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118° CONGRESSO NAZIONALE Società Italiana di Medicina Interna Roma 27-29 Ottobre 2017 Congress Center Rome Cavalieri VOLUME DEGLI ATTI

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NGRESSO

NAZIO

NALE - Società Italiana di M

edicina InternaLIBRO

DEGLI ATTI

CONGRESSONAZIONALESocietà Italiana di Medicina Interna

Roma27-29 Ottobre 2017Congress Center Rome Cavalieri

VOLUME DEGLI ATTI

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INDICE

SIMPOSIO

“Disegnare i nuovi trial clinici  sulla base delle esperienze passate”

I trial clinici randomizzati: stato dell’arteSalvatore Corrao (Palermo) 5

Nuove forme di trial cliniciValter Torri (Milano) 9

Nuovi end points dei trial clinici ed il ruolo dell’industriaVirginio Oldani (Roma) 23

RELAZIONI

“Scompenso cardiaco a frazione d’eiezione preservata: the other side of the moon?”

FisiopatologiaPiergiuseppe Agostoni (Milano) 27

Caratteristiche fenotipiche del paziente con scompenso a FE conservataMaurizio Galderisi (Napoli) 35

“Vasculiti”

Vasculiti dei grossi vasiCarlo Salvarani (Reggio Emilia) 41

Vasculiti dei piccoli vasiDario Roccatello (Torino)

“Verso una maggiore appropriatezza terapeutica nelle malattie immunomediate: le cellule staminali mesenchimali”

Le cellule staminali mesenchimaliRachele Ciccocioppo (Verona) 45

Le vescicole extracellulariGiovanni Camussi (Torino) 56

“Sepsi e shock settico”

Conoscere per riconoscere. La sepsi in Medicina: bastano nuove definizioni  per definire un nuovo paradigma di cura?Emanuele Durante Mangoni (Napoli) 61

Ristabilire la perfusione. La sepsi può essere gestita in un reparto di Medicina?Daniele Coen (Milano) 67

LETTURE

L’hospitalist nella organizzazione assistenziale: ne abbiamo realmente bisogno ?Francesco Perticone (Catanzaro) 72

Rapporto medico/pazienteLuigi Pagliaro (Palermo) 75

Sindrome metabolica e tumori: dai nutrienti ai geniAntonio Moschetta (Bari) 91

MEDICINA IN CORSIA

Squilibrio anabolico/catabolico nello scompenso cardiaco: un nuovo paradigma per l’InternistaAntonio Cittadini (Napoli) 98

Le malattie “funzionali” dell’apparato digerente:Vincenzo Stanghellini (Bologna) 102

MEET THE EXPERT

Gli oligonucleotidi antisenso nelle malattie cardiovascolari e mtebolicheDomenico Girelli (Verona) 105

Il rischio dell’hazard ratioGianni Corrao (Milano) 109

La Fibrosi Polmonare IdiopaticaLuca Richeldi (Roma) 112

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Aspetti storici

Nel Libro di Daniele dell’Antico Testamento [1] è curio-samente riportato il primo trial clinico controllato con disegno longitudinale: Re Nabucodonosor ordinò alla sua gente di mangiare solo carne e vino perché ritenuta una dieta in grado di mantenerli in forze. Permise a chi non voleva seguire questa dieta di mangiare legumi e acqua ma solo per dieci anni. Dopo questo periodo constatò che chi mangiava legumi era meglio nutrito di chi si alimentava con carne e vino. Questo è probabilmente il primo esperimento di salute pubblica, controllato, in aperto, della storia dell’u-manità. Avicenna (1025 AD) nel suo enciclopedico “Canone della Medicina” detta alcune regole per testare sostanze ad azione terapeutica che sembrano a noi contemporanee come la necessità di fare studi clinici prospettici e riproducibili selezionando pazienti con caratteristiche precise per evitare il confondimento di fattori come le complicazioni di malattia [2]. Il primo trial su una terapia innovativa fu condotto acci-dentalmente da Ambroise Pare nel 1537 [1-3] famoso chi-rurgo che, trovandosi in carenza di olio e cercando un tratta-mento alternativo, notò che un estratto di resina con potere decongestionante (trementina) era migliore dell’olio bollente

per trattare le ferite: i soldati dormivano meglio, l’infiamma-zione si riduceva e non diventavano febbricitanti al contrario degli altri. James Lind è il primo medico a condurre un espe-rimento controllato nell’era moderna. Egli, chirurgo su una nave, il 20 maggio 1747 selezionò 12 pazienti con lo scorbuto, ne descrisse le caratteristiche e suddivise i pazienti in gruppi di due assegnando a ciascuno le medesime condizioni di cure e riposo ma a ciascuno un differente supporto nutrizionale. I due soggetti a cui era stata assegnata una dieta giornaliera con arance e limoni migliorarono nettamente rispetto ai rimanenti 5 gruppi [4]. L’Hooper’s Medical Dictionary del 1811 definisce per la prima volta il placebo:“an epithet given to any medicine more to please than benefit the patient.” Ma bisogna aspettare il 1863 per vederlo testato contro un trat-tamento attivo da parte dal medico statunitense Austin Flint [1]. Nel 1943 il Medical Research Council (MRC) della Gran Bretagna disegna e conduce il primo trial clinico controllato randomizzato (TCR) in doppio cieco della storia per testare la patulina (un estratto del Penicilluim Patulinum, saccaro-micete della famiglia delle aspergillaceae) nel raffreddore comune [5]. Tuttavia, il primo trial con le caratteristiche citate sopra e la relativa pubblicazione che si può ritrovare nell’index medicus e in medline è del 1948 sulla streptomicina nella tubercolosi sempre messo a punto e condotto dal MRC inglese [5].

Aspetti epistemologici

Appare importante per la natura stessa dell’argomento chia-rire il concetto di paradigma della ricerca secondo Khun

I trial clinici randomizzati: stato dell’arte

Salvatore Corrao1,2

1. U.O.C. di Medicina Interna, Azienda di Rilievo Nazionale e Alta Specializzazione (ARNAS) Civico-Di Cristina-Benfratelli, Palermo2 Centro interdipartimentale di Ricerca per l’Efficacia e l’Appropriatezza in Medicina (C.R.E.A.M.), Dipartimento Biomedico di Medicina Interna e Specialistica, Università di Palermo

© SIMI 2017

SIMPOSIO - Disegnare i nuovi trial clinici sulla base delle esperienze passate

Salvatore Corrao ()UOC Medicina interna - ARNAS Civico, Di Cristina, Benfratelli, PalermoPiazza Nicola Leotta,2 - 90127 Palermo, Italia Tel +39 091 655 2065.Fax +39 091 666 3167Email [email protected]

Figura 1: Aspetti ontologici, epistemologici e metodologici che definiscono un paradigma di ricerca

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(1962): l’insieme di credenze e opinioni comuni condivise tra scienziati su come i problemi dovrebbero essere capiti e affrontati. Secondo Guba E [7] un paradigma di ricerca può essere definito attraverso gli aspetti ontologici, episte-mologici e metodologici (Fig.1). La visione ontologica ed epistemologica crea la visione olistica della conoscenza rispondendo alle domande su cos’è e come ci rapportiamo con essa, indicando le strategie metodologiche per crearla e diffonderla. I vari paradigmi sono rappresentati nella Tab.1 sulla base delle componenti e dei principi già esposti [8-10]. Il TCR nasce nell’ambito del positivismo Popperiano in cui il principio di falsificabilità, più correttamente tradotto dal termine originale “Fälschungsmöglichkeit” in possibilità di confutazione che caratterizza, secondo Karl R. Popper (1902-1994), l’ambito delle teorie controllabili che appar-tengono alla scienza da quello delle teorie non controllabili che appartengono al mondo della metafisica. In particolare, il lavoro del filosofo Australiano Popper ispira la scuola di filosofia della scienza del razionalismo critico. Il metodo del “trial and error” ha un ruolo centrale e rappresenta il principio unico che detta il metodo per testare la falsità di una teoria avocata per risolvere un problema. Imparare dall’errore, d’altra parte, rappresenta un principio seguito da molte specie animali e anche dall’uomo. Un modo per mettere da parte le opinioni personali, al fine di avvicinarsi quanto più possibile alla verità [11]. Il pensiero Popperiano probabilmente non si sarebbe evoluto così come lo conosciamo senza il contributo di tre

grandi filosofi-scienziati del seicento. Bacone che parla di logica induttiva sviscerandola in tutte le sue parti (Prima vindemiatio, Istantie prerogativae, Istantie informative, Istantie crucis, Istantie pratiche), Galileo che introduce la necessità di un momento analitico-induttivo e di un secondo ipotetico-deduttivo in cui l’esperimento rappre-sentava l’atto finale per la confutazione dell’ipotesi, e Car-tesio (René Descartes) che col suo “Discorso sul Metodo” indica le quattro Regulae ad directionem ingenii e parla del dubbio come elemento fondamentale per confutare le ipotesi, introducendo così il pensiero dello stesso Popper e l’importanza del pensiero critico. Pensiero critico che a Parigi, nel 1831, aveva portato Pierre Charles Alexandre Louis, medico patologo e statistico, a promuovere la “Méd-ecine d’Observation”, secondo cui per giungere a conclu-sioni valide le opinioni personali basate sulla esperienza dovevano essere sostituite dal metodo sperimentale e dalla raccolta di dati quantitativi. Pensiero critico che pone le basi al cambiamento epistemologico rappresentato dalla Evidence Based Medicine maturata all’interno della McMa-ster University canadese, con Sackett e i suoi collaboratori [12-14] e con l’ispirazione dell’epidemiologo inglese Archi Cochrane [15]. La Fig.2 descrive l’evoluzione della Evidence Based Medicine che vede nel TCR il disegno di studio fon-damentale per raggiungere conclusioni forti sulla efficacia degli interventi e dei trattamenti terapeutici. Due matematici fondatori della statistica moderna hanno contribuito allo sviluppo del metodo sperimentale. Il primo

Paradigma Ontologia Cosa è la realtà?

Epistemologia Come posso

conoscere la realtà?

Prospe�va Teorica Quale approccio posso usare per conoscere?

Metodologia Come mi muovo per trovare ciò che sto

cercando?

Metodo Quale metodo u�lizzo per

trovare ciò che sto cercando?

Posi�vismo Esiste una sola realtà o verità

La realtà può essere misurata a raverso strumen� validi e affidabili.

Posi�vismo Post-posi�vismo.

Ricerca sperimentale Sondaggi.

Solitamente quan�ta�va, può includere: campionamen�, misurazioni e scale, analisi sta�s�che, ques�onari, focus group, interviste.

Costru�vismo/

Interpreta�vo

Non esiste una sola realtà o verità. La realtà è creata da gruppi di individui.

La realtà necessita di essere interpretata. E’ usata per scoprire il significato nascosto di even� e a�vità.

Interpreta�vismo ( la realtà deve essere interpretata):

• Fenomenologia • Interazionismo

simbolico • Ermeneu�ca • Indagine cri�ca • Femminismo.

Etnografia Grounded Theory Ricerca fenomenologica Indagine euris�ca Ac�on Research Analisi del discorso

Solitamente qualita�va, può includere: interviste qualita�ve, osservazione partecipante, studi di casi, storie di vita, ricerca narra�va, iden�ficazione di tema�che.

Pragma�smo

La realtà viene costantemente rinegoziata, diba�uta, interpretata alla luce della sua u�lità nelle situazioni nuove ed imprevedibili.

Il miglior metodo è quello che risolve i problemi. Scoprire è il significato, cambiare è l’obie�vo so�nteso.

Pragma�smo di Dewey Research through design

Metodi mis�: Ricerca basata su proge� Ac�on research.

Combinazione di uno qualsiasi dei metodi sopra cita� come revisione ed estrazione da�, test di usabilità, proto�pi fisici.

Sogge�vismo La realtà è ciò che percepiamo essere reale.

Tu�a la conoscenza è solo una ques�one di prospe�va.

Postmodernismo Stru�uralismo Post-stru�uralismo

Teoria del discorso Archeologia Genealogia Decostruzionismo.

Autoetnografia Semio�ca Analisi le�eraria Pas�che, Intertestualità.

Approccio Cri�co

Le realtà sono en�tà socialmente stru�urate e sono so�o costante influenza interna.

Realtà e conoscenza sono entrambe socialmente stru�urate ed influenzate da rappor� di potere all’interno della società.

Marxismo Teoria Queer Femminismo.

Analisi cri�ca sul discorso, etnografia cri�ca, ac�on research, ideologia cri�ca.

Revisioni ideologiche Interviste aperte Civil ac�ons Focus group, ques�onari a risposta aperta, osservazioni aperte, riviste.

Tabella 1. Rappresentazione sintetica dei vari paradigmi epistemologici declinati secondo le varie componenti.

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è Ronald Aylmer Fisher [16], matematico e biologo britan-nico, nato nel 1980 a Londra, che nel 1925 idea il test t di Student per il confronto di due medie e nel 1936 l’analisi

discriminante. Per primo parla dell’importanza della ran-domizzazione e il suo contributo principale è di tipo meto-dologico: nel suo “The Design of Experiments” del 1935

Figura 2: Tappe evolutive fondamentali dell’Evidence Based Medicine

Figura 3: Processo di ricerca dell’evidenza scientifica e della sua valutazione critica prima di un suo eventuale utilizzo nella pratica clinica. Il cosid-detto Critical Appraisal è un processo in cui la MacMaster University canadese ha contribuito molto negli anni ’80 e ’90 ed è stato fatto proprio dalla Evidence Based Medicine. Attraverso tale processo si decide se cestinare la possibile evidenza o renderla fruibile nella pratica clinica di tutti i giorni.

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introduce il concetto della necessità di disegnare gli esperi-menti prima di effettuarli per rendere validi i test statistici, e conia i concetti di ipotesi nulla (H0) e ipotesi sperimen-tale (H1). Il secondo è lo statistico di origine polacca Jerzy Neyman [17], nato a Tighina (Moldavia) nel 1894 che, nel 1924 giunge all’University College di Londra, diretto da Karl Pearson, dove lavora con altri personaggi chiave della statistica quali, oltre al già citato Ronald Fisher, Wiliam Sealy Gosset e Egon Pearson. Pone le basi per la teoria dei test statistici e introduce concetti basilari come la potenza dei test statistici e l’intervallo di confidenza. Dunque, per creare conoscenza in campo scientifico sull’ef-ficacia di un trattamento bisogna testare l’intervento in un gruppo di pazienti, avere un secondo gruppo su cui testare un placebo o un trattamento alternativo, assegnare i tratta-menti in modo del tutto casuale (randomizzazione) e non far sapere né al medico né al paziente qual è il trattamento in questione (doppio cieco).

