stratificazione sociale in modo da
appendere possibile una costruzione funzionante della società.
Pare quindi che non vi sia una vera ricerca di soluzioni contro il crimine, o
contro l’uso di sostanze psicoattive [6].
Quanto più la necessità di continuare a perpetrare il mito di nemici da cui è
necessario proteggersi per rendere possibile il funzionamento della
comunità.
Come esempio del fatto che la necessità non sia il recupero di persone che
vivono situazioni problematiche, quanto più il mantenimento dello stereotipo
e del capro espiatorio riporteremo il discorso annuale esposto qualche anno
fa dal governatore Rockefeller in un simposio della camera di commercio
degli Stati Uniti.
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“Noi cittadini siamo mandati in galera dagli spacciatori di stupefacenti.
Voglio mettere in galera gli spacciatori, in modo che noi, signori e signore
possiamo uscirne”.
Sempre lo stesso governatore in un articolo enuncia le sue proposte circa i
provvedimenti da adottare nei confronti di coloro che spacciano sostanze:
“aborriamo l’idea medievale di escogitare forme di pena particolarmente
adeguate al criminale condannato (…) tuttavia, mi sembra che non sia fuori
luogo suggerire che la giusta maniera di ripulire il mondo dagli spacciatori
di eroina dichiarati colpevoli sia prescrivere una dose eccessiva. È un modo
di morire umano, se per umano si intende ciò che è relativamente indolore.
Naturalmente c’è una soddisfazione cioè il pensiero che lo spacciatore lasci
questo mondo nelle stesse circostanze nelle quali l’hanno lasciato a causa
sua molte altre persone”.
In Italia fortunatamente non abbiamo esempi così eclatanti di denigrazione
e stigmatizzazione delle persone con dipendenza da sostanze, tuttavia
questi esempi eccessivi ci aiutano a comprendere meglio quanto spesso
l’esistenza di questi stereotipi sia necessaria al mantenimento di un certo
stato delle cose.
Fin dai tempi della mitologia greca era necessario trovare un capro
espiatorio, delle persone da sacrificare per il buon funzionamento della
comunità. La parola greca per indicare le persone sacrificate in quel modo
era “pharmakoi” dal quale puoi deriva la nostra parola farmaco. Poiché con
l’assunzione del farmaco la persona riesce a superare il suo disturbo di
salute. Allo stesso modo, infatti, queste vittime sacrificali erano necessarie
a superare il problema, la calamita che stava colpendo la città.
Risulta parte viscerale della narrazione mitologica delle nostre comunità
avere qualcuno da sacrificare per debellare una colpa o una possibile
catastrofe.
Su questa base quindi stereotipi e pregiudizi sono difficilmente allontanabili
dai contesti sociali, senza che venga fatto uno sposo è un lavoro sulle
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coscienze. Tuttavia, per le sensibilità moderne non è più possibile compiere
dei veri sacrifici, pertanto il meccanismo dello stereotipo del pregiudizio
permette di soddisfare questo bisogno sociale in modalità accettate [5].
Rilevante come possiamo notare che all’inizio degli anni 60 il consumo di
sostanze psicoattive assume una forte valenza trasgressiva. Questo
decennio è infatti caratterizzato dalla contestazione e dal desiderio di
cambiamento che hanno coinvolto un’intera generazione convinta di poter
proporre un modello di vita alternativo. Essi per mostrarsi in antitesi con i
loro genitori e predecessori si rivestivano di simboli e comportamenti
considerati devianti per creare rottura culturale. Questo progetto si
concretizza nella creazione di una controcultura alternativa a quella vigente,
sono infatti esaltati la ricerca del piacere e gli stati alterati di coscienza per
una doppia valenza. Assumere sostanze significava provare dimensioni
esistenziali dimmi leggiate che appagavano il bisogno di uscire da sé stessi
e sconfinare oltre la propria limitatezza. Dalla parte opposta appagavano il
bisogno di risultare controcorrente. Ciò che era allontanato dalla società, in
questo caso le droghe diventava oggetto di uso quotidiano proprio per la
valenza negativa che la società gli attribuiva [3].
Cercando di ragionare sul perché in quegli anni queste sostanze erano così
osteggiate, oltre a problemi di salute che comportavano, cerchiamo di
contestualizzarli all’interno di un percorso storico seguendo il filone della
necessità dei capri espiatori.
Nei primi anni 60, ci troviamo in una generazione successiva a quella che
aveva avuto la meglio sui nemici della seconda guerra mondiale.
Era necessario creare dei nuovi nemici. Le caratteristiche per diventare
“pharmakoi” sono sostanzialmente tre: trovare un soggetto debole a cui
indicare una colpa, prescrivere un rito di purificazione e una caratteristica
tabù correlata a questo rito che deve essere allontanata.
In questo quadro i soggetti con tossicodipendenza si mostrano esattamente
idonei. I percorsi di riabilitazione rientrano infatti in questo tipo di mitologia.
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Nei processi di stigmatizzazione queste persone non vengono viste come
persone che devono essere aiutate a recuperare il proprio benessere,
quanto più come casi persi nocivi per la collettività [5].
L’immagine di sé e la riuscita di un buon percorso
All’interno della costruzione del sé possiamo notare come la teoria
dell’etichettamento ponga centrale il fattore esterno all’individuo. Per creare
la propria identità il soggetto non si avvale solamente della
rappresentazione interna ma anche di quella che gli altri gli attribuiscono.
Pertanto, la persona con tossicodipendenza assume il suo ruolo e lo
definisce deviante, in quanto così viene anche descritto dal gruppo di
appartenenza. In tale prospettiva la narrazione comune che vede
l’esperienza della tossicodipendenza come qualcosa di “perverso, negativo
e anomalo” viene assunto dei soggetti che inquadrano la loro definizione
all’interno di questa immagine [4].
Talvolta, sempre secondo la teoria dell’etichettamento, così come per chi
compie atti di criminalità, anche per chi fa uso di sostanze, la storia della
persona viene completamente stravolta a partire da questo gesto deviante.
L’individuo condizionato dalle aspettative nei suoi confronti, riscrive la
propria storia a partire dall’elemento della droga, che diviene centrale per la
definizione della sua identità. Estrapola ogni altro particolare precedente e
erige l’esperienza della dipendenza da sostanze come unica e centrale
esperienza rilevante della sua interezza esistenza. Ogni azione passata o
futura verrà rimandata a questo elemento. In quest’ottica, si compie una
sorta di auto profezia, secondo cui essendo visto con me “soggetto
deviante, criminale, sporco e drogato” si percepirà come tale e si
comporterà di conseguenza. Questa dinamica incide molto sulle vite dei
soggetti e sul loro recupero.
Diviene molto più semplice arrendersi alla narrazione che li vede
protagonisti di una storia criminosa ed emarginata, piuttosto che recuperare
le proprie risorse positive e cercare di creare percorsi virtuosi per sé stessi
[6].
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Conclusione
Dopo aver messo in luce questo fenomeno sia all’interno del quadro italiano
odierno, sia in un percorso storico globale, possiamo notare come la
percezione sociale delle proprie azioni possa incidere sulla costruzione
della propria identità e sulla qualità della vita che le persone con
tossicodipendenza conducono.
Resta centrale e indiscutibile il fatto che l’abuso di sostanze psicoattive sia
un fenomeno che metta a rischio la salute degli individui e sia doveroso
arginarlo con specifici interventi. Pertanto, questa tesina non vuole
screditare la valenza di questa prospettiva.
Mostrando però la presenza e l’evoluzione che questo fenomeno ha
assunto nel corso della storia, possiamo riflettere come un’azione deviante
sia tale poiché inserita in un luogo in un tempo preciso, al cambiare di
queste variabili muta anche la percezione della tematica.
È stato sottolineato, tuttavia come la discriminazione e la stigmatizzazione
di certi comportamenti possa alimentare il perpetrarsi di certi fenomeni
piuttosto che ridurli.
È stato inoltre discusso come la presenza di categorie sociali deboli al quale
attribuire caratteristiche nocive per la collettività sia non solo un semplice
atteggiamento diffuso poco virtuoso, ma anche una vera necessità al fine di
creare un certo ordine sociale.
Se la tossicodipendenza fosse gestita come una qualunque malattia, le
persone con questa problematica potrebbero forse più facilmente
recuperare una vita sociale dinamica e piena di realizzazione una volta
recuperata la propria salute.
Bisogna chiedersi quindi, dopo quanto discusso se, l’obiettivo fondante che
orienta i percorsi di recupero e di prevenzione contro l’abuso di sostanze
abbia come centralità la dignità e il rispetto inalienabile per la persona in
quanto tale.
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Per riuscire a risolvere il problema della devianza e della criminalità in
genere, forse sarebbe necessario spostare il focus dalla parola devianza e
accenderlo sulla parola persona.
Qualora lo Stato smettesse di essere uno Stato guardiano della sicurezza
e diventasse uno Stato custode del benessere dei propri cittadini, a quel
punto è presumibile supporre che tutte le comunità ne guadagnerebbero in
salubrità.
Sarebbe così più semplice riuscire a rompere le spirali viziose che
alimentano questi fenomeni per crearne di nuove e virtuose al cui centro è
posto l’individuo con il suo più florido e armonioso sviluppo.
Bibliografia
1. RELAZIONE ANNUALE AL PARLAMENTO SULLO STATO DELLE
TOSSICODIPENDENZE IN ITALIA. (2017)
2. De Cataldo Neuburger, L. (1993). Il sistema droga. La costruzione
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3. Felice, A., Delai, N., & D'Agostino, L. (2006). Dipendenze e
mentoring: prevenzione del disagio giovanile e sostegno alla
famiglia/ISFOL; [a cura di Alessandra Felice, Nadio Delai e Luisa
D'Agostino] - [Sl: sn], stampa 2006.
4. Meneghini, G. (1993). Droga, narrazione e retorica:
tossicodipendenza e identità in un gruppo di interviste ad Abbadia
San Salvatore (Doctoral dissertation, Università di Siena, Facoltà di
lettere e filosofia)
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persecuzione rituale delle droghe, dei drogati e degli spacciatori.
Feltrinelli
6. Vianello, F., & Sbraccia, A. (2014). Sociologia della devianza e della
criminalità. Gius. Laterza & Figli Spa
41
INCLUSIONE ED ESCLUSIONE DEGLI ULTIMI
A cura di Federico Vito Maria Marino
Etimologia della parola senzatetto
Prima di trattare gli argomenti cardine di questo elaborato, vorrei iniziare
senso etimologico del termine senzatetto e dei vari sinonimi che esso ha:
chi sono i senzatetto?
“Chi non ha un’abitazione, un alloggio, per indigenza, o perché l’ha
perduto in seguito a calamità naturali o a distruzioni belliche” [1].
Altri modi di definire i senzatetto:
• Clochard = persona che vive per strada
• Vagabondo = che non ha sede stabile, dal latino vagabundus –
vagare, si distingue dal senzatetto perché è più uno stile di vita che
una condizione obbligata da altri fattori.
• Mendicante = colui che va mendicando per le strade
• I sofferenti della strada = così vengono chiamati in Brasile coloro che
errano per le strade delle città.
I tre termini sopracitati sono solo alcuni dei molti modi per definire i
senzatetto, molti dei quali però, sono etichettanti o addirittura volgari come
ad esempio il termine barbone, da cui deriva il fenomeno chiamato
“barbonismo”, che non è solamente limitato a coloro che vivono senza un
tetto, ma anche a coloro che, pur avendo una casa e percependo una
pensione, cadono in un senso di abbandono e trascuratezza, di cui il primo
segno particolare è appunto la barba incolta; questo fenomeno colpisce per
di più gli anziani, che avvertono un senso di abbandono da parte dei propri
famigliari.
La visione degli ultimi nella storia
Il medioevo
I senzatetto sono una realtà sempre esistita, già nel medioevo si parla di
soggetti che vivono “ai margini” delle città, lontani dai monumenti, dal centro
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cittadino e dalle zone aristocratiche poiché creavano disturbo ai cittadini e
a chi veniva da fuori.
