Conoscere il tessuto miofasciale - alleniamo.com · Inerenti al concetto di una buona meccanica del...

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Conoscere il tessuto miofasciale I modelli culturali che dominano nella civiltà moderna si aggiungono agli stress già a carico delle strutture fondamentali del corpo umano, imponendo un’attività sempre più specializzata e limitata. Le spalle curve del depresso, il petto in fuori della persona arrogante o più semplicemente la difficoltà di reimparare a camminare normalmente per chi abbia portato un’ingessatura a un arto inferiore, anche solo per poche settimane (classico esempio di retrazione post-traumatica derivata da una limitazione funzionale da trauma), sono tutti esempi di come fattori psico-sociali determinino alterazioni funzionali della biomeccanica delle articolazioni. I muscoli che sono impegnati in queste articolazioni diventano perciò ipertonici e/o accorciati comportando una serie di adattamenti compensatori da parte di tutti gli altri muscoli coinvolti nella meccanica dell’articolazione in questione, sinergici e antagonisti. E’ necessario creare delle influenze che compensino questa situazione in modo da raggiungere una funzione ottimale nelle condizioni imposte dal nostro stile di vita. Negli adulti l’incidenza di “difetti posturali” è legata, intimamente, a modelli di attività altamente specializzata e ripetitiva. La correzione di queste condizioni dipende dalla comprensione delle influenze che ne sono la causa e nell’attuazione di un programma di misure di prevenzione ed informazione. Tutto ciò richiede la conoscenza della meccanica del corpo e della sua risposta agli stress e agli sforzi a cui è sottoposto. Inerenti al concetto di una buona meccanica del corpo sono le qualità, indivisibili, dell’allineamento e dell’equilibrio muscolare. Le procedure di trattamento sono indirizzate verso il recupero e la conservazione di una buona meccanica del corpo sia in situazione statica che dinamica.

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Conoscere il tessuto miofasciale

I modelli culturali che dominano nella civiltà moderna si aggiungono agli

stress già a carico delle strutture fondamentali del corpo umano, imponendo

un’attività sempre più specializzata e limitata. Le spalle curve del depresso, il

petto in fuori della persona arrogante o più semplicemente la difficoltà di

reimparare a camminare normalmente per chi abbia portato un’ingessatura a

un arto inferiore, anche solo per poche settimane (classico esempio di

retrazione post-traumatica derivata da una limitazione funzionale da trauma),

sono tutti esempi di come fattori psico-sociali determinino alterazioni

funzionali della biomeccanica delle articolazioni.

I muscoli che sono impegnati in queste articolazioni diventano perciò

ipertonici e/o accorciati comportando una serie di adattamenti compensatori

da parte di tutti gli altri muscoli coinvolti nella meccanica dell’articolazione in

questione, sinergici e antagonisti.

E’ necessario creare delle influenze che compensino questa situazione in

modo da raggiungere una funzione ottimale nelle condizioni imposte dal

nostro stile di vita.

Negli adulti l’incidenza di “difetti posturali” è legata, intimamente, a modelli di

attività altamente specializzata e ripetitiva. La correzione di queste condizioni

dipende dalla comprensione delle influenze che ne sono la causa e

nell’attuazione di un programma di misure di prevenzione ed informazione.

Tutto ciò richiede la conoscenza della meccanica del corpo e della sua

risposta agli stress e agli sforzi a cui è sottoposto.

Inerenti al concetto di una buona meccanica del corpo sono le qualità,

indivisibili, dell’allineamento e dell’equilibrio muscolare.

Le procedure di trattamento sono indirizzate verso il recupero e la

conservazione di una buona meccanica del corpo sia in situazione statica che

dinamica.

Gli esercizi per il rafforzamento dei muscoli deboli e, ancor di più,

l’allungamento di quelli contratti costituiscono il metodo principale per il

ripristino dell’equilibrio muscolare.

