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Contratto a tutele crescenti e licenziamenti
La legge delega 10/12/2014 n. 183, con l'art. 1, co,,a 7, lett
c.) ha previsto, per le nuove assunzioni, un contratto a tempo
indeterminato a tutele crescenti ( di seguito: c.t.c.) in
relazione alla anzianità di servizio del lavoratore, con:
- esclusione della reintegra del lavoratore nel posto di lavoro
per i licenziamenti economici
- limitazione del diritto alla reintegra per
a) licenziamenti discriminatori e nulli
b)specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari
ingiustificati
- previsione di un indennizzo economico certo e crescente con la
anzianità di servizio del lavoratore
-termini certi per l'impugnazione.
Lo scopo è quello previsto dall'incipit del comma 1 del prec.
art.1, vale a dire rafforzare opportunità di ingresso nel mondo
del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e
riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente
coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e
produttivo.
Tale delega ha avuto attuazione con il D.Lgs. 4/3/2015 n. 23,,
in G.U. 6/3/2015, n. 54, ed entrata in vigore il giorno successivo
a detta pubblicazione ( v. art. 12 di detto D.Lgs).
Premesso che non appare contestato (Carinci, Amoroso, Barraco,
Giubboni) che il c.d. c. t. c. non è un nuovo tipo contrattuale,
ma un ordinario contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato caratterizzato solo dalla previsione di un diverso
regime di tutela ( rectius: tutele) in caso di licenziamento in
senso lato illegittimo, detto contratto a tutele crescenti si
applica ( v. art. 1, comma 1) alle nuove assunzioni a tempo
indeterminato a fare tempo dal 7/3/2105 ( data della sua entrata
in vigore), anche quando dette assunzioni avvengono da parte
delle c.d. piccole imprese ( vale a dire le imprese sotto le
dimensioni ex art. 18, commi 8 e 9 legge n. 300/1970 e succ. mod;
cfr. art. 9, comma 1).
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Inoltre ( v. art. 1, comma 3) nel caso in cui il datore di
lavoro " sotto soglia" ex art. 18, commi 8 e 9 legge n. 300 del
1970, viene ad integrare il requisito occupazionale di detta norma
in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato successive alla
entrata in vigore del D.Lgs, è previsto che il licenziamento dei
lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è
disciplinato dalle disposizioni del D.Lgs. n. 23, con una norma
che secondo alcuni è sospettabile di incostituzionalità per
eccesso di delega ai sensi dell'art. 76 Cost. posto che la legge
delega n. 183/2014 riguarda solo i c.d. nuovi assunti
Il D.lgs. n. 23,poi, si applica ( v. art. 9, comma 2) alle c.d.
organizzazioni di tendenza.
Con riferimento,poi, a singoli lavoratori, il D.Lgs. n. 23 si
applica ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai,
impiegati e quadri ( v. art. 1, comma 1), con conseguente
esclusione delle assunzioni dei dirigenti, per i quali, quindi,
continua ad applicarsi la previsione dell'art. 18, commi 1/3 legge
n. 300 del 1970, con applicazione del c.d. rito Fornero se si fa
valere la natura " discriminatoria" del licenziamento.
Quanto, poi alle singole tipologie contrattuali, è previsto (
art. 1, comma 2) che la disciplina del c. t. c. si applica anche
in caso di conversione del contratto a tempo determinato o di
apprendistato successivo alla entrata in vigore del D.Lgs.
Non si affrontano specificatamente i problemi ( anche di
legittimità costituzionale) che si possono porre sia con
riferimento alla legge delega sia con riferimento all'ambito di
applicazione del c.t.c., concentrando la attenzione su come il
D.Lgs. ha dato attuazione alla legge delega in tema di regime
delle tutele in caso di licenziamento in senso lato
ingiustificato.
Si parla di tutele posto che anche il D.Lgs., così come l'art.
18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92
del 2012, prevede un regime di tutele articolato in quattro
livelli:
1) la tutela reintegratoria c.d. piena, con integrale risarcimento
del danno per i licenziamenti discriminatori, nulli, intimati in
forma orale o per difetto di giustificazione consistente nella
disabilità fisica o psichica (v. art. 2)
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2) la tutela reintegratoria c.d. attenuata, in quanto il
risarcimento è limitato, in ogni caso, all'importo massimo di
dodici mensilità per il c.d. licenziamento disciplinare ( per
giusta causa o giustificato motivo soggettivo) in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio la insussistenza del fatto
materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta
estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento
( v. art. 3, comma 2)
3) la tutela indennitaria c.d. forte (indennità non assoggettata a
contribuzione previdenziale pari a due mensilità dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non
inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità) in
tutti gli altri casi di ingiustificatezza del licenziamento per
giusta causa o per giustificato motivo, sia oggettivo che
soggettivo ( v. art. 3, comma 1)
4) la tutela indennitaria c.d. debole ( indennità non
assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari ad una
mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo
del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in
misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici
mensilità) nel caso di licenziamento caratterizzato da vizi
formali e procedurali ( v. art. 4).
La tutela indennitaria è,poi, dimezzata per le c.d. piccole
imprese ( v. art. 9, comma 1), alle quali,poi, ( v. sempre lo
stesso articolo) non si applica l'art. 3, comma 2( vale a dire la
c.d. tutela reintegratoria attenuata).
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Tutela reintegratoria c.d. piena ( licenziamenti
discriminatori -nulli- intimati in forma orale -per motivo
consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore)
Tale va definita perchè è confermato dal D.Lgs. n. 23 il
diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ed
il risarcimento del danno subito, pari all'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del t.f.r., per il periodo dal giorno
del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione,
dedotto il c.d. aliunde perceptum, con la specificazione che detto
risarcimento non può essere di importo inferiore a cinque
mensilità, con condanna del datore di lavoro, per il medesimo
periodo, al versamento dei contributi previdenziali ed
assistenziali, ribadita la facoltà del lavoratore, fermo il
diritto al risarcimento del danno come sopra previsto, ad optare
per la c.d. indennità sostitutiva della reintegra ( importo pari a
quindici mensilità, non assoggettato a contribuzione
previdenziale), con richiesta da effettuarsi entro i 30 gg. dalla
comunicazione della pronuncia giudiziale o dall'invito del datore
di lavoro a riprendere il servizio, se anteriore, con la
specificazione che detta richiesta determina la risoluzione del
rapporto di lavoro.
E' prevista per il licenziamento discriminatorio.
Nei primi commenti al D.Lgs. si sta già delineando una
difformità di opinioni in ordine alla nozione di detto
licenziamento con riferimento al c.t.c. che, con ogni probabilità,
riguarderà anche il contenzioso giudiziale, tenendo conto che la
tutela del licenziamento in senso lato ingiustificato nel c.t.c.
vede una drastica riduzione della tutela reintegratoria.
