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CONSENSO E DISSENSO NELLA STRUTTURA

DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA SULL’ORARIO DI LAVORO

di Giorgio Bolego (bozza provvisoria)

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il modello tedesco. (Cenni) – 3. Il modello italiano: dal protocollo del

luglio 1993 all’AI 28 giugno 2011. – 3.1. L’Accordo interconfederale del 21 novembre 2012. – 3.2.

Le ragioni del decentramento contrattuale in Italia. – 4. L’art. 8 della legge n. 148 del 2011. – 5.

Conclusioni.

1. Nel sistema dei rapporti collettivi, il tema dell’orario e, più in generale, dei tempi

di lavoro riveste un’importanza fondamentale per una pluralità di ragioni.

Dal punto di vista giuridico, anzitutto, sia le fonti legislative, in particolare il d.lgs. n.

66 del 2003, sia gli accordi interconfederali sottoscritti negli ultimi anni 1 tendono a

favorire un progressivo decentramento, se non una vera e propria “aziendalizzazione”

della disciplina dell’istituto, con conseguente valorizzazione del livello negoziale ove

risultano più frequenti le manifestazioni del dissenso.

Sul piano economico, invece, il tema dell’organizzazione degli orari di lavoro è

andato assumendo un’importanza sempre maggiore a fini di incremento della

produttività del lavoro2. Infatti, le necessità di organizzare al meglio le strutture

produttive e di rispondere ad una domanda sempre meno prevedibile hanno accresciuto

l’esigenza di flessibilizzare la durata e la collocazione dell’orario, tenendo conto,

comunque, della necessità di conciliare i tempi di lavoro con quelli di vita.

La materia dell’orario sembra presentarsi, dunque, non più regolabile attraverso la

disciplina generale della legge o del CCNL , richiedendo, invece, interventi sempre più

particolaristici e territorialmente differenziati.

Nel corso degli ultimi anni, peraltro, il tema dell’orario di lavoro è andato assumendo

crescente importanza sul piano della produttività e della competitività delle imprese

anche in ragione dei risultati delle indagini statistiche, le quali dimostrano che le diverse

opzioni adottate in materia di organizzazione dei tempi di lavoro hanno inciso

1 Mi riferisco agli accordi interconfederali stipulati, non sempre unitariamente, il 15 aprile 2009, il 28

giugno 2011, il 21 novembre 2012, il 24 aprile 2013 ed il 31 maggio 2013. 2 Cfr. Antonioli, Pini, 2013.

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significativamente sulla produttività dei sistemi economici e, più in generale sulla loro

tenuta in questa fase, interminabile, di crisi economica3.

In questa prospettiva va anzitutto sottolineato che in Italia vi è una tendenza, direi

anche piuttosto marcata, a guardare alle virtuosità del modello tedesco.

2. Si evidenzia, infatti, che le riforme del mercato del lavoro realizzate dal governo

Schröder e rafforzate dal governo Merkel – meglio note come riforme Hartz – non si

sono limitate ad utilizzare la flessibilità in entrata ed in uscita, ma hanno privilegiato la

flessibilità interna all’azienda, anzi al rapporto di lavoro, valorizzando le variazioni

dell’impiego dei lavoratori occupati, sia attraverso modifiche dell’orario di lavoro

(flessibilità numerica), sia attraverso l’assegnazione a compiti diversi e ad attività

differenti, cioè mediante la modifica delle mansioni (flessibilità funzionale)4.

In particolare, le riforme tedesche hanno reso più flessibile il rapporto lavorativo

attraverso misure volte a favorire il lavoro a orario ridotto (Kurzarbeit, che è poi

l’equivalente dei nostri contratti di solidarietà) e la flessibilità degli orari di lavoro

individuali, che vengono gestiti all’interno di una sorta di contabilità complessiva della

durata della prestazione di lavoro (grazie all’introduzione dell’Aibeitszeitconto: conto

corrente ore).

Il ricorso alla flessibilità interna numerica, peraltro, non costituisce una novità in

Germania: basti ricordare lo storico accordo Volkswgen del novembre 1993 che, per

fronteggiare la più importante crisi automobilistica, portò ad una riduzione dell’orario di

lavoro a 28,8 ore la settimana, distribuite su 4 giorni, pur mantenendo sostanzialmente

invariata la retribuzione mensile. Da quell’accordo scaturì inoltre l’elaborazione di una

pluralità di modelli di orario finalizzati a consentire una gestione flessibile della durata

della prestazione al fine di soddisfare le esigenze delle imprese e dei lavoratori.

