Considerazioni sul teologico politico nella Prima lettera di Clemente ai Corinzi

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Università degli Studi di Pisa Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia Dottorato in Discipline filosofiche a. a. 2002-2003 dott. Stefano Bellanda Considerazioni sul teologico-politico nella Prima di Clemente ai Corinzi Stefano Bellanda Introduzione § 1. § 1. Lo schema ormai tradizionale, e per certi versi desueto, che oppone la temporalità ciclica della grecità al concetto biblico lineare del tempo, deve farsi carico di un’ulteriore alternativa che può dirsi nascere dall’incontro-scontro di tali presunte concezioni nel centro dell’evento cristico. Il risultato è forse un hapax convergente in massimo grado nell’insieme delle lettere paoline. Questa anomalia non può essere semplicemente ridotta a un’ennesima concezione del tempo: molto probabilmente si dovrebbe essere in grado di verificare il conflitto nel quale si è in seguito situata un’interpretazione dominante. La Prima Lettera ai Corinzi del padre apostolico Clemente di Roma, unico scritto considerato unanimemente autentico nell’intero lascito clementino, rappresenta sicuramente un passaggio fondamentale per l’integrazione dell’anomalia paolina in un discorso concettuale molto più riconoscibile dalla koiné culturale ellenista del tempo. Un’analisi di alcune categorie di pensiero recuperabili in quel testo offre quindi l’occasione per un’iniziale comprensione di tipo filosofico riguardo il problema dell’integrazione del kérigma cristiano “in questo mondo”. Senza la disponibilità di avvicinare con maggiore specificità la questione, è doveroso sottolineare come una possibile lettura dell’intera lettera risulta possibile solo sulla base di una precomprensione preliminare circa il problema della Verzögerung der Parusie e, quindi, circa la trasformazione che l’attesa messianica ha subito in relazione a quel ritardo. Chiaramente dunque un’analisi intorno alla parenetica protocristiana comporta sicuramente un’intuizione germinale del problema teologico-politico, in particolare riguardo la conciliazione della contraddizione tra il Regno di questo mondo e il Regno dei cieli. Ciò che si vorrebbe emergesse con più forza alla luce della seguente presentazione è che l’operazione clementina non può essere letta a posteriori semplicemente nei termini di un’ammonizione a fini persuasivi, quanto piuttosto come essa abbia il carattere di istituire nuove determinazioni concettuali che risulteranno essenziali in forza di una risoluzione secolarizzata di quella precisa contraddizione.

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Analisi dettagliata della celebre lettera di Clemente romano alla luce della problematica teologico politica.

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Università degli Studi di Pisa Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia Dottorato in Discipline filosofiche a. a. 2002-2003 dott. Stefano Bellanda

Considerazioni sul teologico-politico nella Prima di Clemente ai Corinzi Stefano Bellanda

Introduzione § 1. § 1. Lo schema ormai tradizionale, e per certi versi desueto, che oppone la temporalità ciclica della grecità al concetto biblico lineare del tempo, deve farsi carico di un’ulteriore alternativa che può dirsi nascere dall’incontro-scontro di tali presunte concezioni nel centro dell’evento cristico. Il risultato è forse un hapax convergente in massimo grado nell’insieme delle lettere paoline. Questa anomalia non può essere semplicemente ridotta a un’ennesima concezione del tempo: molto probabilmente si dovrebbe essere in grado di verificare il conflitto nel quale si è in seguito situata un’interpretazione dominante. La Prima Lettera ai Corinzi del padre apostolico Clemente di Roma, unico scritto considerato unanimemente autentico nell’intero lascito clementino, rappresenta sicuramente un passaggio fondamentale per l’integrazione dell’anomalia paolina in un discorso concettuale molto più riconoscibile dalla koiné culturale ellenista del tempo. Un’analisi di alcune categorie di pensiero recuperabili in quel testo offre quindi l’occasione per un’iniziale comprensione di tipo filosofico riguardo il problema dell’integrazione del kérigma cristiano “in questo mondo”. Senza la disponibilità di avvicinare con maggiore specificità la questione, è doveroso sottolineare come una possibile lettura dell’intera lettera risulta possibile solo sulla base di una precomprensione preliminare circa il problema della Verzögerung der Parusie e, quindi, circa la trasformazione che l’attesa messianica ha subito in relazione a quel ritardo. Chiaramente dunque un’analisi intorno alla parenetica protocristiana comporta sicuramente un’intuizione germinale del problema teologico-politico, in particolare riguardo la conciliazione della contraddizione tra il Regno di questo mondo e il Regno dei cieli. Ciò che si vorrebbe emergesse con più forza alla luce della seguente presentazione è che l’operazione clementina non può essere letta a posteriori semplicemente nei termini di un’ammonizione a fini persuasivi, quanto piuttosto come essa abbia il carattere di istituire nuove determinazioni concettuali che risulteranno essenziali in forza di una risoluzione secolarizzata di quella precisa contraddizione.

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La Lettera di Clemente: aspetti testuali, elementi critici § 2. Se si eccettua il caso complesso della Didachè, la lettera di Clemente1 rappresenta, in termini di datazione, il primo documento a noi pervenuto tra gli scritti propriamente patristico-apostolici2. La datazione più attendibile, su cui la maggior parte della critica concorda, è tra il 95 e il 98 d.C. (secondo varianti che situano la composizione del testo alla fine del regno di Domiziano - 95-96 d.C.- o in quello di Nerva - 97-98 d.C. -)3 Dunque la stesura della lettera pare essere quasi contemporanea al vangelo giovanneo, mentre circa quarant’anni la separano dalle lettere paoline ai corinzi. Molto significativo, inoltre, come essa sia stata probabilmente scritta in un periodo di forte persecuzione, da parte dell’Impero romano, nei confronti della comunità di Roma4. A questi fatti si riferirebbe l’esordio della lettera:

“Per le improvvise disgrazie e avversità capitate l’una dietro l’altra5 [Dia; ta;j ai jfnidivouj kai ; ejpallhvlouj genomevnaj hJmi 'n sumfora;j kai; periptwvseij], o fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi [peri; tw'n ejpizhtoume vnwn par’ uJmi'n pragmavtwn] [...].”6

Clemente fu il terzo successore di Pietro nella guida della comunità cristiana di Roma, dopo Lino e Anacleto7. Secondo la testimonianza di Ireneo (Adv. Her., III, 3), riportata da Eusebio (HE, V, 6, 1-2), Clemente fu tra quelli che conobbe direttamente gli Apostoli (rilievo di strutturale importanza in rapporto alla questione della Verzögerung), ma tale indicazione non ha altre conferme storiche e testuali. La sua origine non è nota con esattezza; per una considerazione di tipo storico-filosofico sarebbe però affatto significativo possedere elementi più precisi circa la sua provenienza8, e ciò in quanto molte delle tesi che andrò esponendo si radicano sul problema della continuità con la tradizione d’appartenenza. Le testimonianze sulla lettera sono numerose9 e, in ogni caso, essa divenne quasi subito celebre e citatissima:

1 Per l’edizione critica del testo mi sono riferito a Clément de Rome, Épître aux Corinthiens, a cura di A. Jaubert, Les Éditions du Cerf, Paris 1971 (per l’introduzione della Jaubert, le pp. 13-96); per la traduzione italiana Prima di Clemente ai Corinti, in I padri apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Città Nuova Editrice, Roma 1976, pp. 49-92. 2 A. Jaubert, in, Clement de Rome, op. cit., p. 13 [d’ora in avanti Jaubert]. Di tutto il corpo clementino che comprende una seconda lettera, le Omelie e le Recognitiones, solo la Prima Lettera ai Corinti è considerata unanimemente autentica. 3 Jaubert, p. 20. Per una datazione più tarda (sulla base di parallelismi stilistici), la Jaubert riporta Eggenberger, Die Quellen der politischen Ethik des I Klemensbriefes, Zürich 1951, il quale posticipa agli anni tra il 118 e il 125 d.C. 4 Si tratta dell’anno 95. In rapporto al tema dell’exousía, che affronteremo più avanti, può forse essere significativo ricordare come Domiziano si autoproclamò, secondo la testimonianza di Svetonio (Dom. 13, 2), “Signore e Dio”. 5 “Che colpiscono dappertutto” [periptwvseij]. 6 CL 1, 1. 7 Un’altra tradizione meno attendibile e diffusa lo indica come diretto successore di Pietro (cfr. F. L. Cross, The Early Christian Fathers, Gerald Duckworth & Co. LTD, London 1960, p. 11). 8 In particolare se fosse ebreo o gentile (intorno alla questione abbastanza controversa si dovrebbe vedere L. Sanders, L’Hellenisme de Saint Clément de Rome et le Paulinisme, Louvain 1943, il quale sostiene un background greco del nostro, mentre il Cross afferma: “His intimate familiarity with the Old Testament supports the view that he came of Jewish stock.”, F. L. Cross, cit., p. 12). La tradizione del romanzo pseudo-clementino, che lo presenta come nobile cittadino romano della famiglia dei Cesari, non è per nulla attendibile. 9 Per un quadro completo si veda Adolf Harnack, Geschichte der Altchristlichen Literatur bis Eusebius, Hinrichs, Leipzig 1958, pp. 39-47. In particolare la testimonianza del vescovo Dionigi di Corinto (ca 170) attesterebbe una subitanea assimilazione da parte della comunità del contenuto della lettera (“La maniera con cui san Dionigi di Corinto parla, più tardi, di questa lettera prova che essa fu bene accolta e che raggiunse lo scopo che si era proposto.”, F. Cayré, Patrologia e storia della teologia, Vol. I, Libro I, Editori Pontifici, Roma 1936 [ed. or. Tourne 1936], p. 55).

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“I Padri Apostolici costituirono nella Chiesa dei primi secoli un punto di riferimento continuo. Avevano tracciato un ideale di vita cristiana da seguire. La prima lettera di Clemente Romano ai Corinti veniva letta nella comunità di Corinto sino alla fine del II secolo. Lo attesta Dionigi di Corinto secondo Eusebio (HE 4, 23, 11). La si leggeva anche in altre comunità di Occidente, se fu tradotta in latino. [... ]. Eusebio di Cesarea chiama «grandiosa e superba» questa lettera di Clemente (HE, III, 16). Era un documento divenuto popolare, che educava ai principi costitutivi della fede con una esemplificazione persuasiva. Erano consigli operativi sul comportamento della vita comunitaria nella Chiesa.”10

Si voglia fare attenzione sull’entusiasmo di Eusebio intorno alla lettera: il fatto che il “teologo di corte”11 vi ponesse questo eccezionale rilievo può forse fornire precise linee ermeneutiche intorno alle potenzialità teologico-politiche del testo clementino. § 3. La lettera è scritta in occasione di una rivolta che sembra essere scoppiata all’interno della comunità di Corinto. Il fine principale del testo è quello di porre il fondamento di una riappacificazione delle parti. In realtà, però, intorno alla natura di questa rivolta si possono fare solo delle congetture12. Come è noto, la comunità di Corinto ospitava al suo interno una forte componente cristiano-gnostica, con cui già Paolo ebbe a che fare13. Per certi versi la terminologia del testo induce a ritenere che la rivolta in questione abbia avuto proprio gli gnostici come protagonisti14. Dal punto di vista critico-ermeneutico, questa versione comporta un significato a mio giudizio sostanziale per la comprensione dell’intera lettera; e ciò in modo ancora più radicale se si pone credito a quell’eventuale intervento da parte romana, a discapito dei ribelli, nel ristabilire l’ordine all’interno della comunità. § 4. Altro elemento fondamentale è il problema delle fonti interne alla lettera. Nel testo di Clemente, infatti, viene interpolata una serie consistentissima di riferimenti alle più numerose tradizioni letterarie. Al di là di significare l’erudizione dell’autore, come pure di riconoscere una sorta di koiné culturale, all’interno della quale si porrebbe la produzione clementina, è forse più significativo riconoscere l’atto decisionale (non importa se consapevole o meno) che, come effetto, inserisce il testo all’interno di un ambiente. Non si nega cioè il fatto che fosse influente uno spazio letterario (ma anche ideologico) più o meno definito, ma si vorrebbe mostrare come, in una 10 A. Quacquarelli, Retorica patristica e sue istituzioni interdisciplinari, Città Nuova, Roma 1995, pp. 37-38. 11 Intorno a questa spesso abusata dicitura, risalente a Opitz, è molto critico R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea, Pas Verlag, Zürich 1966, p. 259: “Perciò credo che l’ideologia imperiale di Eusebio possa dirsi una visione teologica, nei principi e nel metodo, dell’Impero Romano Cristiano, una realtà non astratta né futura, ma concreta, reale e presente. Si può dire insomma «teologia politica», e non in un senso deteriore di opportunismo, di «teologia di corte». Una tale denominazione, intesa così unilateralmente, sarebbe solo un giudizio di apprezzamento, non giustificato, di una mentalità moderna stabilente un paragone tra il presente e il passato; non sarebbe una definizione oggettiva.” 12 Qualcuno (W. Bauer, Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum (Beiträge zur historischen Theologie), Tubingen 1934, pp. 99-114 ) ha ipotizzato una risoluzione della contesa grazie a un intervento da parte romana che “aurait appuyé le parti «orthodoxe»” (Jaubert, p. 13), se la supposizione fosse corretta troveremmo una conferma per certi versi sovrabbondante delle tesi qui esposte. Eppure al di là delle connotazioni estremamente negative con cui Clemente fin dal principio caratterizza lo scontro (“empia e disgraziata sedizione, aberrante ed estranea agli eletti di Dio [th'j te ajllotri vaj kai; xevnhj toi'j ejklektoi'j tou' qeou' miria'j kai ; ajnosivou stavsewj]”, CL I, 1), l’autore non specifica mai l’utilizzo di “violenza fisica” in quei fatti (da parte dei rivoltosi). Come già citato, il verbo che utilizza inizialmente è ejpizhte vw che significa ‘cercare ardentemente’, ‘ricercare’, ‘interrogare’, ‘domandare’, e dunque ben s’associa all’idea dello zélos che più avanti affronteremo. Sempre in termini congetturali, in base alla consistenza numerica della comunità a quei tempi, non si dovrebbe ipotizzare un gruppo così rilevante di “rivoltosi” (Cayré, naturalmente ex parte, parla addirittura di “uno o due armeggioni”, in F. Cayré, op. cit., p. 55). 13 Si confronti 1Cor. 2, 10-16, forse il passo di maggior confronto (di interpolazione discorsiva, ma anche di separazione), da parte dell’apostolo delle genti, con la corrente gnostica. Come testo di riferimento ho utilizzato l’ormai classico W. Schmithals, Die Gnosis in Korinth, Vandenhoeck & Ruprecht,, Göttingen 1965. 14 “L’obscurité qui entoure les événements de Corinthe a permis des supposition diverses sur le motivf de la révolte. L’interpreétation de W. Bauer rencontre encore aujourd’hui des sympathisants. Un mouvement d’origine gnostique aurai voulu déposer les presbytres de Corinthe ; l’intervention romaine aurait appuyé le parti «orthodoxe» » ”, Jaubert, p. 13.