Accanto ad autori ( cfr. Barraco) che auspicano che la
giurisprudenza vorrà ribadire, per il c.t.c., alcuni punti fermi
della precedente e costante elaborazione giurisprudenziale in tema
di licenziamento discriminatorio ( tale licenziamento è solo
quello intimato per uno dei fattori indicati tassativamente dalla
legge, vale a dire ragioni sindacali, politiche, religiose,
razziali, tecniche, nazionali, di lingua, culto, età, sesso,
infezione ex HIV; ogni altra differenza per ragioni atipiche non
integra discriminazione anche se arbitraria; onere della prova a
carico del lavoratore; il motivo illecito rileva se è l'unico
determinante, con la conseguenza che, accertata la giustificatezza
del licenziamento, si deve escludere la discriminazione;; non
accettabilità della equiparazione motivo insussistente/ occulto=
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motivo discriminatorio, con la conseguenza che per aversi
discriminazione ci vuole un quid pluris anche rispetto al
licenziamento palesemente ingiustificato), ve ne sono altri che,
all'opposto, ritengono che con il c.t.c. il legislatore abbia
allegato la sfera di applicazione del licenziamento
discriminatorio, con conseguente allargamento della sfera d
applicazione della c.t. tutela reintegratoria piena ( v. Carinci,
Giubboni, Sanlorenzo, Scarpelli, Mimmo), valorizzando la "
lettera" dell'art. 2 del D.Lgs. , mettendola a confronto con il
testo dell'art. 18, comma della legge n. 300 del 1970, come
modificato dall'art. 42 legge n. 92 del 2012.
In particolare, evidenziando il dato testuale che l'art. 2 del
D.Lgs. non richiama l'art. 3 della legge n. 108 del 1990 e,
soprattutto, l'art. 1345 c.c., si avanza l'ipotesi che secondo
il D.Lgs. il licenziamento discriminatorio è ontologicamente
diverso e non va " confuso" con il licenziamento determinato da
motivo illecito, con conseguente superamento della nozione c.d.
soggettiva di detto licenziamento discriminatorio recepita dalla
giurisprudenza di legittimità ( consolidata nell'affermare che è
discriminatorio il licenziamento originato esclusivamente
dall'intento discriminatorio perseguito dal datore di lavoro), a
favore della nozione c.d. oggettiva di detto licenziamento, con
diverso e piu' facile (non essendo richiesta la prova dell'intento
discriminatorio come motivo esclusivo e determinante) atteggiarsi
dell'onere probatorio a carico del lavoratore ai sensi dell'art.
28, comma 4 D.Lgs. n. 150/2011 ( v. anche art. 40, comma 1 D.Lgs.
n. 168/2006).
A tale proposito si può osservare che,però, riesce un po'
difficile immaginare che la predetta ( non contestabile)
differenza letterale tra l'art. 2 del D.Lgs. n. 23 ed il " nuovo"
art. 18, comma 1 legge n. 300 del 1970 possa fondare un così
radicale cambio di rotta circa la nozione di licenziamento
discriminatorio, tanto piu' che il legislatore delegato non ha
avuto alcuna delega in tale senso dal legislatore delegante (
identicamente alla nozione del c.d. licenziamento disciplinare o
del c.d. licenziamento economico), riuscendo difficile immaginare
anche che il legislatore delegato ( che sicuramente ha ridotto
drasticamente le ipotesi di reintegra, piena o attenuata che sia)
possa avere inteso ampliare la nozione di licenziamento
discriminatorio, con conseguente ampliamento della tutela
reintegratoria c.d. piena confermata per detto tipo di
licenziamento.
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A ciò va pure aggiunta la osservazione che tale modifica (
allargamento) della nozione di licenziamento discriminatorio pare
essere neppure ipotizzabile sulla base dell'art. 42 della legge n.
92 del 2012 ( v. sul punto Amoroso), senza dimenticare che ( v.
oltre) il mancato espresso riferimento alla fattispecie dell'art.
1345 c.c. non pare impedire la applicazione della c.d. tutela
reintegratoria piena a siffatta fattispecie di licenziamento.
L'art. 2, comma 1 del D.Lgs. applica al c.d. tutela
reintegratoria piena anche al licenziamento "riconducibile agli
altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge".
Tale testo non contiene la specificazione che sul punto è
contenuta nel nuovo testo dell'art. 18, comma 1 della legge n. 300
del 1970 ma non sembra si possa dubitare della applicazione della
tutela reintegratoria piena anche a tale ipotesi con riferimento
al c.t.c. proprio perchè si tratta, comunque, di casi
espressamente previsti dalla legge.
Il testo dell' art.2 ( con applicazione del criterio della
interpretazione letterale) appare essere chiaro, quindi, nel
circoscrivere la c.d. tutela reintegratoria piena solo ai casi in
cui la nullità del licenziamento è espressamente prevista dalla
legge.
Si è,quindi, posto il problema delle c.d. nullità virtuali ( cfr.
per la relativa nozione, Cass. Sez. Unite 19/12/2007 n. 26724), in
ordine alle quali si afferma la applicazione della c.d. tutela
reintegratoria piena dovendosi considerare la coerenza di sistema
con l'applicazione del principio generale che ricollega la
conseguenza della nullità alla violazione di ogni norma
imperativa, con la specificazione che, in caso contrario, in
presenza di una c.d. nullità virtuale ( si fa, ad esempio, il caso
del licenziamento illegittimo perchè motivato dal trasferimento di
azienda) occorre farsi luogo alla applicazione del rimedio
residuale e generale della c.d. nullità di diritto comune ( v.
Giubboni).
La c.d. tutela reintegratoria piena si applica anche al
licenziamento dichiarato inefficace perchè intimato in forma orale
( v. art. 2, comma 1, parte finale), ribadendo sul punto il D.Lgs.
quando già espressamente previsto dal nuovo testo dell'art. 18,
comma 1 legge n. 300 del 1970, parte finale.
La c.d. tutela reintegratoria piena si applica anche nelle
ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione
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per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del
lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma
3, della legge 12 marzo 1999, n. 68. ( v. art. 2, comma 4).
Si tratta, quindi, del licenziamento che trova la sua non
legittima origine nella disabilità fisica o psichica del
lavoratore, rispetto al quale anche al c.t.c. dovrebbe trovare
conferma il precedenza orientamento giurisprudenziale ( v., tra le
altre, Cass.. 10/3/2015, n. 4557) secondo il quale sul datore di
lavoro grava anche l'onere di provare la inesistenza, nella sua
organizzazione aziendale, di mansioni diverse ma compatibili con
lo stato di salute del lavoratore e di pari qualifica.
Tale tipo di licenziamento è preso in specifica considerazione
anche dall'art. 18 legge n. 300 del 1970 e succ. mod. Si può
osservare che sul punto la tutela prevista dal D.Lgs. n. 23 appare
essere più forte di quella prevista dall'art. 18, comma 7 della
legge n. 300 che prevede la applicazione della tutela
reintegratoria c.d. attenuata di cui all'art. 18, comma 4, nella
ipotesi in cui viene accertato il difetto di giustificazione del
licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4,
e 10, comma 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo
oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del
lavoratore.
Come già ricordato, il testo dell'art. 2 del D.Lgs. non
contiene alcun riferimento all'art. 1345 c.c., a differenza di
quanto previsto dall'art.18, comma 1 legge n. 300 del 1970 come
modificato dall' art. 1, comma 42 legge n. 92 del 2012.