I TCR e le evidenze scientifiche

Il paradigma su cui ruota la Medicina Basata sulle Evidenze è che nel processo di creazione della conoscenza in campo terapeutico, diagnostico e prognostico bisogna abbando-nare le opinioni basate sull’esperienza per utilizzare dati quantitativi derivanti da una ricerca epidemiologica-cli-nica di qualità dopo valutazione critica (Fig. 3). Potremmo tradurre il concetto, in termini epistemologici, dicendo che l’EBM invita ad abbandonare la logica Baconiana per sposare in pieno la logica Galileana e Cartesiana, nonché quella Popperiana e del Positivismo tutto [18]. Questo tipo di paradigma necessitava, allora, di una visione per così dire calvinista in un momento in cui l’opinione dei maestri era basata sul pensiero unico ancora di più che sul ragiona-mento induttivo. Tuttavia, lo stesso Sackett nel 1996 in un editoriale dal titolo “Cos’è e cosa non è la EBM” [19] sente di dover calmierare gli animi dei fan dell’EBM scrivendo che i dati quantitativi ancorché provenienti da una ricerca

di eccellente qualità non possono essere applicati nella pratica clinica senza il giudizio clinico, facendo riferimento all’esperienza e alle capacità del clinico stesso. Il lavoro di Saarni SI et al. qualche anno dopo [20] parla di EBM epistemologica e di EBM pratica. La EBM pratica enfatizza la conoscenza probabilistica che si acquisisce attraverso i Trial Clinici (idealmente sempre TCR in doppio cieco) e che utilizza quale strumento la revisione sistema-tica. Il termine revisione sistematica nasce con l’EBM e con la creazione della Cochrane collaboration [21], network il cui scopo è fare revisioni sistematiche per risolvere l’in-formation overload che dalla creazione dell’Index Medicus prima e di Medline e PubMed dopo aveva portato all’eccesso di informazione già negli anni ‘70. Nella Fig.4 sono rappre-sentati l’andamento temporale delle pubblicazioni indiciz-zate come TCR e come meta-analisi a partire dal 1960. Evoluzione della meta-analisi è la revisione sistematica che è una tecnica clinico-statistica che mette assieme dati quan-titativi provenienti da più trials. Una meta-analisi senza una ricerca bibliografica sistematica non può che essere una cattiva meta-analisi vittima del cosiddetto bias di pub-blicazione. Troppo spesso però una metanalisi fa il pooling di dati di trial molto eterogenei dal punto di vista clinico creando una distorsione delle conclusioni di cui il lettore ignora la gravità, per la superiorità attribuita a priori a una meta-analisi rispetto al singolo trial. Il concetto di un dualismo tra EBM epistemologica e pratica fa riflettere sulla necessità di elaborare i dati provenienti dai trials e dalle revisioni sistematiche in una chiave clinica paziente-centrica e rispettosa delle logiche organizzative/di sistema. Infatti, gli strumenti della EBM pratica sono le linee-guida e, aggiungo io, l’outcomes research, incluso l’Audit Clinico, ed in un contesto che rispetti la Clinical Governance [22]. Basta far riferimento al metodo GRADE, per la redazione delle linee guida, per capire l’importanza di tutti gli aspetti esterni alle evidenze epistemologiche per la redazione e gradazione delle raccomandazioni orientate al clinico [23].

Figura 4: Andamento temporale delle pubblicazioni indicizzate da PubMed come trial controllati randomizzati e come meta-analisi a partire dal 1960. Si noti come il numero di meta-analisi cresca esponenzialmente a partire dagli anni ‘90.

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TCR e aspetti metodologici

La Tab.2 riporta le 4 fasi della ricerca clinica.

Distorsioni sistematiche (bias) Non esiste il disegno di studio perfetto. Tutti presentano limiti pratici e/o etici ed è impossibile controllare tutte le fonti di errori anche nei più meticolosi TCR in doppio cieco. Pertanto, un singolo studio non dovrebbe mai rap-presentare una prova di efficacia definitiva. La maggior parte degli errori derivano da 5 maggiori fonti di problemi metodologici che possono portare a distorsione sistematica dei risultati: bias di selezione e di misurazione, causalità inversa, eccessiva variazione casuale e il confondimento. I primi tre sono errori sistematici, intrinseci al disegno di studio e quindi ripetibili in altri studi con lo stesso disegno. Al contrario, l’eccessiva variabilità casuale è frutto della semplice variabilità aleatoria. In questo senso gli errori sta-tistici di I (alfa) e di II tipo (beta) affrontano il problema della variabilità casuale e sono utilizzati dalla statistica infe-renziale per trarre conclusioni. L’errore alfa è l’errore che si può commettere rigettando l’ipotesi nulla (H0), è stigma-tizzato dal valore di p (significativo quando inferiore a 0.05, cioè al 5%) e ci fornisce la probabilità che le differenze siano un falso positivo. L’errore beta, al contrario, è la probabilità di sbagliare quando si afferma che non ci sono differenze (falso negativo). L’errore beta è ritenuto sostenibile tra il 10 e il 20%, quindi ontologicamente meno grave di un risul-tato falsamente positivo, e viene utilizzato per calcolare la

numerosità campionaria facendo riferimento alla potenza dello studio (si utilizza in questo caso il suo reciproco: 90 o 80% rispettivamente). La randomizzazione nasce per limitare l’effetto del confounding e riguarda la ripartizione dei pazienti nei diversi bracci di studio; ecco perché non bisogna considerare affidabili le analisi di sottogruppi non programmate nel protocollo di studio ed in fase di rando-mizzazione. Per primo Simpson E.H. pubblicò nel 1951 la dimostrazione che l’analisi di sottogruppi può paradossal-mente portare all’inversione della frequenza degli outcomes rispetto ai gruppi originari in modo del tutto indipendente dalla variabile utilizzata per creare i sottogruppi [24] anche se Yule G. aveva pubblicato nel 1903 un lavoro che faceva un primo riferimento ad un fenomeno analogo [25]. Da allora si parla di paradosso di Simpson per indicare l’effetto potenzialmente distorsivo delle analisi per sottogruppi non programmate in fase di disegno dello studio e senza una specifica randomizzazione stratificata. Il confounding è sempre in agguato e può essere aggirato, se dipende da variabili conosciute e correttamente registrate, con tecniche di analisi multivariata. Di seguito sono riportate alcune conclusioni erronee per analisi di sottogruppi non programmate: a) Tamoxifene inefficace in donne con meno di 50 anni [26]; b) Streptokinasi inefficace dopo 6 ore dall’infarto [27]; c) Aspirina inefficace in prevenzione secondaria dell’infarto miocardico nelle donne [28]; d) Beta-bloccanti inefficaci negli anziani nel post-infarto [29].

Fase I Studi di sicurezza (safety) su un nuovo farmaco. Vengono eseguiti dei tentativi sulla dose tollerata da parte di volontari sani. A volte questo tipo di studio viene condotto in pazienti severamente compromessi (pe nel campo di nuove terapie per il cancro) o in pazienti con una forma lieve di malattia se lo scopo è studiare la farmacocinetica.

Fase IIa Trial clinici pilota per valutare l’efficacia (efficacy) e la sicurezza (safety) di un farmaco in popolazioni selezionate di pazienti. Gli obiettivi possono essere orientati all’individuazione del livello dose-risposta, del tipo di paziente, frequenza posologica e numerose altre caratteristiche di efficacia e sicurezza.

Fase IIb Trial clinici controllati per valutare l’efficacia (efficacy) e la sicurezza (safety) di un farmaco in una popolazione di pazienti. Possono avere caratteristiche molto vicine ai trial di fase III ma sono usualmente con casistiche più limitate e rappresen-tano quindi dimostrazioni rigorose di efficacia (efficacy). Spesso rappresentano per le caratteristiche di rigore metodolo-gico dei pivotal trial cioè studi registrativi.

Fase IIIa Trial condotti dopo una dimostrazione di efficacia ma prima che siano state effettuate l’invio del materiale agli enti regola-tori relativi ad un nuovo farmaco. Questi trial sono condotti su un ampio campione di di pazienti target, possono riguar-dare pazienti con condizioni particolari (come disfunzioni d’organo). Questi studi forniscono molte delle informazioni che verrano riportate nella scheda Riassunto Caratteristiche Prodotto (abbreviata in RCP) ovvero detta bugiardino.

Fase IIIb Trial clinici condotti dopo l’invio della presentazione dei dati relativi ad un nuovo farmaco agli enti regolatori ma prima di una sua approvazione. Sono trial che forniscono ulteriori evidenze in termini di efficacia e sicurezza rispetto ai primi trial, possono completarli (pe in termini di durata di follow-up) oppure possono valutare vari aspetti come la qualità di vita, analisi dei costi, aderenza etc.. Questo periodo di sperimentazione è il periodo tra la presentazione della richiesta di immissione in commercio di un nuovo farmaco e la sua eventuale approvazione.

Fase IV Studi condotti dopo l’entrata in commercio di un nuovo farmaco (studi post marketing). Sicuramente sono mirati a valutazioni di efficacia pragmatica (effectiveness) e soprattutto di sicurezza, Possono avere la struttura di RCT oppure osservazionale, possono essere controllati oppure non controllati e rientrano in questa fase studi du aderenza terapuetica, di appropriatezza e di sorveglianza di eventi avversi. Quando il farmaco è in commercio ma si vuole cambiare indicazione lo studio ritorna ad essere di fase II.

Tabella 2. Le varie fasi della sperimentazione clinica dei farmaci. Spesso rappresentano il risultato di anni di studi condotti in laboratorio su cellule ed animali e possono riguardare indistintamente interventi terapeutici, diagnostici e preventivi.

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Una descrizione dei vari bias è riportata in Tab.3 mentre in Fig.5 sono riportati i bias collocati nelle varie fasi di uno studio controllato ed i possibili metodi per limitarli. Per un ulteriore approfondimento può essere consultato il lavoro di Delgado-Rodríguez M et al [30].

Gli end-point Gli end-point sono misure quantitative, funzionali agli obiettivi di uno studio. Sono variabili che misurano gli effetti di un trattamento, nel caso di sperimentazioni clini-che, o gli effetti nel tempo associati ad un fattore di rischio, nel caso di studi di coorte. Le caratteristiche desiderabili di un endpoint sono le seguenti: 1. rilevanza in relazione al processo di malattia; 2. facilità di interpretazione; 3. assenza di errore di misura/valutazione; 4. sensibilità alle differenze del trattamento; 5. misurabilità entro un ragionevole periodo di tempo. E’ fondamentale inquadrare correttamente gli end-point per poter interpretare dati di efficacia forniti da un trial clinico. Ciò ha implicazioni sul piano etico. Se il trial-and-error è il metodo empirico riconosciuto come unico sistema di avvi-cinamento alla verità, allora la qualità metodologica di uno studio clinico e la possibilità di interpretare correttamente il significato degli end-point sono importanti ed il clinico nella sua attività pratica non può esimersi dal questo tipo di conoscenza. La pubblicazione su riviste di rilevanza nazio-nale non implica la rilevanza dell’evidenza. Questo scritto può aiutare il lettore ad una interpretazione più accorta della letteratura scientifica che appare sottoforma di evi-denza per trasformarla in prova (con tutti i limiti che sono intrinseci a questa affermazione!). È possibile classificare gli end-point almeno secondo due prospettive differenti:

- oggettività di misurazione, - relazione con la malattia/condizione oggetto di studio. Nel primo caso si differenziano in end-point “hard” e “soft”, nel secondo in “veri” (EV) e “surrogati” (ES). Esiste un certo grado di sovrapponibilità dei due criteri classificativi. Gli end-point hard sono punti di riferimento clinico ben definiti nel protocollo di studio (direttamente misurabili e oggetto di valutazione dell’obiettivo principale). Rispetto al processo di malattia possono essere considerati momenti finali e non soggettivi nella misurazione. Nella maggior parte dei casi si tratta di end-point veri perché in relazione alla malattia/condizione sono rilevanti e direttamente cor-relati ad essa. Alcuni esempi sono la morte (EV), eventi cardiovascolari e cerebrovascolari maggiori (EV), ospedalizzazione (ES), alcune misurazioni strumentali o di laboratorio (EV a volte ES). Gli end-point soft non sono correlati direttamente al pro-cesso di malattia e richiedono una valutazione soggettiva da parte del paziente o del medico. Esempi sono la valutazione dei sintomi con scale visuo-analogiche o questionari tra cui i questionari di valutazione della qualità della vita. Non tutti gli end-point possono rientrare dentro una determinata categoria classificativa. Le valutazioni anatomopatologiche sono soggette ad una inevitabile soggettività. Quindi, indi-viduato il tipo di end-point, sarà importante chiedersi quale propensione all’errore ha rispetto ai veri obiettivi clinici relativi ad una determinata malattia/condizione. Gli studi clinici che utilizzano end-point surrogati a volte lo fanno a scopo precipuo di influenzare l’ignaro lettore. Un altro problema di importanza crescente riguarda l’uso di end-point multipli, da non confondere con quelli “com-binati”. Nel primo caso ci troviamo una lista di end-point ognuno con una valutazione di tipo statistico per saggiare le

Figura 5: Bias collocati nelle varie fasi di uno studio controllato e i possibili metodi per evitarli.

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differenze tra i gruppi di studio, nel secondo abbiamo end-point che combinano end-point differenziabili sommando (letteralmente) i valori sottoposti a confronto statistico. Gli end-point multipli pongono un problema di errore alfa. L’errore alfa è il secondo tipo di errore statistico che riguarda l’affermazione che due trattamenti sono statistica-mente significativi (ovvero p< 0.05). Un trial metodologica-mente corretto valuta sempre in fase di pianificazione dello studio la numerosità campionaria. Questa viene calcolata sulla base degli errori di I (errore beta) e di II tipo (errore alfa) definiti correttamente per un singolo end-point che deve essere la misura di riferimento dell’obiettivo principale dello studio. Per questo motivo, le significatività riportate nel report finale e relative a vari end-point tendono a sot-tostimare il livello di errore alfa che nel caso di confronti tra più end-point non corrisponde all’errore alfa riferito al singolo confronto. L’applicazione del metodo di Bonferrori, che ha comunque dei limiti, ci fa capire meglio la proble-matica. Partiamo da uno studio che valuta un end-point combinato costituito da morte, eventi cerebro-vascolari e cardiovascolari. Se vengono riportate le significatività dei tre singoli end-point, risultanti dal confronto delle diffe-renze tra i gruppi di trattamento, e ammettendo che siano rispettivamente di 0,01, 0,04, 0,04 (tutti inferiori a 0,05 e quindi tutti significativi), col metodo Bonferroni è possibile correggere la sottostima dell’errore alfa moltiplicando ogni valore per il numero di end-point valutati. In questo caso

solo 0,01 rimane al di sotto di 0,05 (0,01 x 3= 0,03) mentre gli altri ritenuti significativi ad una prima valutazione per-derebbero la loro significatività. Effetti simili sull’errore alfa si hanno quando si utilizzano end-point multipli ma in questo caso l’interpretazione non è sempre facile. Infatti, l’effetto desiderato da chi pubblica è mostrare non solo che esiste una differenza statistica-mente significativa ma anche che la variabilità della stima (il cosiddetto intervallo di confidenza al 95%) sia minore possibile. L’uso di end-point combinati porta solitamente a questo effetto utilizzando i valori degli end-point non signi-ficativamente differenti nel calderone dell’end-point com-binato, riducendone la variabilità della stima e con effetti anche sulla variabilità del numero di pazienti da trattare per ottenere un beneficio. Un altro problema è rappresentato dagli endpoint primari e secondari. Solitamente, un buono studio è caratterizzato da un singolo obiettivo primario con un preciso end-point. Ciò si rende necessario sia per una precisa definizione della numerosità campionaria che per chiarezza di intenti (diffidare di studi che si propongono tanti obiettivi e tutti assieme). Tuttavia, uno studio ben condotto non può fare a meno di registrare altre variabili e conseguentemente monitorare altri end-point che vengono detti secondari. Due considerazioni metodologiche. La prima è che la potenza dello studio viene tarata sull’end-point primario e pertanto l’assenza di differenze tra end-point secondari può

TIPO DI BIAS DESCRIZIONESelection Bias Differenza sistematica tra popolazione inclusa nel trial e la vera popolazione target

Subversion Bias Una forma di bias di selezione con apparente equivalenza delle caratteristiche di base dei gruppi (intervento e controllo) in cui è lo sperimentatore o è a conoscenza della lista di randomizzazione (che assegna ad ogni gruppo) o indica le modalità di assegnazione ai due gruppi (anche con metodi che apparentemente sembrano casuali: codici paziente, giornate differenti etc.). In realtà è stato dimostrato che solo un adeguato occultamento (concealment) di liste di randomizzazione permette di misurare correttamente l’entità dell’effetto

Technical Bias Sono errori tecnici commessi in fase di reclutamento che possono portare a gruppi non omogenei contrariamente a quanto previsto

Attrition Bias Se un trattamento porta al drop-out di pazienti per frequenti effetti collaterali si selezionano quelli che possono avere gli effetti migliori. Questo tipo di bias può essere evitato tramite l’intention-to-treat-analysis e non per protocol al fine di valutare gli effetti del trattamento nel maggior numero di pazienti possibili anche quelli che hanno dovuto sospendere il trattamento per eventi avversi.