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situazione di crisi come quella posta dal cristianesimo, la conferma d’appartenenza al medesimo spazio avesse senz’altro una natura decisiva. Nello specifico di Clemente, sarebbe molto interessante, quanto improbo, esporre un elenco verisimilmente completo delle fonti; in questa sede, però, mi preme fornire un semplice raggruppamento genealogico, soffermandomi in seguito sui possibili riferimenti alla tradizione stoica e a quella della apocalittica del cosiddetto giudaismo del secondo tempio. I riferimenti testuali o allusivi, dunque, possono essere raccolti nelle seguenti famiglie:

• testi vetero-testamentari (molto probabilmente secondo la versione dei LXX)15; • testi giudaici impropriamente detti apocrifi, e correnti giudaiche tardive (in particolare

levitiche, ma, forse, addirittura esseniche)16; • testi cristiani e tradizione orale17; • testi filosofici e letterari ellenisti greci e latini (in particolare stoici e, forse, pitagorici)18;

Come si anticipava, soprattutto circa la presenza in Clemente di nuclei concettuali risalenti a uno stoicismo imperiale, è forse più euristico impostare la questione non tanto dal punto di vista dell’influenza, quanto in quella della ricollocazione concettuale dell’evento cristico all’interno di un quadro di riferimento di ascendenza stoica. § 5. Dal punto di vista propriamente tematico (ma per questo rimando al compendio della Lettera che riporto qui di seguito), si può certamente verificare come il problema dell’omónoia (concordia) sia centrale e ricorrente. Se però si analizza il testo secondo un’ottica puramente tematica risulta difficile comprendere l’unità della lettera, che, a mio giudizio, si realizza a un livello che potremmo definire concettuale. In questo senso, secondo la mia interpretazione, la soluzione concordista, proposta da Clemente, assume quasi un significato strumentale per l’esposizione di un’interpretazione generale dell’evento cristico. Alla luce di ciò mi sembrano molto più comprensibili numerosi passaggi che, almeno all’apparenza, potrebbero mostrarsi come puramente digressivi (anche se importanti) rispetto al percorso tematico complessivo dell’epistola19. In linea generale, però, è possibile ricavare un andamento discorsivo che lega la questione della concordia nella comunità in particolare con l’interpretazione della tradizione degli antichi (cioè i personaggi biblici), con quella dei martiri, e infine con l’esposizione della dottrina della resurrezione. Il carattere universale e cosmico dell’omónoia, infatti, raccoglie la pluralità tematica in relazione alla finalità di esporre il rapporto che le comunità cristiane devono assumere con il secolo.

15 Cfr. Jaubert, pp. 42-43. 16 Ivi, pp. 45-52 17 Ivi, pp. 52-58. Occorre fare attenzione, però, a cosa viene inteso come testi cristiani, in quanto, a parte le epistole paoline, “Clément se réfère [...] à des logia de Jésus, non à des évangiles écrits. Des analyses très précises qui ont été faites à ce sujet, il résulte que la forme sous laquelle Clément cite ces paroles n’est ni celle de Luc ni celle de Matthieu, tout en se rapprochant davantage de ce dernier. C’est pourquoi il semble que Clément se réfère a une collection de logia soit oraux, soit consignés par écrit, non à un évangile précis.”, ivi, p. 52. Questo punto è estremamente significativo (anche se per certi versi ovvio dal punto di vista filologico), in quanto tende a sottolineare come, negli anni in cui Clemente scrive non solo non sia presente un “canone cristiano”, ma nemmeno un contesto di riferimento su cui collocare l’interpretazione generale dell’evento cristico. In questo senso, è possibile evidenziare la fondamentale potenza canonizzante della lettera di Clemente. In relazione a ciò, a mio giudizio, ci si può avvicinare all’unità concettuale (e non solo tematica) della lettera. 18 Per una prima ricognizione circa le fonti citate si veda Jaubert, in particolare le pp. 45-58. 19 Questa la tesi congetturale della Jaubert, ad esempio, che suppone una relazione debole tra i numerosi temi della lettera (Jaubert, pp. 23-24). In particolare l’autrice scrive: “Des développements entiers parassent avoir peu de rapport avec l’objet de la lettre, qui est de rétablir la paix dans la communauté de Corinthe: ainsi le passage sur la résurrection à venir, y compris la légende du phénix [...].”, ivi, p. 23. Come cercherò di mostrare, a mio giudizio, proprio l’unità concettuale della lettera permette di ricavare l’unità discorsiva intorno alla quale la questione della resurrezione, e quindi anche l’esempio della fenice, assume un significato quasi fondativo.

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Compendio tematico della lettera § 6. Ai fini di una maggior comprensione del ragionamento, mi sembra opportuno fornire un riassunto del testo. Dopo aver sottolineato la gravità del momento, a causa delle numerose calamità che si abbattono sulla comunità degli eletti20, Clemente rimprovera i corinzi, in quanto la loro celebre fama (“fede salda”, “pratica di ospitalità”, “scienza perfetta e sicura”21) sembra un ricordo del passato22. Infatti, per lo zélos di pochi, a Corinto si è abbattuta una terribile sciagura: è avvenuta una ribellione23 da parte di alcuni “nuovi/giovani”, i quali si sono posti contro i “ministri/vecchi”24. Per questo motivo dikaiosuvnh kai; eijrhvnh si sono allontanate25. Sia negli “esempi degli antichi”26 (IV), che in quelli più vicini (V), si trova la conferma di come lo zélos abbia prodotto gli effetti più funesti (fratricidio27, esilio28, martirio29...). Ai singoli che hanno dovuto patire grandi sofferenze si è aggiunta una “grande schiera di eletti30”, questa schiera, a sua volta, è divenuta un bellissimo esempio31 per le comunità tutte. È necessario, dunque, lasciare “i vani e inutili pensieri”32 e seguire, invece, “la norma [...] della nostra tradizione”33. E per far ciò Dio ha dato la possibilità di pentirsi e di convertirsi34. La volontà di Dio è che i suoi diletti partecipino del pentimento: è necessario obbedire a questa volontà35. Infatti, in tutti i tempi e in tutte le generazioni, è evidente come la concordia, l’ospitalità e l’ubbidienza siano state premiate, e come, al contrario, Dio condanni “i dissociati e gli scettici”36 (VII-VIII). Per questo motivo bisogna essere umili e deporre ogni baldanza37: è meglio ubbidire a Dio, piuttosto che “ai capi dell’esecranda gelosia”38. Ora un grave pericolo, infatti, grava “su di noi”39, ma, secondo le promesse, “i buoni abiteranno la terra [...] e i peccatori saranno sterminati”40: solo “per l’uomo pacifico c’è una posterità”41. Cristo stesso (XVI), ma anche David (XVIII) e i profeti e molti altri protagonisti delle scritture (XVII), sono stati esempi di grande umiltà, che bisogna sicuramente imitare. Conferme di questo discorso possono essere tratte non solo dai fatti che riguardano gli umani. La concordia, infatti, è la legge di tutta la creazione (XX): essa è riconoscibile nel movimento armonico e ordinato dei cieli42, negli eventi naturali (perfino negli abissi e negli inferi43). “Anche gli animali più piccoli si riuniscono nella pace e nella concordia.”44 Tutti questi esempi sono chiare conferme della volontà di Dio; anch’essi, dunque, sono di monito alla concordia e all’ubbidienza.

20 Letteralmente “ai chiamati [kletoís]”, CL Saluto. 21 CL I, 2. 22 CL II. Uso sistematico dei verbi al passato. 23 “[...] th'j te ajllotrivaj kai; xevnhj toi 'j ejklektoi 'j tou' qeou' miara'j kai ; ajnosivou stavsewj.”, CL I, 1. 24 “oiJ nevoi ejpi ; tou;j presbutevrouj”, CL III, 3. 25 CL III, 4. 26 “tw'n ajrcai vwn ujpovdeigma” 27 CL IV, 7. 28 CL IV, 10-11. 29 CL V. 30 “polu; plh 'toj ejklektw'n”, CL VI, 1. 31 “ujpovdeigma ka vlliston”, ibidem. 32 “ta;j kena;j kai ; mataivaj frontivdaj”, CL VII,2 33 “e[lqwmen ejpi; to;n [...] th'j paradovsewj hJmw'n kanovna”, ibidem. 34 CL VII, 5. 35 CL VIII, 5 - IX,1. 36 “oiJ di vyucoi kai; oi J distavzontehj”, CL XI, 2. 37 CL XIII, 1. Il verbo è tapeinofronevw. 38 “toi'j [...]/ muserou' zh vlouj ajrchgoi'j”, CL XIV, 1. 39 “kivndunon upoivsomen mevgan”, CL XIV, 2. 40 CL XIV, 4. 41 “o{ti ejsti;n ejgkatavleimma ajnqrw vpw/ ei jrhnikw'/”, CL XIV, 5. 42 CL XX, 1. 43 CL XX, 5 44 CL XX, 10.

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Ma non solo: in un rapido passaggio e senza riportare riferimenti a parole di Gesù, Clemente afferma: “La fede in Cristo conferma tutte queste cose.”45 E subito dopo compare il riferimento alla resurrezione e alla apocalisse. Con l’esempio della fenice, Dio “comprova anche in un uccello la grandezza della sua promessa”46. La continuità delle promesse di Dio è il fondamento della speranza. Dio è onnipotente (ma non può mentire47), ogni cosa è segno della sua onnipotenza: Egli vede tutto e ascolta tutto, da Lui non è possibile nascondersi (XXVIII). La fiducia nelle promesse è la via che mostra come comportarsi: la “porzione santa”48, che Dio scelse per sé49, pratica la santità, e dunque bisogna “rivestirsi della concordia”, “lontani da ogni mormorazione” (XXX). Gli esempi del passato mostrano che l’umiltà, nella “conoscenza del futuro”50, accetta il sacrificio e non disdegna la servitù (è grazie alla fede, infatti, e non alle opere che siamo giustificati [XXXI - XXXII]. Ma questo non deve distogliere dall’agire51: infatti, “i giusti furono ornati di opere buone”52.) Bisogna, cioè, essere come soldati di un esercito, che ubbidiscono agli ordini del comandante53 (Gesù Cristo, sommo sacerdote54), come le membra del corpo55:

“3. [...] ciascuno nel proprio ordine esegue i comandi dei re o dei governanti. 4. I grandi non possono stare senza i piccoli e i piccoli senza i grandi; in tutte le cose c’è qualche collegamento e in questo la utilità56”

Per conservare il corpo è necessario che ciascuno si sottometta al suo ordine57, “senza infrangere la norma stabilita per il suo compito”58. Perché meravigliarsi dell’esistenza dei ministri?59 Non è certo una novità che vi siano dei capi, infatti “da molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi”60 (ad es. Mosé e i profeti61). Furono gli stessi apostoli, “che avevano raggiunto una conoscenza perfetta dell’avvenire”62, a stabilire ministri che succedessero loro. A Corinto però è accaduto che alcuni sono stati rimossi dal ministero, proprio da quelli che maggiormente sono “pieni di zelo per le cose che riguardano la salvezza”63. Essi si sono “curvati sulle Sacre Scritture” e sono “convinti che nulla di ingiusto e di falso sia scritto in esse”64 Ma dove trovano che il giusto venga perseguitato dal santo? I persecutori, anzi, sono sempre stati i “detestabili e pieni di ogni cattiveria65”, mentre

45 “Tau'ta de ; pavnta bebaioi ' hJ ejn Cristw '/ pivstij”, CL XXII, 1. Nel capitolo appena successivo si situa un brevissimo, ma importante, passo sulla fine dei giorni, dai toni stranamente apocalittici (XXIII). Su questo punto della lettera sarà opportuno ritornare. 46 CL XXVI, 1. 47 CL XXVII, 2. 48 “aJgiva mevrij”, CL XXX, 1. 49 “ejkloge'j mevroj hJma'j ejpoi vhsen eJautw'/” [“[...] a fait de nous sa part d’élection”, J. p. 146], CL XXIX, 1. 50 “!Isaa;k [...] ginwvskwn to; mevllon”, CL XXXI, 3. 51 “Ti ; ou\n poihvswmen, ajdelfoiv;”, CL XXXIII, 1. Questa domanda, posta all’esordio del capitolo, è importantissima: essa non espone semplicemente un problema teorico (“se siamo salvi per fede, che senso ha darsi da fare per agire?”), essa una questione reale che si poneva nelle comunità. 52 CL XXXIII, 7. 53 CL XXXVII, 1. 54 “[...] ’Ihsou'n Cristovn, to;n ajrciereva’, CL XXXVI, 1. 55 CL XXXVII, 5. 56 CL XXXVII, 3-4; importante l’espressione: “suvgkrasij tivj ejstin ejn pa'sin, kai; ejn touvtoij crh 'sij” 57 CL XXXVIII, 1. 58 “mh; parekbaivnwn to;n w Jrismevnon th'j leitourgivaj aujtou' kanovna”, CL XLI, 1. 59 CL XLIII, 1. 60 CL XLII, 5. 61 Cfr. CL XLIII, qui si parla del problema dello ‘zhvloj peri; th'j i Jerwsuvnhj’. 62 “provgnwsin ei jlhfovtej telei van”, CL XLIV, 2. Ma questa conoscenza sembra venga ricavata dal riferimento al passato (nel senso, quindi, di una continuità). 63 “6. Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con onore. XLV, 1. Voi siete pieni di emulazione e di zelo nelle cose che riguardano la salvezza”, CL XLIV, 6 - CL XLV, 1. Questo è sicuramente un passo fondamentale e un punto cruciale: si comprende che Clemente si sta rivolgendo proprio a quelli che hanno compiuto questa “rivolta”, riconoscendo che essi hanno agito secondo un punto di vista che loro ritenevano essere legittimo, in quanto ricavato dalle Sacre Scritture. 64 CL XLV, 2-3. 65 CL XLV, 7.