Tutto ciò non sembra idoneo ad escludere detta ipotesi dalla
applicazione della tutela reintegratoria c.d. piena sulla base
della osservazione che la nullità del licenziamento determinato da
motivo illecito determinante ben può ricavarsi dall'art. 1418,
comma 2 c.c., potendosi così affermare che anche siffatto
licenziamento è da ricondurre agli altri casi di nullità
espressamente previsti dalla legge ( cfr., ad esempio in tema di
c.d. licenziamento ritorsivo, Cass. 8/8/2011 n. 17087 che parla
di nullità di siffatto licenziamento proprio sulla base del
combinato disposto dell'art. 1345 c.c., dell'art. 1418, comma 2
c.c. e dell'art. 1324 c.c.).
Si può, quindi, concludere nel senso ( cfr. Barraco) che,
malgrado una non identità testuale, i casi di licenziamento in
senso lato viziato che, per i c.t.c., danno luogo alla tutela
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reintegratoria c.d. piena sono gli stessi di quelli previsti
dall'art. 18, commi 1/3 della legge n. 300 del 1970, come
modificati dalla legge n. 92 del 2012, eccezion fatta per il
ricordato ampliamento di tutela per il licenziamento privo di
giustificazione con riguardo alla disabilità, psichica o fisica,
del lavoratore.
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Licenziamento "disciplinare" ( giusta causa o giustificato motivo
soggettivo) privo di giustificazione
Premesso che il D.Lgs. n. 23 non apporta alcuna innovazione alla
nozione di licenziamento disciplinare ed alla
procedimentalizzazione dello stesso ai sensi dell'art. 7 della
legge n. 300 del 1970 e succ. mod., va subito evidenziato che la
radicale novità di tale D.Lgs. riguarda la materia delle tutele
atteso che, in attuazione della legge delega, sancisce il venire
meno della c.d. tutela reintegratoria come regola generale posto
che il licenziamento disciplinare ingiustificato determina,
comunque, la estinzione del rapporto di lavoro alla data del
licenziamento ("..il giudice dichiara estinto il rapporto di
lavoro alla data del licenziamento..."; v. art. 3, comma 1) e
rimane solo ed esclusivamente la tutela risarcitoria c.d. piena,
nel senso che è previsto per il lavoratore il diritto ad ottenere
una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di
importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro
e non superiore a ventiquattro mensilità ( v.sempre art. 3, comma
1).
Il che significa che il rapporto regola/ eccezione è nel senso che
la regola è rappresentata dalla tutela indennitaria e la tutela
reintegratoria è ormai una semplice eccezione.
Tale eccezione ( v. art. 3, comma 2) ha,poi, una portata
limitata perchè opera esclusivamente nelle ipotesi di
licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta
causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio
l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore,
rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la
sproporzione del licenziamento ( v. art. 3, comma 2).
Solo in tale ipotesi il giudice annulla il licenziamento e
condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore
nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria
commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo
del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal
giorno del licenziamento fino a quello della effettiva
reintegrazione, dedotto sia il c.d. aliunde perceptum sia il c.d.
aliunde percipiendi ( id est: quanto avrebbe potuto percepire
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accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4,
comma 1, lettera c) del decreto legislativo 21 aprile, n. 181 e
successive modificazioni. Con la specificazione che la misura di
detta indennità, per i periodo antecedente alla pronuncia di
reintegrazione, non può essere superiore a dodici mensilità, con
la specificazione che il datore di lavoro è condannato al
versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal
giorno del licenziamento fin o alla effettiva reintegrazione,
senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva, con il
riconoscimento al lavoratore della c.d. facoltà di opzione di cui
all'art., 2, comma 3 per la c.d. tutela reintegratoria piena.
Varie ed articolate sono le questioni che pone detta normativa.
Quanto al c.d. fatto materiale contestato, si è sostenuto ( v.
Carinci) che quanto affermato, per altro con un obiter, circa il
c.d. fatto materiale del licenziamento disciplinare, dalla Corte
di Cassazione con la sentenza 6/11/2014 n. 23669 sembra avere
avuto una influenza sulla redazione del D.Lgs. n. 23 ( cfr. anche
Fedele), con la conseguenza che il legislatore delegato sembra
posto fine alla querelle sorta sulla base del nuovo testo
dell'art. 18 legge n. 300 del 1970, tra i sostenitori della c.d.
teoria del fatto materiale ed i sostenitori della c.d. teoria del
fatto giuridico, con una scelta legislativa ( v. Barraco) a
favore dei fautori ( minoritari in dottrina ed ancora piu' nella
giurisprudenza di merito) della c.d. teoria del fatto materiale (
id est: fatto inteso con esclusivo riferimento alla condotta, al
nesso di causa ed all'evento).
Non si affronta la problematica afferente la interpretazione di
detta sentenza di legittimità, anche alla luce del caso concreto
dalla stessa deciso ( al riguardo si rimanda alle perspicue
osservazioni di De Luca ed Amoroso).
Nè si ripercorrono le ragioni addotte a fondamento dell'una o
dell'altra opzione teorica.
Si vuole solo evidenziare che, se così fosse, viene a riproporsi
anche per il c.t.c. la fondamentale problematica ( già sorta a
seguito della modifica dell'art. 18, comma 4 legge n. 300 del
1970 apportata dalla legge n. 92 del 2012, e superata
dall'applicazione della c.d. teorica del fatto giuridico)
afferente le importanti conseguenze che può determinare in
concreto l'adesione alla c.d. teoria del fatto materiale, con
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riferimento alle applicazione delle varie tutele previste dalla
legge.
Non si intende fare riferimento specifico alla pure richiamata
ipotesi ( a dire il vero piuttosto teorica) secondo la quale, in
applicazione della teoria del c.d. fatto materiale, anche la
contestazione di un fatto esistente ma del tutto lecito ( si
porta l'esempio della contestazione disciplinare per non avere
salutato il proprio superiore gerarchico), possa, comunque,
determinare la conseguenza, paradossale, della estinzione del
rapporto di lavoro a fronte di un licenziamento disciplinare
ingiustificato e fondato solo su tale fatto lecito, con
applicazione della sola tutela indennitaria.
Ciò lo si afferma in quanto può sostenersi che nella
insussistenza del fatto materiale contestato possa farsi rientrare
non solo la inesistenza di detto fatto o la estraneità del
lavoratore licenziato alla sua commissione ma anche il caso in cui
il fatto materiale contestato sussiste ed è stato commesso dal
lavoratore licenziato ma che non integra alcun inadempimento,
tanto meno rilevante dal punto di vista disciplinare ( cfr.
Mimmo), senza,poi, dimenticare, che, in alternativa, non sembra
possa escludersi l'applicazione dell'atto in frode alla legge ex
art. 1344 c.c., deducendo che tale atto era diretto a bypassare la
tutela reintegratoria ( cfr. Speziale).