Ma l’emarginazione non era dovuta solo al ripudio verso un determinato
gruppo di persone, vi erano infatti motivi politici, geografici e religiosi che
condannavano gli emarginati a non poter avere un contatto con la società,
nonostante il Cristianesimo indicasse esplicitamente di aiutare gli ultimi.
Vi era dunque una forte esclusione verso gruppi di persone come poveri,
lebbrosi, folli, eretici, mendicanti ed ebrei.
In un periodo storico governato da guerre, pestilenze, bancarotte e carestie,
era all’ordine del giorno vivere una discesa sociale poiché non tutti i poveri
sono nati poveri ma, al contrario, molti lo sono diventati proprio per i motivi
citati sopra.
A questi veniva affidato il nome di poveri occasionali, ovvero, che vivono in
una situazione di povertà a causa di una determinata occasione.
Questi avevano la possibilità di abbandonare la propria situazione quando
si modificavano le condizioni che li avevano portati a quello status, ma ciò
non sempre accadeva e la povertà dunque era sempre in aumento.
Come già visto, l’inclusione delle persone in uno stato di povertà nel
Medioevo non era all’avanguardia; negli ospedali i servizi erano ridotti al
minimo sindacale infatti, l’accoglienza era riservata solo agli anziani e agli
infermi, mentre gli altri dovevano dormire o sotto i porticati, o dovevano
ottenere dei soldi per poter pagare l’alloggio nelle case di coloro che li
ricevevano, i poveri moribondi venivano ospitati invece solo per una notte.
Ma le cose peggioravano in tempi di scarsità di cibo; contro i poveri,
venivano emanati ordini di espulsione non appena l’approvvigionamento
veniva a mancare.
La motivazione di tale espulsione era l’essere considerati delle “bocche
inutili”.
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Ma venivano trattati ancora più duramente quando erano stranieri: “in tutte
le civiltà sono oggetto di rifiuto o espulsione da parte dei gruppi sociali
nei quali hanno cercato di penetrare” [2], o quando erano mendicanti e
vagabondi e che quindi stanziavano “in città senza guadagnare nulla” [3]
come imponevano le severe condizioni degli Etablissements de Saint Louis,
o come li definì Giovanni II il Buono, re di Francia (1350 – 1364), imbroglioni
o oziosi.
L’epoca moderna
Il secolo sedicesimo si apre con la nascita di una figura di spicco nell’ambito
dell’inclusione degli ultimi, costui era Filippo Romolo Neri, conosciuto ai più
come San Filippo Neri.
Egli, spogliandosi dei suoi averi, iniziò una vita da eremita dormendo sotto
i portici delle chiese o in ripari di fortuna, egli divenne un ultimo per scelta.
Iniziò ad occuparsi degli infermi abbandonati a sé stessi o affidati a pochi
volontari decise su consiglio di Persiano Rosa, suo padre spirituale, di
fondare la cosiddetta Confraternita della Trinità nella quale poté accogliere
e curare viandanti, pellegrini e povera gente dei borghi romani.
Successivamente, in un granaio sopra la navata della chiesa di San
Girolamo della Carità, Filippo Neri istituì il primo Oratorio, dove radunava i
ragazzi di strada, senza distinzione di sesso e di età, e li avvicinò alle
celebrazioni liturgiche attraverso il gioco e la preghiera.
A cavallo tra la fine dell’epoca moderna e l’inizio della età contemporanea,
vi è un’altra figura protagonista dell’inclusione dei ragazzi provenienti dalla
strada, nel mondo scolastico; questi era Johann Heinrich Pestalozzi
(Zurigo,1746 – Brugg,1827).
Egli, istituì una scuola, nella sua tenuta, volta all’istruzione elementare dei
ragazzi poveri che erano soliti all’accattonaggio.
L’insegnamento elementare di base si alternava con quello del lavoro
agricolo in estate e della tessitura e della filatura in inverno: questo perché
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egli mirava a sollevare le classi popolari dalle loro condizioni con il lavoro e
l’istruzione.
Dopo questa prima esperienza terminata dopo alcuni mesi, gli fu affidata
l’educazione dei giovani rimasti orfani nella cittadina di Stans, a seguito di
una rivolta contro le truppe francesi.
Questa esperienza gli fece cambiare il suo modo di vedere l’educazione:
essa non era più un mezzo per il riscatto sociale, mentre il lavoro era
un’occasione per formare la personalità dell’uomo.
La sua ultima esperienza fu all’istituto di Yverdon, un castello nel quale
vennero ospitati circa centocinquanta alunni; ma poiché la maggior parte di
essi era di famiglia ricca, Pestalozzi ne venne a creare un’altra
esclusivamente per i ragazzi che vivevano in povertà; successivamente le
due scuole si unirono prima di chiudere definitivamente a causa delle
continue liti e polemiche.
Il messaggio che Pestalozzi ha voluto lasciare in eredità è che esistono due
tipi di infanzie abbandonate: quella materiale, che comporta la mancanza di
genitori, cibo e di una casa; e quella morale che invece comporta la
presenza dei concetti sopra espressi, ma con la mancanza di un’adeguata
proposta educativa.
L’età contemporanea
“Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole
amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo
sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i
classisti che siete voi, contro la fame, l'analfabetismo, il razzismo, le
guerre coloniali” [4].
L’età contemporanea si apre sotto il segno delle rivoluzioni e delle guerre:
Rivoluzione francese; guerra di secessione; moti carbonari; unificazione
dell’Italia; prima e seconda guerre mondiali; guerre d’indipendenza e
rivoluzione scolastica.
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Il tutto in poco più di centocinquant’anni.
Le lunghe battaglie che hanno coinvolto intere generazioni hanno instaurato
nella società un desiderio di cambiamento, in particolar modo, in coloro che
occupano le fasce più basse della scala sociale, gli umili, i vinti, o come già
menzionato, gli ultimi.
Vi è voglia di riscatto, di integrarsi con l’alta società che da sempre li ha
esclusi, lo racconta pure Giovanni Verga nel suo libro “Mastro don
Gesualdo”; e per iniziare questa scalata sociale bisogna partire
dall’istruzione che fino a quel momento, gli anni sessanta, era classista ed
escludente.
Il simbolo della rivoluzione scolastica popolare è Don Lorenzo Milani (1623
– 1967), all’anagrafe Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, che fonda
a Barbiana, una scuola includente per i ragazzi che la scuola non potevano
permettersela, o che, peggio ancora, erano stati rifiutati dalla scuola
classista del tempo.
“Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il
mezzo d'espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose” [5].
La scuola di Barbiana era aperta tutti i giorni, le lezioni si tenevano per molte
ore al giorno, anche dopo aver lavorato nei campi; in classe vi erano alunni
di età diverse, nessuno veniva bocciato ma, allo stesso tempo, nessuno era
esente dalle punizioni che spesso erano peggiori di quelle che si ricevevano
nella scuola dell’obbligo.
Non vi erano infatti distinzioni tra gli alunni, all’interno di quella scuola
esistevano solo ragazzi che avevano voglia di studiare e desiderio di
apprendere, non vi era il povero o il ragazzo di campagna, solo studenti che
meritavano premi e punizioni di come li meritavano gli altri.
Gli alunni della scuola di Barbiana, uniti insieme nel metodo di scrittura
collettiva, ideato da Mario Lodi che lo ha fatto poi conoscere a Don Milani,
scrissero appunti, pensieri che solo dopo la morte del loro maestro, vennero
resi pubblici sotto il nome di “lettera ad una professoressa” dove loro
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stessi raccontano giorno dopo giorno, la vita all’interno della scuola, e il loro
riscatto verso la scuola dell’obbligo.
“Del resto, bisognerebbe intendersi su cosa sia la lingua corretta. Le
lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi
le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per
bocciarlo” [6].
Decreti internazionali per l’inclusione degli ultimi
Con la nascita delle organizzazioni internazionali, tutto il mondo, dopo il
secondo conflitto mondiale, si è mobilitato per far fronte ai problemi di
carattere sociale ed economico: nel 1948 entra in vigore la costituzione
dell’Organizzazione Mondiale della sanità che per prima propone il diritto
alla salute come diritto fondamentale di ogni essere umano.
“La sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale,
e non consiste solo in un’assenza di malattia o d'infermità. Il possesso
del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto
fondamentale di ogni essere umano, senza distinzione di razza, di
religione, d'opinioni politiche, di condizione economica o sociale” [7].
Nel 1966 viene decretato il Patto internazionale sui diritti economici, sociali
e culturali che esplica, nel primo comma dell’articolo 11, come ogni persona
abbia il diritto di avere un livello di vita che non sia indecoroso e che dia
invece, la possibilità ad ognuno, di poter sempre accrescere le proprie
possibilità:
“Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni
individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia,
che includa un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati,
nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita” [8].
Perché tutti nasciamo uguali e dunque tutti dobbiamo avere accesso agli
stessi diritti e alle stesse possibilità di successo.
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Nel 2010, l’Unione Europea ha approvato una dichiarazione sulla strategia
comunitaria dei senzatetto al fine di sostenere gli Stati membri nella
creazione di strategie nazionali efficaci, in modo da poter risolvere, o
quantomeno affrontare, il problema il fenomeno di coloro che abitano nelle
strade.
"gli Stati membri dovrebbero adottare strategie integrate per i
senzatetto che si concentrino su obiettivi fondamentali quali la
prevenzione del fenomeno dei senza casa, la riduzione della sua
durata, indirizzando le misure ai casi più gravi, migliorando la qualità
dei servizi destinati ai senzatetto e mettendo a disposizione alloggi a
un prezzo accessibile"[9].
L’anno successivo, precisamente il 14 settembre 2011, l’UE emana la
risoluzione sulla strategia per i senzatetto, poiché è intenta ad attuare la
Carta dei diritti fondamentali, dove sancisce l’importanza di ripristinare la
dignità umana dell’uomo in stato di povertà, e che tale stato è considerato
come una violazione dei diritti umani:
“la grande povertà rappresenta una violazione dei diritti umani e una
grave lesione della dignità umana che favorisce la stigmatizzazione e
le ingiustizie; che l'obiettivo centrale dei regimi di sostegno al reddito
deve essere quello di far uscire le persone dalla povertà e di
consentire loro di vivere dignitosamente” [10].
Al giorno d’oggi non è possibile conoscere il numero esatto di coloro che
non hanno una casa in cui vivere, si stima un numero superiore ai 100
milioni e circa cinquantamila sono coloro che, solo in Italia nel 2014, hanno
sfruttato il servizio mense [11]; ciò vuol dire che i numeri potrebbero essere
maggiori dato che non tutti i senzatetto sfruttano il servizio delle mense.
Di questi, più di quarantamila sono uomini, mentre sono quasi ottomila le
donne per le quali, l’età media è superiore ai 45 anni, il che rappresenta un
problema per l’inclusione di costoro nel mondo del lavoro.
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I giovani invece sono circa tredicimila, e se per loro il progetto di inclusione
lavorativa potrebbe essere più semplice, si presenta il problema legato alla
devianza poiché molti di essi, sono legati al giro delle droghe e della
criminalità.
Questo in particolar modo si svolge nelle grandi città, come Roma e Milano,
dove i senzatetto sono circa ventimila ed è più facile trovare luoghi e gruppi
di devianza sociale.
Conclusione: due diversi punti di vista
Non per tutti la condizione depravante e lo stile di vita ai limiti della decenza,
sono visti in modo negativo: c’è infatti chi, con orgoglio, si ritiene felice del
tipo di vita che conduce, poiché si sente libero dall’impegno imposto dalla
società e dai ritmi frenetici della quotidianità, ecco dunque un classico
esempio di clochard per scelta.
Vi sono infatti quelli che lo sono diventati per motivi involontari ma che sono
contenti di esserlo e non fanno nulla per cambiare il loro status, e vi sono
coloro che addirittura hanno deciso di abbandonare il loro lavoro, la famiglia
e tutti i loro beni, per intraprendere una vita da senzatetto.
