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Corso di Diritti Umani e Inclusione – Anno 2017-2018 Barriere psicologiche, sociali e culturali Stereotipi, pregiudizi verso le persone Curata da Angela Abasimi Awoenley, Alessio Dal Pos, Sara Gulotta, Milena Lamendola, Federico Vito Maria Marino

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Corso di Diritti Umani e Inclusione – Anno 2017-2018

Barriere psicologiche, sociali e culturali Stereotipi, pregiudizi verso le persone

Curata da Angela Abasimi Awoenley, Alessio Dal Pos, Sara Gulotta, Milena Lamendola, Federico Vito Maria Marino

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Indice INTRODUZIONE ........................................................................................ 4

Termini e distinzioni ................................................................................ 4

Bibliografia.............................................................................................. 6

PERSONE CON MALATTIA MENTALE .................................................... 7

Definizione dei termini ............................................................................ 7

Persone con schizofrenia ....................................................................... 9

Persone con autismo ............................................................................ 13

Persone con morbo di Alzheimer ......................................................... 16

Persone con sindrome di Down ............................................................ 19

Conclusione .......................................................................................... 22

Bibliografia............................................................................................ 23

TOSSICODIPENDENZA E STEREOTIPI ................................................ 24

La tossicodipendenza in Italia .............................................................. 24

Cannabis sempre più diffusa ................................................................ 25

Spice e NPS nuove droghe in monitoraggio ......................................... 26

Minori e sostanze psicoattive ............................................................... 26

Ragazze e droghe ................................................................................ 27

Sostanze psicoattive nella storia .......................................................... 28

Tossicodipendenza, stereotipi e società ............................................... 33

L’immagine di sé e la riuscita di un buon percorso ............................... 38

Conclusione .......................................................................................... 39

Bibliografia............................................................................................ 40

INCLUSIONE ED ESCLUSIONE DEGLI ULTIMI ..................................... 41

Etimologia della parola senzatetto ........................................................ 41

La visione degli ultimi nella storia ......................................................... 41

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Il medioevo ........................................................................................ 41

L’epoca moderna .............................................................................. 43

L’età contemporanea ........................................................................ 44

Conclusione: due diversi punti di vista .................................................. 48

Bibliografia ............................................................................................ 49

LA REALTA’ DEGLI ICAM E LE NORMATIVE IN MATERIA DI TUTELA DEI

MINORI .................................................................................................... 50

Introduzione, Icam: istituto custodia attenuata madri. ........................... 50

Misure alternative di detenzione odierne .............................................. 53

Detenzione domiciliare ...................................................................... 53

Detenzione domiciliare speciale ........................................................ 54

Affidamento in prova al servizio sociale ............................................ 54

Assistenza all’esterno dei figli minori ................................................. 55

La realtà degli ICAM ............................................................................. 55

L’Icam di Milano ................................................................................ 57

L’Icam di Venezia .............................................................................. 58

Regolamentazione della tutela della figura infantile dalle sue origini ad

oggi: la situazione in Italia ..................................................................... 60

Conclusioni ........................................................................................... 63

Bibliografia ............................................................................................ 65

TRA ONDATE DI INCLUSIONE E DISCRIMINI ....................................... 70

Introduzione del quadro istituzionale generale in materia di immigrazione

.............................................................................................................. 70

Convenzioni in materia di asilo, normativa comunitaria e internazionale

.......................................................................................................... 70

Iter storico riguardo la legislazione in materia di politiche per

l’immigrazione ................................................................................... 71

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3

Il caso dell’Albania ............................................................................ 74

Gli anni 2000 e l’inizio delle politiche di chiusura .............................. 76

Analisi di concetti di dinamiche sociali nell’incontro tra il “noi” e il “loro”

.......................................................................................................... 80

Conclusioni ........................................................................................... 82

Bibliografia............................................................................................ 83

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INTRODUZIONE

A cura di Federico Vito Maria Marino

Termini e distinzioni

Per capire cosa sono pregiudizi e stereotipi dobbiamo porci una domanda:

in che modo conosciamo la realtà sociale? La conoscenza del mondo

sociale viene organizzata dalla nostra mente utilizzando processi di

categorizzazione e schemi. La categorizzazione è un processo cognitivo

che consiste nel raggruppare un insieme di oggetti, fisici o sociali, che

hanno una o più caratteristiche in comune (ad esempio, persone

categorizzate in gruppi). Per schema intendiamo invece una

rappresentazione cognitiva di conoscenze organizzate relative a un oggetto

(ad esempio, sé, ruoli, gruppi, eventi sociali), che influenza la percezione,

la memoria e le inferenze (cioè la costruzione di nuove conoscenze circa i

dati mancanti) e ha il vantaggio di semplificare il lavoro cognitivo, cioè

l’elaborazione delle informazioni, perché facilitano la codifica, il ricordo e le

inferenze. Ma dato che le persone si basano su schemi esistenti per

conoscere il mondo, a volte ignorano o negano l’evidenza della realtà

conservando le proprie opinioni e credenze.

Tra i primi a studiare i processi di categorizzazione ci furono Tajfel e Wilkes

(1963) con un esperimento volto a verificare gli effetti su semplici giudizi

quantitativi quando in una serie di stimoli (semplici linee di diversa e

crescente lunghezza) è applicata una classificazione sistematica. L’ipotesi

era che la categorizzazione degli stimoli portasse a percepire uniformità

all’interno delle singole categorie (assimilazione intracategoriale) e, allo

stesso tempo, distintività tra esse (differenziazione intercategoriale), cioè

portasse all’accentuazione percettiva delle somiglianze intraclasse e delle

differenze interclassi. Studi successivi hanno dimostrato gli effetti della

categorizzazione anche considerando stimoli sociali, quindi riferiti a

individui appartenenti all’una o l’altra categoria sociale (vedasi Doise,

Deschamps e Meyer ,1978, sulla categorizzazione in base al genere).

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L’esperimento di Tajfel e Wilkes può spiegare come nascono gli stereotipi.

Uno stereotipo sociale consiste nell’attribuire alcuni tratti in comune a tutti

gli individui membri di un gruppo e nell’attribuire, a questi stessi membri,

alcune differenze comuni rispetto ai membri di altri gruppi. Un aspetto

essenziale degli stereotipi è, infatti, che si esagerano alcune differenze tra

gruppi rispetto ad alcune dimensioni di giudizio, e si minimizzano le

differenze all’interno dei gruppi; a proposito di ciò lo stesso Herni Tajfel

produsse la Teoria dell’identità sociale (1981). Prima di lui si espresse

Gordon Allport (1954) definendo lo stereotipo: una credenza esagerata

(amplificata) associata ad una categoria. La sua funzione è di giustificare

(razionalizzare) la nostra condotta nei confronti di quella categoria [1].

Mentre John Brigham lo definisce: una generalizzazione fatta su un gruppo

etnico, relativa all’attribuzione di un tratto, che è considerata ingiustificata

da parte di un osservatore [2]. Gli studiosi contemporanei superano invece

la concezione negativa (l’ingiustificabilità di Brigham) e definiscono lo

stereotipo come una rappresentazione cognitiva di un gruppo sociale, in cui

al gruppo sono associate caratteristiche stereotipiche, considerate cioè

descrittive, salienti, o più tipiche del gruppo (non necessariamente

negative).

Quello che va chiarito è che molti studi hanno dimostrato che l’attivazione e

l’applicazione dello stereotipo può avvenire automaticamente, cioè

immediatamente e non intenzionalmente, ed avere, quindi, effetti

inconsapevoli sulla percezione, il giudizio e il comportamento sociale.

Patricia Devine, nel 1989, dimostrò come lo stereotipo relativo a un gruppo

(i neri in USA) veniva attivato automaticamente, cioè senza

consapevolezza, e venisse successivamente utilizzato per il giudizio

sociale, nonostante le credenze personali (positive e controllate) dei

soggetti partecipanti all’esperimento si scontrassero con gli stereotipi

(negativi ma incontrollati) [3].

Il pregiudizio è invece un’idea, opinione concepita sulla base di convinzioni

personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti,

delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e

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da indurre quindi in errore [4]. Per pregiudizio si intende quindi una

valutazione tendenzialmente negativa di un gruppo o di un individuo in

quanto appartenente a un gruppo; a questo possono essere associati, oltre

che tratti e credenze stereotipiche, anche valutazioni ed emozioni.

Parlando di rapporti sociali tra gruppi o tra persone altri termini meritano di

essere spiegati per non indurre in fraintendimenti. Per stigma (o stimma) si

intende, nell’uso letterale, con significato vicino a quello etimologico,

marchio, impronta, carattere distintivo. In psicologia sociale, è l’attribuzione

di qualità negative a una persona o a un gruppo di persone, soprattutto

rivolta alla loro condizione sociale e reputazione [4] (può essere di natura

psico-fisica, razziale, etnica, religiosa).

Per discriminazione si intende la distinzione, diversificazione o

differenziazione operata fra persone, cose, casi o situazioni. Particolare

risalto va dato al termine “operata” in quanto fa riferimento agli atti,

provvedimenti, azioni rivolti a persone portatrici di diversità sociali o

biologiche (ne è un esempio “classico” la discriminazione razziale operata

dai regimi nazista e fascista nei confronti di ebrei e altre minoranze).

Vi è poi l’ostracismo, il comportamento con cui, nell’ambito di un gruppo

sociale o politico omogeneo, le persone che esercitano il potere o

dispongono di particolare influenza escludono o emarginano, spesso

facendo leva su forme di coazione sociale, un loro avversario o, anche,

chiunque abbia violato le regole del gruppo stesso; in particolare, il termine

viene usato in antropologia sociale per indicare l’esclusione da una

comunità di quegli individui che si siano resi colpevoli di determinate

infrazioni [4].

Bibliografia

1. “La natura del pregiudizio”, pag.191, Allport, 1954

2. “Ethnic stereotypes” pag.31, Brigham, 1971

3. “Stereotypes and Prejudice: Their Automatic and Controlled

Components”, Devine, 1989

4. Treccani

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PERSONE CON MALATTIA MENTALE

A cura di Alessio Dal Pos

“Ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene

considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita

sofferenza che non è stata colta dagli uomini.”

(Alda Merini)

Definizione dei termini

Cos’è un disturbo mentale? Cos’è una malattia? Quando si parla di morbo?

Quando di sindrome? Rispondere a queste domande è doveroso prima di

cominciare una trattazione sui pregiudizi, gli stereotipi, i tabù legati a una

categoria che scopriremo essere eccezionalmente vasta.

Per disturbo mentale intendiamo, in senso generale, la situazione di

carenza di salute che si manifesta prevalentemente con sintomi psicologici,

cioè sul piano di ciò che la persona fa, prova, pensa, dice e percepisce.

Questi possono essere di due tipi: i più frequenti e noti, i sintomi nevrotici

(ansie, fobie, depressioni, ossessioni, ecc.) e i più rari, quelli psicotici (deliri,

allucinazioni, pensieri sconnessi, tendenza all’isolamento, inerzia, povertà

di emozioni, chiusura ai rapporti interpersonali, ecc.). Perché si possa

parlare di disturbo mentale è necessario che i sintomi siano presenti per un

certo periodo e associati in varia misura tra loro [1]. La differenza tra sintomi

psicotici e nevrotici non è mai limpida, tant’è vero che alcuni disturbi

vengono definiti “borderline”.

Per malattia mentale si fa riferimento a una disfunzione comportamentale,

psicologica o biologica della persona, clinicamente significativa, associata

a un malessere o a una menomazione [2]. Spesso è definita come disturbo

mentale, ma una definizione soddisfacente non esiste, dato che di molte

malattie mentali non si conoscono né l’eziologia, né i processi

fisiopatologici. Per avere una più chiara spiegazione ci rifacciamo

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all’opuscolo informativo “Il pregiudizio sulla malattia mentale è difficile da

scardinare” che definisce la malattia mentale come “particolare disturbo, o

meglio, gruppo di disturbi mentali noti come sindromi schizofreniche. La

schizofrenia è caratterizzata dalla presenza e dalla persistenza nel tempo

di alcuni dei sintomi definiti psicotici”.

La sindrome (quale quella schizofrenica) è quindi l’insieme dei segni e dei

sintomi che compongono una situazione clinica particolare di un individuo;

è anche usato come sinonimo di malattia le cui caratteristiche sono poco

chiare. Ne sono altri esempi la sindrome di Asperger, la sindrome di Down

e la sindrome da immunodeficienza acquisita, malattia virale, più nota come

AIDS [3].

II termine morbo è stato storicamente utilizzato per indicare le malattie a

decorso fatale, soprattutto perché sconosciute e quindi incurabili. Il termine

attualmente è un vocabolo in via di abbandono sia per rispetto del malato

sia perché di molte malattie è stata trovata l'origine e la cura, così, per

citarne alcuni, il Morbo del legionario adesso si nomina legionellosi, il Morbo

di Pott, una malattia una volta devastante perché provocava la paralisi totale

o parziale e la consequenziale morte per inedia, adesso si chiama spondilite

ed è trattabile mediante antibiotici. Per continuità ed uso alcune malattie

gravi molto diffuse (Alzheimer, Parkinson), vengono ancora indicate con il

lemma “morbo” anche nei titoli di pubblicazioni scientifiche, ma poi nelle

trattazioni vengono correttamente descritte come malattia o sindrome pur

essendo ancora non totalmente curabili [4].

A chi allora si può dare del “pazzo” o del “matto”? La pazzia, nel linguaggio

comune, è “qualsiasi forma di alterazione, persistente o temporanea, delle

facoltà mentali” [2]. Dalle nuove regole per un linguaggio inclusivo non può

essere accettata la dicitura “pazzo”, né tantomeno “persona con pazzia”. È

consigliato adeguarsi al linguaggio medico-scientifico, dove si parla invece

di infermità, malattia o disturbo mentale, o più specificamente di morbo,

sindrome, psicosi o psicopatia.

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Da uno studio recente risulta che in Italia poco meno del 10% della

popolazione soffre, nell’arco di un anno, di uno dei disturbi mentali più

frequenti (depressione o ansia), poco meno dell’1% soffre di disturbi meno

frequenti. Un altro studio, su scala mondiale, afferma che una persona su

quattro sperimenta nel corso della vita una malattia mentale; questo

significa che probabilmente ognuno nella propria vita avrà a che fare, in

famiglia o al lavoro, con persone con disturbi o malattie mentali. Tutti prima

o poi ci imbattiamo nella sofferenza psichica. Il nostro modo di approcciarci

alla salute mentale sarà quindi tema del prossimo capitolo.

Per disegnare un quadro il più possibile completo e (speriamo) non

ripetitivo, abbiamo voluto prendere in esame nell’ampia categoria delle

persone con disturbi o malattie mentali solo quattro tipologie di stigmatizzati:

le persone con schizofrenia, le persone con morbo di Alzheimer, le persone

con autismo e le persone con sindrome di Down. La scelta è ricaduta su

queste perché si è voluto ricoprire tutte le età (dal bambino all’adulto, fino

all’anziano), si è inoltre cercato di riportare testimonianze da paesi e culture

diverse, si è voluto mettere in luce come malattie diverse inducano

comportamenti di esclusione diversi e come malattie diverse richiedano

politiche inclusive e incentivino iniziative diverse.

Persone con schizofrenia

La schizofrenia è una patologia mentale caratterizzata da gravi sintomi

psicotici, apatia, ritiro sociale e compromissione delle funzioni cognitive.

Induce deterioramento nell’attività lavorativa, scolastica, familiare e

incapacità da parte del soggetto di prendersi cura di sé, svolgere una vita

indipendente e condurre una buona vita di relazione. (…) Compare tra i 16

e i 25 anni; l’incidenza annuale, simile tra i diversi Paesi, è di circa 1 su

10.000 individui. (…) Le femmine presentano un’età di esordio più tardiva e

un decorso della malattia più favorevole, con minore numero di ricoveri e

migliore funzionamento sociale [2].

Cosa significa essere una persona con schizofrenia? Come viene

rappresentata la persona con schizofrenia dai mezzi di comunicazione?

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Che immagine abbiamo della persona con schizofrenia? La definizione

appena sopra esposta ci chiarisce la natura della malattia, ma non la natura

della persona con quella malattia. Lo psicologo Paul Chadwick, professore

al Dipartimento di psicologia dell'Università di Southampton dipinge la

condizione schizofrenica come “luogo dove si amplifica la creatività, la

sensibilità e l’empatia” [5]. Paul Chadwick è malato di schizofrenia. È un

esempio tra i tanti che spiega come gli effetti di una malattia possono essere

circoscritti entro i confini della salute mentale della persona e non riescono

a influenzare (se non in minima parte) i rapporti della persona malata con

gli altri nella società. Come nascono allora i pregiudizi nei confronti delle

persone con schizofrenia? Perché alle persone con schizofrenia viene

affibbiata l’etichetta o lo stigma di “matto”?

Forse si può ricondurre parte dei pregiudizi nel rapporto stesso che la

persona ha con la propria malattia. Generalmente chi è malato si vergogna

della malattia e si nasconde, si considera debole di carattere, così debole

da “arrendersi” alla malattia (concezione purtroppo diffusa anche tra chi

osserva dall’esterno); nella percezione comune, soffrire di una patologia

mentale equivale a valutarsi negativamente rispetto agli altri. Superare lo

scoglio dell’autovalutazione negativa sarebbe un rilevante passo in avanti:

chi non prova vergogna di sé stesso riesce ad aprirsi più facilmente agli altri.

Questo assume notevole importanza nelle fasi iniziali della malattia, nella

quale il precoce riconoscimento dei sintomi e la valutazione di un medico

psichiatra consentono un accesso migliore e anticipato alle cure e una

maggiore probabilità di superamento rapido della condizione di malattia.

Se c’è un motivo per il quale le malattie mentali incutono paura è la loro

“originalità”: di gran parte di esse non si conoscono le cause, non esistono

marcatori biologici che le individuano e non si può quantificare il rischio di

svilupparle. Questa mancanza di conoscenza è senz’altro una delle cause

che portano alla stigmatizzazione. Il rischio è valutare e valutarsi “pazzo”

alla comparsa di un solo sintomo, magari nemmeno grave, e costruire la

tragica evoluzione di una malattia mentale incurabile che, con ogni

probabilità, non si svilupperà.

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La mancanza di conoscenza favorisce l’affermarsi di idee distorte e

pregiudizi. In tal senso, in che modo operano i mezzi d’informazione? Male.

In quali casi si sente parlare di persone con malattie mentali? Nei casi di

cronaca nera: “ha ucciso perché depresso”, “è stato un raptus di follia”.

Un’indagine inglese del 1996 rivela che il 66% delle malattie mentali

rappresentate in televisione è associato a fatti di violenza. In realtà i crimini

commessi da persone con malattie mentali sono sporadici rispetto alla

totalità delle persone con malattia e inoltre risulta che queste sono più

spesso vittime di reati che autrici di reati. L’immagine della persona con

malattia mentale proposta dai media è quindi falsificata dalla ricerca

dell’audience: fa più ascolti l’omicidio efferato che il servizio d’informazione

medica. Ne risulta una tendenza a pensare che i disturbi psichici siano

qualcosa di cui vergognarsi, che segnano per sempre e che per curarli si

possa fare ben poco. La ricerca medica ha invece confutato queste false

credenze; esistono strumenti efficaci (farmacologici e psicoterapeutici) che

permettono il pieno o il parziale recupero delle capacità sociali e intellettive,

senza dimenticare l’importanza di una diagnosi precoce.

Ma il fattore stigmatizzante più pericoloso è l’emarginazione. Se si

considerasse il malato mentale come un malato qualsiasi, si accetterebbe

il concetto di cura e di soccorso, ma così non avviene: chi soffre di disturbi

psichici viene troppo spesso isolato. Il 13 maggio 1978 la legge 180 della

Repubblica Italiana (detta “legge Basaglia” dal nome del neurologo e

psichiatra Franco Basaglia che la ispirò) decretò la chiusura dei “manicomi”

e stabilì l’eguale diritto di cittadinanza alle persone con disturbi mentali. Il

professor Peppe Dell’Acqua dell’Università di Trieste a tal proposito scrive

“…il malato di mente entra in scena, diventa cittadino cui lo Stato deve

garantire i suoi fondamentali diritti costituzionali, una persona la cui dignità

deve assumere un valore assoluto, un soggetto singolare che pretende

ascolto, cure, attenzioni altrettanto singolari…” [6]. La fine dell’internamento

delle 89mila persone con malattia mentale coincise con la fine

dell’emarginazione negli ospedali psichiatrici, ma non con la fine

dell’emarginazione sociale, che persistette dal 13 maggio 1978 in poi. La

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legge prevedeva infatti la creazione di una rete di centri ambulatoriali e una

progressiva integrazione nella società; le intenzioni però si scontrarono con

lo stigma: la società non era preparata ad accogliere i malati più gravi e

l’onere della cura e dell’assistenza ricadde sulle famiglie, spesso senza

alcun sostegno sociale.

