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architettiverona 78 42 continuità e trasformazione. dialogo con volkwin marg a cura di Filippo Bricolo, Lorenzo Marconato, Alberto Vignolo 1

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continuità e trasformazione.dialogo con volkwin marg

a cura di Filippo Bricolo, Lorenzo Marconato, Alberto Vignolo

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L’intensa attività dello studio GMP nellanostra città, con i cantieri attualmenteaperti dell’ospedale di Borgo Trento e nelrecinto della fiera, ci ha dato l’occasionedi incontrare Volkwin Marg, contitolaredello studio e responsabile dei due pro-getti. Coadiuvati dal fondamentale ap-porto di Clemens Kusch, che svolge ilpartecipe ruolo di corrispondente in Ita-lia dello studio, abbiamo sollecitato ilprofessor Marg a proposito del suo mododi operare e, in particolare, sulle questio-ni sollevate dai due progetti veronesi.

ARCHITETTIVERONA: Coi due nuovipadiglioni della fiera già inaugurati econ l’impegnativo cantiere dell’Ospe-dale di Borgo Trento, abbiamo per laprima volta l’occasione di vedere all’o-pera un architetto straniero nella no-stra città, dove è invece consuetudineavere degli architetti legati al territo-rio, anche nei casi di eccellenza comesono stati, in maniera diversa, CarloScarpa o Pierluigi Nervi. VOLKWIN MARG: Se ci fossero ancoraCarlo Scarpa e Pierluigi Nervi non ci sa-rebbe stato bisogno di rivolgersi ad ar-chitetti stranieri! Si potrebbe continua-

re con loro, che del resto sono stati mieiriferimenti costanti durante gli studi,assieme ad Hans Scharoun. Trovo giustoche gli architetti locali operino diretta-mente nel proprio territorio, per evitarequella globalizzazione dell’architetturache sta disseminando di oggetti similiogni parte del mondo. Carlo Scarpa èstato un riferimento per il dialogo tra ilnuovo e l’antico, e il suo modus operan-di può essere sostenuto soltanto daqualcuno che è nato e vissuto in un de-terminato ambiente e clima culturale.Non si può pretendere la medesimasensibilità, ad esempio, da parte di unamericano o di un giapponese. Duranteuna delle mie visite a Verona, sono ri-masto un po’ scioccato dall’interventodi Eisenmann per Castelvecchio. Nono-stante questo, è per me un onore poterlavorare a Verona, perché lo sviluppodella civiltà europea ha preso avvio dalsud-est del Mediterraneo per poi giun-gere nel nord dell’Europa e quindi, com-piere il percorso inverso e venire dalnord a lavorare qui, significa ritrovareattraversando la città le radici della me-desima cultura. Nel corso della storia,molto spesso gli architetti italiani han-

no avuto modo di lavorare in altri paesieuropei, basti pensare ad esempio a SanPietroburgo o più recentemente ad AldoRossi e Renzo Piano a Berlino. Il percor-so contrario è invece solo una tendenzapiù recente: è così che, qualche volta,anche un tedesco può perdersi in Italia!

AV: La fiera è tipologicamente un edi-ficio decontestualizzato, una sorta dienclave nella città, che in questo casoperò ha la particolarità di essere inse-rita in un tessuto urbano assai conso-lidato ma in forte trasformazione. An-che Borgo Trento è una parte di cittàsolidamente configurata, e il vostroprogetto si è dovuto confrontare conla scelta già avvenuta di mantenere lìl’ospedale. È interessante sapere comeil vostro studio, che ha sempre mo-strato la capacità di confrontarsi conil tessuto urbano, ad esempio nelleesperienze di Amburgo, abbia affron-tato la duplice relazione tra compartiurbani definiti e monofunzionali ed irelativi contesti urbani.VM: Storicamente le fiere sono nate al-l’interno della città, e solo le esigenze dimaggiore spazio le hanno portate ai

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1. Un tedesco in Italia: veduta prospettica di Verona trattadal volume Neue Archontologia Cosmica di Johan LudwigGottfried, incisione stampata da Matteo Merian a Fran-coforte nel 1638.2-6. Alcuni momenti del dialogo con Volkwin Marg e Cle-mens Kusch.

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margini. Questo è avvenuto nello speci-fico anche per la fiera di Verona, nataprincipalmente come fiera o mercatodel bestiame e dunque senza quell’esi-genza di rappresentatività che invecehanno altre fiere. Al contrario, nell’areadei Magazzini Generali, è evidente unamaggior attenzione all’immagine archi-tettonica degli edifici, in particolarequelli con le grandi arcate di calcestruz-zo, dei quali esistono degli esemplari si-mili alla fiera di Brno, in Cecoslovac-chia, ma mentre questi ultimi sono sta-ti tutelati, a Verona abbiamo assistitoalla demolizione di una metà del com-plesso in maniera del tutto arbitraria,perdendo delle sicure opportunità. Per quanto riguarda invece l’ospedale diBorgo Trento, premesso che è un proget-to al quale siamo particolarmente affe-zionati, bisogna dire che la decisionedell’Amministrazione di intervenire sul-l’ospedale esistente, mantenendolo inpiena attività, si è rivelata come volerintervenire su un paziente senza aneste-sia. Lavorare in un cantiere così grande econtinuare a far funzionare l’ospedale ècerto per noi una sfida, ma queste sonodecisioni politiche sulle quali l’architet-

to non è chiamato ad influire. Il proget-to per l’ospedale di Verona per la suaunicità ambisce a diventare un modellopilota, costituito da un nuovo edificiomonoblocco moderno, dai padiglioniesistenti riqualificati e integrati nel di-segno complessivo, da un parco verde alcentro e dal piazzale antistante riquali-ficato. Questo polo ospedaliero all’inter-no della città, dove si arriva velocemen-te e dove c’è un viavai costante, potreb-be, una volta completato, esprimere unaqualità eccezionale per la città stessa edessere al contempo un riferimento im-portante per altre realtà. Certamente ilprocesso per arrivare a questo panoramaè doloroso, faticoso, ma una volta rag-giunto sicuramente potrà esprimere unaqualità superiore.

AV: Tornando al primo progetto, sipuò osservare come l’asse urbano diviale del Lavoro delimita da un latol’area della fiera, dove l’assetto com-plessivo è definito, e dall’altro invecele aree del polo finanziario e del poloculturale, con una realtà ancora incompleto divenire. Come vi siete rap-portati con questa situazione?

VM: Trovandoci a confronto per la pri-ma volta con il comparto della fiera, larichiesta del committente è stata quel-la di uno studio di fattibilità, a partiredall’urgenza di mettere ordine in unquartiere nato in maniera molto diso-mogenea. Noi abbiamo da subito ipo-tizzato di coinvolgere nel progetto an-che l’area di fronte, mantenendo gliedifici dei Mercati Ortofrutticoli. L’in-tenzione era quella di rafforzare e didare identità a questo viale, rapportan-dosi alla simmetria degli edifici esi-stenti e bilanciando, attraverso la crea-zione di un altro ingresso, quello attua-le del tutto sbilanciato. Una delle esi-genze principali era per l’appunto quel-la di riorganizzare il sistema degli ac-cessi, perché una fiera di queste dimen-sioni deve avere la possibilità di allesti-re più manifestazioni in contempora-nea, che possano attestarsi su diversiingressi, ognuno caratterizzato in ma-niera differente. Così, assieme alla ri-qualificazione dell’ingresso attuale at-traverso un grande e spettacolare pan-nello luminoso, la nuova galleria previ-sta sull’asse degli edifici dei MagazziniGenerali andava a costituire il secondo

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punto focale sull’asse di attraversa-mento principale verso la città. Percreare un altro contrappeso agli acces-si sul viale del Lavoro, abbiamo sceltoun edificio a cupola, una forma piena distoria che per creare un altro fulcro im-portante, e che è chiaramente in rela-zione anche con la stazione frigorifera,anche se i due edifici avrebbero carat-teristiche molto diverse. È chiaro chec’è in questo elemento l’ambizione ar-chitettonica di rapportarsi alle due cu-pole italiane più famose, quella delPantheon e quella di Pierluigi Nervi,dalle quali quella in progetto parte co-me sviluppo del tema di una cupolamoderna, da realizzare mediante unacombinazione di elementi triangolaried esagonali. Attraverso tutti questielementi, in maniera anche un po’ in-genua, abbiamo formulato delle ipotesiper la sistemazione dell’intero asse ur-bano, pensando ad un cuscinetto verdetra la fiera e il centro storico. Tuttoquesto è avvenuto in maniera indipen-dente dalla variante del Prof. Gabrielli,che non potevamo allora conoscereperché ancora non esisteva quando ab-biamo iniziato a lavorare per la fiera.

AV: Tocchiamo ora un punto impor-tante per i nostri colleghi. Noi viviamoin una città abbastanza piccola, glistudi di Verona sono mediamente ab-bastanza piccoli. GMP conta 7 sedi di-vise tra Germania e Cina e circa 190dipendenti. Nonostante la grande mo-le di lavoro che affronta, riesce a con-ferire una chiara identità ai progettisenza cadere nella ripetizione della fa-cile firma. Come si riesce a gestire unastruttura così grande, mantenendo altempo stesso una identità precisa delproprio lavoro?VM: Sicuramente questo è uno dei pro-blemi degli studi di così grande dimen-sione, anche perché c’è una fluttuazio-ne costante dei collaboratori. Quelli piùcapaci, dopo un po’, vanno via e apronoil proprio “ristorante”, altri si alternanotra un progetto e un altro; per questo èsicuramente difficile riuscire a dare unacontinuità all’opera dello studio. Allaluce di questa situazione, ci sono treconsiderazioni strategiche che abbiamofatto nel nostro studio. Una prima ri-guarda strettamente la dimensione, esta nella scelta di non diventare un“grande” studio. Un’altra riguarda l’or-

ganizzazione interna della struttura, di-versa da quella adottata ad esempio daigrandi studi americani, nei quali c’è unasuddivisione orizzontale del lavoro: unoha l’idea, l’altro fa gli schizzi, l’altro lisviluppa, l’altro fa i dettagli, e così via.Da noi, invece, lo sviluppo è inteso inverticale, cioè vi sono molte più personeche vengono coinvolte in diversi mo-menti della progettazione: siamo un’in-sieme di “piccole truppe” organizzate inmaniera caotica, dove però ognuno hala sua autonomia e sviluppa un proget-to dall’inizio alla fine. Il gruppo che se-gue il lavoro dalla fase del concorsopassando dalla realizzazione fino allafase finale, si identifica così molto piùdirettamente con il progetto che gli ap-partiene. Un’altra strategia deriva dalfatto che entrambi noi soci fondatori(Meinhard Von Gerkan ed io) abbiamoper tanti anni insegnato all’università, econ i nostri allievi e studenti, molti deiquali sono poi diventati collaboratori,era già stata impostata una sorta di“palestra di esercizi” in cui non per for-za ci si doveva intendere sullo stile, maalmeno sul metodo di lavoro, coltivandocosì una certa affinità. Sino ad oggi, poi,

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quasi la totalità dei progetti ha visto ildiretto coinvolgimento di uno dei duesoci fondatori. Un altro elemento im-portante è quello della documentazionedei lavori fatti, attraverso l’attenta re-dazione e pubblicazione dei nostri libri edelle monografie. Esse danno vita aduna sorta di procedimento di archivia-zione condotto in prima linea. Di fattocirca il 60-70% dei progetti prodottiviene opportunamente catalogata ed il-lustrata e costituisce un viatico per icollaboratori, che possono confrontarsianche su progetti e su esperienze pre-cedenti dello studio, che altrimenti nonavrebbero modo di conoscere.

AV: A proposito della vostra attività,lo studio ha una esperienza notevoledi concorsi: circa 170 quelli vinti, unamiriade i premi e le menzioni. Comegiudica la partecipazione ad un con-corso oggi in Italia, rispetto ad un af-fidamento diretto di incarico comequello per la Fiera di Verona?VM: Nell’affrontare i concorsi si dovreb-bero tenere sotto controllo sempre dueaspetti fondamentali: uno è quello pret-tamente razionale dell’adempimento

alle richieste del bando, alle necessità eal funzionamento dell’edificio; l’altro èinvece l’aspetto artistico o ideativo par-ticolare del tema, che può essere piùaccentuato ad esempio nella progetta-zione di un museo e meno in altri temi.Il successo è spesso dovuto al non aversottovalutato nessuno dei due aspetti,cioè avere in qualche maniera cercatodi dare una risposta razionale alla do-manda posta, senza però perdere di vi-sta l’identità dell’edificio. In Italia si puòavere successo, fortuna oppure meno…Nel concorso per l’ospedale di BorgoTrento abbiamo avuto fortuna perchétutte le richieste funzioni erano chiara-mente risolte, e grazie soprattutto allasobrietà del nuovo edificio principale eallo studio attento del parco centrale,che è stato ideato per recuperare l’iden-tità dell’ospedale a padiglioni, siamostati assai convincenti. Anche nel piùrecente concorso per l’ampliamentodella fiera di Riva del Garda tutto, se-condo noi, funzionava perfettamenteper quanto riguarda la corrispondenzadel progetto alle richieste del bando,così come per l’appropriatezza del lin-guaggio scelto per gli edifici, però la

giuria ha deciso di premiare chi avevamesso l’accento sull’effetto scenografi-co della proposta.

AV: In un suo scritto, Paolo Portoghe-si ricorda di essere tornato ad Ambur-go molti anni dopo aver visto, nel do-poguerra, una città distrutta dalla tra-gedia dell’evento bellico e di averlatrovata profondamente cambiata, inmeglio, grazie soprattutto agli inter-venti dello studio Von Gerkan e Marg.L’identità di un luogo si confronta conla storia e con la tradizione, scontran-dosi spesso con un’idea malintesa dimodernità a tutti i costi. VM: Per quanto riguarda la ricostruzio-ne di Amburgo, un elemento positivoper lo sviluppo della città è stato la vo-lontà di dare seguito ad una precisaconvenzione: non ogni lunedì dovevaessere inventata una nuova architettu-ra! Si è puntato soprattutto sulla conti-nuità e sulla qualità dei singoli inter-venti, coordinati tra loro. Certo, le di-struzioni sono avvenute per i bombar-damenti bellici, ma molto più spesso lecittà sono state distrutte da false ideo-logie, o dalla mancanza di ideologie. A

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differenza di molti altri casi, però, adAmburgo siamo riusciti a sviluppare e afar ricrescere la città in un clima nor-male, preservando l’identità della città:anche se questo mi è valso l’etichetta di“tradizionalista ortodosso”. Io sono de-cisamente contrario a queste ambiguitàalla moda, che propongono gli stessielementi acriticamente in luoghi diffe-renti. Sono dell’opinione che una for-ma, se non è riconoscibile, è semplice-mente insensata! O deriva il suo signifi-cato in qualche maniera dalla funzione,oppure trova una sua necessità da unsignificato derivante dalla sua storia. Illinguaggio architettonico è quindi, nel-la mia concezione, quello che deve de-rivare dalla funzione e dalla riconosci-bilità come elemento della storia. Alcu-ni elementi classici, come la cupola, lavolta, il portico, il colonnato e così via,fanno parte da sempre di una concezio-ne del linguaggio architettonico comeelemento di continuità della storia edella cultura europea. Negli ultimi cen-to anni, per alcuni fraintendimenti que-sti elementi sono stati persi, o si è pen-sato di doverli abbandonare in favore diun qualche filone decostruttivo, bio-

morfo o altro ancora. L’architetturaparla un linguaggio di continuità, e laripresa di questi elementi, da cui deri-vano i principi della simmetria, dell’as-sialità, del ritmo, della ripetizione, por-ta riconoscibilità e appartenenza neiprogetti. Lo sforzo di far dialogare laparte e l’insieme in un rapporto razio-nale, è improntato a una ricerca dellasemplicità, da cui deriva la bellezza.Razionalità da una parte, e sviluppotecnologico dall’altra, viaggiano a velo-cità diverse, ed è così che la razionalitàdeve riuscire a seguire anche lo svilup-po tecnologico. A fronte della corsa delprogresso, la nostra capacità di perce-pire i colori, le forme, le atmosfere è ri-masta sostanzialmente la stessa, e sle-garsi completamente da questa conso-lidata e naturale percezione, intesa an-che come bagaglio culturale, è davverocinico. In tedesco esiste un modo di di-re secondo il quale ”un’architettura èbuona quando da anche bontà”. Quan-do in essa perciò si concretizzano ele-menti di bontà e quando non si imponein modo minaccioso e aggressivo, allorapuò essere considerata anche una“buona architettura”.

