Contratto a tutele crescenti e licenziamenti - Unicost · La legge delega 10/12/2014 n. 183, con...

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1 Contratto a tutele crescenti e licenziamenti La legge delega 10/12/2014 n. 183, con l'art. 1, co,,a 7, lett c.) ha previsto, per le nuove assunzioni, un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ( di seguito: c.t.c.) in relazione alla anzianità di servizio del lavoratore, con: - esclusione della reintegra del lavoratore nel posto di lavoro per i licenziamenti economici - limitazione del diritto alla reintegra per a) licenziamenti discriminatori e nulli b)specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati - previsione di un indennizzo economico certo e crescente con la anzianità di servizio del lavoratore -termini certi per l'impugnazione. Lo scopo è quello previsto dall'incipit del comma 1 del prec. art.1, vale a dire rafforzare opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo. Tale delega ha avuto attuazione con il D.Lgs. 4/3/2015 n. 23,, in G.U. 6/3/2015, n. 54, ed entrata in vigore il giorno successivo a detta pubblicazione ( v. art. 12 di detto D.Lgs). Premesso che non appare contestato (Carinci, Amoroso, Barraco, Giubboni) che il c.d. c. t. c. non è un nuovo tipo contrattuale, ma un ordinario contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato caratterizzato solo dalla previsione di un diverso regime di tutela ( rectius: tutele) in caso di licenziamento in senso lato illegittimo, detto contratto a tutele crescenti si applica ( v. art. 1, comma 1) alle nuove assunzioni a tempo indeterminato a fare tempo dal 7/3/2105 ( data della sua entrata in vigore), anche quando dette assunzioni avvengono da parte delle c.d. piccole imprese ( vale a dire le imprese sotto le dimensioni ex art. 18, commi 8 e 9 legge n. 300/1970 e succ. mod; cfr. art. 9, comma 1).

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Contratto a tutele crescenti e licenziamenti

La legge delega 10/12/2014 n. 183, con l'art. 1, co,,a 7, lett

c.) ha previsto, per le nuove assunzioni, un contratto a tempo

indeterminato a tutele crescenti ( di seguito: c.t.c.) in

relazione alla anzianità di servizio del lavoratore, con:

- esclusione della reintegra del lavoratore nel posto di lavoro

per i licenziamenti economici

- limitazione del diritto alla reintegra per

a) licenziamenti discriminatori e nulli

b)specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari

ingiustificati

- previsione di un indennizzo economico certo e crescente con la

anzianità di servizio del lavoratore

-termini certi per l'impugnazione.

Lo scopo è quello previsto dall'incipit del comma 1 del prec.

art.1, vale a dire rafforzare opportunità di ingresso nel mondo

del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e

riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente

coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e

produttivo.

Tale delega ha avuto attuazione con il D.Lgs. 4/3/2015 n. 23,,

in G.U. 6/3/2015, n. 54, ed entrata in vigore il giorno successivo

a detta pubblicazione ( v. art. 12 di detto D.Lgs).

Premesso che non appare contestato (Carinci, Amoroso, Barraco,

Giubboni) che il c.d. c. t. c. non è un nuovo tipo contrattuale,

ma un ordinario contratto di lavoro subordinato a tempo

indeterminato caratterizzato solo dalla previsione di un diverso

regime di tutela ( rectius: tutele) in caso di licenziamento in

senso lato illegittimo, detto contratto a tutele crescenti si

applica ( v. art. 1, comma 1) alle nuove assunzioni a tempo

indeterminato a fare tempo dal 7/3/2105 ( data della sua entrata

in vigore), anche quando dette assunzioni avvengono da parte

delle c.d. piccole imprese ( vale a dire le imprese sotto le

dimensioni ex art. 18, commi 8 e 9 legge n. 300/1970 e succ. mod;

cfr. art. 9, comma 1).

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Inoltre ( v. art. 1, comma 3) nel caso in cui il datore di

lavoro " sotto soglia" ex art. 18, commi 8 e 9 legge n. 300 del

1970, viene ad integrare il requisito occupazionale di detta norma

in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato successive alla

entrata in vigore del D.Lgs, è previsto che il licenziamento dei

lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è

disciplinato dalle disposizioni del D.Lgs. n. 23, con una norma

che secondo alcuni è sospettabile di incostituzionalità per

eccesso di delega ai sensi dell'art. 76 Cost. posto che la legge

delega n. 183/2014 riguarda solo i c.d. nuovi assunti

Il D.lgs. n. 23,poi, si applica ( v. art. 9, comma 2) alle c.d.

organizzazioni di tendenza.

Con riferimento,poi, a singoli lavoratori, il D.Lgs. n. 23 si

applica ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai,

impiegati e quadri ( v. art. 1, comma 1), con conseguente

esclusione delle assunzioni dei dirigenti, per i quali, quindi,

continua ad applicarsi la previsione dell'art. 18, commi 1/3 legge

n. 300 del 1970, con applicazione del c.d. rito Fornero se si fa

valere la natura " discriminatoria" del licenziamento.

Quanto, poi alle singole tipologie contrattuali, è previsto (

art. 1, comma 2) che la disciplina del c. t. c. si applica anche

in caso di conversione del contratto a tempo determinato o di

apprendistato successivo alla entrata in vigore del D.Lgs.

Non si affrontano specificatamente i problemi ( anche di

legittimità costituzionale) che si possono porre sia con

riferimento alla legge delega sia con riferimento all'ambito di

applicazione del c.t.c., concentrando la attenzione su come il

D.Lgs. ha dato attuazione alla legge delega in tema di regime

delle tutele in caso di licenziamento in senso lato

ingiustificato.

Si parla di tutele posto che anche il D.Lgs., così come l'art.

18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92

del 2012, prevede un regime di tutele articolato in quattro

livelli:

1) la tutela reintegratoria c.d. piena, con integrale risarcimento

del danno per i licenziamenti discriminatori, nulli, intimati in

forma orale o per difetto di giustificazione consistente nella

disabilità fisica o psichica (v. art. 2)

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2) la tutela reintegratoria c.d. attenuata, in quanto il

risarcimento è limitato, in ogni caso, all'importo massimo di

dodici mensilità per il c.d. licenziamento disciplinare ( per

giusta causa o giustificato motivo soggettivo) in cui sia

direttamente dimostrata in giudizio la insussistenza del fatto

materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta

estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento

( v. art. 3, comma 2)

3) la tutela indennitaria c.d. forte (indennità non assoggettata a

contribuzione previdenziale pari a due mensilità dell'ultima

retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine

rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non

inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità) in

tutti gli altri casi di ingiustificatezza del licenziamento per

giusta causa o per giustificato motivo, sia oggettivo che

soggettivo ( v. art. 3, comma 1)

4) la tutela indennitaria c.d. debole ( indennità non

assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari ad una

mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo

del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in

misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici

mensilità) nel caso di licenziamento caratterizzato da vizi

formali e procedurali ( v. art. 4).

La tutela indennitaria è,poi, dimezzata per le c.d. piccole

imprese ( v. art. 9, comma 1), alle quali,poi, ( v. sempre lo

stesso articolo) non si applica l'art. 3, comma 2( vale a dire la

c.d. tutela reintegratoria attenuata).