Ma questa è solo una piccolissima porzione delle persone che vivono lungo
le strade delle città poiché, chi per un motivo, chi per un altro, sono stati
costretti a trovare rifugio nei luoghi in cui vige l’anomia sociale e che ogni
giorno perde la vita per motivi quali il freddo, la fame o la delinquenza.
Si può dunque dire che i senzatetto sono una realtà ancora oggi presente
nonostante le contromisure prese sia dagli enti comunali, che da quelli
nazionali e internazionali.
Al contrario si può dire che, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, si sono
prese decisioni importanti per far fronte al problema e che hanno dato
importanza, e soprattutto, una voce, a chi è stato sempre lasciato in disparte
a chi, nel corso della sua storia, è sempre stato tenuto per ultimo.
49
Bibliografia
• Michel e Colette Collard – Gambinez “Un uomo che chiamano
clochard – quando l’escluso diventa l’eletto”; Macondo libri; 1999
• Nilda Guglielmi “Il medioevo degli ultimi – emarginazione e
marginalità nei secoli XI – XIV”; Città Nuova; 2001
• Oreste Cerri “L’apostolo di Roma – San Filippo Neri”; Villaggio del
fanciullo; 1973
• La scuola di Barbiana “Lettera ad una professoressa”; 1967
• Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; 1948
• Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali; 1966
• Relazione sulla protezione e sull’inclusione sociale; 2010
• Carta dei diritti fondamentali; 2011
• Istat
Sitografia:
• https://it.wikipedia.org/wiki/Johann_Heinrich_Pestalozzi
• http://www.secoloditalia.it/2016/06/italia-boom-senzatetto-50-
000-record-roma-milano/
1. Treccani enciclopedia
2. J. Gilissen Cit.
3. Jean Imbert – Les hopitaux en droit canonique.
4. La scuola di Barbiana – cit.
5. Ibidem
6. ibidem
7. Costituzione dell’OMS
8. Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali - Articolo
11 (1966)
9. Da “Relazione sulla protezione e sull’inclusione sociale” - 2010
10. Da “Carta dei diritti fondamentali” - 2011
11. Dati Istat
50
LA REALTA’ DEGLI ICAM E LE NORMATIVE IN
MATERIA DI TUTELA DEI MINORI
A cura di Milena Lamendola
Introduzione, Icam: istituto custodia attenuata madri.
Il principale tentativo di questo elaborato è quello di delineare la complessità
del mondo degli Icam: istituto custodia attenuata madri. La realtà di queste
strutture ha origine in tempi assai recenti nel territorio italiano ed europeo,
il primo Icam, infatti, viene inaugurato a Milano nel 2006, anche se oggi il
loro numero è aumentato a quello di cinque unità. Proprio per la loro
attualità, l’esistenza di questi contesti è ai più sconosciuta, si tratta di una
realtà in cui i bambini vivono in carcere perché le loro mamme sono state
condannate a delle pene detentive e, quindi, per essi si pone una alternativa
piuttosto brutale: o crescere lontano dalle loro madri, presso qualche
parente o, magari, qualche istituto di accoglienza, o rimanere con le loro
madri, però condividendo con esse l’ambiente carcerario. Gli Icam sono
delle sezioni che si trovano all’interno delle case di reclusione ma che,
rispetto ad esse, si distinguono da un accesso differente e da una serie di
normative in cui l’attenzione è posta principalmente alla salvaguardia e al
benessere del bambino (non vi sono sbarre, gli agenti non indossano la
divisa, ci sono spazi all’aperto e camere riservate alla coppia madre-
bambino).
In questo lavoro di ricerca verranno ripercorse ed analizzate le fasi e i
progressi giuridici che, dalle loro origini sino ai giorni odierni, hanno tutelato
e regolamentato la vita dei minori aventi le madri in stato di detenzione.
Verranno esaminate, quindi, tutte le misure di detenzione cosiddette
“alternative”, di cui la madre condannata all’espiazione di una pena può
avere l’opportunità (in specifici contesti) di usufruire, per offrire al lettore una
quanto più ampia ed obiettiva panoramica della situazione odierna. In un
secondo momento dell’elaborato, dopo aver esposto le principali misure di
detenzione “alternativa”, verrà analizzata e approfondita la funzionalità
dell’Icam, riportando anche gli esempi dell’Icam di Milano e di Venezia.
51
Ciò che verrà legittimo domandarsi è se vi è un “giusto” e uno “sbagliato”
verso cui doversi schierare quando si tratta di stabilire se possa
rappresentare un bene o un male, per un bambino, trascorrere gli anni
dell’infanzia in carcere. È difficile dare una risposta soddisfacente e univoca
a questa domanda, e forse la difficoltà maggiore risiede in un pregiudizio
ideologico, in base al quale siamo portati a “bocciare” mentalmente una
soluzione come quella dei bambini che vivono in ambiente carcerario, non
dopo una serena e spassionata valutazione dei pro e dei contro, ma solo
perché, astrattamente, riteniamo che il carcere non possa in alcun modo
considerarsi un ambiente idoneo per la crescita di un bambino. Pertanto,
una possibile chiave di lettura di quanto seguirà, per valutare in maniera
oggettiva la problematica trattata, potrebbe essere quella di liberarsi, il più
possibile, dal peso dei condizionamenti e dei pregiudizi ideologici che ci
portano a classificare una cosa come “buona” o “cattiva” non in base alle
situazioni concrete della vita reale, ma in base a dei codici astratti,
puramente teorici, che non tengono alcun conto di fattori come la
conoscenza diretta e personale delle situazioni stesse. Non che avere dei
valori assoluti sia male in sé stesso: tutt’altro; ma il punto non è questo. Il
punto è che i valori non possono prescindere dalla concretezza delle
situazioni. In questo contesto, infatti, non si parla di qualcosa di teorico, ma
di estremamente concreto: ci si pone il quesito su quale sia il vero bene di
un bambino, la cui madre è stata condannata a scontare una pena
detentiva; o, se si preferisce, su quale sia, per lui e nel suo esclusivo
interesse, il male minore. Perciò, la domanda onesta su cui soffermarsi non
è se il carcere sia un ambiente compatibile con la crescita di un bambino di
due, tre, quattro anni, perché, parlando in astratto, certamente non lo è, e
non c’è bisogno di dimostrarlo; ma se, per un bambino di quella età, la
separazione forzata dalla madre, la quale desideri tenerlo presso di sé, non
si traduca in un danno più grave del fatto di dover vivere in un ambiente
tutt’altro che piacevole e tutt’altro che “educativo”, come lo è l’ambiente di
un carcere femminile.
52
Scegliere se tenere il figlio accanto a sé, obbligandolo però alla detenzione,
o separarsene, affidandolo a familiari, è una “scelta impossibile”. Lo
raccontano alcune madri intervistate da C. Scanu [1]. Affidarlo ad altri infatti
significa, per queste madri, recidere un legame che difficilmente sentono di
poter ricucire. I bambini non possono comprendere perché la mamma non
li porta con sé, e possono vivere un sentimento di abbandono intenso.
Sin dal 1975 i legislatori hanno cercato di tutelare il bambino cercando
modalità per non separarlo dalla madre. Gli studi di Robertson, Spitz e
Bowlby forniscono un’evidenza importante dei rischi connessi alla rottura
della coppia madre-figlio nei primi anni di vita del bambino. Le frustrazioni e
il loro superamento sono infatti parte della crescita, ma se precoci, o prive
di qualcuno che gli dia senso e che consoli e conforti dopo averle ricevute,
influenzano a livello negativo la formazione del sé, delle future relazioni e
anche dello sviluppo cognitivo.
I danni possono risultare irreversibili se la frustrazione incide troppo
precocemente e si perpetua indefinitamente nel corso dei primi momenti di
vita del bambino. A tal fine si è concesso di far entrare i bambini nel carcere
insieme alle madri, per evitare le tragiche conseguenze che la separazione
dalla madre comporta, quali: disordini emotivi, disordini della personalità,
resistenza alla separazione, instabilità o perdita dell’identità. [2]
È difficile, quindi, pensare che, per la crescita serena ed equilibrata di un
bambino, l’ambiente fisico si possa considerare più importante della figura
materna: mentre la presenza della mamma può rendere confortevole anche
un ambiente ostile, un ambiente confortevole non sarà mai del tutto
soddisfacente, se non è riscaldato dalla presenza della madre. Pertanto,
anche i concetti di accoglienza, di inclusione, che pure rivestono tanta
importanza all’interno di qualsiasi discorso educativo, non possono essere
fatti astrattamente, cioè senza tener conto della realtà concreta di un
bambino piccolo, in età prescolare, che si trovi nella situazione di poter
essere separato completamente dalla presenza di entrambi i genitori, e
specialmente della madre, a causa della loro condotta di fronte alla legge.
53
In un certo senso, separare un bambino da sua madre, perché questa è
stata condannata a una pena detentiva, equivarrebbe a condannare anche
lui: e la condanna consisterebbe nella sua separazione da lei, mentre il fatto
di vivere in carcere sarebbe, per lui, probabilmente, il male minore.
Misure alternative di detenzione odierne
Detenzione domiciliare
La detenzione domiciliare fu introdotta nell’ordinamento penitenziario con
l’Art 13 della Legge n. 663 del 1986 e poi modificata nel 1998 dalla Legge
Saraceni che ne ampliò le condizioni al fine di evitare la carcerazione dei
bambini. La misura consiste nella possibilità di espiare la pena detentiva
nella propria abitazione o in altro luogo di pubblica o privata dimora o in
luogo pubblico di cura o assistenza o accoglienza, o in casa-famiglia
protetta. Nel caso in cui le detenute siano in gravidanza o abbiano figli di
età inferiore ai dieci anni, e debbano espiare una pena inferiore ai quattro
anni, o parte di essa, possono accedere a questa misura alternativa di
espiazione.
La coppia primaria risulta così tutelata e il bambino non cresce dietro le
sbarre, ma non sono considerati altri fattori di rischio. Non sempre la madre
ha infatti parenti o amici che la sostengano e aiutino concretamente ed
economicamente, perciò, seppur al di là delle sbarre, la sua resta di fatto
una reclusione. Non è semplice, ricordano alcune donne intervistate da
Cristina Scanu e raccolte nel suo libro Mamma è in prigione.
“Certo, a casa potevo stare con mia figlia, ma non è facile spiegare a tua
figlia di sei anni che non puoi portarla al parco.” [3] La detenzione domiciliare
risulta essere quindi una misura non definita e poco chiara se non sostenuta
da un’opportuna rete che aiuti la persona nella cura del figlio e contribuisca
alla rieducazione della persona, che dovrebbe essere il fine ultimo di una
pena.
54
Detenzione domiciliare speciale
Introdotta con la Legge Finocchiaro n. 40/2001 che aggiunge con l’Art.47-
quinques [4], la possibilità per le madri con figli di età inferiore ai dieci anni
(o padri se madre deceduta o impossibilitata), la possibilità di espiare la
pena negli stessi luoghi previsti per la detenzione domiciliare, quando non
sussiste il pericolo di un ulteriore commissione di delitti. La sostanziale
differenza con la detenzione domiciliare è che, in questo caso, viene
precisato l’aiuto e il sostegno che deve fornire il servizio sociale.
Oltre a osservare e controllare il soggetto, il servizio sociale è chiamato a
sostenere la persona a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale
e si mette anche in relazione con la famiglia e con gli altri ambienti di vita
frequentati dalla madre.
Questa modalità di aiuto evidenza l’importanza che assume il sostegno alla
madre come principale obiettivo durante il delicato periodo della maternità,
non isolandola dunque, ma garantendole un ambiente di sostegno e
protezione.