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7. L’ingresso su viale del Lavoro con la cupola.8. L’ingresso su viale del Lavoro con la loggia.9. Diagramma sul rapporto tra la fiera e la città (G.M.P.).

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g.m.p. a borgo trento, un ospedale senza limitiNicola Brunelli, Alberto Zanardi

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Una delle priorità che la pubblica ammi-nistrazione ha dovuto affrontare, in que-sti ultimi anni, è stata indubbiamente lanecessità di garantire alla città un ospe-dale capace di dare risposte veloci, con-crete e definitive alle odierne istanze del-la medicina. L’Ospedale Civile Maggioredi Borgo Trento, realizzato nel 1914 ecompletato, dopo successivi ampliamen-ti, nel 1942 risulta oggi infatti struttural-mente ed impiantisticamente inadatto,rispetto alle moderne esigenze della me-dicina e degli standards minimi di sicu-rezza; neppure le integrazioni e le ristrut-turazioni succedutesi negli anni hannogarantito all’Ospedale di Borgo Trento unsufficiente adeguamento alle evoluteesigenze dei malati. Al contrario, la rea-lizzazione del Geriatrico, poi del corpomaterno-infantile e del nuovo prontosoccorso con rianimazione e, infine, diquello che sarebbe diventato il nuovoparcheggio sotterraneo per il personale,pur tamponando le singole emergenze erisolvendo momentaneamente le specifi-che necessità, hanno paradossalmenteaggravato una situazione complessa, cheevidentemente poteva essere risolta so-lamente con un intervento più radicale.

L’attuale impianto a padiglioni infatti ri-duce sensibilmente l’efficienza e le capa-cità potenziali dell’ospedale, palesandolimiti legati alla irrazionalità dei percorsi,alla carenza sotto il profilo alberghiero edella privacy ed obbliga tuttora l’Aziendaospedaliera ad ingenti sforzi organizzati-vi e ad evidenti diseconomie, a causa del-le continue e sempre più frequenti ma-nutenzioni. Non a caso le moderne tecniche co-struttive prevedono per gli ospedali il ri-corso al “monoblocco”; ed è infatti gra-zie ad un edificio “monoblocco” che ungruppo temporaneo di progettisti havinto sul finire del 1999 il concorso diidee, bandito dall’amministrazione degliIstituti Ospitalieri di Verona con l’obiet-tivo di realizzare un nuovo Polo Chirur-gico, più razionale ed efficiente. La pro-posta progettuale del gruppo formatoda Studio Altieri S.r.l. (capogruppo ecoordinatore progettuale), studio VonGerkan Marg und Partner (progetto ar-chitettonico generale), lo Studio LandS.r.l. (progetto aree verdi), la TIFS inge-gneria S.r.l. (progetto impianti elettrici emeccanici) e Studio S.TE.P. (progettoimpianti idrici), ha avuto la meglio sugli

altri 18 concorrenti partecipanti.Nei mesi successivi alla segnalazione delprogetto vincitore, in città come tutti ri-corderanno, si fece un gran parlare dellascelta fatta in relazione alle diverse valu-tazioni sull’evoluzione delle future nuovestrutture sanitarie: mentre l’Amministra-zione Regionale e l’Azienda Ospedalierapremevano per la radicale ristrutturazio-ne dell’ospedale come da progetto, l’Am-ministrazione Comunale sosteneva unasoluzione che prevedesse la realizzazionedi un moderno ospedale, costruito ex-novo e decentrato rispetto al centro cit-tadino (ad esempio l’area dell’ex semina-rio, a San Massimo). Alla fine hanno pre-valso le ragioni dell’Azienda Ospedalierae, in considerazione anche dell’iter ormaiavanzato e dei finanziamenti già stanzia-ti, si è optato per la costruzione di unnuovo Polo Chirurgico su un’area di circamq. 10.000, nella zona compresa tra i pa-diglioni esistenti dell’Ospedale CivileMaggiore ed il Geriatrico. Nel Luglio del2004 il cantiere ha avuto inizio; un annodopo, il 20 Luglio del 2005, si sono con-clusi i lavori per la costruzione delle ope-re propedeutiche descritte dalla cosid-detta “fase 0”; opere per circa 9 milioni di

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1. Planimetria del progetto2. Particolare di facciata3. Vista dal parco4. Concept5. Modello6. Vista dall’atrio d’ingresso

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euro che includono una cabina elettrica euna centrale per i gas medicali (poste sullato di via Mameli) e una centrale tecno-logica (termica e refrigerante) che si af-faccia su Lungadige Attiraglio. Attual-mente il cantiere attraversa la “fase 1”, laquale prevede la costruzione del grandeedificio ospedaliero a corte, costituito da5 piani fuori terra (3 piani per le degenze,uno ciascuno per le rianimazioni e il day-surgey) e 3 piani interrati (destinati aospitare le sale di sterilizzazione, gli spo-gliatoi, le 32 sale operatorie e l’annessaradiologia): questa fase avrà una durataprevista di 3 anni; seguirà successiva-mente la “fase 2”- durata circa 18 mesi –con la realizzazione della piastra sotter-ranea dei servizi di diagnosi e cura, al disopra della quale è previsto un giardinopensile.Una prima analisi del progetto, evidenzial’intenzione di relazionare il nuovo “bloc-co” chirurgico con le restanti strutture apadiglione, destinate ad ospitare i futuriservizi specialistici, attraverso un “dialo-go” fatto di allineamenti e volumetrieproporzionalmente affini, con il compitoulteriore di “filtrare ed armonizzare” laretrostante mole del polo chirurgico; tali

elementi architettonici sono in gradoquindi di sottolineare il rapporto spazialetra il luogo principale deputato alla de-genza (l’edificio a pianta centrale) e glispazi annessi (il portico, la piazza ed ilparco), al fine di favorire una comparte-cipazione sul piano architettonico - maanche e soprattutto dal punto di vista so-ciale - con il contesto urbano, del quale“l’insula” ospedaliera è ormai innegabil-mente divenuta parte integrante. L’ideainoltre di concepire il nuovo polo chirur-gico come un “ospedale nell’ospedale”,ossia una sorta di “matrioska compositi-va” che garantisce un nuovo ambito di ri-servatezza ai pazienti, sembrerebbe risul-tare vincente; tale accorgimento ha per-messo infatti di considerare il nuovo par-co come uno spazio architettonico ac-cessibile alla cittadinanza e quindi di so-stituire il precedente “recinto” ospedalie-ro con un “sistema permeabile” ed appa-rentemente senza limiti; pur garantendoal nuovo polo chirurgico ed alle altrestrutture ospedaliere limitrofe il dovutogrado di protezione e privacy, caratteri-stiche irrinunciabili e di cui un luogo de-stinato alle cure ed al riposo indubbia-mente necessita.

Al fine della piena attuazione del proget-to e della effettiva realizzazione del par-co, si rende necessaria la demolizione ol-tre che di alcuni padiglioni, anche dell’at-tuale corpo edilizio che ospita il prontosoccorso – edificio tra i più recenti all’in-terno del complesso ospedaliero - che di-viene palesemente un elemento comple-tamente estraneo al nuovo sistema com-positivo. La trasparenza delle facciate, accentuaulteriormente il dialogo tra gli edificipreesistenti ed il nuovo; ed amplifica, inmaniera determinante, l’effetto umaniz-zante anche negli spazi interni: attraver-so le grandi superfici vetrate la luce potràdiffondersi sia negli spazi più privati (ca-mere di degenza e zone di diagnosi), chein quelli pubblici (l’atrio e l’ampia hall diingresso, destinata ad ospitare un centi-naio di poliambulatori ed alcuni negozi).La variazione di luce e di colori naturaliviene altresì amplificata dalla presenzadel giardino a copertura della piastra tec-nologica; tutto ciò, in combinazione conraffinate soluzioni estetiche (giochi d’ac-qua, presenza di una diffusa vegetazioneanche all’interno degli spazi comuni ca-ratterizzati da volumi volutamente ariosi

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e sovradimensionati), contribuisce ad in-gentilire un’architettura per sua naturasobria, ma funzionale. Tali geometriesemplificate consentono, datosi lo stret-to rapporto simbiotico tra la sensazionedi isolamento e lo stato d’animo del pa-ziente, di rendere accogliente e sdram-matizzante un luogo che solitamente ètutt’altro che piacevole. Un’attenzioneparticolare sembra essere stata rivoltaanche alla distribuzione dei flussi di ac-cesso alla struttura: su Lungadige Attira-glio è prevista la collocazione dell’ingres-so delle emergenze dirette al nuovoPronto Soccorso prospiciente l’Adige,permettendo conseguentemente una ri-distribuzione di superficie dei flussi car-rabili e pedonali diretti al polo chirurgicoe alla stessa piastra servizi (centro tra-sfusionale e prelievi, le radiologie e i la-boratori). Quest’ultima è a sua volta col-legata ai padiglioni rimasti, tramite unsistema di percorsi interrati che, su livellidistinti, permetteranno il flusso degliammalati, la distribuzione impiantistica ela movimentazione dei materiali. Alla lu-ce di tale sistemazione dei flussi viabili-stici, Piazzale Stefani sarà alleggerita diparte del traffico che attualmente gravi-

ta intorno all’accesso principale esisten-te; l’accesso di via Mameli verrà invecemantenuto sotto forma di “varco aperto”verso il futuro “giardino romantico”, cheè previsto nell’area tra il nuovo Polo Chi-rurgico, l’attuale Geriatrico e l’arteriastradale: un elegante spazio verde appar-tato e tranquillo in cui passeggiare. Ine-vitabilmente, seppur ridistribuiti su piùaccessi, i nuovi flussi accentueranno il“carico veicolare” sull’intera area limitro-fa del quartiere; anche in considerazionedi una permanente carenza di numeroparcheggi nella zona. La soluzione po-trebbe essere individuata nell’utilizzo, al-lo scopo di mantenere ai margini il flussocarrabile, di alcune aree vicine: ad esem-pio quella adiacente all’obitorio o, in al-ternativa, lo spazio sottostante all’arearacchiusa tra via De Lellis e LungadigeAttiraglio; infine lo stesso Piazzale Stefa-ni, potrebbe ospitare un parcheggio in-terrato.Il progetto quindi, considerando anche ledimensioni ragguardevoli dell’intervento,evidenzia che il limite o comunque lamaggior lacuna riscontrabile, consisteverosimilmente nella mancanza di unostrumento urbanistico tangibile e di una

pianificazione territoriale antecedente,capace di fornire indicazioni precise e di“guidare” il singolo progetto architetto-nico, in completa sintonia ed armoniacon l’evoluzione urbana del contesto incui è calato. Ma questa è un’altra storia,o forse … la solita.

Committente: Azienda ospedaliera “Istituti Ospitalieri di Verona”Importo lavori:7 203.295.913,187 19.334.820,44 per opere propedeuticheSuperficie totale: mq. 96.296Piani fuori terra: n° 6 + 1 piano tecnicoPosti letto complessivi: n° 513Sale operatorie: n° 24 + 6 per day surgeryArea di degenza: mq. 27.800Area di diagnosi e cura: mq. 33.695Area direzionale: mq. 7.650Connettivo ed impianti: mq. 21.000

Coordinamento progettuale e direzione lavoriopere edili e strutturali:Studio Altieri s.p.a.Progetto architettonico generale e direzione artistica: Studio Von Gerkan, Marg und partnerProgettazione e direzione opere a verde:Land s.r.l.Progettazione e direzione impianti elettrici e meccanici:TIFS Ingegneria Fellin-SiperProgettazione e direzione impianti idrici:S.T.E.P.

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von gerkan, marg und partnerAnna Maritano

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Nel 1990, dopo trentacinque anni di atti-vità, lo studio von Gerkan, Marg und Part-ner (GMP), fondato nel 1965, si trasferiscein una nuova sede in riva al fiume Elba inaffaccio sul fronte-porto di Amburgo. Illuogo di lavoro è da sempre per tutti gliarchitetti non solo uno spazio tecnico, mauna dimensione in cui riconoscere il sensoe la profondità del pensiero, nel quale siricerca e si realizza il confronto fra teoriae prassi, luogo dove si sperimenta la pro-pria concezione dello spazio privato epubblico insieme. Così sembra davvero es-sere anche per lo studio GMP ad Ambur-go, un luogo capace di riassumere l’interopercorso della loro ricerca architettonica.Nello stesso modo, sfogliando i dieci volu-mi che illustrano l’intera opera dello stu-dio GMP, scorrono davanti agli occhi alcu-ne fra le più importanti trasformazioni ur-bane realizzate nel dopoguerra. Progetta-zione e realizzazione di grandi infrastrut-ture, aeroporti, stazioni, edifici pubblici,edifici residenziali, gallerie, musei, scuole,fiere, centri sportivi nel mondo ma soprat-tutto in Germania, a Berlino, Düsseldorf,Bonn, Monaco, Francoforte, Stoccarda, adAmburgo. Amburgo in particolare, cittànella quale lo studio GMP ha cominciato

la sua incredibile avventura progettuale,dove tutt’ora ha la sua sede più rappre-sentativa, città che rimane la fonte inizia-le degli studi di analisi urbana. Ma vi è inqueste pagine molto di più, ritroviamo in-fatti il racconto di una attività complessae articolata, una storia intensa di ricercasull’architettura; vi aleggia il raccontodella trasformazione insieme violenta eveloce che hanno subito le nostre cittànegli ultimi quaranta anni, città diventatesempre più estranee e stranianti, semprepiù dominate da un’indole commerciale edall’immagine. Guardando i progetti dellostudio GMP emerge profondamente comeanche queste architetture siano immersenella complessità delle trasformazionidelle nostre città, come esse siano in gra-do di raccontarci insieme il nuovo e il vec-chio, come raccolgano suggestioni pre-senti e passate e si radichino dentro lacultura della città e dei luoghi che co-struiscono, come esse siano appunto ca-paci di narrare una storia. Ma nello stessotempo questi progetti appaiono forte-mente legati alla ridefinizione di una im-magine. Guardando alle molte architettu-re realizzate dallo studio GMP, penso acome sia diversa l’Amburgo che svelano:

una città solare, strutturata, fortementecaratterizzata dalla presenza dell’acqua,ricca e in continua trasformazione. La sede del Centro tedesco-giapponesead Amburgo (1991/1995) si allaccia persenso e ruolo urbano alla grande tradizio-ne architettonica sviluppata ad Amburgonegli anni Venti, una scuola costruitasiintorno ai progetti e all’opera teorica diFritz Schumacher e Fritz Höger. Il proget-to recupera l’architettura del mattonerosso, la vibrazione dell’apparato murarioe insieme il rigore della partitura di fac-ciata, l’emergere netto dei volumi, laframmentazione delle parti così comel’innesto di elementi altri, leggeri e vi-branti alla luce e ai riflessi dell’acqua. Unprogetto ricco di riferimenti formali, checerca anche nell’impostazione planivolu-metrica di recuperare la complessità ur-bana di quella stessa tradizione. Alcuniprogetti meno recenti realizzati sempread Amburgo, come la Zürich-Haus (1988/1993) o la copertura del cortile del Mu-seo di storia di Amburgo (1989), operaimportantissima realizzata tra il 1914 e il1923 da Fritz Schumacher, dimostranocome l’opera dello studio GMP sviluppiun confronto, ormai inevitabile, fra tecni-