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Tutela reintegratoria c.d. piena ( licenziamenti

discriminatori -nulli- intimati in forma orale -per motivo

consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore)

Tale va definita perchè è confermato dal D.Lgs. n. 23 il

diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ed

il risarcimento del danno subito, pari all'ultima retribuzione di

riferimento per il calcolo del t.f.r., per il periodo dal giorno

del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione,

dedotto il c.d. aliunde perceptum, con la specificazione che detto

risarcimento non può essere di importo inferiore a cinque

mensilità, con condanna del datore di lavoro, per il medesimo

periodo, al versamento dei contributi previdenziali ed

assistenziali, ribadita la facoltà del lavoratore, fermo il

diritto al risarcimento del danno come sopra previsto, ad optare

per la c.d. indennità sostitutiva della reintegra ( importo pari a

quindici mensilità, non assoggettato a contribuzione

previdenziale), con richiesta da effettuarsi entro i 30 gg. dalla

comunicazione della pronuncia giudiziale o dall'invito del datore

di lavoro a riprendere il servizio, se anteriore, con la

specificazione che detta richiesta determina la risoluzione del

rapporto di lavoro.

E' prevista per il licenziamento discriminatorio.

Nei primi commenti al D.Lgs. si sta già delineando una

difformità di opinioni in ordine alla nozione di detto

licenziamento con riferimento al c.t.c. che, con ogni probabilità,

riguarderà anche il contenzioso giudiziale, tenendo conto che la

tutela del licenziamento in senso lato ingiustificato nel c.t.c.

vede una drastica riduzione della tutela reintegratoria.

Accanto ad autori ( cfr. Barraco) che auspicano che la

giurisprudenza vorrà ribadire, per il c.t.c., alcuni punti fermi

della precedente e costante elaborazione giurisprudenziale in tema

di licenziamento discriminatorio ( tale licenziamento è solo

quello intimato per uno dei fattori indicati tassativamente dalla

legge, vale a dire ragioni sindacali, politiche, religiose,

razziali, tecniche, nazionali, di lingua, culto, età, sesso,

infezione ex HIV; ogni altra differenza per ragioni atipiche non

integra discriminazione anche se arbitraria; onere della prova a

carico del lavoratore; il motivo illecito rileva se è l'unico

determinante, con la conseguenza che, accertata la giustificatezza

del licenziamento, si deve escludere la discriminazione;; non

accettabilità della equiparazione motivo insussistente/ occulto=

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motivo discriminatorio, con la conseguenza che per aversi

discriminazione ci vuole un quid pluris anche rispetto al

licenziamento palesemente ingiustificato), ve ne sono altri che,

all'opposto, ritengono che con il c.t.c. il legislatore abbia

allegato la sfera di applicazione del licenziamento

discriminatorio, con conseguente allargamento della sfera d

applicazione della c.t. tutela reintegratoria piena ( v. Carinci,

Giubboni, Sanlorenzo, Scarpelli, Mimmo), valorizzando la "

lettera" dell'art. 2 del D.Lgs. , mettendola a confronto con il

testo dell'art. 18, comma della legge n. 300 del 1970, come

modificato dall'art. 42 legge n. 92 del 2012.

In particolare, evidenziando il dato testuale che l'art. 2 del

D.Lgs. non richiama l'art. 3 della legge n. 108 del 1990 e,

soprattutto, l'art. 1345 c.c., si avanza l'ipotesi che secondo

il D.Lgs. il licenziamento discriminatorio è ontologicamente

diverso e non va " confuso" con il licenziamento determinato da

motivo illecito, con conseguente superamento della nozione c.d.

soggettiva di detto licenziamento discriminatorio recepita dalla

giurisprudenza di legittimità ( consolidata nell'affermare che è

discriminatorio il licenziamento originato esclusivamente

dall'intento discriminatorio perseguito dal datore di lavoro), a

favore della nozione c.d. oggettiva di detto licenziamento, con

diverso e piu' facile (non essendo richiesta la prova dell'intento

discriminatorio come motivo esclusivo e determinante) atteggiarsi

dell'onere probatorio a carico del lavoratore ai sensi dell'art.

28, comma 4 D.Lgs. n. 150/2011 ( v. anche art. 40, comma 1 D.Lgs.

n. 168/2006).

A tale proposito si può osservare che,però, riesce un po'

difficile immaginare che la predetta ( non contestabile)

differenza letterale tra l'art. 2 del D.Lgs. n. 23 ed il " nuovo"

art. 18, comma 1 legge n. 300 del 1970 possa fondare un così

radicale cambio di rotta circa la nozione di licenziamento

discriminatorio, tanto piu' che il legislatore delegato non ha

avuto alcuna delega in tale senso dal legislatore delegante (

identicamente alla nozione del c.d. licenziamento disciplinare o

del c.d. licenziamento economico), riuscendo difficile immaginare

anche che il legislatore delegato ( che sicuramente ha ridotto

drasticamente le ipotesi di reintegra, piena o attenuata che sia)

possa avere inteso ampliare la nozione di licenziamento

discriminatorio, con conseguente ampliamento della tutela

reintegratoria c.d. piena confermata per detto tipo di

licenziamento.

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A ciò va pure aggiunta la osservazione che tale modifica (

allargamento) della nozione di licenziamento discriminatorio pare

essere neppure ipotizzabile sulla base dell'art. 42 della legge n.

92 del 2012 ( v. sul punto Amoroso), senza dimenticare che ( v.

oltre) il mancato espresso riferimento alla fattispecie dell'art.

1345 c.c. non pare impedire la applicazione della c.d. tutela

reintegratoria piena a siffatta fattispecie di licenziamento.

L'art. 2, comma 1 del D.Lgs. applica al c.d. tutela

reintegratoria piena anche al licenziamento "riconducibile agli

altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge".

Tale testo non contiene la specificazione che sul punto è

contenuta nel nuovo testo dell'art. 18, comma 1 della legge n. 300

del 1970 ma non sembra si possa dubitare della applicazione della

tutela reintegratoria piena anche a tale ipotesi con riferimento

al c.t.c. proprio perchè si tratta, comunque, di casi

espressamente previsti dalla legge.

Il testo dell' art.2 ( con applicazione del criterio della

interpretazione letterale) appare essere chiaro, quindi, nel

circoscrivere la c.d. tutela reintegratoria piena solo ai casi in

cui la nullità del licenziamento è espressamente prevista dalla

legge.

Si è,quindi, posto il problema delle c.d. nullità virtuali ( cfr.

per la relativa nozione, Cass. Sez. Unite 19/12/2007 n. 26724), in

ordine alle quali si afferma la applicazione della c.d. tutela

reintegratoria piena dovendosi considerare la coerenza di sistema

con l'applicazione del principio generale che ricollega la

conseguenza della nullità alla violazione di ogni norma

imperativa, con la specificazione che, in caso contrario, in

presenza di una c.d. nullità virtuale ( si fa, ad esempio, il caso

del licenziamento illegittimo perchè motivato dal trasferimento di

azienda) occorre farsi luogo alla applicazione del rimedio

residuale e generale della c.d. nullità di diritto comune ( v.

Giubboni).

La c.d. tutela reintegratoria piena si applica anche al

licenziamento dichiarato inefficace perchè intimato in forma orale

( v. art. 2, comma 1, parte finale), ribadendo sul punto il D.Lgs.

quando già espressamente previsto dal nuovo testo dell'art. 18,

comma 1 legge n. 300 del 1970, parte finale.