Cosa si può fare allora per abbattere lo stigma e abbandonare i pregiudizi?

Il primo passo potrebbe essere quello di considerare la malattia mentale per

quello che è: una malattia come un’altra, meno grave di altre perché

curabile e associata a risorse solo minimamente esplorate. Darne una

connotazione positiva è un proposito che nelle società industrializzate

occidentali sembra utopistico; eppure in paesi come la Cina, l’India e il

Ghana la malattia mentale è vista come fase della vita in cui la mente lavora

con maggiore creatività. Le allucinazioni uditive, che in occidente vengono

considerate demoniache o persecutorie, in quei paesi vengono collegate a

divinità dispensatrici di consigli o ad amici e parenti morti.

Un altro modo per abbandonare i pregiudizi è dare voce alle persone con

schizofrenia; lo ha fatto Paul Chadwick con i suoi studi, l’ha fatto la

psichiatra Kay Redfield Jamison (affetta da disturbo bipolare), l’ha fatto la

psicologa Marsha Linhear (affetta da disturbo della personalità), lo hanno

fatto alcuni malati di mente con i loro interventi al parlamento del Vermont il

30 gennaio 2014, interventi che convinsero il premio Pulitzer Ron Powers

(padre di due figli con schizofrenia) a scrivere il libro “Chissenefrega dei

Matti”, fotografia della condizione tragica delle cure destinate alle persone

con malattie mentali negli USA.

Ulteriore modo per abbattere lo stigma è cambiare le parole. In Giappone

dal 2002 la parola “schizofrenia” è stata sostituita ufficialmente da “disturbo

dell’integrazione”; da quel momento medici e pazienti hanno affrontato

l’argomento con più leggerezza, le diagnosi precoci sono aumentate e i

trattamenti sono diventati più efficaci.

Il consiglio migliore ci viene però dall’opuscolo informativo “Il pregiudizio

sulla malattia mentale è difficile da scardinare” pubblicato nel 2011 dal

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Ministero della Sanità: “Tratta chi soffre di schizofrenia come vorresti essere

trattato tu. Le cose che servono a queste persone (…): cordialità, amicizia,

la possibilità di frequentare luoghi di incontro aperti a tutti senza sentirsi

discriminati, un lavoro o una attività che li faccia sentire utili. Aiutali a fissare

obiettivi, anche piccoli e a lavorare per raggiungerli, (…), scherza e sorridi

con loro e non di loro…” [14].

Persone con autismo

Nella classificazione del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi

mentali” (DSM) non si fa più riferimento all’autismo “vero e proprio” ma ai

“disturbi dello spettro autistico”, comprendenti anche: sindrome di Asperger,

sindrome di Rett, disturbo disintegrativo infantile e altre. Questa

riunificazione sotto lo stesso spettro avrà i suoi vantaggi, ma probabilmente

complica l’analisi delle singole malattie che sono portatrici di unicità

distintive che non possono essere generalizzate. Per non appesantire il

resto della relazione faremo riferimento alle sole persone con autismo.

L’autismo è una sindrome caratterizzata da vari sintomi, non tutti sempre

presenti nei singoli casi. Tra tali sintomi ricordiamo: comportamento di

autosufficiente isolamento sia nelle attività esteriori, sia nei rapporti emotivi;

assenza o povertà di linguaggio, tendenza ai manierismi o a comportamenti

ritualistici (…); risposte anormali a stimoli sensoriali; perseverazione negli

stessi comportamenti e attività; opposizione ai tentativi di modificare tali

comportamenti “stereotipi”; “isole” di normale capacità mentale in un quadro

di generale insufficienza [7]. Né risulta un quadro complesso della malattia

che, a seconda della presenza o assenza di un dato sintomo, o dell’intensità

dei vari sintomi, conduce il pensiero comune a confondere la condizione di

autismo con altre simili (dello stesso spettro) e confinanti, quali potrebbero

essere certi ritardi mentali (più o meno lievi), oppure condizioni di estrema

timidezza. Generalmente viene diagnosticato attorno ai due anni di vita,

“complisce” meno dell’1% della popolazione mondiale con un rapporto

maschi/femmine di 4/1.

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Qual è l’immagine tipica della persona con autismo? La maggior parte della

popolazione non-autistica risponderebbe in due modi: il bambino seduto in

un angolo che si dondola o sbatte la testa su un muro, oppure Dustin

Hoffman nei panni di Rain Man. Dove sta la verità? Nella prima o nella

seconda? In entrambe? O in nessuna delle due? Sfatiamo una credenza:

Rain Man non ha l’autismo. La vita di Kim Peek alla quale il film si ispira non

è segnata dall’autismo, ma dalla Sindrome del savant (del sapiente), che

non è una forma di autismo, né rientra nei disturbi dello spettro autistico. Si

possono invece legittimamente considerare i comportamenti ripetitivi e

manieristici del bambino che si dondola in un angolo associabili alla

condizione autistica, mentre è esagerato associarne l’autolesionismo. Ma è

totalmente sbagliato fermarsi sulle apparenze del comportamento

osservabile, che rischiano di creare stereotipi attorno alla sindrome autistica

e false credenze sulle capacità sociali delle persone con autismo.

È una credenza comune che il bambino con autismo non parla. Sbagliato!

È vero invece che alcuni posseggono un linguaggio verbale, altri lo

sviluppano in ritardo oppure in modo incompleto o inappropriato. Chi invece

non riesce a sviluppare un linguaggio verbale può imparare a comunicare

con altri strumenti; è stato appurato come l’utilizzo dell’iconografia (in

special modo fotografie) aiuti il bambino ad avere una visione più chiara,

comprendere meglio e rispondere (nel senso di reagire) al significato del

contenuto della fotografia.

È una credenza comune che il bambino con autismo non vuole comunicare

con gli altri. Sbagliato! La maggior parte delle volte non sa come comunicare

con gli altri, non possiede le abilità comunicative, ma lo vuole.

Gola con lacci impedisce uscita parola richiesta per

scolastica riuscita [8]

Ad aver detto questa frase, in riferimento ai suoi anni scolastici in tenera

età, è stato Pier Carlo Morello attraverso la tecnica della “comunicazione

facilitata”, un mix di supporto tecnologico (un computer) e supporto umano

(uno psicologo facilitatore adeguatamente formato). La “comunicazione

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facilitata” non ha permesso al Pier Carlo Morello solamente di esprimere

questa frase, ma gli ha permesso anche di scrivere un libro pieno di frasi e

prima ancora una tesi di laurea piena di frasi per ottenere e meritare la

laurea in Scienze umane e pedagogiche all’Università di Padova a 33 anni.

Il suo esempio è stato seguito da Andrea Terrin che all’età di 25, nel marzo

2018, ha conseguito la laurea in Scienze dell’Educazione e della

Formazione. Loro ci insegnano che “autistico” non equivale a “stupido”, ma

non bisogna nemmeno credere che “intelligente, competente” equivalga a

“non autistico”, è pregiudizio anche questo: quando i genitori di Pier Carlo

iscrissero il figlio all’Università, l’Usl volle togliergli i 400 euro di

accompagnamento affermando che chi va all’università non può essere

autistico. Servirono altri accertamenti per convincere l’Usl che il loro figlio

aveva ancora l’autismo.

È una credenza comune che il bambino con autismo è chiuso nel suo

mondo e non vuole essere toccato. Sbagliato! Solo ad alcuni non piace

essere toccati, ma per molti il contatto fisico è piacevole e molto divertente

e gradiscono il gioco fisico. Lo sport è basilare; i bambini autistici hanno

necessità di scaricare la tensione quotidiana. Possono presentare una

coordinazione motoria precaria e talvolta non sono capaci a svolgere

semplici movimenti, ma si sono riscontrati benefici comportamentali nella

pratica della corsa, dell’equitazione e persino nelle arti marziali. Nell’ottica

dei miglioramenti comportamentali e dei diversi strumenti d’espressione si

inserisce l’utilizzo della musica; la pratica del pianoforte ha, per esempio,

dato un senso alla vita di Carlo De Liso, oggi 26enne, che durante la sua

esistenza si è scontrato con il rischio di finire (come molti) nei centri diurni

per persone con disabilità e con l’incapacità di alcune scuole di accoglierlo,

ma è riuscito a trovare la sua strada nel Conservatorio di Matera, nelle

domeniche in chiesa, nelle esibizioni in concerti, convegni ed eventi [9].

Il bambino con autismo non migliorerà mai e da adulto non lavorerà mai.

Sbagliato! Sui miglioramenti comunicativi e i successi accademici ottenuti

attraverso la “comunicazione facilitata” ne abbiamo già parlato. Ci sono poi

interventi educativi che consentono miglioramenti nell’interazione sociale e

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nell’autonomia del bambino e dell’adulto con autismo. Ci sono infine

testimonianze valide di persone con autismo inserite nel mondo del lavoro;

merito di progetti ad hoc e società specializzate come la danese

“Specialisterne” che in base a valutazioni sulle capacità di attenzione e

memoria inseriscono persone con autismo generalmente nel settore

tecnologico in ruoli quali tester di programmi e app e analisi dei dati. Vi è

poi il progetto PizzAut che ha già consentito l’ingresso, in alcune pizzerie in

tutta Italia, a ragazzi con autismo come camerieri e pizzaioli, prevedendo

l’apertura di un ristorante-pizzeria gestita da ragazzi autistici a Monza [9].

Altre due false credenze, o fake news, accompagnano l’autismo o, meglio,

la sua diffusione nella società contemporanea. Una è la presunta “epidemia”

di autismo, un aumento anomalo di diagnosi (più o meno decuplicate tra il

1987 e il 2000 in 13 nazioni studiate). La spiegazione è semplice: i tassi

d’incidenza del disturbo non è cambiata di molto; ciò che è cambiato è la

facilità nella diagnosi, unita alla diffusione più ampia dei migliori strumenti

di valutazione. L’altra bufala riguarda la correlazione tra vaccini e autismo.

A lanciare l’allarme fu il medico inglese Andrew Wakefield nel 1998

attraverso i suoi studi pubblicati sul Lancet; nel 2010, in seguito a una

inchiesta, lo stesso Wakefield ammise di aver falsificato i dati. Ciò non fu

sufficiente ad arrestare le proteste delle correnti di pensiero Novax.

Persone con morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer, con 600mila malati in Italia, rappresenta il 50-80%

dei casi di demenza (termine generale che si riferisce alla perdita di

memoria e di altre abilità intellettuali talmente grave da interferire con la vita

quotidiana). Il morbo di Alzheimer non rappresenta un normale elemento

dell’invecchiamento, anche se il massimo fattore di rischio conosciuto è

rappresentato dall’aumentare dell’età e la maggior parte delle persone

affette dal morbo di Alzheimer ha 65 e più anni. Tuttavia, il morbo di

Alzheimer non è solo una malattia della vecchiaia. Fino al 5% delle persone

che soffrono di questa malattia riscontra un’insorgenza precoce del morbo

di Alzheimer (noto anche come “insorgenza anticipata”), che spesso appare

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quando una persona ha tra i 40 e 50 anni, o tra i 50 e 60 anni. Il morbo di

Alzheimer è una malattia progressiva, nella quale i sintomi di demenza

peggiorano gradualmente in un certo numero di anni. Nelle sue fasi iniziali,

la perdita di memoria è leggera; tuttavia, in fase avanzata, le persone

perdono la capacità di portare avanti una conversazione e di reagire nel loro

ambiente. Chi ne soffre vive in media 8 anni dopo che i sintomi diventano

evidenti agli altri; tuttavia, la sopravvivenza può variare da 4 a 20 anni, a

seconda dell'età e di altre condizioni di salute. Attualmente, il morbo di

Alzheimer è incurabile, tuttavia sono disponibili dei trattamenti per i sintomi.

Anche se gli attuali trattamenti del morbo di Alzheimer non possono fermare

la sua progressione, essi possono rallentare temporaneamente il

peggioramento dei sintomi della demenza e migliorare la qualità della vita

delle persone affette e di chi si occupa di loro [15].

L’uomo è spaventato da ciò che è diverso da lui. E la sua reazione più

istintiva alla paura è l’attacco finalizzato all’eliminazione della causa di

questa paura. Alla base del problema c’è l’Ego, inteso come entità capace

di generare l’Egoismo. È nell’ambito di questo microcosmo dell’Egoismo

che il malato di Alzheimer, e più in generale la persona con demenza,

insieme con altre categorie appartenenti alle più disparate minoranze, si

trova a dover vivere, anzi a sopravvivere. Queste “sottocategorie” sono tali

perché non appartengono alla maggioranza, che proprio al fine di

categorizzarle ha affisso loro, per comodità ma soprattutto per ignoranza,

una etichetta “Stigma” [10].

Sulle persone con morbo di Alzheimer aleggiano diversi pregiudizi; uno

riguarda i familiari al momento dell’apparizione dei primi sintomi.

Un’indagine dell’Alzheimer’s Foundation of America e condotta su 539

cittadini che si occupano di persone affette dalla grave malattia

neurodegenerativa ha stabilito che il rifiuto di accettare la malattia ne ritarda

la diagnosi di anche 6 anni; ciò impedisce di pianificare il proprio futuro, di

usufruire dei trattamenti disponibili, ciò rappresenta un danno alla ricerca

delle cure per fronteggiare l’Alzheimer che chiedono di studiare anche

persone nelle fasi iniziali della malattia. Secondo un’altra indagine

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americana [11] il 24% delle persone con demenza nasconde la propria

diagnosi citando come ragione lo stigma. Allora come nasce lo stigma delle

persone con morbo di Alzheimer?

Lo stigma nasce innanzitutto dall’uso di un linguaggio sbagliato, sul ricorso

indiscriminato a termini allarmistici e distruttivi (“morbo ladro di ricordi e

personalità”) che aggravano gli aspetti negativi della demenza e trasforma

i malati e i loro familiari in vittime impotenti. Lo stigma si basa su un “circolo

vizioso” di disinformazione e pratiche assistenziali negative: “il pregiudizio

più diffuso è che la malattia di Alzheimer sia una malattia psichiatrica e che

il malato sia semplicemente “fuori di testa”. Questo fa sì che spesso si

mettano in atto comportamenti o si assumano atteggiamenti inadeguati che

provocano reazioni che spesso vengono male interpretate: si crea così un

circolo vizioso che alimenta lo stereotipo fuorviante (ma ben radicato!!!) del

malato di Alzheimer che non sa quello che fa [12]”, e ancora “un altro

pregiudizio diffuso è che la relazione con un malato di Alzheimer sia

unidirezionale: chi assiste si muove intorno al malato come si muovesse

intorno a un essere inanimato, dispensando azioni, gesti e parole senza

aspettarsi nulla. Ma soprattutto, senza attribuire alcun significato a ciò che

arriva dal malato: se urla, sorride, è aggressivo, non reagisce… tutto rientra

nella sintomatologia e quindi non ha significato. Chi invece la malattia la

vive da dentro (e questo non capita solo ai familiari) sa che la realtà è ben

diversa”.

Cosa serve allora? Serve maggiore consapevolezza della malattia, non solo

in termini medici, ma anche e soprattutto dal punto di vista dei diritti e della

dignità umana. Il rischio serio è che all’angoscia generata dai sintomi si

sommino le conseguenze di una emarginazione decretata dalla società che

si rifiuta di riconoscere dignità e diritti a chi si ammala. Il rischio si è palesato

e continua a palesarsi in casi di abbandono, maltrattamenti, sevizie, stupri,

segregazioni. Per superare il pregiudizio servono delle raccomandazioni,

come quelle pubblicate dall’Alzheimer’s Disease Intrenational (10 in totale),

delle quali la prima dice «educare l’opinione pubblica», la quarta dice

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«riconoscere i diritti delle persone con demenza…», la decima «potenziare

la ricerca su come affrontare e superare il pregiudizio».

Persone con sindrome di Down

La sindrome di Down è un’anomalia di origine cromosomica che presenta

caratteristiche fenotipiche riconducibili a un quadro clinico abbastanza

tipico, descritto per la prima volta dal medico inglese J.L.H. Down (1828-

1896). La sindrome è dovuta alla presenza, nel corredo cromosomico di

tutte le cellule, di un cromosoma soprannumerario della coppia 21 (trisomia

21). (…) Caratteristiche sono le pliche palpebrali oblique, che richiamano

quelle di alcune popolazioni orientali [2]. I sintomi variano da persona a

persona, da lieve a grave. Lo sviluppo fisico è spesso più lento di quello

normale. La maggior parte dei bambini con sindrome di Down non

raggiungono mai l’altezza media degli adulti. I bambini possono anche

avere un lieve ritardo mentale e nello sviluppo sociale. Diverse condizioni

mediche sono presenti in bambini nati con la sindrome di Down, come:

difetti di nascita che coinvolgono il cuore (difetto del setto atriale o del setto

ventricolare); problemi agli occhi (cataratta); blocchi gastrointestinali;

problemi di udito; dislocazione dell’anca; apnea del sonno; ipotiroidismo. I

bambini Down hanno anche un rischio più elevato di contrarre leucemia

linfocitica acuta.

Il quadro sintomatologico della persona con sindrome di Down si presenta

quindi complesso e coinvolgente non solo le funzioni mentali, ma anche

funzioni neuro-muscolo-scheletriche e correlate al movimento, funzioni del

sistema cardiovascolare e dell’apparato respiratorio, funzioni dell’apparato

digerente, funzioni sensoriali, funzioni della voce, funzioni riproduttive [13].

Per questi motivi è improvvido definire la sindrome di Down come malattia

mentale, ma è più opportuno considerarla una condizione in cui

un’alterazione genetica influisce sull’esecuzione di molte funzioni. Ci

sembra quindi doveroso rintracciare gli stereotipi legati alle persone con

sindrome di Down senza limitarci alle ripercussioni sul pensiero comune dei

soli disturbi mentali ma considerando la natura complessiva della persona,

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l’essere una persona con sindrome di Down. Per fare ciò ci siamo avvalsi

delle chiarificazioni dell’Associazione Italiana Persone Down (AIPD) [16].

Primo stereotipo: i bambini con sindrome di Down sono tutti uguali

(affettuosi, amanti della musica, biondi ecc.). Realtà: non è così. Le uniche

caratteristiche che hanno in comune sono un cromosoma in più rispetto agli

altri (47 invece che 46), un deficit mentale e alcuni aspetti somatici. Per il

resto, ogni persona con sindrome di Down è diversa dall’altra. Le differenze

dipendono da fattori costituzionali, dal tipo di educazione ricevuta in famiglia

e a scuola, dalla presenza o meno di servizi specifici sul territorio.

Secondo stereotipo: sono sempre felici e contenti. Realtà: è lo stereotipo

più comune. Come per chiunque altro, la serenità di un bambino, di un

adolescente, di un adulto con sindrome di Down è legata al suo carattere,

all’ambiente e al clima familiari, alle sue attività sociali e dunque alla qualità

della sua vita. Una persona con sindrome di Down manifesta in modo molto

esplicito le sue emozioni (felicità, tristezza, gratitudine, ostilità, tenerezza

ecc.) e qualsiasi comportamento affettivo.

Terzo stereotipo: esistono forme lievi e forme gravi di sindrome di Down.

Realtà: il grado di ritardo mentale non dipende dal tipo di trisomia (anche se

esiste una forma rarissima – “mosaicismo” – in cui il ritardo può, ma non

sempre, essere lieve). Le differenze tra una persona con sindrome di Down

e l’altra dipendono dai fattori di cui sopra.

Quarto stereotipo: non vivono a lungo. Realtà: la durata della vita è

aumentata enormemente. Oggi, grazie al progresso della medicina, l’80%

delle persone con sindrome di Down raggiunge i 55 anni e il 10% i 70 anni.

Si stima che in un prossimo futuro la sopravvivenza raggiungerà quella della

popolazione generale.