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“coloro che hanno sopportato con fiducia hanno ereditato la gloria e l’onore66”. “A siffatti esempi bisogna [...] che ci atteniamo anche noi.67” Invece il vostro dissenso (sta vsij) è continuo: ha recato dolore a tutti e molti nel dubbio (eijj dustagmo vn)68. Ed è cosa veramente nefanda che “l’antica (a jrcaiva)69 chiesa di Corinto” si sia ribellata ai suoi vecchi/ministri (presbu vteroi):

“E tale voce non solo è giunta a noi, ma anche a chi è diverso da noi. Per la vostra sconsideratezza si è portato biasimo al nome del Signore e si è costituito un pericolo per voi stessi.70”

Quindi, dopo un lungo elogio alla carità (XLIX-LIII), Clemente chiede a “coloro che furono i capi della sedizione e dello scisma” di “considerare la parte comune della speranza”71, e, dunque, di “sottomettersi ai presbiteri”, di “imparare ad assoggettarsi”72, di tenere monito delle “minacce fatte dalla Sapienza contro i disobbedienti”73. Oppure di lasciare la comunità74. Addirittura, dovrebbero fare come fecero le donne (Ester, o Giuditta), che si esposero a pericolo per salvare le tribù di Israele75, o perfino seguire gli esempi dei pagani (ujpodeivgmata ejqnw'n)76, che raccontano come “re e capi in tempi di pestilenza, ammoniti dall’oracolo, si offrirono alla morte per salvare con il loro sangue i cittadini.” A queste esortazioni, segue una lunga preghiera (LIX-LXI), nella quale l’autore invoca il Signore, affinché doni la “concordia e la pace”:

“Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra [...] rendici sottomessi [uJphco vouj ginomevnouj] al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra [toi 'j te a[rcousin kai; h Jgoumevnoij hJmw 'n ejpi ; th'j gh 'j]. Tu, padrone77, desti loro il potere della regalità [Suv, devspota, e[dwkaj th;n ejxousi van th 'j basileivaj aujtoi 'j] [...]. Dona ad essi, Signore, [...] concordia [...] per esercitare al sicuro [ajproskovpwj] la sovranità [hJgemonivan] data da te.78”

66 CL XLV, 8. 67 “Toiouvtoij ujpodeivgmasin kollhqh'nai kai ; h Jma'j dei'”, CL XLVI, 1. 68 CL XLVI, 8. 69 Se si nota il termine archáios è riferito agli eventi dell’AT. 70 “Kai; a{uth hJ ajkoh; ouj movnon eijj hJma'j ejcw vrhsen, ajlla; kai; ei jj tou;j ejteroklinei'j ujpavrcontaj ajf’ hJmw'n, w {ste kai; blasfemivaj ejpifevresqai tw'/ o jnovmati kuri vou dia; th;n uJmetevran ajfrosuvnhn, eJautoi 'j de; kivndunon ejpexergavzesqai ”,CL XLVII, 7. 71 CL LI, 1. 72 CL LVII, 1-2. 73 “ta;j proeirhmevnaj dia; th 'j sofivaj toi 'j ajpeiqou'sin ajpeilavj”, CL LVIII, 1. La apeithéia dal verbo péitho (persuadere, convincere, placare...): ‘disobbedienza’, nel senso della ‘resistenza al convincimento’. “[...] contro i disobbedienti, per riposare fiduciosi [pepoiqo vtej] nel nome santissimo della sua Maestà.”, ibidem [l’aggettivo dal verbo pepoithéo, che deriva sempre da péitho]. 74 CL LIV. Questo paragrafo è molto importante: l’autoseparazione dalla comunità di chi vuole separare la comunità, non sembra affatto essere una messa a bando. Anzi, essi autoseparandosi “senza rimorsi [ajmetamevlhton]” rimangono politéumenoi della politéia di Dio (ibidem). Ma, se consideriamo questo alla luce di una possibile contrapposizione tra “arcaico” e “moderno”, risulta incomprensibile il riferimento al sacrificio cruento dei re sotto ingiunzione dell’oracolo (CL LV): a mio giudizio, considerando questo snodo secondo una prospettiva vicina a Girard, ci troviamo qui di fronte perlomeno a un passaggio “poco chiaro”, nel quale il messaggio “rivoluzionario” della rottura cristica non è ancora in grado di colmare la misura del meccanismo sacrificale (il capro espiatorio), per come è descritto da Girard. In altro modo, si potrebbe intendere l’autoseparazione come la novità del cristianesimo, la nascita del monachesimo non a partire dalla setta (che si interpreta come la comunità ultima), ma come quella eresia necessaria, di cui parla Paolo in 1Cor. 11, 18: si tratta di una separazione apparente, eppure non dialettica nel senso di una Versöhnung, in quanto essa si situa all’interno di una universalità della cittadinanza divina, la quale si costituisce (che ha la sua costituzione, políteuma) solo nella consistenza della differenza, della pluralità. In questo senso l’autoseparazione “senza risentimento” è la dichiarazione dell’universale, la cui immagine è l’ekklesía. Il problema di fondo di questa interpretazione, ovviamente, è proprio sullo scarto che sussiste tra autoseparazione e sottomissione ai ministri. A mio giudizio, lo scarto è stato colmato con la vittoria del “principio gerarchico”, è ciò ha determinato “la perdita dell’universale” da parte della chiesa, il cui preteso cattolicesimo ha interpretato la setta di annientamento delle sette. 75 CL LV, 3-6. 76 CL LV, 1. 77 Rendo con più fermezza rispetto a ‘signore’ (la Jaubert traduce con “Maître”), visto che poco più avanti è utilizzato kýrios. 78 CL LX, 4 - LXI, 1.

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La conclusione è in parte fondamentale: Clemente, dopo aver indicato come la premura principale dell’intera lettera sia essenzialmente che gli abitanti di Corinto ritrovino la pace, sottolinea l’invio di messaggeri (“uomini fedeli e saggi, vissuti in mezzo a noi con modi corretti e dalla gioventù alla vecchiaia”), che saranno testimoni [ma vrturej] tra Roma e Corinto (LXIV, 3). Clemente, inoltre, sollecita (mostrando forse una certa preoccupazione a riguardo) a rimandare presto indietro, “nella pace e nella gioia”, questi messaggeri (LXIV, 1). Subito dopo invoca la benedizione del “Signor nostro Gesù Cristo”, conferendo a Dio gloria, onore, potenza e maestà e tro vnoj aijwvnioj a jpo ; tw'n aijwvnwn eijj tou'j aijw'naj tw 'n aijwvnwn. !Amhvn. (LXV, 2)”

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La lettera di Clemente: elementi di analisi concettuale § 7. Come si è potuto notare, il compendio da me svolto ha cercato di enucleare un ragionamento abbastanza stringente. Ho cercato cioè di mettere in maggiore evidenza l’esistenza di una argomentazione abbastanza consequenziale (la quale ha in sé tutta una serie di presupposti ed esiti concettuali di grande rilievo) rispetto a un’interpretazione che mette in risalto gli aspetti puramente esortativi e omiletici dello scritto. A mio giudizio, l’esito reale della lettera di Clemente è proprio quello di istituire un ordine simbolico che legittimi la sussistenza di poteri mondani rispetto all’esautorazione operata da Paolo. Per far ciò egli deve sviluppare tutta una serie di significativi collegamenti concettali ed ermeneutici, i quali saldano, in un asse fortemente argomentato, il transito tra diánoia, metánoia e omónoia.

Sacerdozio e comunità organica § 8. Com’è noto la paolina Lettera agli Ebrei contiene l’esposizione più elaborata della questione del sacerdozio. Non è mia intenzione soffermarmi a lungo su questi passi, anche in rapporto al fatto che quella lettera non appartiene al corpo degli scritti di Paolo definitivamente considerati autentici79. In essa però viene messa in discussione una concezione del sacerdozio “secondo la carne” [kata; novmon ejntolh'j sarki vnhj gevnomen]80, che viene abrogato (de-posto81) dal sacerdozio perpetuo di Cristo “secondo la potenza di una vita indefettibile [kata; duvnamin zwh 'j ajkataluvtou]”82. La santità (la separazione) di Cristo, il suo sacerdozio celeste, di fatto manifesta la completezza dell’ordinamento. Tanto che Paolo arriva a dire: “Se fosse sulla terra, egli [Gesù] non sarebbe neppure sacerdote [eij me;n ou\n h\n ejpi; gh'j, ouJd’ a]n h\n iJereuvj]”83. La questione del sacerdozio non riguarda solo l’amministrazione dei riti ma, primariamente, la gestione dei poteri che strutturavano i carismi nella comunità. La destituzione del sacerdozio secondo la carne implicava una critica radicale dell’organizzazione dei poteri secondo un’organizzazione che traeva legittimità da un passato. Quando nella Prima Lettera ai Corinzi, l’apostolo propone la più articolata descrizione della metafora corporea84 (successivo punto d’appoggio per la legittimazione di concezioni organiche della società), lo fa in un contesto (si leggano i capitoli 12-14) che, se approfondito, si manifesta come del tutto estraneo all’idea di un organismo che per mantenere le proprie funzioni biologiche comporta vicendevoli disposizioni gerarchiche da parte dei vari organi. Lungi dal ripetere una sorta di perifrasi del discorso di Agrippa sull’Aventino, appare evidente come la “teoria dei carismi” rivendica qualcos’altro che è comprensibile solo in un’ottica messianica (dono della profezia, dono della glossolalia, ecc... Sembra quasi che la comunità descritta da Paolo sia composta solo da profeti, esegeti, auditori [cioè, coloro che hanno il carisma dell’ascolto]...)85. In ogni caso, il corpo

79 Per evitare fraintendimenti e senza eccessive mediazioni, quando parlo di Paolo di Tarso mi riferisco allo scrittore di Rm. 1 e 2 Cor. e Gal., 1 e 2 Thess. Circa le altre lettere utilizzo un semplice argomento ex silentio, tranne per questo riferimento a Hebr. e, in seguito, a Tim. (in termini che mi portano ad escludere l’autenticità). Per un breve schema sulla questio dell’autenticità: S. Zedda, Prima lettura di San Paolo, Paideia, Brescia 1973, pp. 71-77. Per una seria analisi dei rapporti di Clemente con Paolo, si veda A. Lindemann, Paulus im ältesten Christentum, Mohr, Tübingen 1976, pp. 177-199. 80 Hebr. 7, 16. 81 Il termine è ajqevthsij (reprobatio, nella Vulg.), Hebr. 7, 18. 82 Hebr. 7, 16. 83 Hebr. 8, 4. 84 1Cor., 12-14. Cfr. anche Rm. 12, 4-8. 85 Lo stesso displacement effect in Rm. 12, 6-8: “Abbiamo pertanto doni [karivsmata] diversi secondo la grazia data ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia [...], chi ha un ministero [...], chi ha l’insegnamento [...], chi l’esortazione [...]”.