Sulla diversificazione dei modelli di orario l’ordinamento tedesco si pone certamente

all’avanguardia, avendo adottato soluzioni decisamente innovative e ormai ampiamente

collaudate. Peraltro, ciò è avvenuto in ragione della particolare struttura delle fonti di

regolamentazione dell’istituto, che riconosce ampi spazi all’autonomia collettiva e

3 Cfr. il Rapporto ILO 2013, Wages and Equitable Growt; nonché il Rapporto della Commissione UE

2012, Emploiment and Social Developements in Europe 2012. 4 Analoga soluzione è stata seguita anche in Alto Adige come risulta dalla ricerca pubblicata in

Giovanacci, Magnani 2011.

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anche individuale. In Germania, infatti, sia la legge (Arbeitszeitrechtgesetz del 1994) sia

i contratti collettivi nazionali prevedono regole molto elastiche, limitandosi a fissare

limiti massimi giornalieri (10 ore) e settimanali (48 ore medie su base quadrimestrale)

di durata della prestazione lavorativa, delegando agli accordi di codeterminazione e

talvolta anche ai contratti individuali il potere di determinare la concreta durata degli

orari nei singoli periodi di riferimento. A ciò si deve aggiungere che a partire dalla metà

degli anni novanta del secolo scorso, complice il processo di riunificazione delle due

Germanie, la contrattazione collettiva ha adottato, in misura crescente, l’istituto delle

Öffnungsklauseln (clausole di apertura), il cui obiettivo consisteva (e consiste) nel

flessibilizzare il sistema di relazioni industriali attraverso importanti deleghe in favore

degli accordi di codeterminazione aventi ad oggetto non solo la retribuzione ma anche

l’orario di lavoro (Borzaga 2006, 562). Tali clausole hanno riconosciuto al Betribsrat il

compito di introdurre variazioni alla durata della prestazione di lavoro: competenza che

non è prevista dalla legge sull’ordinamento aziendale (Betriebsvervassungsgesetz)5.

Infatti, nella contrastata (Rieble 2004, 405 ss.) tornata contrattuale del 2004, in sede

di rinnovo del contratto collettivo del settore metalmeccanico, è stato sottoscritto un

importantissimo accordo che prevede la possibilità di aumentare l’orario fino a 40 ore

settimanali, ma soltanto fino al limite quantitativo del 50% dei dipendenti. Laddove,

poi, si tratti di salvaguardare o di creare posti di lavoro, gli accordi aziendali possono

discostarsi dal contratto collettivo, prevedendo aumenti (o diminuzioni) dell’orario

anche senza corrispondere ai lavoratori adeguamenti retributivi (Rieble 2004, 406;

Bispinck 2004, 240 ss.).

La clausola di apertura brevemente descritta è stata utilizzata da alcune importanti

imprese (Daimler-Chrysler, Siemens), nelle quali sono stati stipulati accordi aziendali

con cui si è provveduto ad aumentare l’orario di lavoro senza aumenti di retribuzione

(Waltermann 2005, 506).

L’innovazione apportata con la previsione delle clausole di apertura ha riguardato,

dunque, il ruolo del Consiglio aziendale nella gestione degli orari di lavoro. Infatti, pur

nel quadro di una soluzione corridoio (Korridorlösung), e dunque di bande di

oscillazione prefissate, gli accordi di codeterminazione hanno acquisito una competenza

assai più ampia rispetto al passato, potendosi occupare non solo della concreta 5 Il § 87, n. 3 del BetrVG stabilisce, infatti, che il consiglio aziendale può definire «l’inizio e la fine

della giornata lavorativa», vale a dire la distribuzione dell’orario aziendale.

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distribuzione dell’orario (inizio e fine), ma anche del suo complessivo ammontare

(Rieble 2004a, 405 ss).