La c.d. tutela reintegratoria piena si applica anche nelle

ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione

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per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del

lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma

3, della legge 12 marzo 1999, n. 68. ( v. art. 2, comma 4).

Si tratta, quindi, del licenziamento che trova la sua non

legittima origine nella disabilità fisica o psichica del

lavoratore, rispetto al quale anche al c.t.c. dovrebbe trovare

conferma il precedenza orientamento giurisprudenziale ( v., tra le

altre, Cass.. 10/3/2015, n. 4557) secondo il quale sul datore di

lavoro grava anche l'onere di provare la inesistenza, nella sua

organizzazione aziendale, di mansioni diverse ma compatibili con

lo stato di salute del lavoratore e di pari qualifica.

Tale tipo di licenziamento è preso in specifica considerazione

anche dall'art. 18 legge n. 300 del 1970 e succ. mod. Si può

osservare che sul punto la tutela prevista dal D.Lgs. n. 23 appare

essere più forte di quella prevista dall'art. 18, comma 7 della

legge n. 300 che prevede la applicazione della tutela

reintegratoria c.d. attenuata di cui all'art. 18, comma 4, nella

ipotesi in cui viene accertato il difetto di giustificazione del

licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4,

e 10, comma 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo

oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del

lavoratore.

Come già ricordato, il testo dell'art. 2 del D.Lgs. non

contiene alcun riferimento all'art. 1345 c.c., a differenza di

quanto previsto dall'art.18, comma 1 legge n. 300 del 1970 come

modificato dall' art. 1, comma 42 legge n. 92 del 2012.

Tutto ciò non sembra idoneo ad escludere detta ipotesi dalla

applicazione della tutela reintegratoria c.d. piena sulla base

della osservazione che la nullità del licenziamento determinato da

motivo illecito determinante ben può ricavarsi dall'art. 1418,

comma 2 c.c., potendosi così affermare che anche siffatto

licenziamento è da ricondurre agli altri casi di nullità

espressamente previsti dalla legge ( cfr., ad esempio in tema di

c.d. licenziamento ritorsivo, Cass. 8/8/2011 n. 17087 che parla

di nullità di siffatto licenziamento proprio sulla base del

combinato disposto dell'art. 1345 c.c., dell'art. 1418, comma 2

c.c. e dell'art. 1324 c.c.).

Si può, quindi, concludere nel senso ( cfr. Barraco) che,

malgrado una non identità testuale, i casi di licenziamento in

senso lato viziato che, per i c.t.c., danno luogo alla tutela

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reintegratoria c.d. piena sono gli stessi di quelli previsti

dall'art. 18, commi 1/3 della legge n. 300 del 1970, come

modificati dalla legge n. 92 del 2012, eccezion fatta per il

ricordato ampliamento di tutela per il licenziamento privo di

giustificazione con riguardo alla disabilità, psichica o fisica,

del lavoratore.

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Licenziamento "disciplinare" ( giusta causa o giustificato motivo

soggettivo) privo di giustificazione

Premesso che il D.Lgs. n. 23 non apporta alcuna innovazione alla

nozione di licenziamento disciplinare ed alla

procedimentalizzazione dello stesso ai sensi dell'art. 7 della

legge n. 300 del 1970 e succ. mod., va subito evidenziato che la

radicale novità di tale D.Lgs. riguarda la materia delle tutele

atteso che, in attuazione della legge delega, sancisce il venire

meno della c.d. tutela reintegratoria come regola generale posto

che il licenziamento disciplinare ingiustificato determina,

comunque, la estinzione del rapporto di lavoro alla data del

licenziamento ("..il giudice dichiara estinto il rapporto di

lavoro alla data del licenziamento..."; v. art. 3, comma 1) e

rimane solo ed esclusivamente la tutela risarcitoria c.d. piena,

nel senso che è previsto per il lavoratore il diritto ad ottenere

una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di

importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di

riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per

ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro

e non superiore a ventiquattro mensilità ( v.sempre art. 3, comma

1).

Il che significa che il rapporto regola/ eccezione è nel senso che

la regola è rappresentata dalla tutela indennitaria e la tutela

reintegratoria è ormai una semplice eccezione.

Tale eccezione ( v. art. 3, comma 2) ha,poi, una portata

limitata perchè opera esclusivamente nelle ipotesi di

licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta

causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio

l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore,

rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la

sproporzione del licenziamento ( v. art. 3, comma 2).

Solo in tale ipotesi il giudice annulla il licenziamento e

condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore

nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria

commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo

del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal

giorno del licenziamento fino a quello della effettiva

reintegrazione, dedotto sia il c.d. aliunde perceptum sia il c.d.

aliunde percipiendi ( id est: quanto avrebbe potuto percepire

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accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4,

comma 1, lettera c) del decreto legislativo 21 aprile, n. 181 e

successive modificazioni. Con la specificazione che la misura di

detta indennità, per i periodo antecedente alla pronuncia di

reintegrazione, non può essere superiore a dodici mensilità, con

la specificazione che il datore di lavoro è condannato al

versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal

giorno del licenziamento fin o alla effettiva reintegrazione,

senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva, con il

riconoscimento al lavoratore della c.d. facoltà di opzione di cui

all'art., 2, comma 3 per la c.d. tutela reintegratoria piena.

Varie ed articolate sono le questioni che pone detta normativa.

Quanto al c.d. fatto materiale contestato, si è sostenuto ( v.

Carinci) che quanto affermato, per altro con un obiter, circa il

c.d. fatto materiale del licenziamento disciplinare, dalla Corte

di Cassazione con la sentenza 6/11/2014 n. 23669 sembra avere

avuto una influenza sulla redazione del D.Lgs. n. 23 ( cfr. anche

Fedele), con la conseguenza che il legislatore delegato sembra

posto fine alla querelle sorta sulla base del nuovo testo

dell'art. 18 legge n. 300 del 1970, tra i sostenitori della c.d.

teoria del fatto materiale ed i sostenitori della c.d. teoria del

fatto giuridico, con una scelta legislativa ( v. Barraco) a

favore dei fautori ( minoritari in dottrina ed ancora piu' nella

giurisprudenza di merito) della c.d. teoria del fatto materiale (

id est: fatto inteso con esclusivo riferimento alla condotta, al

nesso di causa ed all'evento).

Non si affronta la problematica afferente la interpretazione di

detta sentenza di legittimità, anche alla luce del caso concreto

dalla stessa deciso ( al riguardo si rimanda alle perspicue

osservazioni di De Luca ed Amoroso).

Nè si ripercorrono le ragioni addotte a fondamento dell'una o

dell'altra opzione teorica.

Si vuole solo evidenziare che, se così fosse, viene a riproporsi

anche per il c.t.c. la fondamentale problematica ( già sorta a

seguito della modifica dell'art. 18, comma 4 legge n. 300 del

1970 apportata dalla legge n. 92 del 2012, e superata

dall'applicazione della c.d. teorica del fatto giuridico)

afferente le importanti conseguenze che può determinare in

concreto l'adesione alla c.d. teoria del fatto materiale, con

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riferimento alle applicazione delle varie tutele previste dalla

legge.

Non si intende fare riferimento specifico alla pure richiamata

ipotesi ( a dire il vero piuttosto teorica) secondo la quale, in

applicazione della teoria del c.d. fatto materiale, anche la

contestazione di un fatto esistente ma del tutto lecito ( si

porta l'esempio della contestazione disciplinare per non avere

salutato il proprio superiore gerarchico), possa, comunque,

determinare la conseguenza, paradossale, della estinzione del

rapporto di lavoro a fronte di un licenziamento disciplinare

ingiustificato e fondato solo su tale fatto lecito, con

applicazione della sola tutela indennitaria.