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spirituale che Paolo ha in mente non ha nulla a che vedere con una rappresentazione olistica delle gerarchie mondane e delle funzioni di subordinazione:

“Nella comunità paolina si raccolgono quelle persone liberate da tutti i legami organicamente naturali, dalla natura, dall’arte, dal culto e dallo stato, e nelle quali il vuoto, l’estraniazione dal mondo e la rottura con la mondanità hanno raggiunto un grado elevato. [...] In contrapposizione ai vecchi legami consolidati, la comunità cristiana rappresenta un insieme inorganico, posteriore, «pneumatico», formato soltanto di singoli individui.”86

§ 9. Anche in Clemente è presente una versione della metafora corporea, la cui semplice citazione può farci cogliere la grande differenza che la separa da quella di Paolo:

5. “Prendiamo il nostro corpo [sw'ma]. La testa non può stare senza i piedi, né i piedi senza la testa. Le più piccole parti del nostro corpo sono necessarie ed utili a tutto il corpo [ta; de; ejlavcista mevlh tou ' swvmatoj hJmw'n ajnagkai'a kai; eu[crhstav ei jsin o{lw/ tw '/ sw vmati]; ma tutte convivono ed hanno una sola subordinazione [ajlla; pavnta sunpnei' kai; uJpotagh '/ mia'/ crh 'tai] per salvare tutto il corpo [eijj to ; swvzesqai o{lon to; sw 'ma].”87

La dimensione della salvezza è chiaramente inscritta in un’ottica comunitaria-organica in cui le kléseis singolari sono del tutto revocate, in rapporto alla naturalità dei rapporti che evidenziano il fenotipo del corpo societario. Certamente l’ottica clementina è ancora per certi versi messianica (il corpo è elettivo), ma la sua risoluzione produce un effetto di contenimento di quella prospettiva. § 10. Certo tutto questo discorso parrebbe assumere le vesti di una constatazione “sociologica”, di una mera evidenza. A mio giudizio questa interpretazione a riguardo è fuorviante. Ancora una volta tengo a ribadire come non ci troviamo di fronte al semplice manifestarsi di un influsso ideologico, quanto di una precisa presa di posizione da parte dell’autore nei confronti di un antagonismo reale verificatosi a Corinto. Nella situazione descritta da Clemente, bisogna ricordare come il punto di partenza essenziale è una crisi della comunità, la qual crisi possiede una natura estremamente particolare: non è soltanto lo scontro tra diverse fazioni interpretative, essa ha essenzialmente dei risvolti politici, perché coincide con la messa in discussione, da parte di alcuni, della validità di qualsiasi principio gerarchico. In questo caso, per gerarchia s’intende, duplicemente, sia il principio che regola la sottomissione di alcuni uomini a disposizioni altrui (l’amministrazione dei carismi), sia un’amministrazione della comunità da parte degli anziani: nel caso delle prime comunità cristiane le due cose coincidevano. È chiaro, però, come il problema ripresentasse in termini sempre più stringenti la questione della Verzögerung, in quanto la conoscenza diretta di Gesù o degli apostoli da parte dei ministri diventava, ovviamente, sempre più rara88. In questo senso la vicinanza “esistenziale” alla Parousia non poteva più rappresentare un principio regolatore, a meno che non venisse riproposto secondo una modalità di trasferimento “naturale”. In questo senso si alimenta il contrasto tra la modalità del trasferimento che rappresenta, come vedremo, il problema della exousía. § 11. La messa in discussione delle proto-gerarchie presbiteriali poteva scaturire direttamente da una determinata interpretazione del messaggio di Gesù, come anche da una certa lettura neppure troppo latente della predicazione paolina89. L’organizzazione di una comunità in base a principi

86 J. Taubes, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano 1997, p. 93. Di parere contrario Ellis, sulla cosiddetta corporative personality in Paolo non come “metafora” ma come “realtà ontologica”, E. Earle Ellis, L'Antico Testamento nel primo cristianesimo, Paideia, Brescia 1999, p. 146. 87 CL XXXVII, 5. 88 Si veda, pur nella frenetica concisione dell’esposizione, J. Taubes, Escatologia..., cit., pp. 69-113. 89 Inutile ricordare come Paolo ebbe a che confrontarsi con l’interpretazione radicale gnostica della stessa sua predicazione.

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naturalistici, per certi versi arcaici, era ciò che alcune correnti di “gnosticismo cristiano”90 ritenevano del tutto infondato a fronte della novità cristica: non era più concepibile che un uomo, in base alla sua propria storia naturale (il fatto di provenire da un certo ambiente, o clan, o tribù, o altro, oppure di aver maturato esperienza e saggezza per il semplice fatto di essere invecchiato...), potesse dedurre una qualche legittimità nell’amministrare. Al contrario, la natura totalmente estrinseca della grazia, cioè totalmente derivata ma anomala, corrispondeva alla possibilità, per alcuni, di ritenersi completamente svincolati da qualsiasi obbligo o impedimento esterno. Anzi, proprio l’evento può rendere pensabile qualcosa come esterno, come disorganico rispetto all’inviolabile organicità della comunità. § 12. Paolo stesso si deve confrontare con tale questione, la quale, per certi versi, poteva essere tratta dalle sue stesse parole. Egli però inserisce la critica al “fondamentalismo” di quell’interpretazione91 all’interno di una logica radicalmente messianica. La sottomissione che sembra essere conservata nel paolino System der Sittlichkeit diventa solo l’apparenza rispetto a una salvezza che si può affermare spiritualmente (ma ciò significa anche letteralmente) già presente: questa è il nodo della katárgesis messianica, su cui lungamente si sofferma Agamben nel suo recente libro su Paolo92. La “dichiarazione di guerra” di Paolo a Roma93 revoca completamente l’exousía alle potestà mondane. Clemente, invece, non è più in grado di teorizzare una risposta radicalmente messianica (o, se vogliamo, comincia a esprimere la natura critica dell’idea attraverso una sua ambigua ipotesi di mediazione): l’avvento della seconda parousía ha troppo tardato! Egli è piuttosto preoccupato per una reale sopravvivenza della comunità, in rapporto alla quale un’interpretazione eccessivamente radicale dell’Evangelo poteva rappresentare più che una minaccia; per esprimersi un po’ brutalmente, sembra che Clemente sia inquietato dal fatto che il messaggio di Cristo venga preso in modo eccessivamente “zelante”. Proprio lo zelo, infatti, è ciò che, in una situazione così critica a causa delle persecuzioni esterne, può essere la causa della catastrofe. Ma come fondare questa critica dello zelo? Come giustificare l’invito a una sorta di fede non radicale? La risposta di Clemente, pur apparentemente simile negli esiti, è essenzialmente diversa da quella di Paolo, per certi versi opposta. Paolo istituisce la comunità a partire da un evento, da una novità incondizionata in forza solamente di un annuncio: proprio in base alla possibilità di questa novità, il discorso paolino concepisce la sottomissione e le gerarchie nella comunità come elemento apparente di una sospensione messianica della legge94. La sospensione disattivante (katárgesis) agisce radicalmente in quanto non è un atto di opposizione “adialettico”, al contrario la sospensione, nel gesto del conservare, espone la radicale inconsistenza del passato, il suo trapasso nel futuro messianico: in questo senso è il presente a fondare il passato, a chiarire la legittimità del passato95. Clemente, invece, fonda il presente, la gestione del presente, sulla base della legittimità del passato: il presente sembra non reggersi da sé, dunque si deve far riferimento alla sua continuità con il 90 Con questa espressione non mi riferisco ovviamente ai più tardi sistemi propriamente detti “cristiano-gnostici” (Valentino, Basilide, ecc...). Si tratta di un’allocuzione utilizzata, in qualche modo anche impropriamente, per definire una possibile forma di recezione del kérigma: esso si radicava in un contesto singolare-plurale che può essere definito gnosticismo, il quale si manifesta, da una parte, come una specie di koiné ideologica che attraversa giudaismo, paganesimo e correnti spirituali “orientaliste ed esoteriche” a cavallo dell’Era Cristiana, e dall’altra configura una serie di impliciti interni al percorso singolare delle varie tradizioni. Per gnosticismo cristiano si intende, dunque, in questa fase e in riferimento alla specificità corinzia, un corno di una dialettica che riguarda il fenomeno dell’evangelizzazione. Paolo si inserisce di petto in quel dibattito e in 1Cor 2, 6 - 3, 4 troviamo tutto un repertorio lessicale (cfr. la suddivisione degli uomini in sarkinoiv, yucikoiv e pmeumatikoiv) di incontro/scontro in cui emerge la capacità dell’apostolo di rivoltare dialetticamente la recezione in rapporto al suo annuncio. 91 Si pensi al problema delle agápi, 1Cor 11, 17-22. Circa das Problem der Unzucht si veda W. Schmithals, cit., pp. 217-225. 92 G. Agamben, Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 93 J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997, p. 37 ss.. 94 G. Agamben, op. cit., pp. 25 ss. 95 Per una possibile comparazione tra katárgesis e Aufhebung si veda ivi, pp. 94-96.

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passato per garantire il rispetto di un ordine nel presente. Il procedimento di giustificazione, dunque, deve far capo a un repertorio esemplare, a una tradizione, che indicava normativamente la necessità di sottomettersi agli anziani. Per chiarire i dubbi circa la contesa (lo zelo) scoppiata in Israele intorno al sacerdozio ['Epei'kenoj ga;r zhvlou ejmpesovntoj peri ; th'j iJerwsuvnhj]96, Clemente si esprime in questi termini:

“Che meraviglia se quelli che avevano fede in Cristo stabilirono come opera da parte di Dio i ministri prediletti [lett. ‘i prescelti’, tou;j proeirhmevnouj ]? Anche Mosè «fedele servitore in tutta la casa» segnò nei libri sacri tutto ciò che gli fu ordinato. [...] Fece così perché non scoppiasse un tumulto [ i {na mh ; ajkatastasiva gevnhtai] in Israele [...].”97

Questa sorta di pragmatismo, il quale non faceva altro che consigliare l’affidamento agli anziani della comunità, in quanto naturalmente più saggi e più cauti, trova una base di giustificazione in un passato che, però, era sospeso proprio a livello della sua forza normativa. La ripresentazione di un’istituzione sacerdotale, sul fondamento di una tradizione legittimante, ha sicuramente una funzione essenziale come risoluzione della profonda scepsi determinata dal kérigma.

Cosmo organico § 13. In definitiva, Clemente ripresenta una concezione tradizionale della comunità, secondo un modello di tipo essenzialmente organico. La legittimità della tradizione normativa e l’organicità della comunità si fondano, a loro volta, su un principio unificatore, la concordia (omóiosis), la quale ha caratteristiche essenzialmente universali. Vi è certo un intento pacificante nell’operazione di Clemente, ma questo intento non è per nulla pacifico in rapporto all’evento cristico. Almeno nella recezione paolina, e nella maggioranza delle correnti gnostico cristiane, la relazione tra Regno di Dio e saeclum prende la consistenza di una cesura radicale98: se anche, come in Paolo, non si arriva a dichiarare l’essenziale malvagità del cosmo, l’ordine demoniaco dell’universo creato, sicuramente non è possibile trarre una norma che renda continuativa la realtà del mondo con quella del Regno. Il mondo insieme a tutto l’ordinamento che ad esso concerne altro non sono che il riflesso di una salvezza ancora a venire, esso è il luogo del “lamento della creatura”:

“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.”99

§ 14. Al contrario Clemente ritiene che proprio la dimensione ritmicamente pacificata dell’universo, l’essenziale ciclicità del suo movimento, sia di esempio (cioè, fondamento) della ripetizione degli ordini politici mondani. Il mondo, cioè, è lo specchio della volontà di Dio, esso è interiormente buono in quanto creato ed è creato secondo un ritmo di ripetizione che mostra eternamente l’uguale di se stesso. Alla base del mondo vi è un pánta aéi che è in sé buono; anzi si può arrivare ad affermare come la bontà sembra essere ricavata da quella sorta di ripetizione relativizzante, cioè una ripetizione che, proprio in quanto eterna, mostra la natura pericolosamente effimera dei gesti singolari, dei gesti che raccolgono l’universale nel particolare secondo una figura che può essere propria dello zelo (la faziosità come gesto che dichiara l’universale). Eppure proprio questa eternità di ripetizione è ciò che non rende più pensabile l’ingresso di una novità assoluta all’interno del

96 CL XLIII, 2. 97 CL XLIII, 1 e 5. 98 Si tenga sempre presente il celebre versetto in Mt. 10, 34: “non veni pacem mittere sed gladium”. 99 Rm 8, 19-23.

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mondo, non è cioè pensabile come buona la cesura dirompente di un evento che metta in crisi proprio il carattere eterno del mondo. Lo zelo, lungi da dichiarare “cattolicamente” la possibilità di questa cesura, diventa un puro atto di eversione, egoistico e tracotante, un fenomeno della philopsychía, negativo perché non tiene conto delle gerarchie presenti in tutti i livelli del mondo, e, soprattutto, non tiene conto del fatto che la stessa volontà di Dio mostra nell’universo il continuo ripristino di queste gerarchie. § 15. Sembrerebbe pleonastico indicare la caratterizzazione profondamente greco-ellenista di questa cosmologia, ma, a mio giudizio, non si dovrebbe dedurre da ciò il semplice verificarsi di un sincretismo, come tipico fenomeno di riflesso della religiosità imperiale. Molto più probabilmente si dovrebbe cercare di capire come l’ipotesi di Clemente sviluppi un esito specifico di un confronto radicale con la novità cristica: il suo sincretismo, cioè, non è tanto una sorta di sviluppo naturale secondo le linee di una qualche koiné spirituale ai tempi dell’Impero, quanto una precisa risposta alla contraddizione messa in atto dall’evento e, dunque, una particolare operazione di neutralizzazione della portata eversiva dello stesso. I punti in cui è necessario verificare questa affermazione sono quelli in cui risulta maggiormente impervio (se non impossibile) identificare effetti di continuità dell’evento con la precedenza. Mi riferisco in particolare alla resurrezione. La resurrezione che, nella versione paolina, è per i pagani il puro e semplice absurdum100, diventa qui uno dei tanti fenomeni rilevabili con l’osservazione della natura101. Un fenomeno che si ripresenta (e che si è sempre ripresentato) di continuo.

Ex captivitate salus § 16. In termini generali, si può affermare come Clemente realizzi un’operazione di doppia sutura che, implicitamente, fa fronte alla cesura prodotta dall’evento cristico: per un verso sutura il simbolico della cosmologia stoica con l’evento cristico, per un altro sutura la ricaduta simbolica dello stesso evento all’interno di quella cosmologia. In questo modo egli trova il “punto di capitone” che gli permette di configurare l’evento come una forma simbolica per dar così vita al cristianesimo in termini di religione. Nella mia interpretazione il luogo teologico e politico di questa sinartrosi è dato dalla (possibilità di) conversione come continua possibilità di rimettersi nel ciclo dell’organizzazione cosmica (“di generazione in generazione il Maestro [le Maître] ha dato luogo al pentimento [conversione]” [ejn genea'/ kai; genea'/ metanoivaj tovpon e[dwken oJ despovthj]”102); in termini generali, il fondo di tale possibilità corrisponde alla ciclicità della resurrezione. Soltanto attraverso questa doppia implicazione del simbolico il “messaggio di Cristo” può diventare un culto riconoscibile tra gli altri, soltanto suturandosi al contesto saturo di culti può nascere il cristianesimo come uno di essi. Una delle evidenze forse maggiormente ignorate nel momento in cui ci si riferisce ai Vangeli e alle lettere paoline, è il fatto che non compaia mai il termine “cristiano”, e, soprattutto per quanto ci riguarda, non compaia il termine treschéia (in relazione allo specifico della predicazione paolina). Treschéia era la parola più vicina al latino religio ed è traducibile con ‘culto’. È, a mio giudizio, estremamente fondamentale (e comprensibile) come questo specifico termine compaia per la prima volta, per quanto ne sappiamo, proprio in Clemente. Egli proprio in conclusione di tutta la sua lettera afferma:

“Fratelli, vi abbiamo scritto abbastanza sulle cose che convengono alla nostra religione [...].”103

100 “ajkouvsantej de ; ajnavstasin nekrw'n, oiJ me;n ejcleuvazon”, At. 17, 32. 101 La natura, come creazione, è in relazione speculare con Dio di cui viene detto, con stupefacente consonanza al lessico filosofico greco: “”Idwmen aujto;n kata; diavnoian kai; ejmblevywmen toi'j o [mmasin th'j yuch 'j [Contempliamolo con il pensiero e guardiamo con gli occhi dell’anima] [...].”, cfr. CL XIX, 3. 102 CL VII, 5 103 “Peri ; me;n tw 'n ajnhko vntwn th'/ trhscei va/ h Jmw'n [...] iJkanw'j ejpesteivlamen uJmi'n, a[ndrej ajdelfoiv”, CL LXII, 1.