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1. Nuova Fiera di Lipsia (1993 – 1995)2. Lerther Banhof, Berlino (1993-2006)3. Stadio Olimpico di Berlino (1999-2004)4. Fiera di Rimini5. Sede centrale di GMP ad Amburgo (1990)6. Centro tedesco giapponese ad Amburgo (1991-1995)

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che realizzative avanzatissime e sofisti-cate scelte formali, in una continua ricer-ca in cui la fusione fra tradizione e inno-vazione è fra le caratteristiche più signi-ficative. L’edificio per la sede delle Rap-presentanze regionali del Brandeburgo edel Mecklemburgo-Pomerania a Berli-no, (1998/2001), rappresenta per moltiaspetti un caso singolare all’interno del-l’attività dello studio GMP. Si tratta infat-ti di una palazzina di quattro piani fuoriterra da destinare a sede di due impor-tanti rappresentanze regionali, collocatanell’area del Ministergärten, una delleparti più delicate e complesse di Berlino.L’area, compresa tra Postdamer Platz eLeipziger Platz a sud e la Porta di Bran-demburgo e l’Unter den Linden a nord, èstata nel corso del tempo luogo di molteattività centrali, amministrative e dire-zionali della città, ed è stata quindi radi-calmente trasformata dalla costruzione edalla successiva demolizione del muro diBerlino. Il progetto affronta dunque untema limitato dal punto di vista dimen-sionale ma insieme carico di importanticonnotazioni simboliche e rappresentati-ve. É forse proprio la resistenza l’elemen-to che più colpisce di questa architettura

e che insieme ci riporta al principio gene-rale di molte opere dello studio GMP. Es-so infatti appare un edificio costruito perresistere, per durare nel tempo, e insiemeper mostrare, dentro il flusso inarrestabi-le e la velocità di trasformazione e dicambiamento che travolge le grandi cittàd’Europa e del mondo, come le figure del-l’architettura si fissino e si definiscanonel tempo; un’architettura solida, com-patta e precisa come la figura di un trat-tato che è anche un punto di resistenza,un’alternativa possibile dentro la città.1

La Dresdner Bank in Pariser Platz a Ber-lino (1995/1997), un altro importanteedificio per uffici, presenta una difficoltàdata dalla posizione del lotto caratteriz-zato un unico affaccio su strada e unagrande profondità. Il progetto si risolvecon un unico affaccio pubblico, regolareper forma, dimensione, materiali e parti-tura di facciata. Mentre dal punto di vistafunzionale la soluzione di distribuire l’in-tero edificio attraverso il foyer centralecircolare, di 31 metri di diametro e di da-re l’accesso agli uffici attraverso ballatoiaffacciati su questa grande corte coper-ta, riconduce le scelte progettuali tuttedentro la tradizione classica europea del-

l’impianto dei grandi edifici pubblici.Gli stessi principi si ritrovano con estre-ma chiarezza nei i progetti per le grandiopere a cui lo studio GMP partecipa congrande successo. Gli impianti fieristici, adesempio, come la Fiera di Rimini (1997/2001) o la Fiera di Lipsia, si costruisconosempre tenendo conto del legame con iprincipi architettonici delle grandi operedel passato. Il quartiere fieristico di Rimi-ni ad esempio si sviluppa lungo due assi,perpendicolari far loro. Un ingresso se-gnato da torri luminose, una grande cor-te e il lungo asse di attraversamento, in-dividuato dai portici che affacciano suuna grande piscina e che mettono a lorovolta in collegamento i dodici padiglionilaterali, caratterizzati da ampie copertu-re a volta in legno lamellare, sono gli ele-menti caratterizzanti l’intero schemacompositivo. I caratteri fondativi, nati daiprincipi monumentali e ripresi nei grandiprogetti europei dell’Ottocento, qui ven-gono messi in opera in modo estrema-mente sofisticato grazie ad una avanzataricerca sulle tecnologie contemporanee. Di grande interesse ad esempio la ristrut-turazione e la realizzazione della nuovacopertura della Stadio Olimpico di Ber-

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lino, (1999/2004). Il progetto di concorsovinto nel 1999 prevede che il master plandi Werner March proposto nel 1936 ri-manga sostanzialmente invariato, e chele addizioni richieste nel bando per l’ade-guamento dell’edifico alle nuove esigen-ze sportive vengano localizzate nel sot-tosuolo, in un’area esterna allo stadio,proprio per non modificare l’immaginestorica dell’antico edificio. La nuova co-pertura, realizzata con una struttura inacciaio reticolare molto leggera, si inter-rompe in corrispondenza della torre,mettendo cosi in evidenza, anche dall’in-terno dell’area di gioco, il ruolo forte-mente urbano dello stadio olimpico. Una foresta di diciotto giganteschi alberidi acciaio, ramificati fino all’infinito, co-stituiscono il poetico paesaggio del Ter-minal 3 dell’Aeroporto di Stoccarda(1998/2004). Una straordinaria interpre-tazione delle potenzialità della ricercatecnologica e insieme della possibilitàdella rappresentazione di un’idea archi-tettonica, espressione di una cultura ra-dicata nel pensiero dell’architettura mo-derna, del pensiero illuminista.Una ricerca della leggerezza che prose-gue nel progetto dell’Aeroporto di Berli-

no-Brandeburgo, concorso vinto nel1998 e in via di sviluppo. Abbiamo a di-sposizione solo alcune immagini di stu-dio, ma già si intravede il desiderio diunire, insieme ad un master plan genera-le costruito su una assialità rigorosa, latrasparenza e la leggerezza già speri-mentati a Stoccarda e prima ancora adAmburgo. Immagini che in un certo sen-so riconducono ai disegni delle grandiExpo ottocentesche, all’immagine inde-lebile del Crystal Palace di Paxton.A Berlino, sul sito della storica LehrterBahnhof, è attualmente in costruzione lapiù importante stazione europea. La nuo-va Stazione Centrale di Berlino (1993/2006) è infatti il punto di intersezione frale linee est-ovest e nord-sud dei treni In-terCity, le linee metropolitane e le lineeferroviarie regionali della capitale tede-sca. Organizza interscambi tra linee nord-sud che corrono a quindici metri sottoter-ra, passando al di sotto del fiume Spree edel Tiergarten, e linee est-ovest che cor-rono invece a dieci metri sopra il livellodella strada. I principi architettonici chehanno guidato lo sviluppo del progettosono stati legati proprio all’importanteruolo che un edificio di questa importan-

za deve assumere: un ampia e leggerissi-ma copertura vetrata a volta, mette inevidenza il ruolo dei binari nel paesaggiourbano. Osservando insieme la lunga seriedi concorsi e progetti realizzati dallo stu-dio GMP, quelli analizzati in questo arti-colo e i molti qui non citati, essi sembra-no costruire un percorso, una ricercacompositiva mai interrotta che sembra ri-partire ogni volta da elementi noti, riferi-menti certi e procedere quindi, per gradisuccessivi di astrazione, a ricondurnel’immagine a poche ma straordinarie fi-gure della cultura architettonica europea.

Anna Maritano nata a Torino nel 1966, si è laurea-ta presso la Facoltà di Architettura del Politecnicodi Torino. Nel 1994 ha conseguito il Prix de Romepour l’Architecture presso l’Accademia di Francia aRoma e nel 1999 il titolo di dottore di ricerca pres-so la Facoltà di Architettura dell’Università di Ge-nova. È professore a contratto presso la Facoltà diArchitettura dell’Università di Genova. Svolge atti-vità di libero professionista e partecipa a progetti diconcorso nazionali e internazionali. Ha pubblicatosaggi e tenuto lezioni presso scuole di architetturaitaliane e straniere, nel 2005 è stata Visiting Pro-fessor presso il Departamento de Arquitetura e Ur-banismo dell’Universidade de São Paulo, Brasile.

NOTE:1. Angelo Lorenzi, Architetture costruite per resistere, inAIDN, Rivista Internazionale di Architettura, n. 10/2006.

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7. Copertura del cortile del Museo di Storia ad Amburgo(1989)8, 9. Sede delle rappresentanze regionali del Brandeburgo edel mecklemburgo-Pomerania a Berlino (1998-2001)10. Terminal 3 dell’Aeroporto di Stccarda (1998-2004)11. Aeroporto di Berlino-Brandeburgo, Berlino (1998-)

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Se c’è una cosa che proprio non si può dire diGiancarlo Carnevale è che manchi di chiarezza.Si può non essere d’accordo sulle sue opinioni, sipuò anche dichiararlo apertamente, magari scri-vendogli una lettera o una e-mail, ma non si puòaccusarlo di voler cospargere i suoi scritti di er-metici e fumosi geometrismi dialettici. Per quei pochi architetti che leggono ancora i te-sti questa cosa basta e avanza per annunciare unpiccolo miracolo. A cura di Carnevale è uscito da poco un libro, Aregola d’arte, che raccoglie saggi di diversi au-tori sul tema della costruzione. Il libro è di persé degno di nota sia per le tesi espresse che per

le voci autorevoli che vi partecipano (tra gli al-tri Purini, Sinopoli, Rizzi, Montuori). A porre inmaggior evidenza la raccolta è il saggio che laconclude a firma del curatore stesso. Realismotragico, questo il titolo del pezzo, accende i ri-flettori su tematiche scottanti su cui vorrei chesi aprisse una discussione.Introdotto da una serie di desolanti scatti foto-grafici realizzati nell’hinterland veneziano (veda-si foto pp. 58, 59, 78), il saggio di Carnevale sioffre come una riflessione breve e tagliente sullaparticolarità della situazione italiana, dove ai ra-ri esempi di qualità si contrappone la pervasiva etrionfante diffusione di una sottocultura archi-tettonica che produce quantità allarmanti diopere brutte, sgrammaticate, talmente sbagliateche non passerebbero nemmeno ad un esame delprimo anno.Troppo facile accusare gli architetti, dirà qual-cuno.Frase forse un po’ di parte ma che contiene sicu-ramente una porzione di verità. Il problema ècomplesso e qualsiasi ragionamento critico serionon può che essere articolato e proiettato ad in-dagare le diverse sfaccettature del fenomeno. Èquesto il merito del saggio di Carnevale, merito acui si aggiunge la già citata chiarezza e, cosa danon sottovalutare, una confortante brevità.Al servizio dei più pigri mi proverò, di seguito, ariassumere le questioni più interessanti poste sultavolo del dibattito. Vi è in Italia una forte proliferazione di un’ar-chitettura grottesca, lontana dal professioni-smo colto e dall’accademia. Quest’architetturaè molto diffusa ed è dotata di un mercato cosìvasto da rappresentare ormai la maggior partedella produzione edilizia esistente. Pur non es-sendo aprioristicamente definita da manuali oaltri testi, la produzione in oggetto presentadelle evidenti codificazioni, quasi delle regoleche ne fanno un vero e proprio genere, un lin-guaggio strutturato e riferito ad un preciso tes-suto sociale.La diversità evidente tra queste costruzioni equelle che compaiono sulle riviste di settore rendepalese con inequivocabile chiarezza la spaccatura

esistente, nel nostro paese, tra la cultura architet-tonica alta e quella bassa, una spaccatura alimen-tata dalla compiaciuta autoreferenzialità dei duemondi in opposizione. Il divaricamento inizia negli anni Cinquanta, sisviluppa nel periodo del boom, per poi assumerenel presente caratteri di permanenza e stabilità.Tra i motivi di questa scissione vi è la delusionesofferta, da parte del grande pubblico, nei con-fronti dei modelli proposti dalla cultura alta, vi-sti come lontani dal comune gusto del bello esentiti come manifestazioni altezzose e sprez-zanti dell’architettura d’autore. L’incomunicabi-lità tra accademia e utenza porta, nel tempo, alraggiungimento di un distacco consenziente ge-stito, da una parte, con aristocratica sufficienza,dall’altra, con dichiarato disamore. Il divorzioprovoca l’anarchica deriva grottesca dell’archi-tettura non colta che si esprime in un’orgia fa-stosa e fuori controllo.Le due culture si riavvicinano solo nella brevestagione del post-modern. Il nuovo stile, lan-ciato in Italia dalla Strada Novissima e accom-pagnato dall’annuncio enfatico della fine delproibizionismo, riapre la pratica professionale

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Sul realismo tragicodi Giancarlo CarnevaleA regola d’artea cura di Giancarlo CarnevaleOfficina Edizioni, 2006pp. 206od

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all’uso di stilemi tratti dalla storia e dalla tradi-zione. Tuttavia, l’adesione al movimento post-moder-no, segna l’inizio di un fraintendimento perico-loso. Le nuove immissioni linguistiche scatena-no impulsi formali fino ad allora repressi che siesplicitano in deformazioni pulp. Il nuovo lin-guaggio piace all’utenza che lo fa proprio e lodiffonde su tutto il territorio italiano. L’adegua-mento dell’imprenditoria alle richieste dellacommittenza e la comune convergenza verso ilnuovo stile chiude il cerchio. Il sistema diventaeconomicamente e culturalmente autosuffi-ciente. Si determina un impermeabile circolovizioso alimentato dalla domanda e dall’offerta.La figura dell’architetto si allontana drammati-camente dalla ricerca e dall’innovazione e per-de di credibilità. Si afferma un’idea di architet-tura che supera i propri referenti istituzionali.Università, riviste di settore, ordini professiona-li si chiudono in sistemi bloccati ed auto-refe-renziali tragicamente incapaci di interagire conla realtà del paese.