Quinto stereotipo: possono eseguire solo lavori ripetitivi che non implichino

responsabilità. Realtà: sono sempre più numerosi gli esempi di persone con

sindrome di Down che – grazie a un inserimento mirato – possono svolgere

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lavori su macchinari complicati, che possono risolvere problemi nuovi con

creatività e mantenere il posto al di là di ogni precedente aspettativa.

Sesto stereotipo: sono ipersessuati oppure eterni bambini privi di interessi

sessuali. Realtà: gli adolescenti con sindrome di Down non differiscono

sostanzialmente dagli altri né per quel che riguarda l’età d’inizio della

pubertà né l’anatomia degli organi sessuali. Provano desideri e hanno

fantasie sessuali come gli altri loro coetanei. Vi sono ancora incertezze sulla

capacità riproduttiva del maschio con sindrome di Down. Sappiamo che la

sua fertilità è molto ridotta, anche se si conosce il caso di un uomo con

sindrome di Down che ha avuto un figlio. Le donne sono perlopiù fertili.

Settimo stereotipo: hanno genitori anziani. Realtà: attualmente il 75% circa

dei neonati con sindrome di Down ha genitori sotto i 35 anni (il dato è legato

alla differente distribuzione dei nati nella popolazione: nascono in assoluto

più bambini da donne giovani che da donne anziane, quindi anche se la

possibilità di avere un bambino con sindrome di Down per una donna

giovane è più bassa, in numeri assoluti ci sono più bambini con sindrome di

Down figli di coppie giovani).

Ottavo stereotipo: sono incapaci di avere rapporti interpersonali che

possano portare ad amicizia, fidanzamenti o matrimoni. Realtà: l’affettuosità

delle persone con sindrome di Down è selettiva e intelligente. L’inserimento

scolastico nel nostro paese ha permesso nell’età scolare un inserimento

sociale soprattutto nell’età in cui le amicizie vengono almeno in parte gestite

dai genitori. Tuttavia, l’adolescenza coincide con il periodo della vita di un

giovane con sindrome di Down nel quale i compagni, gli amici e anche i

fratelli cominciano ad allontanarsi e a includerlo sempre meno nelle loro

attività: quando desidera (e avrebbe bisogno) di staccarsi dal suo nucleo

familiare, la sia unica alternativa è di stare a casa o uscire solo con i genitori.

In questa età è più facile che rapporti affettivi e amicizia possano nascere

in condizioni “alla pari”, con interessi e capacità di comunicazioni simili. È

stato verificato che tra persone con sindrome di Down o problemi analoghi,

possono nascere amicizie e fidanzamenti. Ci sono anche alcuni casi, anche

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se molto rari, di matrimonio in cui la coppia è in grado di vivere da sola in

modo relativamente autonomo. Stare insieme tra pari non significa un

ritorno all’emarginazione, ma avere la possibilità di avere amici con cui

svolgere varie attività.

Nono stereotipo: non sanno di avere una disabilità intellettiva. Realtà: un

bambino con sindrome di Down è in grado di capire fin da quando è piccolo

la propria diversità rispetto ai compagni e ai fratelli. Il suo rapporto con la

propria disabilità sarà tanto più sereno quanto più i genitori riusciranno ad

affrontare con lui il discorso sui problemi connessi alla sindrome,

sottolineando le sue capacità e i suoi limiti ed aiutandolo ad acquisire un

senso di autostima.

Decimo stereotipo: dovranno sempre vivere con i genitori e poi con i fratelli.

Realtà: una persona con sindrome di Down desidera fin dall’adolescenza

rapporti alternativi a quelli esclusivi con i familiari. È necessario quindi

potenziare le iniziative di aggregazione volte a favorire l’affermazione di una

vita adulta relativamente autonoma dalla famiglia quali, ad esempio,

comunità alloggio e case-famiglia, ancora molto scarse in tutto il territorio

nazionale.

Conclusione

Il pensiero è condizionato dagli schemi mentali. Gli schemi hanno il pregio

di semplificare e velocizzare il ragionamento. Quando di ragiona sulle

persone si attua inevitabilmente la categorizzazione, una divisione netta tra

quelli appartenenti a una data categoria e quelli esclusi da quella stessa

categoria. La categoria delle persone con disturbi o malattie mentali ha

subito e subisce in continuo atti di discriminazione volontari o involontari ad

opera di chi afferma la propria piena salute mentale. Quindi, per questi, la

salute mentale è la caratteristica discriminante, “o ce l’hai o non ce l’hai” e

non possedere quella caratteristica significa essere un individuo di serie B.

Con questa relazione abbiamo voluto affermare il principio dell’uguaglianza

sul piano sociale, il principio del diritto di godere degli stessi diritti universali

e il principio dell’unicità della persona, unicità che abbisogna di cure e

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assistenze particolari, unicità in cui si riconoscono abilità e capacità

particolari e inimitabili.

Bibliografia

1. “Il pregiudizio sulla malattia mentale è difficile da scardinare”,

opuscolo informativo del Ministero della Salute, 2011

2. Treccani

3. Il Sabatini Coletti - Dizionario della Lingua Italiana

4. Wikipedia

5. “La terapia cognitiva. Per i deliri, le voci e la paranoia”, Paul

Chadwick, Max Birchwood, Peter Trower

6. “Chissenefrega dei Matti”, Ron Powers, 2018

7. “Psicologia dell’Handicap”, pag.131, Rosemary Shakespeare, 1979

8. “Famiglia Cristiana” del 23 agosto 2016 - Comunicativo, poetico,

anticonvenzionale Pier Carlo Morello: «Autistico a chi?»

9. “Il Fatto quotidiano” del 2 aprile 2018 – Carlo e la musica

10. “Notiziario della Federazione Alzheimer Italia”, editoriale – anno 26,

numero 55

11. “World Alzheimer Report” dell’Alzheimer’s Disease International

12. “L’operatore e il paziente Alzheimer, Manuale per prendersi cura del

malato”, prefazione, Raffaella Galli e Mariarosaria Liscio, 2007.

13. “ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della

Disabilità e della Salute” dell’OMS

Sitografia:

14. https://www.ministerosalute.it

15. https://www.alz.org/

16. https://www.aipd.it

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TOSSICODIPENDENZA E STEREOTIPI

A cura di Sara Gulotta

“Ogni uomo però non è soltanto lui stesso è anche il

punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante,

curioso, dove i fenomeni del mondo si incrociano una

volta sola, senza ripetizione.”

(Hermann Hesse)

All’interno di questa parte di argomentazione verrà trattato il fenomeno della

tossicodipendenza visto come qualcosa che non riguarda solo il singolo ma

un’intera comunità. La tossicodipendenza come costruzione sociale

soggetta anche a dinamiche di etichettamento e stereotipi. La trattazione si

articolerà in tre fasi.

Nella prima parte si farà una sintesi di quella che è la panoramica italiana

attuale cercando di fornire dati relativi a consumi e popolazione. Nella

seconda si affronterà la questione da una prospettiva storica, mostrando

attraverso documenti datati l’evoluzione del consumo e della valenza

sociale delle sostanze psicoattive. Per finire verrà affrontata la percezione

sociale del tema e lo stigma odierno.

La tossicodipendenza in Italia

I dati che verranno illustrati sono stati presi dalla relazione annuale al

parlamento dell’anno 2017 sullo stato della tossicodipendenza in Italia. Tale

relazione è stata curata dal dipartimento per le politiche antidroga che si è

avvalso del supporto tecnico dell’Istituto di fisiologia clinica del CNR.

Secondo questo documento ci sono stati mutamenti radicali all’interno dello

scenario italiano per quanto riguarda il consumo di stupefacenti. Da una

parte, infatti, esso risulta stabilizzato per quanto riguarda sostanze che si

erano cominciate a diffondere nel decennio scorso e, dall’altro lato I

consumi di alcune altre droghe sono diminuiti anche a fronte del radicarsi di

progetti di prevenzione e trattamento. Con l’incremento degli interventi

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statali in questo ambito si può dire che in linea generale i quantitativi totali

di sostanze sequestrate e utilizzate sono diminuiti.

Tuttavia, possiamo trovare un incremento del consumo di alcune sostanze

specifiche rispetto ad altre.

Prima di continuare nella trattazione vorrei appellarmi a quella corrente della

criminologia che si ritiene critica nei confronti della veridicità del dato

statistico per quanto riguarda fenomeni legati a reati o comportamenti

devianti. Il tasso di denunce e soggetti che hanno fatto uso e abuso di

sostanze, come quelli che si sono recati nei centri per fruire di un percorso

di riabilitazione non possono essere considerati come un dato

completamente certo. Infatti, esso dipende da quante persone hanno voluto

denunciare, quanti hanno deciso di riabilitarsi e quante sono state

segnalate. Senza contare che vi è una “selezione a priori “legata a quali

sostanze sono considerate legali e quali no. Cosa è considerato dal

legislatore reato e cosa no. Tutto ciò può compromettere in linea non

indifferente il dato statistico che non tiene conto del cosiddetto “Numero

oscuro”, ossia di tutte quelle variabili e quegli atti che non sono riusciti per

varie ragioni a essere inclusi all’interno delle statistiche ufficiali [6].

Cannabis sempre più diffusa

Secondo i dati ufficiali, in termini di quantità, la cannabis rappresenta la

percentuale più ampia tra le sostanze illecite presenti sul mercato

nazionale. L’attività di contrasto risulta sempre più complessa, questo

perché si mostra aumentato non solo il numero di paesi da cui si effettua

importazione ma anche la produzione sul territorio nazionale.

Il 90% delle sostanze sequestrate corrisponde a cannabis della quale l’80%

risulta uso personale. Essa è la sostanza più in uso non solo tra i giovani

ma anche negli adulti. Almeno una volta nel corso della vita si stima che un

terzo della popolazione abbia usufruito della sostanza. Si registra inoltre, un

notevole aumento riguardo la disponibilità di prodotti derivati della cannabis

nel quale varia molto anche la quantità di principio attivo.

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Il dato risulta preoccupante se si pensa che circa 90.000 studenti riferiscono

un uso pressoché quotidiano e quasi 150.000 sembrerebbe farne un uso

spropositato e problematico. Tuttavia, l’utenza in carico ai servizi per

dipendenza da cannabis risulta coprire solo l’11% totale dell’utenza trattata.

I ricoveri ospedalieri da imputare a questa stanza da presentano solo il 12%

di quelli correlati a droga.

Spice e NPS nuove droghe in monitoraggio

Sotto questa sigla rientrano i cannabinoidi sintetici, essi rappresentano il più

largo gruppo di sostanze monitorate in Europa dai sistemi di allerta

nazionale. Questi prodotti sono interamente chimici e si presentano come

misture di erbe. Questi prodotti offrono una grande varietà di tipologie con

differenti composizioni chimiche che non solo le rendono pericolose ma

anche difficilmente identificabili. Infatti, per questa famiglia di droghe

appena le autorità riescono a rilevare e inserire nel bando quella sostanza

come il legale già è disponibile nel mercato lo stesso prodotto con una

composizione chimica leggermente modificata.

Esse sono particolarmente monitorate poiché non si sa molto del loro

funzionamento sull’organismo e degli effetti a livello di salute. Le spice sono

in commercio da circa un decennio e questo rende ancora poco conosciuta

la loro incidenza sull’organismo, tuttavia sono la seconda sostanza

stupefacente più utilizzata a livello italiano soprattutto tra i giovanissimi.

Le NPS sono nuove sostanze psicoattive (es. mefredone, ketamine e

oppiacei sintetici), disponibili soprattutto grazie al mercato del Web, di cui

però non si conoscono quasi per nulla effetti e non sempre sono comprese

all’interno del catalogo di sostanze illegali, molte riescono a nascondersi

sotto la dicitura di farmaci.

Minori e sostanze psicoattive

I minori che fanno consumo di sostanze costituiscono una popolazione che

necessita di particolare attenzione, questo perché spesso chi inizia in età

precoce ad utilizzare sostanze psicoattive ha molte più probabilità di farne

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un uso problematico durante l’età adulta, inoltre vi è anche un rischio per

l’incolumità della persona in quanto l’utilizzo di droghe è spesso fatto in

maniera esplorativa e priva di cautela.

Molti minori risultano ricoverati per conseguenze derivate dall’uso di

sostanze, ma quello per la salute non è l’unico rischio in cui questi giovani

incorrono. Infatti, nell’ultimo anno sono aumentate le denunce per

precedenti giudiziari aperti a carico dei minori nonché il numero di minori

affidati ai servizi sociali e alla giustizia minorile per reati di droga o correlati.

A fronte di questo fenomeno si deduce che la prevenzione soprattutto

scolastica possa essere comunque sempre uno tra gli strumenti più efficaci.

Ragazze e droghe

Tra le dinamiche più nuove nel mondo delle sostanze illegali è il crescente

numero di donne che fanno uso costante di sostanze.

Storicamente il genere femminile è risultato più orientato verso una

percezione del rischio correlato all’uso di stupefacenti.

Negli ultimi anni si rileva un’attitudine opposta.

È aumentato sia il numero di donne che in vita studentesca fa uso di

sostanze psicoattive sia quello di coloro che utilizzano droghe ad alto rischio

o ne fanno un uso rischioso come può essere quello della poliassunzione o

quotidiano.

Secondo quanto riportato dai centri che offrono servizio per le dipendenze

la maggior parte di loro è sotto trattamento per uso di oppiacei. Aumentata

anche l’età in cui le donne decidono di denunciare la propria situazione e

chiedere aiuto. Si è registrato inoltre, sempre nel dato femminile, una

preoccupante aumento dei casi di HIV.

In linea generale quindi, nonostante la propensione attuale delle donne

caratterizzate da consumo, denunce, arresti e trattamenti sia comunque

inferiore rispetto a quella maschile è sicuramente in aumento [1].

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Per iniziare percorsi di recupero e tutelare la loro salute sono attivi in Italia i

servizi per la tossicodipendenza corrispondenti alla sigla di ser.T.

Inseriti nel territorio sono stati pensati quasi principalmente per il contrasto

della dipendenza da eroina. Anche se attualmente stanno ampliando il

servizio ad altri tipi di sostanze.

Fino a qualche decennio fa la formazione degli operatori e la maggior parte

del loro operato era orientato intorno all’eroina, ma negli anni il fenomeno

della dipendenza patologica e della modalità di diffusione uso di sostanze

si è evoluta. Pertanto, anche le istituzioni stanno cercando di rispondere alle

nuove istanze.

Ciascuna di queste sostanze e il loro relativo consumo è stato visto e

connotato nel tempo in maniera assai differente. Esse però aldilà del luogo

e dell’epoca vengono scelte perché rispondono ad un bisogno che può

essere individuale o di gruppo: possibilità di migliorare le proprie

prestazioni, trasgressione, piacere, facilitare relazioni interpersonali, auto

terapia curativa, alterazioni del sé, estraniazione.

Pertanto, con il passare dei secoli e dei decenni abbiamo assistito alla

comparsa e diffusione di sostanze psicoattive di vario genere che non solo

rispondevano a nuove esigenze di mercato ma soprattutto nuove

circostanze comunitarie [3].

Sostanze psicoattive nella storia

Lo studio delle pratiche religiose e magiche mostra che in molte società che

ci hanno preceduto la modificazione del proprio stato di coscienza

occupasse un posto di privilegio. Ragionare su questi concetti ci aiuterà a

capire come la stigmatizzazione e l’utilizzo negativo che oggi si fa delle

sostanze psicoattive sia in realtà una cosa moderna.

Era presente nelle civiltà precolombiane, nelle tribù della Siberia, nei riti

sacri dell’antica Grecia, in pratiche magiche ancora oggi vigenti in alcune

località amene del pianeta.

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Si può modificare la propria coscienza con l’uso abituale di sostanze

psicotrope, e se non sono per forza tra quelle appartenenti al nostro

decalogo di droghe, alcune possono essere estratti di fiori, bacche o altri

elementi naturali.

Quando l’utilizzo di sostanze si abbina ad un rituale, lo scopo è quello di

stabilire un legame con un’altra dimensione (divina, degli spiriti, degli

antenati, di una coscienza del sé più illuminata etc..).

Questa altra realtà risulta al di fuori dell’esperienza quotidiana e non può

essere raggiunta in altro modo senza modificare la propria coscienza.

Finché questa pratica ha conservato una dimensione religiosa, la droga non

ho mai costituito un problema, né a livello individuale nel sociale.

Non esisteva pertanto alcuno stigma negativo legato a questi

comportamenti. Anzi in molte situazioni erano le persone predilette,

sciamani, capi religiosi e politici che attraverso questa peculiarità di entrare

in contatto con altri piani di realtà affermavano il loro prestigio e il loro potere

sociale.

Oggi invece la drogata rappresenta un problema, è difficile capire come e

quando lo sia diventato.

Forse con l’età dei lumi, nel quale si sono messi accanto i riferimenti mitici

ed è stata eletta solo la scienza empirica come unica ragione; forse quando

con la secolarizzazione è venuto meno il compito sacro del sacerdote,

oracolo o Shamano a cui era affidato il compito di mediare tra la collettività

e le esperienze legate alla sfera dello straordinario. Forse si è creata questa

stigmatizzazione quando il concetto di peccatore si è legato al mondo della

droga. Oppure quando si è capito che ormai si utilizzavano le droghe non

per scoprire una dimensione differente del sé e quindi seguire un desiderio

di conoscenza, ma si utilizzavano per la paura di vivere e per rifiuto della

realtà.

La costruzione di uno stereotipo affonda le sue radici troppo in profondità

della storia dell’uomo perché possiamo districarli in poche pagine.

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Verranno mostrate ora di seguito alcune date con i rispettivi avvenimenti o

documenti nel quale si testimonia l’uso di sostanze e si evince il significato

individuale e sociale che ad esse veniva attribuito.

5000 a.C. Un documento cinese parla della coltivazione di cannabis per la

produzione di sostanze droganti a scopo medico.

4000 a.C. L’oppio è conosciuto e usato dai Sumeri che indicano la pianta

del papavero con il nome di pianta della felicità, si conosce infatti un

ideogramma che si riferisce a tale sostanza significa gioia, allegria.

3500 a.C. La prima notizia storica della produzione di alcol è la descrizione

di una distilleria di un papiro egiziano.

1500-1000 a.C. Il Rigveda, più antico testo della letteratura indiana, parla di

una bevanda divina, il soma, usata nelle cerimonie liturgiche dai

conquistatori arii. Secondo molti biologi, si tratta dell’Amanita Muscaria, un

fungo delle proprietà allucinogene che cresceva nella valle dell’Indo.

IV secolo a.C. Il filosofo greco Epicuro parla dell’oppio come strumento per

liberare il corpo dei dolori e l’anima dall’ansia.

Il medico Ippocrate lo raccomandava quale sonnifero.

450 d.C. Un antico detto babilonese: “il vino è alla testa di tutte le medicine,

dove manca esso c’è bisogno di droghe”

1090. Il persiano ismailita Hasan fonda la confraternita degli assassini,

costruita sulla cieca obbedienza ottenuta con regolari somministrazioni di

hashish.

1200. Gli Incas conquistano il Perù. Si adeguano all’uso di masticare

cocaina, si stima che le venissero utilizzate 60 g di foglie al giorno per ogni

individuo adulto.

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Dal 1600 in poi, con l’introduzione del tabacco in Europa esso comincia ad

essere visto negativamente e insieme a lui altre sostanze che alterano il

metabolismo.

1650. L’uso del tabacco e proibiti in Bavaria, Sassonia e a Zurigo ma le

proibizioni non portano a una riduzione del consumo.

Il sultano dell’impero ottomano decreta in quel tempo la pena di morte per

chi fuma tabacco ma in un suo scritto si evince che “nonostante tutti gli

oratori di questa persecuzione, la passione per il fumo non viene meno”.

Nonostante questo inizio coercitivo si alterneranno sempre personaggi ed

episodi che incoraggiano al consumo di sostanze.

1680. Un famoso medico inglese, Thomas Sydenham, dichiara: “tra i rimedi

che l’altissimo signore si è compiaciuto di dare all’uomo per alleviare le sue

sofferenze, nessuno è così universale ed efficace come l’oppio”.

Agli inizi del 1700. In Europa il caffè è dichiarato sostanze illegale.

1800. In Cina, a causa del vertiginoso aumento di tossicomani l’imperatore

vietato impostazione dell’oppio.