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Il termine, che viene a sostituire il precedente didaké, ha un effetto immediato sulla rappresentazione del “cristianesimo”: esso ne relativizza la portata e riconduce la fede delle comunità a livello di uno tra i numerosi culti avventisti della koiné imperiale. Per quanto questo gesto possa apparire puramente terminologico e indolore, il risultato è l’iscrizione dell’Evangelo nel sistema dei culti e dunque di una sua sussistenza come parte cosmica. Si potrebbe affermare come, forse per necessità104, si assista a una rinuncia a priori del “principio cattolico”. Tale rinuncia permetterà in seguito alla Chiesa “cattolica” l’integrazione come culto ufficiale nel cosmo gerarchizzato dell’impero. § 17. Ripetendo dunque il ragionamento in termini sommari, si potrebbe compendiare in questi punti i passaggi fondamentali, i quali sembrano seguire un andamento ciclico-ricorsivo, di cui la resurrezione fornisce lo schema:

• scepsi interna e crisi della comunità • perdono e (ri)conversione • concordia e riappacificazione (= resurrezione)

A questo schema si legano tutta una serie di corollari di natura prettamente politica:

• omónoia e conformismo sociale • mantenimento dello status quo e sottomissione alle gerarchie • riaffermazione del principio sacerdotale e gerarchico sia all’interno che all’esterno delle

comunità § 18. L’asse tra diánoia e metánoia (= omónoia) che bene poteva reggere nell’ordine cosmologico greco, deve qui appoggiarsi a una determinazione kerigmatica (la resurrezione) per supportare il locus crucis che vedeva nella morte e resurrezione di Cristo la follia dei pagani. Probabilmente, però, l’assorbimento della resurrezione all’interno di quell’ordinamento ha comportato un totale annullamento del kérigma. L’argomento del pánta aei, in termini di salvezza, dal punto di vista metafisico permette di affermare la continuità e la legittimità degli ordini gerarchici nel mondo, a fronte di una critica radicale messa in atto da un’interpretazione gnostico-radicale del cristianesimo.

Katà tous Gnostikoús? § 19. Vorrei a questo punto indicare come all’interno della lettera siano presenti in forma anti-tipica tutta una serie di motivi che, implicitamente o esplicitamente, confutano elementi che possono essere fatti risalire a un contesto gnostico. Non intendo affermare che la lettera di Clemente sia codificabile come un piccolo trattato contro gli gnostici. Forse molto di più: senza nominarli direttamente, Clemente fornisce un’esposizione completamente antitetica rispetto alla cosmologia gnostica (o, meglio, all’anticosmismo); ciò era una operazione necessaria per fondare un discorso che legittimasse la finalità della lettera (“riportare la concordia all’interno della comunità”), ma la finalità risultava legittimata solo se riusciva a codificare la salvezza all’interno della proposta. § 20. Bisogna sottolineare come, nel teatro di dibattimento circa l’evento cristico, lo gnosticismo è stato inserito dai critici in qualità “terzo tempo”, e non doveva dunque essere confuso semplicemente come nucleo primario di ellenizzazione del cristianesimo delle origini105. Questo è vero se si prova a formulare l’ipotesi di una messa in discussione reale, ai tempi delle prime

104 Si ricordi l’incipit della lettera: “Per le improvvise disgrazie e avversità...”. 105 H.-Ch. Puech, La gnosi e il tempo, in Le metamorfosi del tempo, red edizioni, Como, 1999, p. 14 (si tratta della traduzione italiana del n. 20 degli Eranos Jahrbuch del 1952).

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comunità, di forme singolari di reazione all’evento, disposizioni soggettive di prossimità, e non pure e semplici concezioni - molto più simili a moderne ideologie (tempo ciclico greco, tempo lineare biblico, tempo-frammento degli gnostici...) su cui collocarsi in modo quasi archetipale. Proprio in questo senso il paradigma gnostico, per come è stato presentato da Jonas e altri, fornisce una matrice di leggibilità dell’intero scenario: non abbiamo a che fare con semplici scuole di pensiero ma con movimenti singolari in cui le forme di soggettivazione assumevano un significato radicale per l’intera possibilità dell’esistenza. Nello stesso scenario, sulla base degli stessi problemi, si inserisce la risposta di Clemente: non certo come un ripristino di un’ortodossia realmente ante litteram, ma come un inedito dalla portata, a posteriori, estremamente significativa. Schematicamente è possibile riassumere gli elementi d’opposizione alle concezioni gnostiche:

1) filocosmia provvidenzialista VS anticosmismo § 21. Come è noto nell’orizzonte tipicamente gnostico il mondo diventa un ricettacolo demoniaco, in cui dominano angoscia e senso d’oppressione:

“Ero in mezzo ai miei nemici, Le bestie che mi circondavano; Il fardello che portavo È quello delle potenze e dei Principati.” “Possa tu liberarmi da questo profondo nulla, Dall’abisso tenebroso che è tutto consunzione, Che è solo tortura, ferite fino alla morte, E dove non si trova né soccorritore né amico!” 106

In termini di architettura eonica, ciò dipende dal fatto che l’universo creato non è affatto opera del ágathos theós, il dio totalmente trascendente e irrelato, quanto di quel dio ignorante e violento che, per mezzo della creazione stessa, tiene sotto il suo dominio le creature:

“Le leggi dell’universo sono le leggi di questa dominazione e non della sapienza divina. Il potere diviene così l’aspetto principale del cosmo e la sua essenza interna è l’ignoranza (agnosia). [...] Questo universo non ha nulla della venerabilità del cosmos greco. Gli si applicano epiteti dispregiativi: «questi elementi miserabili» (pauperrima haec elementa), «questa minuscola cella del creatore» (haec cellula creatoris) Pure è ancora cosmos, ordine, ma un ordine con [343] vendetta, estraneo alle aspirazione dell’uomo.[...] Il logos cosmico degli Stoici, che era identificato con la provvidenza, è sostituito dall’heimarméne, il fato cosmico oppressivo.”107

Si voglia confrontare, ex contrario, la formulazione di Clemente in CL XX:

“1. I cieli che si muovono secondo l’ordine di Lui gli ubbidiscono nell’armonia [ejn eijrh vnh/]. 2. Il giorno e la notte compiono il corso da Lui stabilito e non si intralciano a vicenda. 3. Il sole e la luna e i cori delle stelle secondo la sua direzione girano in armonia [ejn o Jmonoi va/] senza deviazione [di vca pavshj parekbavsewj]108 per le orbite ad essi assegnate. 4. La terra feconda per Sua volontà, produce abbondantemente nutrimento per gli uomini, per le fiere e per tutti gli animali che vivono su di essa, senza riluttanza e senza cambiare nulla dei Suoi ordinamenti. 5. Le cose misteriose degli abissi e i giudizi inesplicabili degli inferi sono retti dagli stessi ordinamenti. 6. La massa del mare immenso che nella sua creazione si raccolse nei suoi antri, non supera i limiti posti, ma come fu ad esso ordinato, così agisce. 7. Disse infatti, «Fin qui tu verrai, e i tuoi flutti si infrangeranno in te stesso». 8. L’oceano senza fine per gli uomini e i mondi , che sono oltre, sono retti dalle stesse leggi del Signore, 9. Le stagioni di primavera,

106 Estratti dal Salmo di Gesù (CCXLVI) e dal dal Frammento di Tourfan (T II D 178), cit. in H. Ch. Puech, op. cit., p. 34. 107 H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, Torino 1991, pp. 342-343. 108 Letteralmente “in opposizione a una trasgressione di ciascuno”, appunto “senza deviazione”

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d’estate, d’autunno e d’inverno si susseguono in armonia una dopo l’altra. 10. [...] Anche gli animali più piccoli si riuniscono nella pace e nella concordia. 11. Il creatore e signore dell’universo dispose che tutte queste cose fossero nella pace e nella concordia, benefico verso tutto e particolarmente verso di noi [...].”

Questa idillica versione della necessaria harmonia universalis si rovescia, negli gnostici, nel suo doppio infernale, tanto che si può dire come questa immagine del cosmo non sia affatto opposta nella struttura, quanto diametralmente contraria nell’interpretazione. Vi è cioè un apparentamento nella struttura e nel principio che regge l’universo: la differenza sta nel giudizio che viene dato a questa struttura. Già per gli stoici, l’heirmaméne che regge l’universo produce un fatalismo insopportabile, l’unica risposta a questa realtà è quella della accettazione:

“Un fatalismo un po’ disincantato o disperato affiora in epoca greco-romana tardiva. Molti cercano dunque di sfuggire a questa duoleia, a questa schiavitù del destino iscritta negli astri, ‘suggellata’ dal cielo, presente nella corrispondenza degli eventi dell’universo che formano una catena. Ma dato che l’ordine e le leggi del cosmo sono immutabili ed eterne, la cosa migliore da fare è sottomettersi, rassegnarsi, salvo attingere nella coscienza dell’inevitabile gli elementi di una saggezza ripiegata su se stessa, paga di poco e con un retrogusto di amarezza [...]. Ma non è possibile insorgere contro il corso del mondo e contro il mondo stesso, o negare la supremazia e la divinità del firmamento visibile e dei corpi celesti. Questo sarà il contributo degli stoici.”109

Per gli gnostici, al contrario, proprio questa determinazione del mondo, produce un senso di disgusto a cui corrisponde un profondo desiderio di ribellione, una carica eversiva che si scaglia con l’intero ordinamento che regge la radicale malvagità del cosmo:

“[...] laddove il greco esalta, accetta, si adegua, lo gnostico condanna, rifiuta, si ribella. La regolarità gli appare come una ripetizione monotona e opprimente; l’ordine e la legge (il nomos fisico e morale) come un giogo insopportabile; l’azione esercitata dalle posizioni e dal corso degli astri sui destini terrestri come una schiavitù ingiusta e tirannica.”110

§ 22. A differenza del fatalismo ellenista, il cristianesimo gnostico è supportato da un dispositivo messianico che agisce in prossimità dell’evento cristico, cioè del klinámen indeducibile, dell’intervento fulmineo del dio trascendente nel regno della sua negazione. Al contrario di ciò che dice Clemente, manifestazione e rivelazione di Dio non è per nulla il fatto che gli astri procedano nel loro corso secondo necessità, divca pa vshj parekba vsewj, “senza deviazione”, quanto proprio l’inaudita evenienza della rottura di questo corso eterno. Le rivelazioni del Dio, dunque, tutt’altro dall’essere permanenti e continue si caratterizzano per essere “bruschi interventi del trascendente nell’umano, iniziative improvvise di Dio da nulla giustificate né preparate, arbitrarie irruzioni che finiscono per dare al tempo dello gnosticismo il suo andamento inorganico”111. In ogni caso, e questo è sicuramente un fondamentale elemento di differenziazione, dalla struttura dell’universo per come appare non è affatto possibile ricavare o dedurre alcuna caratteristica del divino trascendente:

“Il dio stesso trascendente è nascosto a tutte le creature e non può essere conosciuto mediante concetti naturali. La conoscenza di Lui richiede rivelazione soprannaturale e illuminazione ed anche allora può difficilmente essere espressa altrimenti che in termini negativi.”112

Se in Clemente i fenomeni naturali rappresentano rivelazioni permanenti della presenza di Dio nel mondo (“pw'j oJ despovthj ejpideivknutai dienekw'j hJmi'n”, CL XXIV)113, negli gnostici proprio gli

109 H. Ch. Puech, op. cit., p. 14 110 Ivi, p. 27. 111 H. Ch. Puech, op. cit., p. 47. 112 H. Jonas, op. cit., p. 63 [corsivo mio]. 113 LX 1. “Con le tue opere hai reso visibile l’eterna costituzione del mondo [th;n ajevnaon tou' ko vsmou suvstasin]”

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stessi fenomeni ne mostrano la totale assenza, alla quale opporsi con un gesto di radicale ribellione, con una sorta di rivoluzione permanente.