Dette conclusioni non possono,però, essere riproposte pari
pari nel caso, ben diverso e piu' problematico, in cui viene
contestato e posto alla base del licenziamento disciplinare un
fatto materiale esistente, commesso dal lavoratore licenziato,
che, però, costituisce un inadempimento talmente lieve da non
integrare quel grado di inadempimento necessario per integrare
almeno il c.d. giustificato motivo soggettivo. Si fa l'esempio
del lavoratore che si presenta in ritardo al lavoro per pochi
minuti, senza la benchè minima ripercussione sulla organizzazione
aziendale.
Un licenziamento fondato su tale fatto risulta ingiustificato
perchè ( cfr. Amoroso) difetta del requisito ( richiesto in via
generale dall'art. 1455 c.c. ed in particolare anche per integrare
la nozione di giusta causa o giustificato motivo soggettivo) della
importanza dell'inadempimento. Senonchè la sussistenza del fatto
materiale contestato risulta impedire, in coerente applicazione
con la c.d. teoria del fatto materiale, l'applicazione della
tutela reintegratoria di cui all'art. 3, comma 2, con la
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conseguenza che il rapporto di lavoro viene comunque meno,
dovendosi riconoscere al lavoratore solo la tutela risarcitoria,
sia pure c.d. piena.
Si tratta una conclusione in presenza della quale si può ben
ipotizzare una questione di legittimità costituzionale ai sensi
dell'art. 3 Cost. non essendovi motivo di un trattamento ben
diverso in punto a tutele rispetto ad un fatto disciplinare
rilevante ma non commesso dal lavoratore che consente la c.d.
tutela reintegratoria sia pure attenuata ( cfr. sul punto
Speziale).
Per evitare tali conseguenze è stato sostenuto ( cfr. Amoroso)
che il c.d. fatto materiale di cui parla la sentenza n. 23669 del
2014 della Corte di Cassazione non significa mero accadimento di
un fatto ma condotta inadempiente del lavoratore che, quindi, si
connota di una qualificazione giuridica che discende dalla nozione
ontologica di licenziamento disciplinare, vale a dire addebito d
colpa, intesa in senso lato come inadempimento agli obblighi
incombenti sul lavoratore per cui il fatto materiale contestato
non è altro che la condotta inadempiente agli obblighi
contrattuali addebitata al lavoratore, con conseguente
applicazione della tutela reintegratoria sia pure attenuata
dell'art. 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970.
Applicando tale interpretazione al fatto materiale contestato di
cui all'art. 3, comma 2, la dicitura " materiale" correlata al "
fatto contestato" non esclude che esso si qualifichi come
inadempimento degli obblighi contrattuali ed è questa una
qualificazione tipicamente giuridica con la conseguenza che non
cambiano la prospettiva e le conclusioni sopra raggiunte con
riferimento al prec. art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970 con
conseguente applicazione anche nell'esempio concreto sopra fatto
della tutela reintegratoria, sia pure attenuata, di cui al prec.
art. 3, comma 2, giungendosi così alla conclusione che il fatto
materiale contestato che integra il c.d. "inadempimento risibile"
è da intendersi ugualmente come fatto insussistente ( cfr.
Caruso).
Detta conclusione,poi, pare trovare un riscntro nella osservazione
( cfr. Barraco) che anche il D.Lgs. n. 23 del 2015 non ridefinisce
la nozione di giusta causa o giustificato motivo soggettivo con la
conseguenza che può affermarsi che per escludere la reintegra non
è sufficiente la sussistenza di una qualsiasi fatto materiale e
la sua commissione da parte del lavoratore licenziato. Ci vuole,
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anche, la c.d. imputabilità e che detto fatto deve integrare quel
grado di inadempimento richiesto per la nozione di giusta causa o
giustificato motivo soggettivo, ricordando che, in generale,
l'art. 1455 c.c. esclude la risoluzione del contratto per una
inadempimento di scarsa importanza avuto riguardo all'interesse
della controparte.
La opzione legislativa circa la c.d. materialità del fatto
contestato solleva, inoltre, perplessità anche nel caso in cui la
contestazione disciplinare valorizza l'elemento soggettivo con la
conseguenza che detto elemento, quantomeno in siffatta ipotesi,
pare rientrare nella nozione del fatto contestato e posto alla
base del licenziamento, anche perchè con tale contestazione il
datore di lavoro attribuisce carattere essenziale, ai fini della
licenziamento, all'animus che ha connotato la condotta del
lavoratore.
Si può fare, a tale riguardo, l'esempio del c.d. danneggiamento
volontario.
Ne consegue che se all'esito della istruttoria risulta che il
fatto contestato come posto in essere intenzionalmente risulta, al
contrario, essere stato posto in essere per semplice colpa ( che,
nell'esempio fatto, integra il ben diverso caso del danneggiamento
colposo), se ne dovrebbe concludere che il fatto come accertato
non è conforme a quelle contestato con conseguente applicazione
della tutela reintegratoria ( cfr. Buconi, sia pure con
specifico riferimento alla fattispecie dell'art. 18 legge n. 300
del 1970, come mod. legge n. 92/2012 ma con considerazione che
sembrano bene adattarsi anche la c.t.c.; cfr. sul punto Speziale
che, con riferimento alla disciplina del c.t.c., parla di
applicabilità della tutela reintegratoria c.d. attenuata nel caso
in cui, appunto, viene contestato il danneggiamento volontario
con condotta del lavoratore che, all'esito della istruttoria.,
risulta essere solamente colposa).
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Il D.Lgs. è,invece, chiaro nell'affermare la estraneità di ogni
valutazione circa la sproporzione del licenziamento in ordine alla
dimostrata insussistenza del fatto materiale contestato al
lavoratore.
Anche in questo caso il legislatore interviene con riferimento ad
una questione centrale, quale quella della valutazione della
proporzionalità della sanzione disciplinare espulsiva, che, con
14
riferimento alla applicazione del regime delle tutele dell'art. 18
legge n. 330 del 1970 come mod. dalla legge n. 92 del 2012 che
vede opposte opzioni interpretative sia da parte della dottrina
che da parte della giurisprudenza di merito con conseguenze ben
diverse in ordine alla individuazione della tutela applicabile:
quella reintegratoria sia pure attenuata di cui all'art. 18,
comma 4° ( v., tra le altre. App. Brescia 12/5/2015, n. 173; Trib.
Ravenna 18/3/2013, Trib. Milano, 20/3/2013; Trib. Roma, 4/4/2013)
oppure quella semplicemente indennitaria di cui al successivo
comma 5 ( cfr., tre altre, Trib. Napoli, ord. 28/1/2014; Trib.
Genova, ord. 2/4/2104; Trib. Taranto, 29/5/2013; Trib. Bologna,
24/7/2013; App. Bologna, 14/10/2014.
Quanto alla giurisprudenza di legittimità, la Corte di
Cassazione, con la sent. 6/11/2014, n. 23669 in motivazione,
specifica chiaramente che esula dalla base della reintegrazione di
cui all'art. 18, comma legge n. 300 del 1970 e succ. mod. ogni
valutazione attinente al profilo della proporzionalità della
sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato al
lavoratore, così sembrando aderire alla impostazione restrittiva
secondo cui l'art. 18, comma 4 legge n. 300 prevede la tutele
reintegratoria c.d. attenuata solo nei casi espressamente previsti
dalla CCNL.