Affidamento in prova al servizio sociale
L’affidamento in prova al servizio sociale è ritenuta la misura alternativa alla
detenzione per eccellenza, in quanto evita i danni e le conseguenze che
possono derivare dall’inserimento in un istituto penitenziario privando una
persona della propria libertà. [5]
Inizialmente questa misura alternativa di detenzione venne introdotta per
tutelare i minorenni che avessero compiuto reato, con la riforma
all’Ordinamento Penitenziario del 1975, viene estesa questa alternativa non
solo ai minorenni. Questa modalità di esecuzione alternativa alla pena può
essere considerata una delle soluzioni migliori per garantire lo sviluppo
psicosociale del bambino e la tutela della maternità, in quanto coinvolge la
famiglia e la società più intensivamente e attua un’importante opera di
responsabilizzazione della persona verso il suo bambino, verso sé stessa e
verso la società.
55
Assistenza all’esterno dei figli minori
Nel 2001 è stato introdotto dalla Legge Finocchiaro l’articolo 21-bis, che
prevede per le madri detenute (o padri se madri decedute o impossibilitate)
con figli di età inferiore ai dieci anni, la possibilità di assistere i loro figli
all’esterno del carcere durante il giorno e di rientrare in carcere la sera. La
legge introduce una novità interessante, garantisce infatti al bambino di
godere del rapporto con la madre durante tutto l’arco del giorno, ma, allo
stesso tempo, presenta dei limiti per i bambini in fascia d’età 0-3 anni,
impedendo loro l’allattamento durante le ore notturne e quindi rendendo
difficoltosa la creazione di un saldo legame di attaccamento. L’applicazione
di tale legge resta spesso inaccessibile, poiché la maggior parte delle donne
detenute presenta un alto tasso di recidiva, e risulta quindi impossibilitata
ad accedere a tale misura [6].
La realtà degli ICAM
Gli ICAM sono stati introdotti in Italia dalla legge 62/2011 per permettere
alle madri di scontare la pena senza separarsi dai loro figli (che possono
stare dentro alla struttura fino ai 6 anni di età), all’interno di luoghi colorati,
senza sbarre, realizzati a misura di bambino in cui gli agenti che vi lavorano
non indossano né armi né divisa.
La legge 62/2011 si è posta l’obiettivo di ridurre il numero dei bambini nelle
carceri e tutelare il rapporto delle donne in gravidanza e delle madri con figli
piccoli, promuovendo in tale direzione la creazione degli Icam. Gli Istituti a
custodia attenuata sono le strutture nelle quali le madri che al momento
della condanna, o per esigenza di custodia cautelare, non possono
accedere ad altre misure alternative, possono espiare la pena o custodia
con i loro figli fino al compimento del sesto anno di età del bambino. In caso
di madre impossibilitata o deceduta la stessa misura è consentita al padre.
Il modello organizzativo di riferimento per queste strutture sono stati gli
istituti a custodia attenuata per tossicodipendenti, anche se, in questo
specifico caso, la finalità, anziché terapeutica è di sostegno allo sviluppo
psicosociale dei bambini e la cura della responsabilità genitoriale.
56
Gli Icam sono stati pensati e progettati per evitare un’infanzia dietro le
sbarre ai bambini, pertanto devono essere realizzati in un luogo diverso dal
carcere e risultare ambienti accoglienti, colorati e sereni. Di conseguenza
all’interno di tali strutture sono state introdotte alcune leggi con la finalità di
evitare associazioni e rimandi con le case di reclusione; fondamentale, ad
esempio, è che gli agenti che vi lavorano non devono indossare la divisa
per non intimorire i bambini. Oltre al personale di sorveglianza sono previsti
educatori specializzati, per permettere agli ospiti: “oltre che un supporto
umano, anche un’opportunità di formazione delle madri e un sostegno nel
rapporto affettivo con i figli.” [7] Un ruolo essenziale oltre a quello degli
educatori è quello svolto dai volontari, grazie ai quali i bambini vengono
accompagnati quotidianamente al nido e alla scuola materna, permettendo
loro di frequentare l’ambiente esterno insieme ai loro coetanei e, allo stesso
tempo, di avviare quel processo di inclusione e di inserimento che sta alla
base di questa difficile e complessa realtà.
Per la costruzione degli Icam è stato previsto lo stanziamento di 11,7 milioni
di euro. [8] Ad oggi quelli funzionanti sul territorio italiano però sono solo
cinque: Milano, Venezia e Torino, Cagliari e Lauro. In molti casi quindi alcuni
bambini sono ancora costretti a vivere i loro primi anni di vita in co-
detenzione con la mamma negli asili nidi predisposti all’interno di molte
carceri, che non risultano però, privi di simboli e rimandi o ritmi di vita diversi
dalla detenzione che spetta ai condannati. Al 30 giugno 2017 risultano
presenti nel territorio italiano 18 strutture tra Icam e asili nido in cui risiedono
bambini conviventi con le loro madri. [9]
Un limite degli Icam che vale la pena sottolineare è, che, per il loro numero
ristretto, ospitano spesso detenute provenienti da diverse località del nostro
paese. Al fine di evitare la carcerazione dei loro figli, le mamme fanno quindi
spesso richiesta di trasferimento agli Istituti a custodia attenuata, questo
significa però allontanarsi dalla propria famiglia di origine e obbligare anche
il figlio a questa separazione da nonni, padri e fratelli e altre eventuali figure
di riferimento.
57
L’Icam di Milano
L’Icam di Milano, viene inaugurato nel 2006 come forma sperimentale in un
palazzo storico della città e sorge in una struttura di 500 metri quadrati
messa a disposizione dalla provincia. Nel 2005, la Regione Lombardia,
attenta alla questione detentiva e ai problemi di rieducazione e
reinserimento delle detenute, si attivò con una legge regionale [10],
avviando attività di recupero e reinserimento per le ex detenute,
coinvolgendo le ASL, enti locali, il terzo settore e le associazioni di
volontariato del territorio.
Questo luogo, inizialmente, ospitava le madri con i loro figli fino al
compimento del terzo anno di età del bambino, ma dal 2011 il bambino può
restare con la madre nell’istituto fino ai sei anni. È la prima struttura di
questo tipo che viene creata in Italia e in Europa grazie all’accordo tra
istituzioni locali e il Ministero di Giustizia, e come organizzazione e gestione
degli spazi presenta: camere doppie e singole, bagni, una ludoteca,
l’infermeria, e spazi comuni come la sala colloqui, la biblioteca, la cucina, la
dispensa e la lavanderia. [11]
L’Icam di Milano presta particolare attenzione anche all’istruzione delle
detenute che è garantita fino alle scuole medie; per quella successiva è
stato posto un limite, in quanto la finalità principale della creazione degli
Icam è la tutela della maternità e la cura della responsabilità di queste madri
verso i propri figli, pertanto gli interventi seguono questa linea guida. Tra gli
obiettivi principali dell’Icam di Milano vi è quello di accompagnare le madri
sostenendo la loro genitorialità, la responsabilità verso loro stesse e
soprattutto verso i loro figli: grazie a permanenze medie delle detenute che
hanno raggiunto gli otto-nove mesi, è stato possibile realizzare un progetto
personalizzato per ogni coppia madre-bambino, che si concentra sulle
specifiche e particolari esigenze di quel nucleo.
Molto spesso, le donne che si trovano all’interno di queste strutture,
posseggono un basso grado di istruzione, provengono da situazioni
socioeconomiche disastrose e ambienti familiari in cui hanno subito
58
violenza. La maggior parte di esse sono straniere e senza permesso di
soggiorno e non sa cosa succederà loro e ai loro figli una volta uscite
dall’istituzione.
“Lo abbiamo aperto, ma lo chiuderemo, perché di bambini in carcere non
ce ne siano più” resta però lo slogan e il pensiero di chi ha creato e
realizzato questo progetto, perché, nonostante l’ambiente colorato e le
attività organizzate, resta un luogo di detenzione. Le porte sono chiuse, per
accedervi si passa attraverso il metal detector, l’area è circondata da una
cancellata e recintata da una parete di 3 metri in plexiglass per evitare il
rischio di fuga. In un servizio video realizzato da Il Fatto quotidiano una
mamma detenuta afferma infatti che i bambini sentono che è un luogo
chiuso, che non c’è apertura e che quella non è casa. [12]
L’Icam di Venezia
L’Icam di Venezia nasce come sezione esterna, in un luogo adiacente alla
Casa di reclusione femminile della Giudecca, ma che si distingue da essa
attraverso un accesso differente. La struttura è stata inaugurata in tempi
recenti, nel luglio del 2013, e mette a disposizione un appartamento dove
possono risiedere le madri con i loro bambini: vi è una grande cucina
comune dove le madri possono cucinare tutte insieme, e delle camere
matrimoniali riservate al nucleo madre-figlio ognuna con il proprio bagno.
L’istituto ha anche un giardino attrezzato di altalene e scivoli, dove i bambini
possono giocare all’aperto. All’Icam di Venezia i piccoli frequentano l’asilo
nido e la scuola materna esterni, accompagnati dai volontari e dalla
puericultrice presente nell’Icam.
All’interno della struttura operano anche due educatrici ed una psicologa.
Le educatrici però non prestano servizio solamente presso l’Icam, ma anche
in tutta la Casa di reclusione, di conseguenza, il lavoro che possono
svolgere con madri e bambini risulta assai limitato. [13]
La maggior parte delle madri detenute ha l’opportunità di svolgere un lavoro
retribuito in vari settori: quello della sartoria, dell’orticultura, o anche presso
una lavanderia che rifornisce di lenzuola e asciugamani alcuni importanti
59
alberghi di Venezia (ciò risulta possibile grazie a cooperative sociali e
convenzioni con il Comune di Venezia). Questo tipo di attività ricopre un
ruolo molto importante, da un lato dà la possibilità alle madri di riscoprire le
loro risorse e capacità, nonché di reinserirsi in un contesto lavorativo,
dall’altro consente loro di impegnarsi in attività che gli permettono di
contribuire al mantenimento del proprio figlio e a volte della propria famiglia.
Oltre alle cooperative sociali e alle aziende che assumono le detenute,
l’associazione di volontariato “La Gabbianella e altri animali” ricopre un
ruolo di preminente importanza. Questa associazione, infatti, cerca di
garantire ai bambini risiedenti all’Icam quelle condizioni di sviluppo che gli
dovrebbero spettare per diritto: si occupa di accompagnare i bambini a
scuola, di organizzare uscite durante i giorni festivi e di promuovere attività
ed iniziative che altrimenti non sarebbero possibili per questi bambini, quali
“progetto spiaggia”, “progetto nuoto” e “progetto delle domeniche in
famiglia”. È soprattutto attraverso l’attuazione di questi progetti che avviene
il lavoro più importante sulla figura del bambino, col tentativo di inserirlo in
contesti di quotidianità e di familiarità, a contatto con una realtà non dettata
da orari, vincoli e imposizioni esterne. Grazie al progetto “domeniche in
famiglia”, ad esempio, i bambini che risiedono all’Icam hanno la possibilità
di trascorrere un’intera giornata presso una famiglia che si prenda cura lo
loro; spesso sono famiglie in cui già vi sono dei piccoli, così da permettere
al bambino di interagire e di creare nuovi legami.
Durante queste giornate viene colta l’occasione per fare scoprire al bambino
delle realtà nuove e semplici, che altrimenti non potrebbe conoscere; una
gita al parco, una giornata al mare, o anche il solo mangiare un gelato si
rivelano così momenti di estrema scoperta e di fondamentale crescita [14].
È doveroso sottolineare che i progetti e le iniziative sono numerose, le
risorse, però, spesso sono limitanti per una loro realizzazione concreta.
60
Regolamentazione della tutela della figura infantile dalle sue
origini ad oggi: la situazione in Italia
“Ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita” recita l’articolo 6 della
Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza. E prosegue
affermando l’impegno degli Stati parte nell’assicurare “in tutta la misura del
possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo” [15]. In questo
documento si trova l’impegno a garantire lo sviluppo del bambino e a
tutelarlo “contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla
condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni sociali
dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali e dei suoi familiari” [16].