2) ubbidienza alle autorità terrene VS ribellione

“L’universo, il dominio degli Arconti, è come una vasta prigione la cui cavità più interna è la terra, lo scenario della vita dell’uomo.”114

§ 23. Profondamente legata al tema cosmologico e al “rifiuto del mondo”, è dunque la questione della sottomissione alle autorità terrene. Come sappiamo, l’architettura gnostica del cosmo si struttura su un numero talvolta indefinito di livelli presieduti da malvagi arconti; questo governo, la cui realtà riguarda tanto i fenomeni naturali che quelli umani, è più simile a una tirannia che tiene prigioniere le creature nel loro stato di disperazione:

“Gli Arconti governano collettivamente sul mondo, e ciascuno individualmente nella sua sfera è un guardiano della prigione cosmica. Il loro tirannico governo del mondo è chiamato heimarméne, concetto preso dall’astrologia ma colorito ora di spirito gnostico anticosmico. Nel suo aspetto fisico questo governo è la legge di natura; nel suo aspetto psichico, che include per esempio l’istituzione e l’approvazione della legge mosaica, mira all’asservimento dell’uomo.”115

La medesima legge, dunque, presiede l’immutabilità dei rapporti naturali e “politici”. È dunque possibile ripetere l’argomento che abbiamo svolto circa l’immagine dell’universo: anche in Clemente, infatti, la realtà dei rapporti umani e quella degli eventi naturali hanno una natura omogenea, in esse presiedono la medesima divina volontà e il medesimo principio. Le comunità umane, cioè, non fanno altro che riflettere specularmente l’insieme dei rapporti gerarchici presenti nei fenomeni naturali, secondo un principio di mutua assistenza:

“3. [...] ciascuno nel proprio ordine esegue i comandi dei re o dei governanti. 4. I grandi non possono stare senza i piccoli e i piccoli senza i grandi; in tutte le cose c’è qualche collegamento e in questo la utilità.”116

Proprio il riconoscimento di un ordine già presente, dunque, legittima la bontà dell’ordine stesso. E così, se per gli gnostici gli arconti (principi) altro non sono che secondini della disperazione umana, in Clemente essi diventano addirittura uno tra i doni magnifici che Dio ha elargito all’uomo [“megalei 'a tw'n uJp’ aujtou' dedomevnwn dwrew'n”, CL XXXII, 1]. Chiaramente tale concezione si riesce a comprendere in un contesto in cui le “speranze messianiche” risultano già sopite, perlomeno in rapporto a una loro realizzazione che riguardasse la generazione in corso. Dunque una connotazione eversiva della recezione del kérigma, in relazione agli ordini mondani, cominciava già ad essere rivestita di una tinta d’eresia117. Già l’autore della Prima Lettera a Timoteo, che si tende a non identificare con lo stesso Paolo, afferma:

“Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere [uJpe;r basilevwn kai; pavntwn tw'n ejn uJperoch'/ o [ntwn], perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa

114 H. Jonas, op. cit., p. 63. 115 Ivi, p. 64. 116 CL XXXVII, 3-4; importante l’espressione: “suvgkrasij tivj ejstin ejn pa'sin, kai; ejn touvtoij crh 'sij” 117 “Alla chiesa basta lo spirito, e questo rende superflua l’apocalittica. Non solo si può fare a meno della parusia, ma i cristiani arrivano a pregare un rinvio della fine, «perché noi non desideriamo viverla e nel pregare perché sia prorogata, auspichiamo la durata di Rom». Già nella Prima lettera di Timoteo si delinea chiaramente questo cambiamento. Non viene raccomandato di pregare per l’inizio del regno di Dio, ma «per tutti i re e tutte le autorità, affinché possiamo condurre una vita serena e tranquilla di devozione e decoro». Ben lungi dall’essere un elemento rivoluzionario, la chiesa cristiana diventa decisamente filoimperiale ancor prima del suo riconoscimento da parte dell’Impero romano.”, J. Taubes, Escatologia..., cit., p. 107.

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è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità.”118

L’idea di una bontà dei regni mondani si lega qui all’ipotesi dell’evangelizzazione universale, e dunque l’atteggiamento adeguato risulta essere quello di una legittimazione degli ordinamenti esistenti come unico mezzo possibile per il realizzarsi della salvezza di tutti gli uomini. Risulta assai difficile però comprendere come questa visione sia concettualmente pensabile in un contesto socio-politico portato alla persecuzione delle comunità. § 24. Ribadendo ancora una volta il movimento speculare, se in Clemente la presenza di tutti questi collegamenti gerarchici rappresenta una prova manifesta della presenza divina, per gli gnostici ne configura l’alienazione, per cui “la vastità e la molteplicità del sistema cosmico esprime il grado di separazione dell’uomo da Dio.”119 Lo stesso contesto, dunque, determina alternative opposte. Con un ragionamento quasi circolare, Clemente espone la necessità dell’ubbidienza a partire dalla realtà delle gerarchie, condannando ogni forma di intemperanza e di disubbidienza. In questo senso, la volontà divina, lungi dal determinare condizione di trasformazione dell’ordine umano, sembra esprimersi come fattore di conservazione delle gerarchie. Proprio l’innegabile presenza delle gerarchie terrene rappresenta invece, per gli gnostici, uno dei motivi che spinge in direzione della ribellione, della rivoluzione degli ordini: la stessa rivolta di Corinto fu uno di quei gesti di sovvertimento politico, i quali dovevano realizzarsi su tutti i fronti del mondo:

“La legge dell’Impero sotto la quale [il cristiano gnostico] si trovava, faceva parte di una forza esterna, inaccessibile; e per lui la legge dell’universo, il destino cosmico, di cui lo Stato era l’esecutore terreno, assumeva lo stesso carattere. Il concetto di legge era perciò messo in discussione in tutti i suoi aspetti: come legge naturale, come legge politica e come legge morale.”120

§ 25. Le modalità proprie di questa ribellione non rappresentano certo l’aspetto più interessante del discorso che stiamo portando avanti. Molto più essenziale è il fatto che il principio, legittimante la possibilità della ribellione stessa, venga rintracciato nella dialettica paolina tra abolizione della legge e grazia121. L’ipotesi di una Corinto come storico “avamposto della gnosi”, anche - o proprio - sulla base di un’influenza paolina, è stata portata avanti con assiduità in principio del secolo scorso, in clima della cosiddetta teologia liberale122, e, in particolare, sulla scia degli studi di Harnack su Marcione123. Il rischiosissimo significato (potenzialmente antisemita), che s’annida nel ripristino di questa cesura incondizionata rispetto a una propria precedenza, è stato già sottolineato con tutta forza da Buber124. Tenendo costantemente presente questa linea sottile, valicata la quale il concetto

118 1Tim. 2, 1-4. 119 H. Jonas, op. cit., p. 63. 120 H. Jonas, op. cit., p. 345. 121 Fra tutte Rm. 6, 14: “Il peccato infatti non dominerà più su di voi, poiché non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia.” 122 Cfr. in particolare W. Lütgert, Freiheitpredigt und Schwarmgeister, 1908, pp. 119 ss. 123 A. v. Harnack, Marcion: das Evangelium von Fremden Gott. Eine Monographie zur Geschichte der Grundlegung der Katolischen Kirche. Neue Studien zu Marcion, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1985 (rist anast. dell’ed. or. Hinrichs, Leipzig 1924). 124 M. Buber, Reden über das Judentum, in Werke, Vol. III, Kösel-Verlag e Verlag Lambert, Scheider, München-Heidelberg 1964. Buber fa un parallelismo neppure troppo implicito tra il gesto spirituale di Marcione e di Harnack che studia Marcione e la risposta politico-totalitaria che a suo giudizio corrispose al pensiero marcionita: “Nella stessa epoca in cui Adriano reprimeva la sommossa di Bar Kochba, facendo di Gerusalemme una colonia romana e costruendo, al posto del Secondo Tempio, un tempio dedicato a Giove, dall’Asia Minore arrivava a Roma Marcione, che portava con sé, come contributo spirituale alla distruzione di Israele, il suo proprio Vangelo. [...] Jarnack è morto nel 1930; tre anni dopo, il suo pensiero, il pensiero di Marcione, è stato messo in atto non con mezzi spirituali, ma con

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di liberale si metabolizza nell’epifania del suo antitipo fascista, ritengo che non si dovrebbe definitivamente accantonare la congettura di questo piano assiale tra Paolo e la gnosi, non tanto come esposizione del “nucleo di verità del cristianesimo”, ma come possibile fenomenologia di un difficile processo di costruzione concettuale. Questo discorso tende semplicemente a ribadire come l’elaborazione concettuale in corso in quegl’anni non possa trascriversi post festum nello schema semplificato ortodossia/eresia, nei termini di un seppur necessario125 - ma irrimediabilmente fallace - fraintendimento dell’evento, ma sia piuttosto frutto di dialettiche e antagonismi suscitati da entusiasmi singolari in relazione a un annuncio di prossimità, su un luogo che, in quel frangente, non era affatto ancora decidibile. Per gli gnostici proprio questa prossimità d’evento diventava principio rivelativo di assoluta legittimazione. Dichiarare questo nucleo di possibilità completamente estraneo all’elaborazione paolina non pare essere attendibile, neppure a uno sguardo filologicamente attento.

3) tapeinóphron kai ypodeés (CL XIX) VS exousía § 26. È in relazione a queste indicazioni che è possibile introdurre il passaggio che segue. Il termine ejxousiva assume, nel nostro discorso, le fattezze di un punto centrale. Esso infatti è il luogo in cui si raccoglie tutto il nesso teologico-politico che sta a monte di questo saggio. Termine sicuramente fondamentale in tutti gli scritti neotestamentari, e non solo, esso concentra il rapporto dialettico che avvicina la libertà individuale e collettiva alla possibilità di agire puramente in accordo a questa libertà, indipendentemente da disposizioni esterne. Nello stesso tempo, la exousía esprime la medesima condizione di possibilità in relazione all’ordine politico: essa, cioè, fornisce il grado di legittimità proprio di chi governa. Nonostante la exousía mostri una totale coincidenza tra libertà negativa e positiva, essa non esclude un suo trasferimento da parte di Dio nei confronti di altri. Al contrario è necessario affermare come, sia all’interno dell’ellenismo come però anche nelle comunità cristiane delle origini, la exousía si fondi su un trasferimento, che promana per gradi proprio a partire dall’unica potestas absoluta, quella divina, transitando rispettivamente per le potestà mondane. Eppure, proprio sulla base di questo trasferimento, l’exousía concentra un nucleo di ambiguità potenzialmente eversivo. Infatti essa manifesta la dialettica del trasferimento che può porsi in modo del tutto antagonista rispetto al sistema conformato dei poteri. Lo stesso Gesù, proprio dichiarando - anche solo con il suo silenzio - che la sua exousía proveniva direttamente da Dio, si poneva in una condizione conflittuale nei confronti dei farisei e, in seguito, dei sacerdoti che chiedevano proprio il fondamento della sua dichiarazione126. L’exousía, cioè, non è solamente - e non precipuamente - l’autorità riconosciuta, quanto piuttosto l’autorità dichiarata: “Pavnta moi e[xestin”. In questo senso, se mi è concesso questo ardito parallelismo, essa è molto simile al concetto lacaniano di auto-autorizzazione, cioè a quella possibilità di agire che si regge sulla dichiarazione della possibilità stessa: fragile coincidenza dialettica di libertà negativa e positiva. Si tratta di una libertà dalla natura abissale e sigiziale, in quanto dichiara, a partire da sé, il trasferimento in sé di una autorità più originaria di ogni autorità già costituita127. Come può apparire abbastanza facilmente, questo concetto di exousía si lega in modo strutturale alla dialettica tra legge e grazia, fede e opere, per come è presentata da Paolo: la libertà in Cristo. È dunque chiaro come in Corinto questo preciso annuncio di libertà potesse suscitare una reazione di quelli della violenza e del terrore [...]. Il dono di Marcione ad Adriano è passato in altre mani.”, ivi, pp. 151-152 (cit. in J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2000, p. 69). 125 “Primum quidem convenientibus vobis in ecclesiam, audio scissuras esse inter vos et ex parte credo. Nam oportet et haereses esse, ut et qui probati sunt manifesti fiant vobis.”, 1Cor.,. 11, 18. 126 Mc. 11, 28. 127 Pleonastico, per certi versi, ricordare l’episodio dostoevskijano del Grande Inquisitore, nei Fratelli Karamazov. Sul carattere di possibilità pura (e dunque possibilità d’impossibilità) di questa libertà si veda in particolare V. Vitiello, La spada, l'amore e la nuda esistenza, ovvero: cristianesimo e nichilismo, in Nichilismo e politica, a cura di R. Esposito, C. Galli e V. Vitiello, Laterza, Roma-Bari, pp. 221-246, in particolare le pp. 227-229.