Il rafforzamento del ruolo dei partner aziendali in sede di implementazione delle

Öffnungsklauseln ha portato ulteriori modifiche nel corso degli anni. Mentre in una

prima fase, quella immediatamente successiva alla riunificazione della due Germanie, le

clausole di apertura avevano lo scopo di rispondere alle difficoltà di omogeneizzazione

delle economie delle due parti del Paese ed alla concomitante recessione (Hickel e

Kurtzke 1997, 98 ss.), nel corso del terzo millennio esse hanno assunto una funzione di

salvaguardia e di miglioramento della competitività delle imprese vincolate

all’applicazione del contratto collettivo, anche al fine di diminuire il costo del lavoro e

di scongiurare fenomeni di delocalizzazione (Bispinck 2004, 5 ss.). In altri termini, la

negoziazione di clausole di apertura non è più necessariamente legata alla situazione di

crisi di un certo settore merceologico, ma piuttosto alla necessità di tenere

maggiormente in considerazione le peculiarità delle singole aziende (Bispinck 2004,

237 ss.).

In questa prospettiva, i consigli aziendali non hanno mancato di svolgere la loro

funzione primaria e, quindi, stabilire l’articolazione dell’orario (attraverso la

determinazione dell’inizio e della fine della giornata lavorativa). Da ciò è derivato un

decentramento regolativo ed una forte diversificazione delle modalità organizzative dei

tempi di lavoro (il c.d. Cafeteria-Prinzip) che, nella pratica, si traduce nel riconoscere al

lavoratore la possibilità di scegliere, nell’ambito della pluralità di modelli di orario

offerti dalle aziende, quello più adatto alle proprie esigenze.

Emblematico risulta, in proposito, il Caso BMW: il colosso automobilistico, ove il

costo del lavoro è tra i più alti al mondo, offre ai lavoratori una pluralità di modelli di

orario (circa 200) rispetto ai quali essi possono scegliere al fine di soddisfare le proprie

esigenze, nel rispetto di quelle predefinite dall’azienda. Come ha dichiarato il direttore

Finanziario Stefan Krause, in tale azienda la strategia perseguita è stata quella di

separare l’orario di lavoro delle persone da quello delle macchine e garantire comunque,

attraverso la gestione flessibile della durata della prestazione di lavoro, la massima

utilizzazione degli impianti.

Le parti aziendali tedesche hanno dunque adottato soluzioni articolate, calibrate sulle

specifiche esigenze aziendali, al cospetto delle quali è possibile affermare che i

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sindacati tedeschi hanno da tempo superato l’atteggiamento volto a privilegiare le

soluzioni uniformi a livello nazionale, ed hanno invece assecondato il ricorso a modelli

contrattuali flessibili e particolaristici, nella consapevolezza che siffatta soluzione

consente un recupero di competitività e, quindi, in taluni casi, rappresentano l’unica

alternativa ai licenziamenti di massa.

A ciò si deve aggiungere che nell’ordinamento tedesco la gestione flessibile degli

orari di lavoro deriva dal largo impiego del contratto di lavoro a tempo parziale che ha

ormai raggiunto un livello di diffusione attorno al 22%.

Il successo riscosso dall’economia tedesca in questo periodo di crisi sembra

dimostrare che la declinazione della flessibilità all’interno del rapporto di lavoro

rappresenta la strategia vincente e, quindi, da prendere ad esempio. Tuttavia, non si può

sottacere che il modello regolativo adottato nell’ordinamento tedesco, al di la delle

caratteristiche delle clausole di apertura, si colloca in un contesto di rapporti imprese-

sindacati molto diverso dal nostro. Nelle aziende tedesche, infatti, operano due canali di

tutela collettiva: quello della rappresentanza istituzionale degli interessi impersonata dal

Betriebsrat, cui sono attribuiti estesi poteri di codeterminazione anche in materia di

orario di lavoro, e quello sindacal-negoziale che peraltro assume importanza minore.

In tale modello binario, alla contrattazione collettiva è riservato il compito di stabilire

la durata normale della prestazione di lavoro, la fissazione dei periodi di riposo,

giornaliero settimanale e annuale; gli accordi di codeterminazione, invece, hanno

introdotto modelli organizzativi dell’orario estremamente flessibili e idonei ad

affrontare le situazioni di crisi che di volta in volta si sono manifestate. Tali soluzioni,

grazie al Betriebsrat, risultano condivise dalle parti aziendali e l’eventuale dissenso

viene gestito in forma collaborativa e partecipativa piuttosto che conflittuale.

3. Secondo autorevoli opinioni, il deficit di produttività che caratterizza il sistema

economico italiano sarebbe dovuto, in larga parte, alle scelte fatte in materia di gestione

dei rapporti di lavoro. Tale deficit sarebbe cioè ascrivibile al fatto che si sono preferite

soluzioni che privilegiano la flessibilità esterna al rapporto di lavoro, attraverso il

ricorso alle molteplici forme contrattuali ammesse dalla riforma del 2003, oppure allo

strumento delle riduzioni di personale con conseguente perdita di posti lavoro. Le scelte

inerenti alla flessibilità interna, invece, sarebbero state relegate in secondo piano.