(Filippo Bricolo)

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odeonNuovi bar a Verona 2:Caffè Anselmi in Piazza delle Erbe

Progettista: Arch. Aurelio ClementiAnno di realizzazione: 2006

La filosofia dell’intervento in Piazza delle Erbe aVerona è abbastanza evidente: creare un luogoche garantisca continuità all’intorno della piazzastoricamente e architettonicamente più impor-tante della città. Difficilmente nuove tendenzearchitettoniche che tentano spesso di creare unospazio autoreferenziato avrebbero potuto inne-starsi così bene nella trama di archi e volte checaratterizzano il lato di maggior prestigio dellapiazza. Motivo, questo, che ha suggerito al pro-gettista di riprendere materiali legati profonda-mente al luogo come il legno e la pietra, e di ri-

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proporli senza estreme ricerche formali, ma cer-cando, pur nella sua evidente contemporaneitàun legame costante con atmosfere gia respiratee qui reinterpretate. Entrando e fermandosi ad osservare riemergonocon piacere gli spazi caldi ed avvolgenti dellaprima metà del secolo dei bar viennesi realizzatida Adolf Loos (l’American bar per esempio), dovel’ornato diviene semplice materia e la funziona-lità un attributo obbligatorio.Come non immmaginare un Maigret consuma-re un Pernot appoggiato al banco, così voluta-mente grande da confrontarsi con l’intero pla-teatico e non solamente con l’interno del bar,oppure pensare Hemingway che sorseggiandoun cocktail e raccontando delle sue imprese ve-natorie non si aggirasse, incuriosito, attorno albancone di forma diversa dal solito, frutto di unaccurato studio al fine di aumentare sensibil-mente la capienza di persone che stazionanovicino allo stesso. Ma molte altre sono le im-magini evocate da questo progetto, situazionisolo delicatamente suggerite, tali da rendereuno spazio di dimensioni abbastanza limitate,un luogo, che oltre alla sua funzione socializ-zante, al suo apparire formale, sa aggiungere

un valore storico, o meglio sa stratificare diver-se situazioni temporali che regalano al clientecontenuti e significati sui quali è piacevole sof-fermarsi.Appare quindi palese la qualità intrinseca delprogetto: il rifiutare collocazioni temporali pre-cise, ma al contrario, creare un ambiente che daquesto punto di vista rimane difficilmente data-bile o riconducibile ad uno stile evidente, rappor-tandosi così più facilmente alla più che millena-ria stratificazione di materiali, elementi architet-tonici e funzioni della piazza antistante.Entrando nel bar, una volta in legno con innestidi onice retroilluminato, metafora del cielostellato, dilata improvvisamente lo spazio, masubito il grande bancone incalza. Rivestito dilegno, onice, ottone (materiali che nella loropulizia e rigore compositivo richiamano evi-denti caratteri asburgici) diviene l’elementoprincipale del bar – una macchina per venderecocktail - pienamente riuscita, che gode, inol-tre, di una felice posizione rispetto all’esternoverso il quale è proiettato: i serramenti dell’en-trata, completamente ripiegabili, permettono,infatti, una suggestiva visione della piazza. Pur-troppo per quasi tutta la settimana questa vie-

ne seriamente ostacolatadall’incombente presenzadei massicci banchetti di-slocati nella piazza; ed ineffetti si può ormai soloconsiderare con amaraironia che del diminutivo“banchetto” riferito a benaltra attrezzatura atta al-la vendita temporanea siarimasto solo il nome e as-solutamente non più néforme né dimensioni. Dal piano terra si può scen-dere verso un piano inter-medio, utilizzato comeespositore di bottiglie e co-me elegante deposito, di-pinto anch’esso dalla luceche l’onice lascia trasparire.

L’ultimo livello, il più basso, accoglie i bagni checon raffinata eleganza accolgono il cliente, cheimmerso nel rosso delle sue piastrelle, affronta cu-rioso e probabilmente stupito l’eventuale attesa.I collegamenti verticali tra i tre spazi gia strettied angusti sono stati volutamente colorati di ne-ro, tali da porsi in antitesi agli spazi più lumino-si che vengono così a livello percettivo ampliati eresi più interessanti. Tecnica questa già utilizza-ta da Wright, esperto nel creare nelle sue nume-rose abitazioni percorsi che alternassero costri-zioni ad improvvise dilatazioni spaziali, che vienequi ripresa, sfruttando sapientemente le preesi-stenze, di non facile gestione.Unica nota stonata la sistemazione (non volutadall’architetto) di un maxischermo sulla volta li-gnea, che rovina decisamente l’immagine del lo-cale e soprattutto della volta stessa.

(Andrea Benasi)

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Un progetto differito:Aldo Rossi a Montecatini Terme

Progetto architettonico: Aldo Rossi con MarcoBrandolisio e Luca Trazzi, 1994-1997Progetto esecutivo e coordinamento:Marco Semprebon, S. Ambrogio di ValpolicellaDirezione artistica: Gian Arnaldo Caleffi, VeronaStrutture: Franco De Grandis, VeronaFondazioni speciali: Bruno Bianco, MilanoImpianti: Francesco Zanini, Giulio Giavoni e Riccardo Tognetti, VeronaSicurezza: Giorgio Valentini, VillafrancaDirezione lavori: Stefano Calandri, Pistoia

È quasi giunta al termine la realizzazione postu-ma del progetto di Aldo Rossi per l’area ex Kur-saal a Montecatini Terme, sulla base di un prog-etto che risale agli ultimi anni di attività delMaestro milanese scomparso nel 1997. Un pooldi professionisti veronesi ha seguito lo sviluppo ela cantierizzazione dell’opera: Marco Semprebonha coordinato i lavori e redatto gli esecutivi,mentre Gian Arnaldo Caleffi, già collaboratore diRossi allo IUAV dal 1980 al 1992, ha supervision-ato la realizzazione in qualità di direttore artisti-co. Il complesso, che comprende uffici, attivitàcommerciali e residenze oltre a spazi culturali ericreativi, è concluso per la parte dei nuovi edifi-ci, mentre è ancora in corso il restauro dell’exKursaal che completerà l’intervento di riqualifi-cazione di questa area centrale della cittadinatoscana. Il completamento di quest’opera, che Rossi nonha potuto licenziare per esteso pur essendogiunto ad una fase avanzata di progettazione,sollecita alcune riflessioni sul valore di autentic-ità di casi analoghi. Grandi polemiche hanno fat-to seguito infatti al completamento dopo alcunidecenni di un’incompiuta di Le Corbusier, lachiesa di Firminy, per la quale si sono riesumatele spoglie del progetto in nome della devozioneal Gran Maestro della Modernità. Ma al di là diesempi limite come questo, rientra nella prassiconsolidata una discrasia sempre più evidente

tra progetto ed esecuzione, che prende il posto diquell’idea eroica del cantiere quale momentocreativo ultimo e definitivo di una architettura.L’interpretazione artigianale della professione,estesa ad ogni fase del processo realizzativo –dal primo schizzo al collaudo –, cede il campo auna parcellizzazione delle competenze secondouna tendenza allo specialismo, che bene si sposatra l’altro al contemporaneo fenomeno dell’out-sourcing. Nel caso in questione, la celebrataaffinità tra i primi schizzi ideativi di Aldo Rossi ele successive realizzazioni è l’esito di un at-teggiamento teorico che ben poco concedeva alversante costruttivo, portando consapevolmentea delegare ad altri il momento del cantiere, inmaniera non dissimile da quanto si è realizzato aMontecatini. Del resto anche la realizzazionepostuma del Teatro alla Fenice, condotta dalmedesimo gruppo che sta portando avanti l’at-tività del suo studio, non ha per queste ragionisollevato dubbi attributivi, ascrivendo pien-amente quest’opera al corpus aldorossiano. La“firma” dell’autore, racchiusa entro alcune figureed elementi ben riconoscibili, sembra del restolegittimare anche un’operazione ex post sullasua stessa opera che perpetui la lezione, facendodiventare patrimonio condiviso quei frammentidella memoria collettiva e di quella autobiografi-ca che ne hanno segnato il percorso entro l’ar-chitettura italiana del secondo Novecento.

Mercato delle ciliegiea Marcellise

Progetto: ABW Architetti AssociatiArch. Alberto Burro, Arch. Alessandra Bertoldi Anno di realizzazione: 2006-2007

Percorrendo le strade della provincia veronese indirezione delle colline nord orientali, superatoSan Martino Buon Albergo e la frazione di Mar-cellise, tra un cambio di stazione radio e una di-scussione al cellulare è facile lasciarsi sfuggire,sul versante sinistro, una piccola collina artifi-ciale, contornata da due setti in cemento e dallalinea fluida di una moderna copertura. Questo èprobabilmente ciò che appare ad un viaggiatorepoco attento e niente più, se non la memoriadella verde vallata.Chi invece abbia la pazienza e la curiosità di an-dare oltre la prima immagine quasi mimetica,avrà modo di scoprire il nuovo Mercato delle Ci-liegie di Marcellise. Il setto murario, memore altempo stesso della chiara e robusta materialitàdel basamento di Villa Girasole, che si trova apoche centinaia di metri, e dei muri di cinta del-le aree limitrofe, rappresenta assieme alla colli-netta, al piazzale e alla copertura uno degli ele-menti che, quasi con timidezza, riescono a crea-re un luogo. L’edificio, infatti, frutto di una razionale riduzio-ne a poche ma significative componenti, trovanel paesaggio un eloquente interlocutore. D’al-tronde, obiettivo principale dei progettisti era larealizzazione di un edificio funzionale che con-temporaneamente preservasse i bellissimi carat-teri del luogo. È dal luogo infatti che il progettotrae spunto, proponendo una costruzione che hale caratteristiche di elemento fondativo di unospazio antropico, ma che si riveste e quasi si na-sconde con elementi naturali.La nuova struttura, che si inserisce sul sedime deiprecedenti capannoni arretrato di qualche me-tro, va a costituire un limite tra strada e merca-to. Quest’ultimo è costituito da un basamentorettangolare, rivestito in autobloccanti simili al

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cotto, con un tipo di finitura che richiama il co-lore ed i materiali dell’aia. Su di esso si inserisceuna copertura ad un’unica falda inclinata, soste-nuta da sei colonne in ferro a loro volta inclina-te, e composta principalmente da lastre in poli-carbonato alveolare e da pannelli frangisole inlegno, che modulano il passaggio della luce na-turale. Alle spalle, verso la strada, si colloca ilmuro di contenimento della collinetta artificiale,realizzato in cemento armato con la presenza discanalature orizzontali atte a richiamare il dise-gno della pietra, elemento abbondantementepresente nella vallata. Nella parte sottostante labalza si inseriscono gli spazi di servizio accessi-bili dal piazzale coperto che guarda, nascosto altraffico veicolare, verso le colline.

Il carattere distintivo di questo progetto è il la-voro di affinamento che, a partire da una serie dielementi architettonici, ha cercato di selezionar-ne pochi e sostanziali.Assistendo ad una professione che porta l’archi-tetto ad aggiungere a posteriori elementi per co-sì dire decorativi, assistiamo in quest’occasione aun atteggiamento che porta l’architettura ad es-sere il fine di specifiche esigenze, e il tramite cheporta al loro adempimento, senza inutili superfe-tazioni formalistiche. In un momento in cui si assiste alla prolifera-zione di edifici urlanti, in cui l’immagine o laforma diventano elementi di culto, o che affon-dano nella banale, ripetuta pratica dell’edifica-re che non esprime altro che il proprio scanda-

loso grigiore, c’è ancora chi propone architettu-re meditate, “semplici”, come in questo caso, dichiara interpretazione, frutto di sintesi di diver-si bisogni.L’utilizzo del mercato è stato pensato per non li-mitarsi a quello di tipo agricolo, cioè alla raccol-ta delle ciliegie provenienti dalle varie zone del-la vallata, ma potrà accogliere nel corso dell’an-no anche feste di paese o mercatini di varia na-tura. Dipenderà dall’amministrazione comunaleutilizzare al meglio tale struttura che, in virtùdella proprie caratteristiche morfologiche, rein-terpreta in chiave contemporanea gli usi al tem-po stesso ludici e produttivi dell’aia.

(Andrea Benasi)

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Attualità dello spazio pubblico:un progetto per Illasi

Il progetto di Carlo Alberto Cegan, Giacinto Pa-tuzzi e Valeria Zalin che si è aggiudicato il primopremio al concorso di idee bandito dal Comunedi Illasi, propone un insieme significativo di in-terventi per un contesto delicato e assai compo-sito. Selezionato da una qualificata giuria (com-posta da Alessandro Tutino, Bruno Dolcetta,Claudia Conforti, João Luís Carrilho da Graça, Ar-rigo Rudi e Dino Formaggio), l’intervento ha in-teressato il sistema dei luoghi centrali del paeseche, nonostante la presenza degli edifici istitu-zionali e la prossimità con le storiche ville Pom-pei-Perez Sagramoso e Pompei Carlotti, risultavascarsamente riconoscibile come spazio collettivourbano. Rifiutando la ricerca di una forzata unitàformale, e tematizzando differenti ambiti spa-ziali per vocazione, conformazione ed utilizzo, ilprogetto si fa carico della molteplice articolazio-ne del contesto, facendo dialogare i segni dellacontemporaneità con le tracce della storia. A ra-gione gli autori parlano di architetture a volumezero, avvalendosi della definizione recentemente

introdotta da Aldo Aymonino, per si-

gnificare misura e scala degli interventi proposti.È così che il percorso di avvicinamento al centroviene segnato dallo stradon, dove il cambio di re-gistro della pavimentazione e la messa a regimedi traffico e sosta aprono il campo alla nuovapiazza del mercato. Caratterizzata da una com-piuta figura ellittica che dialoga con le formesettecentesche del giardino della villa, la piazzadel mercato rimanda in maniera esplicita al mo-dello del Prato della Valle, e individua una nuovacentralità – duale ed eccentrica - nel sistemadelle relazioni urbane. Analogamente, il suofronte a vocazione commerciale, invero di scarsaqualità, viene nobilitato con l’appellativo di li-ston, facendo leva su carattere e significato chequesta denominazione comporta. L’adiacentepiazza del municipio, sgomberata dal transitodelle auto e pedonalizzata, riassume invece ilduplice ruolo di sagrato dellachiesa e di parterre della sedecomunale. La geometria nettae incisa del luogo delle istitu-zioni, fissata dal disegno delsuolo e dei sottili dislivelli, silibera nelle forme fluide delparco alle sue spalle. Il fronteposteriore del municipio è ride-finito da una sorta di grande

pergola, involucro di un sistema di volumi sepa-rati tra loro, per consentire in maniera flessibilel’ampliamento degli uffici amministrativi e l’in-serimento di attività legate alla fruizione delparco. Prendendo a prestito, con una sorta di au-tocitazione, la conformazione dell’invaso delmercato, il disegno del parco dispone una serie diellissi spezzate sul margine, che definiscono innegativo una rete di camminamenti sinuosi trapiani erbosi lievemente rialzati. Interpretazionecontemporanea della tradizione paesaggisticadel giardino pubblico, questa figurazione riassu-me i caratteri del progetto in una immagine digusto grafico, con una connotazione organica ebiomorfa che potrà apparire in tutta la sua evi-denza nelle vedute dall’alto delle colline, tra ipruni e gli sterpi. L’attualità di questa riflessionesullo spazio pubblico contemporaneo attende

ora che la comunità di Illasi sappiaappropriarsi del progetto e concre-

tizzare così il suggestivo disegnoin spazi concreti e vissuti.