Dalla fine del 1989 il diritto allo sviluppo e alla vita per ogni bambino ha
trovato voce in questo documento, l’attuazione di tali impegni a livello
nazionale risulta però difficoltosa. Quando si parla di bambini,
inevitabilmente, si deve tener conto del contesto in cui crescono, la famiglia
in primo luogo, l’ambiente sociale in senso più allargato in secondo luogo.
Le sfaccettature e prospettive da cui osservare il diritto del minore sono
quindi multiple e complesse, cui si aggiunge un limite centrale: il diritto del
minore è un diritto scritto dagli adulti a tutela dei più piccoli.
Anche l’Articolo 24 della Carta Europea dei diritti fondamentali sancisce il
diritto alla protezione e alle cure necessarie al proprio benessere,
dichiarando che, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato
preminente in tutti gli atti relativi ad esso. A queste normative si aggiungono
gli Art. 30 e 31 della nostra Costituzione che decretano il diritto e dovere dei
genitori a mantenere i figli, al fine di proteggere la maternità e l’infanzia, e
affermano che lo Stato si impegna nella facilitazione di tali compiti con
l’ausilio di misure economiche di diversa natura.
Se l’interesse prevalente deve essere quello del minore, bisogna cercare di
creare le condizioni necessarie alla sua crescita, anche nel caso in cui i
genitori abbiano ricevuto una condanna definitiva o siano imputati.
61
L’Italia si è resa consapevole di questa esigenza già nel 1975, quando, con
un’importante riforma all’ordinamento penitenziario, modificò l’orientamento
del sistema esecutivo verso finalità rieducative e di reinserimento sociale,
come previsto dall’Art. 27 della Costituzione.
In quest’ottica la riforma introduce alcune misure alternative alla detenzione
per tutelare la maternità. Con l’Art.11 viene inserita la possibilità per le madri
detenute di tenere presso di sé i figli fino al compimento del terzo anno di
età, e, per tali esigenze si dovevano organizzare appositi asili nido
all’interno delle case di reclusione.
Nel 1986 con la legge n. 663, la riforma penitenziaria del 1975 diventa più
realmente conforme ai dettami della Costituzione e introduce la possibilità
di scontare la pena in detenzione domiciliare per donne incinte o madri di
prole di età inferiore ai tre anni, con una pena di reclusione non superiore
ai due anni, anche se parte costituente di maggior pena. Si inserisce in tal
modo la possibilità di espiare la detenzione nella propria abitazione o in altro
luogo pubblico di cura o di assistenza. [17] Con tale legge, nota come Legge
Gozzini, il cambiamento di prospettiva è forte, ma resta il limite di non aver
esplicitato direttive precise per coloro che volessero accedere a tali misure.
Si tratta quindi di detenzione, anche se non in carcere, perché il
provvedimento vieta ai condannati di lasciare la propria dimora, non
tenendo in considerazione che alcune madri potrebbero non avere terzi cui
rivolgersi per un aiuto o un sostegno. Altro grande limite della legge Gozzini
è di non prevedere alcuna forma di rieducazione per coloro che accedono
a tale misura alternativa, questo rappresenta un ostacolo forte al processo
di decarcerizzazione e reinserimento sociale.
L’8 marzo del 2001 viene promulgata un’altra legge molto importante n.
40/2001, conosciuta come Legge Finocchiaro, dal nome del ministro per le
Pari Opportunità Anna Finocchiaro. Tale normativa introduce ulteriori
possibilità alternative alla detenzione in carcere, quali: la detenzione
domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno dei figli minori di età inferiore
62
ai dieci anni. Il principio su cui verte questa legge è il principale interesse
alla tutela del rapporto madre bambino.
Tale legge può essere vista come l’inizio di una garanzia nei confronti della
coppia madre (carcerata) e bambino, l’introduzione della detenzione
domiciliare speciale, che pone in primo piano l’esigenza di tutelare la coppia
primaria, fu perciò molto importante, ma le complessità per accedervi,
(come ad esempio il possesso di una residenza) restano dei punti irrisolti
della normativa.
Nel febbraio del 2011 viene approvato un nuovo disegno di legge
contenente le Disposizioni del rapporto tra detenute madri e figli minori, che
entra in vigore dal gennaio del 2014. [18] Questo disegno doveva andare
ad aggiustare le complessità che la Legge Finocchiaro non era riuscita a
risolvere, per salvaguardare e sostenere la maternità e la continuità del
rapporto madre-bambino e, nel contempo, il rapporto del bambino con gli
altri componenti della sua famiglia e l’ambiente sociale esterno, al fine di
garantire lo sviluppo psicosociale dello stesso. Le modifiche prevedono che,
per le imputate incinte o madri di figli di età non superiore ai sei anni (o
padre se la mamma è deceduta o impossibilitata) non possa essere
disposta la custodia cautelare in carcere, salvo il sussistere di esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza [19]; sono perciò da predisporre, in tali
casi gli arresti domiciliari. Gli arresti e la detenzione domiciliare possono
aver luogo nella propria abitazione o in caso non ve ne fosse una, in una
casa famiglia protetta, che la legge invitava a individuare in luoghi già
esistenti (ma per le quali non vengono stanziate risorse adeguate) [20]. Per
i casi però di eccezionale rilevanza delle custodie cautelari o per scontare il
terzo della pena per accedere alle misure alternative, la legge istituisce gli
ICAM ovvero gli Istituti a custodia attenuata per madri [21]: luoghi esterni al
carcere, che ricreano un ambiente familiare, colorato, privo di sbarre, in cui
gli agenti di sorveglianza non indossano la divisa ed è prevista la continua
presenza di educatori specializzati.
63
La detenzione domiciliare o gli arresti, sono misure difficili da ottenere per
le straniere, che rappresentano la maggior parte della popolazione
carceraria femminile, notò Leda Colombini, presidente dell’associazione A
Roma Insieme, mentre Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione
Antigone osservò che gli ICAM non sarebbero da considerare un’alternativa
alla detenzione, ma piuttosto, l’unica forma di detenzione possibile per una
madre con un figlio di età inferiore ai sei anni. [22]
Come si è potuto vedere, l’iter legislativo dal 1975 a oggi ha quindi ampliato
le opportunità per il genitore di riferimento di poter espiare la pena o la
custodia cautelare in luoghi diversi dagli istituti penitenziari, a tutela del
diritto del minore.
Conclusioni
Perché possa essere tutelato quel “diritto inerente alla vita” affermato
dalla Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza anche per
figli di madri detenute è necessario proporre interventi mirati alla cura della
genitorialità e delle relazioni familiari, affinché sia tutelata la maternità sia
all’interno degli istituti penitenziari sia per coloro che stanno espiando la
pena in modalità differenti.
A tal fine nel marzo 2014 il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per
l’infanzia e l’adolescenza e la onlus Bambinisenzasbarre hanno sottoscritto
con un Protocollo di Intesa: la Carta dei figli dei genitori detenuti. Essa si
articola attorno alla necessità di mantenere e tutelare rapporti tra genitori
detenuti e il loro figli, definiti come “gruppo sociale”, al fine di salvaguardare
la specificità del gruppo senza per questo discriminarlo.
L’obiettivo è quello di “evitare che la detenzione incida negativamente tanto
sul diritto dei figli alla continuità del legame affettivo, quanto sulla
responsabilità genitoriale; sull’esigenza che le relazioni genitoriali e familiari
vengano aiutate a reggere sia alla detenzione sia alle conseguenze di essa”
[23]. Entrare in carcere non deve avere l’effetto di spogliare le madri del loro
ruolo genitoriale e separarle, quando ci sono, dai padri dei loro figli. Anzi se
la loro responsabilità genitoriale viene anzitutto rispettata, riattivata e curata
64
è anche più probabile che l’intervento rieducativo sia più incisivo, e, una
volta uscita dal carcere, la madre cerchi di condurre una vita rispettosa di
sé stessa e della vita dei suoi figli.
Essere madri in carcere non significa essere delle cattive madri, per questo
va fatto appello proprio al loro senso materno. Da anni le associazioni che
si occupano della tutela dei figli di detenuti e i servizi sociali si stanno
muovendo con progetti e programmi di rieducazione alla genitorialità in
ambito carcerario, offrendo un sostegno al rapporto della madre con il figlio
e quando possibile al coinvolgimento della famiglia, in particolare del padre
se presente, che non deve essere escluso dalle scelte e dalla crescita del
figlio, nel momento in cui la madre sceglie di tenerlo con sé all’interno
dell’istituto penitenziario. A Venezia l’associazione la Gabbianella e altri
animali dal 2007 sostiene i bambini reclusi con le loro mamme prima nel
carcere della Giudecca e oggi all’Icam, avviando quando possibile progetti
e laboratori per la cura della genitorialità e del rapporto madre-bambino. Più
in generale, sembra quanto mai opportuno agire a livello culturale,
stimolando una riflessione, la più ampia possibile, sul tema della maternità
negli istituti di detenzione, attraverso la stampa, la televisione, delle
conferenze e dei dibattiti pubblici, nonché cercando di coinvolgere un
maggior numero di giovani nelle attività di volontariato a sostegno dei
bambini che vivono in carcere presso le loro madri, con la collaborazione
delle facoltà universitarie. Il problema sarà impostato in maniera adeguata
solo quando si sarà sviluppata una più matura consapevolezza di esso, e
sarà stato favorito il sorgere di una sensibilità specifica verso questo tipo di
problematiche, le quali, finora, sono state viste con un certo distacco dalla
società nel suo complesso.
Nel realizzare progetti e interventi in questo senso è necessaria la creazione
di una rete che progetti e agisca all’unisono, sfruttando le risorse e le
possibilità di ogni figura professionale presente. Devono perciò essere
coinvolti direttori e agenti dell’organizzazione penitenziaria, operatori e
educatori, psicologi e counselor, servizi sociali presenti presso gli Istituti
penitenziari e nel territorio circostante e/o della provincia da cui provengono
65
le detenute se, dopo l’espiazione della pena sarà il luogo in cui torneranno
a vivere.
Tabella 1 Detenute madri con figli al seguito presenti negli istituti
penitenziari italiani distinte per nazionalità - Situazione al 30 novembre
2017 [24]
Nota: gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (ICAM)
attualmente sono Torino "Lorusso e Cutugno", Milano "San Vittore",
Venezia "Giudecca", Cagliari e Lauro. In caso non siano presenti detenute
madri con figli al seguito, l'istituto non compare nella
tabella.
Bibliografia
BIONDI Gianni, Lo sviluppo del bambino in carcere, Franco Angeli, Milano,
1994.
Carta europea dei diritti fondamentali dell’uomo, Art. 24, Diritti del minore,
Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, 14 dicembre 2007.
COSTANZO Gabriella, Madre e bambino nel contesto carcerario italiano,
Roma, Armando Editore, Collana Medico-psico-pedagogica, 2013.
FORCOLIN Carla, Mamme dentro. Figli di donne recluse: testimonianze,
riflessioni e proposte, Milano, Franco Angeli, 2016.
Legge 9 agosto 1975, n. 354, Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, Gazzetta Ufficiale
n. 212, 9 agosto 1975.
Legge 8 marzo 2001, n. 40, Misure alternative alla detenzione a tutela del
rapporto tra detenute e figli minori, Gazzetta Ufficiale n. 56, 8 marzo 2001.
Legge regionale Regione Lombardia 14 febbraio 2005, n.8, Disposizioni per
la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della Regione
Lombardia, Gazzetta Ufficiale Regioni n. 20, 21 maggio 2005.
66
MARGARA Alessandro – Paolina PISTACCHI – Sibilla SANTONI, Nuove
prospettive nella teoria dell’attaccamento e tutela del rapporto genitoriale
quando un genitore è detenuto, in «Minori e giustizia»1 (2005), 83 – 112.
SCANU Cristina, Mamma è in prigione, Milano, Jaca Book, 2013
TOMASELLI Ennio, La Carta dei figli dei genitori detenuti, in «Minori e
Giustizia» 3 (2014), 174 -179.