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Eppure, sul piano delle fonti legislative, il nostro sistema risulta tutt’altro che

impermeabile all’adozione di soluzioni flessibili per quanto attiene alla gestione degli

orari. Il d. lgs. n. 66 del 2003, analogamente all’Arbeitszeitrechtgesetz del 1994,

prevede regole molto elastiche in materia di regolamentazione della durata e

collocazione della prestazione di lavoro, contemplando numerose ed importanti deleghe

alla contrattazione collettiva, nella maggior parte dei casi di qualsiasi livello (in tal

senso v. Del Punta 2003, V; Simonato 2003, 78; Carabelli, Leccese 2004, 41; Bolego

2004, 89).

Peraltro, sebbene il formante legale in materia di orario sia ispirato alla

valorizzazione della potestà derogatoria di qualsiasi livello contrattuale, è stata la

regolamentazione autonoma del sistema contrattuale privato a stabilire regole limitative

e gerarchiche. Per lungo tempo ciò è avvenuto attraverso il protocollo del luglio 1993,

che distingueva nettamente le competenze della contrattazione nazionale da quelle della

contrattazione decentrata (circoscritta ai premi di risultato), ma senza stabilire quale

fosse la sanzione applicabile in caso di violazione delle regole autonomamente poste a

livello interconfederale6.

Sulla medesima linea si è posto l’AI del 28 giugno 2011 che è intervenuto al fine di

disciplinare il ruolo della contrattazione nazionale e di quella aziendale, fissando regole

sulla rappresentatività sindacale, sulla disciplina delle materie della contrattazione

collettiva, nonché sulla ripartizione di competenze tra gli accordi di primo e secondo

livello. Come è stato rilevato (Zoli 2012, 8), sotto quest’ultimo profilo, l’AI del giugno

2011 rappresenta una sorta di mediazione tra le due posizioni che negli ultimi anni sono

andate emergendo e, in particolare, fra chi enfatizzava il ruolo del CCNL e chi, invece,

suggeriva di spostare la contrattazione a livello aziendale.

La mediazione si è concretizzata nella soluzione secondo cui al CCNL viene

assegnato il ruolo di garante della certezza dei trattamenti economici e normativi

comuni a tutti i lavoratori del settore, ma allo stesso tempo viene garantito uno spazio di

intervento alla contrattazione aziendale e territoriale attraverso la delega su specifiche

materie, le quali risultano decisamente più ampie rispetto a quelle previste dal

protocollo del 1993. L’AI del 2011, infatti, attribuisce alla contrattazione decentrata la

facoltà di definire «intese modificative delle norme contrattuali più mirate alle esigenze

6 Su tale problematica v. De Luca Tamajo 2010, 802; nonché Zoli 2011,8.

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di specifici contesti produttivi che possono anche rappresentare un’alternativa a processi

di delocalizzazione, divenire un elemento importante di attrazione di nuovi investimenti

anche all’estero, concorrere alla gestione di situazioni di crisi per la salvaguardia

dell’occupazione, favorire lo sviluppo delle attività esistenti, lo sturt up di nuove

imprese, il mantenimento della competitività, contribuendo così anche alla crescita

territoriale e alla coesione sociale». Tra le materie delegate alla contrattazione aziendale

da tale AI viene espressamente richiamato anche l’orario di lavoro. Così, laddove vi

siano situazioni di crisi o si realizzino condizioni che consentono sviluppi

dell’occupazione, la contrattazione aziendale ha facoltà di intervenire e di modificare

anche in peius la disciplina dell’orario prevista dalla legge o dal CCNL.

Più esplicitamente, il tema dell’orario rappresenta, dunque, una delle materie in

relazione alle quali è ammesso l’intervento della contrattazione aziendale a prescindere

dalla delega espressa della contrattazione nazionale. Si tratta di una soluzione che può

rivelarsi utile ai fini dell’adeguamento della dimensione temporale della prestazione di

lavoro alle concrete esigenze delle imprese, tenendo conto, altresì, delle peculiari

necessità dei lavoratori dello specifico contesto produttivo.