Consent Bias Bias che si verifica quando il consenso è chiesto dopo la randomizzazione rendendola vanaAscertainment Bias Bias che deriva da una errata valutazione degli outcome e che si verifica quando l’outcome è di tipo qualitativo e l’appartenenza al

braccio di studio non è nascostaDilution Bias Si verifica quando l’effetto del trattamento attivo viene diluito da una mancata aderenza allo stesso proprio nel relativo braccio

Rosentful Demoralisation

Quando l’assegnazione randomizzata ai due bracci di trattamento non trova favore nel paziente che riporta gli outcomes (di tipo qualitativo) in modo superficiale e scorretto (tipico degli studi in cui l’intervento è complesso e non può essere somministrato in cieco)

Delay Bias Legato ad un ritardo tra randomizzazione ed inizio dello studioChance Bias Legato al semplice effetto del caso (le differenze che si possono riscontrare tra le caratteristiche di base dei due gruppi di confronto

anche in condizione rigide di randomizzazione e oscuramento delle liste di randomizzazione)Hawthorne Effect Legato al manifestarsi di un effetto per le caratteristiche dello studio e non tanto per l’efficacia del trattamento (frequenti visite di

controllo, maggiore attenzione da parte di medici ed infermieri etc.)Analytical Bias Errori di inferenza statistica e legati comunque ad analisi statistiche scorrette. In particolare, analisi come quelle che spesso vengono

fatte per sottogruppi senza avere una plausibilità e senza averle programmate in fase di scrittura del protocollo. Il famoso paradosso di Simpson dimostra come un effetto presente nei gruppi programmati letteramente si inverta nell’analisi che confronta sottogruppi per una variabile non considerata in fase di randomizzazione (il genere per esempio)

Tabella 3. Descrizione di alcuni degli errori sistematici (bias) più importanti.

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essere attribuita almeno potenzialmente ad una incapacità di rigettare l’ipotesi nulla (cioè non ci sono differenze) per una scarsa numerosità campionaria. La seconda è, cosa succede se l’end-point primario non risulta significativa-mente differente e gli end-point secondari invece si? In questo caso l’unica considerazione che lo studio è stato mal disegnato e che al massimo i risultati possono essere utiliz-zati per formulare nuove ipotesi di lavoro da essere testate per nuovi trial. O’Neill, R. [31] è dello stesso parere infatti afferma in maniera categorica che gli end-point secondari non possono essere analizzati se l’end-point primario non mostra una significatività statistica. Davis CE [32] propone invece una correzione statistica in casi come questi. L’end-point surrogato a volte può rappresentare una alterna-tiva obbligata rispetto ad uno vero che può essere misurato dopo molto tempo. Tuttavia, si deve sempre considerare che la scelta di un end-point surrogato potrebbe rappresen-tare solo una soluzione economica per la conduzione di un trial clinico, ma in grado di influenzare lo stesso l’opinione degli operatori sanitari sull’efficacia dell’intervento testato. Nella Tab.4 sono rappresentati i relativi end-point surrogati e veri per varie condizioni patologiche. Nella tabella tutti gli end-point veri sono anche hard. Tutta-via, secondo molti, la valutazione della qualità della vita e della disabilità dovrebbero essere considerati veri ogni qual volta la condizione/malattia ha implicazioni con questi due aspetti molto forti. Si tratta comunque di soft end-point e la loro valutazione dipende molto dagli strumenti utilizzati e dalla loro validazione scientifica. Si ricordi che un hard end-point come la riospedalizzazione, che a sua volta ha impli-cazioni interessanti sia indirettamente sulla qualità della vita che sui costi di gestione, vada considerato “surrogato” e non vero. Si ricordi, inoltre, che molti end-point surrogati (es. alterazione di esami di laboratorio) sono hard-endpoint la cui validità è veramente molto scadente nell’indicare la reale efficacia di un intervento. Attenzione, ancora, al sur-

rogato di un surrogato (es. antigene tumorale per valutare la risposta tumorale che è un surrogato della sopravvivenza).

Explanatory versus Pragmatic Trial Gli explanatory Trials mirano più ad una dimostrazione di efficacy mentre gli altri ad una di effectiveness. Il conte-sto ideale dei primi tende ad essere assimilato con rigore dai trial autorizzativi sui farmaci di fase III selezionando popolazioni con criteri di inclusione e di esclusione rigidi; di solito escludono pazienti con comorbidità, anziani, etc. Spesso l’intervento è confrontato con il placebo o con un farmaco che rappresenta uno standard terapeutico. Questi tipi di trial prevedono generalmente periodi di runin e/o di wash-out, che portano a selezionare ulteriormente la popo-lazione studiata. Inoltre, gli standard organizzativo-assisten-ziali sono ideali rispetto alla realtà incluse le competenze e le motivazioni dei professionisti coinvolti direttamente nello studio. Al contrario nei trial pragmatici la dimo-strazione di effectiveness è l’obiettivo dichiarato: i criteri di selezione della popolazione studiata sono meno rigidi e spesso le popolazioni speciali sono oggetto di studio. In generale, la metodologia di reclutamento, diagnostica, tera-peutica e di follow-up si richiama alla pratica clinica reale mantenendo il disegno randomizzato controllato. Spesso la randomizzazione non riguarda più l’intervento in sé, che può essere molto più complesso di un singolo farmaco (nel caso per esempio di un protocollo diagnostico-terapeu-tico), ma le unità sperimentali a cui corrispondono cluster di pazienti (medici di medicina generale, unità operative) e che per questo modificano il nome in trial clinico control-lato randomizzato a cluster [33,34]. Il gruppo controllo in questi casi è rappresentato dallo standard assistenziale dei reparti in cui non viene implementato l’intervento oggetto di studio. Esistono strumenti per valutare il livello di pro-pensione al pragmatismo di un trial, il Pragmatic–Explana-tory Continuum Indicator Summary 2 (PRECIS-2) tool è

Tabella 4. Esempi di end-point “surrogati” e “veri” in varie condizioni patologiche.

CONDIZIONE/MALATTIA ENDPOINT SURROGATO ENDPOINT VEROGlaucoma Pressione intraoculare Cecità

Cancro Progressione di malattia cambiamento di dimensioni della massa neoplastica ricomparsa di malattia

Mortalità, ospedalizzazione per qualunque causa

Ipertensione Livelli di pressione arteriosa Mortalità, eventi cardiovascolari e/o cerebrovascolari, ospedalizzazione per eventi cardiovascolari

Infarto miocardio trattato con terapia trombolitica

Lisi del trombo, frequenza di pervietà vasale, fre-quenza di riocclusione, frazione di eiezione del ven-tricolo sinistro

Mortalità, reinfarto, ospedalizzazione per eventi cardiovascolari

Diabete mellito Glicemia, valori di HbA1c Mortalità, comparsa di complicanze micro e/o macro-vascolare, ospedalizzazione per eventi cardiovasco-lari, ospedalizzazione per tutte le cause

Ipercolesterolemia Livello di colesterolemia Mortalità, eventi cardiovascolari e/o cerebrovascolari, ospedalizzazione per eventi cardiovascolari

Aritmie Quantità e qualità di Extrasistoli Mortalità, ospedalizzazione per eventi cardiovascolari

Morte improvvisa dopo infarto miocardio

Comparsa di Aritmia ventricolare Mortalità

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un esempio di cui si riportano in Tab.5 le varie dimensioni e la relativa valutazione [35,36].

Trial di superiorità, di equivalenza, di non-inferiorità. I TCR sono sempre stati in passato di superiorità, ovvero si testa una ipotesi di efficacia di un intervento sommini-strandolo ad un gruppo mentre al gruppo controllo si som-ministra un placebo. Se l’ipotesi nulla (H0) viene rigettata allora la conclusione è che l’intervento è efficace. L’utilizzo del placebo è diventato col passare degli anni non etico. Per questo a scopo autorizzativo la dimostrazione di efficacia di un nuovo farmaco versus una terapia standard, ha richiesto degli aggiustamenti metodologici che hanno generato dif-ferenti modalità di valutazione dell’ipotesi sperimentale e della relativa numerosità campionaria necessaria per dimo-strarla. In fondo il vero motivo è quello di ridurre i par-tecipanti al trial riducendo i costi. Nei trial di equivalenza l’obiettivo si trasforma in una dimostrazione dell’assenza di differenze all’interno di un intervallo definito detto margine di equivalenza che identifica differenze clinicamente irri-levanti. Nei trial di non-inferiorità l’obiettivo è dimostrare che il trattamento sperimentale non è inferiore rispetto al controllo, accettando che possa essere finanche meno efficace predeterminando un margine di non-inferiorità. In quest’ultimo caso la numerosità campionaria si riduce drasticamente e pertanto l’industria ha adottato questo modello per scopi autorizzativi. Questa tematica solleva domande e coinvolge aspetti etici e metodologici rilevanti [37,39] che non possono essere affrontati in questa sede.

Modalità di assegnazione all’intervento La modalità più semplice per randomizzare un intervento è avere un gruppo intervento e un gruppo controllo seguiti per tutta la durata dello studio: in questo caso si parla di disegno parallelo. Invece nel disegno cross-over ciascun partecipante riceve entrambi gli interventi in studio in momenti differenti e predeterminati alla randomizzazione. In questo tipo di disegno esistono due criticità fondamen-tali: il cosidetto carry over effect, cioè la possibilità che il precedente periodo possa avere conseguenze sul successivo

quando l’intervento cambia (nonostante venga previsto spesso un periodo di wash-out tra la sospesione del primo e l’inizio del secondo trattamento), e l’impossibilità impli-cita di studiare endpoint veri e hard. I disegni fattoriali sono complessi e riguardano interventi di prevenzione primaria e promozione della salute, spesso utilizzati anche nella speri-mentazione preclinica sugli animali e generano un numero di gruppi di confronto in relazione al numero degli inter-venti (p.e. due interventi= 4 gruppi se si include il gruppo controllo/placebo; tre interventi= sette gruppi). Esistono anche gli N-of-1 trial (40) in cui la sperimentazione clinica viene condotta su un singolo paziente che viene sottoposto a periodi, assegnati in modo randomizzato, in cui si alter-nano il trattamento sperimentale e quello controllo, rappre-sentato generalmente dal placebo. Il doppio cieco dovrebbe essere sempre garantito.

Trial multicentrici e mega-trial I trial multicentrici reclutano pazienti in almeno due centri. I trial multicentrici richiedono consistenti investimenti per l’identificazione e il reclutamento dei centri. Se da una parte consentono l’arruolamento di un numero molto elevato di partecipanti senza aumentare l’applicabilità clinica dei risultati (differenti setting assistenziali ubicati in paesi e in continenti diversi) non sono scevri da bias legati proprio alle differenze assistenziali, etniche, genetiche e ambientali delle popolazioni arruolate. Il cospicuo numero di soggetti arruolati da tali trial li fanno definire mega-trial ma un campione di studio molto ampio è in grado di raggiungere significatività statistiche anche di differenze clinicamente poco rilevanti Per questo la rilevanza clinica e l’applicabilità dei risultati al paziente individuale risulta spesso modesta e solo un’analisi attenta del protocollo, dei metodi e dei risultati permette al clinico di capirne le vere refluenze nella pratica clinica di tutti i giorni.

Generalizzabilità I TCR possono giungere a conclusioni differenti e c’è sempre la possibilità che tale risultato sia il frutto della variabilità dovuta al caso. Tuttavia, la metodologia rigorosa a partire

DIMENSIONI VALUTAZIONE DEL PRAGMATISMOElegibilità Quanto sono simili i partecipanti ai pazienti che riceverebbero l’intervento come parte dell’assistenza abituale?Reclutamento Quanto sforzo è stato compiuto per reclutare i pazienti con modalità simili all’assistenza abituale?Setting Quanto è differente i setting del trial rispetto all’assistenza abituale?Organizzazione Quanto sono differenti le risorse, l’esperienza del provider e l’organizzazionerispetto all’assistenza abituale?Flessibilità nella somministrazione

Quanto differente è la flessibilità nelle modalità di somministrazione dell’intervento rispetto all’assistenza abituale?

Flessibilità nell’aderenza

Quanto differente è la flessibilità delle modalità di monitoraggio e di educazione all’aderenza terapeutica rispetto a quelle previste nell’assistenza abituale?

Follow-up Quanto differente è l’intensità delle misurazioni e dei controlli rispetto a quello della assistenza abituale?Outcome principale Quanto è clinicamente rilevante?Analisi principale Qual è la completezza dei dati utilizzati per l’analisi dei risultati?

Tabella 5. La valutazione delle nove dimensioni relative al livello di pragmatismo in un trial come proposto dal Pragmatic-Explanatory Continuum Indicator Summary 2 (PRECIS-2) Tool.

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dalla randomizzazione e, quando possibile, la doppia cecità permettono di limitare i bias anche in presenza di variabili nascoste non oggetto di studio. C’è però evidenza che i trial non rappresentano adeguatamente la distribuzione dell’età, del genere e/o dell’etnia della popolazione target [42-46]. In generale, i pazienti dei trial tendono ad essere meno com-promessi, più giovani, con minori comorbidità, con uno stato socioeconomico più elevato specie i più aderenti alla terapia. Questo non compromette la valutazione di efficacia in termini di efficacy ma allontana i risultati dall’effective-ness cioè da quella efficacia che ogni medico si auspica di ottenere sui propri pazienti nella normale pratica clinica. La valutazione di generalizzabilità di un trial deve sempre prevedere un’analisi attenta del setting e dei criteri di inclu-sione e di esclusione dallo studio. La modalità di sommini-strazione dell’intervento e le caratteristiche organizzative e professionali del setting dove viene somministrato, la fre-quenza dei controlli e l’aderenza terapeutica sono elementi indispensabili al decisore che vuole utilizzare i risultati dello studio nella propria pratica clinica. Ad esempio, il Brisighella Heart study ha dimostrato uno scarso controllo dei valori pressori nei pazienti ipertesi ed ha evidenti diffe-renze di genere [47]. Per questo motivo l’efficacia terapeu-tica dei farmaci antiipertensivi sugli outcome cardiovasco-lari dimostrata dai TCR crolla nella pratica clinica sia in un’ottica di popolazione che dell’individuo poco aderente o che non pratica nessuna terapia perché non controlla i propri valori pressori. D’altra parte gli studi osservazio-nali che “osservano” il mondo reale sono gravati da pesanti bias quando si cerca di confrontare differenti trattamenti e possono portare a differenti conclusioni. Gli studi osserva-zionali sono indispensabili per valutare l’aderenza terapeu-tica, la sicurezza su vasta scala e verificare il miglioramento degli outcome nella pratica clinica ma il mancato raggiungi-mento del risultato previsto o differenze tra vari trattamenti della stessa categoria farmacologica possono essere valutati per generazione di ipotesi da testare nuovamente in studi controllati e randomizzati. Metodologicamente più corretto è l’uso di tecniche di regressione che confrontano differenti trattamenti normalizzando per il cosiddetto propensity score. In questo modo un paziente con determinate carat-

teristiche riceve un trattamento con una maggiore propen-sione rispetto ad altri pazienti. Questo score può essere uti-lizzato nei modelli di analisi multivariata per correggere la propensione a riavere un determinato trattamento. Anche questo tipo di analisi non è scevro di errori soprattutto se le variabili utilizzate per costrutire il propensity score le ritrovo quasi tutte nel modello di analisi mutivariata [48]. Standard di qualità ed etica della ricerca Un TCR deve rispettare degli standard di conduzione e di presentazione dei risultati. Il CONSORT (CONsolidated Standards Of Reporting Trials) è una linea guida [49], che ha lo scopo di migliorare il reporting dei TCR a gruppi paralleli. Rappresenta lo standard di pubblicazione e sug-gerisce le modalità di riportare correttamente il disegno, la conduzione, l’analisi dei dati e la loro interpretazione. Contiene una check-list delle informazioni da includere nel report dello studio e un diagramma di flusso che per-mette al lettore di conoscere con immediatezza tutti i dati che riguardano l’arruolamento, l’allocazione, il follow-up e l’analisi dei dati. Esistono versioni aggiuntive (“extentions”) che riguardano studi con un disegno differente dallo stan-dard TCR a gruppi paralleli o particolari tipologie di inter-venti e differenti tipi di dati (Tab.6). L’etica biomedica speciale riguarda la qualità della ricerca nei trials [50]. Un protocollo di studio deve prevedere obbli-gatoriamente una parte dedicata al trattamento dei dati, di cui deve garantire la riservatezza, un consenso informato esaustivo e semplice da comprendere etc.. Tutti gli aspetti trattati riguardano l’etica della ricerca e la sua applicazione nella pratica clinica in particolare quando si parla di inter-venti farmacologici che hanno evidenti implicazioni econo-miche ed etiche. A livello internazionale esiste The Interna-tional Council for Harmonisation of Technical Requirements for Pharmaceuticals for Human Use (ICH) che, dal 1990, insieme alle autorità regolatorie e all’industria farmaceu-tica discute gli aspetti tecnici e scientifici della registrazione dei farmaci e sviluppa tutti quei documenti per un’armo-nizzazione internazionale delle sperimentazioni cliniche controllare [51] che permettono di condurre un TCR su sostanze terapeutiche necessario per la sottomissione di