Prima guerra dell’oppio. Gli inglesi costringono la Cina ad entrare nel

commercio dell’oppio nonostante cinesi lo avessero dichiarato illegale.

1865. La morfina viene usata sistematicamente negli stati uniti durante la

guerra di secessione prima, dopo e durante gli interventi chirurgici. È in

questa occasione che ci si accorge della dipendenza fisica causata da tale

sostanza.

1874. Il ricercatore inglese Wright, riscaldando la morfina con l’anidride

acetica, scopre un altro derivato dell’oppio. Una ditta inglese lo lancia sul

mercato come farmaco miracoloso dell’apparato respiratorio e per curare la

dipendenza da morfina. Per sottolineare l’eccezionalità del prodotto, (che a

parità di peso è 10 volte più potente della morfina), lo chiama eroina.

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1885. Gli Stati Uniti dichiarano fuori legge il consumo: la legge sarà revocata

solo nel 1921. Viene costituita una commissione per studiare le

conseguenze del consumo di oppio, la conclusione della relazione di

concluderà che esso somiglia più alle sostanze alcoliche che non a una

sostanza tossica per cui non è da temere né evitare.

1886. L’esperto di droghe John Pemberton in Atalanta inventa una medicina

brevettata, pubblicizzata poi con il nome di coca-cola, che contiene due

stimolanti presenti natura: caffeina e cocaina.

1894. Viene istituita una commissione da parte del governo inglese sulle

droghe indiane, essa giunge alla conclusione che: “non esiste prova alcuna

a proposito dei danni di tipo mentale e morale che un uso moderato della

canapa indiana potrebbe provocare”.

1898. Viene sintetizzata in un laboratorio della Germania l’eroina,

largamente lodata in quanto “preparato sicuro, privo delle proprietà di

assuefazione”. Alcune fabbriche di coloranti affidano a medici l’incarico di

sperimentare gli effetti di questa sostanza sul genere umano. Dopo sei mesi

veniva introdotto in commercio.

1900. appare un articolo sul Boston medical journal

“L’eroina possiede molti vantaggi rispetto alla morfina (…) Non è una

sostanza ipnotica, non c’è rischio di acquisirne l’abitudine”.

1902. Viene sintetizzata la cocaina.

1903. Viene tolta la cocaina dalla composizione della coca-cola. Fino a quel

momento ne aveva contenuti circa 60mg per porzione da otto once.

1906. Prima atto inglese che impedisce comprare nei negozi medicine

contenenti morfina, cocaina o eroina.

1912. Si svolge all’Aja la prima convenzione internazionale che raccomanda

diverse misure per il controllo internazionale del commercio di oppio e i suoi

derivati (morfina,eroina, codeina) è stata la prima in senso tecnico giuridico.

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1930. In Italia, il decreto del codice penale Rocco disciplina compiutamente

le sostanze stupefacenti e ne punisce il traffico e l’agevolazione dolosa

all’uso.

1954. In Italia, a causa del clamore suscitato da un caso che riguardava la

morte per droga di una giovane donna su una spiaggia viene emanata la

legge numero 1041 che prevede non solo la punizione degli spacciatori di

sostanze stupefacenti ma anche quella dei tossicomani con obbligatorietà

per entrambe le categorie del mandato di cattura.

1974. l’Italia ratifica il protocollo di Vienna nonostante che la

documentazione sulla liceità dell’uso personale dislocazione ti amente in

contrasto con lo spirito vincente nelle leggi del 54.

1988. Il consiglio d’Europa evidenzia la dimensione politica del problema e

propone interventi di carattere repressivo. La convenzione di Vienna,

contemporaneamente, sottolinea il pericolo legato alle droghe per tutta la

società civile [2].

Tossicodipendenza, stereotipi e società

Ad oggi nell’uso corrente e nel vocabolario professionale, il termine

“tossicodipendenza” si riferisce più a una forma di devianza che ad una

malattia. Di conseguenza il termine tossicodipendente si carica di una

valenza di significato che lo inquadra non come un vero paziente, ma

piuttosto come un’identità stigmatizzata. Come tutti gli stigmi solitamente è

un’etichetta applicata contro la volontà della persona.

In quest’ottica la tossicodipendenza assomiglia dunque più ad una malattia

mentale e la persona con tossicodipendenza diviene connotata come la

persona pericolosa, strana, fuori controllo, da evitare.

Una volta che la categoria è stata assimilata dalla società essa non è stata

solamente considerata come vera, ma anche estremamente importante. Gli

spazi in cui queste categorie devianti devono essere confinate si sono

ampliate.

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Dalla fine del settecento discipline come la farmacologia e la psichiatria

sono state accettate come discipline mediche. Da quel momento chimici e

medici, psicologi industriali hanno cominciato a cercare sostanze che non

diano aspirazione per alleviare il dolore, facilitare il sonno e stimolare

l’attenzione. Ogni sostanza che può alleviare dolore, indurre sonnolenza o

aumentare le capacità percettive cerebrali benché venga chiamato farmaco

possiede una radice di principio attivo comune ad alcune sostanze

etichettate come droga.

Quindi se si volesse essere provocatori si potrebbe dire che non esiste una

vera distinzione tra farmaci e droghe, quanto piuttosto droga che non

creano assuefazione e quelle che ne creano.

L’utilizzo o l’astensione dall’assunzione di certe sostanze legato con

prescrizione e proibizione. In senso lato potremmo dire con ciò che è

considerato legale o lecito e ciò che è considerato illecito.

La scienza della medicina moderna genera idee, valori e obiettivi che si

ricoprono di così tanta valenza e autorità scientifica e sociale che potremmo

indicare quasi come una religione. Ciò che è stabilito da un corpo di medici

viene innalzato a sacro quasi quanto ciò che è gestito da un gruppo di

sacerdoti. In questo senso potremmo dire che la medicina può essere

considerata come una religione. Ogni religione pertanto distingue ciò che è

sacro, in questo caso farmaci, da ciò che è impuro cioè le sostanze

psicoattive.

Sempre in questo paragone possiamo notare infatti come alcune persone

cercano di evitare l’alcol e il tabacco, l’eroina e la cocaina mentre altri

cercano di evitare il vino non kasher e la carne haram.

Quando si affronta il problema dell’abuso di sostanze applica un punto di

vista medico una condotta morale.

Secondo Jaffe, l’abuso di droga è una questione di convenzione. È quindi

un problema che riguarda più l’antropologia e la sociologia, la religione e la

legge, l’etica e la criminologia rispetto che la medicina o la psichiatria.

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La sua posizione forte e provocatoria fa notare un punto importante, cioè

quello legato alla costruzione sociale dell’identità di una persona con

problemi di tossicodipendenza. Viene sminuito l’aspetto della sua salute, e

ampliato quello della sua presenza negativa in società [5].

Va sottolineata una questione importante. Ossia che per essere oggetto di

devianza una persona deve essere notata all’interno della comunità mentre

compie atteggiamenti devianti. In questa ottica possiamo notare che le

persone che vengono colte nell’atto di assumere sostanze sono anche

quelle che appartengono a classi più deboli della società.

Difficilmente un ricco industriale, politico, giudice che consuma sostanze

stupefacenti in casa sua senza destare sospetti verrà indagato dalle

autorità. Molto più facilmente indagheranno le tasche di studenti, immigrati

e altre categorie di popolazione più facilmente additabili come colpevoli.

Essi infatti pur consumando sostanze psicoattive restano per esempio

politici indenni che contemporaneamente possono condurre una campagna

efferata contro l’abuso di droga.

Da questo punto di vista la criminologia critica e le scienze sociali, scettiche

del diritto penale, leggono le norme giuridiche come gli artefatti entro cui si

possono costruire capri espiatori e stratificazione sociale in modo da

appendere possibile una costruzione funzionante della società.

Pare quindi che non vi sia una vera ricerca di soluzioni contro il crimine, o

contro l’uso di sostanze psicoattive [6].

Quanto più la necessità di continuare a perpetrare il mito di nemici da cui è

necessario proteggersi per rendere possibile il funzionamento della

comunità.

Come esempio del fatto che la necessità non sia il recupero di persone che

vivono situazioni problematiche, quanto più il mantenimento dello stereotipo

e del capro espiatorio riporteremo il discorso annuale esposto qualche anno

fa dal governatore Rockefeller in un simposio della camera di commercio

degli Stati Uniti.

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“Noi cittadini siamo mandati in galera dagli spacciatori di stupefacenti.

Voglio mettere in galera gli spacciatori, in modo che noi, signori e signore

possiamo uscirne”.

Sempre lo stesso governatore in un articolo enuncia le sue proposte circa i

provvedimenti da adottare nei confronti di coloro che spacciano sostanze:

“aborriamo l’idea medievale di escogitare forme di pena particolarmente

adeguate al criminale condannato (…) tuttavia, mi sembra che non sia fuori

luogo suggerire che la giusta maniera di ripulire il mondo dagli spacciatori

di eroina dichiarati colpevoli sia prescrivere una dose eccessiva. È un modo

di morire umano, se per umano si intende ciò che è relativamente indolore.

Naturalmente c’è una soddisfazione cioè il pensiero che lo spacciatore lasci

questo mondo nelle stesse circostanze nelle quali l’hanno lasciato a causa

sua molte altre persone”.

In Italia fortunatamente non abbiamo esempi così eclatanti di denigrazione

e stigmatizzazione delle persone con dipendenza da sostanze, tuttavia

questi esempi eccessivi ci aiutano a comprendere meglio quanto spesso

l’esistenza di questi stereotipi sia necessaria al mantenimento di un certo

stato delle cose.

Fin dai tempi della mitologia greca era necessario trovare un capro

espiatorio, delle persone da sacrificare per il buon funzionamento della

comunità. La parola greca per indicare le persone sacrificate in quel modo

era “pharmakoi” dal quale puoi deriva la nostra parola farmaco. Poiché con

l’assunzione del farmaco la persona riesce a superare il suo disturbo di

salute. Allo stesso modo, infatti, queste vittime sacrificali erano necessarie

a superare il problema, la calamita che stava colpendo la città.

Risulta parte viscerale della narrazione mitologica delle nostre comunità

avere qualcuno da sacrificare per debellare una colpa o una possibile

catastrofe.

Su questa base quindi stereotipi e pregiudizi sono difficilmente allontanabili

dai contesti sociali, senza che venga fatto uno sposo è un lavoro sulle

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coscienze. Tuttavia, per le sensibilità moderne non è più possibile compiere

dei veri sacrifici, pertanto il meccanismo dello stereotipo del pregiudizio

permette di soddisfare questo bisogno sociale in modalità accettate [5].

Rilevante come possiamo notare che all’inizio degli anni 60 il consumo di

sostanze psicoattive assume una forte valenza trasgressiva. Questo

decennio è infatti caratterizzato dalla contestazione e dal desiderio di

cambiamento che hanno coinvolto un’intera generazione convinta di poter

proporre un modello di vita alternativo. Essi per mostrarsi in antitesi con i

loro genitori e predecessori si rivestivano di simboli e comportamenti

considerati devianti per creare rottura culturale. Questo progetto si

concretizza nella creazione di una controcultura alternativa a quella vigente,

sono infatti esaltati la ricerca del piacere e gli stati alterati di coscienza per

una doppia valenza. Assumere sostanze significava provare dimensioni

esistenziali dimmi leggiate che appagavano il bisogno di uscire da sé stessi

e sconfinare oltre la propria limitatezza. Dalla parte opposta appagavano il

bisogno di risultare controcorrente. Ciò che era allontanato dalla società, in

questo caso le droghe diventava oggetto di uso quotidiano proprio per la

valenza negativa che la società gli attribuiva [3].

Cercando di ragionare sul perché in quegli anni queste sostanze erano così

osteggiate, oltre a problemi di salute che comportavano, cerchiamo di

contestualizzarli all’interno di un percorso storico seguendo il filone della

necessità dei capri espiatori.

Nei primi anni 60, ci troviamo in una generazione successiva a quella che

aveva avuto la meglio sui nemici della seconda guerra mondiale.

Era necessario creare dei nuovi nemici. Le caratteristiche per diventare

“pharmakoi” sono sostanzialmente tre: trovare un soggetto debole a cui

indicare una colpa, prescrivere un rito di purificazione e una caratteristica

tabù correlata a questo rito che deve essere allontanata.

In questo quadro i soggetti con tossicodipendenza si mostrano esattamente

idonei. I percorsi di riabilitazione rientrano infatti in questo tipo di mitologia.

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Nei processi di stigmatizzazione queste persone non vengono viste come

persone che devono essere aiutate a recuperare il proprio benessere,

quanto più come casi persi nocivi per la collettività [5].

L’immagine di sé e la riuscita di un buon percorso

All’interno della costruzione del sé possiamo notare come la teoria

dell’etichettamento ponga centrale il fattore esterno all’individuo. Per creare

la propria identità il soggetto non si avvale solamente della

rappresentazione interna ma anche di quella che gli altri gli attribuiscono.

Pertanto, la persona con tossicodipendenza assume il suo ruolo e lo

definisce deviante, in quanto così viene anche descritto dal gruppo di

appartenenza. In tale prospettiva la narrazione comune che vede

l’esperienza della tossicodipendenza come qualcosa di “perverso, negativo

e anomalo” viene assunto dei soggetti che inquadrano la loro definizione

all’interno di questa immagine [4].

Talvolta, sempre secondo la teoria dell’etichettamento, così come per chi

compie atti di criminalità, anche per chi fa uso di sostanze, la storia della

persona viene completamente stravolta a partire da questo gesto deviante.

L’individuo condizionato dalle aspettative nei suoi confronti, riscrive la

propria storia a partire dall’elemento della droga, che diviene centrale per la

definizione della sua identità. Estrapola ogni altro particolare precedente e

erige l’esperienza della dipendenza da sostanze come unica e centrale

esperienza rilevante della sua interezza esistenza. Ogni azione passata o

futura verrà rimandata a questo elemento. In quest’ottica, si compie una

sorta di auto profezia, secondo cui essendo visto con me “soggetto

deviante, criminale, sporco e drogato” si percepirà come tale e si

comporterà di conseguenza. Questa dinamica incide molto sulle vite dei

soggetti e sul loro recupero.

Diviene molto più semplice arrendersi alla narrazione che li vede

protagonisti di una storia criminosa ed emarginata, piuttosto che recuperare

le proprie risorse positive e cercare di creare percorsi virtuosi per sé stessi

[6].

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Conclusione

Dopo aver messo in luce questo fenomeno sia all’interno del quadro italiano

odierno, sia in un percorso storico globale, possiamo notare come la

percezione sociale delle proprie azioni possa incidere sulla costruzione

della propria identità e sulla qualità della vita che le persone con

tossicodipendenza conducono.

Resta centrale e indiscutibile il fatto che l’abuso di sostanze psicoattive sia

un fenomeno che metta a rischio la salute degli individui e sia doveroso

arginarlo con specifici interventi. Pertanto, questa tesina non vuole

screditare la valenza di questa prospettiva.

Mostrando però la presenza e l’evoluzione che questo fenomeno ha

assunto nel corso della storia, possiamo riflettere come un’azione deviante

sia tale poiché inserita in un luogo in un tempo preciso, al cambiare di

queste variabili muta anche la percezione della tematica.

È stato sottolineato, tuttavia come la discriminazione e la stigmatizzazione

di certi comportamenti possa alimentare il perpetrarsi di certi fenomeni

piuttosto che ridurli.

È stato inoltre discusso come la presenza di categorie sociali deboli al quale

attribuire caratteristiche nocive per la collettività sia non solo un semplice

atteggiamento diffuso poco virtuoso, ma anche una vera necessità al fine di

creare un certo ordine sociale.

Se la tossicodipendenza fosse gestita come una qualunque malattia, le

persone con questa problematica potrebbero forse più facilmente

recuperare una vita sociale dinamica e piena di realizzazione una volta

recuperata la propria salute.

Bisogna chiedersi quindi, dopo quanto discusso se, l’obiettivo fondante che

orienta i percorsi di recupero e di prevenzione contro l’abuso di sostanze

abbia come centralità la dignità e il rispetto inalienabile per la persona in

quanto tale.

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Per riuscire a risolvere il problema della devianza e della criminalità in

genere, forse sarebbe necessario spostare il focus dalla parola devianza e

accenderlo sulla parola persona.

Qualora lo Stato smettesse di essere uno Stato guardiano della sicurezza

e diventasse uno Stato custode del benessere dei propri cittadini, a quel

punto è presumibile supporre che tutte le comunità ne guadagnerebbero in

salubrità.

Sarebbe così più semplice riuscire a rompere le spirali viziose che

alimentano questi fenomeni per crearne di nuove e virtuose al cui centro è

posto l’individuo con il suo più florido e armonioso sviluppo.

Bibliografia

1. RELAZIONE ANNUALE AL PARLAMENTO SULLO STATO DELLE

TOSSICODIPENDENZE IN ITALIA. (2017)

2. De Cataldo Neuburger, L. (1993). Il sistema droga. La costruzione

sociale della tossicodipendenza

3. Felice, A., Delai, N., & D'Agostino, L. (2006). Dipendenze e

mentoring: prevenzione del disagio giovanile e sostegno alla

famiglia/ISFOL; [a cura di Alessandra Felice, Nadio Delai e Luisa

D'Agostino] - [Sl: sn], stampa 2006.

4. Meneghini, G. (1993). Droga, narrazione e retorica:

tossicodipendenza e identità in un gruppo di interviste ad Abbadia

San Salvatore (Doctoral dissertation, Università di Siena, Facoltà di

lettere e filosofia)

5. Szasz, T. S., & Sabbadini, A. (1977). Il mito della droga: la

persecuzione rituale delle droghe, dei drogati e degli spacciatori.

Feltrinelli

6. Vianello, F., & Sbraccia, A. (2014). Sociologia della devianza e della

criminalità. Gius. Laterza & Figli Spa

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INCLUSIONE ED ESCLUSIONE DEGLI ULTIMI

A cura di Federico Vito Maria Marino

Etimologia della parola senzatetto

Prima di trattare gli argomenti cardine di questo elaborato, vorrei iniziare

senso etimologico del termine senzatetto e dei vari sinonimi che esso ha:

chi sono i senzatetto?

“Chi non ha un’abitazione, un alloggio, per indigenza, o perché l’ha

perduto in seguito a calamità naturali o a distruzioni belliche” [1].

Altri modi di definire i senzatetto:

• Clochard = persona che vive per strada

• Vagabondo = che non ha sede stabile, dal latino vagabundus –

vagare, si distingue dal senzatetto perché è più uno stile di vita che

una condizione obbligata da altri fattori.

• Mendicante = colui che va mendicando per le strade

• I sofferenti della strada = così vengono chiamati in Brasile coloro che

errano per le strade delle città.

I tre termini sopracitati sono solo alcuni dei molti modi per definire i

senzatetto, molti dei quali però, sono etichettanti o addirittura volgari come

ad esempio il termine barbone, da cui deriva il fenomeno chiamato

“barbonismo”, che non è solamente limitato a coloro che vivono senza un

tetto, ma anche a coloro che, pur avendo una casa e percependo una

pensione, cadono in un senso di abbandono e trascuratezza, di cui il primo

segno particolare è appunto la barba incolta; questo fenomeno colpisce per

di più gli anziani, che avvertono un senso di abbandono da parte dei propri

famigliari.

La visione degli ultimi nella storia

Il medioevo

I senzatetto sono una realtà sempre esistita, già nel medioevo si parla di

soggetti che vivono “ai margini” delle città, lontani dai monumenti, dal centro

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cittadino e dalle zone aristocratiche poiché creavano disturbo ai cittadini e

a chi veniva da fuori.

Ma l’emarginazione non era dovuta solo al ripudio verso un determinato

gruppo di persone, vi erano infatti motivi politici, geografici e religiosi che

condannavano gli emarginati a non poter avere un contatto con la società,

nonostante il Cristianesimo indicasse esplicitamente di aiutare gli ultimi.

Vi era dunque una forte esclusione verso gruppi di persone come poveri,

lebbrosi, folli, eretici, mendicanti ed ebrei.

In un periodo storico governato da guerre, pestilenze, bancarotte e carestie,

era all’ordine del giorno vivere una discesa sociale poiché non tutti i poveri

sono nati poveri ma, al contrario, molti lo sono diventati proprio per i motivi

citati sopra.