3.1. Non diversa è la disciplina introdotta dall’AI 21 novembre 2012, ove il

decentramento contrattuale in materia di orario di lavoro trova la sua massima

espressione, risultando addirittura promosso attraverso la previsione di misure di

incentivazione fiscale (Bavaro 2013, 219; Lassandari 2013, 254; Massi, 2013, 18). A

mezzo di tale Accordo, che definisce le linee guida a sostegno della produttività in

Italia, le parti firmatarie, nel confermare «l’obiettivo comune di sviluppare un sistema di

relazioni industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare

il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni» affermano, altresì, la «necessità di

favorire soprattutto attraverso la contrattazione di secondo livello, soluzioni coerenti

con i principi enunciati negli accordi interconfederali e in quelli di settore, al fine di

agevolare la definizione di intese modificative delle norme contrattuali più mirate alle

esigenze degli specifici contesti produttivi».

Il medesimo Accordo ritiene inoltre «opportuno che i contratti nazionali, tenendo

conto della specificità dei diversi settori, affidino alla contrattazione di secondo livello il

compito di definire condizioni di gestione flessibile degli orari di lavoro, al fine di

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rispondere alle diverse dinamiche temporali della produzione e dei mercati, nel rispetto

della vigente normativa comunitaria oltre che dei diritti e delle esigenze delle persone».

Con tale AI si tende, dunque, a privilegiare, ancora una volta, le esigenze aziendali o

territoriali e si finisce col costruire una sorta di tapis roulant, che parte dal CCNL e

muove verso la contrattazione territoriale attraverso la previsione di ampie deleghe, che

in parte richiamano e in altra parte si aggiungono a quelle previste dall’AI del 28 giugno

2011 (ed anche dall’art. 8 della legge n. 148/2011). Invero, non si può negare che l’AI

sulla produttività generalizza e specifica la derogabilità del CCNL mediante una vera e

propria “clausola di uscita”, che legittima il contratto aziendale o territoriale a derogare

al CCNL anche al mero fine di evitare delocalizzazioni o avviare nuovi investimenti, a

prescindere da qualsiasi esigenza di specializzazione organizzativa (Bavaro 2013, 220).

In quest’ambito, peraltro, la materia degli orari di lavoro assume un ruolo da

protagonista, sia perché è menzionata e specificata anche dai provvedimenti attuativi

(DPCM 2 gennaio 2013 e circolare congiunta Ministero del lavoro e Agenzia delle

Entrate n. 15 del 3 aprile 2013), ma soprattutto perché detta materia viene

espressamente richiamata dal successivo AI del 24 aprile 2013 (sottoscritto anche dalla

CGIL), il quale stabilisce che alla detassazione si può accedere anche attraverso la

conclusione di contratti territoriali o aziendali che incidono soltanto sull’orario di

lavoro7.

3.2. Al cospetto di tale regolamentazione non ci si può esimere dal valutare se e in

che misura la rinnovata disciplina della contrattazione collettiva - che mantiene la

struttura gerarchica, ma con aperture alla contrattazione collettiva decentrata molto più

ampie rispetto a quelle previste dal protocollo del 1993 - possa contribuire all’adozione

di misure condivise per favorire l’incremento della produttività del lavoro.

In questa prospettiva occorre anzitutto rilevare che il recente dibattito sul tema della

disciplina contrattuale dell’orario è stato quasi monopolizzato dalla contrapposizione

tra FIAT e FIOM in merito ai controversi accordi di Pomigliano e Mirafiori. In

particolare, oggetto della disputa sono state le clausole che hanno aumentato lo

straordinario obbligatorio da 40 a 120 ore annue in deroga a quanto previsto dal CCNL

Metalmeccanici. 7 Sul punto v. anche la risposta del Ministero del lavoro, prot. n. 37/0011903, all’interpello proposto

da Confindustria in merito alla corretta interpretazione del DPCM 22 gennaio 2013.

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Non si può certo negare che l’attenzione prestata ai risvolti sindacali e giuridici di

tale aspro conflitto ha messo in ombra i numerosi accordi aziendali sottoscritti in altre

aziende al fine di valorizzare la produttività. Tuttavia, le indagini empiriche evidenziano

che, nell’ordinamento italiano, non mancano le intese, soprattutto a livello decentrato,

volte a favorire la gestione flessibile degli orari di lavoro, in una logica di

aziendalizzazione della disciplina della durata e distribuzione della prestazione

lavorativa8.