(Alberto Vignolo)

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n Le Mura e i Forti di Verona.Itinerari e percorsiFiorenzo MeneghelliCierre Edizioni, 2006pp. 96

Il sottotitolo di copertina “Itinerari e percorsi” èun’utile glossa del titolo principale, che in manie-ra diretta ci illumina sui contenuti del testo. Sitratta, difatti, di una sistematica illustrazione diitinerari storico-monumentali finalizzati alla libe-ra creazione, da parte del lettore, di percorsi terri-toriali finalizzati alla scoperta degli innumerevolimanufatti, puntuali e lineari, costituenti lo storicosistema difensivo veronese. Il testo ha un approc-cio programmatico e didattico che positivamenterisente della formazione dell’autore, insegnanteoltre che libero professionista. La lettura invita, senza indugi, ad alzarsi ed in-camminarsi in un petit tour veronese alla scoper-ta di quel vastissimo e articolato palinsesto stori-co-architettonico formato dal sistema fortificatoveronese. Un vero e proprio museo a cielo aperto

che costituisce un unicum diacronico che partedal periodo romano repubblicano quando Verona,nel 49 a.C., diviene Municipio, passando per l’epo-ca Romana Imperiale 827 a.C. – 476 d.C.) , Teodo-riciana (493-526), Comunale (1136-1259), Scali-gera (1259-1387), Viscontea (1387 –1402), Vene-ziana (1405-1797, con la soluzione di continuitàimperiale dal 1509 al 1516), Francese (1797–1814), Austriaca (1814 –1866) ed infine Italianaa quando, nel 1866, la città entrò a far parte delRegno d’Italia. Con questo “Der Cicerone” dellefortificazioni veronesi, Fiorenzo Meneghelli, no-vello Jacob Burckhardt, ci guida piacevolmente,integrando il testo, funzionalmente essenziale,con un fittissimo apparato iconografico costitui-to da mappe storiche, elaborazioni grafiche dicartografie, foto, aerofoto, rappresentazioni diplastici, schemi grafici didattici complementari alglossario dei termini specialistici. Quest’ultimo ciintroduce nell’interpretazione dello specifico vo-cabolario, indispensabile per un minimo approc-cio alla conoscenza dei termini dell’architetturafortificata così poco, colpevolmente, conosciutianche alla maggior parte di noi architetti verone-si. Siamo così, finalmente, in grado di sapere lafunzione di un muro alla Carnot all’interno della“macchina” fortificatoria austriaca piuttosto cheuna caponiera, un rivellino, una torre scudata delperiodo scaligero e quant’altro. La visita guidata non si ferma però all’internodelle mura, magistrali, ma ci porta alla scoper-ta di quel sistema di forticazioni, definito dalleTorri Massimilianee sulle Torricelle (1837-42),ma soprattutto dalla prima (1848-59) e dallaseconda (1860-66) cerchia forti, che costituiro-no l’ultimo sviluppo temporale dello storico si-stema difensivo veronese purtroppo pesante-mente mutilato, nel dopoguerra, da insensatedemolizioni a scopi viabilistici e pseudo-urba-nistici. Se dopo questo primo approccio siste-mico il lettore-esploratore avesse necessità diapprofondimenti, la bibliografia finale lo indi-rizzerà a puntuali ed indispensabili referenzesia di carattere storico che architettonico.

(Berto Bertaso)

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odeonIl Restauro di Porta San Giorgio

Committente: Comune di Verona Settore LL.PP.Responsabile del Procedimento:Ing. Sergio MenonCoordinamento al Progetto:Ing. Carlo PoliProgetto Definitivo-Esecutivo:Arch. Marco MolonDirezione Lavori: Arch. Marco MolonConsulenza e analisi statica:Ing. Ilaria SegalaCollaboratori:Arch. Erica Giacomi, Arch. Chiara Girardi, Arch. Nicoletta Forigo, Arch. Elisa Bagattini, Arch. Cecilia Stevanin

Il percorso proget-tuale di restauro suPorta San Giorgioha avuto inizio perl’improvvisa frattu-ra di una mensola disupporto ad unoscudo del fronte diepoca veneziana. Daciò è iniziata una at-tenta analisi che ha re-so evidente lo stato didegrado sulla generalitàdel monumento e stimolatol’amministrazione comunale diVerona ad un serio intervento direstauro. L’opera prevede per il fron-te austriaco1 e italiano e per gli internidelle due arcate libere interventi di sostan-ziale ripristino e pulizia dei paramenti lapidei edelle murature, per il fronte veneziano si preve-dono invece interventi prima di consolidamentostrutturale, poi di ricomposizione lapidea e solosuccessivamente il ripristino e la pulizia dei para-menti lapidei attraverso le normali operazioni direstauro conservativo. Sul tetto verranno invece

previsti interventi di sigillatura con la costituzio-ne di una nuova pavimentazione in pietra proprioin funzione di una futura quanto probabile prati-cabilità del tetto. Infatti è dal delicato problema

delle infiltrazioni d’acqua dal tetto che provengo-no la maggior parte dei dissesti, anche statici, delfronte veneziano e dei degradi da tempo presentisulle volte della porzione austriaca.

Da un punto di vista ideativi e volendo esprime-re l’atteggiamento generale che ha guidato ilprogetto, si può definire il riconoscimento del“primato della forma” come assunto capace diguidare anche la ricerca del giusto restauro e cheriguarda il ruolo della Forma Pura espressa nelmonumento. Più semplicemente il progetto valu-

ta quei caratteri formali, soprattutto delfronte veneziano, che esprimono l’arti-

colazione degli ordini delle paraste,gli incassi dei paramenti murari

negli interspazi laterali, glistessi doppi ordini “in cubi-

ca” degli ingressi pedonali,la proiezione orizzontale

degli scudi e la rilevantesporgenza della corni-ce di coronamentocome caratteri alta-mente specifici del-la stessa Porta. Essiesprimono unita-mente ai materialicostitutivi e alcomportamentostatico delle masselapidee nelle lineedi tensione interna

l’intero patrimonio“genetico”del manu-

fatto; costituisconoinoltre un’articolazione

unica e vincolante la vitastessa del monumento pro-

prio per influire nella confor-mazione dei vari degradi che a

volte,unitamente alle azioni di dis-sesto statico, producono il quadro

complessivo delle potenziali anomalie2.Con tale atteggiamento si sono affrontate sul

fronte veneziano, in aggiunta alle indagini ordi-narie sui materiali e degradi, anche altre specifi-che relative le problematiche individuate nelprogetto definitivo; le indagini al Georadar sonostate utili all’ipotesi di dimensionamento dellospessore dei conci del paramento lapideo, men-

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tre le endoscopie hanno messo in evidenza lareale situazione di scollamento tra il paramentolapideo di finitura e il controparamento in mat-toni dell’originaria cinta muraria veneziana. L’in-sieme delle risultanze analitiche ha poi delineatoil quadro complessivo della reale situazione delfronte monumentale, fissando quelle che saran-no le opere inserite nel progetto esecutivo in li-nea sia con la Legge Antisismica Nazionale checon il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio,indicando come prioritario l’intervento di miglio-ramento strutturale descritto all’art. 29 comma4. Su alcune aree del fronte veneziano saranno

pertanto operate delle perforazioni armate pervincolare stabilmente i conci maggiormenteesposti alle tensioni di carico individuati neglistudi preliminari, e successivamente verrannosaturati gli interspazi tra i conci e il contropara-mento con miscele di leganti ad alta viscosità. Altra fase importante del progetto, sopratutto daun punto di vista metodologico, è stata l’impli-cazione della ricostruzione di parti mancanti deiparamenti lapidei. Qui Il problema si è posto so-prattutto nel fronte veneziano in cui molti concirisultano effettivamente privi di piccole porzionidi modanature o fregi dovuti ad eventi bellici o

scollamenti originati da dissesti localizzati ma,anche in questo caso, si è dato corso alla valuta-zione del Primato della Forma come principio:quelle parti così importanti da definire la strut-tura stessa dell’elemento architettonico verran-no ricostruite mentre altre di minore importanzasaranno soltanto restaurate. La scelta della so-stituzione lapidea o della stuccatura morfologicaè stata definita in base alla migliore pertinenzatecnica rispetto all’ambito di intervento. Il Progetto esecutivo, entro un quadro di coeren-za generale, stimola inoltre gli enti preposti nel-l’ipotizzare altri interventi importanti sia in fun-

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zione manutentiva del restauro che per una mi-gliore salvaguardia del monumento da un puntodi vista ambientale. Per questo sono in fase dielaborazione preliminare alcune soluzioni utili almigliore drenaggio delle acque superficiali, e unadignitosa sistemazione del suolo nel primo intor-no fuoriporta unitamente all’ipotesi di limitazio-ne delle vibrazioni dovute al transito delle auto.

L’invisibile realtà della forma3

Agli occhi di chi entra in città da nord appareimmediata allo sguardo l’immagine di Porta SanGiorgio con sullo sfondo la Chiesa di San Giorgioin Braida. Ebbene per chi osserva più attenta-mente esistono dei luoghi sull’asse congiungen-te la Porta e il fronte della Chiesa che restitui-scono un’immagine univoca al punto da apparireun solo edificio. La sovrapposizione prospetticadei fronti in quanto posti su piani paralleli, lamonomatericità ed eguaglianza dei materiali la-pidei e la regola della tripartizione dei prospetti

fanno in modo che ciò accada in una visionecomposita ma strutturata.L’asse virtuale congiungente ha anch’esso unaregola che dipende dagli antichi tracciati dellepartizioni agricole di probabile epoca romana sulsito dell’attuale Borgo Trento e che hanno un an-damento a 45° rispetto il Decumano della Vero-na Romana. Nulla di strano allora se riscontria-mo che la parte rettilinea dell’asse di via Mame-li-Via Ca’ di Cozzi trova il suo punto terminalenella Cupola di San Giorgio che, al tempo della“spianà”4 veneziana trovava ampio respiro nellevisioni dei viandanti in ingresso a Verona.È proprio sulla collocazione della nuova Porta in-fatti che si sviluppano parte degli interessi diquesto studio in quanto sorge proprio sopra i re-sti dell’antica strada Romana Claudia Augusta indiretta antitesi con la precedente Porta de Soriovoluta dagli Scaligeri nel tratto di mura a nord.Importante a tal riguardo risulta la verifica fattasu un disegno attribuito ad Antonio da Sangallo

il Giovane (Uffizi A/ 814), che rappresenta PortaSan Giorgio in progetto unitario anche nella par-te urbana. Tale impianto non fu mai realizzatototalmente, ma la precisa corrispondenza di al-cuni elementi sia metrici che architettonici delfronte verso campagna rispondono al manufattoreale. Possiamo immaginare che il disegno siadatabile nel periodo della visita(1527) di Miche-le Sanmicheli con Sangallo a Verona dopo la vi-sita di Parma e Piacenza per conto del Papa Cle-mente VII. Questo dato reintroduce in modo evi-dente la figura del Sanmicheli in una nuova pro-spettiva sia per la stretta collaborazione che lolegava ad Antonio da Sangallo il Giovane che perl’esemplarità del documento. P.Davies e D.Hemsoll5 riportano al riguardo unvalido sostegno proprio relativo i caratteri grafi-ci e ortografici del disegno, dove appaiono evi-denti le misurazioni in piedi veronesi che posso-no significare due cose: una che il disegno fosseproprio del Sanmicheli in quanto risaputo abiledisegnatore, e l’altra che ne prevedesse un usopreciso nel cantiere veronese. Altro dato interes-sante riguarda la relazione della Cupola dellaChiesa di San Giorgio con la Rondella angolaredelle mura difensive che disvela la vera relazionetra campanile e cupola; in realtà l’asse congiun-gente la cupola con il campanile termina in Pa-lazzo Canossa, dello stesso Sanmicheli, per unadimensione che riproduce dieci volte la distanzaesistente tra il centro della Cupola e il centrodella rondella proprio sull’asse perpendicolare.Tale meccanismo fa si che la Cupola di San Gior-gio copra totalmente il campanile in una dellevisioni più importanti per chi accede a Veronaattraverso l’Adige, da Castelvecchio, dal ponte edai vari scorci in affaccio sul fiume; se riflettia-mo attentamente Il tema della Cupola, nel rina-scimento maturo, non poteva essere certo infi-ciato da un campanile slanciato che ne occupa-va lo sfondo e ne minacciava la rotondità.Siamo in presenza di un atteggiamento che ve-de il complesso monumentale al centro di unaserie programmata di relazioni e non a caso ilPuppi definisce San Giorgio come vero “sigillourbano”. Significativo è che tale atteggiamento

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n viene ripreso più tardi da Michele Sanmichelianche per la collocazione di Porta San Zeno. Ilprogramma figurativo si ripete attraverso l’usostrumentale dell’asse generato dall’antico trac-ciato della strada romana Gallia e traslato comecongiungente tra il baricentro della Porta SanZeno e l’asse della facciata della Chiesa di SanZeno: il risultato lascia chi guarda con atten-zione e sensibilità in una condizione di stuporee meraviglia sia per il risultato di unitarietà cheper il serrato dialogo degli stessi materiali dellaPorta con il complesso monumentale di San Ze-no. Anche in questo caso l’intuizione della pro-spettiva tiene uniti due luoghi della città attra-verso una valida retorica e tutto ciò che il Con-cina6 medita sulle relazioni tra Porta Nuova el’Arena o tra Porta Palio e il Teatro Romano perquanto riguarda la citazione nelle porte di ele-menti architettonici di quei monumenti romani,in San Zeno e in San Giorgio diviene evidenzaattraverso un utile uso della prospettiva confunzione urbana.In questa logica non deve stupire se all’internodel Lazzaretto di Porto ritroviamo i muri di se-parazione centrati sul tempietto con la stessagiacitura dell’andamento del Cardo e Decuma-no in Verona Romana, o se l’asse longitudinaledel Lazzaretto punta esattamente sul centrogeometrico del Teatro Romano e prosegue finoa San Dionigi. È probabile che queste sianosemplici registrazioni di contenuto compositi-vo, ma ciò che stupisce è che il referente cui lageometria si rapporta è sempre quel grande edorganico monumento che è la Verona Romanacosì cara al Sanmicheli non solo per gli elemen-ti architettonici che ritroviamo minuziosamen-te in ogni sua realizzazione ma addirittura perla grande realtà geometrica che essa esprimenel suo complesso palinsesto. Ciò serenamentetrova ragione anche nella Basilica della Ma-donna di Campagna che si orienta verso Veronacon lo stesso orientamento della Postumia eche interseca, in Verona, Porta Leoni per poiproseguire ad intersecare la Postumia in entra-ta proprio davanti a Porta Borsari; non a casodue accessi importanti alla Verona Romana.