A questi veniva affidato il nome di poveri occasionali, ovvero, che vivono in

una situazione di povertà a causa di una determinata occasione.

Questi avevano la possibilità di abbandonare la propria situazione quando

si modificavano le condizioni che li avevano portati a quello status, ma ciò

non sempre accadeva e la povertà dunque era sempre in aumento.

Come già visto, l’inclusione delle persone in uno stato di povertà nel

Medioevo non era all’avanguardia; negli ospedali i servizi erano ridotti al

minimo sindacale infatti, l’accoglienza era riservata solo agli anziani e agli

infermi, mentre gli altri dovevano dormire o sotto i porticati, o dovevano

ottenere dei soldi per poter pagare l’alloggio nelle case di coloro che li

ricevevano, i poveri moribondi venivano ospitati invece solo per una notte.

Ma le cose peggioravano in tempi di scarsità di cibo; contro i poveri,

venivano emanati ordini di espulsione non appena l’approvvigionamento

veniva a mancare.

La motivazione di tale espulsione era l’essere considerati delle “bocche

inutili”.

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Ma venivano trattati ancora più duramente quando erano stranieri: “in tutte

le civiltà sono oggetto di rifiuto o espulsione da parte dei gruppi sociali

nei quali hanno cercato di penetrare” [2], o quando erano mendicanti e

vagabondi e che quindi stanziavano “in città senza guadagnare nulla” [3]

come imponevano le severe condizioni degli Etablissements de Saint Louis,

o come li definì Giovanni II il Buono, re di Francia (1350 – 1364), imbroglioni

o oziosi.

L’epoca moderna

Il secolo sedicesimo si apre con la nascita di una figura di spicco nell’ambito

dell’inclusione degli ultimi, costui era Filippo Romolo Neri, conosciuto ai più

come San Filippo Neri.

Egli, spogliandosi dei suoi averi, iniziò una vita da eremita dormendo sotto

i portici delle chiese o in ripari di fortuna, egli divenne un ultimo per scelta.

Iniziò ad occuparsi degli infermi abbandonati a sé stessi o affidati a pochi

volontari decise su consiglio di Persiano Rosa, suo padre spirituale, di

fondare la cosiddetta Confraternita della Trinità nella quale poté accogliere

e curare viandanti, pellegrini e povera gente dei borghi romani.

Successivamente, in un granaio sopra la navata della chiesa di San

Girolamo della Carità, Filippo Neri istituì il primo Oratorio, dove radunava i

ragazzi di strada, senza distinzione di sesso e di età, e li avvicinò alle

celebrazioni liturgiche attraverso il gioco e la preghiera.

A cavallo tra la fine dell’epoca moderna e l’inizio della età contemporanea,

vi è un’altra figura protagonista dell’inclusione dei ragazzi provenienti dalla

strada, nel mondo scolastico; questi era Johann Heinrich Pestalozzi

(Zurigo,1746 – Brugg,1827).

Egli, istituì una scuola, nella sua tenuta, volta all’istruzione elementare dei

ragazzi poveri che erano soliti all’accattonaggio.

L’insegnamento elementare di base si alternava con quello del lavoro

agricolo in estate e della tessitura e della filatura in inverno: questo perché

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egli mirava a sollevare le classi popolari dalle loro condizioni con il lavoro e

l’istruzione.

Dopo questa prima esperienza terminata dopo alcuni mesi, gli fu affidata

l’educazione dei giovani rimasti orfani nella cittadina di Stans, a seguito di

una rivolta contro le truppe francesi.

Questa esperienza gli fece cambiare il suo modo di vedere l’educazione:

essa non era più un mezzo per il riscatto sociale, mentre il lavoro era

un’occasione per formare la personalità dell’uomo.

La sua ultima esperienza fu all’istituto di Yverdon, un castello nel quale

vennero ospitati circa centocinquanta alunni; ma poiché la maggior parte di

essi era di famiglia ricca, Pestalozzi ne venne a creare un’altra

esclusivamente per i ragazzi che vivevano in povertà; successivamente le

due scuole si unirono prima di chiudere definitivamente a causa delle

continue liti e polemiche.

Il messaggio che Pestalozzi ha voluto lasciare in eredità è che esistono due

tipi di infanzie abbandonate: quella materiale, che comporta la mancanza di

genitori, cibo e di una casa; e quella morale che invece comporta la

presenza dei concetti sopra espressi, ma con la mancanza di un’adeguata

proposta educativa.

L’età contemporanea

“Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole

amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo

sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i

classisti che siete voi, contro la fame, l'analfabetismo, il razzismo, le

guerre coloniali” [4].

L’età contemporanea si apre sotto il segno delle rivoluzioni e delle guerre:

Rivoluzione francese; guerra di secessione; moti carbonari; unificazione

dell’Italia; prima e seconda guerre mondiali; guerre d’indipendenza e

rivoluzione scolastica.

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Il tutto in poco più di centocinquant’anni.

Le lunghe battaglie che hanno coinvolto intere generazioni hanno instaurato

nella società un desiderio di cambiamento, in particolar modo, in coloro che

occupano le fasce più basse della scala sociale, gli umili, i vinti, o come già

menzionato, gli ultimi.

Vi è voglia di riscatto, di integrarsi con l’alta società che da sempre li ha

esclusi, lo racconta pure Giovanni Verga nel suo libro “Mastro don

Gesualdo”; e per iniziare questa scalata sociale bisogna partire

dall’istruzione che fino a quel momento, gli anni sessanta, era classista ed

escludente.

Il simbolo della rivoluzione scolastica popolare è Don Lorenzo Milani (1623

– 1967), all’anagrafe Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, che fonda

a Barbiana, una scuola includente per i ragazzi che la scuola non potevano

permettersela, o che, peggio ancora, erano stati rifiutati dalla scuola

classista del tempo.

“Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il

mezzo d'espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose” [5].

La scuola di Barbiana era aperta tutti i giorni, le lezioni si tenevano per molte

ore al giorno, anche dopo aver lavorato nei campi; in classe vi erano alunni

di età diverse, nessuno veniva bocciato ma, allo stesso tempo, nessuno era

esente dalle punizioni che spesso erano peggiori di quelle che si ricevevano

nella scuola dell’obbligo.

Non vi erano infatti distinzioni tra gli alunni, all’interno di quella scuola

esistevano solo ragazzi che avevano voglia di studiare e desiderio di

apprendere, non vi era il povero o il ragazzo di campagna, solo studenti che

meritavano premi e punizioni di come li meritavano gli altri.

Gli alunni della scuola di Barbiana, uniti insieme nel metodo di scrittura

collettiva, ideato da Mario Lodi che lo ha fatto poi conoscere a Don Milani,

scrissero appunti, pensieri che solo dopo la morte del loro maestro, vennero

resi pubblici sotto il nome di “lettera ad una professoressa” dove loro

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stessi raccontano giorno dopo giorno, la vita all’interno della scuola, e il loro

riscatto verso la scuola dell’obbligo.

“Del resto, bisognerebbe intendersi su cosa sia la lingua corretta. Le

lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi

le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per

bocciarlo” [6].

Decreti internazionali per l’inclusione degli ultimi

Con la nascita delle organizzazioni internazionali, tutto il mondo, dopo il

secondo conflitto mondiale, si è mobilitato per far fronte ai problemi di

carattere sociale ed economico: nel 1948 entra in vigore la costituzione

dell’Organizzazione Mondiale della sanità che per prima propone il diritto

alla salute come diritto fondamentale di ogni essere umano.

“La sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale,

e non consiste solo in un’assenza di malattia o d'infermità. Il possesso

del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto

fondamentale di ogni essere umano, senza distinzione di razza, di

religione, d'opinioni politiche, di condizione economica o sociale” [7].

Nel 1966 viene decretato il Patto internazionale sui diritti economici, sociali

e culturali che esplica, nel primo comma dell’articolo 11, come ogni persona

abbia il diritto di avere un livello di vita che non sia indecoroso e che dia

invece, la possibilità ad ognuno, di poter sempre accrescere le proprie

possibilità:

“Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni

individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia,

che includa un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati,

nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita” [8].

Perché tutti nasciamo uguali e dunque tutti dobbiamo avere accesso agli

stessi diritti e alle stesse possibilità di successo.

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Nel 2010, l’Unione Europea ha approvato una dichiarazione sulla strategia

comunitaria dei senzatetto al fine di sostenere gli Stati membri nella

creazione di strategie nazionali efficaci, in modo da poter risolvere, o

quantomeno affrontare, il problema il fenomeno di coloro che abitano nelle

strade.

"gli Stati membri dovrebbero adottare strategie integrate per i

senzatetto che si concentrino su obiettivi fondamentali quali la

prevenzione del fenomeno dei senza casa, la riduzione della sua

durata, indirizzando le misure ai casi più gravi, migliorando la qualità

dei servizi destinati ai senzatetto e mettendo a disposizione alloggi a

un prezzo accessibile"[9].

L’anno successivo, precisamente il 14 settembre 2011, l’UE emana la

risoluzione sulla strategia per i senzatetto, poiché è intenta ad attuare la

Carta dei diritti fondamentali, dove sancisce l’importanza di ripristinare la

dignità umana dell’uomo in stato di povertà, e che tale stato è considerato

come una violazione dei diritti umani:

“la grande povertà rappresenta una violazione dei diritti umani e una

grave lesione della dignità umana che favorisce la stigmatizzazione e

le ingiustizie; che l'obiettivo centrale dei regimi di sostegno al reddito

deve essere quello di far uscire le persone dalla povertà e di

consentire loro di vivere dignitosamente” [10].

Al giorno d’oggi non è possibile conoscere il numero esatto di coloro che

non hanno una casa in cui vivere, si stima un numero superiore ai 100

milioni e circa cinquantamila sono coloro che, solo in Italia nel 2014, hanno

sfruttato il servizio mense [11]; ciò vuol dire che i numeri potrebbero essere

maggiori dato che non tutti i senzatetto sfruttano il servizio delle mense.

Di questi, più di quarantamila sono uomini, mentre sono quasi ottomila le

donne per le quali, l’età media è superiore ai 45 anni, il che rappresenta un

problema per l’inclusione di costoro nel mondo del lavoro.

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I giovani invece sono circa tredicimila, e se per loro il progetto di inclusione

lavorativa potrebbe essere più semplice, si presenta il problema legato alla

devianza poiché molti di essi, sono legati al giro delle droghe e della

criminalità.

Questo in particolar modo si svolge nelle grandi città, come Roma e Milano,

dove i senzatetto sono circa ventimila ed è più facile trovare luoghi e gruppi

di devianza sociale.

Conclusione: due diversi punti di vista

Non per tutti la condizione depravante e lo stile di vita ai limiti della decenza,

sono visti in modo negativo: c’è infatti chi, con orgoglio, si ritiene felice del

tipo di vita che conduce, poiché si sente libero dall’impegno imposto dalla

società e dai ritmi frenetici della quotidianità, ecco dunque un classico

esempio di clochard per scelta.

Vi sono infatti quelli che lo sono diventati per motivi involontari ma che sono

contenti di esserlo e non fanno nulla per cambiare il loro status, e vi sono

coloro che addirittura hanno deciso di abbandonare il loro lavoro, la famiglia

e tutti i loro beni, per intraprendere una vita da senzatetto.

Ma questa è solo una piccolissima porzione delle persone che vivono lungo

le strade delle città poiché, chi per un motivo, chi per un altro, sono stati

costretti a trovare rifugio nei luoghi in cui vige l’anomia sociale e che ogni

giorno perde la vita per motivi quali il freddo, la fame o la delinquenza.

Si può dunque dire che i senzatetto sono una realtà ancora oggi presente

nonostante le contromisure prese sia dagli enti comunali, che da quelli

nazionali e internazionali.

Al contrario si può dire che, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, si sono

prese decisioni importanti per far fronte al problema e che hanno dato

importanza, e soprattutto, una voce, a chi è stato sempre lasciato in disparte

a chi, nel corso della sua storia, è sempre stato tenuto per ultimo.

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Bibliografia

• Michel e Colette Collard – Gambinez “Un uomo che chiamano

clochard – quando l’escluso diventa l’eletto”; Macondo libri; 1999

• Nilda Guglielmi “Il medioevo degli ultimi – emarginazione e

marginalità nei secoli XI – XIV”; Città Nuova; 2001

• Oreste Cerri “L’apostolo di Roma – San Filippo Neri”; Villaggio del

fanciullo; 1973

• La scuola di Barbiana “Lettera ad una professoressa”; 1967

• Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; 1948

• Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali; 1966

• Relazione sulla protezione e sull’inclusione sociale; 2010

• Carta dei diritti fondamentali; 2011

• Istat

Sitografia:

• https://it.wikipedia.org/wiki/Johann_Heinrich_Pestalozzi

• http://www.secoloditalia.it/2016/06/italia-boom-senzatetto-50-

000-record-roma-milano/

1. Treccani enciclopedia

2. J. Gilissen Cit.

3. Jean Imbert – Les hopitaux en droit canonique.

4. La scuola di Barbiana – cit.

5. Ibidem

6. ibidem

7. Costituzione dell’OMS

8. Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali - Articolo

11 (1966)

9. Da “Relazione sulla protezione e sull’inclusione sociale” - 2010

10. Da “Carta dei diritti fondamentali” - 2011

11. Dati Istat

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LA REALTA’ DEGLI ICAM E LE NORMATIVE IN

MATERIA DI TUTELA DEI MINORI

A cura di Milena Lamendola

Introduzione, Icam: istituto custodia attenuata madri.

Il principale tentativo di questo elaborato è quello di delineare la complessità

del mondo degli Icam: istituto custodia attenuata madri. La realtà di queste

strutture ha origine in tempi assai recenti nel territorio italiano ed europeo,

il primo Icam, infatti, viene inaugurato a Milano nel 2006, anche se oggi il

loro numero è aumentato a quello di cinque unità. Proprio per la loro

attualità, l’esistenza di questi contesti è ai più sconosciuta, si tratta di una

realtà in cui i bambini vivono in carcere perché le loro mamme sono state

condannate a delle pene detentive e, quindi, per essi si pone una alternativa

piuttosto brutale: o crescere lontano dalle loro madri, presso qualche

parente o, magari, qualche istituto di accoglienza, o rimanere con le loro

madri, però condividendo con esse l’ambiente carcerario. Gli Icam sono

delle sezioni che si trovano all’interno delle case di reclusione ma che,

rispetto ad esse, si distinguono da un accesso differente e da una serie di

normative in cui l’attenzione è posta principalmente alla salvaguardia e al

benessere del bambino (non vi sono sbarre, gli agenti non indossano la

divisa, ci sono spazi all’aperto e camere riservate alla coppia madre-

bambino).

In questo lavoro di ricerca verranno ripercorse ed analizzate le fasi e i

progressi giuridici che, dalle loro origini sino ai giorni odierni, hanno tutelato

e regolamentato la vita dei minori aventi le madri in stato di detenzione.

Verranno esaminate, quindi, tutte le misure di detenzione cosiddette

“alternative”, di cui la madre condannata all’espiazione di una pena può

avere l’opportunità (in specifici contesti) di usufruire, per offrire al lettore una

quanto più ampia ed obiettiva panoramica della situazione odierna. In un

secondo momento dell’elaborato, dopo aver esposto le principali misure di

detenzione “alternativa”, verrà analizzata e approfondita la funzionalità

dell’Icam, riportando anche gli esempi dell’Icam di Milano e di Venezia.

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Ciò che verrà legittimo domandarsi è se vi è un “giusto” e uno “sbagliato”

verso cui doversi schierare quando si tratta di stabilire se possa

rappresentare un bene o un male, per un bambino, trascorrere gli anni

dell’infanzia in carcere. È difficile dare una risposta soddisfacente e univoca

a questa domanda, e forse la difficoltà maggiore risiede in un pregiudizio

ideologico, in base al quale siamo portati a “bocciare” mentalmente una

soluzione come quella dei bambini che vivono in ambiente carcerario, non

dopo una serena e spassionata valutazione dei pro e dei contro, ma solo

perché, astrattamente, riteniamo che il carcere non possa in alcun modo

considerarsi un ambiente idoneo per la crescita di un bambino. Pertanto,

una possibile chiave di lettura di quanto seguirà, per valutare in maniera

oggettiva la problematica trattata, potrebbe essere quella di liberarsi, il più

possibile, dal peso dei condizionamenti e dei pregiudizi ideologici che ci

portano a classificare una cosa come “buona” o “cattiva” non in base alle

situazioni concrete della vita reale, ma in base a dei codici astratti,

puramente teorici, che non tengono alcun conto di fattori come la

conoscenza diretta e personale delle situazioni stesse. Non che avere dei

valori assoluti sia male in sé stesso: tutt’altro; ma il punto non è questo. Il

punto è che i valori non possono prescindere dalla concretezza delle

situazioni. In questo contesto, infatti, non si parla di qualcosa di teorico, ma

di estremamente concreto: ci si pone il quesito su quale sia il vero bene di

un bambino, la cui madre è stata condannata a scontare una pena

detentiva; o, se si preferisce, su quale sia, per lui e nel suo esclusivo

interesse, il male minore. Perciò, la domanda onesta su cui soffermarsi non

è se il carcere sia un ambiente compatibile con la crescita di un bambino di

due, tre, quattro anni, perché, parlando in astratto, certamente non lo è, e

non c’è bisogno di dimostrarlo; ma se, per un bambino di quella età, la

separazione forzata dalla madre, la quale desideri tenerlo presso di sé, non

si traduca in un danno più grave del fatto di dover vivere in un ambiente

tutt’altro che piacevole e tutt’altro che “educativo”, come lo è l’ambiente di

un carcere femminile.

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Scegliere se tenere il figlio accanto a sé, obbligandolo però alla detenzione,

o separarsene, affidandolo a familiari, è una “scelta impossibile”. Lo

raccontano alcune madri intervistate da C. Scanu [1]. Affidarlo ad altri infatti

significa, per queste madri, recidere un legame che difficilmente sentono di

poter ricucire. I bambini non possono comprendere perché la mamma non

li porta con sé, e possono vivere un sentimento di abbandono intenso.

Sin dal 1975 i legislatori hanno cercato di tutelare il bambino cercando

modalità per non separarlo dalla madre. Gli studi di Robertson, Spitz e

Bowlby forniscono un’evidenza importante dei rischi connessi alla rottura

della coppia madre-figlio nei primi anni di vita del bambino. Le frustrazioni e

il loro superamento sono infatti parte della crescita, ma se precoci, o prive

di qualcuno che gli dia senso e che consoli e conforti dopo averle ricevute,

influenzano a livello negativo la formazione del sé, delle future relazioni e

anche dello sviluppo cognitivo.

I danni possono risultare irreversibili se la frustrazione incide troppo

precocemente e si perpetua indefinitamente nel corso dei primi momenti di

vita del bambino. A tal fine si è concesso di far entrare i bambini nel carcere

insieme alle madri, per evitare le tragiche conseguenze che la separazione

dalla madre comporta, quali: disordini emotivi, disordini della personalità,

resistenza alla separazione, instabilità o perdita dell’identità. [2]

È difficile, quindi, pensare che, per la crescita serena ed equilibrata di un

bambino, l’ambiente fisico si possa considerare più importante della figura

materna: mentre la presenza della mamma può rendere confortevole anche

un ambiente ostile, un ambiente confortevole non sarà mai del tutto

soddisfacente, se non è riscaldato dalla presenza della madre. Pertanto,

anche i concetti di accoglienza, di inclusione, che pure rivestono tanta

importanza all’interno di qualsiasi discorso educativo, non possono essere

fatti astrattamente, cioè senza tener conto della realtà concreta di un

bambino piccolo, in età prescolare, che si trovi nella situazione di poter

essere separato completamente dalla presenza di entrambi i genitori, e

specialmente della madre, a causa della loro condotta di fronte alla legge.

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In un certo senso, separare un bambino da sua madre, perché questa è

stata condannata a una pena detentiva, equivarrebbe a condannare anche

lui: e la condanna consisterebbe nella sua separazione da lei, mentre il fatto

di vivere in carcere sarebbe, per lui, probabilmente, il male minore.