Tale decisione non sembra,però, avere avuto seguito nella
successiva sentenza della Corte di legittimità 11/2/2015, n. 2692
che pare aderire alla diversa opzione ermeneutica sganciata dal
riscontro casistico per cogliere il disvalore del fatto secondo un
giudizio di proporzionalità orientato dall'apprezzamento
effettuato dalle parti sociali ( cfr. diffusamente sul punto
Fedele).
E l'intervento del legislatore ( che anche qui sembra optare per
quanto quanto affermato dalla prec. Cass. n. 23669/2014) equivale
a dire che, sempre con riferimento al c.t.c., la valutazione
giudiziale ex art. 2106 c.c. che conclude per la sproporzione del
licenziamento disciplinare rispetto al fatto posto alla base delle
stesso, non può comportare la applicazione della c.d. tutela
reintegratoria, ma solo la tutela risarcitoria c.d. piena, con
conseguente estinzione del rapporto di lavoro.
Sono stati sollevati dubbi sulla irrazionalità di detta scelta
legislativa ( cfr. Riverso) che,però, non sembrano considerare
che ( cfr. Amoroso) la valutazione che si può e deve fare in
ordine alla proporzionalità della massima sanzione disciplinare è
15
diversa da quella che va fatta per accertare l'importanza
dell'inadempimento addebitato al fine di accertare, anche in
applicazione della regola generale dell'art. 1455 c.c., se la
stessa è tale da integrare la nozione di giusta causa o
giustificato motivo soggettivo.
Non solo ma, sinteticamente, pare anche potersi aggiungere che
quello in esame rientra nell'ambito di una scelta discrezionale
del legislatore che non è "coperta" dalla tutela costituzionale e
non appare manifestamente irrazionale posto che il legislatore,
prevedendo la sola tutela indennitaria, non disconosce certo la
centralità dell'art. 2016 c.c..
Con riferimento al testo dell'art. 18, commi 4 e 5 della legge
n. 300 del 1970, come modificata dalla legge n. 92 del 2012, la
questione di legittimità costituzionale è stata prospettata,
essenzialmente, evidenziando come la opzione interpretativa che
applica la tutela solo indennitaria in caso di violazione del
principio di proporzionalità finisce con il determinare una
disparità di trattamento a fronte a casi sostanzialmente identici
nel senso che la violazione del giudizio di proporzionalità
fatto dalla contrattazione collettiva determina la applicazione
della tutela reintegratoria sia pure attenuata dell'art. 18, comma
4 mentre la violazione del giudizio di proporzionalità fatto ai
sensi dell'art. 2106 c.c. determina solo la tutele indennitaria
dell'art. 18, comma 5.
Tale argomentazione probabilmente deve essere riesaminata alla
luce della circostanza che il D.Lgs. n. 23 non contiene alcun
riferimento alla contrattazione collettiva ed ai casi da essa
previsti di sanzioni conservative, con la conseguenza che per il
c.t.c. la relativa violazione da parte del datore di lavoro
parrebbe determinare ( al pari della violazione del criterio della
proporzionalità) la sola tutela indennitaria ( sul punto v.
specificatamente oltre).
Ulteriormente, detta argomentazione pare, comunque, trascurare la
circostanza che si può ravvisare una oggettiva differenza tra il
caso in cui il datore di lavoro irroga la sanzione disciplinare
espulsiva a fronte di una contrattazione collettiva che prevede
solo la sanzione conservativa ed il caso in cui il datore di
lavoro irroga detta sanzione espulsiva, senza alcuna previsione
ostativa della contrattazione collettiva, con una decisione che
solo ex post, all'esito del contenzioso giudiziale, risulta essere
errata in punto a proporzionalità.
16
============
Quanto,poi, al c.d. onere della prova, l'art. 3, comma 2
correla la tutela reintegratoria c.d. attenuata alla ipotesi di
licenziamento disciplinare in cui sia direttamente dimostrata in
giudizio la insussistenza del fatto materiale contestato al
lavoratore.
Vi è consenso sulla non certo perspicuità di detta formula
legislativa, che parrebbe prefigurare ( cfr. Carinci, Mari) una
inversione dell'onere della prova come disciplinato dall'art. 5,
comma2 della legge n. 604 del 1966, con una onore probatorio
diabolico a carico del lavoratore perchè deve dimostrare in
giudizio la inesistenza del fatto.
Non sembra,però, che detta conclusione (che finisce con il porre
anche una questione di legittimità costituzionale ai sensi
dell'art. 76 Cost. atteso che la legge delega nulla dice in ordine
all'onere della prova ) possa essere sostenuta se si considera che
detta pur infelice formulazione di legge non è idonea a superare
quanto previsto in tema di onere della prova dal prec. art. 5
della legge n. 604 del 1966, anche considerando il principio della
c.d. vicinanza o disponibilità della prova ( v. Speziale,
Barraco).
==========
L'art. 3 del D.Lgs. n. 23, sempre con riferimento al c.d.
licenziamento disciplinare, non contiene piu' alcun riferimento
alla contrattazione collettiva o al codice disciplinare, con
specifico riferimento alle sanzioni disciplinari conservative
previste, con la conseguenza che in caso di violazione da parte
del datore di lavoro di dette previsioni , il D.Lgs. n. 23 non
prevede alcuna tutela, a differenza che quanto previsto dall'art.
18, comma 4 della legge n. 300 del 1970 come modificata dalla
legge n. 92 del 2012 che, per tale violazione, prevede la c.d.
tutela reintegratoria piena.
Che una licenziamento disciplinare intimato dal datore di
lavoro per una caso per il quale la contrattazione collettiva
prevede solamente la sanzione conservativa sia ingiustificato lo
si può affermare sulla base della considerazione che il datore di
lavoro prima ed il giudice poi sono vincolati da detta previsione
che è condizione di maggiore favore fatta salva espressamente
dalla legge ( v. art., 12 legge n. 604 del 1966), anche perchè la
17
contrattazione collettiva ben può continuare ad operare in materia
anche con riferimento al c.t.c. ( cfr. Carinci)
Il problema concerne il tipo di tutela applicabile a detta
ingiustificatezza in quanto, nel silenzio sul punto tenuto dal
D.Lgs. n. 23, sembra si debba concludere per la applicazione della
solo tutela indennitaria c.d. piena ( cfr. Liso che parla di "
sfacciata" svalutazione del dettato della autonomia collettiva;
cfr. Carinci che ugualmente sembra propendere per la tutela
indennitaria).
Tale conclusione,però, può porre ( cfr. Amoroso) un dubbio di
legittimità costituzionale ai sensi dell'art. 3, comma 1 Cost. per
non ragionevolezza, sul punto, della scelta legislativa posto che
viene prevista la sola tutela indennitaria ( con estinzione del
rapporto di lavoro) per una fattispecie in cui l'errore commesso
dal datore di lavoro ( che sostanzialmente non ha tenuto in alcun
conto quanto previsto dalla contrattazione collettiva)
nell'irrogare il licenziamento disciplinare è ben maggiore e
radicale rispetto alla diversa fattispecie della insussistenza del
fatto materiale contestato al lavoratore in cui il vizio del
licenziamento è meno evidente in quanto implica la valutazione
delle risultanze di causa circa la sussistenza die detto fatto
materiale contestato.