Tabella 6. Versioni aggiuntive dello standard CONSORT (CONsolidated Standards Of Reporting Trials) classificate per disegno di studio, tipologia di interventi e tipo di dati. I relativi documenti sono consultabili nel sito http://www.consort-statement.org/extensions)

DISEGNO INTERVENTI TIPO DI DATIA Cluster Fitoterapia Outcome riportati dai pazienti

Non-inferiorità e di equivalenza Interventi non farmacologici Eventi avversi

Pragmatici Agopuntura Abstract

N-of-1 Fitoterapia cinese

Pilota*

Organi o parti del corpo§

* sono gli studi etichettati dagli autori come Pilot o feasibility study § sono gli studi in cui l’unità di randomizzazione è un organo simmetrico (occhio per esempio) o parte del corpo (emilato o arto per esempio)

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una richiesta autorizzativa agli enti regolatori di un paese come la Food and Drug Administration (FDA) Statunitense. In Europa l’ente regolatore è l’EMA (European Medicines Agency) che è passaggio obbligato prima di sottoporre ad approvazione all’immissione in commercio in un determi-nato paese dell’Unione (AIFA nel caso Italiano). Le linee guida di Good Clinical Practice sono norme necessarie a condurre una sperimentazione sui farmaci che l’Europa può approvare [52]. Chi controlla la sperimentazione clinica in modo indipendente dallo sponsor (cioè l’industria che ha sviluppato e/o è proprietaria di una determinata mole-cola ad azione terapeutica) è la CRO (Contract Research Organization). Una CRO deve rispettare standard rigorosi normate dal nostro ministero della salute (Tab.7). L’ultimo Decreto è quello del 15 novembre 2011 a cura del Ministero della Salute (“Definizione dei requisiti minimi per le orga-nizzazioni di ricerca a contratto (CRO) nell’ambito delle sperimentazioni cliniche di medicinali” - Gazzetta Ufficiale n. 11 del 14 gennaio 2012). Il rispetto della dichiarazione di Helsinki [53] è parte fon-damentale della conduzione di una sperimentazione clinica ed è la diretta conseguenza del processo di Norimberga contro i criminali nazisti che avevano condotto sperimen-tazioni su esseri umani ebrei. Una trattazione a parte meriterebbe l’argomento sulla tra-sparenza dei trial e delle possibili frodi che paradossalmente riguarda di più lo studio condotto da un singolo sperimen-tatore che dall’industria farmaceutica costretta al rispetto di standard estremamente elevati [54-56].

Oltre i TCR Una significativa numerosità campionaria e la randomiz-zazione insieme ad un disegno ed ad una conduzione dello

studio metodologicamente corretti permettono di distri-buire i fattori conosciuti e sconosciuti in modo omogeneo tra gruppo controllo ed intervento riducendo la possibilità di confondimento. I TCR, in presenza di una forte validità interna possono essere poco generalizzabili quindi con una scarsa validità esterna [57]. I limiti più evidenti sono fol-low-up non adeguatamente lunghi per valutare sia outcome che si manifestano dopo diversi anni che eventi avversi gravi rari [58]. Inoltre, l’utilizzo sempre più diffuso di end-point surrogati, per sopperire alla necessità di periodi più lunghi di osservazione riducendo i costi complessivi dello studio, rende questi limiti più evidenti. Ci sono anche esi-genze di avere risposte rapide per problemi di sanità pub-blica come le epidemie infettive in cui prendere decisioni rapide diventa mandatorio per le autorità sanitarie. Appare ovvia la necessita di nuove modalità per ottenere dati sani-tari utilizzabili nel decision-making [60,61]. Grande discussione c’è sui cosiddetti “Big data” che inclu-dono informazioni provenienti da varie fonti quali le car-telle cliniche, studi di intervento e osservazionali, i registri di patologia e di mortalità [60]. Sono state intraprese nuove strategie come i trial adattivi e collaborativi per incremen-tare il reclutamento, ridurre i costi e i tempi di conduzione, con lo scopo di indentificare meglio le popolazioni che beneficeranno dei trattamenti [63-66]. Anche le scoperte della scienza genomica potrebbero segnare nuove strade per terapie individualizzate in grado di migliorare la vali-dità dei risultati degli studi. Inoltre, nel processo di forma-zione di conoscenza potranno entrare sempre più anche i dati individuali degli studi condotti a scopo autorizzativo. Questo processo di data-sharing inizia nel 2013 quando la GlaxoSmithKline mette a disposizione i dati individuali di più di 200 trial condotti dal 2007 in avanti [67]. In atto

REQUISITI DI CARATTERE ORGANIZZATIVO E STRUTTURALE

REQUISITI DI QUALITÀ

Esistenza di atto costitutivo della CRO e relativo statuto, coerente con l’obiettivo della CRO stessa

Presenza di procedure operative standard per le attività che la struttura si rende disponibile a compiere

Esistenza di un elenco delle attività che la CRO si rende disponibile a compiere

Presenza di un sistema di assicurazione della qualità, impostato e definito secondo norme ISO o equi- valenti, nonché messo in opera e mantenuto, e relativo manuale di qualità

Presenza di organigramma funzionale e organigramma nominativo nel quale siano definite le figure responsabili delle attività della CRO e le persone a tali attività attribuite

Documentata attività di assicurazione della qualità (QA)

Presenza di direttore medico o direttore scienti- fico con laurea rispettiva-mente in medicina o in discipline scientifiche attinenti alle tematiche svolte dalla CRO, con documentata esperienza di almeno due anni in uno o più settori medico o scientifici di competenza della CRO

Presenza di un responsabile QA, in possesso di diploma di laurea, con docu-mentata esperienza di alme- no 1 anno di attività pratica nel settore e con almeno 15 giorni, effettuati nell’ultimo biennio, di attività formativa teorica nel settore della assicurazione della qualità in generale e specifica per le atti-vità della CRO; tale figura non è necessariamente sovrapponibile all’auditor sulle sperimentazioni

Presenza di personale qualitativamente idoneo e quantitativamente suffi-ciente alle attività previste

Predisposizione e documentata attuazione di un programma annuale di for-mazione rivolta al personale dipendente e consulente

Dotazione di sede operativa adeguatamente strutturata per assicurare il corretto svolgimento delle attività di competenza della CRO e l’archivia-zione protetta dei documenti riservati

Conformità alle Good Clinical Practice di tutte le attività della CRO

Sistema di documentazione adeguato per assi- curare la tracciabilità di tutte le attività della CRO

Tabella 7. Requisiti minimi generali per la costituzione di una Organizzazione di Ricerca a Contratto (CRO, dall’inglese Contract Research Orga-nization) - Come da Decreto del Ministero della Salute, 15 novembre 2011.

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più di 3000 database di rispettivi trial sono a disposizione dei ricercatori internazionali che possono fare richiesta di analisi.

Conclusioni

I principi ontologici ed epistemologici che affondano le radici nel lontano passato hanno determinato la creazione di un modello teorico di riferimento, della conseguente metodologia e dei metodi per collezionare informazioni per la creazione di conoscenza. I TCR rappresentano il punto centrale di questo approccio che ha permesso di sviluppare nel secolo scorso metodologie complesse fino alla nascita del movimento della Medicina Basata sulle Evidenze il cui merito fondamentale è stato quello di diffondere la cultura epidemiologica clinica. I limiti e i punti di forza dei TCR sono stati trattati nei punti ritenuti più importanti e lungi dal volere essere esaustiva questa trattazione può essere un un punto di partenza per l’approfondimento delle temati-che metodologiche ed etiche che sottendono alla creazione di conoscenza utilizzando l’attuale approccio epistemolo-gico. Si sente l’esigenza da parte della comunità scientifica e clinica di andare oltre le dimostrazioni di efficacy che con-tinuano ad essere un riferimento per l’immissione in com-mercio dei farmaci. Tuttavia, è sempre più necessario per ottimizzare l’uso delle risorse trovare altre strade che inte-grino la formazione della conoscenza classica in una più spostata sulle dimostrazioni di effectiveness per approcci diagnostio-terapeutici più personalizzati, spostati quindi sull’individuo. Infatti, la spinta epidemiologica di pazienti sempre più anziani, con sempre più comorbidità e quindi con politerapia difficilmente può essere affrontata con gli strumenti forniti dal classico TCR. Le tematiche della riconciliazione terapeutica e del “deprescribing” divente-ranno sempre più importanti e bisognerà trovare risposte con nuovi strumenti che non possono fare a meno di guar-dare a quanto il corso della storia ha fatto fino ad oggi. Gli approcci teorici e la metodologia della ricerca ed epidemio-logica clinica non potranno che essere un’ottima base per lo sviluppo di metodologie probabilmente ancora più com-plesse nel percorso di creazione della conoscenza mirata alla ricerca di nuove soluzioni per un decision-making di popolazione e individuale da applicare nella pratica clinica di tutti i giorni per il miglior uso delle risorse disponibili.

Ringraziamenti: ringrazio il Dott. Giuseppe Natoli e la Dott.ssa Marika Lo Monaco per il supporto nel processo di revisione e formattazione del manoscritto

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La ricerca terapeutica negli ultimi anni ha visto un cambio di paradigma molto importante, passando da terapie del tipo: ‘one drug fits all’ a terapie personalizzate in funzione di caratterizzazioni molecolari delle malattie. L’oncologia è la disciplina che più ha risentito di questi cambiamenti e di conseguenza viene presa a paradigma per descrivere come sono cambiati le strategie e i disegni con l’avvento della cosiddetta ‘medicina di precisione’, al fine di velociz-zare il processo di sviluppo del farmaco e al tempo stesso assicurare un rapido accesso dei pazienti alle terapie più appropriate. In questo articolo verranno discussi gli aspetti generali di alcuni tra i disegni più innovativi: i disegno con ‘enrichment’, e i disegni “Umbrella” e “Basket”.our groups of risk ranging from “low” to “very high” additional cardiova-scular risk. Those categories indicate the approximate risk of cardiovascular mortality and morbidity for the next 10 years – reflecting total cardiovascular risk of the subjects.

All patients with diagnosed cardiovascular or kidney disease are considered as very high risk, and in this group aggressive preventive or treatment measures should be taken. The remaining hypertensive population should be classified according to the presence of risk factors, meta-bolic syndrome and target organ damage. The SCORE charts may underestimate the burden of cardiovascular risk among hypertensive patients. More than half of the patients classified as low to moderate risk

Disegno ‘Enrichment’

Il disegno di ‘enrichment’ sta diventando il più comune disegno di fase III per lo sviluppo di nuovi farmici in conco-mitanza con lo sviluppo di biomarkers associati alla possibi-lità di selezionare la casistica più responsiva al trattemento studiato. È stato usato con successo nello studio di terapie ‘a target molecolare’ in molte patologie, come per esempio per lo sviluppo di trastuzumab e pertuzumab [1] per le pazienti con tumore mammario caratterizzato da sovra-espressione del recettore HER2. In questo disegno i pazienti vengono sottoposti a screening con un test diagnostico specifico e devono risultare positivi per essere eleggibili allo studio. I pazienti vengono poi ‘randomizzati a ricevere il farmaco

sperimentale o il trattamento di controllo. Questo disegno è appropriato in situazioni in cui i pazienti che risultino essere biomarker negativi abbiano poche probabilità di beneficiare del nuovo farmaco, in base a evidenze solide di studi di fase II e/o a un razionale biologico che giustifichi il ruolo del biomarker nella malattia oggetto di studio. In queste situazioni, l’utilizzo di un disegno di ‘enrichment’ può evitare di esporre pazienti a farmaci inappropriati e a reazioni avverse. Il disegno è anche in grado di ridurre le dimensioni campionarie, per via della maggiore probabilità di effetti clinici importanti, anche se potrà essere necessario lo screening di grandi gruppi di pazienti con il biomarker diagnostico.

Se invece i pazienti negative al biomarker potrebbero comunque avere qualche beneficio dal trattamento, o qualora il cut-point del biomarker per definire i pazienti responsivi non sia ancora ben conosciuto, si possono adot-tare due variazioni al disegno di enrichment.

 Rispetto al primo scenario, sono stati descritti disegni con stratificazione adattiva [2]. In questo approccio, i pazienti sono sottoposti a screening per un determinato biomarker e poi randomizzati senza tenere conto del valore del biomarker. Viene scelto un endpoint intermedio, come per esempio il progression-free servival, al fine di deter-minare la probabilità predittiva, al completamento dello studio, di un risultato statisticamente significativo a favore del trattamento sperimentale. Se questa probabilità è alta il trial continuerà senza modifiche, altrimenti la randomizza-zione verrà confinata al sottogruppo positivo al biomarker.

Rispetto al secondo scenario, in cui non è ancora chiaro il valore preciso del cut-point, viene suggerito un disegno di arricchimento di tipo adattivo: i criteri di eleggibilità verranno ristretti durante il corso del trial in base ai risul-tati di analisi ad interim che utilizzino algoritmi decisionali predeterminati e possono includere cut-point e altri fattori. Alla fine dello studio il test di significatività dell’analisi principale viene condotto su tutti i pazienti randomizzati.

Questo tipo di disegni costituisce dunque un capovol-gimento di paradigma molto importante rispetto agli studi di fine secolo: si è passati dal concetto di trial di larga scala, pragmatico, in cui si mirava a dimostrare effetti piccoli su

Nuove forme di trial clinici

Valter Torri, Luca PorcuLaboratorio di Metodologia della Ricerca Clinica, Dipartimento di Oncologia, IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’, Milano

© SIMI 2017

SIMPOSIO - Disegnare i nuovi trial clinici sulla base delle esperienze passate

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una grande popolazione di pazienti [3], a studi mirati a dimostrare effetti importanti su sottogruppi selezionati di pazienti in base alle caratteristiche molecolari differenzianti un sottogruppo di pazienti all’interno di una determinata patologia. In questo cambio di paradigma trovano spazio nuovi tipi di disegno, che permettono di creare un conti-nuum senza interruzioni tra gli studi di fase I quelli di fase II e quelli di fase III: gli studi adattivi.

Studi adattivi

Una sperimentazione clinica, generalmente, ha un duplice obiettivo: stabilire se il trattamento sperimentale ha un effetto sui pazienti coinvolti e, in seconda istanza, stimare il beneficio/danno arrecato da quel trattamento. Per rag-giungere questo obiettivo il disegno sperimentale clas-sico prevede di: coinvolgere un numero statisticamente adeguato di pazienti, rilevare l’indicatore di efficacia nei pazienti in studio ed infine svolgere l’analisi di tutti i dati raccolti.

La peculiarità del disegno classico è che nulla venga rive-lato fino all’analisi finale e l’immagine di una ‘scatola nera’ che verrà aperta solo a conclusione della sperimentazione può essere senz’altro utile a chiarire il concetto. In uno dei capitoli più importanti della statistica [4] lo statistico Sir R.A.Fisher adotta proprio il disegno classico per dimo-strare l’affermazione fatta da una signora che dice di essere in grado di riconoscere, sorseggiando una tazza di tè, se il latte è stato versato prima o dopo l’infuso di tè.