Misure alternative di detenzione odierne

Detenzione domiciliare

La detenzione domiciliare fu introdotta nell’ordinamento penitenziario con

l’Art 13 della Legge n. 663 del 1986 e poi modificata nel 1998 dalla Legge

Saraceni che ne ampliò le condizioni al fine di evitare la carcerazione dei

bambini. La misura consiste nella possibilità di espiare la pena detentiva

nella propria abitazione o in altro luogo di pubblica o privata dimora o in

luogo pubblico di cura o assistenza o accoglienza, o in casa-famiglia

protetta. Nel caso in cui le detenute siano in gravidanza o abbiano figli di

età inferiore ai dieci anni, e debbano espiare una pena inferiore ai quattro

anni, o parte di essa, possono accedere a questa misura alternativa di

espiazione.

La coppia primaria risulta così tutelata e il bambino non cresce dietro le

sbarre, ma non sono considerati altri fattori di rischio. Non sempre la madre

ha infatti parenti o amici che la sostengano e aiutino concretamente ed

economicamente, perciò, seppur al di là delle sbarre, la sua resta di fatto

una reclusione. Non è semplice, ricordano alcune donne intervistate da

Cristina Scanu e raccolte nel suo libro Mamma è in prigione.

“Certo, a casa potevo stare con mia figlia, ma non è facile spiegare a tua

figlia di sei anni che non puoi portarla al parco.” [3] La detenzione domiciliare

risulta essere quindi una misura non definita e poco chiara se non sostenuta

da un’opportuna rete che aiuti la persona nella cura del figlio e contribuisca

alla rieducazione della persona, che dovrebbe essere il fine ultimo di una

pena.

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Detenzione domiciliare speciale

Introdotta con la Legge Finocchiaro n. 40/2001 che aggiunge con l’Art.47-

quinques [4], la possibilità per le madri con figli di età inferiore ai dieci anni

(o padri se madre deceduta o impossibilitata), la possibilità di espiare la

pena negli stessi luoghi previsti per la detenzione domiciliare, quando non

sussiste il pericolo di un ulteriore commissione di delitti. La sostanziale

differenza con la detenzione domiciliare è che, in questo caso, viene

precisato l’aiuto e il sostegno che deve fornire il servizio sociale.

Oltre a osservare e controllare il soggetto, il servizio sociale è chiamato a

sostenere la persona a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale

e si mette anche in relazione con la famiglia e con gli altri ambienti di vita

frequentati dalla madre.

Questa modalità di aiuto evidenza l’importanza che assume il sostegno alla

madre come principale obiettivo durante il delicato periodo della maternità,

non isolandola dunque, ma garantendole un ambiente di sostegno e

protezione.

Affidamento in prova al servizio sociale

L’affidamento in prova al servizio sociale è ritenuta la misura alternativa alla

detenzione per eccellenza, in quanto evita i danni e le conseguenze che

possono derivare dall’inserimento in un istituto penitenziario privando una

persona della propria libertà. [5]

Inizialmente questa misura alternativa di detenzione venne introdotta per

tutelare i minorenni che avessero compiuto reato, con la riforma

all’Ordinamento Penitenziario del 1975, viene estesa questa alternativa non

solo ai minorenni. Questa modalità di esecuzione alternativa alla pena può

essere considerata una delle soluzioni migliori per garantire lo sviluppo

psicosociale del bambino e la tutela della maternità, in quanto coinvolge la

famiglia e la società più intensivamente e attua un’importante opera di

responsabilizzazione della persona verso il suo bambino, verso sé stessa e

verso la società.

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Assistenza all’esterno dei figli minori

Nel 2001 è stato introdotto dalla Legge Finocchiaro l’articolo 21-bis, che

prevede per le madri detenute (o padri se madri decedute o impossibilitate)

con figli di età inferiore ai dieci anni, la possibilità di assistere i loro figli

all’esterno del carcere durante il giorno e di rientrare in carcere la sera. La

legge introduce una novità interessante, garantisce infatti al bambino di

godere del rapporto con la madre durante tutto l’arco del giorno, ma, allo

stesso tempo, presenta dei limiti per i bambini in fascia d’età 0-3 anni,

impedendo loro l’allattamento durante le ore notturne e quindi rendendo

difficoltosa la creazione di un saldo legame di attaccamento. L’applicazione

di tale legge resta spesso inaccessibile, poiché la maggior parte delle donne

detenute presenta un alto tasso di recidiva, e risulta quindi impossibilitata

ad accedere a tale misura [6].

La realtà degli ICAM

Gli ICAM sono stati introdotti in Italia dalla legge 62/2011 per permettere

alle madri di scontare la pena senza separarsi dai loro figli (che possono

stare dentro alla struttura fino ai 6 anni di età), all’interno di luoghi colorati,

senza sbarre, realizzati a misura di bambino in cui gli agenti che vi lavorano

non indossano né armi né divisa.

La legge 62/2011 si è posta l’obiettivo di ridurre il numero dei bambini nelle

carceri e tutelare il rapporto delle donne in gravidanza e delle madri con figli

piccoli, promuovendo in tale direzione la creazione degli Icam. Gli Istituti a

custodia attenuata sono le strutture nelle quali le madri che al momento

della condanna, o per esigenza di custodia cautelare, non possono

accedere ad altre misure alternative, possono espiare la pena o custodia

con i loro figli fino al compimento del sesto anno di età del bambino. In caso

di madre impossibilitata o deceduta la stessa misura è consentita al padre.

Il modello organizzativo di riferimento per queste strutture sono stati gli

istituti a custodia attenuata per tossicodipendenti, anche se, in questo

specifico caso, la finalità, anziché terapeutica è di sostegno allo sviluppo

psicosociale dei bambini e la cura della responsabilità genitoriale.

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Gli Icam sono stati pensati e progettati per evitare un’infanzia dietro le

sbarre ai bambini, pertanto devono essere realizzati in un luogo diverso dal

carcere e risultare ambienti accoglienti, colorati e sereni. Di conseguenza

all’interno di tali strutture sono state introdotte alcune leggi con la finalità di

evitare associazioni e rimandi con le case di reclusione; fondamentale, ad

esempio, è che gli agenti che vi lavorano non devono indossare la divisa

per non intimorire i bambini. Oltre al personale di sorveglianza sono previsti

educatori specializzati, per permettere agli ospiti: “oltre che un supporto

umano, anche un’opportunità di formazione delle madri e un sostegno nel

rapporto affettivo con i figli.” [7] Un ruolo essenziale oltre a quello degli

educatori è quello svolto dai volontari, grazie ai quali i bambini vengono

accompagnati quotidianamente al nido e alla scuola materna, permettendo

loro di frequentare l’ambiente esterno insieme ai loro coetanei e, allo stesso

tempo, di avviare quel processo di inclusione e di inserimento che sta alla

base di questa difficile e complessa realtà.

Per la costruzione degli Icam è stato previsto lo stanziamento di 11,7 milioni

di euro. [8] Ad oggi quelli funzionanti sul territorio italiano però sono solo

cinque: Milano, Venezia e Torino, Cagliari e Lauro. In molti casi quindi alcuni

bambini sono ancora costretti a vivere i loro primi anni di vita in co-

detenzione con la mamma negli asili nidi predisposti all’interno di molte

carceri, che non risultano però, privi di simboli e rimandi o ritmi di vita diversi

dalla detenzione che spetta ai condannati. Al 30 giugno 2017 risultano

presenti nel territorio italiano 18 strutture tra Icam e asili nido in cui risiedono

bambini conviventi con le loro madri. [9]

Un limite degli Icam che vale la pena sottolineare è, che, per il loro numero

ristretto, ospitano spesso detenute provenienti da diverse località del nostro

paese. Al fine di evitare la carcerazione dei loro figli, le mamme fanno quindi

spesso richiesta di trasferimento agli Istituti a custodia attenuata, questo

significa però allontanarsi dalla propria famiglia di origine e obbligare anche

il figlio a questa separazione da nonni, padri e fratelli e altre eventuali figure

di riferimento.

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L’Icam di Milano

L’Icam di Milano, viene inaugurato nel 2006 come forma sperimentale in un

palazzo storico della città e sorge in una struttura di 500 metri quadrati

messa a disposizione dalla provincia. Nel 2005, la Regione Lombardia,

attenta alla questione detentiva e ai problemi di rieducazione e

reinserimento delle detenute, si attivò con una legge regionale [10],

avviando attività di recupero e reinserimento per le ex detenute,

coinvolgendo le ASL, enti locali, il terzo settore e le associazioni di

volontariato del territorio.

Questo luogo, inizialmente, ospitava le madri con i loro figli fino al

compimento del terzo anno di età del bambino, ma dal 2011 il bambino può

restare con la madre nell’istituto fino ai sei anni. È la prima struttura di

questo tipo che viene creata in Italia e in Europa grazie all’accordo tra

istituzioni locali e il Ministero di Giustizia, e come organizzazione e gestione

degli spazi presenta: camere doppie e singole, bagni, una ludoteca,

l’infermeria, e spazi comuni come la sala colloqui, la biblioteca, la cucina, la

dispensa e la lavanderia. [11]

L’Icam di Milano presta particolare attenzione anche all’istruzione delle

detenute che è garantita fino alle scuole medie; per quella successiva è

stato posto un limite, in quanto la finalità principale della creazione degli

Icam è la tutela della maternità e la cura della responsabilità di queste madri

verso i propri figli, pertanto gli interventi seguono questa linea guida. Tra gli

obiettivi principali dell’Icam di Milano vi è quello di accompagnare le madri

sostenendo la loro genitorialità, la responsabilità verso loro stesse e

soprattutto verso i loro figli: grazie a permanenze medie delle detenute che

hanno raggiunto gli otto-nove mesi, è stato possibile realizzare un progetto

personalizzato per ogni coppia madre-bambino, che si concentra sulle

specifiche e particolari esigenze di quel nucleo.

Molto spesso, le donne che si trovano all’interno di queste strutture,

posseggono un basso grado di istruzione, provengono da situazioni

socioeconomiche disastrose e ambienti familiari in cui hanno subito

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violenza. La maggior parte di esse sono straniere e senza permesso di

soggiorno e non sa cosa succederà loro e ai loro figli una volta uscite

dall’istituzione.

“Lo abbiamo aperto, ma lo chiuderemo, perché di bambini in carcere non

ce ne siano più” resta però lo slogan e il pensiero di chi ha creato e

realizzato questo progetto, perché, nonostante l’ambiente colorato e le

attività organizzate, resta un luogo di detenzione. Le porte sono chiuse, per

accedervi si passa attraverso il metal detector, l’area è circondata da una

cancellata e recintata da una parete di 3 metri in plexiglass per evitare il

rischio di fuga. In un servizio video realizzato da Il Fatto quotidiano una

mamma detenuta afferma infatti che i bambini sentono che è un luogo

chiuso, che non c’è apertura e che quella non è casa. [12]

L’Icam di Venezia

L’Icam di Venezia nasce come sezione esterna, in un luogo adiacente alla

Casa di reclusione femminile della Giudecca, ma che si distingue da essa

attraverso un accesso differente. La struttura è stata inaugurata in tempi

recenti, nel luglio del 2013, e mette a disposizione un appartamento dove

possono risiedere le madri con i loro bambini: vi è una grande cucina

comune dove le madri possono cucinare tutte insieme, e delle camere

matrimoniali riservate al nucleo madre-figlio ognuna con il proprio bagno.

L’istituto ha anche un giardino attrezzato di altalene e scivoli, dove i bambini

possono giocare all’aperto. All’Icam di Venezia i piccoli frequentano l’asilo

nido e la scuola materna esterni, accompagnati dai volontari e dalla

puericultrice presente nell’Icam.

All’interno della struttura operano anche due educatrici ed una psicologa.

Le educatrici però non prestano servizio solamente presso l’Icam, ma anche

in tutta la Casa di reclusione, di conseguenza, il lavoro che possono

svolgere con madri e bambini risulta assai limitato. [13]

La maggior parte delle madri detenute ha l’opportunità di svolgere un lavoro

retribuito in vari settori: quello della sartoria, dell’orticultura, o anche presso

una lavanderia che rifornisce di lenzuola e asciugamani alcuni importanti

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alberghi di Venezia (ciò risulta possibile grazie a cooperative sociali e

convenzioni con il Comune di Venezia). Questo tipo di attività ricopre un

ruolo molto importante, da un lato dà la possibilità alle madri di riscoprire le

loro risorse e capacità, nonché di reinserirsi in un contesto lavorativo,

dall’altro consente loro di impegnarsi in attività che gli permettono di

contribuire al mantenimento del proprio figlio e a volte della propria famiglia.

Oltre alle cooperative sociali e alle aziende che assumono le detenute,

l’associazione di volontariato “La Gabbianella e altri animali” ricopre un

ruolo di preminente importanza. Questa associazione, infatti, cerca di

garantire ai bambini risiedenti all’Icam quelle condizioni di sviluppo che gli

dovrebbero spettare per diritto: si occupa di accompagnare i bambini a

scuola, di organizzare uscite durante i giorni festivi e di promuovere attività

ed iniziative che altrimenti non sarebbero possibili per questi bambini, quali

“progetto spiaggia”, “progetto nuoto” e “progetto delle domeniche in

famiglia”. È soprattutto attraverso l’attuazione di questi progetti che avviene

il lavoro più importante sulla figura del bambino, col tentativo di inserirlo in

contesti di quotidianità e di familiarità, a contatto con una realtà non dettata

da orari, vincoli e imposizioni esterne. Grazie al progetto “domeniche in

famiglia”, ad esempio, i bambini che risiedono all’Icam hanno la possibilità

di trascorrere un’intera giornata presso una famiglia che si prenda cura lo

loro; spesso sono famiglie in cui già vi sono dei piccoli, così da permettere

al bambino di interagire e di creare nuovi legami.

Durante queste giornate viene colta l’occasione per fare scoprire al bambino

delle realtà nuove e semplici, che altrimenti non potrebbe conoscere; una

gita al parco, una giornata al mare, o anche il solo mangiare un gelato si

rivelano così momenti di estrema scoperta e di fondamentale crescita [14].

È doveroso sottolineare che i progetti e le iniziative sono numerose, le

risorse, però, spesso sono limitanti per una loro realizzazione concreta.

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Regolamentazione della tutela della figura infantile dalle sue

origini ad oggi: la situazione in Italia

“Ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita” recita l’articolo 6 della

Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza. E prosegue

affermando l’impegno degli Stati parte nell’assicurare “in tutta la misura del

possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo” [15]. In questo

documento si trova l’impegno a garantire lo sviluppo del bambino e a

tutelarlo “contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla

condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni sociali

dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali e dei suoi familiari” [16].

Dalla fine del 1989 il diritto allo sviluppo e alla vita per ogni bambino ha

trovato voce in questo documento, l’attuazione di tali impegni a livello

nazionale risulta però difficoltosa. Quando si parla di bambini,

inevitabilmente, si deve tener conto del contesto in cui crescono, la famiglia

in primo luogo, l’ambiente sociale in senso più allargato in secondo luogo.

Le sfaccettature e prospettive da cui osservare il diritto del minore sono

quindi multiple e complesse, cui si aggiunge un limite centrale: il diritto del

minore è un diritto scritto dagli adulti a tutela dei più piccoli.

Anche l’Articolo 24 della Carta Europea dei diritti fondamentali sancisce il

diritto alla protezione e alle cure necessarie al proprio benessere,

dichiarando che, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato

preminente in tutti gli atti relativi ad esso. A queste normative si aggiungono

gli Art. 30 e 31 della nostra Costituzione che decretano il diritto e dovere dei

genitori a mantenere i figli, al fine di proteggere la maternità e l’infanzia, e

affermano che lo Stato si impegna nella facilitazione di tali compiti con

l’ausilio di misure economiche di diversa natura.

Se l’interesse prevalente deve essere quello del minore, bisogna cercare di

creare le condizioni necessarie alla sua crescita, anche nel caso in cui i

genitori abbiano ricevuto una condanna definitiva o siano imputati.

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L’Italia si è resa consapevole di questa esigenza già nel 1975, quando, con

un’importante riforma all’ordinamento penitenziario, modificò l’orientamento

del sistema esecutivo verso finalità rieducative e di reinserimento sociale,

come previsto dall’Art. 27 della Costituzione.

In quest’ottica la riforma introduce alcune misure alternative alla detenzione

per tutelare la maternità. Con l’Art.11 viene inserita la possibilità per le madri

detenute di tenere presso di sé i figli fino al compimento del terzo anno di

età, e, per tali esigenze si dovevano organizzare appositi asili nido

all’interno delle case di reclusione.

Nel 1986 con la legge n. 663, la riforma penitenziaria del 1975 diventa più

realmente conforme ai dettami della Costituzione e introduce la possibilità

di scontare la pena in detenzione domiciliare per donne incinte o madri di

prole di età inferiore ai tre anni, con una pena di reclusione non superiore

ai due anni, anche se parte costituente di maggior pena. Si inserisce in tal

modo la possibilità di espiare la detenzione nella propria abitazione o in altro

luogo pubblico di cura o di assistenza. [17] Con tale legge, nota come Legge

Gozzini, il cambiamento di prospettiva è forte, ma resta il limite di non aver

esplicitato direttive precise per coloro che volessero accedere a tali misure.

Si tratta quindi di detenzione, anche se non in carcere, perché il

provvedimento vieta ai condannati di lasciare la propria dimora, non

tenendo in considerazione che alcune madri potrebbero non avere terzi cui

rivolgersi per un aiuto o un sostegno. Altro grande limite della legge Gozzini

è di non prevedere alcuna forma di rieducazione per coloro che accedono

a tale misura alternativa, questo rappresenta un ostacolo forte al processo

di decarcerizzazione e reinserimento sociale.

L’8 marzo del 2001 viene promulgata un’altra legge molto importante n.

40/2001, conosciuta come Legge Finocchiaro, dal nome del ministro per le

Pari Opportunità Anna Finocchiaro. Tale normativa introduce ulteriori

possibilità alternative alla detenzione in carcere, quali: la detenzione

domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno dei figli minori di età inferiore

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ai dieci anni. Il principio su cui verte questa legge è il principale interesse

alla tutela del rapporto madre bambino.

Tale legge può essere vista come l’inizio di una garanzia nei confronti della

coppia madre (carcerata) e bambino, l’introduzione della detenzione

domiciliare speciale, che pone in primo piano l’esigenza di tutelare la coppia

primaria, fu perciò molto importante, ma le complessità per accedervi,

(come ad esempio il possesso di una residenza) restano dei punti irrisolti

della normativa.

Nel febbraio del 2011 viene approvato un nuovo disegno di legge

contenente le Disposizioni del rapporto tra detenute madri e figli minori, che

entra in vigore dal gennaio del 2014. [18] Questo disegno doveva andare

ad aggiustare le complessità che la Legge Finocchiaro non era riuscita a

risolvere, per salvaguardare e sostenere la maternità e la continuità del

rapporto madre-bambino e, nel contempo, il rapporto del bambino con gli

altri componenti della sua famiglia e l’ambiente sociale esterno, al fine di

garantire lo sviluppo psicosociale dello stesso. Le modifiche prevedono che,

per le imputate incinte o madri di figli di età non superiore ai sei anni (o

padre se la mamma è deceduta o impossibilitata) non possa essere

disposta la custodia cautelare in carcere, salvo il sussistere di esigenze

cautelari di eccezionale rilevanza [19]; sono perciò da predisporre, in tali

casi gli arresti domiciliari. Gli arresti e la detenzione domiciliare possono

aver luogo nella propria abitazione o in caso non ve ne fosse una, in una

casa famiglia protetta, che la legge invitava a individuare in luoghi già

esistenti (ma per le quali non vengono stanziate risorse adeguate) [20]. Per

i casi però di eccezionale rilevanza delle custodie cautelari o per scontare il

terzo della pena per accedere alle misure alternative, la legge istituisce gli

ICAM ovvero gli Istituti a custodia attenuata per madri [21]: luoghi esterni al

carcere, che ricreano un ambiente familiare, colorato, privo di sbarre, in cui

gli agenti di sorveglianza non indossano la divisa ed è prevista la continua

presenza di educatori specializzati.

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La detenzione domiciliare o gli arresti, sono misure difficili da ottenere per

le straniere, che rappresentano la maggior parte della popolazione

carceraria femminile, notò Leda Colombini, presidente dell’associazione A

Roma Insieme, mentre Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione

Antigone osservò che gli ICAM non sarebbero da considerare un’alternativa

alla detenzione, ma piuttosto, l’unica forma di detenzione possibile per una

madre con un figlio di età inferiore ai sei anni. [22]

Come si è potuto vedere, l’iter legislativo dal 1975 a oggi ha quindi ampliato

le opportunità per il genitore di riferimento di poter espiare la pena o la

custodia cautelare in luoghi diversi dagli istituti penitenziari, a tutela del

diritto del minore.