Per evitare siffatte conseguenze è stata avanzata la ipotesi (
cfr. Speziale) di nullità del licenziamento per contrasto con la
norma del contratto collettivo da considerarsi come imperativa,
con conseguente applicazione della c.d. tutela reintegratoria
piena di cui all'art. 2 del D.Lgs. n. 23, evidenziando che non può
ravvisarsi violazione dell'art. 1418, comma 1 c.c. perchè occorre
affermare una equivalenza tra norme imperative e norme
inderogabili, con conseguente parificazione ( cfr. artt. 2113 c.c.
e 360 c.p.c.) tra norma inderogabile di legge e del contratto
collettivo ( cfr. Cass. 20/5/2013, n. 13227)
==========
Sempre con riguardo alla disciplina del c.d. licenziamento
disciplinare, stata prospettata una questione di legittimità
costituzionale per eccesso di delega ( cfr. Wikilabour, Giubboni)
in quanto, con riferimento al licenziamento disciplinare, il
D.Lgs. n. 23 non ha provveduto ad individuare le specifiche
fattispecie di cui parla la legge delega.
18
Si può, però, ( cfr. Speziale; cfr. Celentano) nel senso della
non fondatezza di tale q.l.c. sulla base della considerazione che
l'art. 3, comma 2 ha provveduto ad individuare dette specifiche
fattispecie, limitando la reintegra al solo caso in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio la insussistenza del fatto
materiale contestato al lavoratore.
======
19
Licenziamenti economici ( per g.m.o e collettivi).
La decisione del legislatore della legge delega, con
riferimento a detta tipologia di licenziamenti, è del tutto
chiara, nel senso di escludere la tutela reintegratoria per i vizi
( sostanziali e/o formali) di detti licenziamenti.
Il D.Lgs. n. 23 ha dato piena attuazione a detta legge delega
in quanto ha previsto:
- la c.d. tutela indennitaria c.d. forte sia per il licenziamento
per g.m.o. di cui non ricorrono gli estremi (cfr. art. 3, comma
1) sia per il licenziamento collettivo ( cfr. art. 10).
Non solo ma con riferimento a detto licenziamento collettivo è
espressamente prevista detta tutela indennitaria c.d. forte anche
nel caso di violazione delle procedure richiamate all'art. 4,
comma 12 o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1
della legge n. 223 del 1991, con una radicale innovazione, in
senso peggiorativo, rispetto al regime delle tutele per detti vizi
previsto dall'art. 1, comma 46 della legge n. 92 del 2012.
Rimane il regime sanzionatorio della c tutela reintegratoria c.d.
piena sia per il licenziamento collettivo intimato senza forma
scritta (ma si tratta di ipotesi sostanzialmente teorica) sia per
il licenziamento collettivo dovuto a motivi discriminatori.
La applicabilità di detta tutela reintegratoria c.d. piena è stata
poi ( v. Wikilabour) affermata anche in caso di violazioni di
alcuni limiti inderogabili previsti in tema di licenziamenti
collettivi ( cfr. divieto, per le lavoratrici, di licenziamento di
una percentuale superiore alla percentuale della lavoratrici
occupate in mansione interessate; cfr. il divieto di
licenziamento per un numero di disabili superiore alla percentuale
di assunzioni obbligatorie ex legge n. 68 del 1999.
- tutela indennitaria c.d. attenuata per il licenziamento intimato
con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2,
comma 2 della legge n. 604 del 1966 ( cfr. art. 4 del D.Lgs.).
Tale scelta legislativa, con specifico riferimento al
licenziamento per g.m.o., comporta, con riferimento all'art. 18
legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del 2012,
il venire meno non solo della diversità di tutele a seconda della
manifesta o non manifesta insussistenza del fatto posto alla base
del licenziamento per g.m.o., ma anche la risoluzione delle
20
querelle già sorta in dottrina ed in giurisprudenza circa la
tutela da applicare in caso di violazione da parte del datore di
lavoro del c.d. obbligo di repechage o dei criteri di scelta in
caso di mansioni fungibili, e ciò in quanto in presenza di
siffatti vizi ( avente natura in senso lato sostanziale) la tutela
prevista è una ed una sola soltanto, vale a dire la tutela
indennitaria c.d. piena.
Con riferimento al licenziamento collettivo è stato sollevato (
v. Wikilabour) un dubbio di legittimità costituzionale per
violazione della legge delega che non fa espresso riferimento ai
licenziamenti collettivi. Tale dubbio non sembra,però, essere
fondato posto che la legge delega fa espresso riferimento ai
licenziamenti economici in generale, senza eccezioni, e non può
dubitarsi che il licenziamento collettivo ben possa rientrare in
detta categoria ( cfr. Celentano).
============
21
Tutela indennitaria c.d. attenuata: vizi formali e procedurali
L'art. 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015 prende in esame i vizi
formali e procedurali che possono viziare il licenziamento ( non
solo disciplinare) stabilendo la regola ( già affermato dalla
legge n. 92 del 2012) che il licenziamento intimato con
violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2,
comma2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui
all'art.7 della legge n. 300 del 1970 determina, comunque, il
venire meno del rapporto di lavoro (" il giudice dichiara estinto
il rapporto di lavoro alla data del licenziamento.."), con
applicazione della sola tutela indennitaria, non assoggettata a
contribuzione previdenziale, di importo pari ad una mensilità
dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, con la
specificazione che, comunque, detta indennità non può essere
inferiore a due e superiore a dodici mensilità.
Viene confermato dal D.Lgs. che,in presenza di un licenziamento
viziato nella forma, rimane ferma la possibilità per il
lavoratore di proporre in giudizio la domanda (avente così
carattere principale) volta a fare accertare la sussistenza dei
presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2
e 3 del D.Lgs.
Il che equivale a dire che, come già previsto dall'art. 18, comma
6° legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del
2012, che il lavoratore può invocare in via principale o le
fattispecie di cui all'art. 2 o la ingiustificatezza del
licenziamento ai sensi dell'art. 3 per ottenere le maggiori tutele
previste da detti articoli.
Sul punto si può ripetere per il D.Lgs. n. 23 la stessa
osservazione già fatta per le legge n. 92 del 2012, vale a dire
che la domanda giudiziale del lavoratore - nel caso in cui il
licenziamento è stato intimato con violazione del requisito della
motivazione di cui all'art. 2, comma 2 della legge n. 604 del 1966
- si articola come domanda proposta sostanzialmente "al buio"
atteso che dalla motivazione del licenziamento il lavoratore ( per
la inesistenza o la genericità di detta motivazione) non conosce
con esattezza il fatto posto alla base della decisione datoriale.
Riguardo alla quale problematica si può ricordare che è stato
sostenuto ( cfr. Multari), con riferimento al prec. art. 18,
comma 6 , che una contestazione disciplinare generica ( o,peggio,
22
inesistente) comporta la applicazione della c.d. tutela
reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4 della legge
n. 300 in quanto è un vizio che non consente di valutare, già
nella fase pre processuale, la giusta causa o il giustificato
motivo, a ciò aggiungendosi la osservazione che il datore di
lavoro non può, anche in applicazione del principio di
immutabilità delle ragioni poste alla base del licenziamento,
integrare giudizialmente la motivazione del licenziamento,
esplicitando solo in tale contenzioso i fatti sulla base dei quali
ha preso la sua decisione di risolvere il rapporto di lavoro.