Sono facilmente intuibili i limiti del disegno classico per la ricerca medica:1. non è eticamente accettabile sottoporre a rischi inutili i

pazienti. Ad esempio, supponiamo che si voglia dimo-strare e stimare l’attività di un farmaco antitumorale; l’indicatore di attività è la proporzione di pazienti la cui massa tumorale si riduce per effetto del farmaco antitu-morale. Adottando il disegno classico si coinvolgeranno 25 pazienti e si considererà il farmaco dotato di attività interessante, quindi un farmaco degno di ulteriori ricer-che, se si osserveranno almeno 5 pazienti la cui massa tumorale si è ridotta (i calcoli e le ipotesi statistiche dietro questi numeri sono volutamente non forniti in quanto del tutto irrilevanti per la nostra discussione); supponiamo che dopo 12 pazienti coinvolti nella speri-mentazione nessuna riduzione della massa tumorale sia stata osservata; la domanda etica generata dal disegno classico è la seguente: che senso ha coinvolgere altri 13 pazienti dopo una prima fase della sperimentazione così negativa?

2. Difficoltà a massimizzare l’informazione ottenuta dalla sperimentazione. Ad esempio se ho a disposizione un farmaco sperimentale che a livello molecolare inibisce i meccanismi di proliferazione delle cellule tumorali, possiamo certamente dimostrarne l’attività, intesa come

capacità di arresto della crescita tumorale, in pazienti con caratteristiche eterogenee; tuttavia l’eterogeneità dei pazienti comporterà una diluizione dell’effetto del farmaco (in alcuni pazienti funziona, in altri no); le con-seguenze negative di questa diluizione sono:

- la necessità di incrementare il numero di pazienti per rilevarne l’attività

- il farmaco verrà somministrato anche a pazienti per i quali è inattivo;

- nella fase successiva della ricerca, in cui si richiede di dimostrare il beneficio clinico del farmaco (un prolun-gamento e/o un miglioramento della qualità di vita), si coinvolgeranno ancora una volta pazienti con caratteri-stiche eterogenee senza avere la capacità di discriminare i pazienti per i quali il farmaco offre un beneficio; tutto questo perché non abbiamo individuato nella prima fase di ricerca quali sono i pazienti su cui il farmaco agisce.

Decisamente meglio è porsi come primo obiettivo della ricerca quello di individuare per quali pazienti l’attività del farmaco è interessante; ma questo obiettivo è diffi-cilmente raggiungibile con il disegno classico a meno di coinvolgere un numero esorbitante di pazienti.

3. Difficoltà a coinvolgere in modo opportuno i pazienti nella ricerca clinica. Ad esempio, se la malattia è rara, coinvolgere un paziente in una sperimentazione o anche solo in una fase della ricerca sperimentale su un speci-fico farmaco comporta sottrarre questo paziente alla possibilità di partecipare alla ricerca su un farmaco com-plementare o alla fase successiva di sviluppo del primo farmaco

4. Costi economici rispetto ai benefici trovati. Al contrario, un disegno adattativo utilizza i dati raccolti in corso di sperimentazione per modificare alcuni aspetti della sperimentazione senza ridurne la qualità [5]; il termine ‘aspetto’ della sperimentazione va interpretato nel senso più generale possibile: numero di pazienti da coin-volgere, interruzione precoce della sperimentazione, criteri di eleggibilità dei pazienti coinvolgibili, assegnazione al paziente di un trattamento sperimentale piuttosto che di un’altro, cambio degli indicatori biologici o clinici valutati, cambio dell’ipotesi statistica da dimostrare e qualsiasi altra scelta decisionale che il ricercatore ritiene utile applicare. La seguente immagine è senz’altro appropriata per com-prendere la peculiarità di questo disegno ‘intelligente’ e risaltarne la differenza rispetto al disegno classico: parago-niamo la sperimentazione ad un treno in viaggio, gli aspetti della sperimentazione modificabili durante il viaggio a dei binari di una rete ferroviaria, i dati raccolti durante il viaggio ai criteri-scambi ferroviari con i quali verrà stabilito il percorso della sperimentazione-treno.

Nella definizione fornita di disegno adattativo è presente un vincolo imprescindibile: la qualità della sperimenta-zione deve essere preservata; anche il termine qualità va interpretato nel senso più generale possibile: ad esempio

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le stime dell’effetto del trattamento sperimentale debbono essere veritiere ed accurate, il quesito clinico anche se modificato nel corso della sperimentazione deve rispon-dere ad una domanda posta dalla comunità scientifica, la riservatezza dei dati personali deve essere preservata nono-stante si continui ad analizzare il dato raccolto. È  intuitivo che un percorso ferroviario disegnato prima di mettere in moto la sperimentazione-treno dovrebbe più facilmente preservare la qualità della sperimentazione anziché modi-ficare il percorso della sperimentazione in base ad un’ana-lisi non pianificata dei dati. Decenni di ricerca in campo metodologico sono stati interessati dal soppesare come un nuovo criterio decisionale possa influire sulla qualità della sperimentazione.   Quest’ambito di ricerca metodologica ha avuto e continua ad avere una direzione centrifuga: si è partiti dal ponderare criteri decisionali semplici per poi volgere la ricerca a criteri decisionali sempre più complessi.

I possibili vantaggi del disegno adattativo vanno trovati proprio nei limiti del disegno classico sopraindicati: mag-giore protezione del paziente rispetto a trattamenti poten-zialmente inefficaci, massimizzazione della risposta fornita dalla ricerca scientifica, maggiore appropriatezza nel coin-volgimento dei pazienti nella ricerca clinica, riduzione dei costi economici. Perché allora il disegno adattativo non è la panacea della ricerca medica ed in generale di quella scien-tifica? Per le seguenti controindicazioni [6]:1. Gli studi adattativi sono efficienti se la realtà (che non

conosciamo) è fatta in un certo modo ma sono dele-teri se la realtà è fatta in modo diverso. Riprendiamo l’esempio del farmaco antitumorale in cui sono coin-volti 25 pazienti secondo il disegno classico; se dopo 12 pazienti ho pianificato un’analisi intermedia utilizzando un disegno adattativo potrò senz’altro interrompere la sperimentazione non avendo osservato alcuna risposta tumorale; ma il prezzo da pagare con l’analisi ad interim prevista dal disegno adattativo è che se la sperimenta-zione prosegue dopo i 12 pazienti iniziali allora sarà necessario coinvolgere altri 23 pazienti anziché 13 come invece richiesto dal disegno classico. Questo per ragioni statistiche, di controllo dell’errore statistico. Supponiamo che anziché nessuna risposta tumorale avessi osservato 2 risposte tumorali; allora continuerei la sperimentazione fino al 35esimo paziente anziché al 25esimo paziente! In conclusione, se il farmaco è inefficace allora conviene adottare il disegno adattativo ma se il farmaco è efficace conviene adottare quello classico. Il punto cruciale è che a monte, cioè prima di iniziare la sperimentazione, ho l’incertezza sull’efficacia o meno del farmaco, altrimenti non sottoporrei a verificare sperimentale il farmaco in studio!!!

2. Quesiti clinici forti richiedono il più delle volte disegni semplici; ad esempio se voglio stimare in maniera precisa l’attività del farmaco debbo coinvolgere tanti pazienti; non c’è disegno adattativo che tenga per fornire

una stima accurata dell’attività del farmaco senza coin-volgere tanti pazienti; in questo senso i disegni adattativi sono spesso utili per generare o negare ipotesi scientifi-che piuttosto che darne una dimostrazione rigorosa.

3. Occorre costruire la rete ferroviaria… in concreto prima di far partire la sperimentazione-treno occorre pre-vedere a quali scenari clinici-scambi ferroviari andrà incontro la medesima sperimentazione; complessi calcoli e simulazioni statistiche sono richiesti in fase di pianificazione della sperimentazione. Inoltre, in sede di divulgazione dei risultati, il lettore potrebbe essere privo di quegli strumenti necessari a capire il disegno e ad interpretare i risultati, inficiando quindi il buon uso della sperimentazione

4. La pianificazione della sperimentazione prima del suo inizio non è sufficiente ad assicurarne la qualità. In corso d’opera possono essere introdotti distorsioni procedurali che ne minano la credibilità. Ad esempio la divulgazione di informazioni parziali sull’efficacia del trattamento spe-rimentale può indurre lo sperimentatore a modificare la propria prassi in corso di sperimentazione rendendo il dato complessivo fornito da essa illeggibile.In conclusione i disegni adattativi possono incrementare

l’efficienza di una sperimentazione clinica e rendere più ‘intelligente’ la ricerca scientifica; va però sottolineato che tale disegno è puro strumento metodologico a disposizione del ricercatore e, come ogni strumento, è cieco: il faro del ricercatore deve essere il quesito clinico.

“Umbrella” trials

La medicina di precisione ha tratto vantaggio anche dalle innovazioni informatiche e laboratoristiche avvenute in questi anni. I cambiamenti non sono stati quindi solo nella parte statistica, ma anche nella aprte organizzativa degli studi. Gli “Umbrella” e “Basket” trials costituiscono un esempio di queste nuove direzioni e il loro carattere costi-tutivo è la messa in parallelo di tanti studi diversi svolti contemporaneamente.

Il disegno “Umbrella” concerne una singola istologia o tipologia di tumore. Coinvolge gruppi di 2 o piu studi che adottano un disegno di ‘enrichment’ che sono connessi tra loro da un’infrastruttura centrale che si prende carico dello screening e dell’identificazione dei pazienti. I trials possono partire con fasi II o ‘proof of concept trials’ e/o partire o proseguire come studi di fase II/III o trial confermativi, attraverso disegni adattivi.

La ragione principale a sostegno del disegno ‘“Umbrella”’ è di facilitare lo screening e l’accrual. Grazie a una piatta-forma centralizzata, un grande numenro di pazienti può essere sottoposto a screening simultaneo per molteplici biomarkers, cosa particolarmente vantaggiosa per biomar-kerS atti a selezionare sottoguppi rari di pazienti.

Ci sono vari studi in corso o completati che adottano

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questo disegno come riporta la tabella 1 [7]. L’infrastruttura del disegno “Umbrella” permette la cre-

azione e l’incorporamento di nuovi sottostudi per testare nuovi farmaci e biomarker. Tuttavia, la costruzione di tale infrastruttura, incluso la collezione e la circolazione dei dati, è molto compelsso e costoso.

Una volta che il paziente è registrato, i campioni vengono spediti ai centri addetti alla genotipizzazione e all’ana-lisi tissutale. Poi i dati sono archiviati. La centralizzazione degli esami assivcura la standardizzazione, ma esiste scarsa riproducibilità dei risultati tra differenti centri locali.

“Basket” Trials

In contrasto con I trials “Umbrella”, i “Basket” trials permet-tono la valutazione in un singolo studiodi molte sottopopo-lazioni molecolari di tumori o istologie differenti tra loro: sono rivolti soprattutto a tipologie molto rare difficili da studiare con studi controllati. I “Basket” trial sono general-mente orientati al discovery e possono essere adottati già in fase I. Data la difformità di effetto dei farmaci in funzione dell’istologia [8-9]; tuttavia tali studi sono appropriati solo nell’ambito di ricerca clinica precoce e su sottogruppi molto rari di malattie.

Considerazioni conclusive

In questi anni si è tratto molto profitto dalle nuove esigenze emerse con lo sviluppo delle conoscenze di biologia mole-colare. Sono cambiati i paradigmi di definizione di malattie e, insieme, si è entrati in una fase di conoscenza in cui gli obiettivi sono il riconoscere effetti marcati su popolazioni ben selezionate dall’analisi molecolare. Questo cambio ha influenzato grandemente la normale via di sviluppo degli

studi clinici per la produzione di evidenze atte a portare in terapia un trattamento: le fasi I hanno ormai associata una parte di espansione, una volta raggiunta la dose racco-mandata, che si affronta spesso con disegni randomizzati. Anche nelle fasi 2 si tende ad anticipare il disegno e asso-ciarlo a randomizzazione e continuazione a fasi III senza soluzione di continuità, attraverso disegni adattivi. Le fasi III riconoscono disegni su popolazioni arricchite e il para-digma del trial pragmatico, di larga scala, che è stato domi-nante negli ultimi anni del secolo scorso, non è più quello di riferimento. Studi che utilizzano grandi piattaforme per la valutazione centralizzata dei biomarker e l’archiviazione dei dati permettono lo sviluppo simultaneo di molti trials su sottogruppi rari di pazienti, offrendo la possibilità di trat-tamento in fasi anche precoci della malattia. Questa rivo-luzione del quadro di riferimento sta aprendo molte attese e il rischio di fughe in avanti va tenuto sempre presente. Per questo rimane essenziale, anche se con tutti i possibili miglioramenti legati all’analisi precoce aa modifiche piani-ficate del protocollo, che alcuni capisaldi del disegno spe-rimentale, come la randomizzaizone siano preservati ed eventualmente estesi anche ad altre fasi di sviluppo [10].

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Negli ultimi decenni si è assistito a un progressivo e quasi esponenziale incremento dei costi di sviluppo clinico dei nuovi farmaci e della complessità degli studi clinici. Le cause di questi incrementi sono molteplici, ma tra queste hanno certamente avuto un ruolo importante: l’impossi-bilità di raggiungere dimensioni campionarie sufficienti (es.: malattie rare) o, al contrario, la necessità di sample size molto grandi e di follow-up molto lunghi per dimo-strare l’efficacia dei nuovi farmaci su hard endpoint poco frequenti e diluiti nel tempo (es: patologie croniche) o per differenziarli dagli standard di confronto, e l’obbligatorietà di dimostrarne il valore in contesti di real life.

Da qui l’esigenza di identificare endpoint alternativi a quelli tradizionali sia negli studi di fase precoce, sia nei trials confirmatori e di effectiveness, al fine di anticipare la caratterizzazione del potenziale terapeutico di nuove mole-cole e migliorarne la selezione nelle fasi precoci di sviluppo, accelerare l’introduzione di farmaci innovativi per patolo-gie ad alto bisogno terapeutico o dimostrarne i vantaggi aggiuntivi rispetto a terapie già esistenti.

La scelta degli endpoint come “misura degli outcome” ha notevole influenza sull’affidabilità e interpretabilità degli studi clinici volti a valutare il profilo rischio/beneficio di un intervento. Gli endpoint primari dovrebbero avere le carat-teristiche di misure ben definite e affidabili che valutino aspetti importanti dello stato di salute dei pazienti. Nella selezione dell’endpoint primario si dovrebbero in genere considerare tre caratteristiche fondamentali:1. gli effetti su tale endpoint dovrebbero fornire un’evidenza

affidabile del fatto che l’intervento apporti benefici clini-camente significativi. Pertanto, la misura dell’outcome in questi studi dovrebbe essere “un evento clinico rilevante per il paziente” o un endpoint che “misuri direttamente come un paziente si sente, funziona o sopravvive” [1], dove per “funziona” si intende la capacità del paziente di svolgere attività nella vita quotidiana.

2. la sensibilità dell’endpoint primario agli effetti dell’inter-vento. La sensibilità gioca di solito un ruolo predomi-nante nella selezione degli endpoint, allo scopo di ridurre la dimensione e la durata dei trials clinici e aumentare la probabilità di ottenere risultati positivi.

3. l’endpoint dovrebbe essere facilmente misurabile e inter-pretabile. Ad esempio, se sono necessarie procedure invasive (come biopsie frequenti o intubazione per valu-tare gli effetti istologici), le difficoltà di misura introdu-cono il rischio di un elevato numero di dati mancanti che potrebbe a sua volta determinare una significativa riduzione dell’interpretabilità dei risultati dello studio.

