CONV Percorsi di uscita EGNO dalla società della Paura · [ la paura mangia l’anima 25.02.2006]...

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CONV EGNO 25-02-2006 CONVEGNO LUCA ROSSI Percorsi di uscita dalla società della Paura La Paura mangia l'Anima

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CONVEGNO

25-02-2006

CONVEGNO LUCA ROSSI

Percorsi di uscita dalla società della Paura

La Paura mangia l'Anima

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titolo dell’operasu due righe

NogmeClognomefotografo

Siamo sul finire di febbraio, il 23 febbraio dell’anno 1986, in una piazza

della Bovisa, a Milano. È sera, Luca e Dario, giovani militanti e studenti

universitari, non ancora vent’anni, stanno correndo per prendere

la filovia in piazzale Lugano. Hanno l’ennesimo appuntamento, stavolta

con un amico, e insieme tante cose da intraprendere, da dire,

da realizzare nella città. La passione e la vita, la dolcezza e la lotta glielo

consentono. In comune hanno anche lo stesso desiderio: capire come va

questo maledetto mondo, quindi osservarlo, studiarlo, frequentarlo

e non da ultimo cambiarlo alla radice affinché smetta d’essere minaccioso

e ingiusto e diventi un luogo ospitale e accogliente per tutti gli esseri viventi,

umani inclusi.

L’ideale dei vent’anni è generoso, testardo, senza paura: è il sogno

più bello che vorrebbe occupare le strade, l’affermazione entusiasta

del possibile, la corrente calda che attraversa la città di ghiaccio

e non dimentica gli impegni presi.

E il reale? Il reale non sogna mai, se ci prova genera incubi.

Poco distante, in un altro punto della stessa piazza, alcune persone

discutono animatamente. X, 27 anni, in forza alla Digos, fuori servizio,

estratta la sua pistola d’ordinanza e piegate leggermente le ginocchia

in posizione di tiro punta e spara. Due colpi lacerano l’aria:

una traiettoria dall’esito micidiale collega il reale all’ideale.

Improvvisamente Luca è a terra, ferito a morte. Uno dei proiettili l’ha

raggiunto al fianco di rimbalzo. La sua vita è straziata.

Morirà durante la notte, in ospedale.

gli amici e i compagni di Luca

Questo volume raccoglie delle testimonianze.Testimoniare per noi significa, innanzitutto,manifestare in prima persona, dare prova, atte-stare un’amicizia. È proprio l’amicizia per Lucache ci ha mossi, parenti e amici, a ricordarloancora, vent’anni dopo la sua morte, e ci haspinti a organizzare a Milano, nel febbraio del2006, una settimana di iniziative a lui dedicate:testimonianza diretta d’un legame ancora vivoche permane e che ci unisce.Tra quelle iniziative furono promossi anche unamostra grafica-fotografica e un convegno, dedicatial tema della paura nella realtà odierna e alle prati-che per disattivarla. Il presente volume ne è l’esito.La mostra, intitolata: Il segreto è dirlo: raccontarela paura, ha coinvolto gli studenti e gli insegnan-ti dell’ITCS di Bollate, l’istituto superiore cheLuca frequentava da ragazzo.Gli studenti sono stati invitati a pronunciarsiliberamente, ciascuno col proprio linguaggioespressivo e mediante l’uso di materiali diversi,intorno a un interrogativo che ritenevamo eche riteniamo ancora attuale e fondamentale,ma sul quale forse non ci si sofferma con ladovuta attenzione, non si comprende appienoné si comunica abbastanza, fino al punto dadisinnescarlo e superarlo.Il tema della paura ha una sua evidente imme-diatezza, una concretezza di vissuto: ogni essereumano, prima o poi, ne ha fatto una qualcheesperienza, accede a questo stato d’animo e, selo desidera, può provare a comunicarlo senzatimore di smentita. Per questo suo carattere diconoscenza implicita e generale, che consente,eventualmente, una condivisione altrettantoimmediata con gli altri, il tema ci pareva dotatod’una sua intrinseca semplicità. Senza con ciòsottovalutare il fatto che se la paura, oggigior-

no, risulta il fondamentale collante della società,e ci domina in quanto individui separati, è forseperché non ne sappiamo ancora abbastanzaper affrontarla in maniera radicale ed efficace.Prendendo spunto da una frase di BertoldBrecht, leggermente parafrasata per l’occasione:“Stiamo seduti assieme come gente addormenta-ta ma che fa sogni inquieti. È vero, teniamo gliocchi aperti. Ma non guardiamo, fissiamo. Nonascoltiamo, siamo inchiodati. Guardiamo il palco-scenico come se fossimo stregati”, abbiamo per-ciò domandato ai ragazzi di dirci cos’è secondoloro la paura, cosa fa paura e cosafa o non fa fare la paura, sugge-rendo già nel titolo che se questosentimento rende passivi, ipnotiz-za, impedisce di vivere pienamen-te, se rende inabili all’agire e aldire fino a innescare la rassegnazione al presen-te, per quanto insopportabile esso, allora la pri-ma cosa da fare, per disattivarne la carica inibi-toria,è quella di darsi la possibilità di mostrarla,di svelarla, di esteriorizzarla,perché oggettivan-do e circoscrivendo la paura/le paure in una opiù forme condivisibili, e rintracciandone l’ origi-ne, si riesce forse a non soccombervi comedelle vittime impotenti.Molti ragazzi hanno partecipato scavando nelproprio vissuto. Le opere qui raccolte ne sonole prove, le testimonianze dirette.Affermazioniartistiche che intendono attestare un Vero per-sonale, eccentrico e intimo, in alcuni casi pensatoe portato alla superficie per la prima volta.Come si potrà notare, osservando le opere, sitratta di lavori esteticamente interessanti perchéi materiali e le idee prescelti dialogano abilmentetra loro nell’intento di dare corpo a un fenome-no, la paura, di presentare in atto un sentimento

tanto potente quanto evanescente nei suoi con-torni, rendendolo pubblicamente intelligibile.Tra i diversi lavori, una particolare menzione vaal “Muro della Paura”, un’opera realizzata conmattoni di polistirolo, ciascuno dei quali è deco-rato e illustrato in maniera originale, come unverso in sé compiuto ma non a sé stante, vòltoa comporre in un insieme di tanti piccoli e gran-di spaventi un Tutto che fa da simbolo polimor-fo di questi nostri tempi, di questo mondo sot-to minaccia permanente, che non riesce aschiudersi e continua a rinchiudersi, illudendosi

di trovare, così, una definitiva sicurezza.Le stesse domande, relative al tema suddetto,sono state rivolte anche ad alcuni fotografi pro-fessionisti, che hanno partecipato alla mostratestimoniando a loro volta una riflessionealtrettanto intensa e personale.

INTRODUZIONE

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ringraziamenti e presentazione

CALLEGAROcristina

Questa è la settimana dedicata al ricordo del nostro caro amico Luca.

Come avete potuto vedere, in questa stanza ci sono i lavori dei ragazzi dell’ITCS di Bollate.

Sono lavori molto belli, che hanno fatto su nostro invito. Il tema era quello della paura, che

cos’è la paura, cosa ci fa paura. Hanno avuto idee veramente originali, compresa quella

straordinaria del Muro della Paura, fatto di mattoni di polistirolo, ciascuno con un un suo

messaggio. Sono stati bravissimi, hanno aderito con entusiasmo, io li ringrazio ancora e

ringrazio gli insegnanti che hanno partecipato. Ringrazio voi che siete qui, ringrazio gli amici

comuni, coi quali ho lavorato in questi giorni per questa operazione. Perché se non eravamo

tutti insieme, non si riusciva. Adesso introduco brevemente questo tema, che gli altri

affronteranno ciascuno secondo il proprio percorso di studio e di vita.

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Carcere S. VittoreV Raggio. Spionci-ni per l’osservazio-ne dei detenuti in cella.Luglio 2005

LucaBonaviafoto

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“Il demonio”

Il demonio, unapresenza oscura

e misteriosa che siimpossessa delle

menti di noi umani

CristinaPieri

Questo incontro intende rispondere a un biso-gno. Il bisogno di spegnere, almeno tempora-neamente, la televisione globale, ove l’occhioumano s’è rapito e straniato, per creare unospazio all’introvisione personale, al guardarsidentro, intimo, di ciascuno e della sua comunitàd’appartenenza e, con questa immersione nellospazio profondo, provarsi a conoscere o rico-noscere, comunicare e anche suggerire prati-che per superare,“naturalmente” (senza ulte-riori supporti tecnologici), uno dei moti umanipiù silenziati e insieme più detonanti del viverecontemporaneo: il senso di paura.La paura ha ormai attanagliato il mondo, com-preso il suo esteso mercato transnazionale,declinandosi nelle infinite forme di semprenuovi feticci, con interruttore e certificato dilaboratorio inclusi, che ci promettono, ogni vol-ta, protezione e invulnerabilità, così come altri

idoli ci garantiscono il sublime godimento. Se èvero che il meccanismo della paura appartienealla specie umana, alla sua storia evolutiva tra lealtre specie naturali, è anche vero che la pauraè divenuta, nel farsi della Storia, ma forse nondi tutte le storie, un sentimento operativopotente, in grado di esternarsi in maniera aber-rante nella realtà quotidiana.Tacendo delleinnumerevoli guerre che attualmente circoscri-vono la nostra geografia, giacché è su di esse, econ esse, che disegniamo i confini e le identità,incapaci di sentirci umani senza altri distintivi, ifrequenti attacchi di follia omicida plurima,interni a una comunità, come nel caso degliStati Uniti dove gli individui, in nome dell’auto-difesa, circolano muniti di 200 milioni di armi dafuoco perché ciascuno si senta libero di nonsentirsi minacciato, testimoniano proprio diquest’aberrazione.

La paura è rintracciabile ovunque: ovunque sivolga l’attenzione, ovunque si presti ascolto,ovunque si applichi la riflessione per compren-dere ciò che accade a noi abitatori sapiens-insi-piens del pianeta azzurro, immediatamente s’in-contrerà la rete a maglie fitte, tesa e chiassosadegli innumerevoli dispositivi di avvertimento,di allarme, di controllo, di emergenza e direpressione messi in atto per tutelarci e perciònon ci sarà difficile credere e convincerci, ulte-riormente, che proprio questi ultimi, nostri,sono i tempi del pericolo, della minacciaincombente e della paura continuamente rige-nerata. Siamo perennemente a rischio, sul limi-nare della prossima catastrofe, umanitaria oecologica. Siamo perennemente in guerra, tranoi e con la natura.Abbiamo proiettato la real-tà conflittuale, la terra del “tragico quotidiano”,della violenza tra gli umani in lotta gli uni con-

tro gli altri , fin su nello spazio innocente dellameteorologia: gli uragani dai nomi femminili cievocano timori ancestrali e fanno tremare laspecie tutta.“È da quando popolano la terra che gli uomini sonoalle prese con il problema di mettersi al sicuro: daifelini predatori e dagli orsi delle caverne, dal fuoco edall’acqua, dai nemici e dai falsi amici.Assieme allagioia, al dolore e alla rabbia, la paura fa parte deipiù potenti impulsi nella storia della specie umana.È un dato di fatto del quale si diviene più fortemen-te consapevoli nei periodi di pericolo. I decenni aureiseguiti all’ultima grande guerra sono passati da unpo’ eppure non è affatto aumentata la capacitàdella gente di sopportare le insicurezze, di esporsi airischi e di fronteggiare i pericoli senza illusioni”,detto altrimenti, non è affatto aumentata lanostra capacità d’accettare il dato ovvio che,oltre ad essere delle “scimmie nude”, come scri-

veva anni fa Desmond Morris, saremmo anchedelle “scimmie impaurite”.L’idea appena esposta, del sociologo WolfgangSofsky, non è nuova. Ripetutamente, nel corsodelle vicende umane, ha trovato continue smen-tite e, tuttavia, essa è ancora largamente condivi-sa tra i sostenitori di una naturale indole “peri-colante”, ovvero a rischio, dell’uomo.A dettaloro, la nostra specie (che ancora non riesce, èvero, a pensarsi come unitaria e integrata al suointorno, e ciascuno vi cresce separato), avrebbediversi reali motivi per sentirsi minacciata e dun-que spaventata. Da una parte c’è la naturaincombente e imprevedibile che ci accerchia dal-l’esterno (ecco perché, tendenzialmente, essa vaprogressivamente manipolata e sostituita da arti-fici tecnologici rassicuranti), dall’altra, c’è l’uomostesso, sempre potenziale nemico per l’altrouomo, (così come sosteneva anche Hobbes, uti-

lizzando la celebre metafora zoomorfa del lupo;ma a torto, per i lupi), l’altro umano che non èriconosciuto e che rappresenta, in sé, una poten-ziale fonte di violenza e di rischio. Per far tacerele innate pulsioni pericolose della nostra natura,servono quindi degli accordi di non belligeranza.E questi accordi creano l’amicizia. In Principio cisarebbe dunque stato non il Verbo, né l’Azione,ma lo Scontro. O il Timore.Questa visione tragica non ci convince affatto.Che essa sia diventata, oggi, la condizione nor-male dell’essere umano, passi, ma che la paura ciappartenga quasi allo stesso titolo del linguaggioverbale ci sembra un pensiero pesante, insoste-nibile. Le semplici parole di Antigone: “non è perodiare che sono nata, è per amare” , testimonianodella possibile immediata biofilia che ci caratte-rizza, e volendo parafrasarle per l’occasione:“non sono nata per temere, sono nata per vivere”