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entusiasmo con la quale lo stesso Paolo dovette fare i conti, tanto che potrebbe non essere improprio affermare come in particolare la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo possa essere una ferma risposta al radicalismo gnostico suscitato dalla sua stessa predicazione128, ma, per un altro verso, bisogna sottolineare come la risposta paolina paradossalmente non faccia altro che rendere ancora più rigorosa una lettura talvolta superficiale da parte degli gnostici:

“pavnta moi e[xestin, ajll’ oujk ejgw ; ejxousiasqhvsomai uJpov tinoj”129 Dove la ripetizione della radice verbale manifesta il contenuto essenzialmente dialettico dell’exousía, e quindi la risposta di Paolo indica come una pratica (licenziosa), che assorba completamente il fenomeno dell’exousía, possa diventare la struttura di un’ennesima sottomissione (al corpo)130. In ogni caso, per ribadire quanto abbiamo segnalato nel paragrafo precedente, ci affidiamo alle parole di Foerster:

“Questa ejxousi va - che era anzitutto la parola d’ordine della comunità di Corinto - può essere intesa alla maniera gnostica, come ‘potenza’, oppure, in senso polemico contro la legge, come ‘libertà’. In entrambi i casi il significato poggia sul concetto paolino di libertà dalla legge.”131

La versione propriamente gnostica della exousía paolina assume un tono estremamente radicale, in cui si raccoglie quella che è stata chiamata “l’indole rivoluzionaria della gnosi”132. Un misto tra libertarismo e libertinismo sembra configurarsi nell’esperienza cristiano-gnostica della libertà:

“la libertà che ci assicura non è solo negativa [...]; è anche libertà positiva, exousia, potere assoluto o licenza di fare tutto ciò che piace (donde l’amoralismo gnostico, che talvolta si traduce nei fatti), indipendenza per diritto di nascita (lo gnostico si proclama «figlio di Re») nei confronti delle leggi e dei signori di questo mondo [...].”133

§ 27. Sulla base di quanto appena detto, e al di là delle fenomenologie della pornéia che si sarebbero legate alla pratica dell’exousía, possiamo forse ricavare un elemento non del tutto banalizzabile in questo cosiddetto “libertinismo gnostico”134. Come afferma Puech, lo “gnostico è libero in tutte le cose e giudice di tutte le cose: è un buthos exousias, un «abisso di libertà»”135. L’espressione è magnifica e pregnante: la possibilità (di agire) è tale perché è pura, assoluta, esposta al suo più insindacabile ribaltamento. È cioè vero come la eleuthería per gli gnostici si legasse a un sentimento di assoluto Erlaubnis ma, proprio in quanto assoluto, dirompente nella doppia freccia che lega, sciogliendoli, l’interno e l’esterno. Per non leggere troppo modernamente questo snodo, dunque, per non pensare l’exousía puramente come una voluntas astratta di stampo hobbesiano, si 128 Il contrario in Schmithals, secondo cui la determinazione paolina è derivata da quella gnostica in funzione evangelizzatrice (un po’ come la captatio iniziale del discorso all’Areopago). Schmithals insiste molto sul necessario fraintendimento generato dall’espressione “pavnta moi e]zestin” in 1Cor. 10, 23 (audacemente ipotizzando una “presa in prestito” del motto da parte di Paolo agli stessi corinzi - attraverso la mediazione di Stefano -, W. Schmithals, cit., p. 219), a causa della polisemia del termine exousía: se negli gnostici agisce una recezione a sfondo bipolarmente stoico e cinico (ivi, p. 218), in Paolo questo influsso è del tutto estraneo. Anche in questo caso, dunque, si tratterebbe di una conversione del già presente nella forma del kérigma cristico attraverso un processo di critica. 129 “Omnia mihi licet, sed ego sub nullius redigar potestate.”, 1Cor. 6, 12. 130 “[...] dietro ogni libertà si nasconde il pericolo di una nuova servitù, di un ejxousiasqh 'nai”, LNT, VOL. III, p. 655 131 In Grande Lessico del Nuovo Testamento [GLNT], a cura di G. Kittel, VOL. III, Paideia, Brescia 1967, p. 654 [corsivo mio] (alla voce exousia curata da W. Foester, ivi, pp. 630-665). 132 Ivi, p. 656. 133 H. Ch. Puech, op. cit., p. 42. 134 Sul rapporto eleuthería e cosiddetto Libertinismus, W. Schmithals, op. cit., pp. 206 ss. Bisogna tenere inoltre presente come, sulla base dello stesso principio, questa libertà si poteva realizzare in forme diametralmente opposte: da una parte la licenziosità dei costumi, dall’altra la rinuncia “ascetica” più estrema ai limiti dell’iposomatismo (si pensi a Marcione, anche se, bisogna sottolinearlo, la pratica dell’astinenza corrispondeva alla necessità di limitare la dispersione e la riproduzione del sárx nel mondo), cfr. anche H. Jonas, cit., p. 66 ss. 135 H. Ch. Puech, op. cit., p. 43.

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deve sottolineare che l’annuncio di tale abissale libertà (autodichiarativa e contemporaneamente fragilissima) corrispondeva a una dimensione collettiva su cui verteva lo stesso “evangelo gnostico”136. La tesi, dunque, è che l’unione (accidentale, cioè semplicemente sincretica, oppure al contrario del tutto sintomatica) tra kérigma ed exousía permette di concepire la libertà come liberazione. La determinazione di una liberazione non corrispondente alla maîtrise di appartenenza (etnica o religiosa), una liberazione universale dall’appartenenza137, doveva essere ancora fondata. Come vedremo, le conclusioni di Taubes portano sostanzialmente a questo snodo. Quello che si vuole affermare, dunque, è che le determinazioni antagoniste in rapporto alla questione dell’exousía, conducono in prossimità di un concetto che non è più ricavabile dalle più antiche versioni gnostiche (giudaiche), e dunque rimane aperto il problema di un pensiero gnostico che si interpreta in relazione all’evento cristico. § 28. Torniamo ora a Clemente. Alla luce di quanto è stato appena detto, mi parrebbe del tutto inappropriato condurre l’antilogia sulla base di una valutazione moralistica del costume gnostico. L’invito alla morigeratezza in Clemente138 è chiaro come possa anche essere una risposta al vero e proprio skándalon suscitato dalle loro pratiche licenziose139, altrettanto vero, però, è che quella moderazione trova i suoi punti di appoggio nell’impianto generale della lettera140. Che è di tipo conservativo. Il tema dell’exousía, dunque, deve essere riportato al suo piano teologico-politico:

“Suv, devspota, e [dwkaj th;n ejxousivan th 'j basileivaj [...].”141 Come si può facilmente notare, Clemente non fa altro che riprendere l’argomento tipico del trasferimento dell’exousía. Esponendone la genealogia “fin dal principio”, la quale a partire da Dio attraversa Abramo, Isacco e Giacobbe, l’autore afferma quanto segue:

“Da lui [Giacobbe] discendono tutti i sacerdoti e i leviti ministri dell’altare di Dio; e da lui il Signore Gesù secondo la carne; da lui i re, gli arconti e i capi secondo Giuda; né sono di piccola gloria gli altri scettri [ta; loipa; skh 'ptra] [...]”.142

Ci troviamo di fronte a una sostanziale differenza rispetto alla versione precedentemente esposta. L’ordinamento dei poteri è cosmico, e l’invocazione di Clemente non corrisponde ad alcuna forma di delegittimazione rispetto agli altri poteri [ta; loipa; skh'ptra], anzi essa tende a confermarli. Si faccia ben attenzione a questo passo anch’esso tratto dall’Inno conclusivo:

“Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra [pa'sin toi'j katoikou'sin th ;j gh'j] come la desti ai padri nostri quando ti invochiamo santamente nella fede e

nella verità rendici sottomessi [uJpekovouj ginomevnouj] al tuo nome onnipotente e

pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra [toi'j te a[rcousin kai; h Jgoumevnoij h Jmw'n ejpi; th 'j gh 'j].”143

136 Die Korintische Gnosis als Evangelium, W. Schmithals, op. cit., pp. 133 ss. 137 Si pensi alla versione senechiana della libertà in quanto propria dell’uomo. 138 In particolare CL XXX, XXXIX. 139 “[...] fuggiamo le maldicenze, gli amplessi impuri, la mania innovatrice [bdelukta;j ejpiqumivaj] le passioni orribili, l’adulterio infame e l’orgoglio odioso [...].”, CL XXX, 1. 140 Il passo che abbiamo appena citato prosegue in questi termini: “rivestiamoci della concordia rendendoci umili e padroni di noi stessi, lontani da ogni mormorazione e maldicenza [...].” 141 Da tradurre forse meglio con “Tu, Signore, desti loro il potere della regalità”, CL LXI, 1 142 CL XXXII, 2. 143 CL LX, 4. Si tenga presente anche CL LX, 2: “e fare ciò che è buono e gradito al cospetto tuo e dei nostri capi [tw'n ajrco vntwn hJmw 'n]”; il termine prima in CL XXXII, 2.

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Insomma, la “virtù” che regge la proposta di Clemente è quella dell’umile sottomissione e dell’ubbidienza144, e cioè della necessità di trasferire tutta la propria exousía, in rapporto alla promessa, nelle mani dei governanti secondo l’ordine gerarchizzato dei poteri, come atto stesso della conversione. In definitiva, la vera essenza della metánoia è quella di “piegare le ginocchia” a Dio e, nell’ordine, a tutti (suoi) i ministri:

“Voi che siete la causa della sedizione sottomettetevi ai presbiteri e correggetevi con il ravvedimento piegando le ginocchia del vostro cuore.”145

Sia detto purtroppo di passaggio, anche se in rapporto a un esito fondamentale di tutto il presente saggio: questa concezione esemplare dell’umiltà, unita al contesto storico in cui emerge, fornisce a mio giudizio una base teorica per la determinazione della figura prima del martire cristiano [si ricordi l’espressione che abbiamo appena sopra ricordato “tw'n memarturhmevnwn”]. Ma cosa può rappresentare tale concezione nei tempi in cui si realizza una specifica e contingente forma di conciliazione tra la treschéia cristiana e il potere secolare? § 29. Per concludere questa parte dobbiamo forse sottolineare un altro paio di elementi. Nell’esposizione che abbiamo svolto sul tema dell’exousía negli gnostici di Corinto ho forse tralasciato l’indubbia “traccia naturalistica” che lega la libertà del pneumatikós in rapporto alle “sfere planetarie”146. L’exousía, dunque, sarebbe semplicemente un fatto dell’uomo interiore in rapporto al destino cosmico (una situazione non molto diversa, quindi, dal medesimo concetto in Epitteto147). In ciò risulterebbe una profonda differenza con la determinazione paolina, a cui sarebbe del tutto estraneo questo sfondo naturalistico. Su due punti, però, si deve insistere. In primo luogo, come già sottolineato, il dominio degli Arconti si estende alle cosiddette potestà terrene, e dunque bisogna ricordare come “i principi di questo mondo” si identifichino sia con le leggi che dominano sulle sfere celesti, sia anche con i governanti delle nazioni. Contemporaneamente, e proprio in rapporto a quanto appena detto, è a mio giudizio necessario non fraintendere eccessivamente questo movimento di spiritualizzazione, che porterebbe a una semplice negazione teorica del cosmo esteriore rispetto al microcosmo salvo del próton ánthropon. Su questo movimento di interiorizzazione, che per parte protestante viene fin troppo identificato con una versione soggettivistica della fede, e al contrario sul risvolto pratico che gli compete, insiste molto Taubes in relazione a Paolo. Bisogna forse enucleare i nessi pratici che si legano alla gnósis e, in questo senso codificare anche per quei gruppi la figura dello zélos come fenomeno della pratica di una libertà ritenuta come acquisita. La pratica radicalmente zelante della comunità gnostica di Corinto corrispondeva alla dichiarazione della effettuale realtà di questa libertà, alla sua perfetta determinazione mondana sull’abisso dell’evento cristico; intorno alla forma di questo annuncio si costruiva, lo ripetiamo, quello che è stato chiamato il “vangelo gnostico” dei corinzi. Una delle ipotesi più pertinenti circa la natura dei “fatti di Corinto”, e quindi sulle cause specifiche della ribellione, fa capo proprio alla nozione di exousía che abbiamo esposto. Contro il medesimo fervore, carico d’eccessivo zelo, si scaglia Clemente nella sua lettera.

Lo zelo contro lo zelo

144 “L’umiltà e la modestia di siffatti uomini, tanto celebri per l’obbedienza [“tw'n memarturhmevnwn to; tapeinovfron kai; to ; uJpodee;j dia; th 'j uJpakoh'j”], hanno reso migliori non solo noi, ma anche le generazioni a noi precedenti e quelli che recepiscono le parole di Lui nel timore e nella verità.”, CL XIX, 1. 145 “@Umei'j ou\n oiJ th ;n katabolh;n th 'j stavsewj poih vsantej ujpotavghte toi'j presbutevroij kai ; piadeuvqhte ei jj metavnoian kavmyantej ta; go vnata th 'j kardivaj uJmw 'n”, CL LVII, 1 146 LNT, VOL. III, p. 655. 147 Ibidem.

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§ 30. Uno degli elementi più significativi e ricorrenti dell’intera lettera è, come già si è ricordato, l’invettiva contro lo zelo, a cui si associa una drastica condanna a tutte le forme di divisione e di separazione148. Lo zelo è per Clemente la causa di tutti i mali, a partire dal primo omicidio dell’umanità149, fino addirittura allo sterminio dei martiri (non sono cioè i martiri a essere pieni di zelo, quanto, al contrario, i pieni di zelo a “creare” i martiri!150). Per tutti i capitoli dal IV al VI, assistiamo a un climax ascendente che arriva a toccare ogni sfera della realtà umana, dal singolo individuo agli imperi. Al cap. VI, 4 troviamo: “Zh'loj kai; e[rij po vleij megavlaj katevstreyen kai; e[qnh megavla ejxerivzwsen” [Lo zelo e la discordia rovinarono molte città e distrussero grandi nazioni]. E non si può non riconoscere la specifica attenzione che l’autore dedica all’esempio delle grandi società. Eppure questa associazione tra zelo e distruzione non è affatto pacifica, sottintende tutta un’interpretazione e una decisione sull’oggetto. Il termine zélos, infatti, è una tipica vox media151: tale considerazione semplicemente pone il problema e non lo dirime per nulla. Non basta, cioè, affermare come zélos sia essenzialmente ambiguo nell’uso per evitare di affrontare una considerazione sulla centralità del suo presentarsi. L’ambiguità dello zélos è ciò che si dovrebbe maggiormente pensare. Non basta quindi fissare un significato di zélos al quale Clemente si riferisce e condurre l’intero ragionamento. In realtà il termine ha un significato fondamentale nelle lettere paoline (soprattutto in quelle ai corinzi) e questo significato agisce proprio in forza della “medietà della voce”152. Constatando che in Paolo il lemma solo raramente assume un significato negativo e comunque posto in una dialettica paradossale tra carisma e unità spirituale, l’ipotesi che vorrei portare avanti è che l’insistenza di Clemente sia in profonda opposizione alla linea-Paolo (e più precisamente alla possibile recezione di Paolo a Corinto): egli si pone il fine di arginare la potenza ambigua dello zélos, per poter contrapporre a esso la concordia. L’operazione di Clemente, cioè, è quella di livellare la contraddizione. Come si vedrà il termine zélos non può essere inteso solo secondo un significato “morale”, esso ha invece un ruolo politico essenziale e, per certi versi, rivoluzionario. L’operazione “katechontica” di Clemente, dunque, ha sicuramente una portata politica, o, meglio ancora, teologico-politica. Sia ben chiaro fin dal principio, inoltre, come Clemente sia perfettamente consapevole di riferirsi principalmente all’accezione teologica del termine e nient’affatto a un’idea vaga e generale di esso (la gelosia o l’invidia, come una delle tante passioni dell’uomo). Anzi, proprio sulla base di questa consapevolezza, è possibile affermare come ex principio vi sia il