Considerazioni analoghe possono essere fate con riferimento ad
altri visi formali. Si può fare l'esempio della c.d. tempestività
della contestazione disciplinare che se viene considerata come
elemento costitutivo del potere di recesso ( cfr. Cass. 5/3/2003,
n. 3245) dovrebbe, in caso di mancato rispetto da parte del
datore di lavoro di detto requisito, comportare l' applicazione
della c.d. tutela reintegratoria attenuata ( cfr., però, Cass.
6/11/2014, n. 23669 che, sia pure in un obiter, correla
l'applicazione della tutela indennitaria c.d. piena dell'art. 18,
comma 5 della legge n. 300 del 1970 come mod. legge n. 92 del 2012
alla violazione del requisito della tempestività).
Va osservato che, con riferimento al c.t.c., tra i vizi formali
del licenziamento per g.m.o. non può piu' farsi rientrare la
violazione della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 604
del 1966, come novellato dall'art. 1, comma 40 della legge n. 92
del 2012 in quanto ( v. art. 3, comma 3 del D.Lgs. n. 23) al
licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 1 non trova
applicazione l'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e
successive modifiche.
=========
La applicazione del D.Lgs. n. 23, con il criterio temporale
della sua applicazione che riguarda i i rapporti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato stipulati a decorrere dalla data
di entrata in vigore del D.Lgs., comporta la coesistenza di due
diversi regimi di tutele in caso di licenziamento in senso lato
ingiustificato: quello delineato dall'art. 18 della legge n. 300
del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012 ( che si
applica ai contratti a t.i. stipulati prima della entrata in
vigore del D.Lgs.) e quello previsto da detto D.Lgs., con la
ulteriore specificazione ( v. anche oltre) che per la relativa
tutela giurisdizionale sono previsti due riti diversi.
23
Il che significa che, ad esempio, a fronte di un medesimo
licenziamento collettivo, i vizi di detto licenziamento
determinano tutele diverse a seconda che il lavoratore licenziato
sia stato assunto prima o dopo l'entrata in vigore del D.Lgs.
Ugualmente, con riferimento ai licenziamenti individuali, lo
stesso addebito disciplinare ( magari commesso in concorso da piu'
lavoratori) o la stessa scelta organizzativa possono comportare,
se ingiustificati in senso lato, tutele differenti sempre basate
unicamente sulla data di assunzione dei lavoratori licenziati per
motivi disciplinari o per g.m.o.
Sono stati avanzati dubbi di legittimità costituzionale di tale
disciplina per contrasto con l'art. 3 Cost., perchè trattasi di
disciplina che crea non giustificate disparità di trattamento,
risultando,poi, priva di sostanziale ragionevolezza ( cfr. De
Luca; Giubboni, Barraco).
Si è,però, replicato ( cfr. Buconi, Celentano) richiamando il
costante orientamento della Corte Costituzionale sia con
riferimento al c.d. fluire del tempo che può costituire un
valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (
cfr.,da ultimo, Corte Cost.le 13/11/2014, n. 254) sia con
riferimento alla facoltà del legislatore di emanare, con
riferimento ai c.d. rapporti di durata, norme peggiorative, fatto
salvo il c.d. principio di affidamento nella sicurezza giuridica
( cfr., ad esempio, Corte Cost.le ord. 2771/2011, n. 31), con la
osservazione che il D.Lgs. n. 23 non incide sul affidamento dei "
vecchi" assunti in ordine alla applicazione delle tutele previste
prima della emanazione di detto D.Lgs. ( cfr. Buconi).
Dubbi di legittimità costituzionale sono stati sollevati
anche con riferimento alla entità della c.d. tutela indennitaria,
piena o attenuata, sia perchè sospettata di inadeguatezza, con
conseguente violazione del principio di ragionevolezza dell'art. 3
Cost. ( cfr. Speziale che richiama l'orientamento della Corte
Costituzionale volto a ribadire che deve essere garantita la
adeguatezza del risarcimento; v., ad esempio, Corte Cost.le
11/11/2011, n. 303) sia con riferimento al " tetto" massimo di
ventiquattro/ dodici mensilità posto a detta tutela indennitaria
il che significa che detta tutela, superata la soglia dei dodici
anni di anzianità, prescinde del tutto dalla ulteriore anzianità
di servizio, risultando così uguale per il lavoratore con dodici
24
anni di anzianità di servizio e per il lavoratore con trent'anni
di anzianità di servizio, in contrasto con la finalità della legge
delega che sembra prevedere tutele crescenti con il crescere della
anzianità di servizio ( cfr. Celentano per una compiuta disamina
della questione sia degli elementi a favore che degli elementi
contro).
25
Il D.Lgs. n. 23 non fa alcun riferimento all'ipotesi di
licenziamento ai sensi dell'art. 2110 c.c.
Al contrario, l'art. 18, comma 7 della legge n. 300 del 1970 come
modificato dalla legge n. 92 del 2012 prende in considerazione
detta fattispecie prevedendo la applicazione della tutela di cui
all'art 18, comma 4 ( vale a dire la tutela reintegratoria c.d.
attenuata) nel caso di licenziamento intimato in violazione
dell'art. 2110, comma 2 c.c.
Proprio il silenzio del D.Lgs. n. 23 potrebbe fare presumere
che la tutela per il licenziamento intimato in violazione
dell'art. 2110 c.c. si debba ravvisare in quanto previsto
dall'art. 3, comma 1° di detto D.Lgs., con conseguente
applicazione della sola tutela indennitaria, sia pure piena ( cfr.
Carinci, Barraco che richiama anche l'art. 12 preleggi).
Si può obiettare che per opinione giurisprudenziale consolidata
quella dell'art. 2110 c.c. costituisce una normativa speciale con
la conseguenza che il licenziamento per violazione del periodo di
comporto non è regolato dalla legge n. 604 del 1966 nè dalla
disciplina generale per risoluzione per sopravvenuta impossibilità
parziale della prestazione di lavoro ( cfr. Cass. 23/1/2013, n.
1568; Cass. n. 28/1/2010, n. 1861).
Nè sembra possa invocarsi la applicazione della tutela
reintegratoria c.d. piena prevista prevista nella ipotesi di cui
all'art. 2, comma 4 del D.Lgs. e ciò in quanto vi è differenza
sostanziale tra la c.d. malattia considerata dall'art. 2110 c.c.
e la disabilità psico-fisica del lavoratore presa in
considerazione dall'art. 2, comma 4 del D.Lgs. ( cfr. De
Luca),tenendo conto che la locuzione " anche" che compare in detta
norma fa riferimento a soggetti non assunti come disabili, ma pure
sempre nell'ambito di una inidoneità psico-fisica ( cfr. Voza).
Pare,quindi, possibile sostenere che per difetto di innovazione
sul punto deve continuare ad applicarsi la disciplina dell'art.