Una buona meccanica del corpo necessita di un range di movimento

adeguato, ma non esagerato. La flessibilità normale è una qualità, non si può

dire lo stesso per la flessibilità eccessiva e a ragion del vero ne è la

dimostrazione il grafico tensione/lunghezza (fig. 1) che in un’ottica fisiologica,

dimostra praticamente come solo ad una data lunghezza i ponti tra actina e

miosina (filamenti contrattili) permettono una tensione ottimale derivata dalla

realizzazione di un adeguato numero di ponti.

Fig. 1

Il principio fondamentale dei movimenti articolari stabilisce che ad una

maggiore flessibilità corrisponde una minore stabilità, e viceversa.

Il problema è palese per tutte quelle attività sportive in cui l’esasperazione

della performance richiede contemporaneamente una flessibilità e una

lunghezza muscolare superiore alla norma. Sebbene si consideri e si è

sempre considerato che “di più è meglio” per il miglioramento delle

prestazioni (professionistiche e dilettantistiche), ciò può ripercuotersi

negativamente sulla salute del soggetto.

Questa convinzione dominante negli ultimi decenni, è stata alla base anche

della ricercata muscolazione da parte di un’enorme mole di utenti (praticanti

fitness) all’interno di palestre/club o per atleti di sport di squadra (calcio,

pallavolo, ecc) presso società sportive. Bisogna avere (preferibilmente in

quantità elevata) muscoli grossi e/o forti che possano tradurre il massimo

della forma e l’attitudine agli sforzi sportivi.

Anche in ambito medico si è sentito spesso raccomandare lo sviluppo

muscolare, ne rappresenta un importante esempio la zona del dorso.

Lo scopo sarebbe stato ridurre le deformazioni vertebrali nel caso degli

adolescenti e dolori/reumatismi nel caso degli adulti. Malauguratamente

questi potenziamenti non sono mai riusciti veramente ad arrivare allo scopo

dei problemi incontrati, sia in ambito rieducativo che funzionale.

Da qui nasce l’esigenza di una valutazione che tenga conto anche di altre

linee di pensiero del funzionamento muscolo-scheletrico.

Una prima osservazione da fare riguarda il tessuto connettivo che

rappresenta il 70% di tutti i nostri tessuti e indipendentemente dalla sua

funzione presenta sempre la medesima struttura di base (tra un osso e

un’aponeurosi non c’è differenza fondamentale, la loro distinzione nasce dalla

diversa “cementazione” degli elementi costituenti operata dalla mucina di

legame).

Al tessuto connettivo da sempre è riconosciuto un grande valore meccanico,

ma allo stesso modo presenta altre caratteristiche che ricoprono un posto di

estrema importanza nella fisiologia generale.

Embriologicamente origina dal mesoderma. Si può distinguere in due

categorie: a funzione trofica (sangue, linfa, endotelio, adiposo, ecc) e a

funzione meccanica (fibroso, cartilagineo, osseo).

In questa sede ci occuperemo di quella parte del tessuto connettivo detto

fibroso (tessuto di sostegno molto denso, capace di resistere alla rottura con

fasci connettivi serrati e cementati da una proteina del gruppo mucinico) che

comprende: tendini, legamenti, aponeurosi, pareti vascolari, fasce muscolari,

guaine nervose e l’insieme del sostegno della pelle e dei visceri.

Quest’insieme di strutture connettivali in Osteopatia è definita “fascia”, la

quale permette la connessione tra le diverse parti del corpo e svolge inoltre,

un ruolo importante nel metabolismo nutrizionale e nei fenomeni di osmosi.

Il tessuto connettivo fibroso è formato da diversi tipi di cellule, le principali

sono i fibroblasti che a loro volta producono due proteine: l’elastina e il

collagene.