Conclusioni

Perché possa essere tutelato quel “diritto inerente alla vita” affermato

dalla Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza anche per

figli di madri detenute è necessario proporre interventi mirati alla cura della

genitorialità e delle relazioni familiari, affinché sia tutelata la maternità sia

all’interno degli istituti penitenziari sia per coloro che stanno espiando la

pena in modalità differenti.

A tal fine nel marzo 2014 il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per

l’infanzia e l’adolescenza e la onlus Bambinisenzasbarre hanno sottoscritto

con un Protocollo di Intesa: la Carta dei figli dei genitori detenuti. Essa si

articola attorno alla necessità di mantenere e tutelare rapporti tra genitori

detenuti e il loro figli, definiti come “gruppo sociale”, al fine di salvaguardare

la specificità del gruppo senza per questo discriminarlo.

L’obiettivo è quello di “evitare che la detenzione incida negativamente tanto

sul diritto dei figli alla continuità del legame affettivo, quanto sulla

responsabilità genitoriale; sull’esigenza che le relazioni genitoriali e familiari

vengano aiutate a reggere sia alla detenzione sia alle conseguenze di essa”

[23]. Entrare in carcere non deve avere l’effetto di spogliare le madri del loro

ruolo genitoriale e separarle, quando ci sono, dai padri dei loro figli. Anzi se

la loro responsabilità genitoriale viene anzitutto rispettata, riattivata e curata

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è anche più probabile che l’intervento rieducativo sia più incisivo, e, una

volta uscita dal carcere, la madre cerchi di condurre una vita rispettosa di

sé stessa e della vita dei suoi figli.

Essere madri in carcere non significa essere delle cattive madri, per questo

va fatto appello proprio al loro senso materno. Da anni le associazioni che

si occupano della tutela dei figli di detenuti e i servizi sociali si stanno

muovendo con progetti e programmi di rieducazione alla genitorialità in

ambito carcerario, offrendo un sostegno al rapporto della madre con il figlio

e quando possibile al coinvolgimento della famiglia, in particolare del padre

se presente, che non deve essere escluso dalle scelte e dalla crescita del

figlio, nel momento in cui la madre sceglie di tenerlo con sé all’interno

dell’istituto penitenziario. A Venezia l’associazione la Gabbianella e altri

animali dal 2007 sostiene i bambini reclusi con le loro mamme prima nel

carcere della Giudecca e oggi all’Icam, avviando quando possibile progetti

e laboratori per la cura della genitorialità e del rapporto madre-bambino. Più

in generale, sembra quanto mai opportuno agire a livello culturale,

stimolando una riflessione, la più ampia possibile, sul tema della maternità

negli istituti di detenzione, attraverso la stampa, la televisione, delle

conferenze e dei dibattiti pubblici, nonché cercando di coinvolgere un

maggior numero di giovani nelle attività di volontariato a sostegno dei

bambini che vivono in carcere presso le loro madri, con la collaborazione

delle facoltà universitarie. Il problema sarà impostato in maniera adeguata

solo quando si sarà sviluppata una più matura consapevolezza di esso, e

sarà stato favorito il sorgere di una sensibilità specifica verso questo tipo di

problematiche, le quali, finora, sono state viste con un certo distacco dalla

società nel suo complesso.

Nel realizzare progetti e interventi in questo senso è necessaria la creazione

di una rete che progetti e agisca all’unisono, sfruttando le risorse e le

possibilità di ogni figura professionale presente. Devono perciò essere

coinvolti direttori e agenti dell’organizzazione penitenziaria, operatori e

educatori, psicologi e counselor, servizi sociali presenti presso gli Istituti

penitenziari e nel territorio circostante e/o della provincia da cui provengono

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le detenute se, dopo l’espiazione della pena sarà il luogo in cui torneranno

a vivere.

Tabella 1 Detenute madri con figli al seguito presenti negli istituti

penitenziari italiani distinte per nazionalità - Situazione al 30 novembre

2017 [24]

Nota: gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (ICAM)

attualmente sono Torino "Lorusso e Cutugno", Milano "San Vittore",

Venezia "Giudecca", Cagliari e Lauro. In caso non siano presenti detenute

madri con figli al seguito, l'istituto non compare nella

tabella.

Bibliografia

BIONDI Gianni, Lo sviluppo del bambino in carcere, Franco Angeli, Milano,

1994.

Carta europea dei diritti fondamentali dell’uomo, Art. 24, Diritti del minore,

Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, 14 dicembre 2007.

COSTANZO Gabriella, Madre e bambino nel contesto carcerario italiano,

Roma, Armando Editore, Collana Medico-psico-pedagogica, 2013.

FORCOLIN Carla, Mamme dentro. Figli di donne recluse: testimonianze,

riflessioni e proposte, Milano, Franco Angeli, 2016.

Legge 9 agosto 1975, n. 354, Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla

esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, Gazzetta Ufficiale

n. 212, 9 agosto 1975.

Legge 8 marzo 2001, n. 40, Misure alternative alla detenzione a tutela del

rapporto tra detenute e figli minori, Gazzetta Ufficiale n. 56, 8 marzo 2001.

Legge regionale Regione Lombardia 14 febbraio 2005, n.8, Disposizioni per

la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della Regione

Lombardia, Gazzetta Ufficiale Regioni n. 20, 21 maggio 2005.

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MARGARA Alessandro – Paolina PISTACCHI – Sibilla SANTONI, Nuove

prospettive nella teoria dell’attaccamento e tutela del rapporto genitoriale

quando un genitore è detenuto, in «Minori e giustizia»1 (2005), 83 – 112.

SCANU Cristina, Mamma è in prigione, Milano, Jaca Book, 2013

TOMASELLI Ennio, La Carta dei figli dei genitori detenuti, in «Minori e

Giustizia» 3 (2014), 174 -179.

Sitografia:

<http://www.bambinisenzasbarre.org/> (consultato in giugno 2018)

<http://www.lagabbianella.org/> (consultato in giugno 2018)

<https://www.ilfattoquotidiano.it/> (consultato in giugno 2018)

<http://www.innocenti evasioni.net/> (consultato in giugno 2018)

1. Cristina SCANU, Mamma è in prigione, Milano, Jaca Book, 2013,

117-118

2. Cfr. Gianni BIONDI, Lo sviluppo del bambino in carcere, Milano,

Franco Angeli, 1994.

3. SCANU, Mamma è in prigione, 118.

4. Legge 8 marzo 2001 n. 40, art. 3, Detenzione domiciliare speciale,

c. 1: Dopo l'articolo 47-quater della legge 26 luglio 1975, n. 354, e

successive modificazioni, è inserito il seguente: "Art. 47-quinquies

(Detenzione domiciliare speciale). - 1. Quando non ricorrono le

condizioni di cui all'articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età

non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di

commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la

convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena

nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in

luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla

cura e alla assistenza dei figli, dopo l'espiazione di almeno un terzo

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della pena ovvero dopo l'espiazione di almeno quindici anni nel caso

di condanna all'ergastolo.”

5. MARGARA – PISTACCHI – SANTONI, Nuove prospettive nella

teoria dell’attaccamento e tutela del rapporto genitoriale quando un

genitore è detenuto, 105.

6. SCANU, Mamma è in prigione, 124.

7. COSTANZO Gabriella, Madre e bambino nel contesto carcerario

italiano, Roma, Armando Editore, Collana Medico-psico-pedagogica,

2013.

8. l. 62/2011, art. 5.

9. Fonte: MINISTERO DELLA GIUSTIZIA,

<https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=

0_2&facetNode_2=0_2_1&contentId=SST43460&previsiousPage=

mg_1_14> 30/06/2017, (consultato il 15/10/2017).

10. legge regionale n.8 del 14 febbraio 2005.

11. Ibidem.

12. Icam Milano, una casa con le sbarre per le mamme detenute e i loro

figli, visibile al link <https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/05/icam-

milano-casa-con-sbarre-per-mamme-detenute-e-loro-figli/283317/ >

(05/06/2014), (consultato il 20/11/2017).

13. ASSOCIAZIONE LA GABBIANELLA E ALTRI ANIMALI. Bambini

come gli altri - Come rimuovere gli ostacoli di ordine culturale,

economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza

dei figli dei detenuti - ed in particolare di coloro che crescono con le

madri negli ICAM -ne impediscono il pieno sviluppo e la futura onesta

partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del

Paese, Convegno tenutosi a Venezia, Palazzo Cavagnis, Castello

5170, 6 ottobre 2017.

14. Cfr. FORCOLIN Carla, Mamme dentro. Figli di donne recluse:

testimonianze, riflessioni e proposte, Milano, Franco Angeli, 2016.

15. Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza 20

novembre 1989, art. 6:

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1. Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto

inerente alla vita.

2. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura del possibile la

sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo.

16. Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, art. 2,

c. 2.

17. Legge 10 ottobre 1986, n. 663, Modifiche alla legge sull'ordinamento

penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative

della libertà, art 13

18. Legge 21 aprile 2011, n. 62, Disposizioni del rapporto tra detenute

madri e figli minori.

19. l. 62/2011, art .1, c. l.

20. l. 62/2011, art. 4: Individuazione delle case famiglia protette:

1. Con decreto del Ministro della giustizia, da adottare, entro

centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente

legge, d'intesa con la Conferenza Stato – città ed autonomie

locali sono determinate le caratteristiche tipologiche delle

case famiglia protette previste dall'articolo 284 del codice di

procedura penale e dagli articoli 47- ter e 47- quinquies della

legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati, rispettivamente,

dagli articoli 1, comma 2, e 3 della presente legge.

2. Il Ministro della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la

finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni

volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate

come case famiglia protette.

21. l. 62/2011, art. 1, c. 3: “Dopo l'articolo 285 del codice di procedura

penale è inserito il seguente: «Art. 285-bis. - (Custodia cautelare in

istituto a custodia attenuata per detenute madri). - Nelle ipotesi di cui

all'articolo275, comma 4, se la persona da sottoporre a custodia

cautelare sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a

sei anni, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o

assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, il giudice

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può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per

detenute madri, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo

consentano”.

22. Patrizio GONNELLA, Giustizia: Le contraddizioni della legge sulle

detenute madri, <http://www.innocentievasioni.net >, 06/04/2011,

(consultato il 02/11/2017).

23. Ennio TOMASELLI, La Carta dei figli dei genitori detenuti, in «Minori

e Giustizia» 3 (2014), 175.

24. Fonte: Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio del

Capo del Dipartimento - Sezione Statistica

<https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=

0_2&facetNode_2=0_2_1&contentId=SST67886&previsiousPage=

mg_1_14> 30/11/2017, (consultato il 2/12/2017).

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TRA ONDATE DI INCLUSIONE E DISCRIMINI

A cura di Angela Awoenley Abasimi

“Until the color of man skin, will be more significant than

the color of his eyes, there will be war.”

(Bob Marley)

Introduzione del quadro istituzionale generale in materia di

immigrazione

Convenzioni in materia di asilo, normativa comunitaria e

internazionale

Alla base di tutta la normativa europea in questa materia vi è l’articolo 14

della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, che

annuncia: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi

asilo dalle persecuzioni”. [1]

La Convenzione di Ginevra, che nel 28 luglio del 1951 viene adottata a

seguito dei grandi flussi di esuli prodotti dalla Seconda guerra mondiale,

che dà una definizione internazionalmente riconosciuta del termine

rifugiato, e viene istituto nello stesso periodo anche l’Alto Commissariato

delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR). Ai sensi dell’art. 1 della

Convenzione è rifugiato colui che “avendo un fondato timore di

persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un

determinato gruppo sociale o di opinioni politiche, si trova fuori del paese di

cui è cittadino e non può, o a causa di tale timore non vuole avvalersi della

protezione di tale paese”. [2]

In materia comunitaria, sono presenti sostanzialmente due Direttive

Europee che regolano le norme di accoglienza dei richiedenti asilo negli

Stati membri, recepita con decreto normativo in Italia nel 2005; e la Direttiva

Europea del 2004 sulle “norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi

terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di

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protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della

protezione riconosciuta”, non ancora recepita dall’ordinamento italiano.

La legislazione Italiana in termini di immigrazione ha avuto costanti

oscillazioni a partire dagli anni 90’ quando si inizio a legiferare in materia,

fino ai giorni nostri, dipendenti in particolar modo dal orientamento politico

delle maggioranze presenti al governo, passando da periodi di maggiore

accoglienza a periodi di forte discriminazione e stigmatizzazione, derivanti

anche da avvenimenti storici che hanno cambiato profondamente la

percezione del migrante nel mondo occidentale, passando dalla percezione

del migrante come risorsa lavorativa, soprattutto per il suo impiego in lavori

poco desiderabili, al migrante/straniero percepito come minaccia al

benessere comune, soprattutto dopo i fatti del 2001 con la caduta delle torri

gemelle e la paura generalizzata nei confronti dell’altro.

Iter storico riguardo la legislazione in materia di politiche per

l’immigrazione

A fronte di questo incipit, ritorniamo in Italia. Il primo fondamento per tutto

ciò che seguirà è la Costituzione Italiana, che dichiara nell’art. 10, 3°

comma: “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio

delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto

d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le disposizioni stabilite dalla

legge”. Definendo il cosiddetto “asilo costituzionale” che delinea la figura del

richiedente asilo in modo più ampio rispetto alla definizione di rifugiato

prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1951.: l’art. 10, 3° comma, della

Costituzione italiana, infatti, ricomprende ogni ipotesi in cui sia impedito

l’esercizio delle libertà democratiche, anche non necessariamente

riconducibili a fenomeni di persecuzione.

Negli anni 90’, precisamente nel 1986, è la legge numero 943, che disciplina

per la prima volta il fenomeno migratorio in Italia. Questa riconosce il

fondamentale diritto al ricongiungimento familiare ai lavoratori stranieri che

vivono in Italia regolarmente, afferma, almeno in principio, l’equiparazione

dei diritti tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri. La legge 943 attua la

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prima regolarizzazione, sotto forma di sanatoria, dei lavoratori stranieri: di

fronte ad un flusso migratorio che in quegli anni ha ancora proporzioni

modeste, ancora non si pensa, come si farà in seguito, a una

programmazione dei flussi in relazione al mercato del lavoro, e neppure si

regola in alcun modo l’espulsione, rimessa a generici “principi di pubblica

sicurezza”. Fino a quel periodo, l’unico strumento di gestione del fenomeno

migratorio era rappresentato dal testo unico di pubblica sicurezza del 1931,

integrato nel corso del tempo da varie circolari ministeriali volte a tamponare

le innumerevoli carenze legislative.

Nel 90, viene approvata la legge Martelli (legge 39/90), a seguito delle

richieste dagli altri paesi europei che temevano un afflusso di migranti, che

passando per l’Italia avrebbero avuto un accesso facilitato e irregolare nei

loro paesi. Perciò questa legge fu caratterizzata da una forte restrizione

degli ingressi e sanatorie, per regolarizzare al più presto i migranti che già

risiedevano e lavoravano in Italia.

A partire da questi anni, cominciarono anche i grandi flussi migratori,

principalmente dall’Albania, causati dagli sconvolgimenti politici che in

quegli anni imperversavano nei Balcani. Molti di loro vennero riconosciuti

come rifugiati politici, regolarizzando in questo modo il loro status in

territorio italiano.

La legge 39/90 fu la prima a pensare ad un sistema di regolazione dei flussi

migratori, prevedendo decreti interministeriali annuali per la fissazione delle

quote di migranti. Purtroppo, però, a causa dei ritardi di amministrazione e

incapacità di prevedere e affrontare il fenomeno migratorio che caratterizzò

questo periodo, il sistema migratorio italiano finì nell’assestarsi su un doppio

binario di ingressi irregolari, e mancanza di un vero processo di

stabilizzazione degli stranieri già presenti. (Vergoni, 2009)

La legge Martelli, inoltre introdusse l’obbligo di visto per quasi tutti i paesi

da cui provenivano i flussi migratori, riformando i controlli di frontiera e

attribuendo grande importanza alle espulsioni, usate come metodo per

contrastare l’immigrazione clandestina/irregolare. Ciò permise, un anno

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dopo l’approvazione di questa legge all’espulsione in toto di migliaia di

rifugiati albanesi.

Successivamente, i decreti che sono seguiti in questa materia negli anni 90

non hanno cambiato la percezione del fenomeno migratorio, sempre più

legato nell’immaginario collettivo a un problema di ordine pubblico e difesa

delle frontiere.

Con l’ascesa al potere del primo governo di centrosinistra, viene approvata

nel 1998 la legge Turco-Napolitano (legge 40/98), con la quale si cercò di

operare verso una riforma del sistema migratorio italiano. I punti principali

di questa riforma furono la creazione dei Centri di detenzione Permanente

Temporanea, diffusi anche negli altri paesi europei a fronte degli accordi di

Shengen del 1995, per l’istituzionalizzazione di una riforma migratoria

europea comunitaria; la determinazione di quote d’ingresso annuali di

contingenti per motivi di lavoro, il problema però, era che come nelle

precedenti legislazioni in materia di immigrazione, le quote previste erano

sostanzialmente lontane dalla realtà, costringendo la regolarizzazione di

lavoratori migranti già presenti nel territorio italiano attraverso i vari tipi di

sanatorie a fronte di una domanda di lavoratori particolarmente alta da parte

delle imprese italiane.

Per ritornare ai C.P.T., secondo la legge 40/98, la detenzione in questi centri

doveva essere effettuata solo in casi estremi, ossia dove non vi era altra

soluzione possibile, ma nel corso della prassi il ricorso al trattenimento da

parte delle questure andò in crescendo. La legge Turco – Napolitano, si

articola fondamentalmente in due direzioni: da una parte le “quote” degli

ingressi regolari (un numero fissato ogni anno sulla base di un documento

programmatico triennale, con una parte delle quote riservata ai lavoratori

dei paesi con cui l’Italia ha stipulato accordi bilaterali, i quali trattati

disciplinano anche la riammissione degli irregolari nel loro paese d’origine);

dall’altra un ruolo centrale, già accennato, che viene assegnato all’atto

dell’espulsione dell’immigrato irregolare (il previsto accompagnamento alla

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frontiera, è disposto dal Ministero dell’Interno per motivi di ordine pubblico

e di sicurezza dello Stato). [3]

Il caso dell’Albania

Nel 1990 avviene il crollo del regime comunista albanese, in migliaia si

rifugiano nelle ambasciate in cerca di aiuto, in quella Italiana 803 rifugiati, e

quasi altri 5000 nelle altre ambasciate. Interviene l’ONU che chiede al

governo albanese di concedere i visti per lasciare andare i suoi cittadini,

inizia in questo modo una fuga che non avrà precedenti.

"E' a partire dal 7 marzo 1991 che gli albanesi sono entrati a pieno titolo

sulla scena nazionale ed internazionale con quello che fu denominato

'l'esodo biblico'; lo hanno fatto nella forma più spettacolare che tanto

impressionò l'immaginario collettivo della popolazione italiana e mondiale:

in tutte le case italiane, attraverso centinaia di ore di trasmissioni televisive,

quelle immagini si imposero all'attenzione generale. Come d'incanto

emerse la condizione di un popolo avvolto per mezzo secolo in un involucro

impenetrabile. Nei tre porti di Brindisi, Bari ed Otranto arrivarono 25.708

albanesi su quelli che presto furono definiti "carretti di mare". [4]

Ancora oggi, nel porto di Brindisi che sperimentò questo grande esodo, la

popolazione ricorda gli eventi accaduti. Infatti, vent’anni dopo la città ricorda

quel momento con una serie di iniziative. Il Comune ha organizzato una

serie di incontri dal titolo: "La città ospitale Albania-Brindisi, 20 anni dopo".

Quel 7 marzo 1991, il paese non era preparato ad accogliere un esodo di

quel tipo. I brindisini si trovarono di fronte a un fiume di persone stremate e

senza forze, affamate e assetate. Molti cittadini di Brindisi scesero in campo

per fornire aiuti alimentari, vestiario e medicinali. Dalle navi scendevano

donne, bambini e uomini in condizioni disperate. Fuggivano da un paese in

piena crisi economica e per loro l'Italia rappresentava un futuro migliore.