Cristina 01

titol

o ca

pito

lo“Solitudine”

SusannaMambretti

Cristina02

“Venere rinata dalla roccia”

Martina Spitale

“Sola nello specchio”

FrancescaCocomazzi

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si dichiara, in maniera altrettanto apodittica, chesi tratta di ridimensionare ampiamente lo spaziolasciato al senso di paura nel corso della nostraesistenza, che la paura è un’emozione funziona-le alla vita stessa, e non altro.Sul piano biologico, il meccanismo della paura èun “condizionamento adattativo” , in parte innato,in parte appreso, che consente di rispondere conprontezza ad un pericolo imminente, reale. Il sen-timento della paura è un’emozione che compor-ta l’agire. L’agire pro-sopravvivenza sia del singoloche della specie. Esempio: durante lo tzunami, inIndonesia, nel dicembre 2004 (risultato, anche, dipesantissimi interventi antropici). Riconoscendocerti segnali naturali, i membri della comunità deiSimeulue, della provincia di Aceh, spaventati, sonofuggiti sulle alture (così come hanno fatto i bufa-li). Lo stesso per gli zingari del mare e per altrecomunità tribali delle isole Andamane e Nicobar.

Tutti hanno cercato rifugio all’interno. Il saperesalvavita trasmesso ad ogni generazione, dallagenerazione precedente, ha motivato la paura econ essa un’azione efficace.Avere paura significamettersi in salvo. Chi, in quel frangente, non hasaputo motivare la paura è stato sommerso. Finedel pericolo, fine della paura.Cosa succede, invece, se continuiamo a temerecose o situazioni che sono divenute innocue einoffensive? Se la paura si tramuta in uno statod’animo perenne, in un sentimento sociale dif-fuso, endemico, quotidianamente restimolato,perché va giustificato attraverso sempre nuoveminacce? Non si crea allora una sorta di free-zing (congelamento) a oltranza, un blocco chesi “mangia l’anima”, e ci getta nella più totaleimpotenza?Cosa significa porre l’accento sulla sicurezzacome “problema fondamentale” della nostra

specie? Cosa comporta sostenere che la “liber-tà ha bisogno di sicurezza”? Significa forse avalla-re ancora una volta l’idea banale che la difesa,sia come attitudine psichica che come dispositi-vo sociale e statuale, con le sue armi e i suoiapparati, le sue tecniche e le sue strategie è, infondo, un compito umano ineluttabile. Si tratte-rebbe, allora, di amministrare al meglio questidati di fatto antropologici: il governo della sicu-rezza e dell’emergenza, troverebbe qui il suofondamento normale.Non pensiamo più a un’altra possibilità di vita:troviamo continue conferme, per la nostra pau-ra, nella panoplia delle forme dello spaventoche ci offrono l’immaginario mediatico, la stam-pa, il potere, la cultura: il nemico, lo straniero, ilterrorista, la scarsità, le catastrofi, le epidemie,etc. in un circolo vizioso che continua ad ali-mentarsi. Ma se queste formule non fossero

verità auto-evidenti? Se tutte queste categorieconcettuali fossero piuttosto il portato storicodi un infernale meccanismo che struttura iden-titariamente e mantiene i nessi interni alle varietribù, società, comunità, nazioni, civiltà mediantel’innesco e la continua ricarica dell’ostilità e del-l’inimicizia reciproca? Cortocircuito di una mairaggiunta definitiva sicurezza. Ricerca paranoidee segno della rimozione del senso di letizia e digodimento che accompagnano il venire e ildivenire insieme in un mondo comune.L’essere umano in quanto essere naturale èsostanzialmente comunitario, oltre che natale,pensante e agente , e questo significa che quan-do ciascuno nasce, entra immediatamente inuna comunità, esiste in un gruppo umano e gra-zie ad esso, dunque esiste nella relazione e nellareciprocità. La reciprocità è inscritta fin dentro ilnostro corpo, nel nostro cervello: è una condi-

zionale naturale, pre-verbale e pre-riflessiva checi consente di comprendere il significato delleazioni, delle emozioni e dei sentimenti dell’altroperché abbiamo in comune gli stessi meccani-smi neurali . La comunità è riflessa in ciascuno eciascuno potenzialmente la riflette. Possiamoanche arrivare ad affermare che la comunitàaltro non è se non l’insieme del vivente stesso .In un divenire naturale, l’essere umano puòpensare, parlare ed agire. Se tuttavia mancanole condizioni di base, se c’è isolamento, abban-dono, separazione dal processo di vita, dallacontinuità, il processo è aberrato e l’essereumano innanzitutto soffre, e la sofferenza divie-ne un potenziale, latente, spavento per la vita enon potrà che generare altro spavento.Si tratta di uscire dalla paura.Abbiamo inteso cominciare a farlo promuoven-do questo convegno come momento di incon-

tro e di riflessione in comune su alcuni temi:- paure vecchie e nuove, rimosse e manifeste,- l’insicurezza vissuta, indotta, manipolata;- l’ossessiva richiesta sociale di sicurezza;- l’immaginario della paura e l’esibizione spettacola-re del nemico;

- minacce virtuali e preventive e pericoli reali;- la passivizzazione, l’isolamento i il bisogno di controllo.

Oltre le diverse analisi sono presentate anchetestimonianze ed esempi diretti di pratiche dicooperazione e di solidarietà che vanno esatta-mente nel senso, su indicato, di superamento del-la paura e dell’inerzia.I relatori sono invitati, partendo dal proprio per-corso di studio e d’intervento, a illustrare e a ren-dere alla comunicazione le ragioni per compren-dere il fenomeno e non esserne più irretiti.Si ringraziano tutti coloro che hanno partecipato.

Cristina 03

titol

o ca

pito

lo

Cristina04

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titolo dell’operasu due righe

nogmeclognome

titolo dell’operasu due righe

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titolo dell’operasu due righe

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titolo dell’operasu due righe

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titolo capitolo

CARONIAantonio

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“Casting”,Milano 2000

IsabellaBalenafoto

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“Solo e pensoso”

LindaPiovesan

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Sono qui per una serie di motivi, non ultimodei quali, credo, il fatto di avere insegnato pervari anni a quello che un tempo si chiamavaITSOS di Bollate, vedo che adesso si chiamaITCS. Ha pure un nome,“Erasmo da Rotter-dam”, che non mi di spiace perché è la perso-na che ha scritto “L’elogio della follia”. Ero lìproprio negli anni in cui studiava Luca quandosono arrivato. Poi ho fatto altre cose, mi sonooccupato di fantascienza, di immaginario tec-nologico e scientifico, di teoria e pratica dellacomunicaizone. Da qualche anno insegnoall’Accademia di Brera e alla NABA. Ho pen-sato di portare un contributo oggi a questoconvegno, cui mi hanno chiesto di venire gliamici di Luca Rossi, che da anni organizzanoqueste cose... Per ultimo, ho dato una mano afare questo numero speciale di Social Press,dedicato alla paura. Oggi vorrei parlarvi di

qualcosa che forse sembrerà un po’ eccentri-co, se non si conosce il nome di Philip Kin-dred Dick. Molti di voi penso lo conosceran-no, altri probabilmente no. Ecco perché dicochi era e spiego perché oggi vorrei parlarvibrevemente di lui.

Philip K. Dick è stato uno scrittore americanodi fanstascienza, nato nel 1928 e morto nel1982. Non tanto noto in vita come tanti altriscrittori di fantascienza. Quando io comincialia leggere di fantascienza, nei primi anni 60, inItalia e in Europa era più famoso Isaac Asimov,mentre oggi è il contrario, o sono lì. La famadi Philip K. Dick è cresciuta soprattutto dopola morte, in parte anche grazie al cinema, per-ché nell’anno in cui moriva usciva il primofilm tratto da un suo romanzo. Un film checredo tutti voi conoscerete perché si chiama

“Blade Runner” e cambiò per certi versi l’im-maginario del cinema, o fu uno dei film cheaprirono una nuova stagione del cinema difantasia, del cinema “non realistico”.Anche sedi fatto tradisce il romanzo di Dick da cui ètratto. Perché vi voglio parlare di Philip K.Dick, che cominciò a pubblicare i suoi roman-zi negli anni 50? Perché lui è stato uno scrit-tore che ha dato voce, immagine, figura, paro-la; era uno scrittore che scriveva libri nongrandi, tutti libri che uscivano in queste edi-zioncine di fantascienza a poco prezzo. Quan-do era in vita non veniva considerato dai cri-tici letterari. Fra poco più di venti giorniandrò a Vicenza a fare un convegno su questoscrittore con psichiatri, psicologi, psicanalisti...Oggi c’è un sacco di gente che studia le operedi Dick, perché fu uno di quelli che più di altrie meglio di altri seppe dare parola agli incubi

della società americana degli anni 50 e 60.Quindi alle paure che la gente viveva in queglianni. o forse alle paure che viveva lui, comepersona, perché non era un personaggio sem-plice. C’è il dubbio che fosse proprio clinica-mente malato...Adesso il concetto di malattiapsichica è molto complicato, lui non vennericoverato, però c’è il dubbio che, per usareun termine poco clinico, un po’ matto lo fossedavvero - e l’ultima fase della sua vita lodimostra. Ma non voglio parlare di questo,vorrei concentrarmi sugli anni Cinquanta eSessanta per due ragioni: da un lato perchéparlando delle paure della società americanadi quel periodo; leggendo e rileggendo poi cisiamo accorti che lui in realtà parlava di paurepiù generali e, soprattutto, di paure che sareb-bero diventate quotidiane. Cioè più esperibilianche nella vita quotidiana delle persone,

negli Stati Uniti e un po’ in tutto l’Occidente,dieci o vent’anni dopo. C’è una sorta di carat-tere anticipatorio che dobbaimo prendere“cum grano salis”, con le pinze, con moltacautela. Non è che ci dobbiamo aspettareprofezie precise, ma il cima di un’epoca chelui seppe dare con un certo anticipo rispettoagli altri.