L’elastina si organizza in fibre elastiche di colore giallastro, sottili, con un’

elevato coefficiente di elasticità e scarsamente rigenerabili nell’adulto, mentre

il collagene è organizzato in fibre di colore bianco, raggruppate in fasci

connettivi spessi, che si modificano continuamente e che sono caratterizzati

da una grande resistenza alla rottura (600 Kg/cmq). Attualmente non si

conosce cosa attivi la secrezione dell’elastina, mentre si sa che le tensioni

tissutali favoriscono la secrezione di collagene (Tipo 2).

E’ stato infatti osservato che tensioni prolungate e continue favoriscono la

produzione di fibre collagene in serie, con allungamento dei fasci connettivali,

mentre le tensioni brevi e ripetute o l’inattività (vita sedentaria, trauma, ecc)

determinano la produzione di fibre collagene in parallelo con moltiplicazione

dei fasci connettivali.

Nel primo caso si avrà un allungamento del tessuto connettivo, nel secondo

caso avremo un tessuto “densificato” retratto (l’invecchiamento dell’uomo è

caratterizzato da un addensamento che spesso porta ad un’ossificazione),

con riduzione dell’elasticità ed un inevitabile accorciamento, dato che

l’elemento contrattile dovrà sopperire alla mancanza di tensione dovuto ad un

aumento delle fibre collagene.

Lo spazio libero tra le cellule connettivali è denominato “sostanza

fondamentale” ed è costituito da fibre elastiche, collagene e liquido lacunare.

Quest’ultimo è definito “linfa interstiziale” perché i capillari linfatici ricevono

da esso gli elementi base della linfa e il suo volume è in funzione del maggior

o minor addensamento tissutale.

Si presenta ricco di cellule nutritizie e macrofagi che gli permettono di

svolgere un ruolo fondamentale nella funzione immunitaria e nella nutrizione

cellulare. La linfa interstiziale contiene anche mucopolisaccaridi e acido

ialuronico che svolgono un’ importantissima funzione nel regolare il grado di

elasticità delle strutture connettivali.

Anche la circolazione dei fluidi nel nostro organismo (inizialmente sotto forma

di siero fisiologico che serve “da veicolo” agli elementi vitali necessari a tutte

le nostre funzioni), presenta delle peculiari caratteristiche. E’ basato

essenzialmente su due sistemi: uno definito “circolazione di acqua legata” e

l’altro definito “circolazione di acqua libera”. Essi a loro volta dipendono dai

“movimenti di fascia” o per meglio dire dalla motilità dei tessuti che scivolando

gli uni sugli altri, permettono la propagazione del liquido “a macchia d’olio”,

dando così modo alle cellule di ricavare quello di cui hanno bisogno.

La fascia, quindi, è da considerarsi fondamentale per la circolazione dei fluidi

nel nostro corpo, permette la propagazione degli anticorpi ma questa

funzione ha anche un aspetto negativo molto importante in quanto funge da

veicolo per il propagarsi degli agenti infettivi.

Anche anatomicamente la fascia possiede una suddivisione.

Si compone di due strutture fondamentali: una detta “fascia superficiale”,

situata al di sotto del piano cutaneo e l’altra, più profonda, detta “aponeurosi

superficiale”.

Funzionalmente il tessuto connettivo fibroso non riveste solo il ruolo di

tessuto di sostegno e di rivestimento. Esso permette grazie al diverso grado

di elasticità delle formazioni connettivali fibrose (tendini, aponeurosi,

legamenti ecc) e al rapporto elastina/collagene lo scivolamento dei muscoli

superficiali su quelli profondi e della cute sul sottocute.

Da questo si deduce come il tessuto connettivale (epimisio, perimisio,

endomisio) che tiene uniti i muscoli avvolgendoli in una fascia unica e

continua, sia in grado di connettere tutto il corpo dalla pianta del piede al

cranio. (fig. 2).

Fig. 2

In effetti l’apparato contrattile e quello connettivale rappresentano un unico

sistema miofasciale con un’alta concentrazione di recettori propriocettivi.