Avevano immaginato la loro 'terra promessa' guardando i programmi

televisivi italiani che arrivavano nelle loro case in Albania. Film e talk show

che descrivevano benessere e ricchezza e avevano contribuito a costruire

quel sogno. [5]

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Proprio in quegli anni era da poco passata la legge Martelli, che però

garantiva l’accesso e la permanenza solo ai rifugiati politici, e la maggior

parte degli albanesi che attraccavano nei porti italiani, su imbarcazioni di

fortuna non lo erano. Questo rese la situazione ancora più difficile di quanto

non fosse già. Le autorità non erano pronte a far fronte a questo fenomeno,

non vi erano strutture, non si sapeva dove “mettere” queste persone, nel

frattempo le comunità locali cercavano di fare del loro meglio per aiutare

quelle persone che arrivavano stremate da quel viaggio della speranza. Il

primo approccio fu quello di solidarietà da parte della popolazione italiana,

lo stato istituiti dei decreti ad hoc per cercare di arginare la situazione nel

miglior modo possibile, ed allo stesso tempo cercava di entrare in contatto

con le autorità albanesi al fine di trovare un accordo per regolare il flusso

migratorio.

Il tempo però mancava, già nell’Agosto del ’91 arriva un secondo esodo,

questa volta però attraccare fu più difficile. Dopo essere stati rifiutati dai porti

di Brindisi e Monopoli, la nave Vlora che passerà alla storia come la nave

con più clandestini, ben 20.000 persone ammassate in questa nave, in

cerca di un posto migliore in Italia, viene ormeggiata nel porto di Bari.

Stavolta però trovarono un’accoglienza più fredda. L’Italia temeva

un’invasione, la paura di queste nuove persone in arrivo, che venne

alimentata anche dal linguaggio usato dai mass media, aumentò in modo

tale che quel giorno verrà ricordato anche come una macchia indelebile di

indifferenza da parte del popolo italiano verso delle persone bisognose.

Una volta attraccata, le persone nella nave vennero tutte portate allo Stadio

della Vittoria di Bari, e lì rinchiuse in attesa di essere deportate. Lo Stato

italiano adottò la linea dura, scegliendo di rimandare a casa la “massa” di

migranti e cercare di adottare delle politiche per “aiutarli a casa loro”, termini

che ritornano anche ai giorni nostri con la cosiddetta “crisi” migratoria.

Una crisi, che almeno per quanto riguarda i flussi dall’Albania, ormai sono

considerati stabili, e dunque non più una “problematica” da gestire con

misure d’emergenza.

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Gli anni 2000 e l’inizio delle politiche di chiusura

Nel 2002, col cambiamento di governo e l’ascesa del centrodestra, venne

approvata la legge Bossi-Fini, che cerca come obbiettivo principale di

contrastare l’irregolarità e l’immigrazione clandestina, coinvolgendo nel

processo, per la prima volta anche i datori di lavoro, che si vedono costretti

a dichiarare i contratti di lavoro favorendo la regolarizzazione dei migranti,

attraverso la stipulazione di contratti di soggiorno in Prefettura. La nuova

legge, inoltre riduce drasticamente le possibilità di ingresso regolare, la

durata dei permessi di soggiorno legandoli fortemente ai contratti di lavoro,

secondo questa nuova legge, difatti poteva entrare in Italia solo il migrante

già in possesso del contratto di lavoro.

Inoltre, tra le novità apportate da questa legge vi è il reato penale di

permanenza clandestina, per cui lo straniero che viola l’ordine di

abbandonare lo Stato, comminato quando non si riesce ad espellere

forzatamente il migrante oppure all’uscita di questi dal CPT per scadenza

del termine (60 giorni, permanenza raddoppiata rispetto ai tempi definiti

nella legge Turco-Napolitano). L’ampliamento e rafforzamento di

quest’ultimi, successivamente rinominati come Centri di identificazione e

Espulsione (C.I.E), che vengono sempre di più utilizzati come veri e propri

centri di detenzione per gli immigrati in attesa di espulsione. Nel 2004 viene

formulato per la prima volta il reato di inottemperanza all’ordine del

questore, come contravvenzione punibile con l’arresto dai sei mesi fino ad

arrivare anche ad un anno. La Corte costituzionale, nel luglio di quell’anno,

giudicò la misura in questione come anticostituzionale, considerando

l’arresto obbligatorio per una contravvenzione come misura eccessiva del

sistema processuale penalistico. Nonostante ciò, con un decreto che

successivamente venne convertito in legge, il centrodestra riuscì ad

aggirare la sentenza della Corte, portando perfino la pena per il reato di

inottemperanza al questore fino ai 4 anni di reclusione. Infine, per quanto

riguarda la situazione dei rifugiati politici, vige una mancanza di una norma

organica in materia d’asilo, la legge Bossi-Fini rende il trattenimento

detentivo dei richiedenti asilo la prassi, non adeguandosi agli standard

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internazionali in materia, che invece prevedevano la detenzione solo in casi

estremi.

Nel 2009, la legge 94, cosiddetto pacchetto sicurezza introduce il reato di

immigrazione clandestina, la quale prevedeva un’ammenda da cinquemila

a diecimila euro per lo straniero che entrava illegalmente nel territorio

italiano. Su questa materia vige ancora il vuoto costituzionale, anche se nel

2013 la commissione di giustizia del Senato aveva approvato un

emendamento che se confermato, abolirebbe questo reato. Inoltre, nel 2014

una legge delega approvata dal parlamento dava al governo 18 mesi per

emanare un decreto legislativo che depenalizzasse l’ingresso e il soggiorno

irregolare, ma ancora ad oggi non ci sono stati avanzamenti in materia.

Percorso delle politiche per l’integrazione in Italia.

Nonostante le prime leggi in materia di integrazione risalgano al 1986, i

primi tentativi di intervento in materia di politiche per l’integrazione

cominciarono solo verso la metà degli anni 90’, con la legge Mancino nel

1993 che aveva lo scopo di combattere i crescenti episodi di xenofobia,

razzismo e discriminazione.

A causa di dibattiti politici e varie alternanze tra governi di centrosinistra e

centro destra, non vi furono molti altri provvedimenti legislativi in materia di

integrazione a livello nazionale. Molto di quello che riguardava queste

normative fu affidato alle amministrazioni regionali, alle quali fu affidato il

compito di istituire dal punto di vista procedurale di coordinare e indirizzare

le politiche di integrazione. I comuni erano gli enti principali per l’esecuzione

e la creazione di queste normative, con margini di autonomia a seconda del

grado di accentramento delle governance regionali.

All’inizio degli anni 2000, con la modifica del Titolo V della Costituzione e la

legge di riforma dell’assistenza sociale, le politiche d’integrazione vennero

sempre più spinte ad essere prese in mano dagli enti regionali e locali. Con

queste riforme, gli enti locali hanno acquisito notevoli poteri di formulazione

di politiche in rispetto ai temi dell’integrazione. Purtroppo, però, come

rilevato da Andrea Stuppini [6] (2013, 66-67), la disorganizzazione nelle

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elaborazioni progettuali degli enti locali, soprattutto nei primi anni di

applicazione dello strumento dei Piani di zona portò come risultato alla

mancanza della possibilità di proseguire con una pianificazione a livello

nazionale, facendo passare in secondo piano, dal 2001 fino al 2010, il

proposito fissato nella legge Turco-Napolitano di avere una pianificazione

triennale su queste materie.

Un calo importante sull’importanza di questa materia fu rilevato, a tal

proposito nel 2001, col la riforma costituzionale, che consentì la

soppressione del Fondo per le politiche migratorie, confluite nel Fondo

nazionale delle politiche sociali, togliendo il vincolo di destinazione e perciò

anche l’obbligo di programmazione in materia di integrazione da parte delle

regioni. A partire dal 2005, e ancora di più nel 2007, ci fu una drastica

riduzione del Fondo per le politiche sociali, costituendo una difficoltà ancora

maggiore per le regioni nella scelta di implementare politiche volte

all’integrazione dei migranti. Difatti, solo nove regioni hanno continuato a

portare avanti una programmazione regolare in questa materia.

Nonostante questo scenario, nel 2005 emerge un nuovo strumento a tutela

di queste politiche, nato dalla cooperazione tra il Ministero delle Politiche

sociali e gli enti regionali, ossia gli Accordi di programma finanziati tramite

il Fondo nazionale per le politiche sociali (FNPS) e il Fondo Europeo per

l’Integrazione (FEI), il quale fu istituito nel 2007 e che ha probabilmente

rappresentato la svolta nelle politiche di integrazione. Questi fondi furono

utilizzati principalmente per l’attuazione di programmi per l’insegnamento

della lingua italiana e formazione professionale.

Va tuttavia ricordato che, a partire dalla seconda metà degli anni 2000,

con l’emergere di un dibattito sull’identità culturale italiana e sul

multiculturalismo, anche in Italia , come negli altri paesi Europei, si è

assistito a un processo di una graduale ri-definizione del concetto di

integrazione in senso sempre più neo-assimilazionista, con un’enfasi

crescente sulla necessità di stabilire un quadro di regole e valori di

riferimento a cui gli immigrati dovrebbero aderire in modo esplicito e

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inequivocabile. Un primo passo in questa direzione è rappresentato

dall’introduzione della cosiddetta Carta dei Valori dell’Integrazione e della

Cittadinanza, redatta da un Comitato Scientifico nominato dall’allora

ministro dell’Interno Giuliano Amato, e che, nelle intenzioni del ministro

avrebbe dovuto inserirsi nel quadro di una riforma più generale dei criteri di

accesso alla cittadinanza. [6]

Nel 2009 poi, sotto il governo Berlusconi, con l’attuazione del Pacchetto

sicurezza, si avvia un accentramento delle politiche di integrazione, sempre

più dirette a livello nazionale, portando, per la prima volta, la costituzione di

un collegamento tra politiche di integrazione e gestione dei flussi, che fino

ad allora erano stati gestiti distintamente. Viene introdotto l’Accordo di

integrazione, che consisteva in un contratto che doveva essere firmato dal

migrante nel momento del rilascio del primo permesso di soggiorno.

Secondo questo contratto i migranti si impegnano a conseguire degli

specifici obiettivi di integrazione che sono stati successivamente indicati nel

regolamento di attuazione, diventato tuttavia operativo solo nel marzo del

2012. L’accordo ha una validità di due anni e impegna l’immigrato su alcuni

punti principali: il raggiungimento di un livello di conoscenza sufficiente della

lingua italiana (livello A2 del Quadro comune europeo di riferimento per la

conoscenza delle lingue, QCER), della Costituzione e della cultura civica

italiana, tra cui in particolare il settore sanitario, il sistema educativo, i servizi

sociali, il funzionamento del mercato del lavoro e degli obblighi fiscali; lo

straniero che aspira al permesso di soggiorno si deve inoltre impegnare a

far rispettare l’obbligo scolastico per i minori a carico. [7]

Infine, nel 2010, il governo Berlusconi presentò un nuovo documento che

avrebbe dovuto spingere verso l’ulteriore integrazione della popolazione

straniera, ma che nella pratica poi, si rivelò uno strumento non

implementabile, a causa della scarsità dei fondi. Si parla del Piano per

l’integrazione nella sicurezza. Identità è incontro, che non riuscirà ad entrare

in atto pienamente a causa dei ritardi burocratici per l’attuazione del piano,

e la mancanza di desiderio di cooperazione e discussione tra l’ente

nazionale e le amministrazioni regionali e locali, risultando in una politica

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solo di facciata, volta all’integrazione. Ma allora la domanda che sorge è

perché ci sono state così tante incongruenze dal punto di vista politico e

amministrativo? Perché nonostante le appartenenze politiche più o meno

conservatrici, si è visto in regioni come il Veneto, una maggiore dedizione

all’integrazione degli stranieri, soprattutto nel settore lavorativo del tessile,

nonostante in questa stessa regione vi sia una prevalenza di ideologie

politiche di destra? Forse a tal proposito possiamo cercare alcune di queste

risposte nello studio degli aspetti psicologici dei processi sociali.

Analisi di concetti di dinamiche sociali nell’incontro tra il “noi” e

il “loro”

Nello studio più specifico, riguardo al fenomeno migratorio, e alla

percezione del migrante nella società di destinazione, si evidenzia la

trasformazione da stereotipo a pregiudizio, in quanto più comunemente si

trovano giudizi prevalentemente negativi da parte degli autoctoni, che

attraverso la rappresentazione dei media spesso fuorviante, rappresenta il

migrante come nulla facente e una minaccia per il benessere pubblico.

Questa teorizzazione viene avvalorata anche dai processi storici a fronte di

ciò che è stato descritto sopra.

Le fondamenta del pregiudizio sono molte, e il più delle volte interconnesse;

tra quelle più evidenti abbiamo i pregiudizi determinati da cause socio-

economiche, processi psico-sociali e/o processi di natura intra-individuale.

Quest’ultimo processo menzionato, proviene dalla teoria della frustrazione-

aggressività, descritta da Dollard e collaboratori nel 1939. Tale teoria,

generalmente applicata al comportamento aggressivo, può anche essere

studiata come base dei comportamenti discriminatori e pregiudicanti; difatti,

secondo Dollard, “dietro ad ogni comportamento aggressivo vi è una

frustrazione”, questa frustrazione è legata al non soddisfacimento di un

bisogno primario dell’essere umano. Perciò, soprattutto nelle situazioni di

depressione economica, gli autoctoni, attraverso esperienze reali o indotte

da un certo tipo di dis-informazione massificata di fenomeni, percepiscono

fenomeni come quello migratorio, come minacce o capri espiatori dei

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problemi della società e del presunto pericolo di non soddisfacimento dei

bisogni primari della società residente. Difatti, nelle applicazioni psico-

sociali di questa teoria, lo stato di frustrazione può essere esteso anche a

fattori simbolici, che fanno si che gli appartenenti allo status di outgroup

vengano interpretati come “minaccia allo status dell’ingroup, o ai suoi valori,

o alla cultura in generale”, a fronte di ciò le persone tenderanno ad

assumere atteggiamenti più diffidenti e negativi verso “l’altro” percepito

come minaccia. Questo spiega perché, nei periodi di grande tensione dal

punto di vista sia nazionale che internazionale, ad esempio la paura sorta

dopo i vari attacchi terroristici, a partire dalla caduta delle torri gemelle, fino

ai più recenti fatti che hanno colpito il mondo occidentale, vi sia stata una

progressiva chiusura nei confronti dell’altro generalizzato, con conseguenti

approvazioni di politiche discriminatorie e xenofobe, come si può notare

dagli argomenti trattati precedentemente.

Inoltre, dal punto di vista socio-economico, rifacendomi alla teoria del

conflitto realistico di Campbell (1965) e Sherif (1966), fenomeni come

pregiudizi e conflitti vengono ricondotti alle relazioni sociali tra i gruppi,

assumendo alla base di tutto: che l’essere umano è sostanzialmente

egoista, e il suo scopo è quello di cercare di massimizzare i suoi profitti.

Perciò i conflitti tra gruppi nascono sostanzialmente perché le risorse sono

scarse, ciò porta i gruppi ad entrare in competizione tra di loro per riuscire

ad accaparrarsi le risorse presenti. Questa situazione di, quella che

chiamano oggi “guerra tra poveri”, porta ad una interdipendenza negativa

(Sherif, 1966) che porta necessariamente al conflitto, che si esprimerà poi

in atteggiamenti xenofobi attraverso pregiudizi, discriminazioni,

comportamenti aggressivi e bellicosi. [8]

A proposito della comparazione tra “noi” e “loro”, Tajfel e Turner (1986)

parlano dell’identità sociale costruita attraverso l’appartenenza a un gruppo.

Secondo questi autori, l’individuo possiede una molteplicità di personalità

che sono determinate da ciò che considera come il suo ingroup, che può

essere il suo gruppo di amici, la sua famiglia, il suo paese di nascita, ecc.

Come l’individuo valuta la sua appartenenza svolge un ruolo determinante

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nell’origine del pregiudizio. Difatti l’individuo, sarà generalmente più

tendente a valutare positivamente il suo gruppo di appartenenza, e nel

momento del confronto ad essere più propenso ad avere dei pregiudizi nei

confronti del gruppo estraneo. [9]

Ai fini della nostra ricerca, è interessante anche l’aspetto descritto nella

teoria dell’identità sociale che studia le differenti tipologie di minacce

dell’identità. In particolare, vorrei soffermarmi sulle minacce all’identità

sociale, che possono verificarsi quando la moralità del gruppo viene messa

in discussione. Questa forma di minaccia penso sia una delle modalità con

cui potremmo interpretare i recenti avvenimenti in materia di immigrazione

ai giorni d’oggi.

Negli ultimi tempi, soprattutto negli stati Occidentali, dati i recenti

avvenimenti legati al terrorismo internazionale sembra trasparire un

costante stato di minaccia, da varie ricerche condotte sulle percezioni che

si evidenziano sui social, il disagio è evidente, e non solo su internet, ma

anche nella vita di tutti i giorni, sembra esserci un aumento della xenofobia

e di conseguenza della paura diffusa. Fatti di cronaca nera, come la morte

del sindacalista Soumaila Sacko, con un colpo di fucile, gli attacchi ai centri

di accoglienza avvenuti in Trentino Alto Adige con tanto di scritte razziste e

simboli con svastiche annesse, e molti altri episodi che stanno diventando

all’ordine del giorno.

Conclusioni

Oramai viviamo in un mondo, sempre più diversificato e multiculturale, dove

l’incontro e la convivenza tra culture diverse è inevitabile. Dove si sente un

bisogno pressante, dai “nuovi” gruppi societari di essere ascoltati e visti.

Dove l’indifferenza e la chiusura di porte e porti, mostra ancora più

evidentemente il bisogno di un cambiamento dei paradigmi che costruivano

la società prima dell’avvento della globalizzazione, nel senso di movimento

di massa di persone. La chiusura delle frontiere sembra solo il palesamento

degli ultimi sprazzi di paura di fronte ad un mondo che cambia, che sta

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cambiando velocemente, anche se a qualcuno potrebbe non far piacere, la

mescolanza è sempre più evidente.

Le seconde generazioni, in Italia, ormai rappresentano la necessità di

cambiare mentalità, un outgroup che quasi non ha confini con l’ingroup di

autoctoni, perché sono ragazzi che parlano la lingua, che pensano in

italiano, che si identificano almeno in parte come Italiani e che chiedono

riconoscimenti da parte dello stato e degli Italiani per discendenza, il diritto

ad essere riconosciuti come membri dell’ingroup di italiani.

Ma ormai, possiamo veramente afferma l’esistenza di un noi ed un loro?

Chi sono i “noi” e chi gli “altri”?

In fin dei conti, fino ad ora abbiamo parlato di come l’incontro tra culture

diverse provochi conflitto, ma il conflitto avviene quando i gruppi dissidenti

hanno delle chiare divisioni tra loro, e ormai quella sottile, invisibile linea

che divideva gli Italiani dai Non Italiani, ma in quest’epoca ci si deve

chiedere chi è il vero straniero? È veramente così diverso da noi? E chi

siamo noi?

La “seconda generazione”, i figli di migranti, che a volte si identificano

meglio con la popolazione e la cultura della popolazione autoctona, da cui

però con incoerenza sono osservati con diffidenza e da altri come

“assimilati” alla cultura locale. Chi sono questi ultimi?

Forse un giorno avremo un mondo, in cui la pluralità culturale sarà la norma,

il movimento sarà la norma, e non ci giudicheremo l’un l’altro a seconda del

nostro “presunto” gruppo di appartenenza. E lo stereotipo, ed il pregiudizio

saranno solo un ricordo simpatico, su cui ironizzare.

Bibliografia

1. Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e del cittadino

2. Convenzione di Ginevra (1951)

3. Vergoni, Antonio. «Breve storia legislativa dell’ Immigrazione in

Italia.» A.R.I.S. Associazione di Ricerca e Intervento Sociale (2009)

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Roma: Sensibili alle foglie, 1996

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6. Caponio, Tiziana. Dall’ammissione all’inclusione: verso un approccio

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7. Campomori, Francesca. «Le politiche per l’integrazione degli

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Costituzione Italiana

Sitografia:

• http://www.adir.unifi.it/rivista/2010/mehillaj/cap1.htm#34

• https://www.vice.com/it/article/xdebn3/italia-razzismo-interviste

• Treccani