148 Si pensi alle “minacce fatte dalla Sapienza contro i disobbedienti” [“ta;j proeirhmevnaj dia; th'j sofivaj toi 'j ajpeiqou'sin ajpeilavj”], in CL LVIII, 1; oppure a CL XI, 2, dove Clemente afferma: “Fu posta quale segno sino ai nostri giorni [la moglie di Lot trasformata in statua di sale] perché fosse noto che i dissociati e gli scettici [oi J di vyucoi kai; oi J distavzontehj] della potenza di Dio sono di condanna e di esempio a tutte le generazioni.”. 149 “Vedete, fratelli, l’invidia e la gelosia [zh'loj kai; fqo vnoj] portarono al fratricidio.”, CL IV, 7. 150 “I giusti sono stati perseguitati, ma dagli ingiusti; sono stati imprigionati, ma dagli empi; sono stati lapidati, ma dagli iniqui, uccisi da quelli che vengono presi dall’invidia perversa e malvagia. [...] Chi sono dunque quelli che l’hanno commesso? I detestabili e pieni di ogni cattiveria spinsero il loro furore sino al punto da mandare alla tortura quelli che servivano Dio in santità e senza reprensione.”, CL XLV, 4-7. E poco più avanti: “Attacchiamoci dunque agli innocenti e ai giusti, sono gli eletti da Dio. Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? Non abbiamo un solo Dio [...]?”, CL XLVI, 4-6. 151 Per le considerazioni che seguono mi riferisco in particolare alla voce del Kittel curata da Stommpf (cfr. GLNT, VOL. III, pp. 1485-1518). Una determinazione fenomenologica generale definisce lo zelo come “capacità o stato di orientamento verso una persona o una cosa espresso nell’immediatezza di un sentimento” e da ciò trae la sua natura ambigua, in quanto lo zelo si riferisce sempre a un oggetto (ivi, p. 1486). Più correttamente, dunque, il carattere ambiguo del termine, almeno nell’uso greco classico, riguarderebbe la natura dell’oggetto verso cui si è zelanti (ad es. Simplicio [Epict. 19,2] afferma: “lo zelo, quando riguarda la virtù, è buono ed affine al retto amore; quando invece riguarda qualcosa di esterno, è spregevole e affine all’invidia”). (cfr. NL) . Ma non solo: nel suo uso biblico comune, nella formula zevloj tou' qeou', esso esprime un legame che può essere interpretato sia soggettivamente che oggettivamente, si tratta cioè dello zelo come caratteristica di Dio e di quello che si ha nei suoi confronti. 152 Lo zelo esprime il problema paradossale dell’unità (spirituale) e della divisione (corporale). Nonostante (oppure, a causa) del loro zelo, i corinzi, essendo ancora sarkinói, si dividono in partiti, cfr. 1Cor. 1-8. Eppure Paolo è “geloso” (zelante) dei corinzi in quanto manifestazione del corpo spirituale, il quale esprime l’unità della separazione GLNT, Vol. III, p. 1497, .

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riconoscimento dell’ambiguità non a causa della polisemia della parola ma in forza del fatto che si tratta di uno zelo essenzialmente rivolto alla salvezza, “alle cose ultime” o, per esprimerci del tutto impropriamente, “uno zelo in buona fede”, che forse potremmo dire essere guastato dal suo eccesso (ma lo zelo è in sé eccessivo, tracotante; non vi è metriótes nello zélos!):

“1. Voi siete pieni di emulazione e di zelo nelle cose che riguardano la salvezza [Filovneikoi [...] kai ; zhlwtai ; peri; tw 'n ajnhkovntwn eijj swteri van]. 2. Vi siete curvati sulle Sacre Scritture, le vere, date dallo Spirito Santo. 3. Siete convinti che nulla di ingiusto e di falso è scritto in esse.”153

§ 31. Come si ricorderà, zélos è la traduzione che nella Septuaginta rende in particolare l’ebraico qin’â: questo termine è ricorrente nella celebre e controversa espressione qin’â ’eloim e cioè la cosiddetta “gelosia di Dio”. In questo senso lo zelo è una forma specifica dell’alleanza. Come tipico della dialettica dell’alleanza, lo zelo comporta trasferimenti reciproci tra Dio e il popolo: l’alleanza, cioè, è il contesto in cui la gelosia di Dio trova la sua manifestazione come rapporto soggettivo e oggettivo, di cui l’ambiguità del genitivo è espressione. Alla base di ciò vi è anche una dimensione affettiva all’interno della quale si raccoglie l’ambiguità del termine: il tradimento dell’alleanza, infatti, non è un fatto che compete semplicemente una considerazione razionale (e conciliarista); al contrario proprio la passione per l’alleanza comporta un legame diretto con una prassi di liberazione che ha, nella sua essenza, il carattere della faziosità. La dialettica dello zelo, dunque, mette in campo il rapporto tra verità e separazione. La gelosia, però, sembra essere l’effetto di una precedente è più “generale” separazione che il popolo ha operato nei confronti dell’alleanza. Lo zelo, sempre accompagnato dall’accusa contro l’idolatria, riguarda quindi una sorta di separazione dalla separazione: si tratta, cioè, di un movimento interno in cui in gioco vi è la verità dell’alleanza154. In una parola, lo zelo è una funzione della profezia. L’aspetto più interessante, per quanto ci riguarda, mi sembra quella specifica forma di trasferimento che si è operata nel gruppo politico-messianico degli zeloti. Questa cosiddetta setta giudaica raccoglieva in sé una costante del pensiero profetico ebraico (l’abbandono di Dio da parte del popolo), letta però in relazione alla specifica situazione politica del tempo, cioè il dominio da parte dell’Impero romano. Il rapporto tra cristianesimo e zelotismo è sicuramente un aspetto molto difficile da affrontare. Forse, però, al di là di giungere a una conclusione sugli esiti di tale rapporto, sarebbe importante tenere presente e insistere sul fatto che un rapporto vi è stato. Al di là delle differenze specifiche, è importante ricordare come alla base vi fosse il medesimo problema, la medesima necessità di confrontarsi con una dimensione di potere che metteva in crisi la possibilità di una nuova alleanza. § 32. In questo senso preciso deve essere presa in considerazione la figura di Paolo. In San Paolo, infatti, troviamo una forte e ricorrente rivalutazione dello zelo, la quale, senza dubbio, non può non essere messa in contrapposizione con quella di Clemente. Per ribadire quanto detto, a mio giudizio è totalmente fuorviante affermare a priori come l’idea e il significato, che Paolo attribuisce allo zelo, siano completamente diversi dalla concezione di Clemente. Molto più interessante è provare a pensare che l’idea che ne avevano fosse la stessa, ma che il giudizio fosse opposto. Per Paolo, infatti:

“[...] il significato di zh 'loj si avvicina assai a quello di gelosia. Paolo vigila con geloso interesse nella sua comunità, attento che non si lasci appunto persuadere a seguire un altro, falso vangelo.” Egli denota questa gelosia come «gelosia di Dio», ciò che si accorda bene con il concetto veterotestamentario di Dio, che con sacro zelo vuole il suo popolo separato dalla fornicazione con gli idoli.”155

153 CL XLV, 1-3. 154 Circa il rapporto universale-singolare in Paolo si veda sicuramente A. Badiou, op. cit., in particolare il cap. X Universalità e attraversamento delle differenze, pp. 151-163. 155 GLNT, vol. III, pp. 1497-98.

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L’apostolo delle genti loda lo zelo della comunità nei suoi confronti, simile al suo nei confronti della comunità, (cfr. 2Cor. 7, 7-11), proprio in un contesto che cerca di spiegare la scandalosa necessità degli scismi. In Paolo, dunque, è vero che l’annuncio universale implica la fine delle differenze identitarie (delle rivendicazioni particolaristiche), ma questo non ha a che vedere con lo zélos la cui presenza, al contrario, sembra manifestare una prossimità all’annuncio156. Lo zelo, dunque, ripristina quel movimento di separazione dalla separazione il cui esito non è certo una falsamente irenica concordia, quanto piuttosto l’universale, il cattolico che si fonda sulla prossimità dell’evento. Lo zelo, dunque, ha sempre un legame con la profezia che dichiara l’evento. Una tra le interpretazioni possibili (e sicuramente tra le più accattivanti) del suo elogio dello zelo, è stata fatta da Jacob Taubes, il quale considera l’intera operazione paolina come una spiritualizzazione dell’impeto messianico proprio degli zeloti:

“Gli unici che non hanno voluto sapere di adattarsi all’autorità romana e che volevano realizzare à la lettre la visione teocratica dei farisei, mettendosi in gioco per questo fino in fondo con la guerra, sono gli zeloti. Calunniati dall’“assimilato Giuseppe”, che nei suoi scritti vuole vendere ai romani i diversi raggruppamenti ebraici come “scuole filosofiche” - come se i romani dovessero muover guerra contro “scuole filosofiche”! - calunniati anche dai farisei, che definivano una parte degli zeloti “sicari” e “assassini”, solo con difficoltà si possono avere informazioni su di loro. [...] sebbene lo stesso Paolo, seguendo una sua propria strada interpretativa, anche dopo “Damasco”, non si presenti mai soltanto come “fariseo” [67] - in ogni caso veramente mai come “cristiano” (cosa che dovrà pure avere un significato, se prendiamo in considerazione il fatto che, a partire da Damasco, Paolo è stato scosso da una dura crisi di identità e che i suoi rapporti con le autorità ebraiche a Gerusalemme e con quelle della dispora erano piuttosto tesi!). Egli piuttosto si chiama, anche con orgoglio, “zelota” - come viene notato solo raramente. Finora non ci si è mai resi veramente conto che Paolo rivendica sul serio questo titolo di “zelota”, presumibilmente con un suo rivolgimento dialettico. [...] Non è affatto semplice infrangere pregiudizi che dominano da due millenni e che si sono consolidati nel corso di una storia cruenta. Ciò nonostante bisogna osare, per dar spazio a una prospettiva in cui sia possibile discutere la costellazione di Paolo come zelota spirituale. Poiché nella prospettiva di una storia universale egli [...] ha più che diritto a rivendicare questo titolo. Gli zeloti politici, infatti, opponendosi a Roma, si sono assunti il rischio militare di una guerra messianica universale, e -così penso- in battaglia avrebbero avuto una chance reale, se non fossero stati piantati in asso dalla diaspora ebraica e se non fossero stati traditi e calunniati dai farisei e dai rabbini, il cui rappresentante, Rabban Jochanan ben Sakkai, si finge “morto”, perché i suoi più stretti seguaci possano trasportarlo, nascosto in una bara, fuori da Gerusalemme presa in assedio al cospetto dell’assediante Vespasiano; quindi gli profetizza, adulandolo, la corona imperiale di Roma, “accordandosi” [69] con lui sul fatto che l’autorità rabbinica sarebbe rimasta garantita all’interno. Paolo, invece si oppone totalmente a Roma “da zelota”, ma con tutt’altri mezzi rispetto a quelli usati dagli zeloti nazionali; egli cioè combatte con mezzi spirituali, con cui alla fine mette Roma in ginocchio. Con Paolo gli zeloti che, nella loro disperata resistenza a Roma, si sono ritirati nella fortezza di Masada, cadendo tragicamente, sono stati storicamente legittimati e vendicati in anticipo!”157

§ 33. La prospettiva di Clemente è completamente opposta. Sembra quasi, osservando il frequente uso di metafore agonistiche158, che non si abbia più a che fare con una “battaglia spirituale”, ma con una “gara di resistenza”. Nella Lettera egli vuole costituire i fondamenti ideologici che permettano alla comunità di continuare a essere in un periodo di tempo precedente a una seconda venuta, la quale sempre più tarda a venire e che, a causa di questo ritardo, sembra dissipare la potenza del suo contenuto messianico. Il residuo di profezia, con l’eversione che è propria della profezia, diventava

156 A. Badiou, op. cit., pp. 100 ss. 157 J. Taubes, Walter Benjamin - un marcionita moderno? Scholem interprete di Benjamin: un esame alla luce della storia delle religioni, in Il prezzo..., cit., pp. 67-69. 158 I martiri chiamati “gli atleti vicinissimi a noi” [“epi; tou;j e[ggista genomevnouj ajqlhtavj”] (CL V, 1), il combattimento combattuto nell’arena [“ejn ga;r tw '/ aujtw '/ ejsme;n skavmmati, kai; o J aujto ;j h Jmi'n ajgw ;n ejpivkeitai”]. Per le “metafore sportive di San Paolo”, rimando all’excursus ad hoc in S. Zedda, op. cit., pp. 720-721: in Paolo si hanno solo latenti allusioni all’ágon e ciò innanzi tutto e per lo più nelle pastorali (Timoteo). Come considerazione di tipo puramente generale, rimando ovviamente al classico locus nietzscheno sul De Spectaculis di Tertulliano, al § 15 della Genealogia della morale [in F. Nietzsche, Opere, Vol. VI, 2, Adelphi, Milano 1968, pp. 248-249].

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a quel punto esiziale per la stessa possibilità di esistenza della comunità. Il carattere personale, quella sorta di adesione emotiva e immediata all’evento, viene assimilato al principio che distrugge la comunità. Il superamento dello zelo, dunque, qui inteso come riserva messianica, diventa il fondamento della continuità della comunità. Ma la cesura tra zelo personale e comunità operata da Clemente comportava una cesura della profezia all’interno dell’annuncio (la prossimità all’evento cedeva il posto al problema di un suo trattenimento possibile), e quindi una sua possibile integrazione all’interno delle dinamiche totalmente iscritte nella logica del mondo.