Questi ultimi se sottoposti a tensioni prolungate, specie se in condizioni di

estremo affaticamento, possono dar vita ai cosiddetti “dolori miofasciali” tra

cui ricordiamo la sindrome dolorosa da disfunzione miofasciale. Essa è

determinata dall’attivazione di un trigger point (TP), che secondo J.G.Travell

e D.G. Simons è definito come: un locus iperirritabile che si trova all’interno di

un gruppo di fibre muscolari assai contratte, situato nel tessuto muscolare

e/o nella sua fascia corrispondente. Il punto si presenta dolente alla

compressione e può evocare fenomeni di tipo vegetativo e/o dolore

caratteristico che si irradia a distanza (fig. 3).

Fig. 3

Con le svariate ramificazioni il sistema fasciale si insinua nell’intera struttura

corporea, connettendo con le sue espansioni il sistema muscolo-scheletrico

con quello viscerale, ciò a dimostrazione del fatto che il muscolo è uno

strumento al servizio della fascia, che nel suo insieme costituisce un vero e

proprio “scheletro fibroso”.

Proprio tramite questa reale continuità una cicatrice o un qualsiasi trauma

(distorsioni, stiramenti, contratture, ecc) possono determinare tensioni,

squilibri e dolori anche in zone del corpo molto distanti, che, nei limiti del

possibile, verranno tamponati dai meccanismi di difesa deputati a preservare

la nostra conservazione (il loro fine è proteggere le funzioni vitali e saranno

numericamente proporzionati all’importanza delle stesse). Quindi l’organismo

tradurrà ogni elemento ritenuto nocivo in un’aggressione a cui i sistemi di

adattamento e di difesa reagiranno, nel rispetto di tre regole principali.

La prima è la salvaguardia delle funzioni egemoniche dette così poiché

devono, prioritariamente, essere garantite (funzione respiratoria, alimentare,

statica, bipodalica, binoculare e sessuale) e che beneficiano di svariati rinforzi

muscolari, è questa la ragione per cui i muscoli inspiratori sono più potenti e

numerosi degli espiratori. Lo stesso vale per i muscoli potenti con

caratteristiche statiche e con una più resistente componente contrattile

rispetto ai muscoli più deboli con caratteristiche dinamiche, ne sono un

esempio i muscoli della prensione che consentono il nutrimento.

La seconda è sopprimere o ancor meglio evitare il dolore e la terza, nel

caso venga eliminata l’aggressione, è minimizzare al massimo le eventuali

conseguenze psicologiche come l’ angoscia e la sofferenza relegandole

allo stadio inconscio, salvaguardando in questo modo lo stato di equilibrio e

unità dell’essere umano.

Un esempio chiarificatore può essere una distorsione di caviglia dove si

zoppica per evitare tutti i movimenti rischiosi dell’articolazione lesionata, con

una contrazione ipertonica del tricipite della sura e degli ischio-crurali

(compensi) che immobilizza conseguentemente caviglia e ginocchio.

I muscoli spinali compensano la bascula automatica del bacino e la spalla

opposta si alza per alleggerire l’appoggio del piede dolorante durante il

cammino, relegando per quanto possibile il dolore allo stato inconscio.

Quindi, secondo questo principio detto dei riflessi antalgici, anche i muscoli

lontani dal problema iniziale sono fortemente coinvolti nel processo di difesa

(tabella 1).

tabella 1

Questi sono tutti adattamenti messi in atto in modo involontario e automatico

dal Sistema Nervoso Centrale nel rispetto delle leggi a cui il corpo obbedisce

nella sua globalità ovvero: Equilibrio, Economia e Comfort (quest’ultimo

inteso come assenza di dolore). Attuando un controllo inibitorio di una

particolare zona dolorosa, la si escluderà dal movimento sovraccaricando

un’altra zona. Così delle ipo-sollecitazioni quali l’inibizione, il raffreddamento,

la fissazione e il blocco in alcuni distretti determineranno delle iper-

sollecitazioni con conseguente affaticamento e stress in altri. Sembra chiaro,

quindi, che non si potrebbe vivere senza i meccanismi di difesa, i quali

garantiscono la sopravvivenza e la salvaguardia della vita stessa. Tuttavia è

da sottolineare che la prestazione del sistema antalgico dipende dalla qualità

del potenziale vitale di partenza, cioè dall’ereditarietà più che dalle condizioni

di vita e dall’ambiente.