Sitografia:
<http://www.bambinisenzasbarre.org/> (consultato in giugno 2018)
<http://www.lagabbianella.org/> (consultato in giugno 2018)
<https://www.ilfattoquotidiano.it/> (consultato in giugno 2018)
<http://www.innocenti evasioni.net/> (consultato in giugno 2018)
1. Cristina SCANU, Mamma è in prigione, Milano, Jaca Book, 2013,
117-118
2. Cfr. Gianni BIONDI, Lo sviluppo del bambino in carcere, Milano,
Franco Angeli, 1994.
3. SCANU, Mamma è in prigione, 118.
4. Legge 8 marzo 2001 n. 40, art. 3, Detenzione domiciliare speciale,
c. 1: Dopo l'articolo 47-quater della legge 26 luglio 1975, n. 354, e
successive modificazioni, è inserito il seguente: "Art. 47-quinquies
(Detenzione domiciliare speciale). - 1. Quando non ricorrono le
condizioni di cui all'articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età
non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di
commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la
convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena
nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in
luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla
cura e alla assistenza dei figli, dopo l'espiazione di almeno un terzo
67
della pena ovvero dopo l'espiazione di almeno quindici anni nel caso
di condanna all'ergastolo.”
5. MARGARA – PISTACCHI – SANTONI, Nuove prospettive nella
teoria dell’attaccamento e tutela del rapporto genitoriale quando un
genitore è detenuto, 105.
6. SCANU, Mamma è in prigione, 124.
7. COSTANZO Gabriella, Madre e bambino nel contesto carcerario
italiano, Roma, Armando Editore, Collana Medico-psico-pedagogica,
2013.
8. l. 62/2011, art. 5.
9. Fonte: MINISTERO DELLA GIUSTIZIA,
<https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=
0_2&facetNode_2=0_2_1&contentId=SST43460&previsiousPage=
mg_1_14> 30/06/2017, (consultato il 15/10/2017).
10. legge regionale n.8 del 14 febbraio 2005.
11. Ibidem.
12. Icam Milano, una casa con le sbarre per le mamme detenute e i loro
figli, visibile al link <https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/05/icam-
milano-casa-con-sbarre-per-mamme-detenute-e-loro-figli/283317/ >
(05/06/2014), (consultato il 20/11/2017).
13. ASSOCIAZIONE LA GABBIANELLA E ALTRI ANIMALI. Bambini
come gli altri - Come rimuovere gli ostacoli di ordine culturale,
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza
dei figli dei detenuti - ed in particolare di coloro che crescono con le
madri negli ICAM -ne impediscono il pieno sviluppo e la futura onesta
partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese, Convegno tenutosi a Venezia, Palazzo Cavagnis, Castello
5170, 6 ottobre 2017.
14. Cfr. FORCOLIN Carla, Mamme dentro. Figli di donne recluse:
testimonianze, riflessioni e proposte, Milano, Franco Angeli, 2016.
15. Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza 20
novembre 1989, art. 6:
68
1. Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto
inerente alla vita.
2. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura del possibile la
sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo.
16. Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, art. 2,
c. 2.
17. Legge 10 ottobre 1986, n. 663, Modifiche alla legge sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà, art 13
18. Legge 21 aprile 2011, n. 62, Disposizioni del rapporto tra detenute
madri e figli minori.
19. l. 62/2011, art .1, c. l.
20. l. 62/2011, art. 4: Individuazione delle case famiglia protette:
1. Con decreto del Ministro della giustizia, da adottare, entro
centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente
legge, d'intesa con la Conferenza Stato – città ed autonomie
locali sono determinate le caratteristiche tipologiche delle
case famiglia protette previste dall'articolo 284 del codice di
procedura penale e dagli articoli 47- ter e 47- quinquies della
legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati, rispettivamente,
dagli articoli 1, comma 2, e 3 della presente legge.
2. Il Ministro della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni
volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate
come case famiglia protette.
21. l. 62/2011, art. 1, c. 3: “Dopo l'articolo 285 del codice di procedura
penale è inserito il seguente: «Art. 285-bis. - (Custodia cautelare in
istituto a custodia attenuata per detenute madri). - Nelle ipotesi di cui
all'articolo275, comma 4, se la persona da sottoporre a custodia
cautelare sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a
sei anni, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o
assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, il giudice
69
può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per
detenute madri, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo
consentano”.
22. Patrizio GONNELLA, Giustizia: Le contraddizioni della legge sulle
detenute madri, <http://www.innocentievasioni.net >, 06/04/2011,
(consultato il 02/11/2017).
23. Ennio TOMASELLI, La Carta dei figli dei genitori detenuti, in «Minori
e Giustizia» 3 (2014), 175.
24. Fonte: Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio del
Capo del Dipartimento - Sezione Statistica
<https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=
0_2&facetNode_2=0_2_1&contentId=SST67886&previsiousPage=
mg_1_14> 30/11/2017, (consultato il 2/12/2017).
70
TRA ONDATE DI INCLUSIONE E DISCRIMINI
A cura di Angela Awoenley Abasimi
“Until the color of man skin, will be more significant than
the color of his eyes, there will be war.”
(Bob Marley)
Introduzione del quadro istituzionale generale in materia di
immigrazione
Convenzioni in materia di asilo, normativa comunitaria e
internazionale
Alla base di tutta la normativa europea in questa materia vi è l’articolo 14
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, che
annuncia: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi
asilo dalle persecuzioni”. [1]
La Convenzione di Ginevra, che nel 28 luglio del 1951 viene adottata a
seguito dei grandi flussi di esuli prodotti dalla Seconda guerra mondiale,
che dà una definizione internazionalmente riconosciuta del termine
rifugiato, e viene istituto nello stesso periodo anche l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR). Ai sensi dell’art. 1 della
Convenzione è rifugiato colui che “avendo un fondato timore di
persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un
determinato gruppo sociale o di opinioni politiche, si trova fuori del paese di
cui è cittadino e non può, o a causa di tale timore non vuole avvalersi della
protezione di tale paese”. [2]
In materia comunitaria, sono presenti sostanzialmente due Direttive
Europee che regolano le norme di accoglienza dei richiedenti asilo negli
Stati membri, recepita con decreto normativo in Italia nel 2005; e la Direttiva
Europea del 2004 sulle “norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi
terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di
71
protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della
protezione riconosciuta”, non ancora recepita dall’ordinamento italiano.
La legislazione Italiana in termini di immigrazione ha avuto costanti
oscillazioni a partire dagli anni 90’ quando si inizio a legiferare in materia,
fino ai giorni nostri, dipendenti in particolar modo dal orientamento politico
delle maggioranze presenti al governo, passando da periodi di maggiore
accoglienza a periodi di forte discriminazione e stigmatizzazione, derivanti
anche da avvenimenti storici che hanno cambiato profondamente la
percezione del migrante nel mondo occidentale, passando dalla percezione
del migrante come risorsa lavorativa, soprattutto per il suo impiego in lavori
poco desiderabili, al migrante/straniero percepito come minaccia al
benessere comune, soprattutto dopo i fatti del 2001 con la caduta delle torri
gemelle e la paura generalizzata nei confronti dell’altro.
Iter storico riguardo la legislazione in materia di politiche per
l’immigrazione
A fronte di questo incipit, ritorniamo in Italia. Il primo fondamento per tutto
ciò che seguirà è la Costituzione Italiana, che dichiara nell’art. 10, 3°
comma: “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio
delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto
d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le disposizioni stabilite dalla
legge”. Definendo il cosiddetto “asilo costituzionale” che delinea la figura del
richiedente asilo in modo più ampio rispetto alla definizione di rifugiato
prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1951.: l’art. 10, 3° comma, della
Costituzione italiana, infatti, ricomprende ogni ipotesi in cui sia impedito
l’esercizio delle libertà democratiche, anche non necessariamente
riconducibili a fenomeni di persecuzione.
Negli anni 90’, precisamente nel 1986, è la legge numero 943, che disciplina
per la prima volta il fenomeno migratorio in Italia. Questa riconosce il
fondamentale diritto al ricongiungimento familiare ai lavoratori stranieri che
vivono in Italia regolarmente, afferma, almeno in principio, l’equiparazione
dei diritti tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri. La legge 943 attua la
72
prima regolarizzazione, sotto forma di sanatoria, dei lavoratori stranieri: di
fronte ad un flusso migratorio che in quegli anni ha ancora proporzioni
modeste, ancora non si pensa, come si farà in seguito, a una
programmazione dei flussi in relazione al mercato del lavoro, e neppure si
regola in alcun modo l’espulsione, rimessa a generici “principi di pubblica
sicurezza”. Fino a quel periodo, l’unico strumento di gestione del fenomeno
migratorio era rappresentato dal testo unico di pubblica sicurezza del 1931,
integrato nel corso del tempo da varie circolari ministeriali volte a tamponare
le innumerevoli carenze legislative.
Nel 90, viene approvata la legge Martelli (legge 39/90), a seguito delle
richieste dagli altri paesi europei che temevano un afflusso di migranti, che
passando per l’Italia avrebbero avuto un accesso facilitato e irregolare nei
loro paesi. Perciò questa legge fu caratterizzata da una forte restrizione
degli ingressi e sanatorie, per regolarizzare al più presto i migranti che già
risiedevano e lavoravano in Italia.
A partire da questi anni, cominciarono anche i grandi flussi migratori,
principalmente dall’Albania, causati dagli sconvolgimenti politici che in
quegli anni imperversavano nei Balcani. Molti di loro vennero riconosciuti
come rifugiati politici, regolarizzando in questo modo il loro status in
territorio italiano.
La legge 39/90 fu la prima a pensare ad un sistema di regolazione dei flussi
migratori, prevedendo decreti interministeriali annuali per la fissazione delle
quote di migranti. Purtroppo, però, a causa dei ritardi di amministrazione e
incapacità di prevedere e affrontare il fenomeno migratorio che caratterizzò
questo periodo, il sistema migratorio italiano finì nell’assestarsi su un doppio
binario di ingressi irregolari, e mancanza di un vero processo di
stabilizzazione degli stranieri già presenti. (Vergoni, 2009)
La legge Martelli, inoltre introdusse l’obbligo di visto per quasi tutti i paesi
da cui provenivano i flussi migratori, riformando i controlli di frontiera e
attribuendo grande importanza alle espulsioni, usate come metodo per
contrastare l’immigrazione clandestina/irregolare. Ciò permise, un anno
73
dopo l’approvazione di questa legge all’espulsione in toto di migliaia di
rifugiati albanesi.
Successivamente, i decreti che sono seguiti in questa materia negli anni 90
non hanno cambiato la percezione del fenomeno migratorio, sempre più
legato nell’immaginario collettivo a un problema di ordine pubblico e difesa
delle frontiere.
Con l’ascesa al potere del primo governo di centrosinistra, viene approvata
nel 1998 la legge Turco-Napolitano (legge 40/98), con la quale si cercò di
operare verso una riforma del sistema migratorio italiano. I punti principali
di questa riforma furono la creazione dei Centri di detenzione Permanente
Temporanea, diffusi anche negli altri paesi europei a fronte degli accordi di
Shengen del 1995, per l’istituzionalizzazione di una riforma migratoria
europea comunitaria; la determinazione di quote d’ingresso annuali di
contingenti per motivi di lavoro, il problema però, era che come nelle
precedenti legislazioni in materia di immigrazione, le quote previste erano
sostanzialmente lontane dalla realtà, costringendo la regolarizzazione di
lavoratori migranti già presenti nel territorio italiano attraverso i vari tipi di
sanatorie a fronte di una domanda di lavoratori particolarmente alta da parte
delle imprese italiane.