L’interpretabilità potrebbe essere ridotta anche quando si utilizzano endpoint compositi. I compositi sono spesso considerati per aumentare la sensibilità o la potenza stati-stica del trial aumentando il numero di pazienti nei quali si verifica l’endpoint primario in un determinato tempo. Tuttavia, l’interpretabilità di tali endpoint è notevolmente influenzata dal fatto che ogni componente del composito abbia una rilevanza clinica simile agli altri componenti. Ad esempio, il Major Cardiovascular Event (MACE), cioè il composito di morte cardiaca, ictus e infarto miocardico, è interpretabile in studi clinici in pazienti con sindrome coronarica acuta perché ogni componente è una misura di morbilità irreversibile o di mortalità. Tuttavia, l’interpre-tabilità di tale misura è risultata sostanzialmente ridotta quando i componenti “sindrome coronarica acuta, inter-vento cardiaco compresi bypass aorto-coronarico e angio-plastica coronarica percutanea, amputazione della gamba, o rivascolarizzazione della gamba” sono stati aggiunti ai componenti MACE nello studio PROactive che valutava il pioglitazone in pazienti con diabete mellito di tipo 2 [2].

In alternativa, un endpoint può essere un surrogato -validato- della una misura di un outcome. Un endpoint surrogato è una misura utilizzata in sostituzione di un endpoint clinicamente significativo; i cambiamenti indotti da un intervento su un endpoint surrogato dovrebbero per-tanto riflettere i cambiamenti sull’endpoint clinicamente significativo [3].

In oncologia la Overall Survival (OS), definita come il tempo dalla randomizzazione fino alla morte per qual-siasi causa, è generalmente l’endpoint preferito. Tuttavia, raggiungere l’endpoint di OS può richiedere 10-15 anni, un tempo proibitivo per le aziende farmaceutiche che può inoltre determinare ritardi nell’introduzione di terapie innovative e scarsi miglioramenti degli approcci attuali. Per

Nuovi end points dei trial clinici ed il ruolo dell’industria

Virginio OldaniComponente il gruppo di lavoro sperimentazione clinica di Farmindustria, Roma

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SIMPOSIO - Disegnare i nuovi trial clinici sulla base delle esperienze passate

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questo motivo negli ultimi decenni diversi endpoint sono stati utilizzati come surrogati accettati per la dimostrazione di benefici clinici e per ridurre il tempo di valutazione di nuovi farmaci: Disease-Free Survival (DFS), Objective Response Rate (ORR), Time to Progression and Progres-sion-Free Survival (PFS).

Ad esempio, nel cancro alla prostata localizzato, il gruppo di lavoro ICECaP ha dimostrato che la sopravvivenza senza malattia (DFS) a 5 anni è significativamente correlata con i tassi di OS a 8 anni, e ha proposto alle principali Autorità Sanitarie l’accettazione di questo endpoint surrogato, che potrebbe permettere una valutazione più spedita di nuove terapie [4].

Lo stesso vale per i nuovi trattamenti immuno-oncolo-gici, il cui meccanismo d’azione unico richiede un ripensa-mento sugli endpoint clinici tradizionali. Nelle fasi precoci di sviluppo gli endpoint primari si concentrano di solito sulla sicurezza, sulla farmacocinetica (PK) e sulla farmaco-dinamica (PD), allo scopo di garantire che il farmaco rag-giunga il proprio obiettivo in vivo e di selezionare la dose massima tollerata (MTD). Spesso negli studi di immu-no-oncologia la MTD non è raggiunta, pertanto la dose viene scelta tramite altri parametri farmacocinetici come l’area sotto la curva di concentrazione-tempo (AUC).

I criteri di valutazione standard delle risposte iniziali a farmaci chemioterapici nei tumori solidi (RECIST) sono basati sulla riduzione della massa tumorale totale. Tuttavia, tali criteri possono non riflettere in modo preciso le rispo-ste ai trattamenti immunoterapici, poiché la malattia può sembrare progredire o esacerbarsi prima di mostrare una risposta al trattamento a causa dell’infiltrazione delle cellule T che può aumentare la dimensione apparente del tumore. Nelle fasi iniziali del trattamento, sarebbe necessaria una biopsia per dimostrare che l’aumento della dimensione del tumore non rappresenta una progressione della malattia. Nel 2009, durante la fase II di ipilimumab, un anticorpo monoclonale per il trattamento del melanoma, gli spe-rimentatori hanno proposto una nuova serie di criteri di risposta correlati all’immunizzazione (irRC) per misurare l’efficacia dei trattamenti immunoterapici [5], e nel 2014 irRECIST è stato proposto come un nuovo standard quale evoluzione di irRC [6].

Negli studi di fase tardiva, l’uso della OS come endpoint primario è diminuito a favore di endpoint surrogati; anche se la OS è quasi sempre inclusa e, in ultima analisi, rimane il risultato più importante per il paziente, è più spesso un endpoint secondario. Questo cambiamento è guidato da percorsi di approvazione accelerati in cui le Agenzie Rego-latorie concedono l’approvazione iniziale condizionata all’impegno di studi post-approvazione per dimostrare un effetto favorevole sulla sopravvivenza globale.

Alcune misure indirette che sono considerate come poten-ziali endpoint surrogati, come il 6-minute walk test, la spa-sticità degli arti, i test di funzionalità polmonare o l’uso di

rescue medication, possono dipendere dalla motivazione del paziente o dal giudizio clinico. Tuttavia, la maggior parte degli endpoint surrogati non hanno tale dipendenza quando rappresentano misure di processi biologici. Sono i cosiddetti “biomarkers”, che includono misure fisiologi-che, analisi del sangue e altre analisi chimiche di tessuti o fluidi corporei, dati genetici o metabolici e misurazioni da immagini.

L’utilizzo di biomarcatori come endpoint surrogati è spesso motivato dalla possibilità di ridurre la dimensione e la durata delle sperimentazioni cliniche, e dalla spe-ranza che ciò consenta una valutazione più tempestiva del profilo rischio-beneficio degli interventi sperimentali e una migliore capacità di offrire ai pazienti un’alternativa tera-peutica, specie laddove vi sia un forte bisogno terapeutico (ad es. in oncologia o nelle malattie rare). Tuttavia, dovrebbe essere fornita una giustificazione rigorosa e basata sull’evi-denza della predittività degli effetti dei biomarcatori sulle misure di efficacia clinica in qualsiasi ambito in cui ne si propone l’uso come endpoint surrogati, perché la valuta-zione scientifica del beneficio e del rischio deve essere non solo tempestiva, ma anche valida e affidabile (3).

La maggior utilità clinica dei biomarcatori potrebbe paradossalmente risiedere nei due ambiti clinici dove può essere più impegnativo giustificare la loro validità e affida-bilità: l’uso come endpoint surrogati al posto delle misure di efficacia clinica in trial confirmatori, o per ottenere dati supportivi su effetti in gruppi specifici di soggetti (cioè modificazione dell’effetto).

Nel primo caso, stabilire che un biomarker correla con le misure di efficacia clinica nelle osservazioni della storia naturale non sempre fornisce una prova affidabile che gli effetti su quel biomarker siano predittivi degli effetti dell’in-tervento su tali misure di efficacia clinica, specie se il bio-marker non si colloca nel pathway causale del processo di malattia. Se da un lato l’affidarsi alle misure a breve termine di biomarcatori ha il vantaggio di consentire sperimen-tazioni cliniche di ridotte dimensioni e durata, dall’altro lato un’eccessiva confidenza può determinare una minor conoscenza dei rischi di eventi avversi rari, ma clinica-mente importanti, o della sicurezza e dell’efficacia a lungo termine. Ad esempio, nel diabete mellito di tipo 2, il rosi-glitazone è stato approvato sulla base della riduzione dei livelli di HbA1c, ma i risultati degli studi clinici post-mar-keting hanno fornito evidenze sostanziali che il farmaco aumenta i rischi di morbilità e mortalità cardiovascolare (2). Per natalizumab è stata concessa dalla FDA un’approva-zione accelerata basata su dati provenienti da studi a breve termine in pazienti affetti da sclerosi multipla, che avevano valutato gli effetti sui tassi di recidiva a breve termine, ma non fornivano prove dirette sugli effetti del farmaco sull’en-dpoint, clinicamente molto più importante, del tempo alla perdita irreversibile di mobilità [7]. Di conseguenza, non solo è stata ritardata fino a dopo la commercializzazione la scoperta degli eventi di leucoencefalopatia multifocale pro-

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gressiva, ma anche la capacità di giudicare l’accettabilità di un rischio di sicurezza molto grave e spesso fatale è stata ostacolata da incertezze sul fatto che natalizumab fornisse veramente benefici su misure di morbilità irreversibile.

Nel secondo caso, esiste un notevole interesse ad identifi-care le sottopopolazioni di pazienti per i quali un intervento avrebbe un profilo beneficio/rischio più favorevole a causa di maggiori benefici o minori esiti negativi. Il valore intrin-seco di un biomarker quale endpoint ha alto valore poten-ziale quando i meccanismi chiave dell’effetto del trattamento sul fattore causale del processo di malattia sono specifici per una determinata popolazione (ad esempio, quei pazienti che hanno una specifica caratterizzazione genetica); per-tanto, essere in grado di definire questa popolazione target può evitare di diluire il profilo beneficio-rischio di un inter-vento, sia nella ricerca clinica sia nella pratica clinica. Ad esempio, il grado di effetto del trastuzumab nelle pazienti affette da tumore mammario sembra essere specifico del livello di sovra-espressione di her-2-neu [8], e il grado di effetto dei farmaci inibitori del recettore del fattore di cre-scita epidermica nei pazienti con tumore del colon-retto sembra dipendere dal fatto che i tumori esprimano il tipo primitivo o la versione mutata del gene KRAS [9].

Più recentemente la FDA ha approvato per la prima volta un trattamento antitumorale basato su un biomar-ker comune, piuttosto che sulla sede di localizzazione del tumore [10]. Pembrolizumab è stato autorizzato per il trat-tamento di pazienti adulti e pediatrici con tumori solidi non resecabili o metastatici identificati come aventi un biomarker definito microsatellite instability-high (MSI-H) or mismatch repair deficient (dMMR). Pembrolizumab è stato approvato per questa nuova indicazione utilizzando la procedura di Accelerated Approval, in base alla quale la FDA può approvare farmaci per condizioni gravi per le quali esiste un bisogno medico non soddisfatto qualora dimostrino effetti ragionevolmente predittivi di un benefi-cio clinico. Ulteriori studi sono tuttavia richiesti per confer-mare e caratterizzare mediante endpoints più “tradizionali” i benefici clinici attesi per questo farmaco in queste sotto-popolazioni di pazienti.

Gli effetti di un intervento su molti aspetti importanti dello stato di salute dei pazienti possono essere meglio valutati usando come endpoint surrogati i cosiddetti Patient Repor-ted Outcomes (PROs), che sono definiti come “qualsiasi rilevazione sullo stato di salute che viene direttamente rife-rito dal paziente, senza interpretazione della risposta da parte di un medico o di altri” [11]. La FDA e l’EMA hanno pubblicato documenti di orientamento nel corso dell’ultimo decennio che richiedono dati di qualità della vita (QoL) in forma di PRO e hanno approvato molti farmaci con endpoint PRO nella scheda tecnica. Inoltre, i PRO possono avere un ruolo fondamentale nelle valutazioni di costo-ef-ficacia di un intervento, fornendo utili informazioni ai fini dell’allocazione razionale delle risorse in ambito sanitario, e

le aziende farmaceutiche possono trovare i dati di QoL utili in fase di negoziazione del rimborso o per differenziare un farmaco rispetto ad altri standard di cura.L’utilizzo dei PRO offre vantaggi in diverse circostanze:- quando gli effetti di un farmaco possono essere riferiti

soltanto dal paziente (es.: analgesici, per i quali l’endpoint primario è la misurazione dell’intensità del dolore);

- le misure standard rilevate alla visita medica o mediante diagnostica strumentale o di laboratorio potrebbero non essere in grado di valutare la funzionalità quoti-diana di un paziente affetto da una patologia cronica o invalidante;

- l’integrazione dei punti di vista del medico e del paziente fornisce un metodo di valutazione più completo (a volte la valutazione clinica non correla con i miglioramenti percepiti dal paziente);

- l’impiego di strumenti validati può permettere di acqui-sire informazioni in maniera più attendibile e completa rispetto a quanto ottenibile mediante semplici domande rivolte al paziente dal medico.

Nello sviluppo di un farmaco sperimentale che agisce sul meccanismo di malattia il ruolo che hanno in PRO è gene-ralmente considerato tra gli endpoint secondari. Tuttavia, nel caso di un farmaco per il trattamento dei sintomi di una malattia il PRO può essere assunto come endpoint prima-rio. È necessario tuttavia che lo strumento di misurazione sia sviluppato con la corretta metodologia; esistono una serie di requisiti che devono essere soddisfatti affinché uno strumento pensato per la misurazione dei PRO sia definito valido allo scopo. La Linea-guida FDA 2009 comprende i buoni principi di misura applicabili a qualsiasi valutazione basata su un PRO [11]. È inoltre importante che gli stru-menti per la rilevazione dei PROs siano elaborati e validati anche con il contributo della rappresentanza dei pazienti, sia per l’inserimento di contenuti ritenuti più rilevanti dal punto di vista del malato, sia per il migliore utilizzo di una terminologia comprensibile ai non addetti ai lavori.

Vi sono diversi casi recenti di collaborazione tra acca-demia e aziende farmaceutiche finalizzata alla definizione e armonizzazione di nuovi endpoint PRO e allo sviluppo e validazione di strumenti adeguati. Tra questi, un esempio è rappresentato da EXACT (EXAcerbations of Chronic Pulmonary Disease Tool) e E-RS (Evaluating Respiratory Symptoms), proposti e favorevolmente accolti da EMA e FDA come endpoint esploratori per la valutazione degli effetti di trattamenti nella BPCO [12].

Quando i dati vengono raccolti dai partecipanti agli studi clinici, le valutazioni si svolgono in genere nelle strutture sanitarie piuttosto che nel contesto della vita quotidiana dei pazienti. Inoltre, molte valutazioni della funzionalità fisica si basa su misure di esito relativamente soggettive che vengono segnalate dai partecipanti o da chi provvede alla loro assistenza sanitaria. Oltre ad essere limitate in termini di obiettività, queste misure possono anche catturare solo brevi “istantanee” della funzionalità del partecipante e/o

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

dello stato di malattia in un determinato momento.La tecnologia mobile offre nuove modalità di acquisi-

zione di misurazioni oggettive dai partecipanti alla speri-mentazione clinica nella loro vita quotidiana utilizzando nuovi endpoint, definiti sia come endpoint che non è stato precedentemente possibile valutare, sia come endpoint esi-stenti che possono essere misurati in modi nuovi e possibil-mente migliori.

Nell’ambito della Clinical Trials Transformation Ini-tiative (CTTI), promossa da un consorzio di istituzioni accademiche e governative, aziende farmaceutiche, CRO e rappresentanti di associazioni di pazienti, sono stati recentemente sviluppati e proposti nuovi endpoint per lo studio del diabete (continuous glucose monitoring-CGM mediante un sensore sottocutaneo per lo studio della varia-bilità glicemica), scompenso cardiaco (accelerometro per la misurazione dell’attività fisica), malattia di Parkinson (accelerometro per la misurazione del tremore) e distrofia muscolare di Duchenne (accelerometro per la misurazione dei movimenti del braccio) [13].

Questi nuovi endpoint hanno il potenziale di fornire dati di alta qualità relativi a esiti significativi per i pazienti, e nel contempo potenzialmente consentono studi più grandi con ridotte barriere alla partecipazione, rendendo così possibili valutazioni più sensibili, generalizzabili e paziente-centriche.

Bibliografia

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2. Dormandy JA, Charbonnel B, Eckland EJA, et al. Secondary prevention of macrovascular events in patients with type 2 dia-betes: a randomized trial of pioglitazone. The PROactive Study (PROspective pioglitAzone Clinical Trial In macroVascular Events). Lancet. 2005; 366:1279–1289. [PubMed: 16214598]

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4. h t t p s : / / w w w. p c f . o r g / n e w s / n e w - c l i n i c a l - t r i a l - e n -dpoint-may-speed-the-development-of-new-therapies-for-pa-tients-with-localized-prostate-cancer/

5. Guidelines for the evaluation of immune therapy activity in solid tumors: immune-related response criteria. Clin Cancer Res. 2009 Dec 1;15(23):7412-20. doi: 10.1158/1078-0432.CCR-09-1624. Epub 2009 Nov 24.