Ciò lo si afferma in quanto può sostenersi che nella

insussistenza del fatto materiale contestato possa farsi rientrare

non solo la inesistenza di detto fatto o la estraneità del

lavoratore licenziato alla sua commissione ma anche il caso in cui

il fatto materiale contestato sussiste ed è stato commesso dal

lavoratore licenziato ma che non integra alcun inadempimento,

tanto meno rilevante dal punto di vista disciplinare ( cfr.

Mimmo), senza,poi, dimenticare, che, in alternativa, non sembra

possa escludersi l'applicazione dell'atto in frode alla legge ex

art. 1344 c.c., deducendo che tale atto era diretto a bypassare la

tutela reintegratoria ( cfr. Speziale).

Dette conclusioni non possono,però, essere riproposte pari

pari nel caso, ben diverso e piu' problematico, in cui viene

contestato e posto alla base del licenziamento disciplinare un

fatto materiale esistente, commesso dal lavoratore licenziato,

che, però, costituisce un inadempimento talmente lieve da non

integrare quel grado di inadempimento necessario per integrare

almeno il c.d. giustificato motivo soggettivo. Si fa l'esempio

del lavoratore che si presenta in ritardo al lavoro per pochi

minuti, senza la benchè minima ripercussione sulla organizzazione

aziendale.

Un licenziamento fondato su tale fatto risulta ingiustificato

perchè ( cfr. Amoroso) difetta del requisito ( richiesto in via

generale dall'art. 1455 c.c. ed in particolare anche per integrare

la nozione di giusta causa o giustificato motivo soggettivo) della

importanza dell'inadempimento. Senonchè la sussistenza del fatto

materiale contestato risulta impedire, in coerente applicazione

con la c.d. teoria del fatto materiale, l'applicazione della

tutela reintegratoria di cui all'art. 3, comma 2, con la

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conseguenza che il rapporto di lavoro viene comunque meno,

dovendosi riconoscere al lavoratore solo la tutela risarcitoria,

sia pure c.d. piena.

Si tratta una conclusione in presenza della quale si può ben

ipotizzare una questione di legittimità costituzionale ai sensi

dell'art. 3 Cost. non essendovi motivo di un trattamento ben

diverso in punto a tutele rispetto ad un fatto disciplinare

rilevante ma non commesso dal lavoratore che consente la c.d.

tutela reintegratoria sia pure attenuata ( cfr. sul punto

Speziale).

Per evitare tali conseguenze è stato sostenuto ( cfr. Amoroso)

che il c.d. fatto materiale di cui parla la sentenza n. 23669 del

2014 della Corte di Cassazione non significa mero accadimento di

un fatto ma condotta inadempiente del lavoratore che, quindi, si

connota di una qualificazione giuridica che discende dalla nozione

ontologica di licenziamento disciplinare, vale a dire addebito d

colpa, intesa in senso lato come inadempimento agli obblighi

incombenti sul lavoratore per cui il fatto materiale contestato

non è altro che la condotta inadempiente agli obblighi

contrattuali addebitata al lavoratore, con conseguente

applicazione della tutela reintegratoria sia pure attenuata

dell'art. 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970.

Applicando tale interpretazione al fatto materiale contestato di

cui all'art. 3, comma 2, la dicitura " materiale" correlata al "

fatto contestato" non esclude che esso si qualifichi come

inadempimento degli obblighi contrattuali ed è questa una

qualificazione tipicamente giuridica con la conseguenza che non

cambiano la prospettiva e le conclusioni sopra raggiunte con

riferimento al prec. art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970 con

conseguente applicazione anche nell'esempio concreto sopra fatto

della tutela reintegratoria, sia pure attenuata, di cui al prec.

art. 3, comma 2, giungendosi così alla conclusione che il fatto

materiale contestato che integra il c.d. "inadempimento risibile"

è da intendersi ugualmente come fatto insussistente ( cfr.

Caruso).

Detta conclusione,poi, pare trovare un riscntro nella osservazione

( cfr. Barraco) che anche il D.Lgs. n. 23 del 2015 non ridefinisce

la nozione di giusta causa o giustificato motivo soggettivo con la

conseguenza che può affermarsi che per escludere la reintegra non

è sufficiente la sussistenza di una qualsiasi fatto materiale e

la sua commissione da parte del lavoratore licenziato. Ci vuole,

13

anche, la c.d. imputabilità e che detto fatto deve integrare quel

grado di inadempimento richiesto per la nozione di giusta causa o

giustificato motivo soggettivo, ricordando che, in generale,

l'art. 1455 c.c. esclude la risoluzione del contratto per una

inadempimento di scarsa importanza avuto riguardo all'interesse

della controparte.

La opzione legislativa circa la c.d. materialità del fatto

contestato solleva, inoltre, perplessità anche nel caso in cui la

contestazione disciplinare valorizza l'elemento soggettivo con la

conseguenza che detto elemento, quantomeno in siffatta ipotesi,

pare rientrare nella nozione del fatto contestato e posto alla

base del licenziamento, anche perchè con tale contestazione il

datore di lavoro attribuisce carattere essenziale, ai fini della

licenziamento, all'animus che ha connotato la condotta del

lavoratore.

Si può fare, a tale riguardo, l'esempio del c.d. danneggiamento

volontario.

Ne consegue che se all'esito della istruttoria risulta che il

fatto contestato come posto in essere intenzionalmente risulta, al

contrario, essere stato posto in essere per semplice colpa ( che,

nell'esempio fatto, integra il ben diverso caso del danneggiamento

colposo), se ne dovrebbe concludere che il fatto come accertato

non è conforme a quelle contestato con conseguente applicazione

della tutela reintegratoria ( cfr. Buconi, sia pure con

specifico riferimento alla fattispecie dell'art. 18 legge n. 300

del 1970, come mod. legge n. 92/2012 ma con considerazione che

sembrano bene adattarsi anche la c.t.c.; cfr. sul punto Speziale

che, con riferimento alla disciplina del c.t.c., parla di

applicabilità della tutela reintegratoria c.d. attenuata nel caso

in cui, appunto, viene contestato il danneggiamento volontario

con condotta del lavoratore che, all'esito della istruttoria.,

risulta essere solamente colposa).

===========

Il D.Lgs. è,invece, chiaro nell'affermare la estraneità di ogni

valutazione circa la sproporzione del licenziamento in ordine alla

dimostrata insussistenza del fatto materiale contestato al

lavoratore.

Anche in questo caso il legislatore interviene con riferimento ad

una questione centrale, quale quella della valutazione della

proporzionalità della sanzione disciplinare espulsiva, che, con

14

riferimento alla applicazione del regime delle tutele dell'art. 18

legge n. 330 del 1970 come mod. dalla legge n. 92 del 2012 che

vede opposte opzioni interpretative sia da parte della dottrina

che da parte della giurisprudenza di merito con conseguenze ben

diverse in ordine alla individuazione della tutela applicabile:

quella reintegratoria sia pure attenuata di cui all'art. 18,

comma 4° ( v., tra le altre. App. Brescia 12/5/2015, n. 173; Trib.