La ragione di tale processo di decentramento contrattuale, che rappresenta ormai la

cifra delle dinamiche evolutive della disciplina dell’orario, sta nell’incipiente esigenza

di dare risposte alle specifiche esigenze organizzative delle imprese, in larga parte

ascrivibili ai fenomeni di globalizzazione dei mercati ed alle conseguenti difficoltà

competitive a livello internazionale (Caruso 2011, 279; Bavaro 2013; De Luca Tamajo

2013; contra però Leccese 2012). Invero, la disciplina prevista dal contratto collettivo

nazionale, che garantisce condizioni di lavoro uniformi, si presenta certamente

funzionale ad un’economia in crescita o comunque circoscritta a livello nazionale;

tuttavia, nell’era della globalizzazione, essa sembra non funzionare altrettanto bene in

un sistema economico aperto dove ciascuna azienda manifesta le Sue peculiarità e,

quindi, la necessità di adottare specifiche forme di organizzazione del lavoro per

competere sui mercati internazionali.

In effetti, secondo l’opinione dominante, l’AI del giugno 2011, per quanto riguarda il

rapporto tra i livelli negoziali, si pone in linea di continuità con gli accordi del 1993 e

del 2009, a partire dalla ribadita centralità del contratto nazionale di categoria. Peraltro,

con tale accordo, il sistema contrattuale italiano si è dotato di una struttura articolata e

coordinata, essenzialmente rivolta ad evitare il concorso-conflitto tra contratti collettivi

di diverso livello. A tal fine, l’AI assegna la funzione regolativa generale agli accordi

nazionali tramite disposizioni o clausole di organizzazione dell’attività negoziale che

determinano gli ambiti delle intese modificative, stabilendo altresì i “limiti” e le

“procedure”.

Resta comunque il problema di fondo della tenuta della soluzione prospettata, che

può esser messa in discussione tanto dalla natura meramente obbligatoria di tali

clausole, la cui violazione non comporta la nullità delle norme che non vi si attengono,

8 Per una rassegna v. Giovanacci, Magnani 2011.

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quanto dall’ampia gamma di rinvii al livello decentrato. Né va trascurato l’orientamento

giurisprudenziale prevalente secondo il quale l’inadempimento delle clausole di

organizzazione dell’attività negoziale è rilevante solo sul piano delle relazioni sindacali,

cosicché il contratto collettivo successivo può modificare anche in peius la disciplina di

un accordo precedente di qualunque livello, dato che ciascuna fonte collettiva

costituisce espressione del principio di libertà sindacale9.

In quest’ottica, decisamente innovativa è la parte dell’AI del 2011 in cui si affronta, e

per la prima volta si tenta di risolvere, il problema dell’efficacia soggettiva dei contratti

collettivi aziendali. L’opzione è ricaduta sull’efficacia generale dei contratti collettivi

aziendali (delegati e/o modificativi), a condizione che i soggetti firmatari siano dotati di

una rappresentatività maggioritaria.

Tale soluzione, tuttavia, non esclude la conclusione di accordi separati, così come

non manca di considerare le possibili diverse forme di rappresentanza esistenti nei

luoghi di lavoro. Rispetto a tali problemi l’accordo interconfederale cerca di trovare una

soluzione valorizzando, appunto, il criterio maggioritario (Zoli 2011, 9).

L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 rappresenta, dunque, una tappa

fondamentale nella costruzione di un nuovo diritto sindacale, cosciente del rischio del

dissenso individuale e collettivo, nonché della possibilità che, specie a livello aziendale,

in sede di gestione delle crisi o di adozione di misure volte ad incrementare la

produttività, le posizioni delle organizzazioni sindacali possono risultare diverse.

Tuttavia, come anticipato, sul piano dell’ordinamento statale, le suddette regole

collettive non sembrano risultare autosufficienti, con conseguente necessità di un

intervento legislativo di sostegno, da più parti sollecitato.

4. In tale contesto si colloca l’art. 8 della l. n. 148/2011, che, sebbene si proponga di

“supportare la contrattazione di prossimità”, è anche stato ritenuto idoneo a

“destrutturare” il sistema contrattuale italiano da poco ricostruito (Perulli, Speziale

2011; Carinci F., 2011, 24) in ragione dell’ampiezza delle materie in relazione alle quali

la deroga è ammessa.