Ritornando a San Giorgio ci è utile riferire che laricerca ha rilevato con un certo interesse che lacornice superiore della Porta, l’imposta del primoordine dei paramenti lapidei interni alle cappellelaterali della Chiesa di San Giorgio e la corniced’imposta dell’ordine gigante del Campanilestanno su un unico piano, perfettamente allastessa quota. Questo significa che anche presup-ponendo una reale discontinuità dei progetti edegli eventi temporali, l’idea del progettista eraquella di dare un significato al “ruolo” delle geo-metrie e dimensioni altimetriche degli edifici.L’unico criterio per il progettista era tenere insie-me tre edifici costruiti in tempi differenti e la vo-lontà di unificare attraverso i rapporti dimensio-nali una unità linguistica interna al ComplessoMonumentale. Nella Porta sono poi riscontrabilialcuni stilemi ripetuti nelle Porte urbiche; la tri-partizione del fronte come regola; la monomate-

ricità; le decorazioni e scudi come emblemi deimecenati; le modanature delle cornici dei varchipedonali così simili alle finestre in Palazzo Pe-trucci di Orvieto; la somiglianza estrema nellaforma e sezione degli scudi presenti in tutte leporte veronesi; o ancora i tondi come decoro deipunti medi delle paraste che ritroviamo in moltiprogetti. Ma per un momento pensiamo ora all’atteggia-mento che fece dire al Tafuri7: “Inoltre sia gli ar-tisti citati che Palladio o Michele Sanmicheliadottano ampiamente il metodo dell’estrapola-zione caldeggiato da Castiglione: l’antico è spes-so da loro citato per frammenti cui è assegnataaltra significazione che la lor propria”. Una defi-nizione che spinge a credere come tale concettovenne ben espresso da Michele Sanmicheli sianelle opere architettoniche dove la citazione ri-maneva entro il quadro compositivo dell’edificio

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nella relazione con il primo più prossimo intorno,che nel processo di collocazione e ideazionecompositiva alla grande scala. Un Manierismointriso di spezzatura, il suo, ma finalizzato al gio-co sapiente del progetto come ricerca della mi-gliore forma, collocazione e relazione alla gran-de scala per dare senso alla nuova urbanità diVerona. Quegli anni segnano infatti l’inizio diuna esperienza del progetto verso il territorio piùvasto, e anche Verona ne venne ben pervasa an-che per effetto della Spianà del 1517 che la di-svelò nel suo più emblematico rapporto con ilTerritorio.

Illustrazioni:p. 66 Estratto dal progetto esecutivop. 67 Schizzo di Marco Molonp. 68 Porta San Giorgio e la Chiesap. 69 Veduta del Van Wittelp. 69 Fortificazioni nei pressi di porta San Giorgio e altrovea Verona, disegno di Antonio da Sangallo il Giovane o dellasua cerchia (Uffizi, 814A)

1 L’identificazione dei differenti fronti del monumentoviene chiarita nella tavola 1 del P.D. attraverso la rico-struzione degli interventi succedutisi: per fronte austria-co si intende il prospetto intraurbano verso la Chiesaedificato dagli Austriaci nel 1840, il fronte veneziano èquello extraurbano iniziato nel 1525 mentre il fronteitaliano è quello risultante dalla breccia stradale prati-cata nel 1913.2 Lo studio delle tensioni interne al paramento lapideo èstato condotto al fine di definire le parti della Porta Ve-neziana più esposte a stati di crisi in base ai soli carichipropri.3 Sintesi dalla Relazione Storica e parte di una più ampiatrattazione in fase di pubblicazione dal titolo “La Città diMichele Sanmicheli” – Ed. Sprinter2G -Verona 2007.4 La Spianà definì per Verona non solo un valido sistemadifensivo ma decise una nuova importante immagine diVerona e un tema importante per i pittori del tempo.5 P. Davies, -D. Hemsol, Michele Sanmicheli, Electa, 2004.6 E. Concina, La Macchina Territoriale, Bari 1983.7 M. Tafuri, Ricerca del Rinascimento, Einaudi 1992.

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tre domande indispensabili a margherita petranzan

a cura di Nicola Brunelli

forum per l’architettura di qualità

Spero che voi capirete che l’architettura non ha nulla a che farecon l’invenzione di forme... L’architettura è l’autentico campo dibattaglia dello spirito.

Mies van der Rohe, Tecnica e Architettura, 1950.

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ARCHITETTIVERONA: Quali sono, secon-do la sua esperienza, i doveri e le re-sponsabilità che si assume una rivista diarchitettura, in quanto influente stru-mento divulgatore del fare architettura?MARGHERITA PETRANZAN: Sono molte-plici. Innanzitutto deve assumersi la re-sponsabilità di organizzarsi entro unorizzonte critico ed interpretativo dichiare matrici, consapevole che non èmai possibile la cosidetta ‘neutralità’ diapproccio all’architettura, perchè nor-malmente essa si presenta come mistifi-cante finzione. Se di neutralità si vuoleparlare, è unicamente una neutralità da‘ideologie’, perché, così come si leggenella dichiarazione d’intenti che comparein ogni numero di Anfione e Zeto, una ri-vista di architettura deve, secondo me,riempire il vuoto esistente attraverso lapratica concreta delle scritture (nel sensodi linguaggi) mettendole a confronto traloro. Dall’interno di una rivista l’architet-tura, che è struttura di relazione, deve ri-trovare un rinnovato rapporto con le al-tre discipline. Una rivista di architettura deve inoltrepraticare la critica della critica, che oggiè spesso rappresentata da figure profes-sionalmente poco autorevoli perché, nonappartenendo né alla categoria degli ar-chitetti che hanno quotidianamente ache fare con il ‘mestiere’, né a quella de-gli storici, che sono usi approfondire ilrapporto tra il tempo e i suoi prodotti,conoscono solo superficialmente il com-plesso fenomeno architettura, e, di con-seguenza, ne sviliscono l’interpretazioneutilizzando più frequentemente ‘mode’,al posto di collaudate modalità interpre-tative. Deve poi occuparsi di tutta la pro-

duzione architettonica, anche se a voltesolo per demolirla: produzione permeatada assenze, oggi, più che da presenze; as-senza di una committenza con un man-dato sociale forte, assenza di limiti disci-plinari e umani, ma, soprattutto, assenzadi realtà, a causa del perdurante intrecciotra mondo reale e mondo apparente tan-to da non essere più distinguibili.Un corretto contenitore ‘rivista’ deve in-fine chiedere ‘i come’ della pratica archi-tettonica, non i perché, e deve pretende-re che siano mostrati non sotto forma diideologie, ma di tecniche, che è la messain opera della cultura stessa, pur dimo-strando grande modestia nei confrontidella complessità del reale. Compito de-cisamente essenziale di una rivista èquello di presentare l’opera come fare ecome fatto, attraverso il suo farsi.

AV: Quale dovrebbe essere invece ilruolo di una rivista pubblicata da unordine professionale, quindi maggior-mente legata al territorio, ed in chemodo può contribuire a contrastare lamancanza di qualità architettonica, fe-nomeno purtroppo ampiamente diffusoanche nella regione veneta?MP: Se una rivista legata al territorio hasicuramente alcune agevolazioni per ilrestringimento del campo d’analisi, correun grosso rischio dal punto di vista dellaproposta progettuale, che può ‘provin-cializzarsi’ se si riferisce unicamente amodelli culturali che appartengono allastoria e alla cultura del luogo. Vanno si-curamente indagate le matrici che stan-no a fondamento dell’architettura chedistingue un territorio, per recuperarlesenza però troppo compiacimento. Sof-

fermarsi a riprendere stilemi formali ca-ratteristici di una regione significa anchecadere nel kitsch e ignorare ogni speri-mentazione che a livello globale l’archi-tettura sta percorrendo. Locale e globale,che spesso oggi sono in antagonismo,dovrebbero dialogare, soprattutto nel-l’individuare modalità costruttive chepossano, pur salvaguardando le specifi-cità territoriali, stare al passo con la dif-ficile ricerca della qualità del vivere chedeve caratterizzare l’architettura dellecittà, nessuna esclusa. L’oneroso e pesan-te compito di una rivista di questo tipoconsiste anche nel segnalare con grandedeterminazione le ‘derive’ che subisce laproduzione edilizia della provincia ana-lizzata, per poter porvi rimedio, eviden-ziando la non percorribilità di alcunescelte miopi e dannose. Credo tale rivista dovrebbe anche cerca-re, insieme agli esempi negativi, congrande attenzione dentro al tessutoconnettivo di città e paesi le architettu-re nuove di qualità mai individuate, edarne risalto sul piano dell’esemplaritànon solo da segnalare, ma soprattuttoda imitare.

AV: Ci parli, infine, della sua esperienzacome Direttore di Anfione e Zeto, unarivista caratterizzata dalla coerenza edalla chiarezza del programma editoria-le, che ancora resiste alle imposizionidelle leggi di mercato e che non si la-scia tentare dalle passeggere tendenzearchitettoniche alla moda.MP: Ho fondato Anfione e Zeto nel 1988dopo una stimolante esperienza di ‘ge-stione’ di una sezione della rivista mensi-le ‘l’Architettura’ di Zevi, che avevo chia-

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mato ‘Tecnologia-progetto’. La rivista na-sce come risposta alla formazione dila-gante di periodici alla ‘moda’ che forniva-no molte proposte per architetture forsesperimentali, ma poche interrogazioni sulproblema della ricerca della qualità e so-prattutto sull’essenza e sul destino dellearchitetture delle città che stavano, inquel tempo, esplodendo a dismisura e inmaniera incontrollata. Dal mio osservato-rio di provincia, da bravo architetto ‘ope-raio’ come amo definirmi, perché da qua-si trent’anni progetto e costruisco ‘spor-candomi le mani’ nei cantieri, non potevoaccettare né di passare sotto silenzio talesituazione, né potevo evitare di confron-tarmi, e di scontrarmi, con le tendenzedell’architettura internazionale. Con l’aiu-to straordinario ed importantissimo di al-cuni architetti e filosofi (Giuseppe Mazza-riol, Massimo Cacciari, Edoardo Benvenu-to, Valeriano Pastor, Adolfo Natalini, Vit-torio Savi e Paolo Valesio dalla Yale Uni-versity), dopo parecchi mesi di gestazione,ho individuato questo strano nome, pren-dendo come nume tutelare Valery, che,presentando la figura di Amphion ai suoistudenti, parlava loro dell’architettura, fil-trata da questo personaggio ispirato daApollo da cui apprende l’arte dell’edifica-re attraverso la musica. Al suono della lirale pietre informi intorno a lui diventanoarchitettura, formano una città. Nel mito è Zeto, il fratello gemello, aprendere le pietre sulle spalle per aiutareAnfione a costruire la città, e quindi eccola tecnica che arriva forte e potente adaiutare il lato poetico e creativo. Per meAnfione e Zeto sono i due volti attraversoi quali l’architettura, che è scienza (comedisse Vitruvio) si mostra. Ma era sul farsi

dell’opera che continuavo ad interrogar-mi, per decantare e comprendere il pro-cesso che porta dalla prima idea di pro-getto alla forma realizzata, e in questoprocesso quanto poteva incidere il socia-le, il politico, la storia, la memoria.Un’opera realizzata viene presentata daallora in AZ come ‘fare’ e come fatto, da-gli schizzi di progetto iniziali alle cose piùcircostanziate e legate al rapporto che ilprogettista ha con il sito, con le ammini-strazioni, con i committenti. Attraverso ledichiarazioni del progettista viene indivi-duata la genesi dell’opera, subito dopo laprogettazione di massima, la parte ese-cutiva ed il realizzato viene mostrato at-traverso immagini costruite con numero-se ‘zoomate’, per evidenziare anche ognidettaglio costruito. Dell’architettura miappassiona il progetto perché rappresen-ta la speranza per l’uomo di costruire sestesso attraverso la costruzione del pro-prio futuro, ma anche la speranza di dareun segno e un senso al proprio vivere. Miappassiona il concetto di tempo che stadentro l’architettura, ancor più che lospazio. L’architettura, quando è costruita,entra a far parte del tessuto connettivodella struttura sociale, ed è rappresenta-zione stessa del vivere dell’uomo nelmondo. È inoltre sempre stata mia inten-zione che in AZ non ci si fermasse sullasoglia della pratica architettonica, ma cisi avvicinasse, apparentandosi, alla stessadomanda che sorge nelle altre pratiche,perché sono consapevole che l’architet-tura è il luogo dove da sempre tutte lepratiche umane si incontrano e ritrovanoil loro significato; è il luogo da dove sipuò partire per interrogarsi. Posso dire,per concludere, che il fare di Mies Van der

Rohe mi ha da sempre molto coinvolta emi ha strutturata, aiutandomi a metterein atto, anche attraverso la fondazione ela Direzione di AZ quel suo fondamentalepensiero sull’architettura vista comegrande battaglia dello spirito.

Margherita Petranzan si laurea in architettu-ra allo IUAV nel 1972, e dal 1974 esercita laprofessione di architetto. Responsabile dellasezione Tecnologia-progetto della rivista“L’architettura” diretta da Bruno Zevi (1985-86), nel 1988 fonda e dirige la Rivista di Archi-tettura e Arti “Anfione e Zeto”, che si avvale diun comitato scientifico formato da Aulenti,Gravagnuolo, Pastor, Purini, Valesio, dei vicedirettori Gelli e Peressa e di un comitato dicoordinamento redazionale formato da Bira-ghi, Borsotti e Cassani. Direttore responsabiledella rivista di filosofia “Paradosso” il cui comi-tato direttivo è composto da Cacciari. Curi, Gi-vone, Marramao, Sini, Vitello. Dal 1990 al1992 dirige una collana di Estetica con S. Gi-vone e M.Donà. Autrice di numerosi saggi, hascritto il volume Gae Aulenti, Rizzoli Interna-tional, 1996. Dal 1990 al 2006 organizza nu-merosi seminari e convegni; nel 2002 è sele-zionata per la mostra internazionale Dal futu-rismo al futuro possibile, Tokyo. Nel 2005-06dirige con franco Purini il workshop Abitare laluce, Potenza. Nel 2006 collabora con Purinialla cura del Padiglione Italiano alla 10 Mostrainternazionale di architettura della Biennaledi Venezia, ed è membro della giuria del Padi-glione Italiano. Professore di Elementi di criti-ca dell’architettura presso la Facoltà di Archi-tettura Civile del Politecnico di Milano. Nel di-cembre 2006 è nominata dalla Consulta Na-zionale per le Politiche del Turismo a Coordina-tore del gruppo tecnico Territorio-Paesaggio-Architetture.

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1. Mies van der Rohe. Casa Farnsworth a Plano, Illinois1945-50.2, 3, 4, 5, 6. Alcune copertine di numeri della rivista “Anfione e Zeto”.

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Concorso di idee per la riqualificazione urbanistica, ambientale, paesaggistica ed architettonica di Piazza della Libertà, Piazza Polonia con annesso campo sportivo e Piazza Sprea in Illasi.

Giuria:Prof. Giuseppe Trabucchi Presidente Prof. Alessandro Tutino Prof. Bruno Dolcetta Prof.ssa Claudia ConfortiProf. Joào Luis Carrilho da Graça Prof. Arch. Arrigo Rudi Arch. Giovanni Castiglioni

1° premio: Arch. Carlo Alberto Cegancon Arch. Giacinto Patuzzi, Arch. Valeria Zalin

2° premio: Arch. Gaspare Paolincon Arch. Maurizio Rossi; collaboratori: Dott. Lino Paolin, Dott. Marco Maurizio Rossi, Dott. Paolo Maria Piziati

3° premio: Arch. Emanuela Zorzonicon Arch. Federica Scappini; collaboratori: dott. Luca Brandalise

Menzione: Arch. Pierluigi Grigoletti

Menzione: Arch. Maurizio Ori,con Arch. Paola Arienti, Arch. Sebastiano Brandolini, collaboratori:Dott. Daniele Cuizzi, Quargnale Maurizio,Ing. Stefano Migliaro, Ing. Marco Taccini, Dott. Nicola Azzini, Arch. Fedrico Bianchessi,Arch Giovanni Gaggia, Arch. Francesca Magri,Arch. Ezio Vancheri.