Per ritornare ai C.P.T., secondo la legge 40/98, la detenzione in questi centri
doveva essere effettuata solo in casi estremi, ossia dove non vi era altra
soluzione possibile, ma nel corso della prassi il ricorso al trattenimento da
parte delle questure andò in crescendo. La legge Turco – Napolitano, si
articola fondamentalmente in due direzioni: da una parte le “quote” degli
ingressi regolari (un numero fissato ogni anno sulla base di un documento
programmatico triennale, con una parte delle quote riservata ai lavoratori
dei paesi con cui l’Italia ha stipulato accordi bilaterali, i quali trattati
disciplinano anche la riammissione degli irregolari nel loro paese d’origine);
dall’altra un ruolo centrale, già accennato, che viene assegnato all’atto
dell’espulsione dell’immigrato irregolare (il previsto accompagnamento alla
74
frontiera, è disposto dal Ministero dell’Interno per motivi di ordine pubblico
e di sicurezza dello Stato). [3]
Il caso dell’Albania
Nel 1990 avviene il crollo del regime comunista albanese, in migliaia si
rifugiano nelle ambasciate in cerca di aiuto, in quella Italiana 803 rifugiati, e
quasi altri 5000 nelle altre ambasciate. Interviene l’ONU che chiede al
governo albanese di concedere i visti per lasciare andare i suoi cittadini,
inizia in questo modo una fuga che non avrà precedenti.
"E' a partire dal 7 marzo 1991 che gli albanesi sono entrati a pieno titolo
sulla scena nazionale ed internazionale con quello che fu denominato
'l'esodo biblico'; lo hanno fatto nella forma più spettacolare che tanto
impressionò l'immaginario collettivo della popolazione italiana e mondiale:
in tutte le case italiane, attraverso centinaia di ore di trasmissioni televisive,
quelle immagini si imposero all'attenzione generale. Come d'incanto
emerse la condizione di un popolo avvolto per mezzo secolo in un involucro
impenetrabile. Nei tre porti di Brindisi, Bari ed Otranto arrivarono 25.708
albanesi su quelli che presto furono definiti "carretti di mare". [4]
Ancora oggi, nel porto di Brindisi che sperimentò questo grande esodo, la
popolazione ricorda gli eventi accaduti. Infatti, vent’anni dopo la città ricorda
quel momento con una serie di iniziative. Il Comune ha organizzato una
serie di incontri dal titolo: "La città ospitale Albania-Brindisi, 20 anni dopo".
Quel 7 marzo 1991, il paese non era preparato ad accogliere un esodo di
quel tipo. I brindisini si trovarono di fronte a un fiume di persone stremate e
senza forze, affamate e assetate. Molti cittadini di Brindisi scesero in campo
per fornire aiuti alimentari, vestiario e medicinali. Dalle navi scendevano
donne, bambini e uomini in condizioni disperate. Fuggivano da un paese in
piena crisi economica e per loro l'Italia rappresentava un futuro migliore.
Avevano immaginato la loro 'terra promessa' guardando i programmi
televisivi italiani che arrivavano nelle loro case in Albania. Film e talk show
che descrivevano benessere e ricchezza e avevano contribuito a costruire
quel sogno. [5]
75
Proprio in quegli anni era da poco passata la legge Martelli, che però
garantiva l’accesso e la permanenza solo ai rifugiati politici, e la maggior
parte degli albanesi che attraccavano nei porti italiani, su imbarcazioni di
fortuna non lo erano. Questo rese la situazione ancora più difficile di quanto
non fosse già. Le autorità non erano pronte a far fronte a questo fenomeno,
non vi erano strutture, non si sapeva dove “mettere” queste persone, nel
frattempo le comunità locali cercavano di fare del loro meglio per aiutare
quelle persone che arrivavano stremate da quel viaggio della speranza. Il
primo approccio fu quello di solidarietà da parte della popolazione italiana,
lo stato istituiti dei decreti ad hoc per cercare di arginare la situazione nel
miglior modo possibile, ed allo stesso tempo cercava di entrare in contatto
con le autorità albanesi al fine di trovare un accordo per regolare il flusso
migratorio.
Il tempo però mancava, già nell’Agosto del ’91 arriva un secondo esodo,
questa volta però attraccare fu più difficile. Dopo essere stati rifiutati dai porti
di Brindisi e Monopoli, la nave Vlora che passerà alla storia come la nave
con più clandestini, ben 20.000 persone ammassate in questa nave, in
cerca di un posto migliore in Italia, viene ormeggiata nel porto di Bari.
Stavolta però trovarono un’accoglienza più fredda. L’Italia temeva
un’invasione, la paura di queste nuove persone in arrivo, che venne
alimentata anche dal linguaggio usato dai mass media, aumentò in modo
tale che quel giorno verrà ricordato anche come una macchia indelebile di
indifferenza da parte del popolo italiano verso delle persone bisognose.
Una volta attraccata, le persone nella nave vennero tutte portate allo Stadio
della Vittoria di Bari, e lì rinchiuse in attesa di essere deportate. Lo Stato
italiano adottò la linea dura, scegliendo di rimandare a casa la “massa” di
migranti e cercare di adottare delle politiche per “aiutarli a casa loro”, termini
che ritornano anche ai giorni nostri con la cosiddetta “crisi” migratoria.
Una crisi, che almeno per quanto riguarda i flussi dall’Albania, ormai sono
considerati stabili, e dunque non più una “problematica” da gestire con
misure d’emergenza.
76
Gli anni 2000 e l’inizio delle politiche di chiusura
Nel 2002, col cambiamento di governo e l’ascesa del centrodestra, venne
approvata la legge Bossi-Fini, che cerca come obbiettivo principale di
contrastare l’irregolarità e l’immigrazione clandestina, coinvolgendo nel
processo, per la prima volta anche i datori di lavoro, che si vedono costretti
a dichiarare i contratti di lavoro favorendo la regolarizzazione dei migranti,
attraverso la stipulazione di contratti di soggiorno in Prefettura. La nuova
legge, inoltre riduce drasticamente le possibilità di ingresso regolare, la
durata dei permessi di soggiorno legandoli fortemente ai contratti di lavoro,
secondo questa nuova legge, difatti poteva entrare in Italia solo il migrante
già in possesso del contratto di lavoro.
Inoltre, tra le novità apportate da questa legge vi è il reato penale di
permanenza clandestina, per cui lo straniero che viola l’ordine di
abbandonare lo Stato, comminato quando non si riesce ad espellere
forzatamente il migrante oppure all’uscita di questi dal CPT per scadenza
del termine (60 giorni, permanenza raddoppiata rispetto ai tempi definiti
nella legge Turco-Napolitano). L’ampliamento e rafforzamento di
quest’ultimi, successivamente rinominati come Centri di identificazione e
Espulsione (C.I.E), che vengono sempre di più utilizzati come veri e propri
centri di detenzione per gli immigrati in attesa di espulsione. Nel 2004 viene
formulato per la prima volta il reato di inottemperanza all’ordine del
questore, come contravvenzione punibile con l’arresto dai sei mesi fino ad
arrivare anche ad un anno. La Corte costituzionale, nel luglio di quell’anno,
giudicò la misura in questione come anticostituzionale, considerando
l’arresto obbligatorio per una contravvenzione come misura eccessiva del
sistema processuale penalistico. Nonostante ciò, con un decreto che
successivamente venne convertito in legge, il centrodestra riuscì ad
aggirare la sentenza della Corte, portando perfino la pena per il reato di
inottemperanza al questore fino ai 4 anni di reclusione. Infine, per quanto
riguarda la situazione dei rifugiati politici, vige una mancanza di una norma
organica in materia d’asilo, la legge Bossi-Fini rende il trattenimento
detentivo dei richiedenti asilo la prassi, non adeguandosi agli standard
77
internazionali in materia, che invece prevedevano la detenzione solo in casi
estremi.
Nel 2009, la legge 94, cosiddetto pacchetto sicurezza introduce il reato di
immigrazione clandestina, la quale prevedeva un’ammenda da cinquemila
a diecimila euro per lo straniero che entrava illegalmente nel territorio
italiano. Su questa materia vige ancora il vuoto costituzionale, anche se nel
2013 la commissione di giustizia del Senato aveva approvato un
emendamento che se confermato, abolirebbe questo reato. Inoltre, nel 2014
una legge delega approvata dal parlamento dava al governo 18 mesi per
emanare un decreto legislativo che depenalizzasse l’ingresso e il soggiorno
irregolare, ma ancora ad oggi non ci sono stati avanzamenti in materia.
Percorso delle politiche per l’integrazione in Italia.
Nonostante le prime leggi in materia di integrazione risalgano al 1986, i
primi tentativi di intervento in materia di politiche per l’integrazione
cominciarono solo verso la metà degli anni 90’, con la legge Mancino nel
1993 che aveva lo scopo di combattere i crescenti episodi di xenofobia,
razzismo e discriminazione.
A causa di dibattiti politici e varie alternanze tra governi di centrosinistra e
centro destra, non vi furono molti altri provvedimenti legislativi in materia di
integrazione a livello nazionale. Molto di quello che riguardava queste
normative fu affidato alle amministrazioni regionali, alle quali fu affidato il
compito di istituire dal punto di vista procedurale di coordinare e indirizzare
le politiche di integrazione. I comuni erano gli enti principali per l’esecuzione
e la creazione di queste normative, con margini di autonomia a seconda del
grado di accentramento delle governance regionali.
All’inizio degli anni 2000, con la modifica del Titolo V della Costituzione e la
legge di riforma dell’assistenza sociale, le politiche d’integrazione vennero
sempre più spinte ad essere prese in mano dagli enti regionali e locali. Con
queste riforme, gli enti locali hanno acquisito notevoli poteri di formulazione
di politiche in rispetto ai temi dell’integrazione. Purtroppo, però, come
rilevato da Andrea Stuppini [6] (2013, 66-67), la disorganizzazione nelle
78
elaborazioni progettuali degli enti locali, soprattutto nei primi anni di
applicazione dello strumento dei Piani di zona portò come risultato alla
mancanza della possibilità di proseguire con una pianificazione a livello
nazionale, facendo passare in secondo piano, dal 2001 fino al 2010, il
proposito fissato nella legge Turco-Napolitano di avere una pianificazione
triennale su queste materie.
Un calo importante sull’importanza di questa materia fu rilevato, a tal
proposito nel 2001, col la riforma costituzionale, che consentì la
soppressione del Fondo per le politiche migratorie, confluite nel Fondo
nazionale delle politiche sociali, togliendo il vincolo di destinazione e perciò
anche l’obbligo di programmazione in materia di integrazione da parte delle
regioni. A partire dal 2005, e ancora di più nel 2007, ci fu una drastica
riduzione del Fondo per le politiche sociali, costituendo una difficoltà ancora
maggiore per le regioni nella scelta di implementare politiche volte
all’integrazione dei migranti. Difatti, solo nove regioni hanno continuato a
portare avanti una programmazione regolare in questa materia.
Nonostante questo scenario, nel 2005 emerge un nuovo strumento a tutela
di queste politiche, nato dalla cooperazione tra il Ministero delle Politiche
sociali e gli enti regionali, ossia gli Accordi di programma finanziati tramite
il Fondo nazionale per le politiche sociali (FNPS) e il Fondo Europeo per
l’Integrazione (FEI), il quale fu istituito nel 2007 e che ha probabilmente
rappresentato la svolta nelle politiche di integrazione. Questi fondi furono
utilizzati principalmente per l’attuazione di programmi per l’insegnamento
della lingua italiana e formazione professionale.
Va tuttavia ricordato che, a partire dalla seconda metà degli anni 2000,
con l’emergere di un dibattito sull’identità culturale italiana e sul
multiculturalismo, anche in Italia , come negli altri paesi Europei, si è
assistito a un processo di una graduale ri-definizione del concetto di
integrazione in senso sempre più neo-assimilazionista, con un’enfasi
crescente sulla necessità di stabilire un quadro di regole e valori di
riferimento a cui gli immigrati dovrebbero aderire in modo esplicito e
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inequivocabile. Un primo passo in questa direzione è rappresentato
dall’introduzione della cosiddetta Carta dei Valori dell’Integrazione e della
Cittadinanza, redatta da un Comitato Scientifico nominato dall’allora
ministro dell’Interno Giuliano Amato, e che, nelle intenzioni del ministro
avrebbe dovuto inserirsi nel quadro di una riforma più generale dei criteri di
accesso alla cittadinanza. [6]
Nel 2009 poi, sotto il governo Berlusconi, con l’attuazione del Pacchetto
sicurezza, si avvia un accentramento delle politiche di integrazione, sempre
più dirette a livello nazionale, portando, per la prima volta, la costituzione di
un collegamento tra politiche di integrazione e gestione dei flussi, che fino
ad allora erano stati gestiti distintamente. Viene introdotto l’Accordo di
integrazione, che consisteva in un contratto che doveva essere firmato dal
migrante nel momento del rilascio del primo permesso di soggiorno.