Un altro concetto a cui ci rifaremo riguarda la muscolatura.

Originata dal mesoderma si presenta organizzata in unità motorie (elemento

funzionale dell’attività motoria) e più nello specifico da fibre muscolari

innervate da motoneuroni alfa periferici. Il numero di unità motorie varia (a

seconda del muscolo preso in esame) da un minimo di 3 fibre per unità

motoria nei muscoli oculo-motori ad un massimo di 1500 fibre per unità

motoria nel gastrocnemio. Didatticamente la muscolatura striata dell’essere

umano si presenta suddivisa in unità motorie fasiche o dinamiche e unità

motorie toniche o statiche. Ulteriore classificazione viene fatta per il tipo di

fibra che Burke (1973) e Heuleu (1988) suddividono in:

- fast-faticable (bianche-fasiche) denominate di tipo IIB,

- slow (rosso-toniche) denominate di tipo I e

- fast-resistent (caratteristiche intermedie rispetto alle precedenti)

denominate di tipo IIA (tabella 2).

tabella 2

A livello neurologico le unità motorie toniche sono innervate da un

motoneurone alfatonico con bassa soglia di eccitabilità e presentano una

fisiologica contrazione inconscia ed automatica. Le unità motorie fasiche,

innervate da motoneuroni alfafasici di dimensioni maggiori e soglia di

eccitabilità più alta rispetto al motoneurone alfatonico, presentano una

fisiologica contrazione cosciente e volontaria. C’è da sottolineare che

nell’organismo umano non esistono muscoli totalmente fasici o tonici, in

quanto esso non ha, come alcuni quadrupedi, una muscolatura differenziata

ma tutti i muscoli si presentano a componente mista, quindi con unità

toniche e fasiche in proporzione variabile a seconda della funzione svolta.

Queste differenziazioni delle unità motorie fanno si che nell’uomo avvengano

due funzioni fondamentali e complementari: la funzione dinamica e la

funzione statica.

La prima è gestita dalla muscolatura dinamica che viene impiegata nella vita

quotidiana, è volontaria e altamente affaticabile. La sua patologia è

caratterizzata da debolezza o per meglio dire atrofia, paresi o paralisi. Il

trattamento che ha sempre contraddistinto questo tipo di muscolatura è lo

sviluppo della forza, componente base in rieducazione funzionale.

La seconda, invece, è gestita dalla muscolatura tonica (Sherrington ne fu lo

scopritore) una muscolatura lenta la cui funzione principale è il controllo della

statica, gestito dal riflesso miotatico e tramite la fusomotricità gamma, si

presenta come una muscolatura riflessa la cui attività ( che si svolge 24 ore

su 24) sfugge al controllo cosciente. Le patologie tipiche di questa

muscolatura sono la retrazione e l’accorciamento e non la debolezza (in

quanto poco affaticabile).

Le ultime due patologie sono responsabili di molti squilibri statici.

E’ opportuno differenziare le retrazioni dagli accorciamenti.

Le prime sono caratteristiche delle unità toniche che essendo in contrazione

permanente “tirano” sulle loro inserzioni, in fisiologia questo fenomeno è

definito attività spontanea del sistema tonico. Il conseguente avvicinamento

delle inserzioni accorcerà il muscolo che per mantenere la tensione di base

fisiologica, determinerà una sovrapposizione dei filamenti di actina e miosina

riducendo così la banda “H” e la conseguente capacità di accorciamento e

quindi della forza contrattile.