Quali sono le paure principali che emergonodai romanzi e dai racconti di Philip K. Dickscritti un po’ lungo tutta la sua vita, anche seforse i più significativi sono quelli degli anni50 e 60? Lui morì nel 1982, ma dal ‘74 in poicominciò a scrivere un po’ meno, anche per-ché di giorno continuava a scrivere romanzi,di notte non si sa quanto Philip K. Dick abbiadormito negli ultimi cinque-sei anni della suavita... Scriveva una specie di lunghissimo diario

che porta il nome, come dire un po’ sibilino,di “Exegesis”, esegesi. Più di 8.000 paginededicate a una serie di visioni e di cose cheaveva, interpretazioni della sua vita; e che nonè stato edito tutto, perché capite che editareottomila pagine è una roba complicata... Qualierano le due paure principali? Dette in parolesemplici, sono: la paura che l’organizzazionedella società, cioè il carattere, le relazioniumane, sociali, oggettivate in uno Stato cre-scessero al punto tale da determinare nonsolo le condizioni normali della vita associata- quindi dirigere il traffico di una città, o cheso, procurarsi i soldi per fare i lavori pubblici -ma a quello di cambiare e determinare la real-tà ontologica, cioè l’essenza della vita degliesseri umani. Detto in altri termini, cioè, chel’individuo fosse assoggettato a una logicasociale di oppressione. Giustamente, tutti voi

Caronia 01

titol

o ca

pito

loAnonimo

Caronia02

>>>

MazzeoDenise

“The Darkness”

SibillaManitta

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potete dire che questa cosa non se l’è inven-tata Dick.Tale filone della letteratura è statoespresso nella seconda metà del Novecento,si riferisce al modello del romanzo “1984” diGeorge Orwell, uscito in Gran Bretagna nel1948, che ha espresso in modo quasi paradig-matico questa paura. Cioè il fatto che l’orga-nizazzione sociale travalicasse, come dire, leproprie funzioni a un punto tale da opprimeretotalmente l’individuo. Come una parte di tut-ta la fantascienza americana di quel periodo,Dick riprende il tema e ne fa un elementoportante. La seconda paura invece è un po’più tipica di Dick.Anche questa la prende datutta una tradizione ancora più antica, ma luila declina in modo personale. La seconda pau-ra di Dick è che l’essere umano, ognuno dinoi, possa essere messo nelle condizioni dinon sapere se è davvero un essere umano,

cioè se sia davvero dotato di tutte quelle qua-lità che noi generalmente associamo agli esse-ri umani. Principalmente la libertà di scelta,l’avere certamente una storia, ma poter deci-dere quello che si vuole fare. Oppure il fattodi scoprire a un certo punto di essere un’en-tità artificiale, un essere programmato daqualche altra entità, umana o ancora più alie-na. Quindi dal non poter realmente determi-nare la propria vita.

Voi capite bene che questa seconda paura silega a una storia che è ancora più antica, quel-la degli esseri artificiali, che attraversa tuttoquanto l’Occidente, ma che nella modernità ènata con il romanzo “Frankenstein” di MaryShelley, del 1818. Quindi parliamo di coseormai molto antiche.A lungo, le storie dirobot narrarono di esseri artificiali che a un

certo punto si ribellavano al proprio creato-re. C’era questo conflitto uomo-robot, uomo-androide. Il modo in cui Dick formula questacosa è ancora più pregnante, perché Dick rie-sce a confondere la figura dell’uomo “natura-le” con quella dell’uomo artificiale, cioè l’an-droide. Riesce a creare figure indistinguibili,indecidibili. Uno dei grandi filoni della narrati-va di Dick è appunto quello della indecidibili-tà. Chiunque di voi abbia visto “Blade Runner”sa di cosa parlo. I replicanti, termine che nonè di Dick - se lo sono inventati gli sceneggia-tori ma ha avuto fortuna, Dick li chiamavaandroidi. Questi androidi, o replicanti, sonoesseri umani normali.Voi dite, è ovvio, se unattore deve fare quello, non possono cheessere umani, ci sono sempre motivi banali...Quello che è importante è che Dick ipotizzauna tecnologia talmente avanzata da esere in

grado di produrre esseri - attenzione, questoè il problema - non solo dall’aspetto fisicoindistinguibili da quelli umani, ma anche nellaloro origine artificiale, non spontanea. Quindi,come dire, ”programmata” eterodeterminata,determinata da altri.All’interno di questi esse-ri si manifesta un’aspirazione alla libertà,all’autodeterminazione a essere come gliesseri umani. È quello che Roy Batty chiede alproprio creatore, al signor Tyrel della TyrelCorporation. Dice: dammi più vita. Il Nexus 6è programmato in modo da poter vivere solo6 anni, questi invece vogliono vivere come glialtri esseri umani. Gli sceneggiatori si sonoconcentrati su quello che nel romanzo diDick è solo uno degli argomenti.

In realtà, se ci pensate bene, queste due gran-di paure che Philip Dick descrive nei suoi

romanzi sono abbastanza collegate. Perchéhanno una radice nell’età del Philip K. Dick diquegli anni.Vi voglio raccontare brevissima-mente la trama di un altro romanzo del 1958di Philip K. Dick. Il romanzo da cui è tratto“Blade Runner” si chiama “Do Androids Dre-am of Electric Sheeps?”,“Gli androidi sognanopecore elettriche?”, che può sembrare untitolo complicato ma che è comprensibile leg-gendo il libro. Invece l’altro è un titolo shake-speriano,“Time out of joint”. È un verso del-l’Amleto,“il tempo è uscito dai cardini”.Vennetradotto in italiano la prima volta come “L’uo-mo dei giochi a premio”, perché in realtà par-la di questo. È la storia di un tipo che vive inuna cittadina americana degli anni Cinquanta -il romanzo è uscito nel ’58.Ve ne parlo per-ché è un libro che, senza che Peter Weir l’ab-bia mai ammesso, sta dietro uno dei successi

dei film degli ultimi anni, il “Truman Show”.L’idea di fondo del film di Peter Weir derivaesattamente da questo romanzo, Dick è il pri-mo che l’ha esposta. L’idea è che l’ambiente, lavita che ci circonda non sia quello che noipensiamo, che questi muri siano solo dei fon-dali di un set cinematografico: se io gratto unpo’ qua dietro, trovo i pali che li sostengono.Effettivamente, come a Jim Carrey nel “Tru-man Show”, capita al protagonista del roman-zo di Dick. Qui è tutto diverso, c’è la realtàfinta costruita intorno a questo personaggio,anche se l’idea è esattamente quella del filmdi Weir, per una ragione di tipo fantascientifi-co. Il romanzo era uscito nel 1958 in una col-lana di fantascienza, come gli altri di Dick. Nel1998, quarant’anni dopo l’uscita del libro, ilgoverno americano aveva costruito intorno aun tipo la ricostruzione di una cittadina ame-

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“Necessario equilibrio nel buio”

MartinaMarusi

“Inquitudine”

ElisaColetto

Anonimo

“Due occhi che mi osservano nella notte

LidiaGravina

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ricana degli anni 50. Perché questo RagleGumm, mezzo psicotico, per continuare a farequello che di fatto faceva, cioè clacolare letraiettorie di certi missili, non poteva più farloin modo cosciente, ma soltanto in manierainconscia.Allora il governo americano glicostruisce questa cosa intorno e tutti i giornifa pubblicare sul quotidiano locale un indovi-nello: dove arriverà quest’oggi il nostro omi-no verde? E il protagonista si diverte a risol-vere questo gioco enigmistico giornalmente.Ma non è un vero gioco enigmistico, in realtàrisolvendo questi giochetti enigmistici, RagleGumm calcola senza neanche saperlo le tra-iettorie dei missili letali che giungono dallaLuna e riesce a salvare la Terra. Fino a che luie quelli che sono vicini a lui non si rendonoconto di qualche crepa in questo edificio, que-sta realtà che sembra normale.Vedete che già

uso due volte in modo contraddittorio que-sto termine, realtà, perché la paura in questocaso è che la realtà non sia quello che sem-bra. Quindi si scopre che questo posto isola-to nel deserto del Nuovo Messico è unacostruzione totalmente artificiale.

Allora, perché dicevo che queste due paure,quella che il mondo ci opprima; e che la realtàche ci circonda non sia quello che sembra eche noi non siamo esseri umani, ma esseriartificiali predeterminati ed eterodiretti, per-ché sono simili? Perché si fondano entrambesu un’esperienza che è stata quella dellamodernità, della fine dell’Ottocento e dei pri-mi del Novecento, che la Costituzione degliStati totalitari, l’esperienza del fascismo inter-nazionale negli anni 20-40 aveva portato difronte al mondo. E che negli Stati Uniti era

particolarmente viva e ravvivata da un’espe-rienza specifica, l’offensiva maccartista, cioè iltentativo violento (durato poco, ma che feceuna grande impressione sulla società america-na degli anni 50) di trasferire all’interno delmodello “democratico” le pratiche che eranoquelle delle società totalitarie. È la stessaragione che spinse Orwell a scrivere “1984”.È collegato il fatto che una società oppressiva,totalitaria nell’essenza di fondo, anche se lasua forma è apparentemente democratica,permissiva, tollerante, trasformi gli esseriumani da persone dotate (forse entro certilimiti e non in maniera assoluta) di libertà discelta in individui eterodiretti e quindi simili adei robot, quindi simili a delle macchine? Eccodove le due cose si fondono.

Si chiedeva giustamente Cristina: oltre a

descriverci le paure, dicci anche come se nepuò uscire. Io non lo so.Vi dico brevemente ledue vie che Dick usa nei suo romanzi, alcunipiù, altri meno pessimistici, ma molto oppres-sivi, molto cupi come era “1984”. Però, ognitanto, anche a uno un po’ paranoico comePhilip K. Dick qualche via d’uscita viene inmente. Secondo me Dick ne indica fondamen-talmente due: la prima forse lascia il tempoche trova, però è molto simile a una delle ulti-me considerazioni che ha fatto Cristina. Cioèche la gran parte di questi personaggi, o perlo-meno i personaggi principali in molti deiromanzi di Philip K. Dick, quando hanno pauradel fatto di non sapere se la realtà sia vera, perprima cosa decidono di sapere. La prima cosaimportante è capire: se io non ho i dati suffi-cienti e soprattutto non ho le ipotesi sufficien-ti per poter interpretare i dati, la paura conti-

nuerà a condizionare il mio comportamento.Quindi il primo passo che fa Ragle Gumm,l’uomo che risolve i giochi a premio, è volerandare sino in fondo non appena si rende con-to dall’esperienza propria e dei suoi amici checi sono delle crepe in questa realtà fittizia,quando comincia a dubitare. Come fa ancheTruman nel film di Peter Weir: a un certo pun-to decide, piglia, esce e se ne va. Poi nel film diWeir c’è la spiegazione finale discutibile con ilregista del reality show, che è un’altra cosa. Mal’idea è quella di fondo: prima cosa, capire.Capire di per sé e da solo a volte non basta.Avolte questi personaggi dei romanzi di Dick -parlo ovviamente di quelli che non detengonoil potere, il personaggio singolo, la personacomune e normale - quando hanno davverocapito come stanno le cose e sono in grado didire: sì sono un uomo (o una maacchina), no

non sono un uomo (o una macchina)... Di nor-ma quando scopri di essere una macchina lecose vanno male. C’è un bellissimo raccontodi nome “Impostor”, da cui è stato tratto unfilm che non ho visto ma che mi dicono inte-ressante, ma è stato poco tempo nelle sale...“Impostor” è la storia di un personaggio con-vinto di essere umano e c’è una guerra fra laTerra e qualche altro invasore. L’arma che èstata trovata è un androide che porta dentrodi sé una bomba. Lascio a voi il compito difare il cortocircuito con alcune esperienzedella nostra contemporaneità. Questo Dick loscriveva già negli anni 50 e 60. Quando il pro-tagonista di “Impostor” viene arrestato e glidicono che è un androide e ha una bomba.“No, io sono un uomo”, risponde, ha semprecombattuto gli androidi. No, tu sei un androi-de, viene preso, cerca si fuggire, un po’ come

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“Metropolilontana”

AlessandraPagano

“Ombra sola”

SharonBulzoni

“Gravitàindifferente”

AliceSerra

Solitudine

ValentinaSironi

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nel film “Paycheck”, sempre tratto da un rac-conto di Dick. In questo racconto gli dicono“prima o poi scoppierai”, ma nessuno sa ilmeccanismo che farà scoppiare la bomba chelui tiene dentro.A un certo punto, questomeccanismo si rivela essere una frase sempli-cissima e banale, che il protagonista dice nelmomento in cui vuole convincere gli altri diessere un umano. Il momento in cui scopre laverità è purtorppo per lui e per gli alltri quelloin cui innesca la bomba e muore. Questometodo di sapere a volte porta con sé...