Secondo questo contratto i migranti si impegnano a conseguire degli
specifici obiettivi di integrazione che sono stati successivamente indicati nel
regolamento di attuazione, diventato tuttavia operativo solo nel marzo del
2012. L’accordo ha una validità di due anni e impegna l’immigrato su alcuni
punti principali: il raggiungimento di un livello di conoscenza sufficiente della
lingua italiana (livello A2 del Quadro comune europeo di riferimento per la
conoscenza delle lingue, QCER), della Costituzione e della cultura civica
italiana, tra cui in particolare il settore sanitario, il sistema educativo, i servizi
sociali, il funzionamento del mercato del lavoro e degli obblighi fiscali; lo
straniero che aspira al permesso di soggiorno si deve inoltre impegnare a
far rispettare l’obbligo scolastico per i minori a carico. [7]
Infine, nel 2010, il governo Berlusconi presentò un nuovo documento che
avrebbe dovuto spingere verso l’ulteriore integrazione della popolazione
straniera, ma che nella pratica poi, si rivelò uno strumento non
implementabile, a causa della scarsità dei fondi. Si parla del Piano per
l’integrazione nella sicurezza. Identità è incontro, che non riuscirà ad entrare
in atto pienamente a causa dei ritardi burocratici per l’attuazione del piano,
e la mancanza di desiderio di cooperazione e discussione tra l’ente
nazionale e le amministrazioni regionali e locali, risultando in una politica
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solo di facciata, volta all’integrazione. Ma allora la domanda che sorge è
perché ci sono state così tante incongruenze dal punto di vista politico e
amministrativo? Perché nonostante le appartenenze politiche più o meno
conservatrici, si è visto in regioni come il Veneto, una maggiore dedizione
all’integrazione degli stranieri, soprattutto nel settore lavorativo del tessile,
nonostante in questa stessa regione vi sia una prevalenza di ideologie
politiche di destra? Forse a tal proposito possiamo cercare alcune di queste
risposte nello studio degli aspetti psicologici dei processi sociali.
Analisi di concetti di dinamiche sociali nell’incontro tra il “noi” e
il “loro”
Nello studio più specifico, riguardo al fenomeno migratorio, e alla
percezione del migrante nella società di destinazione, si evidenzia la
trasformazione da stereotipo a pregiudizio, in quanto più comunemente si
trovano giudizi prevalentemente negativi da parte degli autoctoni, che
attraverso la rappresentazione dei media spesso fuorviante, rappresenta il
migrante come nulla facente e una minaccia per il benessere pubblico.
Questa teorizzazione viene avvalorata anche dai processi storici a fronte di
ciò che è stato descritto sopra.
Le fondamenta del pregiudizio sono molte, e il più delle volte interconnesse;
tra quelle più evidenti abbiamo i pregiudizi determinati da cause socio-
economiche, processi psico-sociali e/o processi di natura intra-individuale.
Quest’ultimo processo menzionato, proviene dalla teoria della frustrazione-
aggressività, descritta da Dollard e collaboratori nel 1939. Tale teoria,
generalmente applicata al comportamento aggressivo, può anche essere
studiata come base dei comportamenti discriminatori e pregiudicanti; difatti,
secondo Dollard, “dietro ad ogni comportamento aggressivo vi è una
frustrazione”, questa frustrazione è legata al non soddisfacimento di un
bisogno primario dell’essere umano. Perciò, soprattutto nelle situazioni di
depressione economica, gli autoctoni, attraverso esperienze reali o indotte
da un certo tipo di dis-informazione massificata di fenomeni, percepiscono
fenomeni come quello migratorio, come minacce o capri espiatori dei
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problemi della società e del presunto pericolo di non soddisfacimento dei
bisogni primari della società residente. Difatti, nelle applicazioni psico-
sociali di questa teoria, lo stato di frustrazione può essere esteso anche a
fattori simbolici, che fanno si che gli appartenenti allo status di outgroup
vengano interpretati come “minaccia allo status dell’ingroup, o ai suoi valori,
o alla cultura in generale”, a fronte di ciò le persone tenderanno ad
assumere atteggiamenti più diffidenti e negativi verso “l’altro” percepito
come minaccia. Questo spiega perché, nei periodi di grande tensione dal
punto di vista sia nazionale che internazionale, ad esempio la paura sorta
dopo i vari attacchi terroristici, a partire dalla caduta delle torri gemelle, fino
ai più recenti fatti che hanno colpito il mondo occidentale, vi sia stata una
progressiva chiusura nei confronti dell’altro generalizzato, con conseguenti
approvazioni di politiche discriminatorie e xenofobe, come si può notare
dagli argomenti trattati precedentemente.
Inoltre, dal punto di vista socio-economico, rifacendomi alla teoria del
conflitto realistico di Campbell (1965) e Sherif (1966), fenomeni come
pregiudizi e conflitti vengono ricondotti alle relazioni sociali tra i gruppi,
assumendo alla base di tutto: che l’essere umano è sostanzialmente
egoista, e il suo scopo è quello di cercare di massimizzare i suoi profitti.
Perciò i conflitti tra gruppi nascono sostanzialmente perché le risorse sono
scarse, ciò porta i gruppi ad entrare in competizione tra di loro per riuscire
ad accaparrarsi le risorse presenti. Questa situazione di, quella che
chiamano oggi “guerra tra poveri”, porta ad una interdipendenza negativa
(Sherif, 1966) che porta necessariamente al conflitto, che si esprimerà poi
in atteggiamenti xenofobi attraverso pregiudizi, discriminazioni,
comportamenti aggressivi e bellicosi. [8]
A proposito della comparazione tra “noi” e “loro”, Tajfel e Turner (1986)
parlano dell’identità sociale costruita attraverso l’appartenenza a un gruppo.
Secondo questi autori, l’individuo possiede una molteplicità di personalità
che sono determinate da ciò che considera come il suo ingroup, che può
essere il suo gruppo di amici, la sua famiglia, il suo paese di nascita, ecc.
Come l’individuo valuta la sua appartenenza svolge un ruolo determinante
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nell’origine del pregiudizio. Difatti l’individuo, sarà generalmente più
tendente a valutare positivamente il suo gruppo di appartenenza, e nel
momento del confronto ad essere più propenso ad avere dei pregiudizi nei
confronti del gruppo estraneo. [9]
Ai fini della nostra ricerca, è interessante anche l’aspetto descritto nella
teoria dell’identità sociale che studia le differenti tipologie di minacce
dell’identità. In particolare, vorrei soffermarmi sulle minacce all’identità
sociale, che possono verificarsi quando la moralità del gruppo viene messa
in discussione. Questa forma di minaccia penso sia una delle modalità con
cui potremmo interpretare i recenti avvenimenti in materia di immigrazione
ai giorni d’oggi.
Negli ultimi tempi, soprattutto negli stati Occidentali, dati i recenti
avvenimenti legati al terrorismo internazionale sembra trasparire un
costante stato di minaccia, da varie ricerche condotte sulle percezioni che
si evidenziano sui social, il disagio è evidente, e non solo su internet, ma
anche nella vita di tutti i giorni, sembra esserci un aumento della xenofobia
e di conseguenza della paura diffusa. Fatti di cronaca nera, come la morte
del sindacalista Soumaila Sacko, con un colpo di fucile, gli attacchi ai centri
di accoglienza avvenuti in Trentino Alto Adige con tanto di scritte razziste e
simboli con svastiche annesse, e molti altri episodi che stanno diventando
all’ordine del giorno.
Conclusioni
Oramai viviamo in un mondo, sempre più diversificato e multiculturale, dove
l’incontro e la convivenza tra culture diverse è inevitabile. Dove si sente un
bisogno pressante, dai “nuovi” gruppi societari di essere ascoltati e visti.
Dove l’indifferenza e la chiusura di porte e porti, mostra ancora più
evidentemente il bisogno di un cambiamento dei paradigmi che costruivano
la società prima dell’avvento della globalizzazione, nel senso di movimento
di massa di persone. La chiusura delle frontiere sembra solo il palesamento
degli ultimi sprazzi di paura di fronte ad un mondo che cambia, che sta
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cambiando velocemente, anche se a qualcuno potrebbe non far piacere, la
mescolanza è sempre più evidente.
Le seconde generazioni, in Italia, ormai rappresentano la necessità di
cambiare mentalità, un outgroup che quasi non ha confini con l’ingroup di
autoctoni, perché sono ragazzi che parlano la lingua, che pensano in
italiano, che si identificano almeno in parte come Italiani e che chiedono
riconoscimenti da parte dello stato e degli Italiani per discendenza, il diritto
ad essere riconosciuti come membri dell’ingroup di italiani.
Ma ormai, possiamo veramente afferma l’esistenza di un noi ed un loro?
Chi sono i “noi” e chi gli “altri”?
In fin dei conti, fino ad ora abbiamo parlato di come l’incontro tra culture
diverse provochi conflitto, ma il conflitto avviene quando i gruppi dissidenti
hanno delle chiare divisioni tra loro, e ormai quella sottile, invisibile linea
che divideva gli Italiani dai Non Italiani, ma in quest’epoca ci si deve
chiedere chi è il vero straniero? È veramente così diverso da noi? E chi
siamo noi?
La “seconda generazione”, i figli di migranti, che a volte si identificano
meglio con la popolazione e la cultura della popolazione autoctona, da cui
però con incoerenza sono osservati con diffidenza e da altri come
“assimilati” alla cultura locale. Chi sono questi ultimi?
Forse un giorno avremo un mondo, in cui la pluralità culturale sarà la norma,
il movimento sarà la norma, e non ci giudicheremo l’un l’altro a seconda del
nostro “presunto” gruppo di appartenenza. E lo stereotipo, ed il pregiudizio
saranno solo un ricordo simpatico, su cui ironizzare.
Bibliografia
1. Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e del cittadino
2. Convenzione di Ginevra (1951)
3. Vergoni, Antonio. «Breve storia legislativa dell’ Immigrazione in
Italia.» A.R.I.S. Associazione di Ricerca e Intervento Sociale (2009)
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4. Barjaba, K, G Lapassade e Luigi Perrone. Naufragi Albannesi.
Roma: Sensibili alle foglie, 1996
5. Pini, Valeria. «Vent'anni fa lo sbarco dei 27.000, Il primo grande
esodo dall'Albania.» la Repubblica, Mondo Solidale 06 03 2011
6. Caponio, Tiziana. Dall’ammissione all’inclusione: verso un approccio
integrato? Un percorso di approfondimento comparativo a partire da
alcune recenti esperienze europee. Turin, FIERI: Research Report
FIERI on the behalf of CNEL, September 2013
7. Campomori, Francesca. «Le politiche per l’integrazione degli
immigrati: tra retoriche e realtà.» Salvati M., Sciolla L. L'Italia e le sue
regioni. A cura di Mariuccia Salvati and Loredana Sciolla. Catanzaro:
Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2015. 347-362
8. Voci, Alberto. «Modelli di salute, benessere, disabilità e analisi delle
barriere/ facilitatori contestuali e psicosociali (II parte).» Il pregiudizio:
Che cosa è, come si riduce. Roma-Bari: Laterza, 19 marzo 2018
9. Turner, J. C. e H. Tajfel. «Psychology of intergroup relations» The
social identity theory of intergroup behavior. (1986): 7-24.
Costituzione Italiana
Sitografia:
• http://www.adir.unifi.it/rivista/2010/mehillaj/cap1.htm#34
• https://www.vice.com/it/article/xdebn3/italia-razzismo-interviste
• Treccani