Gli accorciamenti, invece, sono caratterizzati da una crescita insufficiente di

alcune zone del sistema miofasciale, più precisamente la crescita ossea in

lunghezza mette in tensione il sistema connettivo fibroso obbligandolo così

ad allungarsi parallelamente ad esso (origine dei cosiddetti dolori della

crescita dei ragazzi) .

Se la crescita ossea non è abbastanza potente da assicurare una sufficiente

tensione nel connettivo, quest’ultimo resisterà determinando una

deformazione ossea ( tibia vara, tibia valga, femore a lama di sciabola ecc).

Se ne deduce che la retrazione succede all’accorciamento con conseguente

riduzione della lunghezza dei muscoli.

Alla luce di quanto finora esposto si può dedurre che ogni meccanismo

antalgico induce un rinforzo delle resistenze passive (tessuto fibroso) a

danno delle forze attive dei muscoli. Di conseguenza, in questi ultimi,

bisognerà ricercare un riequilibrio delle tensioni (intese come perfetta

coesistenza tra stabilità e mobilità) ed evitare il protrarsi di un disequilibrio

che tenderebbe immediatamente all’ organizzazione di un nuovo

equilibrio, a prezzo, però, di disassiamenti segmentari. Grazie agli studi

di G.Tardieu si è potuto constatare come l’attività concentrica determini

l’attivazione di sarcomeri in parallelo, con relativo aumento della resistenza

allo stiramento. Al contrario, la contrazione isometrica, in posizione

eccentrica, aumenta il numero dei sarcomeri disposti in serie restituendo

forza attiva al muscolo. Da ciò diventa evidente quale tipo di contrazione si

riprodurrà nella muscolatura statica.

Ovviamente oltre al tipo di contrazione bisognerà considerare anche il tempo

di trazione (intesa come fisiologica) e considerato che ad un corpo più

elastico (con conseguente coeff. di elasticità alto) occorrerà più tensione per

arrivare alla sua soglia di deformazione, rifacendoci alla formula:

Deformazione = _______forza____________ x tempo

Coeff. di elasticità

sembra chiaro che un corpo notevolmente elastico si deformerà più

difficilmente di un corpo poco elastico. Traducendo il tutto in “linguaggio

muscolare” vedremo che sarà il tessuto connettivo (in serie o il parallelo) a

deformarsi per primo. Questo allungamento sarà tanto più netto se ad un

allungamento passivo, aggiungeremo una contrazione isometrica, in modo da

permettere ad ogni fibra di lacerare il suo connettivo di attacco.

Quindi ogni trazione che abbia per scopo l’allungamento deve essere

mantenuta il più a lungo possibile. Per questo un muscolo messo in postura

da stiramento, al quale si richiede un lavoro isometrico, avrà come

conseguenze l’aumento dei sarcomeri disposti in serie, l’allentamento del

tessuto connettivo e la diminuzione del tono (posture di stiramento comprese

tra i 150-200 grammi mantenute per lungo tempo portano ad un

abbassamento dell’attività gamma e del tono e all’inibizione del muscolo

stirato facilitando l’antagonista con il meccanismo del riflesso miotatico

inverso). Lo stesso muscolo avrà minore resistenze passive a vantaggio della

sua forza attiva, sarà infine diventato lungo, forte ed elastico.

Tutto ciò condanna evidentemente tutti gli stiramenti brutali ed i molleggi

elastici che hanno avuto il loro periodo di gloria dando risalto all’ unico

trattamento logico da attuare che consiste in una messa in tensione, non

intesa come trazione ma come un allungamento fisiologico-globale.

Articolo estratto dalla tesi “l’evoluzione del concetto dell’allungamento globale” 2004/05 di De Martino Christian.Per ulteriori informazioni sull’argomento visitare il blog: www.coscienze.wordpress.com

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