Ravenna 18/3/2013, Trib. Milano, 20/3/2013; Trib. Roma, 4/4/2013)

oppure quella semplicemente indennitaria di cui al successivo

comma 5 ( cfr., tre altre, Trib. Napoli, ord. 28/1/2014; Trib.

Genova, ord. 2/4/2104; Trib. Taranto, 29/5/2013; Trib. Bologna,

24/7/2013; App. Bologna, 14/10/2014.

Quanto alla giurisprudenza di legittimità, la Corte di

Cassazione, con la sent. 6/11/2014, n. 23669 in motivazione,

specifica chiaramente che esula dalla base della reintegrazione di

cui all'art. 18, comma legge n. 300 del 1970 e succ. mod. ogni

valutazione attinente al profilo della proporzionalità della

sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato al

lavoratore, così sembrando aderire alla impostazione restrittiva

secondo cui l'art. 18, comma 4 legge n. 300 prevede la tutele

reintegratoria c.d. attenuata solo nei casi espressamente previsti

dalla CCNL.

Tale decisione non sembra,però, avere avuto seguito nella

successiva sentenza della Corte di legittimità 11/2/2015, n. 2692

che pare aderire alla diversa opzione ermeneutica sganciata dal

riscontro casistico per cogliere il disvalore del fatto secondo un

giudizio di proporzionalità orientato dall'apprezzamento

effettuato dalle parti sociali ( cfr. diffusamente sul punto

Fedele).

E l'intervento del legislatore ( che anche qui sembra optare per

quanto quanto affermato dalla prec. Cass. n. 23669/2014) equivale

a dire che, sempre con riferimento al c.t.c., la valutazione

giudiziale ex art. 2106 c.c. che conclude per la sproporzione del

licenziamento disciplinare rispetto al fatto posto alla base delle

stesso, non può comportare la applicazione della c.d. tutela

reintegratoria, ma solo la tutela risarcitoria c.d. piena, con

conseguente estinzione del rapporto di lavoro.

Sono stati sollevati dubbi sulla irrazionalità di detta scelta

legislativa ( cfr. Riverso) che,però, non sembrano considerare

che ( cfr. Amoroso) la valutazione che si può e deve fare in

ordine alla proporzionalità della massima sanzione disciplinare è

15

diversa da quella che va fatta per accertare l'importanza

dell'inadempimento addebitato al fine di accertare, anche in

applicazione della regola generale dell'art. 1455 c.c., se la

stessa è tale da integrare la nozione di giusta causa o

giustificato motivo soggettivo.

Non solo ma, sinteticamente, pare anche potersi aggiungere che

quello in esame rientra nell'ambito di una scelta discrezionale

del legislatore che non è "coperta" dalla tutela costituzionale e

non appare manifestamente irrazionale posto che il legislatore,

prevedendo la sola tutela indennitaria, non disconosce certo la

centralità dell'art. 2016 c.c..

Con riferimento al testo dell'art. 18, commi 4 e 5 della legge

n. 300 del 1970, come modificata dalla legge n. 92 del 2012, la

questione di legittimità costituzionale è stata prospettata,

essenzialmente, evidenziando come la opzione interpretativa che

applica la tutela solo indennitaria in caso di violazione del

principio di proporzionalità finisce con il determinare una

disparità di trattamento a fronte a casi sostanzialmente identici

nel senso che la violazione del giudizio di proporzionalità

fatto dalla contrattazione collettiva determina la applicazione

della tutela reintegratoria sia pure attenuata dell'art. 18, comma

4 mentre la violazione del giudizio di proporzionalità fatto ai

sensi dell'art. 2106 c.c. determina solo la tutele indennitaria

dell'art. 18, comma 5.

Tale argomentazione probabilmente deve essere riesaminata alla

luce della circostanza che il D.Lgs. n. 23 non contiene alcun

riferimento alla contrattazione collettiva ed ai casi da essa

previsti di sanzioni conservative, con la conseguenza che per il

c.t.c. la relativa violazione da parte del datore di lavoro

parrebbe determinare ( al pari della violazione del criterio della

proporzionalità) la sola tutela indennitaria ( sul punto v.

specificatamente oltre).

Ulteriormente, detta argomentazione pare, comunque, trascurare la

circostanza che si può ravvisare una oggettiva differenza tra il

caso in cui il datore di lavoro irroga la sanzione disciplinare

espulsiva a fronte di una contrattazione collettiva che prevede

solo la sanzione conservativa ed il caso in cui il datore di

lavoro irroga detta sanzione espulsiva, senza alcuna previsione

ostativa della contrattazione collettiva, con una decisione che

solo ex post, all'esito del contenzioso giudiziale, risulta essere

errata in punto a proporzionalità.

16

============

Quanto,poi, al c.d. onere della prova, l'art. 3, comma 2

correla la tutela reintegratoria c.d. attenuata alla ipotesi di

licenziamento disciplinare in cui sia direttamente dimostrata in

giudizio la insussistenza del fatto materiale contestato al

lavoratore.

Vi è consenso sulla non certo perspicuità di detta formula

legislativa, che parrebbe prefigurare ( cfr. Carinci, Mari) una

inversione dell'onere della prova come disciplinato dall'art. 5,

comma2 della legge n. 604 del 1966, con una onore probatorio

diabolico a carico del lavoratore perchè deve dimostrare in

giudizio la inesistenza del fatto.

Non sembra,però, che detta conclusione (che finisce con il porre

anche una questione di legittimità costituzionale ai sensi

dell'art. 76 Cost. atteso che la legge delega nulla dice in ordine

all'onere della prova ) possa essere sostenuta se si considera che

detta pur infelice formulazione di legge non è idonea a superare

quanto previsto in tema di onere della prova dal prec. art. 5

della legge n. 604 del 1966, anche considerando il principio della

c.d. vicinanza o disponibilità della prova ( v. Speziale,

Barraco).

==========

L'art. 3 del D.Lgs. n. 23, sempre con riferimento al c.d.

licenziamento disciplinare, non contiene piu' alcun riferimento

alla contrattazione collettiva o al codice disciplinare, con

specifico riferimento alle sanzioni disciplinari conservative

previste, con la conseguenza che in caso di violazione da parte

del datore di lavoro di dette previsioni , il D.Lgs. n. 23 non

prevede alcuna tutela, a differenza che quanto previsto dall'art.

18, comma 4 della legge n. 300 del 1970 come modificata dalla

legge n. 92 del 2012 che, per tale violazione, prevede la c.d.

tutela reintegratoria piena.

Che una licenziamento disciplinare intimato dal datore di

lavoro per una caso per il quale la contrattazione collettiva

prevede solamente la sanzione conservativa sia ingiustificato lo

si può affermare sulla base della considerazione che il datore di

lavoro prima ed il giudice poi sono vincolati da detta previsione

che è condizione di maggiore favore fatta salva espressamente

dalla legge ( v. art., 12 legge n. 604 del 1966), anche perchè la

17

contrattazione collettiva ben può continuare ad operare in materia

anche con riferimento al c.t.c. ( cfr. Carinci)

Il problema concerne il tipo di tutela applicabile a detta

ingiustificatezza in quanto, nel silenzio sul punto tenuto dal

D.Lgs. n. 23, sembra si debba concludere per la applicazione della

solo tutela indennitaria c.d. piena ( cfr. Liso che parla di "

sfacciata" svalutazione del dettato della autonomia collettiva;

cfr. Carinci che ugualmente sembra propendere per la tutela

indennitaria).