6. Adaptation of the immune related response criteria: irRECIST. http://oncologypro.esmo.org/Meeting-Resources/ESMO-2014/Adaptation-of-the-immune-related-response-criteria-ir-RECIST

7. Assche GV, Van Ranst M, Sciot R, Dubois B, Vermeire S, Noman M, Verbeeck J, Geboes K, Robberecht W, Rutgeerts P. Progres-sive multifocal leukoencephalopathy after Natalizumab therapy for Crohn’s Disease. N Engl J Med. 2005 Jul 28.353:362–368. [PubMed: 15947080]

8. Herceptin product labeling. http://www.accessdata.fda.gov/drugsatfda_docs/label/2008/103792s5175lbl.pdf

9. Karapetis CS, Khambata-Ford S, Jonker DJ, O’Callaghan CJ, Tu D, Tebbutt NC, John SR, Chalchal H, Shapiro JD, Robitaille S, Timothy, Zalcberg JR, et al. K-ras Mutations and Benefit from Cetuximab in Advanced Colorectal Cancer. N Engl J Med. 2008; 359:1757–1765. [PubMed: 18946061]

10. FDA approves first cancer treatment for any solid tumor with a specific genetic feature. https://www.fda.gov/newsevents/newsroom/pressannouncements/ucm560167.htm

11. Guidance for Industry Patient-Reported Outcome Measu-res: Use in Medical Product Development to Support Labe-ling Claims. U.S. Department of Health and Human Services Food and Drug Administration, Center for Drug Evaluation and Research (CDER), Center for Biologics Evaluation and Research (CBER), Center for Devices and Radiological Health (CDRH); Dec. 2009 Available at: http://www.fda.gov/downlo-ads/Drugs/GuidanceComplianceRegulatoryInformation/Gui-dances/UCM193282.pdf

12. http://www.exactproinitiative.com/13. https://www.ctti-clinicaltrials.org/briefing-room/recommen-

dations/developing-novel-endpoints-generated-mobile-tech-nology-use-clinical

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Nei mammiferi a livello del mare (normossia normoba-rica) la ventilazione è regolata da 3 elementi: la produzione di anidride carbonica (VCO2), lo spazio morto, valutato come rapporto sul volume tidal (VD/VT), ed il valore della pressione della CO2 in arteria (PaCO2), che rappresentano rispettivamente l’attività muscolare, l’efficienza ventilatoria e la regolazione del chemoriflesso 1. Durante l’esercizio, in un protocollo a rampa (aumento progressivo del carico di lavoro), la ventilazione aumenta secondo tre fasi distinte: la prima fino alla soglia anaerobica, la seconda tra la soglia anaerobica e il punto di compensazione respiratorio, la terza fino al picco dell’esercizio2. In alcuni soggetti ad alta per-formance si osserva anche una quarta fase attorno al picco dell’esercizio. I fattori che determinano queste quattro fasi sono rispettivamente il consumo di ossigeno (VO2), VCO2, acidosi non tamponata e dispersione termica, parametri che di conseguenza sono racchiusi all’interno della rela-zione ventilazione vs. VCO2 (VE/VCO2) 2. Notoriamente tutti i fattori che regolano la ventilazione sono, almeno in parte, sotto il controllo del sistema simpatico.

In un lavoro pioneristico Wasserman et al. 3 hanno mostrato che nei pazienti con scompenso cardiaco la ven-tilazione ad un determinato carico di lavoro è aumentata rispetto al normale e, nei pazienti con severo scompenso cardiaco, può persino essere il doppio rispetto a quella osservata nei soggetti sani. Da un punto di vista fisiologico si parla di iperpnea quando la ventilazione è aumentata ma la PaCO2 è normale, mentre di iperventilazione quando l’aumentata ventilazione è associata a una PaCO2 al di sotto del livello normale1. Nel primo caso la causa dell’au-mentata ventilazione ad una specifica VCO2 è il rapporto VD/VT, mentre nel secondo caso è dovuta ad un aumen-tato riflesso, indotto dal sistema simpatico. Wasserman ha mostrato, in pazienti con scompenso cardiaco con frazione di eiezione ridotta, che nello scompenso cardiaco l’aumento di 8, 47 e 45% di ventilazione è dovuto rispettivamente a PaCO2, VCO2 e VD/VT 3. Di conseguenza la VE/VCO2 slope è aumentata e il suo valore ha un ruolo essenziale nel valutare la gravità e la prognosi dello scompenso cardiaco 4, 5. D’altra parte molti fattori possono influenzare la VE/VCO2 slope indipendentemente dalla gravità dello scom-

penso cardiaco ed è interessante notare che alcuni di questi fattori sono presenti anche a riposo. Infatti un alto rapporto tra ventilazione e VCO2 a riposo, come si osserva spesso nei pazienti con malattia polmonare ostruttiva cronica (BPCO), innalza l’inizio della relazione VE/VCO2, così che un’elevata slope diventa in teoria progressivamente meno probabile 6-8. Di conseguenza la valutazione dell’intercetta sull’asse y (asse VE) della relazione VE/VCO2 ha un signifi-cato importante e dovrebbe essere osservata quando si ana-lizza la slope. Il valore dell’intercetta y dipende dallo spazio morto e dalle sue variazioni durante esercizio. La figura 1 è una rappresentazione grafica delle variazioni durante eser-cizio di ventilazione alveolare (VE alv) e dello spazio morto in un ipotetico soggetto sano. La somma è la ventilazione totale.

Recentemente è stato dimostrato da Apostolo et al. 7 che il valore di intercetta sull’asse y della relazione VE/VCO2 è indicativo dello spazio morto fisiologico e anatomico, ma solo in alcune condizioni particolari. Infatti, idealmente la ventilazione corrispondente a VCO2 uguale a zero dovrebbe essere nulla in assenza di spazio morto o positiva in sua pre-senza. Estrapolando l’intercetta della relazione VE/VCO2 di un soggetto sano si osserva un valore positivo che corri-sponderebbe allo spazio morto solo se questo fosse, e non lo è, costante durante esercizio. D’altra parte aggiungendo

Fisiopatologia

Piergiuseppe Agostoni 1,2, Emanuele Spadafora 1, Isabel Bestetti 1, Antonella Beu 1, Elisabetta Salvioni 1

1. Centro Cardiologico Monzino, IRCCS, Milano, Italia2. Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità, Sezione cardiovascolare, Università di Milano, Milano, Italia

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RELAZIONI - Scompenso cardiaco a frazione d’eiezione preservata: the other side of the moon?

Figura 1: Rappresentazione grafica della ventilazione (VE) vs. volume di anidride carbonica prodotto (VCO2) in un soggetto sano.

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uno spazio morto artificiale in un soggetto sano la relazione VE/VCO2 risulta traslata verso l’alto e il valore di intercetta è aumentato di una entità corrispondente allo spazio morto aggiunto. (figura 2)

Si è osservato inoltre che i pazienti con BPCO presen-tano caratteristiche di VE/VCO2 simili alla situazione spe-rimentale descritta: l’intercetta aumentata è dunque sugge-stiva di un maggiore spazio morto. La figura 3 è un esempio teorico di esercizio in un soggetto con BPCO9. Da notare che l’incremento di VE alv è ridotto.

In pazienti con scompenso cardiaco lieve o moderato si osserva invece un aumento della VE/VCO2 slope e una diminuzione dell’intercetta, dovuto ad una inefficienza del sistema ventilazione-perfusione (figura 4).

Tale situazione si aggrava in pazienti con scompenso car-diaco severo o ipertensione polmonare dove si osservano valori di VE/VCO2 molto alti e un’intercetta che addirittura raggiunge valori negativi (figura 5).

In conclusione, in un paziente con scompenso cardiaco un’alta intercetta può suggerire la coesistenza di BPCO e il valore prognostico della slope potrebbe diventare discuti-bile7. Diversamente in pazienti con scompenso cardiaco grave o con ipertensione polmonare la presenza di un’inter-cetta negativa indica che, almeno verso la fine dell’esercizio, l’aumento della ventilazione è dovuto soprattutto alla venti-lazione dello spazio morto.

In una recentissima pubblicazione su European Journal of Heart Failure Van Iterson et al. 10 hanno evidenziato il differente comportamento della VE/VCO2 slope tra i pazienti con scompenso cardiaco con preservata frazione d’eiezione vs. quelli con funzione ridotta, suggerendo che una bassa PaCO2 sia il principale fattore determinante di un’alta VE/VCO2 slope in pazienti con bassa frazione d’eiezione, mentre il VD/VT lo sia in quelli con frazione d’eiezione preservata. Da questo lavoro si evince che la VE/VCO2 slope è più alta in pazienti con frazione d’eiezione ridotta e quindi che la prognosi dovrebbe essere peggiore. È da notare che a riposo la pressione tele-espiratoria della CO2 in pazienti con frazione d’eiezione ridotta è significa-

Figura 2: Rappresentazione grafica della ventilazione (VE) vs. volume di anidride carbonica prodotto (VCO2) in un soggetto sano con l’ag-giunta di uno spazio morto (DS) esterno.

Figura 3: Rappresentazione grafica della ventilazione (VE) vs. volume di anidride carbonica prodotto (VCO2) in un soggetto con broncop-neumopatia cronica ostruttiva.

Figura 4: Rappresentazione grafica della ventilazione (VE) vs. volume di anidride carbonica prodotto (VCO2) in un soggetto con moderato scompenso cardiaco.

Figura 5: Rappresentazione grafica della ventilazione (VE) vs. volume di anidride carbonica prodotto (VCO2) in un soggetto con grave scom-penso cardiaco o ipertensione polmonare.

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

tivamente più bassa (alla stessa frequenza respiratoria) e la PaCO2 ha mostrato una tendenza verso un valore più basso con un più alto VD/VT rispetto ai pazienti con fra-zione d’eiezione conservata. Questo suggerisce che a riposo, in pazienti con frazione d’eiezione ridotta, ci siano zone del polmone ventilate ma non perfuse e, infatti, il rapporto VE/VCO2 è più alto. Lo stesso vale al picco dell’esercizio dove anche il volume dello spazio morto e la ventilazione sono più alti in pazienti con frazione d’eiezione ridotta. Sebbene non ne sappiamo il motivo, la spiegazione più probabile è che una più alta attività dei chemorecettori regoli il tono simpatico. Conseguentemente dal punto di vista fisiologico la relazione VE/VCO2 nei pazienti con bassa frazione d’eie-zione è determinata dalla regolazione della PaCO2, nono-stante la presenza secondaria di un più alto VD/VT rispetto ai pazienti con frazione d’eiezione conservata. Al contrario, in questi ultimi, il VD/VT, anche se più basso, controlla la VE/VCO2 slope.

Cosa vuol dire tutto ciò da un punto di vista pratico? Se la modalità di respirazione (cioè un più alto riflesso che ha indotto un’inefficienza di ventilazione), è la principale causa di iperventilazione durante l’esercizio in pazienti con frazione d’eiezione ridotta, mentre un alto VD/VT è la prin-cipale causa di iperpnea in pazienti con frazione d’eiezione conservata, dovremmo iniziare a trattarli differentemente, visto che queste modificazioni hanno un’implicazione clinica significativa? Infatti è stato dimostrato che ad alta quota l’ipossia (e l’alto valore di VE/VCO2 slope correlato) può essere parzialmente corretta imponendo volontaria-mente un alto volume corrente a bassa frequenza di ven-tilazione 11. Dati analoghi sono stati ottenuti attraverso la recitazione del rosario, la pratica dello yoga o l’ascolto di musica12, 13 Ma allora si può pensare che la frazione d’eie-zione ridotta possa essere trattata con preghiere mentre la frazione d’eiezione conservata sia una malattia più agno-stica? Oppure, da un punto di vista farmacologico, si può pensare che siano indicate nei casi di bassa frazione d’eie-zione dosi maggiori di beta bloccanti? Chiaramente non sappiamo le risposte, ma i ricercatori e i clinici necessitano di un background più olistico e, se si vuole, di più catechi-smo, cioè conoscenze basilari di fisiologia, per affrontare con successo un argomento, la dispnea nello scompenso cardiaco, che ha più incognite che certezze.

Bibliografia

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

Lo scompenso Cardiaco a Frazione di Eiezione conservata: Un fenotipo ecocardiografico La prima importante evi-denza scientifica di uno scompenso cardiaco a frazione di eiezione (ejection fraction = EF) preservata (Heart failure with preserved EF = HFpEF) è stata descritta all’inizio di questo millennio quando Gandhi et al [1] riportarono all’ecocardiogramma una EF normale (almeno 50%) tanto durante che dopo la risoluzione (da uno a tre giorni) di un episodio di edema polmonare acuto in 18 pazienti afferenti ad un Pronto Soccorso Ospedaliero per dispnea ingrave-scente. Il solo parametro ad essere modificato nel confronto tra le 2 fasi corrispondeva ai valori di pressione arteriosa (blood pressure = BP), sensibilmente elevati nella fase acuta e portati nella norma nella fase di stabilizzazione. Questa evidenza non solo ha un valore storico ma rappresenta la base di partenza per comprendere che lo scompenso car-diaco può verificarsi anche in assenza di alterazioni della funzione sistolica del ventricolo sinistro e che le metodiche di cardiac imaging, in primis l’ecocardiografia, rivestono un ruolo fondamentale nel distinguere i 2 principali fenotipi in cui viene classificato lo scompenso cardiaco: quello a EF ridotta (Heart failure with reduced EF = HFrEF), sicu-ramente più frequente, e quello corrispondente a HFpEF. Dopo più di 15 anni di evidenze scientifiche, in cui questi 2 fenotipi di scompenso cardiaco - “cardiac imaging based” - hanno mostrato epidemiologia, prevalenza e prognosi variabili ma sostanzialmente differenti tra loro, questo settore della diagnostica cardiologica mantiene un notevole margine di incertezza, generata principalmente dal con-cetto di normalità della EF(50% ?, 55%, 53% ?).

La nuova classificazione ESC dello Scompenso Cardiaco

Le nuove Linee Guida ESC del 2016 sulla diagnosi ed il management dello scompenso cardiaco [2] hanno cercato di fare chiarezza introducendo una nuova classificazione di 3 fenotipi “ecocardiografici” di scompenso cardiaco basata sui valori della EF: 1. Scompenso cardiaco con EF ridotta (HFrEF): EF < 40% 2. Scompenso cardiaco con “mid range EF” (HFmrEF) : EF

= 40-49%3. Scompenso cardiaco con EF preservata (HFpEF) : EF

≥ 50%. Benchè possa avere implicazioni importanti dal punto di vista clinico e, forse, ancor più, nel disegno dei clinical trials sullo scompenso, tale classificazione com-plica ulteriormente quella già pre-esistente.