C’è un altra via di uscita che Dick suggerisce:beh, ve la butto lì. I pochi personaggi “positi-vi”, quelli che riescono a sfuggire più di altri aquesto cupo destino incombente di realtà chesembrano vere e sono finte, di mondi chesembrano democratici e sono dittatoriali, di

esseri umani che sembrano esseri umani esono macchine, sono dei personaggi moltoumili e molto semplici che, messi di fronte allapossibilità di “avere successo”, per esempio divendere delle piccole cose che fanno. In gene-re rinunciano, rifiutano e si rinchiudono inquello che noi possiamo pensare che sia rin-chiudersi (ma che nei personaggi di Dick nonè così) nella soddisfazione dell’intenso rap-porto creativo con un’attività manuale, di tra-sformazione della materia. In genere piccoliartigiani, gente che costruisce vasi: c’è Julianache fabbrica gioielli in “The Man in the DryCastle”, c’è il vasaio di un altro romanzo chesi chiama “Galactic Pot Healer”, il riparatoredi vasi galattico. In molti casi, Philip Dick sem-bra suggerirci che l’unica via d’uscita rispettoa una situazione così oppressiva sia quella.Alcuni studiosi contemporanei hanno anche

cercato di darne una visione politica e l’hannochiamata “esodo”.A volte fare esodo è ritirar-si: questa è la volta realtà, tentevela; io conti-nuo a fare i miei casi. È una roba ovviamentelimitata, nessuno potrebbe proporla come ungrande modello sociale. Però certe volte,combinata con la volontà di sapere... Certa-mente ci sarà un passo successivo che nessu-no fa mai nei personaggi di Philip Dick, perchéegli è stato un grande analista della società,ma non ha mai dato delle grandi ricette col-lettive. Forse il passo successivo, come si pos-sono combinare queste due cose, è una seriedi attività anche piccole, limitate, minuscole,ma in cui ognuno butta dentro veramentetutto quanto se stesso e la comprensionegenerale della sua età. Ci sono passi successiviche Philip Dick non dice e nemmeno io vidirò, perché ho parlato già fin troppo....

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loAnonimo

“La dipendenza”

...ho paura di doverdipendere da qualcosa

che anche se miimpegno con tutte

le mie forze a combatterla

non ne posso uscire”

MircoBessi

Ospedale Psichiatrico

di Como

MorenoGentili

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titolo capitolo

DAL LAGOalessandro

Gardone Valtrompia, 1998.Bottega di prodotti equo esolidali

MarcoCostafoto

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Cercherò anch’io di rispondere alle doman-de... Comincio col dire che bisognerebbe par-lare di due tipi diversi di paura. Scarterei subi-to le paure esistenziali, quelle legate ai mecca-nismi evolutivi che sono del tutto ragionevoli.E anche le paure mitologiche: mentre voi par-late, mi è venuto in mente quell’episodio dellatribù dei Galli di Asterix, che hanno paura cheil cielo cada loro sulla testa. Non è un’inven-zione di Uderzo e Goscinny, Senofonte rac-conta che quando tornò indietro dal suofamoso viaggio militare, si imbattè in questatribù di Galli finiti in Tracia, i quali eranocoraggiosissimi, combattevano contro tutti,ma avevano paura di una sola cosa: che il cielogli cadesse sopra la testa. È una citazionevera. Questo tipo di paure mi sembrano scar-samente al di là della curiosità erudita, pocopertinenti con quello di cui stiamo discuten-

do. Detto in modo rapido e banale, quelle dicui stiamo discutendo sono paure di tipopolitico. Non esistenziali, mitologiche o infan-tili. Mi fa piacere che Caronia abbia citatoquel bel libro che anch’io conosco,“L’uomodei giochi a premio”, in cui le paure e le para-noie sono di tipo politico; sono il prodotto dimanipolazioni. Ora, a questo punto salta sem-pre su qualcuno a dire - e io sono abbastanzad’accordo - che non bisogna esagerare con leteorie del complotto.Va bene, ci sono teoriedel complotto e teorie del complotto: quelleinsensate che mirano a manipolazioni partico-lari e specifiche; e c’è una famiglia di complot-to di cui vorrei dire due parole, che secondome invece è abbastanza giusto e realisticoprendere in considerazione quando discutia-mo di queste cose. Per partire banalmentedall’idea della paura politica, voglio semplice-

mente ricordare che quando nasce una teoriadello Stato moderno (che tutto sommato,con tanti travestimenti e cambiamenti è anco-ra quella che oggi viene citata), è all’insegnadella paura.A 84 anni,Thomas hobbes, a cui sideve nel “Leviatano” la pietra fondativa delpensiero politico moderno, decise di scrivereun’autobiografia. E la scrisse in versi in latino,si chiama “Vita carmine expressa”. Nella riga7 si dice, tradotto in un italiano molto ele-mentare:“Fu così che la mia cara mamma inquell’anno partorì due gemelli, me e la paura”.Perché due gemelli? Nel 1588 in Inghilterra siera sparsa la paura dell’arrivo della InvincibleArmada, che fu dispersa da una tempesta eche per fortuna degli Inglesi non approdò.Qualche decina di versi più in là, alla fine,dopo aver vissuto una vita interessante,avventurosa, ci fu anche l’esilio.“Ora che

compio 84 anni, la morte che si avvicina nonmi fa più paura”. La vita di hobbes parte e fini-sce con l’idea di paura e questa è al centrodell’idea politica di hobbes. Impauriti dalleguerre intestine, incapaci di tenere a freno iloro istinti e i loro bisogni, gli esseri umanidecidono di delegare a un’entità superiore laloro indipendenza politica, la loro capacità didecisione. Questa è la famosa teoria del pattopolitico, che con tanti cambiamenti trovate inRousseau, in Locke, perfino in Kant... Eviden-temente è una finzione, un gioco: nessuno dinoi si è mai sognato di dire “fondiamo unoStato”. È una finzione, un mito, un espediente,chiamatelo come volete. Ma è interessanteche poggi sull’idea di paura. Per impedireguerre e distruzione, si delegano l’autorità e ilpotere. Non sempre questo viene detto nellastoria del pensiero politico e nella storia della

filosofia. Il Leviatano, questa macchina chegoverna gli esseri al loro posto, non si fainterrogare dagli altri: è un padre-padrone.Secondo hobbes, anche quando fossero con-siderate ingiuste, le leggi dello Stato non pos-sono essere contestate. Perché emanano dallavolontà dei cittadini.

Ora, con questo bel giochetto concettuale,che trovate anche in un pensatore comeRousseau, si istituisce una relazione moltodiretta e molto interessante. E purtroppolasciata cadere - vi dirò subito da chi - trapaura e potere politico. Il potere politiconasce dalla paura e quelli che fanno il miomestiere, i sociologi, avrebbero dovuto accor-gersene un po’ di più. La paura la crea, la ali-menta, la produce perché condiziona la suasopravvivenza. Non c’è niente di strano in

questo. L’idea che una macchina come quelladello Stato possa stare in piedi e funzionare inuna totale assenza, in un totale limbo di legit-timazione senza la paura, è un’idea profonda-mente ingenua. Come dice il poeta, ognunoparli dellle sue vergogne: io parlo delle mie, diquelli che fanno il mio mestiere e sono diven-tati dei contabili. È rarissimo trovare oggi inun testo, in un manuale, riferimenti a que-stioncelle di poco conto come la paura o laguerra, un tema che è assolutamente cancella-to e di cui si occupa un cittadino su mille.Secondo me, se noi prendiamo i deputati, isenatori, le segreterie politiche, gli apparatidei partiti che sono poca cosa e contiamoanche i membri delle sezioni - e dubito che,ammesso che esista ancora da qualche parte,un circolo dei DS abbia ancora qualcosa dadire sulle candidature politiche dei Ds, ne

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“Ho paura”

GiorgioGargiulo

“I’ll touchyour thought”

AlfonsoCoppola

“La paura è quell’ecoinesistente

che rimbombanella mente

SaraVolontè

“Immagine incertadell’Io”

MichelaBrini

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dubito fortemente... Se voi tenete conto ditutta questa congerie, per gli altri 57.950.000,quindi la grandissima maggioranza, la politicao si esercita in forme di tipo volontario nonistituzionale, a lato del mondo ufficiale, oppu-re se uno vuole si esercita ritualmente ogni 2-4 anni attraverso il gesto di infilare una cartaripiegata in una fessura. Non sono mica scemiquelli che poi non fanno i complotti ma cipensano, dietro gli schemi più complessi chefanno impallidire (come si è visto anche dal2003) anche l’immaginazione di Philip K. Dick.Queste cose le sanno benissimo. I miei colle-ghi quantofrenici, cioè addetti a fare le solitestatistiche, dubiterebbero della mia salutementale in questo momento: tuttavia sospet-to che il fatto che una macchina così com-plessa come una società politica contempora-nea, piena di problemi così delicati, che riposa

su una destinazione inesistente... Non so se ilconcetto è chiaro, è come se vivessimo in duemondi separati; e questo è molto dickiano,nella finzione che si fa mondo. Io non so voiche attività politica di tipo istituzionale fate,sospetto pochissima, se uno non è in un ciro-clo di Rifondazione... Mentre invece potrem-mo far parte di associazioni parallele, peresempio per i diritti umani, contro la guerra,pacifisti, ecc. Benché in un certo senso utileper mantenere in piedi la macchina, però,questo mondo non è la società politica di cuiparla il nostro sbandieratore nazionale di tri-colori. È un mondo separato e questi lo san-no. Operazioni turpi come la Lega hanno unpo’ il senso di reinventare in un mondo para-noide una società politica laddove non c’è.Questi sono al massimo il 5% dei cittadini. Sipresentano come esponenti della società civi-

le, sono quattro gatti, oltre che quattro bruttigatti. In questo caso, non le paure eccetera,ma la paura come macchina vuota, quindicome meccanismo che si autoriproduce e chepuò essere riempito di qualsiasi contenuto, èuno strumento indispensabile. Non c’è biso-gno di teorizzarlo e non c’è bisogno di pensa-re che da qualche parte, in qualche think-tanka Washington o alle Frattocchie, qualcuno simetta lì a pensarci. Però queste sono idee checonvergono naturalmente, così come deiruscelli che finiscono nel fiume.Penso che la gestione delle paure senza alcunrapporto con la realtà evocata da quelle pau-re, oggi sia considerata fondamentalmente unottimo modo per tenere gli attori sociali, icittadini, i soggetti, non so come chiamarli, inuna condizione di minorità e di acquiescenza.C’è un motivo per cui lo dico. Se voi ci pensa-

te, la figura che fa da specchietto, da target aqueste paure, è il padre di famiglia. Il padre difamiglia che Hannah Arendt una volta ha giu-stamente definito il delinquente potenzialepiù pericoloso del mondo. L’attore di quasitutti i movimenti totalitari della prima metàdel secolo. È quello che prende lo schioppo espara, spesso magari con errore di mira, alprimo passante. Ed è la figura alla quale fariferimento il pensiero sociale della pauracontemporanea, della teoria del complotto,che è molto amato e praticato da gran partedei movimennti politici - non necessariamen-te di centro-destra, sia ben chiaro. Il padre difamiglia è uno che fondamentalmente devevivere come essere organico, occuparsi dicasa sua e delle sue miserabili questioncellefamiliari. Quando dicevo che il padre di fami-glia come figura tipologica, non come figura

empirica, è un delinquente non solo in sensopolitico, cioè quando io vado a raccontare aimiei studenti, per esempio, della figuracostruita del pedofilo che si aggira nei giardi-netti... Sì, ce ne sara qualcuno, ma il 90% degliabusi sui minori dove vengono fatti? Al chiuso,nella vita domestica. Ora, non voglio genera-lizzare... La privatizzazione... Pensate all’osses-sione per la famiglia che il movimento tra-sversale cattofamiliare, che va da Rutelli earriva quasi alla sinistra radicale, o in certisuoi esponenti.All’ossessione di tutti costoroper la difesa della vita familiare, tuteliamo lafamiglia... Cosa significa tutto questo? Che talefigura ha bisogno della paura, o perlomeno lapaura ha bisogno di questa figura, perché ilpadre di famiglia è un personaggio impolitico,non si occupa di questioni conflittuali.Vi faccio un esempio banale anche del perico-

lo di questo tipo di situazioni che descrivo. Iola metto sul ridere, ma ci sarebbe da piangere.La mia università ha aperto una sede staccatae la società che gestisce questo piccolo cam-pus vicino a Savona, all’insaputa nostra (e difat-ti come docenti siamo andati fuori dai ganghe-ri) ha creato un servizio di consulenza psico-logica per gli studenti. Basato su questo princi-pio:“Avete problemi agli esami? Avete ansia direalizzazione? Avete problemi familiari, vi sen-tite soli?”.Vi rendete conto? A proposito delloscambio e della facile identificazione di paurepersonali e di paure politiche... Io l’anno pros-simo compio 60 anni e ho paura un pochinodi quello che succederà nei prossimi dieci oquindici anni, comincio a fare dei calcoli, nonso se rendo l’idea. E tutto questo mi sembraumano. Ma questo non mi spinge dentro casa,semmai mi spingerebbe a proiettarmi fuori e a