2110 c.c. ( cfr. De Luca), la violazione della quale determina la
nullità del licenziamento per violazione di detta norma imperativa
( v., tra le altre, Cass. 18/11/2014, n. 2425).
E', quindi, stata sostenuta la applicazione della tutela
reintegratoria c.d. piena di cui all' art. 2, comma 1 del D.Lgs
per violazione, appunto, di una norma imperativa ( anche se detta
nullità non è espressamente prevista dalla legge) oppure ( qualora
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si ritenga non superabile sul punto il testo di legge) la
applicazione della tutela di diritto comune ( cfr. Speziale).
===========
Ugualmente il D.Lgs. n. 23 del 2015 non fa alcun riferimento al
licenziamento per c.d. scarso rendimento.
Si può, quindi, prevedere che anche con riferimento al c.t.c. si
porranno gli stessi dubbi già sorti sulla natura di detto
licenziamento, vale a dire se rientrante nella fattispecie del
disciplinare, trattandosi di inadempimento da parte del lavoratore
del suo obbligo di diligenza e collaborazione ( come risulta
essere affermazione prevalente nella giurisprudenza di
legittimità, cfr., tra le ultime, Cass. 9/7/2015) oppure se
rientrante nella fattispecie del licenziamento per g.m.o. in
quanto si risolve in una prestazione lavorativa non
sufficientemente e proficuamente utilizzabile dal datore di
lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale ( cfr.
sul punto, da ultimo, Cass. 4/9/2014, n. 18678).
La questione ha una sua specifica rilevanza pratica sia con
riferimento alla applicazione/ non applicazione della procedura di
contestazione disciplinare di cui all'art. 7 legge n.300 ( con, in
caso di violazione, applicazione della tutela indenniitaria c.d.
attenuata sopra viste, con relative problematiche in ordine ai
vari vizi formali) sia con riferimento alla circostanza che solo
in tema di licenziamento disciplinare residua ormai l'ipotesi di
applicazione della tutela reintegratoria, sia pure attenuata.
========
Il D.Lgs. non fa alcun riferimento nemmeno ai rapporti di
lavoro di pubblico impiego c.d. privatizzati.
Pare, quindi, lecito ipotizzare che anche con riferimento al
c.t.c. si verifichi quella difformità di opinioni
giurisprudenziali a proposito della applicabilità o meno dell'art.
18 legge n. 300 del 1970 a siffatto rapporto di lavoro.
E' vero che nel D.Lgs. n. 23 manca un divieto esplicito di
applicazione di detto D.Lgs. a tali rapporti.
E' stato,però, convincentemente obiettato ( v. Carinci) che la
esclusione del D.Lgs. a detti rapporti su fonda su plurime
osservazioni.
27
Il D.Lgs. fa riferimento a tre delle quattro categorie di lavoro
privato che non trovano puntuale riscontri nel p.i. c.d.
privatizzato ( dove non vi è la categoria dei quadri).
Il D.Lgs. n. 23 non ga cenno ai dirigenti, con una scelta
legislativa ben comprensibile per il lavoro privato ( posto che i
dirigenti sono sottratti alla disciplina del licenziamento basata
sull'art. 18 legge n. 300 del 1970, eccezion fatta per i
licenziamenti discriminatori) ma non appare comprensibile per il
p.i. c.d. privatizzato dove i dirigenti sono riportati sotto tale
disciplina dell'orientamento della giurispriudenza di legittimità.
Il D.Lgs. n. 23 non opera alcuna sostituzione dell'art. 18 prec.
per cui non opera il rinvio " formale" di cui all'art. 51, comma 2
del D.Lgs. n. 165 del 2001.
Il regime del D.Lgs. n., 23 non appare compatibile con quello del
T.U.P.I. ( cfr., ad ese., artt. 34 e 55 e ss. di detto T.U.).
In caso contrario, si può ipotizzare una violazione dell'art. 97
Cost. posto che nel P.I. non ci possono essere dipendenti con
diversi trattamenti e tutele legati una data della loro
assunzione.
28
Tutela giurisdizionale
Il D.Lgs. n. 23 non modifica l'obbligo di impugnativa
stragiudiziale del licenziamento entro 60 giorni, con obbligo di
proporre,poi, ricorso giudiziario entro 180 giorni.
Interviene sulla identificazione del " rito" applicabile,
atteso che prevede la applicazione a detto contenzioso del c.d.
rito ordinario, escludendo la applicazione del c.d. rito Fornero.
e, quindi, sostanzialmente negando quella sorta di corsia
preferenziale prevista dalla legge n. 92 del 2012 per i processi
in tema di impugnativa di licenziamento.
La chiarezza della scelta legislativa non pare, comunque,
impedire alla prassi dei singoli uffici di, comunque, dare una
preferenza di fatto alla fissazione e trattazione di tale
contenzioso, e ciò alla luce degli interessi in gioco, anche se la
tutela reintegratoria non può piu' considerarsi come regola
generale.
Tale scelta ( probabilmente dovuta da un sostanziale giudizio
negativo sulla efficacia del c.d. rito Fornero, che per altro,
pur con le indubbie problematiche poste da tale normativa, non
sembra trovare riscontro pratico nella applicazione di diversi
uffici giudiziari) può forse sollevare un problema di legittimità
costituzionale non tanto con riferimento alla osservazione che la
legge delega nulla prevede sul punto in quanto tale omessa
previsione non sembra impedire al legislatore delegato di indicare
il rito applicabile che non necessariamente coincide con il c.d.
rito Fornero ( applicabile alla impugnazione del licenziamento per
ottenere la tutela prevista dall'art. 18 legge n. 300) quanto con
riferimento alla osservazione che il legislatore delegato finisce
con l'introdurre una disparità di trattamento processuale, con
conseguente ipotizzabile violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.,
per contratti aventi la stessa natura e per un contenzioso
sostanzialmente identico, essendo volto ad ottenere la
applicazione delle tutele previste dalla legge a fronte di un
licenziamento in senso lato illegittimo ( cfr. Celentano).
In ogni caso tale opzione legislativa per contenzioso relativo
al c.t.c. comporta una ( per così dire) "rivilitalizzazione" del
procedimento ex art. 700 e ss. c.p.c. ( la cui applicazione in
tema di c.d. rito Fornero è controversa), anche se detto
procedimento d'urgenza appare sostanzialmente attivabile solo in
funzione di una domanda di merito volta ad ottenere la reintegra
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nel posto di lavoro, non potendosi ravvisare,in generale. il
requisito del c.d. periculum in mora in presenza di una domanda di
merito volta solo ad ottenere la tutela c.d. indennitaria.
Con riferimento,poi, alla impugnativa dei c.d. licenziamenti
discriminatori si è sostenuto ( cfr. San Lorenzo) la applicazione
del c.d. rito sommario di cognizione di cui all'art. 28 del D.Lgs.
n. 150/2011 ( controversie in materia discriminatoria) ed agli
artt. 36 e ss. del D.Lgs. n. 198/2006 ( c.d. Codice delle pari
opportunità), con tutto quello che ne consegue anche in materia di
onere della prova a carico del lavoratore.
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