Tale conclusione,però, può porre ( cfr. Amoroso) un dubbio di

legittimità costituzionale ai sensi dell'art. 3, comma 1 Cost. per

non ragionevolezza, sul punto, della scelta legislativa posto che

viene prevista la sola tutela indennitaria ( con estinzione del

rapporto di lavoro) per una fattispecie in cui l'errore commesso

dal datore di lavoro ( che sostanzialmente non ha tenuto in alcun

conto quanto previsto dalla contrattazione collettiva)

nell'irrogare il licenziamento disciplinare è ben maggiore e

radicale rispetto alla diversa fattispecie della insussistenza del

fatto materiale contestato al lavoratore in cui il vizio del

licenziamento è meno evidente in quanto implica la valutazione

delle risultanze di causa circa la sussistenza die detto fatto

materiale contestato.

Per evitare siffatte conseguenze è stata avanzata la ipotesi (

cfr. Speziale) di nullità del licenziamento per contrasto con la

norma del contratto collettivo da considerarsi come imperativa,

con conseguente applicazione della c.d. tutela reintegratoria

piena di cui all'art. 2 del D.Lgs. n. 23, evidenziando che non può

ravvisarsi violazione dell'art. 1418, comma 1 c.c. perchè occorre

affermare una equivalenza tra norme imperative e norme

inderogabili, con conseguente parificazione ( cfr. artt. 2113 c.c.

e 360 c.p.c.) tra norma inderogabile di legge e del contratto

collettivo ( cfr. Cass. 20/5/2013, n. 13227)

==========

Sempre con riguardo alla disciplina del c.d. licenziamento

disciplinare, stata prospettata una questione di legittimità

costituzionale per eccesso di delega ( cfr. Wikilabour, Giubboni)

in quanto, con riferimento al licenziamento disciplinare, il

D.Lgs. n. 23 non ha provveduto ad individuare le specifiche

fattispecie di cui parla la legge delega.

18

Si può, però, ( cfr. Speziale; cfr. Celentano) nel senso della

non fondatezza di tale q.l.c. sulla base della considerazione che

l'art. 3, comma 2 ha provveduto ad individuare dette specifiche

fattispecie, limitando la reintegra al solo caso in cui sia

direttamente dimostrata in giudizio la insussistenza del fatto

materiale contestato al lavoratore.

======

19

Licenziamenti economici ( per g.m.o e collettivi).

La decisione del legislatore della legge delega, con

riferimento a detta tipologia di licenziamenti, è del tutto

chiara, nel senso di escludere la tutela reintegratoria per i vizi

( sostanziali e/o formali) di detti licenziamenti.

Il D.Lgs. n. 23 ha dato piena attuazione a detta legge delega

in quanto ha previsto:

- la c.d. tutela indennitaria c.d. forte sia per il licenziamento

per g.m.o. di cui non ricorrono gli estremi (cfr. art. 3, comma

1) sia per il licenziamento collettivo ( cfr. art. 10).

Non solo ma con riferimento a detto licenziamento collettivo è

espressamente prevista detta tutela indennitaria c.d. forte anche

nel caso di violazione delle procedure richiamate all'art. 4,

comma 12 o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1

della legge n. 223 del 1991, con una radicale innovazione, in

senso peggiorativo, rispetto al regime delle tutele per detti vizi

previsto dall'art. 1, comma 46 della legge n. 92 del 2012.

Rimane il regime sanzionatorio della c tutela reintegratoria c.d.

piena sia per il licenziamento collettivo intimato senza forma

scritta (ma si tratta di ipotesi sostanzialmente teorica) sia per

il licenziamento collettivo dovuto a motivi discriminatori.

La applicabilità di detta tutela reintegratoria c.d. piena è stata

poi ( v. Wikilabour) affermata anche in caso di violazioni di

alcuni limiti inderogabili previsti in tema di licenziamenti

collettivi ( cfr. divieto, per le lavoratrici, di licenziamento di

una percentuale superiore alla percentuale della lavoratrici

occupate in mansione interessate; cfr. il divieto di

licenziamento per un numero di disabili superiore alla percentuale

di assunzioni obbligatorie ex legge n. 68 del 1999.

- tutela indennitaria c.d. attenuata per il licenziamento intimato

con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2,

comma 2 della legge n. 604 del 1966 ( cfr. art. 4 del D.Lgs.).

Tale scelta legislativa, con specifico riferimento al

licenziamento per g.m.o., comporta, con riferimento all'art. 18

legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del 2012,

il venire meno non solo della diversità di tutele a seconda della

manifesta o non manifesta insussistenza del fatto posto alla base

del licenziamento per g.m.o., ma anche la risoluzione delle

20

querelle già sorta in dottrina ed in giurisprudenza circa la

tutela da applicare in caso di violazione da parte del datore di

lavoro del c.d. obbligo di repechage o dei criteri di scelta in

caso di mansioni fungibili, e ciò in quanto in presenza di

siffatti vizi ( avente natura in senso lato sostanziale) la tutela

prevista è una ed una sola soltanto, vale a dire la tutela

indennitaria c.d. piena.

Con riferimento al licenziamento collettivo è stato sollevato (

v. Wikilabour) un dubbio di legittimità costituzionale per

violazione della legge delega che non fa espresso riferimento ai

licenziamenti collettivi. Tale dubbio non sembra,però, essere

fondato posto che la legge delega fa espresso riferimento ai

licenziamenti economici in generale, senza eccezioni, e non può

dubitarsi che il licenziamento collettivo ben possa rientrare in

detta categoria ( cfr. Celentano).

============

21

Tutela indennitaria c.d. attenuata: vizi formali e procedurali

L'art. 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015 prende in esame i vizi

formali e procedurali che possono viziare il licenziamento ( non

solo disciplinare) stabilendo la regola ( già affermato dalla

legge n. 92 del 2012) che il licenziamento intimato con

violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2,

comma2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui

all'art.7 della legge n. 300 del 1970 determina, comunque, il

venire meno del rapporto di lavoro (" il giudice dichiara estinto

il rapporto di lavoro alla data del licenziamento.."), con

applicazione della sola tutela indennitaria, non assoggettata a

contribuzione previdenziale, di importo pari ad una mensilità

dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del

trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, con la

specificazione che, comunque, detta indennità non può essere

inferiore a due e superiore a dodici mensilità.

Viene confermato dal D.Lgs. che,in presenza di un licenziamento

viziato nella forma, rimane ferma la possibilità per il

lavoratore di proporre in giudizio la domanda (avente così

carattere principale) volta a fare accertare la sussistenza dei

presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2

e 3 del D.Lgs.

Il che equivale a dire che, come già previsto dall'art. 18, comma

6° legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del

2012, che il lavoratore può invocare in via principale o le

fattispecie di cui all'art. 2 o la ingiustificatezza del

licenziamento ai sensi dell'art. 3 per ottenere le maggiori tutele

previste da detti articoli.

Sul punto si può ripetere per il D.Lgs. n. 23 la stessa

osservazione già fatta per le legge n. 92 del 2012, vale a dire

che la domanda giudiziale del lavoratore - nel caso in cui il

licenziamento è stato intimato con violazione del requisito della

motivazione di cui all'art. 2, comma 2 della legge n. 604 del 1966

- si articola come domanda proposta sostanzialmente "al buio"

atteso che dalla motivazione del licenziamento il lavoratore ( per

la inesistenza o la genericità di detta motivazione) non conosce

con esattezza il fatto posto alla base della decisione datoriale.