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“Occhi dellasolitudine”

AngelicaCurcio

“Malattieincurabili”

SaraLandriani

“Rabbia”

UmbertoEsposito

“Paura e solitudine”

TeresaSorbara

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utilizzare gli ultimi fuochi... Invece il discorsodi cui sto parlando è esattamente il contrario.Vi spinge a stare in casa. Ed ecco perché nonesiste una soluzione di continuità tra la pauraindotta del crimine, che è stata una delle paro-le d’ordine principali dello schieramento poli-tico trasversale degli anni Novanta, e le paurecosmiche.Anche se si articolano su pianidiversi, sono un po’ la stessa cosa. Faccio unesempio che mi ha colpito particolarmente,anche perché è presente in questa pubblica-zione: cioè l’influenza aviaria. Nel primo nume-ro del 2005, quindi composto nel 2004, diForeign Affairs, cioè la rivista ufficiale del Servi-zio di sicurezza americano (quindi con repub-blicani e democratici, un organo dell’establi-shment), c’era una sezione chiamata “The nextpandemics”, la nuova pandemia. I calcoli preve-devano da 500.000 a 5 milioni di casi possibili

(di aviaria). Che senso ha terrorizzare la popo-lazione, il mondo, una volta che noi sappiamoche il vaccino lo stanno facendo? A Genova,che sappiamo essere un po’ la porta di ogniinfluenza e che ha un grosso istituto di epide-miologia, incontro un mio collega medico e glidico: scusa, ma non hai un po’ l’idea che siagonfiata tutta questa faccenda? E lui: no, staitranquillo, c’è già il vaccino. Non ci capiamoproprio. Quello che insegnano a noi, che ci vaun pochino di comunicazione, è che non hanessun senso produrre degli allarmi quando ildestinatario dell’allarme non può comportarsiin relazione all’allarme. È inutile che voi diciatealla popolazione che in questo momento ladiga gli sta crollando addosso: o la allertateprima, o è inutile dirglielo adesso, perché ilpanico che si crea impedisce anche le misureultime di salvezza.

Allora, qual è il senso che si stabilisca questaparanoia? In Inghilterra hanno calcolato perquesto inverno 40.000 morti di influenza avia-ria. Faccio l’esemipo dell’Inghilterra perché cisono i dati. Sapete quante persone muoionoall’anno di influenza in Inghilterra? Ventimila.Non stiamo parlando di milioni di casi, ma delgonfiamento di un’evenienza che può ancheesserci. I miei colleghi dicono che la facilita-zione della comunicazione può favorirlo...Quando leggo sul giornale un crescendo dinotizie allarmanti, iniziato con la morte di untacchino in Grecia in ottobre, la morìa di cignia Catania; oggi scopro che i francesi, poverac-ci, non pososno più mangiare il foie-gras per-ché c’è una morìa di oche a Strasburgo... scu-sate, cosa posso fare? Oltretutto questo hadelle influenze sul consumo di certi cibi, a me

piace il foie-gras, non sono diventato vegeta-riano con l’età e quindi me lo mangio. Macosa ci possiamo fare noi, se non chiedere almedico di famiglia se esiste il vaccino? Ecco ilpunto: non c’è alcuna relazione tra la produ-zione dell’allarme... Dopo la storia delle armidi distruzione di massa di Saddam, dobbiamoaspettarci di tutto. Quale scrittore di fanta-sciaenza ha mai inventato una storia fantasticacome le armi di distruzione di massa? È unastoria meravigliosa, nella quale c’entranoanche gli italiani, perché lo sapete, il Sismi hacollaborato a produrre la bufala. Perché loscrittore di fantascienza non crea una storialetteraria come quella delle armi di distruzio-ne di massa? Perché è troppo stupida, se cipensate, è talmente banale... Un conto èinventarsi la storia di uno che calcola la traiet-toria dei missili mentre gli fanno credere che

sta partecipando a un gioco a premi. È unastoria elegante, raffinata; e difatti cattura il let-tore. Ma quale scrittore di fantascienzapotrebbe scrivere un romanzo nel quale unpresidente americano si inventa, su suggeri-mento dei servizi segreti italiani, notoriamen-te efficientissimi e realistici, il fatto che Sad-dam stava costruendo delle bombe atomiche?Urania non glielo pubblicherebbe e a ragione.Una delle caratteristiche divertenti da questopunto di vista, è che la fantascienza è sicura-mente meglio della realtà. Non ho dubbi, lapenso come Antonio: in termini di prestazio-ni intellettuali è molto meglio vivere in unmondo fantascientifico che in un mondo rea-le...

Che si fa, di fronte a una stupidità così palesee inattaccabile? Date alcune mie frequentazio-

ni direi piuttosto ambigue nella mia città, stofacendo una ricerca sul mondo dei contrac-tors, uno dei quali ha avunto anche la bega difarsi ammazzare (Quattrocchi, Ndr). Bene, lastoria che gli italiani contribuivano insieme adalmeno 35.000 loro colleghi a torturare i pri-gionieri, la sapevo già. Si sa, è noto. Se avetequalche conoscenza nel mondo dell’Esercito,qualcuno che torna a casa da lì, ve lo diranno.Il lavoro sporco non lo fanno necessariamen-te i soldati. Quando ci fu la famosa battagliadei ponti, in cui le nostre gloriose forze arma-te hanno fatto fuori circa un centinanio di abi-tanti di Nassirya, il compound italiano eraprotetto dai Filippini. E neanche questo sidice. Che fine hanno fatto questi Filippini?Alcuni sono morti. I contractors fanno il lavo-ro sporco di difendere i soldati - interessantequesta cosa della protezione, no? - e fanno

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“Dimenticare”

MartinaSalvi

“Solitudine la paura dell’animaavvolta nel silenzio”

MarcoMilia

titolo dell’operasu due righe

AUTORE eopera

nogmeclognome

“Solo in gabbia”

MarcoDoda

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anche il lavoro di tortura.Alcuni si fanno bec-care, altri no.Allora, in una realtà di questotipo, che è così idiota ed è così feroce, sisospettava (ma non si poteva dire perchésaremmo stati accusati di teoria del complot-to) che lo sfruttamento non intenzionale enon strategico... Non c’è un comitato dellapaura, magari esiste, in America c’è tutto, manon credo che in Italia i partiti oggi al gover-no arrivino a tanto... Ma che ci sia un usointenzionale delle campagne sulla microcrimi-nalità, delle paure cosmiche per tenere fuori ilcittadino normale dalla vita politica, questapenso sia un’occasione che ormai viene sfrut-tata apertamente. Mi si chiedeva prima: c’èuna ricetta, c’è una indicazione? Su questonon la penso come Antonio, o come amiciillustri che hanno discusso lungamente sullaquestione dell’esodo. Io la penso esattamente

al contrario.Visto che ho già l’impressioneche siamo in una situazione di emarginazionedalla sfera pubblica - non sto proponendo dientrare nei Ds, vorrei che non ci fosseroequivoci, pur fuori dalla sfera politica attuale,anche purtroppo in alcune sue varianti di sini-stra per quanto mi riguarda... Usciamo, questoè il punto.Visto che già ci hanno messo in esi-lio a casa nostra, e ci vogliono tenere in casa,usciamo nella pubblica strada.

Una banalità, in termini di paranoia: un mioamico, grande studioso di fantascienza, DarkoSuvin, che vive a Lucca, mi manda delle E-mailin inglese in cui c’è scritto: questa E-mail puòessere letta dal FBI. Normale. La differenza èche gli americani lo dicono. Io apprezzo mol-to il carattere aperto della società americana,ma che si fa in questi casi? Beh, scriviamo il

cavolo che ci pare! Ecco il problema. L’unicomodo, banale, per rispondere alla paura èbucare la paura come un pallone. Io non hopaura. Sì, ho paura di morire, ho ancora pauradell’aereo nonostante ne prenda ottantaall’anno, perché non è una condizione natura-le per l’essere umano, sto molto meglio quan-do cammino per terra... Onestamnete, me nefrego dell’aviaria. Cominciamo a rovesciarequesto discorso e a dire per esempio che èmolto più facile morire di botte per un adole-scente a casa, o magari in un commissariato dipolizia, che non per l’intervento di feroci alba-nesi. Perché non cominciamo a rovesciarequeste banali verità? Mi sono socializzato nel‘68, ohibò, lo dico: l’unica alternativa a questaforma di paura più o meno imposta in cuiviviamo è fare politica.

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loAnonimo

“Creatura fantastica”

2004

MimoVisconti

1) TV a circuitochiuso

MichelaTaeggi

foto

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titolo capitolo

MADERAromano

2) la TV a circuitochiuso

MichelaTaeggifoto

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Vorrei un po’ ragionare su un punto cheriguarda la paura ea anche un po’ il contrariodella paura. Forse non il contrario, ma quelloche sta prima della paura e dopo la paura, cioèla fiducia. Oltre che sulla diagnosi, sulla terapia.Però prima di questo penso che si debbaanche ragionare sul fatto che, per quanto lepaure siano inventate, tuttavia agiscono suqualcosa che a modo suo deve essere reale.Altrimenti nessuno sarebbe così fessacchiottoda comportarsi in modo conseguente alla pau-ra che è stata indotta. Prenderei sul serio il fat-to che noi, la gente, ha paura o prende paura dicose che in realtà non esistono. In realtà nonesiste il riferimento di questa paura, ma evi-dentemente questa paura tocca qualcos’altro,altrimenti appunto non avremmo paura.Vorreipartire da una cosa assolutamente consueta inquesto tipo di dibattiti e discorsi, apparente-

mente molto inattuale anche per le cose chefaccio in genere. Cioè da un filosofo della Gre-cia antica, che in fin dei conti ha dedicato il suomessaggio alla questione della paura. In definiti-va, pensando che quello che ci separava dallafelicità addirittura è la paura, questo filosofo,Epicuro... Siamo nel 340 a.C. fino al 270, pensa-te; la scuola epicurea ha avuto però più omeno 600 anni di vita, credo molto più simile aquello che noi possiamo pensare della sequeladi un maestro bdudista, o cose di questo gene-re, che non a quello che noi pensiamo sia lafilosofia oggi …A meno che non si pensi, comepenso, che la filosofia sia soprattutto un mododi vivere.

Epicuro e la paura. Comincerei dalla prima, ciòche lega la paura esistenziale a quella politica,altrimenti nessuna paura politica avrebbe la

forza di agire e di impaurire realmente. La pri-ma questione che Epicuro poneva è: non averepaura della morte. Eh, facile... No, difficilissimo.Adesso non sto a dire come perché e quando,faccio soltanto un nesso a volo d’uccello conun altro grande filosofo che comparve 1700anni dopo, Montaigne, che pensando a Epicurodiceva che proprio la questione della paura edella morte decide della libertà. Cosa vuoldire? Che soltanto se in qualche modo e inqualche senso riesco a superare la paura dellamorte, sono un uomo libero. Perché possomettere in gioco la vita. Se il criterio invece èche non posso mai mettere in gioco la vita, chequesta è il valore supremo...Allora certamentela paura che la vita mi sia tolta in qualchemodo, anche metaforico, fa di me un servo.Nell’intimo e anche al di fuori di me. Dunque,oltre la paura della morte; e questo implica una

grande trasformazione di sé e degli altri.Voisapete che per Epicuro la questione era:“Quando non ci sarà più la morte, ci sarò io; alcontrario, finché ci sarò io, non ci sarà la mor-te”. L’idea è: una continua meditazione sullamorte rafforza la vita, il valore del presente, lapienezza della vita. Stessa cosa è la meditazionedel buon vivere e del buon morire.Altra cosa èla paura del male e su questo Epicuro dicevauna cosa apparentemente strampalata: il male èfacile da sopportare. Sembra proprio un’assur-dità, no? “Il male è facile da sopportare” signifi-ca per lui che in realtà, se noi ci meditiamobene, nessun male può così atterrirci perché seè troppo intenso non può durare per molto equindi moriremo. Ma la morte non è niente diche, come abbiamo visto, per chi si prepara amorire e guadagna la vita nell’intensità dell’og-gi.Altrimenti, se il male c’è e la vita perdura, in

fin dei conti c’è sempre qualcosa di cui ralle-grarsi, la vita stessa.