Tuttavia, per quanto riguarda il tema dell’orario di lavoro, ci si deve chiedere quale

sia la portata innovativa della facoltà derogatoria prevista sia dall’art. 8 della l n. 148 del

9 In tal senso v. App. Milano, 4 marzo 2003, RIDL, 2003, II, 511, con mia nota di commento.

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2011 sia dall’AI del giugno 2011, posto che detta facoltà è già riconosciuta dal d. lgs. n.

66 del 2003.

Per rispondere a tale interrogativo pare corretto partire dalla considerazione secondo

cui nel decreto n. 66 del 2003 i rinvii alla contrattazione collettiva sono molto numerosi

e possono essere distinti in due categorie: qualificati10 e non11 (Simonato, 2003, 77).

Tale distinzione ha posto due diversi dubbi interpretativi, che l’art. 8 contribuisce a

risolvere.

Il primo attiene all’individuazione del livello (aziendale, territoriale, nazionale)

legittimato ad intervenire in caso di rinvio non qualificato. In proposito, sebbene

l’opinione dominante ritenga che sono legittimati ad intervenire i contratti collettivi di

qualsiasi livello (Del Punta, 2003, V; Simonato, 2003, 80; Carabelli, Leccese, 2004, 23;

Bolego, 2004, 89), detta interpretazione è stata criticata poiché la finalità del decreto n.

66 del 2003 è quella di creare una disciplina uniforme sull’itero territorio nazionale, la

quale può derivare soltanto dai CCNL (Tremolada, 2003, 11). In ordine a tale dubbio

interpretativo, l’art. 8 della citata legge n. 148 fa certamente chiarezza, riconoscendo

alla contrattazione di secondo livello la facoltà di derogare alla disciplina di legge,

nonché a quella stabilita dal CCNL.

Il secondo riguarda i rinvii qualificati, in relazione ai quali la deroga delle

disposizioni legislative è ammessa esclusivamente ad opera dei contratti collettivi

nazionali, peraltro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Al

riguardo si pone la questione del rapporto tra disciplina generale (art. 8, l. n. 148/2011,

che fa riferimento alla contrattazione di prossimità) e disciplina speciale (d. lgs. n.

66/2003 che fa riferimento alla contrattazione nazionale). Tuttavia, tale dubbio deve

essere superato nel senso della prevalenza della disciplina contenuta nell’art. 8 poiché, il

suo secondo comma stabilisce che “salvo il rispetto della costituzione, nonché i vincoli

derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le

specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge 10 Sono quelli che specificano il livello contrattuale o individuano con precisione il livello delle

organizzazioni sindacali stipulanti: art. 13, comma 1, in materia di durata del lavoro notturno che fa riferimento ai «contratti collettivi anche aziendali», art. 17, comma 1 che rinvia ai «contratti collettivi o accordi conclusi a livello nazionale» e art. 18, comma 1 che rinvia alla «contrattazione nazionale di categoria».

11 Sono quelli, molto più numerosi, che utilizzano le locuzioni «contratti collettivi di lavoro» ovvero «contratti collettivi»: è il caso dell’art. 3, comma 2, art. 4, commi 1, 4 e 5, art. 5, commi 2,4,5, art. 8, commi 1 e 3, art. 9, comma2 lett. d), art. 10, comma 1, art. 11, comma 2, art. 13 comma 2 e 4, art. 14, comma 1 e 4, art. 15, comma 2, art. 16, comma 1.

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che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni

contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Dal che si desume la possibilità di

intervento di qualsiasi livello della contrattazione anche per quanto riguarda le materie

per le quali il d. lgs. n. 66 riserva l’intervento alla sola contrattazione di livello

nazionale (in tal senso anche Marazza 2102, 1).

Un ulteriore problema deriva dalla considerazione che, come anticipato, nell’AI del

21 novembre 2012 il fenomeno del decentramento contrattuale viene addirittura

incentivato attraverso l’invocata conferma delle misure di defiscalizzazione introdotte

fin dal giugno 2008, più volte prorogate negli anni successivi12, e rivolte a promuovere

gli incrementi di produttività. In particolare il DPCM 22 gennaio 2013, attuativo della

legge di stabilità 2013, ha introdotto dei criteri di selettività e stabilito che al regime

della tassazione separata del salario di produttività si può accedere attraverso due strade

parallele ed alternative. La prima richiede la definizione di indicatori quantitativi

finalizzati a misurare la produttività, la redditività, la qualità, l’efficienza e