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le piazze di illasiAlessandro Tutino

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La piazza di continuo invita le distanti fi-nestre a rientrare nella sua vastità, men-tre il seguito ed accompagnamento delvuoto lentamente si distribuisce ed ordi-na tra le fila del commercio. (…)Così Rainer Maria Rilke (Neue Gedichte)descrive magistralmente la piazza di Fiu-me, nella quale pure si organizzava ilmercato settimanale. Anche ad Illasi, ilmercato del venerdì è l’occasione nellaquale “il vuoto lentamente si distribuisceed ordina” in una piazza altrimenti cu-riosamente informe.Possiamo muovere da queste suggestioniper introdurre un discorso intorno allalodevole iniziativa dell’amministrazionecomunale di Illasi di indire un concorsodi idee per il riordino urbanistico ed edi-lizio del sistema delle piazze centrali.Come è ben noto ai colleghi architetti edurbanisti, la piazza è luogo privilegiatodell’organismo urbano in tutto il mondooccidentale e soprattutto in Italia, e so-prattutto negli organismi di formazionecomunale, ed ancor più il “sistema dipiazze” specializzate, ossia destinateognuna ad ospitare e celebrare i riti col-lettivi della cittadinanza, il culto, l’orga-nizzazione civica, gli affari o il mercato.Si da il caso che Illasi disponga proprio ditre piazze contigue, che nella planime-tria del centro sembrerebbero proprioconfigurare il tradizionale “sistema dipiazze”, e invece no: le tre funzioni cano-niche sono tutte e tre collocate nellapiazza principale che peraltro, al paridelle altre due è, come già detto, curio-samente informe.Come si sia generata ad Illasi questaanomalia distributiva e compositiva èdifficile dirlo, né ci aiutano le antiche

mappe. Si direbbe che l’unica vera piaz-za, la piazza della Libertà, sia nata comesagrato della chiesa collocata al terminedello “Stradone” che collegava e collegail centro con la strada di fondovalle, eche in questa posizione abbia dovuto an-che svolgere la funzione di bivio, a Nord-Est verso il castello, il monte Tenda e lavalle Tramigna, a Sud-Est verso la con-trada Prognolo, e pertanto condizionatada questo ruolo. Le altre due piazze vice-versa sono sempre rimaste allo stadio dispazi di risulta, morfologicamente irri-solte, sicché la definizione di piazze èpuramente toponomastica. Per un comu-ne dall’impianto urbanistico di esempla-re chiarezza, impostato su due assi orto-gonali, uno dedicato alle grandi dimorepatrizie, e l’altro alle funzioni pubbliche,e dal patrimonio monumentale eccezio-nale, questa inadeguatezza della confi-gurazione del centro urbano non potevanon provocare, prima o poi, un forte de-siderio di intervento. A farsene carico, lo-devolmente, è stata l’amministrazioneguidata da Giuseppe Trabucchi, con l’ini-ziativa di questo concorso.Le finalità dichiarate del concorso eranoquelle di definire l’identità delle tre piaz-ze, del loro sistema, e delle loro relazioni;di attribuire specificità funzionale alletre piazze; di riorganizzare la viabilitàche attraversa o lambisce il centro; ditrovare uno spazio appropriato per ilmercato settimanale; di valorizzare i ca-ratteri architettonici presenti e migliora-re quelli delle quinte edificate di scarsovalore; di far confluire nel sistema cen-trale con diversa utilizzazione lo spaziodel campo sportivo dimesso.Compito non facile, occorre riconoscerlo,

ma allo stesso tempo suggestivo e sti-molante per chiunque ami misurarsi emettere a confronto le proprie capacità,l’inventiva e la fantasia.L’esito del concorso, diciamolo subito, halasciato piuttosto insoddisfatta la com-missione giudicatrice (prof. GiuseppeTrabucchi, prof. Alessandro Tutino, prof.Dino Formaggio, prof. Bruno Dolcetta,prof.ssa Claudia Conforti, arch. Joäo LuisCarrilho da Graça, Prof. Arrigo Rudi). Pos-sono aver congiurato contro un più feli-ce esito sia la stagione estiva, ovviamen-te poco favorevole, sia la brevità dei ter-mini, sia alcune caratteristiche del ban-do, che per esempio non offriva alcunaprospettiva di successiva realizzazione, oanche limitava in modo troppo rigido lepossibilità di nuova edificazione, sia l’og-gettiva difficoltà del tema, fatto sta chela partecipazione numericamente soddi-sfacente è stata però qualitativamenteinferiore alle attese. Sorprendenti, adesempio, alcune caratteristiche comunialla maggioranza dei progetti presentati:l’oggetto del concorso essendo “l’elabo-razione di un progetto unitario per la ri-qualificazione e valorizzazione urbanisti-ca, ambientale, paesaggistica ed archi-tettonica delle piazze e del campo spor-tivo dismesso”, l’urbanistica è rimasta re-lativamente trascurata e così pure glievidenti problemi della viabilità, mentregrande attenzione, con risultati a voltepregevoli, è stata dedicata al disegno ealla scenografia urbana. Quando dico che l’urbanistica è sembra-ta generalmente trascurata voglio direche non si sono visti tentativi convincen-ti di affrontare in primo piano i problemidi forma e di relazione tra gli spazi og-

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getto di intervento: queste tre cosiddet-te piazze, di cui la principale priva di unaquinta e con una quinta inadeguata, e lealtre due prive di tre lati su quattro edunque spazialmente indeterminate,nella maggioranza dei progetti sono ri-maste quasi allo stesso stadio, oppureoccupate da chioschi, fontane, giochi dipavimentazione, aiuole o alberature masenza che mai questi inserimenti appaia-no concepiti con il fine di risolvere il pro-blema della forma e della delimitazione. Anche la distribuzione delle funzioni, chein verità offriva solo l’opportunità di tra-slocare il mercato settimanale e un au-spicabile rafforzamento delle attivitàcommerciali centrali, comunque apparesempre proposta come puro provvedi-mento di ordine distributivo e mai comeoccasione per risolvere con operazioni didisegno urbano l’obiettivo di attribuireimportanza, riconoscibilità, identità, edignità di spazi centrali della cittadinan-za a questi luoghi. Naturalmente sono ben consapevole cheda molto (troppo) tempo l’urbanistica èin crisi come strumento di governo delletrasformazioni territoriali, ma mi risulta-va che proprio questa crisi aveva vicever-sa rafforzato l’interesse per il disegno ur-bano e per la rappresentazione nobiledelle virtù civiche in adeguati spazi escenografie. Scenografie come elementidi composizione urbanistica e non solocome superfici disegnate.L’esito di questo concorso suggeriscedunque qualche interrogativo preoccu-pato sulla dinamica di questa disciplina esullo stato dell’arte.Queste considerazioni poco esaltanti na-scono da una valutazione complessiva

dei quaranta progetti esaminati (su qua-rantuno presentati, uno escluso per in-completezza della documentazione). Ildiscorso cambia, per fortuna, se invecefermiamo l’attenzione sui tre progettipremiati, anche se la commissione giudi-catrice ha voluto rimarcare in aperturadel suo giudizio che nessun progettoaveva pienamente corrisposto alle attesee alle richieste del bando.Il progetto vincente (Carlo Alberto Ce-gan, Giacinto Patuzzi, Valeria Zalin) èefficacemente illustrato da una notaredazionale in altra parte di questa ri-vista, sicché mi resta solo da sottoli-neare la felice proposta di recuperare ildisegno ellittico della vasca presentefino ai primi anni del ‘900 nella stessaposizione, e qui utilizzata per organiz-zare in una forma non gratuita i banchidel mercato settimanale, ma poi anchecome suggerimento per dare forma al-le aiuole del parco a Nord della sedecomunale. Coraggiosa e interessanteanche la decisione di sopprimere lapiazza Polonia, già inesistente, occu-pandone lo spazio con leggeri volumiprogressivamente necessari alle esi-genze degli uffici comunali e portandoa ridosso di questi il verde del nuovoparco pubblico. Volutamente e sbriga-tivamente sacrificata la viabilità, allastregua di puro disturbo.Del progetto secondo classificato (Ga-spare Paolin, Maurizio Rossi, Lino Pao-lin, Marco Maurizio Rossi, Paolo MariaPiziati) è da apprezzare la ricerca deisegni e dei tracciati del passato, recu-perati nel disegno progettuale, Gli spa-zi delle tre piazze sono ricondotti adunità di ruolo attraverso un sapiente

uso dei materiali di pavimentazione.Interessante anche la soluzione dellasala ipogea sotto al parco, che risolveogni attuale e futura necessità di spazicoperti senza intaccare l’occupazionedi suolo e il verde pubblico. La viabilitàè risolta nel modo più facile, deviandoil traffico motorizzato dietro alla sedecomunale, con inevitabile sacrificiodello spazio della piazza Polonia cheinfatti anche in questo caso risulta an-nullata, a favore della viabilità e del-l’ampliamento del parco.L’esame del progetto terzo classificato(Emanuela Zorzoni, Federica Scappini,Luca Brandalise) richiede un notevolesforzo di buona volontà per superare ildisagio provocato da una relazionescritta in un italiano alquanto incerto(ai miei tempi alle elementari e alle me-die si insegnava almeno a scrivere cor-rettamente), e da una rappresentazionetutta notturna delle viste prospettiche.Una volta superati questi scogli si vienepremiati dalla scoperta di soluzioni ap-prezzabili, come il teatro dietro alla se-de comunale e il volume di risulta dellagradinata, capace di offrire spazi mime-tizzati per svariate utilizzazioni, o l’usoforse qualche volta ingombrante, masempre attentamente graduato dei sup-porti luminosi e delle luci, che diventa-no elementi della composizione spazia-le, o la coraggiosa destinazione dellospazio del parco ad una diversificazionedi funzioni.Non c’è dubbio che questo concorso haofferto ad Illasi suggerimenti e provo-cazioni che non potranno non lasciareun segno, anche se purtroppo rimanedel tutto indeterminata la probabilità di

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realizzazioni sia pure parziali di questiprogetti.È il fatto che un piccolo comune abbiaaffrontato problemi di questa naturacon un progetto di concorso così ambi-zioso che stupisce e desta ammirazione,e insieme ci conduce ad augurarci chequesta esperienza trovi imitatori e che isuoi pregevoli risultati non rimanganolettera morta.

Alessandro Tutino (Milano, 1926) è Profes-sore emerito di Pianificazione Territoriale.Ha insegnato allo IUAV di Venezia e all’Uni-versità della Calabria, dove ha diretto il Di-partimento di Pianificazione Territoriale dal1988 al 1996. Presidente dell’INU dal 1977al 1983, è autore di numerosi saggi e pubbli-cazioni. Ha svolto consulenze scientificheper enti pubblici e redatto numerosi progettiurbanistici, tra cui il PRG di Concordia Sagit-taria (VE), 1982, il Piano Particolareggiatodel Centro Direzionale e il PRG di San Dona-to Milanese, 1988-1993 (in collaborazione),la Variante generale al PRG di Paola (CS),1998 e di Sommacampagna (VR), in corso.

1. Concorso di idee per la riqualificazione delle piazze di Illasi. Progetto primo classificato: arch. Carlo Alberto Cegan, arch. Giacinto Patuzzi, arch. Valeria Zalin, Verona2. Progetto secondo classificato: arch. Gaspare Paolin, arch. Maurizio Rossi, dott. Lino Paolin, dott. Marco Maurizio Rossi, dott. Paolo Maria Piziati, Bassano del Grappa (VI)3. Progetto terzo classificato: arch. Emanuela Zorzoni, arch. Federica Scappini,dott. Luca Brandalise, Verona3

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Grottesco Padano, un dialogo con Giancarlo Carnevalea cura di Filippo Bricolo

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Il 27 ottobre 2006 con 57 voti a favore,dopo tre votazioni e un decisivo ballot-taggio finale, Giancarlo Carnevale èstato eletto preside della Facoltà di ar-chitettura dell'Università IUAV di Vene-zia. Succede a Carlo Magnani. Uomo colto e dalla parlata suadente,Carnevale coltiva da oltre trent'anni,con dedizione ed ostinato entusiasmo, ilterreno notoriamente arido della didat-tica. Chi ha avuto l'occasione di poternefrequentare i corsi è stato testimone diun autentica passione nei confronti del-l'insegnamento. In testi didattici come "Litanie e Griffo-nages" o "Caro studente ti scrivo" que-sto amore si è esplicitato in una prosachiara, ironica, non priva di suggeri-menti utili e pratici ai giovani lettori, distorie e storielle emblematiche e di slo-gan ripetuti."Non è un bel mestiere....", "Piccoli muricrescono", "Copiare, ah...copiare!", "Oc-chio alle spine". Anche gli indici dellesue raccolte testimoniano la volontà diattirare l'attenzione, il desiderio di es-sere letto e di stimolare la curiosità. Acolpire è il linguaggio utilizzato: acces-sibile, cortese, più simile al Daniel Pen-nac di "Come un romanzo" o al Ceramidi "Consigli ad un giovane scrittore" chealla prosa elitaria, ermetica e respin-gente di molta saggistica d'architettura.Non poco per un accademico.Nei testi non direttamente dedicati al-la pratica dell’insegnamento, la legge-rezza dello stile permane e si pone inriuscito contrasto con la spinosità deitemi trattati e delle opinioni espresse,sovente contrarie all’ordine costituitoe volte ad indagare le storture del

complesso e contraddittorio mondodell’architettura italiana. Alcuni esem-pi: “Chi ha paura del gusto cattivo?”che indaga le colpe e gli esiti contrad-dittori degli studi sull’analisi urbana;“Deformazioni ai margini” sul diverge-re preoccupante della cultura bassa daquella alta; le riflessioni continuativesul grottesco, iniziate dalla omonimavoce curata per il dizionario di LucianoSemerani (improntata sulle tesi di Ba-chtin e sulle opere di Plecnik) e poievolute in ragionamenti sul costruito esull’architettura non autorale come “Ilgrottesco prossimo venturo”, “Archi-tettura grottesca, una non evitabileopportunità”.A pochi mesi di distanza dalla sua ele-zione ai vertici dello IUAV esce “A rego-la d’arte”, un volume da lui curato echiuso significativamente con un sag-gio, “Realismo tragico”, in cui raccogliee riordina molte delle sue fissazioni inun percorso lineare ed affascinante chesembra tracciare un identikit precisodell’architettura italiana.La conversazione che segue ha avutoluogo nel nuovo ufficio di presidenza aiTolentini a partire dalle riflessioni suquel testo.

FILIPPO BRICOLO: “Realismo tragico”sembra far confluire in un unico per-corso gli esiti di tracciati riflessivi chesembravano tra loro autonomi. Quasiun filo che raccoglie, in un nuovo di-segno, pietre diverse. L’anima del rac-conto sembra essere il grottesco. Co-me si è evoluto questo ragionamento?GIANCARLO CARNEVALE: Inizialmenteero partito da un bel saggio di Bacthin

scritto, credo negli anni Cinquanta, unlibro su Rabelais. In quel testo lui indivi-duava il grottesco come una categoriache si contrapponeva al classico vistocome qualcosa che nasconde e rendelevigato lo sforzo, mentre il grottescoera inteso come esaltazione di quelloche lui definiva “un universo basso” equindi un mondo alla rovescia con tuttauna serie di eccessi. Si tratta di un mo-dello di interpretazione che funzionabenissimo anche per l’architettura, perdescrivere quella subcultura dilagante edi successo che era nata, in contempo-ranea al post-modern, come una rispo-sta caricaturale dell’architettura noncolta riguardo invece ad un linguaggiopiù alto, più raffinato.