La terza paura di Epicuro in realtà è la prima,ve la metto al terzo posto perché è un po’quella che il cielo ci cada addosso... Sembra unpo’ strampalata e oggi forse apparentementedesueta: è che degli dèi non bisogna avere pau-ra. Epicuro non era ateo in senso “moderno”,pensava che gli dèi non si occupassero di unacosa così penosa come dare premi e castighi,parteggiare per l’uno o contro l’altro... Sonocose penose degli uomini non saggi, mentre glidèi sono il modello della saggezza. C’è una fra-se di Epicuro che lo rende assolutamenteattuale: è quando dà una delle sue dimostrazio-ni che gli dèi non sono così come allora si pen-sava che fossero, ma così come oggi pensiamoancora che siano. Invece che “dèi” diventa

“Dio”, coniugato in modo diverso, ma lo stessoDio nel caso delle religioni monoteistiche delMediterraneo... Cosa diceva Epicuro? Se gli dèidessero retta alle preghiere degli uomini, se siinteressassero veramente dei conflitti fra gliuomini, allora noi dovremmo concludere chegli dèi non esisterebbero del tutto, perchéaltrimenti la razza umana si sarebbe da grantempo estinta. Se gli dèi dessero retta alle pre-ghiere... Perché? Lo spiega: perché gli uominipregano gli dèi gli uni contro gli altri. Ora, voicapite bene che l’attualità di questa frasetta diEpicuro è altissima. Dunque, perché gli dèisono utilizzati - diciamolo pure in questo sen-so - politicamente. Ma fosse vero questo,l’umanità non ci sarebbe da gran tempo, per-ché da sempre gli uomini invocano questi dèigli uni contro gli altri. Da notare anche che talefrase di Epicuro, lungi dall’essere “antireligiosa”

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Anonimo

“L’unicacertezza”

FedericoTelesca

PAURA DELLASOLITUDINE

“Frammenti di difficiledesiderio”

MarusiMartina

Anonimo

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o antispirituale, dovrebbe essere messa allaporta di ogni tentativo di purificazione dellareligiosità e della spiritualità. Perché le preghie-re non possono essere fatte perché gli dèi,Dio, colpisca i nostri nemici. Questa paura diDio e degli dèi non è soltanto quella letteraledell’invocazione degli dèi, ma di queste forze“mitologiche”,“simboliche” che decisamentehanno a che fare anche con la nostra vitasociale; che presumibilmente hanno a che farecon le grandi costruzioni di senso, quindi conla nostra identità. Sono forze anche materialis-sime, altrimenti diciamo la stessa cosa che pareabbia detto Stalin. Il quale, ridendosela sotto ibaffi, aveva detto una sciocchezza:“Il Papa nonè potente perché non ha divisioni”. Non èvero, ci sono delle divisioni simboliche che avolta diventano più forti delle divisioni con learmi di ogni genere. Non la pensava come Sta-

lin uno che oggi è molto criticato - forse noinon avevamo buone informazioni, ma ogni tan-to qualche frase intelligente la diceva. Non sose ricordate, ma in fondo Mao pensava che leforze spirituali avessero una grande importan-za quando diceva che, in definitiva, consapevo-lezza e organizzazione sono più forti di ognialtra arma.

Bene: morte, male, Dio... Epicuro dice un’altracosa: che il bene è facile da conseguire. Questaè una cosa ancora più strampalata, perché tuttinoi siamo abbastanza infelici, scontenti: come sipuò dire che il bene è facile da conseguire?Naturalmente, secondo Epicuro anche qui civuole una lunga ascesi, una preparazione, unavita consacrata a tutto ciò. In realtà dice che ilbene è facile da conseguire perché pensa: senoi dessimo spazio soltanto ai desideri, come

quelli che lui chiama naturali e necessari, ce nesarebbe per tutti. E soprattutto non saremmoafflitti da quelli che generano le paure: i deside-ri naturali, ma non necessari; e soprattutto idesideri né naturali, né necessari. Ora, mi sem-bra abbastanza un gioco da ragazzi dire che ilnostro mondo, non soltanto la società politicama anche quella economica e noi stessi, eanche la nostra psiche profonda oggi, ma forsesempre, siamo orientati in tutt’altra direzione.Anzi, il nostro mondo è esattamente il contra-rio: è solo se si soddisfano i beni né naturali, nénecessari, che si possono conseguire i desiderinaturali e necessari. Non è solo per la vecchiaquestione, sempre d’attualità, che se qualcosanon diventa valore di scambio, condizione diaccumulazione, non può diventare qualcosautile ai bisogni essenziali, che pure esistono. Manon è solo per questo, poiché noi siamo in una

fase ulteriore in cui se qualcosa non è diventa-ta informazione, comunicazione, non esiste.Dunque, perché la metafisica dell’apparenza èdiventata assai più forte della metafisica dellapercezione reale. Da questo punto di vista, noipossiamo dire: certo, il bene sarebbe facile daconseguire, una volta ben autoaddestrati e unavolta che il bene sociale fosse indirizzato a ciòche è necessario.

Ero partito da Epicuro per dire che egli collocanella questione della paura l’ostacolo per lafelicità. Indico soltanto i nuclei di un ragiona-mento: possiamo fare un passo ulteriore al dilà di Epicuro e dire, sempre riferendoci all’esi-stenziale, anzi al naturale, anzi al biologico oalla biologia che diventa inevitabilmente psiche,che la paura è un meccanismo, un‘emozione,quindi un segnalatore che ha a che fare con un

momento della crescita che è successivo aquello della fiducia. Potrei citare studi ancheneurobiologici, ma credo che chiunque di noilo sappia se ha avuto a che fare con un bambi-no piccolo. È soltanto a un certo punto dellosviluppo e dopo mesi e mesi che il bambinopiccolo comincia ad avere reale paura del-l’estraneo. Mentre invece - anzi oggi gli studi ciportano sempre più vicini addirittura alle pri-me fasi della vita - è capace naturalmente diempatia. Sulla base dell’empatia e sulla basedella memoria cresce la fiducia; e non potreb-be essere altrimenti, se no non saremmo almondo. Perché come specie biologica partico-lare, abbiamo una fase - come tutti sappiamo -di dipendenza dall’adulto e quindi dal grupposociale che ci cura, assolutamente e proporzio-nalmente molto più lunga e infinitamente piùcomplicata della gran parte delle specie animali

per quanto le conosciamo oggi.Allora, noi pos-siamo dire che il meccanismo della paura èassolutamente funzionale, ma naturalmentenon potremmo dire che la paura si innestacome un primum, come la cosa che precedetutto.Anzi, possiamo ragionare al contrario:dire che in realtà il meccanismo della paura èfunzionale al fatto che la fiducia stessa può ave-re e deve avere momenti di prova e di crisi.

Ora, il problema qual è? Che esattamente sutale questione della paura dell’estraneo e dellafiducia intaccata nascono secondo me i mecca-nismi (che non sono solo di oggi ovviamente)di difesa di certe identità e di certi gruppisociali.Attraverso una forma che possiamochiamare della pseudo-speciazione, come lachiamano gli etologi. Questa viene molto primadella modernità, possiamo dire tranquillamente

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Anonimo

“Terrore”

SaraPiatti

“L’incubo”Sono nato per farti

patire, con me non potrai

mai dormire

PatriziaManetti

“Dolore,Sofferenza”

DarioSignorino

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che è una forma diversa dal razzismo. ha qual-cosa a che fare con una certa “xenofobia gene-ralizzata”. L’estraneo è il non-uomo, o il non-perfettamente uomo. Su questo non sono soloi “cattivi” occidentali, ma tutte le popolazioni.Se prendiamo un indiano apache bedonkoe,Geronimo, loro sono gli uomini veri, gli altri unpo’ meno. Se tu entri in contatto con loro et’ammazzo, o ti derubo, se non sei un bedon-koe, questo va benissimo. Però se invece vieniin contatto con un bedonkoe e fai amicizia, tunon puoi essere un altro ed essere amico. Peressere trattato come amico devi diventarequalcuno che appartiene ai bedonkoe; quindivieni organizzato, come dire, entro il sistema diparentela dei bedonkoe. Naturalmente noi sia-mo ben lontani da tutto questo. Io invece vole-vo fare questo ragionamento: ci sono dei mec-canismi, diciamo con semplicità “naturali”, che

poi vengono utilizzati necessariamente - altri-menti non si capirebbe su cosa noi ergiamo lacostruzione culturale, che pure è quella che cifa vivere beninteso, ma che utilizza dei mecca-nismi che sono naturali. E credo che il mecca-nismo politico e l’utilizzo della paura, di cui pri-ma parlava Dal Lago e di cui parla Hobbes, èesattamente un certo utilizzo di questo mecca-nismo.

Per arrivare a noi in modo deciso: siamo in unmomento in cui un modello della fiducia, checomunque tende a una specie di generalizza-zione totale della fiducia istituzionale e inter-personale, senza naturalmente mitizzare nulla,che farebbe ridere, è in crisi, Cito da Roninger,che ha scritto un bel libretto sulla fiducia nellasocietà moderna: cosa vuol dire fiducia istitu-zionale ampiamente generalizzata? Fiducia nella

validità dei mezzi monetari di scambio, nellalegittimità delle autorità - questo è problemati-co, ma per molti anni non lo è stato -; nell’at-tendibilità del sistema politico, nell’efficacia del-l’istruzione specializzata come la scuola dimedicina. questo è un tipo generalizzato difiducia di ciascuno degli attori sociali nei con-fronti degli altri con cui interagisce nelle orga-nizzazioni e negli incontri formali. Ora, lui diceche questo è stato un modello in una partedella società occidentale, in una parte dellaparte, soprattutto nei Paesi capitalisticamentedominanti, diciamo così egemoni. Una certaquota di tutto ciò è pur vero che è esistita,certamente oggi questa è diventata altamenteproblematica. E succede - le cose magari nonsaranno proprio quelle, ma insomma abbastan-za ben descritte in un altro bel libretto di Bau-mann su “Fiducia e paura nella città”. Dove a

farla proprio breve e brutalizzando il testo,diciamo che una delle conseguenze di questaforma di globalizzazione è certamente - cosache metropoli come New York, Londra, Rio deJaneiro avevano visto ben prima di noi, mentreperò vanno in crisi per ragioni che non stiamoa dire i processi di integrazione - che nasconosempre di più città nelle città. La spaccaturaverticale tra una piccola élite che ha una possi-bilità di accesso alla globalizzazione con merca-ti internazionali; e una spaccatura in basso diuna specie di nuova servitù della gleba extra-comunitaria, o cose di questo genere; e in mez-zo il ceto medio, una fascia fluttuante e semprepiù impaurita di finire da basso, tra i proletariche avevano una certa sicurezza di vita chenon hanno più.