l’innovazione. La seconda, percorribile più facilmente con un accordo sindacale

aziendale, postula, invece, l’attivazione di almeno una misura in almeno tre delle aree di

intervento prestabilite e che riguardano: a) la ridefinizione degli orari e della loro

distribuzione con modalità flessibili, anche in rapporto agli investimenti,

all’innovazione tecnologica ed alla fluttuazione dei mercati finalizzati ad una più

efficiente utilizzazione delle strutture; b) l’introduzione di una distribuzione flessibile

delle ferie attraverso una programmazione anche non continuativa delle giornate

eccedenti le due settimane; c) l’adozione di misure destinate a rendere compatibili

l’impiego delle nuove tecnologie informatiche con la tutela dei diritti fondamentali dei

lavoratori; d) l’attivazione di misure e programmi destinati alla fungibilità delle

mansioni ed alla integrazione delle competenze, anche in relazione ai processi di

innovazione tecnologica (sul punto v. Massi 2013, 21).

Tuttavia, tale selettività è stata almeno in parte superata con la sottoscrizione, questa

volta anche da parte della CGIL, dell’AI del 24 aprile 2013, il quale ha stabilito che

12 Più precisamente, il regime della tassazione agevolata del salario di produttività, attraverso

l’applicazione dell’imposta sostitutiva pari al 10%, è stata introdotta in via sperimentale dall’art. 2 del d.l. n. 93/2008 (per l’anno 2009) ed è stata successivamente reiterata di anno in anno. Per l’anno 2013, essa è stata confermata dall’art. 1, comma 481, della l. n. 228 del 2012 (legge di stabilità 2013), che ha dato seguito all’impegno assunto dal governo nei confronti delle parti sociali firmatarie dell’AI del 21 novembre 2012.

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l’accesso alla detassazione è ammesso in tutte le ipotesi in cui il contratto decentrato

preveda una ridefinizione della disciplina degli orari di lavoro, venendo meno, così, la

necessaria previsione di un intervento in almeno tre delle materie indicate dal DPCM.

5. Ne consegue che, dall’AI dell’aprile 2013, così come da quelli precedenti, traspare

la conferma dell’impostazione non nuova nella legislazione e nella contrattazione

collettiva del nuovo secolo: un’impostazione secondo cui concentrandosi sulla

disciplina della flessibilità interna al rapporto di lavoro è possibile garantire un

incremento della produttività e competitività delle imprese.

Tuttavia, rispetto a tale interpretazione, non mancano le critiche soprattutto in

considerazione del fatto che per intervenire sulla produttività delle imprese sarebbero

necessari interventi su fattori extralavorativi quali il costo dell’energia, la logistica, i

trasporti, la sicurezza, la giustizia, ecc. Fattori extralavorativi che vengono menzionati

nelle considerazioni introduttive delle “Linee guida sulla produttività”, ma poi non

vengono più considerati nella parte regolativa.

Pare dunque condivisibile la considerazione secondo cui la disciplina sulla

detassazione del salario di produttività, ora ancorato anche alle sole clausole che

contengono misure di riorganizzazione dell’orario, si propone, in realtà di ridurre il

cuneo fiscale, ma in misura circoscritta alle sole imprese in cui viene svolta la

contrattazione di secondo livello, introducendo così distorsioni nelle condizioni di

competitività delle imprese.

Altrettanto condivisibile appare l’affermazione secondo cui le misure di promozione

della contrattazione aziendale e territoriale tendono a tutelare la libertà delle imprese

nella concorrenza (Bavaro 2013, 228) riconoscendo loro la possibilità di introdurre

deroghe peggiorative e particolaristiche, così realizzando una forma di

“aziendalizzazione nel regresso”.

Rispetto a tale possibile deriva della disciplina giuslavoristica, l’ordinamento

giuridico tedesco può fornire qualche utile indicazione. La prima è che le deroghe

peggiorative sono introdotte dal Betriebsrat, organismo cui partecipano i lavoratori. La

seconda è che nelle Öffnungsklauseln la potestà derogatoria dell’accordo di

codeterminazione non è illimitata, ma circoscritta dalle c.d. soluzioni corridoio, che

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fissano criteri sufficientemente certi e, comunque decisamente più stringenti rispetto ai

vincoli derivanti «dalla Costituzione» o a quelli «derivanti dalla normative comunitarie

o dalle convenzioni internazionali del lavoro» come prevede l’art. 8 della legge n. 148

del 2011.

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