FB: Il grottesco: da Bacthin alle lottiz-zazioni? Il salto sembra rischioso masuggestivo.GC: Si, perché ho capito che non biso-gnava avvicinarsi allo studio di questapatologia con la supponenza o il di-sprezzo che sono invece le prime rea-zioni che vengono spontanee. I fenome-ni vanno studiati nella loro genesi, nellaloro irrazionalità apparente; anche per-ché, se prevalgono, se determinanofrange non secondarie dello sviluppourbano (dovunque e in modo pervasivoin Sicilia, in Calabria, nel Veneto) allorasono manifestazioni che non vanno sot-tovalutate dalla nostra cultura.

FB: Rileggendo i suoi testi e confron-tandoli con “Realismo Tragico” si notaun percorso, una evoluzione.GC: Saranno quindici anni che ci giocointorno. Per un periodo ho seguito del-

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le ricerche in cui provavo a fare delleclassificazioni, procedendo come si fain questi casi... tu raccogli una docu-mentazione anche molto vasta e poicerchi di ordinarla, di trovare delle ma-trici. Devo dire che funzionava. Capivoche c'era quasi sempre un riferimentoconfuso, anche arrogante nei confrontidi materiali presi dalla storia in mododisordinato, ma poi c'era anche una ca-pacità di manipolarli, di aggregarli, diricombinarli tra loro con una forza anoi sconosciuta, una violenza un po'barbara. Ma più andavo avanti conquesti ragionamenti, di cinque anni incinque anni, mi rendevo conto delladifficoltà di descrivere un fenomeno adesempio come il villaggio Coppola diPineta mare, un insediamento specula-tivo lungo la costa napoletana. Era unaoperazione andata avanti dagli anniSessanta fino ancora agli anni Novanta,una fiera di atrocità... però più provavoa descrivere queste cose con un testo,più mi rendevo conto che quella descri-zione andava bene anche per Plecnik oGaudì... insomma, non riuscivo a defini-re il grottesco e a collegarlo ad un giu-dizio di valore semplicemente lavoran-do sulla fenomenologia. È stato questoche mi ha portato a capire che forse èsolo una nostra sovrastruttura ideolo-gica quella di considerare infima que-sta produzione.

FB: Cosa intende dire?GC: Voglio dire che queste opere, puressendo indubbiamente infime e rozze,esprimono in realtà un bisogno profon-do, un bisogno di bello altrove trascura-to. Questa domanda non ha trovato una

risposta adeguata da parte della nostracultura disciplinare e quindi si è soddi-sfatta da sé, in modo occasionale, for-zando la richiesta e poi trovando, primanei geometri e poi ora anche negli ar-chitetti, degli esecutori che la interpre-tano e che in qualche modo la assecon-dano. Non credo che si possa educare ilpubblico ad un nuovo gusto ma credoche si possa interpretare questa do-manda perché riflette un desiderio rea-le che è stato in un certo periodo e daun certo gruppo ignorato, calpestato. Èda lì che bisogna partire per capire que-ste realizzazioni.

FB: Non la seguo, a quale periodo siriferisce? GC: Parlo della “Tendenza”, anche se oranessuno la chiama più così. Io sonosempre stato critico verso la “Tenden-za”, mi sembrava quasi il frutto di unarimozione collettiva. Era un senso dicolpa che si trasformava in una ricercasolo in apparenza di low-profile ma cheinvece era una sorta di aristocratico mi-nimalismo ante-litteram che si traduce-va poi in una architettura inflazionabilee di fatto inflazionata. Questa vicendaha avuto degli effetti non secondari sul-l’architettura italiana. L’occupazione diimportanti posizioni nel dibattito cultu-rale, la possibilità di poter realizzaredelle opere significative anche a livellodi opere pubbliche e la conseguente dif-fusione del fenomeno hanno contribui-to ad allontanare definitivamente lacultura alta da quella bassa. Io ho vissuto a Napoli ma insegnavoanche a Pescara e vedevo crescere que-sto successo della cultura italiana che

in quegli anni vantava un esponentedel calibro di Aldo Rossi e rincalzi vali-dissimi ovunque in ogni provincia e chestava addirittura colonizzando la Sviz-zera, la Spagna, il Portogallo. Se tiguardi le annate di Controspazio puoiricostruire una vicenda che con il sennodel poi ha dell'inverosimile, una rincor-sa collettiva al brutto. Ricordo una del-le prime volte che venivo a Venezia, cir-ca 22 o 25 anni fa, in un convegnochiesi a Giorgio Grassi ragione di queiprospetti che definii, forse in modo irri-verente, apatici. Lui non reagì, anzisembrò apprezzare la mia definizioneche vide quasi come un complimento.Mi ricordo molto bene che, da verosnob qual è, disse: “si, mi accorgo an-ch’io che sono brutti, ma che posso far-ci, non mi riesce di farli più belli”. Ed eraun compiacimento perché in realtà lasua architettura produceva un successostraordinario basato sui sensi di colpa,sull'illusione di poter democratizzarel’arte e l’architettura.

FB: Perché in riferimento a quella ge-nerazione parla di sensi colpa? È la se-conda volta che usa questa definizione. GC: Ne parlo perché l'architettura ita-liana degli anni Sessanta aveva avutodei filoni che anticipavano in qualchemodo quello che sta accadendo oggi.Cioè c’era un filone organico che vede-va in Savioli, in Aldo Loris Rossi, in Leo-nardo Ricci e nello stesso Michelucciesponenti assolutamente autorevoli.Era una vicenda che partendo dal-l’informale stava producendo effettiva-mente un’architettura manierata, ric-cioluta. Allora erano anni in cui la poli-

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ticizzazione invadeva il privato e reagi-re a questa architettura, opporsi razio-nalisticamente sembrava una rispostadi sinistra. Ricordiamo che in quel periodo AldoRossi faceva uscire i suoi testi più im-portanti, contribuendo di fatto a far na-scere il convincimento che l’architettu-ra potesse essere progressiva, cioè unadi quelle scienze che appurano il saperee che quindi si evolvono. L’architetturacome disciplina progressiva, una disci-plina che cresce in modo democraticodistribuendo la conoscenza, trasferen-dola secondo progressioni razionali equindi ecco l’aggancio con l’illumini-smo, con queste matrici anche monu-mentali.Ma in realtà dietro queste pur valide eaffascinanti teorizzazioni si celavaun’operazione elitaria e anche un po’militaresca, che si traduceva per esem-pio nell’occupazione delle accademie. Inquegli anni le facoltà erano affollatissi-me perché da poco c’era stata una libe-ralizzazione degli accessi, non c’era nu-mero chiuso e questo tipo di didatticaera ideale per ottenere risultati alti. Sicodificavano anche le grafie. C’erano idisegni con gli aerografi che rendevanobelle queste facciate uniformi... insom-ma si stava correndo in modo scriteria-to verso tutt’altro che un’evoluzione, sistava affermando un’accademia che or-mai era giunta a ripetersi in non menodi cinque anni. I risultati tra la metà de-gli anni Sessanta e la metà degli anniSettanta sono assolutamente equiva-lenti. Questo fatto dimostra che era na-ta una maniera che si riproduceva conuna facilità impressionante.

“L’architettura della città”, testo di in-dubbio fascino, in realtà promettevaun’evoluzione, un progresso che poi nonavvenne e fu proprio Aldo Rossi, spiaz-zando molti dei suoi più fedeli sosteni-tori, a seguire un suo percorso indivi-dualista e provocatoriamente autobio-grafico.

FB: Credo però che non si possa nega-re la qualità delle teorie prodotte inquegli anni.GC: Confesso che il blocco che avevo aquei tempi mi impediva di vedere cosac’era stato di positivo sotto altri fronticome la letteratura teorica prodotta daparte di quei gruppi. Gli studi sull’analisiurbana erano raffinatissimi e le indaginidi Muratori, di Aymonino hanno portatotutti a masticare bene lo studio dellecittà, la lettura dei tessuti. Gli italianiconfermano ancora oggi questa capacitàdi decifrare le mappe. Credo però chequest’analisi non abbia fatto molto perconsiderare anche la terza dimensione,gli alzati. Tutto questo ha prodotto se-condo me un distacco pesantissimo trala cultura accademica e il pubblico, per-ché la gente restava non solo indifferen-te a quelle architetture ma non vi si rico-nosceva in nessun modo.

FB: Ritorniamo al collegamento traquesta vicenda e quella che lei defini-sce l’attuale subcultura trionfante.GC: È stato studiando la subcultura po-polare che ho capito che essa è in realtàun sottoprodotto, un risultato di questaoperazione più alta. Il distacco, l’altez-zosità, l’atteggiamento sprezzante chesi ostentava nei confronti del bisogno

del bello ha prodotto nel territorio unasimmetria, cioè distacco, disprezzo ver-so la produzione architettonica colta.

FB: Ma le altre esperienze del Novecen-to in tutto questo che fine hanno fatto?GC: In quel periodo la tesi era che l’ar-chitetto che progetta dovesse operarein modo razionale con una strumenta-zione linguistica controllata, senza ab-bandonarsi alla figurazione. È a causa diquesta impostazione che sono statebuttate via esperienze importanti comequella di Giò Ponti e tutta una bellissi-ma tradizione degli anni Cinquanta:Scarpa, Gardella, la grande professiona-lità dei milanesi degli Albini e dei Magi-stretti. In quegli anni si è sviluppato an-che un certo disprezzo per il cantiere.L’architettura semplificata, elementa-rizzata, ridotta quasi a simbolo di séstessa era indipendente dal cantiere,notoriamente il luogo della contamina-zione. La conseguenza è stata una sortadi legittimazione dell’ignoranza co-struttiva, un atteggiamento che loro, imaestri, si potevano anche permettere.In realtà era quasi una civetteria d’arti-sta. Ma lo stesso approccio, proiettatoin uno scenario più ampio, ha provoca-to una deriva pericolosa, un distaccodalla costruzione, dalla materialità, daqueste cose fastidiose, difficili da capi-re, che richiedono un grandissimo arti-gianato e la capacità di negoziare sia leproprie idee che la propria scelta forma-le e figurativa.

FB: Ora lei diventa preside di quellache è probabilmente la facoltà italia-na più prestigiosa, un’università ca-

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lata in un territorio compromesso chenon la riconosce più come punto diriferimento. Come si pone di fronte aquesto problema?GC: Io credo che ci sia consapevolezzadella crisi ormai da tanto tempo, mache nessuno sa bene dove cercare leprospettive. Da una parte vedo, in unaregione vicina come l’Alto Adige, dellebuone produzioni di case unifamiliari oanche di edifici anomali tipo terme,chiese, piccoli musei. Quanto questo siadovuto anche a un scelta diversa di au-to-regolamentarsi e ad una minore in-cidenza delle soprintendenze non sapreidirlo con certezza, ma ho il sospetto chein quelle zone vi siano degli esiti virtuo-si proprio perché certi regolamenti edi-lizi molto avanzati, che loro praticano,hanno influenza sulla forma e in qual-che modo condizionano l’utilizzo deimateriali, creando quasi una filosofiaspicciola del costruire che poi si riverbe-ra anche sulla qualità diffusa di questearchitetture. Forse l’impostazione nor-mativa è un fattore che può dare qual-che indicazione. Ma sinceramente losprawl veneto mi sembra assolutamen-te sordo e refrattario nei confronti diquesti piccoli avanzamenti.

FB: Qual è il motivo di questa opposi-zione al rinnovamento che sembra es-sere un tratto distintivo del territorioveneto?GC: La mia convinzione è che sia unproblema di cultura di base. L’italianomedio ha un gusto abbastanza evolutoe raffinato per quanto riguarda adesempio la forma del vestire, lo stessopossiamo dire per la produzione del de-

sign. Anche l’editoria del nostro paesecontinua ad essere considerata un rife-rimento per la grafica e l’impaginazio-ne, il cinema si sta riprendendo, abbia-mo fotografi di grande caratura, in-somma lo sguardo italiano è ancoraeducato, ma non nei confronti dell’ar-chitettura. Questo accade perché c’èproprio un danno che si è prodotto neltempo. Il cambiamento deve partire da-gli architetti, dagli ordini ma anche quidalla scuola, dove bisogna saper daredegli strumenti critici. Non è possibileche i nostri studenti qui siano bravissi-mi e non appena fuori siano pronti acostruire delle cose di scarsa qualità. Ioho nei miei archivi migliaia di fotogra-fie fatte dagli studenti. Ho insegnato alprimo anno per due decadi e il primogiorno ho sempre chiesto di fotografa-re l’architettura più bella e l’architettu-ra più brutta nei pressi della propriaabitazione. Tempo fa avevo ipotizzatodi realizzare una rivista che avevoscherzosamente battezzato Casabrut-ta-discontinuità, era uno dei miei palli-ni. Ma poi si sono reso conto che que-sta sequenza di mostruosità diventavamonotona.

FB: Come si approccia nell’insegna-mento a questo problema culturale?Quali sono le cose più importanti sucui puntare nella formazione dei nuo-vi professionisti?GC: Noi siamo geneticamente vitruvia-ni, ma la triade per me ha gerarchie in-terne. Nel tempo ho deciso che la firmi-tas è al primo posto, l’utilitas al secon-do e la venustas può anche non starci.Non credo che un risultato sicuro possa

provenire direttamente dall’applicazio-ne di due dei vertici del triangolo peròdovendo rinunciare a qualcosa pensosia stato un errore rinunciare alla co-struzione, come sbagliato è compro-mettere l’utilitas. Costruire bene conti-nua ad essere per me imprescindibile,uno di quei valori fondamentali da cuinon bisogna recedere. Senza una cor-retta costruzione non c’è architetturama anche la funzione ha i suoi diritti enon è possibile, come accade spesso,calpestarla fino agli angoli acuti. Ecco,questa può essere oggi una linea di re-sistenza.

Giancarlo Carnevale nasce a Napoli il 25agosto 1942, dove si laurea in architetturanel 1969. Svolge attività didattica e di ricercapresso la Facoltà di Architettura di Pescaranel 1970, di Napoli dal 1971 al 1984, diVenezia dal 1985 al 1989, di Palermo dal1989 al 1992. Attualmente, vive e lavora aVenezia. È professore ordinario di Compo-sizione Architettonica presso la Facoltà di Ar-chitettura dell’Università Iuav di Veneziadove ha ricoperto la carica di Direttore delCorso di Laurea in Scienze dell’Architettura edel Dipartimento di Progettazione Architet-tonica. Attualmente è preside della Facoltà diArchitettura. È stato redattore del “Drago”, ha preso parteal comitato direttivo di “Aura”, collabora con“Op. Cit.”, con “Modo” e con altre riviste. Hacurato gli “Annali della Architettura ItalianaContemporanea” 1986-87 e 1988-89 ed è re-sponsabile di collana per la Officina Edizioni.

Nelle foto: edifici realizzati nell’hinterland veneziano.