Credo che questo sia il momento in cui vivia-

mo. Che fare? Penso a due cose. Riprendendoun punto di Martin Buber, credo che la cosache si possa fare e si deve fare è farla qui, ora,dove noi possiamo farla. Cioè consapevoli deipropri limiti. E credo che in un momento delgenere, in cui è un po’ improbabile credere dirovesciare il treno mentre sta andando - e seci sono state occasioni sono già perse - al livel-lo effettivo che decide la nostra convivenza,cioè a livello della società globale, penso che lacosa che si possa fare è aumentare là dove sipuò il livello di fiducia interpersonale. Ma nonsoltanto nella forma in cui lo fanno sempre igruppi dei diseredati...Allora i filippini con ifilippini, i cristiani con i cristiani e dopo sicomincia con la demonizzazione incrociata.Bensì in una forma che peraltro abbiamo espe-rimentato in altri momenti e anche se non concosì tante difficoltà, in una sorta di affinità elet-

tiva. Cioè un’affinità che va al di là delle carat-teristiche di origine, tanto culturale, quanto dialtro genere. E che può essere praticata a tuttii livelli del volontariato, della società civile,eccetera. Con la possibilità di dare una certafiducia istituzionale selettiva non a tutte le isti-tuzioni perché queste esistono, ma a quantonelle istituzioni si possa da un verso influenza-re, per un altro verso controllare, e per unaltro verso semplicemnete perché una parte diistituzione può effettivamente meritarsela, pervari casi della dinamica delle forze culturali epolitiche. In sostanza, una crescita della fiduciamolecolare dal basso, per piccole zone. Nonquelle rosse liberate, ma le zone di fiducia chesi possono creare e che possano esercitareuna funzione di selezione della fiducia nei con-fronti delle istituzioni.

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“Vergognae pregiudizio”

OrlandiniDario

“Siamo ciò che mangiamo”

FrancescoDi Loreto

“La malattia”

CristinaPieri

Anonimo

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ZUCCAmichela

Qalqilya, 2003(territoripalestinesi)il musro cheIsraele stacostruendo inCisgiordania, 700km di cementoarmato efilospinato per 8metri di altezza.

Bruna Orlandifoto

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Invece che di paura, parlerò oggi di coraggio.Cito solo un episodio, per far capire che esi-stono culture e popoli che valorizzano ilcoraggio e altre no. Quando i Galli andavanoin battaglia, le loro donne con i bambini simettevano a ridosso della linea di attacco. Leloro mogli avevano le lance rivolte in avanti,perché nel caso i mariti avessero avuto lamalaugurata idea di voltarsi e tornare indietroper scappare, erano pronte ad infilzarli. Meglioun marito morto che un marito vigliacco: e iltutto avveniva di fronte ai figli, perché anche ipiù piccoli imparassero da subito i valori fon-danti di una società.In molte società antiche esistono dei riti pub-blici - che fra l’altro sono anche dei riti di pas-saggio all’età adulta, di iniziazione - che servo-no a dimostrare il coraggio e a dimostrareche si riesce ad affrontare la paura. Cerimonie

come queste servono ai giovani maschi permettersi in evidenza di fronte alle giovanifemmine. Nei valori che riguardano la prefe-renza sessuale per la scelta di un partner, ilcoraggio è una delle qualità preferite. Ci tro-viamo ovviamente in società in cui il pericoloè anche qualche cosa di fisico, di immediato.Ricordiamo che solo da pochi decenni, e soloin certi ambiti, la maggior parte della gentevive in luoghi e in situazioni in cui il pericolonon è qualche cosa di istantaneo, inevitabile,da affrontare faccia a faccia subito, senzapotersi perdere in ponderazioni e valutazioni.Per essere ancora più espliciti: adesso vivia-mo in un continente nel quale da cinquant’an-ni non si combattono più guerre, in cui dadecenni la fame è sconfitta, non si deve piùlottare per la sopravvivenza. Noi viviamo inun ambito politico in cui ci è permesso espri-

mere il dissenso. Non più tardi di cento annifa, chi scioperava si trovava l’esercito davanticoi moschetti spianati. Bava Beccaris si preseuna decorazione perché prese a cannonate lafolla in piazza Duomo a Milano. E non è statochissà quanti millenni fa. In realtà, allora, lagente scendeva in piazza e affrontava larepressione molto più di oggi. Oggi quando inrealtà non si rischia niente, si ha molta piùpaura.Un altro esempio: le ricerche antropologichesulle scelte sessuali dei partner hanno dimo-strato che le preferenze femminili oggi nonvanno verso l'uomo che ha coraggio, ma siconcentrano sulla figura del maschio-leader.Quel coniuge potenziale che, avendo i soldi eil potere, assicura la maggior probabilità distabilità e quindi di benessere continuato neltempo. Siamo passati da società in cui viene

valorizzato il coraggio, a società in cui vienevalorizzata la stabilità. Questo nella maggio-ranza dei casi. Ora, ricordiamo che esistono eio ne ho anche fatto parte - e certe cose sidicono ancora, anche se si è visto che certecose non si possono più dire apertamenteperché sono tabù, quindi si dicono sottovoce-; ho fatto parte di una società alpina in cui mihanno insegnato e passato alcuni valori.Tipoche una persona è responsabile della sua vitae anche della vita degli altri, verso se stessa everso la propria comunità. Che cosa vuol direin termini spiccioli? Se tu sei in montagna inuna situazione di emergenza e c’è qualcunoche ostacola il cammino degli altri, lo buttigiù. Punto. Questa non è una baggianata, per-ché un mio compagno di giochi vent’anni fa sitrovava in un alpeggio della provincia di Son-drio - io vengo da un piccolo paese nella pro-

vincia di Sondrio - e stava facendo pascolarele mucche. L’erba che cresce presto neipascoli d’alta quota è molto fine, scivolosa, ele nostre sono montagne ripide. Lui stavainsieme a un altro ragazzo, avevano vent’annitutti e due, e scivolò nel precipizio. Quell’altroriuscì a prenderlo per i polsi. Quando quellosotto si accorse che stava trascinando ancheil suo amico verso il baratro, lo mollò. E sisfracellò sulle rocce di sotto. MOrale: se cideve essere un morto, meglio uno che due.Ancora oggi quando sento di alcuni incidentiin montagna in cui misteriosamente uno muo-re, chi sa capisce come mai.

Altra cosa: malgrado tutto il nostro pacifismo,tutta la nostra democrazia, tutti i nostri buonisentimenti, chiunque faccia il mestiere dellostorico sa che qualsiasi cambiamento in qua-

lunque società, compresa la nostra, si paga insangue.Anche se non ci piace. La nostra carademocrazia europea, di cui giustamente andia-mo tanto fieri, è stata conquistata a suon dirivolte sanguinosissime che iniziano con laRivoluzione inglese del '600 per poi prosegui-re con la Rivoluzione francese e, nell''800, unaguerra di liberazione dietro l'altra, poi le dueguerre mondiali e i conflitti anti coloniali. Ilpacifismo di oggi ce lo possiamo permetteresui morti di ieri, violentemente uccisi nel cor-so di ribellioni non pacifiche e non democra-tiche.Non solo: oggi come oggi, che i cambiamentispesso devono essere preceduti da forti bat-tage mediatici, si sa molto bene che se non ciscappa il morto, nessuno ne parla.Anzi: piùmorti sono e meglio è. Chi avrebbe saputocosa succedeva nelle banlieues parigine, se

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Porto Marghera,intervento contro la fuoriscita diradiazioni nucleari

Moreno Gentilifoto

Smara, 2000.Campi profughiSaharawi. Lezioni diriconoscimentodei pericoli.

Paolo Mazzofoto

Baghdad, 1995. Aliban Bitar Hospital.

Genitori ascoltano con angosciail primario che elenca i bambini

che potranno essere sottopostialle cure e quindi salvati.

La mancanza di medicinali a causa dell’embargo dal 1991,

la speranza di vita per gli altri è quasi nulla

Isabella Balenafoto

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non si fossero messi a incendiare tutto? Daun punto di vista funzionale, è servito.Adessoquelli - a parte qualcuno che sarà finito den-tro - hanno ricevuto i fondi. Come poi ver-ranno usati, sarà un altro discorso. Però laviolenza è servita.Per fare questo tipo di azioni, naturalmente, civuole coraggio. Capacità di mettere in giocola propria vita: o si è capaci, o no. Non siamoeducati a rischiare la nostra incolumità. Siamoabituati a cercare di vivere il meglio possibile.Da noi la vigliaccheria non viene penalizzata.In altre società, chi è vigliacco viene escluso.Da noi no.Anzi, in certi casi questa "qualità"viene addirittura valorizzata, per dire: a scuolase due bambini fanno a botte e uno torna acasa con un graffio, i genitori denunciano lamaestra. Nessuno più insegna ai bambini acombattere. Si fa finta che la violenza non esi-

sta. Quindi non li si educa né all’autodifesa, né(anche peggio) alla difesa del gruppo.Anzi:quello che gli si dice è:“Tu stanne fuori, percarità”. Questi sono i valori che noi passiamomescolati, travestiti, verniciati di democraticitàe pacifismo.Ma il coraggio è assunzione di responsabilitàverso il gruppo dei pari. Questi sono i mieiamici e compagni e io li difendo, nel bene enel male. Purtroppo la valorizzazione delcoraggio non è tipica delle società democrati-che. In realtà, dal punto di vista antropologico,è tipico di società egualitarie. Che non vuoldire democratiche, perché nelle società egua-litarie quel che conta è il gruppo; l’individuoserve solo in funzione del gruppo e da solonon ha valore. Sono orizzonti culturali com-pletamente diversi da quelli in cui viviamo noi.Nelle società antiche, si ha paura di essere

uccisi o torturati - non più tardi di sessant’an-ni fa, se si osava esprimere qualcosa di diver-so da ciò che veniva propagandato dal siste-ma, se andava bene si finiva al confino. Noi diche cosa possiamo avere paura vera, se espri-miamo qualcosa di diverso? Il massimo che cipuò succedere è di perdere il lavoro. In realtà,perdere il lavoro oggi è una cosa ridicola nellasocietà dell’opulenza in cui tutti mangiano,rispetto ad altri ambiti in cui essere licenziatiin tronco significava morire di fame con i pro-pri figli - oltre alla violenza vera, fatta di pal-lottole, in caso di scioperi o dimostrazioni dipiazza. Eppure, noi abbiamo paura, continuia-mo ad avere paura.Si parlava di paure politiche. Io mi occupo dirivolta. La rivolta ha bisogno di gente che saassumersi il rischio, la responsabilità verso sestessi e verso gli altri dell’uso della violenza.

Senza questo, la paura non si elimina.Mi hanno chiesto di fare un intervento sulletecniche di costruzione della resistenza socia-le. La resistenza non è un atto democratico, èsempre un atto violento. Perché se io resisto,vado contro la maggioranza e il potere. E que-sto non è un atto educato: come diceva Mao,la rivoluzione non è un pranzo di gala. Questoè un primo atto. Il secondo atto per costruiredelle tecniche di resistenza sociale è quello disuperare il giudizio sociale interno. La pauradella critica della cerchia dei pari, ovvero diquelli che sono come noi, che ci stanno vicini,può essere uguale alla paura degli altri, delnemico.Anzi, può essere maggiore il timoredella disapprovazione degli amici. E puòcostituire un grosso deterrente alla costru-zione di azioni di resistenza sociale, moltpomaggoire di quello che, ad un primo momen-

to, si può pensare.Ricordiamoci una cosa essenziale: il coraggiosi impara. Sfortunatamente noi, a furia di nonpraticarlo, l’abbiamo dimenticato, ma vi citoun lavoro di uno storico che si chiese qualicategorie sociali nell’ambito della repressionetotale, il campo di sterminio, fossero riuscite acostruire delle tecniche di resistenza socialeefficace. Si tratta di Bruno Bettelheim, ebreo,internato ad Auschwitz. Durante l'interna-mento che poi riuscì a valorizzare come lavo-ro di campo antropologico, scoprì che duecategorie sociali riuscirono efficacemente aresistere, come potevano, alla tortura quoti-diana: i malavitosi e gli esponenti del Partitocomunista. I delinquenti perché rispettoall'ambiente in cui avevano vissuto, l’ambienteculturale del lager non lo trovavano poi cosìstrano. Sapevano perfettamente che il mondo

"normale" era un qualche cosa di meno vio-lento del campo di sterminio, ma in realtàesprimeva gli stessi valori, valori ai quali loroavevano già imparato a resistere da bambini. Egli esponenti del Partito comunista (clandesti-no, naturalmente) allora si ponevano eccomeil problema del coraggio e della paura; e aogni nuovo militante che entrava, quelli vecchidicevano tutta una serie di cose. Per esempio,com’era fatto un interrogatorio, come resi-stere a un pestaggio, come non tradire i com-pagni, che cos’era la tortura. Perché è chiaroche chi non aveva coraggio, quindi aveva pau-ra, quindi se la cantava, era un pericolo per glialtri.Veniva detto che chi faceva l’infamedoveva essere eliminato. Perché quello mette-va a rischio gli altri: difesa del gruppo.Anche il coraggio di portare avanti una lottasi impara. Io ho ricevuto questa confidenza in