Riguardo alla quale problematica si può ricordare che è stato

sostenuto ( cfr. Multari), con riferimento al prec. art. 18,

comma 6 , che una contestazione disciplinare generica ( o,peggio,

22

inesistente) comporta la applicazione della c.d. tutela

reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4 della legge

n. 300 in quanto è un vizio che non consente di valutare, già

nella fase pre processuale, la giusta causa o il giustificato

motivo, a ciò aggiungendosi la osservazione che il datore di

lavoro non può, anche in applicazione del principio di

immutabilità delle ragioni poste alla base del licenziamento,

integrare giudizialmente la motivazione del licenziamento,

esplicitando solo in tale contenzioso i fatti sulla base dei quali

ha preso la sua decisione di risolvere il rapporto di lavoro.

Considerazioni analoghe possono essere fate con riferimento ad

altri visi formali. Si può fare l'esempio della c.d. tempestività

della contestazione disciplinare che se viene considerata come

elemento costitutivo del potere di recesso ( cfr. Cass. 5/3/2003,

n. 3245) dovrebbe, in caso di mancato rispetto da parte del

datore di lavoro di detto requisito, comportare l' applicazione

della c.d. tutela reintegratoria attenuata ( cfr., però, Cass.

6/11/2014, n. 23669 che, sia pure in un obiter, correla

l'applicazione della tutela indennitaria c.d. piena dell'art. 18,

comma 5 della legge n. 300 del 1970 come mod. legge n. 92 del 2012

alla violazione del requisito della tempestività).

Va osservato che, con riferimento al c.t.c., tra i vizi formali

del licenziamento per g.m.o. non può piu' farsi rientrare la

violazione della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 604

del 1966, come novellato dall'art. 1, comma 40 della legge n. 92

del 2012 in quanto ( v. art. 3, comma 3 del D.Lgs. n. 23) al

licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 1 non trova

applicazione l'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e

successive modifiche.

=========

La applicazione del D.Lgs. n. 23, con il criterio temporale

della sua applicazione che riguarda i i rapporti di lavoro

subordinato a tempo indeterminato stipulati a decorrere dalla data

di entrata in vigore del D.Lgs., comporta la coesistenza di due

diversi regimi di tutele in caso di licenziamento in senso lato

ingiustificato: quello delineato dall'art. 18 della legge n. 300

del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012 ( che si

applica ai contratti a t.i. stipulati prima della entrata in

vigore del D.Lgs.) e quello previsto da detto D.Lgs., con la

ulteriore specificazione ( v. anche oltre) che per la relativa

tutela giurisdizionale sono previsti due riti diversi.

23

Il che significa che, ad esempio, a fronte di un medesimo

licenziamento collettivo, i vizi di detto licenziamento

determinano tutele diverse a seconda che il lavoratore licenziato

sia stato assunto prima o dopo l'entrata in vigore del D.Lgs.

Ugualmente, con riferimento ai licenziamenti individuali, lo

stesso addebito disciplinare ( magari commesso in concorso da piu'

lavoratori) o la stessa scelta organizzativa possono comportare,

se ingiustificati in senso lato, tutele differenti sempre basate

unicamente sulla data di assunzione dei lavoratori licenziati per

motivi disciplinari o per g.m.o.

Sono stati avanzati dubbi di legittimità costituzionale di tale

disciplina per contrasto con l'art. 3 Cost., perchè trattasi di

disciplina che crea non giustificate disparità di trattamento,

risultando,poi, priva di sostanziale ragionevolezza ( cfr. De

Luca; Giubboni, Barraco).

Si è,però, replicato ( cfr. Buconi, Celentano) richiamando il

costante orientamento della Corte Costituzionale sia con

riferimento al c.d. fluire del tempo che può costituire un

valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (

cfr.,da ultimo, Corte Cost.le 13/11/2014, n. 254) sia con

riferimento alla facoltà del legislatore di emanare, con

riferimento ai c.d. rapporti di durata, norme peggiorative, fatto

salvo il c.d. principio di affidamento nella sicurezza giuridica

( cfr., ad esempio, Corte Cost.le ord. 2771/2011, n. 31), con la

osservazione che il D.Lgs. n. 23 non incide sul affidamento dei "

vecchi" assunti in ordine alla applicazione delle tutele previste

prima della emanazione di detto D.Lgs. ( cfr. Buconi).

Dubbi di legittimità costituzionale sono stati sollevati

anche con riferimento alla entità della c.d. tutela indennitaria,

piena o attenuata, sia perchè sospettata di inadeguatezza, con

conseguente violazione del principio di ragionevolezza dell'art. 3

Cost. ( cfr. Speziale che richiama l'orientamento della Corte

Costituzionale volto a ribadire che deve essere garantita la

adeguatezza del risarcimento; v., ad esempio, Corte Cost.le

11/11/2011, n. 303) sia con riferimento al " tetto" massimo di

ventiquattro/ dodici mensilità posto a detta tutela indennitaria

il che significa che detta tutela, superata la soglia dei dodici

anni di anzianità, prescinde del tutto dalla ulteriore anzianità

di servizio, risultando così uguale per il lavoratore con dodici

24

anni di anzianità di servizio e per il lavoratore con trent'anni

di anzianità di servizio, in contrasto con la finalità della legge

delega che sembra prevedere tutele crescenti con il crescere della

anzianità di servizio ( cfr. Celentano per una compiuta disamina

della questione sia degli elementi a favore che degli elementi

contro).

25

Il D.Lgs. n. 23 non fa alcun riferimento all'ipotesi di

licenziamento ai sensi dell'art. 2110 c.c.

Al contrario, l'art. 18, comma 7 della legge n. 300 del 1970 come

modificato dalla legge n. 92 del 2012 prende in considerazione

detta fattispecie prevedendo la applicazione della tutela di cui

all'art 18, comma 4 ( vale a dire la tutela reintegratoria c.d.

attenuata) nel caso di licenziamento intimato in violazione

dell'art. 2110, comma 2 c.c.

Proprio il silenzio del D.Lgs. n. 23 potrebbe fare presumere

che la tutela per il licenziamento intimato in violazione

dell'art. 2110 c.c. si debba ravvisare in quanto previsto

dall'art. 3, comma 1° di detto D.Lgs., con conseguente

applicazione della sola tutela indennitaria, sia pure piena ( cfr.

Carinci, Barraco che richiama anche l'art. 12 preleggi).

Si può obiettare che per opinione giurisprudenziale consolidata

quella dell'art. 2110 c.c. costituisce una normativa speciale con

la conseguenza che il licenziamento per violazione del periodo di

comporto non è regolato dalla legge n. 604 del 1966 nè dalla

disciplina generale per risoluzione per sopravvenuta impossibilità

parziale della prestazione di lavoro ( cfr. Cass. 23/1/2013, n.

1568; Cass. n. 28/1/2010, n. 1861).

Nè sembra possa invocarsi la applicazione della tutela

reintegratoria c.d. piena prevista prevista nella ipotesi di cui

all'art. 2, comma 4 del D.Lgs. e ciò in quanto vi è differenza

sostanziale tra la c.d. malattia considerata dall'art. 2110 c.c.

e la disabilità psico-fisica del lavoratore presa in

considerazione dall'art. 2, comma 4 del D.Lgs. ( cfr. De

Luca),tenendo conto che la locuzione " anche" che compare in detta

norma fa riferimento a soggetti non assunti come disabili, ma pure

sempre nell'ambito di una inidoneità psico-fisica ( cfr. Voza).