Zucca 03

titol

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lo

04 Zucca

>>>

“La paura non è un urlo... maun’assenza di voci

Laura Monacofoto

Milano, 2005.Sudanesi nello

sgombero di Via Lecco

Loris Savinofoto

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camera caritatis da esponenti del Partitocomunista portoghese clandestino - fino al1974 in Portogallo c’era la dittatura militare -i quali, a un certo punto, si trovarono di fron-te alla scelta se prestare servizio militare nel-le colonie, oppure no. Ed essere internaticome disertori, messi in galera. Pochi eranoquelli che dal Portogallo avevano i mezzi perscappare all’estero. Dalla direzione del Parti-to, dopo una serie di discussioni, decisero chebisognava andare a fare la guerra coloniale inAfrica per imparare le tecniche di lotta daimpiegare poi sul proprio territorio. E perimparare ad avere coraggio in combattimen-to.A questo punto però è necessario sfatare unpregiudizio. Quello che afferma che chi pos-siede le armi, sa impiegare metodi di lottaviolenta e all'occorrenza è anche capace di

prendersi la responsabilità di uccidere il nemi-co possa non riuscire più a controllarsi erivolgere l'aggressività verso chi gli sta vicinoed è indifeso.Fra gli statunitensi esiste una grande diffusio-ne del possesso casalingo di armi. D'altra par-te, è cosa frequente negli Stati Uniti che qual-cuno dia fuori di testa e ammazzi gente agogò. Bisogna considerare, però, che un altropiccolo Stato dove la diffusione di armi èancora più capillare che negli Stati Uniti è laSvizzera. In Svizzera tutti i maschi adulti han-no le armi in casa.Tutti i maschi adulti vanno afare esercitazioni di tiro dai 20 ai 65 anni percirca 15 giorni all’anno. E, contrariamente aquello che si potrebbe pensare, in Svizzera gliepisodi di cattivo uso delle armi sono prati-camente ridotti a zero. La Svizzera è ancheuno dei pochissimi Stati in cui - si tratta del

regime repubblicano più longevo d’Europa - ilGoverno è espressione della fiducia dal basso.Questo non vuol dire che loro non siano abi-tuati a livello di popolo ad avere coraggio. Ilpacifismo è una creazione recente dei popoliricchi. I popoli poveri non possono permet-tersi di essere pacifici. È chiaro che nelle tec-niche di costruzione di resistenza sociale nonsempre la via - diciamo - violenta è la più con-veniente. Per esempio, alcune fra le tecnichedi resistenza sociale più efficaci adottate aMilano durante il Risorgimento non furonoquelle insurrezionali. Forse qualcuno se loricorda perché gliel’hanno fatto studiare ascuola, oggi non si insegnano più questecose... Fu il famoso sciopero del fumo, in cuila gente del Lombardo-Veneto, conscia chel’Austria rimanesse in questi territori perché,pur essendo un diciottesimo dell’impero, qui

si versava un sesto delle tasse, facendo duecalcoli scoprì che la maggior parte dei fondiche entravano nelle casse dell’Erario austro-ungarico provenivano dal fumo. E per mesiquesti smisero di fumare. Il che non è dapoco. Questa fu un’azione di resistenza socia-le efficacissima e, diremmo oggi, non violenta,anche se le risse anche a coltellate eranoall’ordine del giorno.Ultima cosa: le tecniche di costruzione diresistenza sociale non sono azioni democrati-che. Se io voglio che la mia azione di resisten-za sociale sia efficace (e se non voglio che siaefficace non la inizio neppure), sono obbligataa un ulteriore passaggio - e qui concludo -: adobbligare gli altri a seguirmi nella mia stessadecisione, per quanto mi è possibile. E questopuò non essere proprio democratico, propriopacifico. E ha bisogno di molto coraggio.

Zucca 05

titol

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pito

loFabio Avancini

foto

06 Zucca

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Paura

Minsk, 1999.Ospedale Oncologico

Pediatrico. Molti dei piccoli pazientison in cura per i tumorilegati all’inquinamento

ambientale di Chernobyl

Isabella Balenafoto

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Adesso diamo la parola ad Alfredo della Comune di Bagnaia facendo una piccola premes-

sa. In un incipit per il convegno si diceva: la libertà ha bisogno di sicurezza. Invece diamo la

parola ad Alfredo cambiando un po’ i termini della questione, dicendo che la libertà ha biso-

gno di reciprocità, cooperazione e comunanza. Loro sono l’esempio proprio di questo.

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titolo capitolo

ALFREDOalfredo

Napoli

Moreno Gentilifoto

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[ la paura mangia l’anima 25.02.2006 ] [ 048 ] [ 049 ] [ la paura mangia l’anima 25.02.2006 ]

... convegno, in quanto ci sembrava un po’spiazzato il titolo rispetto al contributo chenoi potevamo dare. Cristina ci disse: noiabbiamo bisogno di capire se vi sono delleforme di aggregazione sociale che possonoessere un’alternativa rispetto al vivere dellasocietà alienante moderna. In effetti, il contri-buto che vorremo dare vorrebbe essere inqualche modo un esempio di un processoverso il superamento di una paura indotta dacondizioni sociali alienanti. Passo semplice-mente al racconto di quello che è il nostromodo di essere. Io sono Alfredo, lui è Fabio.Io faccio l’insegnante e sono anche impegnatopoliticamente, Fabio fa il saltimbanco.Viviamoinsieme nella stessa realtà, che è la comune diBagnaia. 25 persone vivono una realtà dove visono le case, ovviamente; una cascina abba-stanza grande con alcuni annessi; 80 ettari di

terra nella campagna senese, a 9 chilometri daSiena. La comune di Bagnaia esiste dal 1979ma è il frutto dell’aggregazione di due prece-denti comuni, una agricola del Grossetano euna cittadina presso Siena, che si sono costi-tuite la prima nel 1969, la seconda nel 1974.Quindi è il risultato di un processo che noidefiniamo anche di carattere generazionale,che parte dal ‘68 e che giunge fino ad oggi.Avrei voluto dire che noi siamo la più anticacomune d’Italia, forse è vero, forse no. Di fat-to possiamo dire che in Italia il movimentodelle comuni ha ripreso a essere vivace. Noifacciamo parte di alcune associazioni, in modoparticolare della Rete Italiana degli Ecovillaggie del GEN, cioè il Global Echovillage Net-work. Queste organizzano parecchie decinedi realtà. Nella RIVE per esempio non siamola sola comune presente.Vi sono gli Elfi, gli

Alcatraz e, al di fuori della RIVE, vi è un’altrobellissimo esempio di comune molto similealla nostra per alcuni aspetti: quella di Euro-pia, che si trova nell’Italia Meridionale, inPuglia, a Francavilla.Quali sono i nostri principi? Noi abbiamorifiutato e continuiamo a rifiutare la proprietàprivata. Noi mettiamo insieme tutto.Tuttoquello che guadagnamo, tutto quello cheabbiamo.Abbiamo rifiutato la famiglia, in quan-to abbiamo istituito il principio dell’educazio-ne collettiva dei figli e della sperimentazionedi forme di convivenza alternative rispettoalla famiglia di coppia. Noi abbiamo rifiutato ilconcetto di consumismo, non nel senso chenon consumiamo, ma nel senso che cerchia-mo di consumare il meno possibile. Cerchia-mo di rifiutare il concetto di essere totalmen-te dipendenti dalla produzione energetica

esterna, quindi cerchiamo di mettere in piediattività di autoproduzione energetica.Abbia-mo rifiutato il concetto di agricoltura distrut-tiva dell’ambiente, quindi pratichiamo ormaidal 1989 l’agricoltura biologica e siamo unodegli esempi più importanti in Toscana a que-sto riguardo. Noi abbiamo rifiutato il concet-to del denaro. In una trasmissione realizzatain una televisione locale, siamo stati invitatiinsieme con il direttore della banca del Montedei Paschi.Andrea, che parlava a nome dellacomune, sbalordì tutti perché disse che pernoi il problema del denaro non esiste, perchéce ne siamo individualmente liberati. In effetti,cerchiamo di avere maggiormente logiche discambio, piuttosto di logiche fondate sulloscambio di moneta. Naturalmente, questonon significa che noi non guadagnamo.Abbia-mo ovviamente un’economia che si svolge a

livello locale e che rifiuta in ogni caso la gran-de distribuzione.Tanto per farvi un piccoloesempio, abbiamo preferito vendere il vino aun euro e sette al litro, vino Chianti DOCGper intenderci, piuttosto che imbottigliarlo evenderlo a prezzi molto più elevati. Sono pic-cole pratiche sociali che poi si connettonocon tanto altro. Portiamo avanti realtà dicarattere politico-sociale, come realtà dellacomune di Bagnaia. Mi riferisco in modo par-ticolare a un esempio, ma potrei portarneanche altri: lo scambio di dialogo fra giovaniisraeliani e palestinesi che organizziamo ognianno all’interno della nostra comune. Con ilsupporto finanziario e politico di enti locali,ma soprattutto organizzato dalla nostra real-tà. Oltre a questo, portiamo avanti un impe-gno di carattere pacifista e nonviolento, moltoattivo e articolato...

Alfredo 01

titol

o ca

pito

lo

Alfredo02

>>>

Mali, 2001.

Ivo Balderifoto

Luglio, 2005.Carcere di San Vittore, V raggio. Cella.

Luca Bonaviafoto

Mali, 2001“...colonialismo,

schiavismo, sistema”

Ivo Balderifoto

“...Quella dentro”Polaroid, 1992

Ivo Balderifoto

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[ la paura mangia l’anima 25.02.2006 ] [ 050 ] [ 051 ] [ la paura mangia l’anima 25.02.2006 ]

Callegarocristina

Caroniaantonio

Dal Lagoalessandro

Maderaromano

Zuccamichela

Xxxxxalfredo

Biografia zothecas iocari

pretosius umbraculi. Adfabilis

catelli corrumperet satis

tremulus suis, iam optimus

bellus concubine amputat catelli,

quamquam Augustus insectat

plane parsimonia chirographi.

Saburre vocificat satis adfabilis

matrimonii, utcunque Medusa

suffragarit catelli, semper

quinquennalis agricolae miscere

cathedras. Gulosus oratori

comite

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cathedras. Gulosus oratori

comite

Antropologa, antropologa, hasvolto il suo lavoro di campo fra glisciamani sudamericani amazzonici. Siè specializzata in antropologia alpina,storia della stregoneria, studio dell'im-maginario nelle espressioni artistichepopolari. Lavora al Centro di ecologiaalpina di Trento, si occupa di svilupposostenibile di aree rurali marginali, divalorizzazione del territorio, di forma-zione, di progetti europei. Ha fondatola rete di donne delle Alpi. InsegnaStoria a Scienze e turismo alpino aTorino e Didattica della storia all'Altascuola pedagogica di Locarno (CH).Lavora a progetti di valorizzazione eco-nomica e culturai di zone rurali e mar-ginali. Ha pubblicato "Milano Magica"per La Spiga, "Antropologia pratica eapplicata" e "Donne delinquenti" perEsse Libri/GruppSimone, "Le Alpi - Lagente" per il Centro di ecologia alpina.

Biografia zothecas iocari

pretosius umbraculi. Adfabilis

catelli corrumperet satis

tremulus suis, iam optimus

bellus concubine amputat catelli,

quamquam Augustus insectat

plane parsimonia chirographi.

Saburre vocificat satis adfabilis

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suffragarit catelli, semper

quinquennalis agricolae miscere

cathedras. Gulosus oratori

comite

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[ la paura mangia l’anima 25.02.2006 ] [ 052 ]

Si ringrazia> Biografia

zothecas iocari pretosiusumbraculi.

> Biografiazothecas iocari pretosiusumbraculi.

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Stampato> data

> TipografiaVia .