Pare,quindi, possibile sostenere che per difetto di innovazione

sul punto deve continuare ad applicarsi la disciplina dell'art.

2110 c.c. ( cfr. De Luca), la violazione della quale determina la

nullità del licenziamento per violazione di detta norma imperativa

( v., tra le altre, Cass. 18/11/2014, n. 2425).

E', quindi, stata sostenuta la applicazione della tutela

reintegratoria c.d. piena di cui all' art. 2, comma 1 del D.Lgs

per violazione, appunto, di una norma imperativa ( anche se detta

nullità non è espressamente prevista dalla legge) oppure ( qualora

26

si ritenga non superabile sul punto il testo di legge) la

applicazione della tutela di diritto comune ( cfr. Speziale).

===========

Ugualmente il D.Lgs. n. 23 del 2015 non fa alcun riferimento al

licenziamento per c.d. scarso rendimento.

Si può, quindi, prevedere che anche con riferimento al c.t.c. si

porranno gli stessi dubbi già sorti sulla natura di detto

licenziamento, vale a dire se rientrante nella fattispecie del

disciplinare, trattandosi di inadempimento da parte del lavoratore

del suo obbligo di diligenza e collaborazione ( come risulta

essere affermazione prevalente nella giurisprudenza di

legittimità, cfr., tra le ultime, Cass. 9/7/2015) oppure se

rientrante nella fattispecie del licenziamento per g.m.o. in

quanto si risolve in una prestazione lavorativa non

sufficientemente e proficuamente utilizzabile dal datore di

lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale ( cfr.

sul punto, da ultimo, Cass. 4/9/2014, n. 18678).

La questione ha una sua specifica rilevanza pratica sia con

riferimento alla applicazione/ non applicazione della procedura di

contestazione disciplinare di cui all'art. 7 legge n.300 ( con, in

caso di violazione, applicazione della tutela indenniitaria c.d.

attenuata sopra viste, con relative problematiche in ordine ai

vari vizi formali) sia con riferimento alla circostanza che solo

in tema di licenziamento disciplinare residua ormai l'ipotesi di

applicazione della tutela reintegratoria, sia pure attenuata.

========

Il D.Lgs. non fa alcun riferimento nemmeno ai rapporti di

lavoro di pubblico impiego c.d. privatizzati.

Pare, quindi, lecito ipotizzare che anche con riferimento al

c.t.c. si verifichi quella difformità di opinioni

giurisprudenziali a proposito della applicabilità o meno dell'art.

18 legge n. 300 del 1970 a siffatto rapporto di lavoro.

E' vero che nel D.Lgs. n. 23 manca un divieto esplicito di

applicazione di detto D.Lgs. a tali rapporti.

E' stato,però, convincentemente obiettato ( v. Carinci) che la

esclusione del D.Lgs. a detti rapporti su fonda su plurime

osservazioni.

27

Il D.Lgs. fa riferimento a tre delle quattro categorie di lavoro

privato che non trovano puntuale riscontri nel p.i. c.d.

privatizzato ( dove non vi è la categoria dei quadri).

Il D.Lgs. n. 23 non ga cenno ai dirigenti, con una scelta

legislativa ben comprensibile per il lavoro privato ( posto che i

dirigenti sono sottratti alla disciplina del licenziamento basata

sull'art. 18 legge n. 300 del 1970, eccezion fatta per i

licenziamenti discriminatori) ma non appare comprensibile per il

p.i. c.d. privatizzato dove i dirigenti sono riportati sotto tale

disciplina dell'orientamento della giurispriudenza di legittimità.

Il D.Lgs. n. 23 non opera alcuna sostituzione dell'art. 18 prec.

per cui non opera il rinvio " formale" di cui all'art. 51, comma 2

del D.Lgs. n. 165 del 2001.

Il regime del D.Lgs. n., 23 non appare compatibile con quello del

T.U.P.I. ( cfr., ad ese., artt. 34 e 55 e ss. di detto T.U.).

In caso contrario, si può ipotizzare una violazione dell'art. 97

Cost. posto che nel P.I. non ci possono essere dipendenti con

diversi trattamenti e tutele legati una data della loro

assunzione.

28

Tutela giurisdizionale

Il D.Lgs. n. 23 non modifica l'obbligo di impugnativa

stragiudiziale del licenziamento entro 60 giorni, con obbligo di

proporre,poi, ricorso giudiziario entro 180 giorni.

Interviene sulla identificazione del " rito" applicabile,

atteso che prevede la applicazione a detto contenzioso del c.d.

rito ordinario, escludendo la applicazione del c.d. rito Fornero.

e, quindi, sostanzialmente negando quella sorta di corsia

preferenziale prevista dalla legge n. 92 del 2012 per i processi

in tema di impugnativa di licenziamento.

La chiarezza della scelta legislativa non pare, comunque,

impedire alla prassi dei singoli uffici di, comunque, dare una

preferenza di fatto alla fissazione e trattazione di tale

contenzioso, e ciò alla luce degli interessi in gioco, anche se la

tutela reintegratoria non può piu' considerarsi come regola

generale.

Tale scelta ( probabilmente dovuta da un sostanziale giudizio

negativo sulla efficacia del c.d. rito Fornero, che per altro,

pur con le indubbie problematiche poste da tale normativa, non

sembra trovare riscontro pratico nella applicazione di diversi

uffici giudiziari) può forse sollevare un problema di legittimità

costituzionale non tanto con riferimento alla osservazione che la

legge delega nulla prevede sul punto in quanto tale omessa

previsione non sembra impedire al legislatore delegato di indicare

il rito applicabile che non necessariamente coincide con il c.d.

rito Fornero ( applicabile alla impugnazione del licenziamento per

ottenere la tutela prevista dall'art. 18 legge n. 300) quanto con

riferimento alla osservazione che il legislatore delegato finisce

con l'introdurre una disparità di trattamento processuale, con

conseguente ipotizzabile violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.,

per contratti aventi la stessa natura e per un contenzioso

sostanzialmente identico, essendo volto ad ottenere la

applicazione delle tutele previste dalla legge a fronte di un

licenziamento in senso lato illegittimo ( cfr. Celentano).

In ogni caso tale opzione legislativa per contenzioso relativo

al c.t.c. comporta una ( per così dire) "rivilitalizzazione" del

procedimento ex art. 700 e ss. c.p.c. ( la cui applicazione in

tema di c.d. rito Fornero è controversa), anche se detto

procedimento d'urgenza appare sostanzialmente attivabile solo in

funzione di una domanda di merito volta ad ottenere la reintegra

29

nel posto di lavoro, non potendosi ravvisare,in generale. il

requisito del c.d. periculum in mora in presenza di una domanda di

merito volta solo ad ottenere la tutela c.d. indennitaria.

Con riferimento,poi, alla impugnativa dei c.d. licenziamenti

discriminatori si è sostenuto ( cfr. San Lorenzo) la applicazione

del c.d. rito sommario di cognizione di cui all'art. 28 del D.Lgs.

n. 150/2011 ( controversie in materia discriminatoria) ed agli

artt. 36 e ss. del D.Lgs. n. 198/2006 ( c.d. Codice delle pari

opportunità), con tutto quello che ne consegue anche in materia di

onere della prova a carico del lavoratore.

30

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