Scompenso cardiaco a FE conservata e Scompenso Dia-stolico: 2 entità non corrispondenti

Dalla nuova classificazione ESC HFpEF esce maggiormente demarcato, e verosimilmente più ristretto nei numeri, ma comunque rappresentato nel panorama generale dello scompenso cardiaco. Soprattutto, per chi si occupa di cardiac imaging ed in particolare di ecocardiografia, rimane e diventa ancora più importante definire le caratte-ristiche non solo fenotipiche ma anche fisiopatologiche di HFpEF, al fine di ottimizzare l’appropriatezza diagnostica, la stratificazione prognostica ed il management terapeutico di questo tipo di scompenso cardiaco. In questa categoria di scompenso, infatti, il meccanismo fisiopatologico della disfunzione ventricolare sinistra sinistra è rappresentato dalla alterazione della diastole, che è propria di numerose patologie croniche che affliggono il cuore, quali l’iperten-sione arteriosa, il diabete mellito, la sindrome metabolica e la cardiopatia ischemica, e può essere aggravata dalla perdita della sistole atriale nei pazienti che sviluppano fibrillazione atriale nel loro decorso clinico [3]. Pertanto, l’imperativo assoluto per il cardiac imager che si approcci a questo tipo di scompenso cardiaco è lo studio dettagliato della funzione diastolica. Nel momento in cui, infatti, non siano evidenziabili alterazioni delle proprietà diastoliche

Caratteristiche fenotipiche del paziente con scompenso a FE conservata

Maurizio Galderisi 1, Antonella Tufano 2, Agostino Buonauro 1, Gianmarco Alcidi 2, Ciro Santoro 1, Roberta Esposito 1, Fabio Capasso 3, Bruno Trimarco 1

1 Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, Università degli Studi Federico II, Napoli2 Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia, Università degli Studi Federico II, Napoli 3 Dip. Medico e Chirurgico di Cuore e Vasi, Casa di Cura San Michele, Maddaloni (Caserta) Italy

© SIMI 2017

RELAZIONI - Scompenso cardiaco a frazione d’eiezione preservata: the other side of the moon?

Maurizio Galderisi, MD, FESC ()Interdepartmental Laboratory of Cardiac ImagingFederico II University HospitalVia Pansini 5, 80131 Naples, Italy. Phone: +39-081-7464749 - E-mail: [email protected]

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

del ventricolo sinistro (riempimento, stiffness, rilascia-mento), allora il sintomo “dispnea” non potrà essere attri-buito a HFpEF ma a tutta una serie di alte cause, cardiache (pericardite costrittiva, shunt intra-cardiaci) od extra-car-diache (malattie polmonari, obesità, decondizionamento, anemia, iperventilazione, tireotossicosi, shunt extra-car-diaci) [4] che renderanno conto della necessità di un approccio multidisciplinare al fine di raggiungere una dia-gnosi appropriata. Il concetto di base atto alla distinzione della disfunzione sistolica da quella diastolica è la curva pressione-volume (Figura 1), ottenibile con un cateterismo cardiaco, attraverso il quale è possibile distinguere chia-ramente le une anomalie dalle altre [5]. L’alterazione della funzione diastolica, meglio ancora l’aumento delle pres-sioni di riempimento del ventricolo sinistro (left ventricular filling pressure = LVFP) costituisce invece la base comune dei 2 tipi di scompenso, in quanto le LVFP aumentano tanto in HFrEF che in HFpEF. Le LVFP raggruppano una serie di pressioni ottenibili in maniera invasiva in emodinamica che vanno dalla pressione pre A, alla pressione diastolica media ed alla pressione telediastolica del ventricolo sinistro (left ventricular end-diastolic pressure = LVEDP) - tutte misu-rabili mediante un cateterismo sinistro - fino alla pressione “a catetere incuneato” nei capillari polmonari (pulmonary capillary wedge pressure = PCWP) che è invece ottenibile

con un semplice cateterismo destro mediante il catetere di Swan-Ganz che possiede alla sua punta un micromanome-tro atto alla stima dei valori pressori in mmHg [6]. È impor-tante sapere che nello scompenso cardiaco valori di PCWP > 16 mmHg segnano negativamente la prognosi, indipen-dentemente dai valori di EF e che valori di PCWP > 23 mmHg sono assolutamente pericolosi perché espongono il paziente scompensato ad un rischio estremamente elevato di edema polmonare acuto [7]. Fortunatamente, al giorno d’oggi surrogati più che attendibili delle LVFP possono essere ottenuti dall’eco-Doppler transtoracico che offre un ventaglio svariato di misurazioni non invasive delle LVFP, tutte validate nei confronti del cateterismo destro e/o sini-stro [8]. Tali misurazioni sono espresse in m/sec (velocità E ed A del riempimento diastolico transmitralico, velocità “atrial reverse” del flusso venoso polmonare, velocità con Doppler continuo del flusso retrogrado di una insufficienza tricuspidale [tricuspid regurgitation = TR], in cm/sec (velo-cità è dell’anello mitralico con Doppler tissutale pulsato) od in msec (tempo di decelerazione (deceleration time = DT) della velocità E transmitralica, durata dell’atrial reverse del flusso venoso polmonare) e forniscono quindi una quantifi-cazione solo indiretta del grado delle LVFP. Tra tali parame-tri, il rapporto E/e’ ha guadagnato negli anni applicazioni cliniche fondamentali nel management terapeutico e nella

Figura 1: Diagramma della curva pressione-volume del ventricolo sinistro nella disfunzione sistolica (parte destra), nel normale (parte centrale) e nella disfunzione diastolica (parte destra). La disfunzione sistolica è caratterizzata da una performance sistolica ridotta, con la curva pressione-volume spostata in basso ed a destra, e normali proprietà diastoliche. La disfunzione diastolica è invece caratterizzata da una aumentata rigidità di camera, con la curva pressione-volume spostata in alto ed a sinistra, mentre le proprietà sistoliche sono normali.

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stratificazione prognostica di vari setting clinici [9-11]. In aggiunta a tale misure, il volume atriale sinistro indicizzato (left atrial volume index = LAV index) > 34 ml/m2 - cor-rispondente ad una dilatazione atriale sinistra, può’ essere utilizzato per identificare aumenti “cronici” della pressione atriale sinistra, in pazienti che non presentino concomitanti stenosi ed/o insufficienza della valvola mitrale. Nelle ultime raccomandazioni congiunte di American Society of Echo-cardiography (ASE) ed European Association of Cardiova-scular Imaging (EACVI) sulla diagnosi ed il management della funzione diastolica [8], nei pazienti con HFpEF tali informazioni possono essere combinate insieme in un algo-ritmo diagnostico (Figura 2), atto a stabilire il grado delle LVFP. Tale algoritmo, oltre al pattern di riempimento tran-smitralico, utilizza 3 parametri fondamentali rappresentati dal rapporto E/e’ > 14, dalla TR velocity > 2.8 m/sec e dal LAV index > 34 ml/cm2. Utilizzando tali parametri LVFP del paziente in valutazione potranno essere: 1- normali, se 2 di 3 o 3 di 3 dei suddetti parametri saranno

negativi, cioè al di sotto dei cut-off point indicati; 2- elevate, se di 2 di 3 o 3 di 3 dei parametri saranno posi-

tivi, cioè al di sopra dei cut-off point indicati; 3- indeterminate, se 2 di tali parametri saranno negativi o,

nel caso uno degli stessi parametri non sia misurabile, uno sarà negativo e l’altro positivo.

EACVI ha recentemente validato le nuove raccomanda-zioni ASE/EACVI sulla funzione diastolica in uno studio multicentrico europeo effettuato su 159 pazienti che effet-tuavano una valutazione simultanea delle LVFP invasive (cateterismo sinistro) e non invasive (eco-Doppler): le raccomandazioni 2016 hanno identificato i pazienti con LVEDP elevata (> 15 mmHg) con una accuratezza glo-balmente migliore (sensibilità 75%, specificità 74%, valore predittivo positivo 39%, valore predittivo negativo 93%, AUC 0.78) rispetto alle raccomandazioni ASE/EACVI del 2009 [13] (sensibilità 43%, specificità 75%, valore predit-tivo positivo 49%, valore predittivo negativo 71%, AUC 0.68), imperniate essenzialmente sul rapporto E/e’. Risultati simili sono stati riscontrati in un altro studio effettuato su 450 pazienti (accuratezza diagnostica = 87% nei confronti del cateterismo cardiaco destro) dal gruppo di Nagueh et al [14]. L’attenzione delle massime Società Internazionali di Ecocardiografia dimostra quanto controversa rimanga la valutazione non invasiva della funzione diastolica ma sot-tolinea anche la necessità di ottenere una stima quanto più attendibile delle LVFP nei pazienti affetti da qualsiasi tipo di scompenso cardiaco. In particolare, nel fenotipo HFpEF il riscontro di elevate LVFP per attribuire alla disfunzione diastolica il sintomo dispnea.

Figura 2: Algoritmo per la stima di LVFP in pazienti con FE normale o ridotta. LA = Left atrial, LAP = Left atrial pressure, TR = Tricuspid regurgitation

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La disfunzione longitudinale del ventricolo sinistro nella scompenso a EF conservata

La EF “ecocardiografica” è un parametro estremamente adoperato in cardiologia, a tal punto da guidare le scelte terapeutiche e la stratificazione della prognosi nel paziente affetto da scompenso cardiaco. In realtà, si tratta di un parametro con numerosi limiti intrinseci, che vanno dalla modesta riproducibilità (variabilità di circa il 10%) [15] - connessa più che altro a motivi tecnici propri dell’ecocar-diografia bidimensionale - fino al fatto che esso è in grado di dare informazioni sulla funzione di camera ma non sulla funzione longitudinale del ventricolo sinistro [16]. In tal senso, lo strain longitudinale globale (global longitudinal strain = GLS), determinabile con ottima fattibilità mediante speckle tracking echocardiography (strain imaging) bidi-mensionale, ha evidenziato non solo una riproducibilità quasi ottimale (variabilità di circa il 6%) [15] ma anche la capacità di fornire una diagnosi precoce di disfunzione ven-tricolare, quando i valori di EF sono ancora normali [16]. Il GLS, che ha valori negativi per definizione (più negativo è migliore è la funzione miocardica longitudinale del ven-tricolo sinistro) possiede range di normalità ben codificati nelle raccomandazioni dell’ecocardiografia (cut-off point > -20%) [17] ed una validazione prognostica riconosciuta tanto in HFrEF che in HFpEF [18-20]. Il suo uso sta dive-

nendo così importante nella pratica clinica che in sua assenza, possono essere utilizzati parametri ecocardiogra-fici più grezzi di funzione longitudinale quali l’escursione sistolica dell’anello mitralico con M-mode o la velocità sistolica dell’anello mitralico ottenibile con il Doppler tissu-tale pulsato [16]. La riduzione del GLS è così tanto connessa alla disfunzione diastolica ed all’aumento delle LVFP che le alterazioni di GLS e LVFP possano essere considerate 2 facce della stessa moneta [21]

È degno di nota che nel HFpEF il GLS risulti ridotto, in maniera simile a quanto accade nel HFrEF, mentre lo strain radiale e la torsion del ventricolo sinistro si asssestino su valori di normalità o siano addirittura aumentati (Figura 3), al fine di mantenere la EF in un range di normalità [22]. È evidente quindi, che una disfunzione sistolica (strain lon-gitudinale) esista anche in HFpEF e che questa non possa essere identificata dalla semplice stima della EF.

Le nuove prospettive dello Scompenso Cardiaco guidate dallo strain imaging

Guardando lo scompenso cardiaco secondo una prospet-tiva orientata sullo strain imaging, perdono molto della loro consistenza la distinzione tra i fenotipi HFpEF e HFrEF così come la nuova classificazione ESC che introduce la terza categoria (intermedia) di HFmrEF. Nella rivoluzione

Figura 3: Esempio di paziente con HFpEF (EF = 58%) dimostrativo di riduzione sostanziale del global longitudinal strain e lieve del global circu-mferential strain. Il global radial strain è nei limiti della norma e la torsion risulta addirittura aumentata. L’elevata torsion rappresenta un verosimile meccanismo di compenso, atto a mantenere normale la EF.

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“copernicana” del cardiac imaging lo scompenso cardiaco diventa, o meglio torna ad essere, un’entità unica in cui il ruolo fondamentale viene esercitato - da un punto di vista sia fisiopatologico che diagnostico - non dalla EF ma dalle pressioni di riempimento del ventricolo sinistro, capaci di determinare il sintomo dispnea, di portare il paziente in edema polmonare quando estremamente elevate, di eser-citare un impatto prognostico decisivo e quindi di guidare l’atteggiamento terapeutico del medico curante indipen-dentemente dalla stessa EF. In questo panorama ben cir-costanziato si inserisce il global longitudinal strain che correla strettamente con le pressioni di riempimento ven-tricolare al punto da essere ridotto ogni volta che esse siano aumentate. Nell’ interazione tra sistole e diastole, che copre tutto l’ampio spettro che va dalla normalità fino ai gradi più severi dello scompenso cardiaco, è importante che il medico specialista trovi l’equilibrio più appropriato nel ricordare che non può esistere disfunzione sistolica senza che esista quella diastolica e viceversa. E che le esemplifica-zioni, che nascono spesso dalle necessità di classificazione, proprie delle Linee Guida, vanno sempre interpretate indi-vidualmente, nel singolo paziente, al fine di ottimizzare il management globale del paziente stesso e le scelte terapeu-tiche che da esso derivano.

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Introduzione

L’arterite a cellule giganti (GCA), nota anche come arterite temporale o arterite di Horton, è una vasculite sistemica primaria che interessa l’aorta e le sue branche principali e in particolare le arterie temporali. Assieme all’Arterite di Takayasu fa parte delle vasculiti dei grossi vasi e ne è la forma piu frequente. I criteri per la classificazione di GCA sono stati pubblicati dall’ American College of Reumato-logy (ACR) nel 1990 [1] (Table 1). Tali criteri sono pero stati disegnati per differenziare questa vasculite dalle altre vasculiti enon sono utili nella pratica clinica per fare la dia-gnosi di GCA nel singolo paziente. La biopsia dell’arteria temporale rimane il gold standard per la diagnosi di GCA.

Epidemiologia

La GCA colpisce quasi esclusivamente soggetti di età supe-riore a 50 anni e la sua incidenza aumenta progressivamente con l’ eta; le femmine sono colpite due o tre volte più spesso dei maschi [2]. La GCA si manifesta prevalentemente nei caucasici. I tassi di incidenza più elevati (più di 20 / 100.000 per soggetti di età superiore ai 50 anni) di GCA sono stati

segnalati nei paesi scandinavi e nelle popolazioni nordame-ricane di origine scandinava [2]. Al contrario, l’incidenza di GCA è inferiore a 10 / 100.000 nei soggetti di età supe-riore ai 50 anni nei paesi dell’Europa meridionale. Circa il 16-21% dei pazienti con polimialgia reumatica (PMR) pre-senta manifestazioni cliniche di GCA, mentre il 40-60% dei pazienti con GCA soffre di PMR [3].

Genetica

Fattori di rischio sia genetici che ambientali potrebbero essere coinvolti nella suscettibilità alla GCA. Tra i geni del complesso di istocompatibilità maggiore (MHC), principal-mente l’allele HLA-DRB1 * 04 è associato alla suscettibilità a GCA [4]. La GCA è anche associata con l’allele MHC B*15 e con l’allele MHC class I chain-related gene A (MICA) A5 indipendentemente da un linkage disequilibrium con l’al-lele HLA-B*15 e HLA-DRB1*04 [5].

Eziologia

Studi che hanno investigato un ruolo di agenti infettivi hanno fornito risultati contrastanti [3;6].

Vasculiti dei grossi vasi

Francesco Muratore, Nicolò Pipitone, Carlo SalvaraniUnità di Reumatologia, Azienda USL IRCCS di Reggio Emilia e Universita di Modena e Reggio Emilia, Reggio Emilia, Italia

© SIMI 2017

RELAZIONI - Vasculiti

Carlo Salvarani, MD ()Unità Operativa di Reumatologia - Azienda USL IRCCS di Reggio EmiliaViale Risorgimento 80 - 42123 Reggio Emilia, ItaliaE-mail: [email protected]

1 età di inizio di malattia ≥ 50 anni. Sviluppo dei segni/sintomi clinici all’età di 50 anni o ad una età superiore2. cefalea di nuova insorgenza Nuovo inizio o nuovo tipo di dolore localizzato alla testa3. anormalita dell’arteria temporale Dolorabilità dell’arteria temporale alla palpazione o ridotta pulsatilità, non correlata ad aterosclerosi

delle arterie cervicali4. elevata VES VES > 50 mm alla prima ora con il metodo Westergren5. anormale biopsia dell’arteria temporale

Campione bioptico con arteria con evidenza di vasculite caratterizzata da un predominante infiltrato infiammatorio di cellule mononucleari o di tipo granulomatoso, solitamente con cellule giganti multinucleari

Per propositi classificativi, un paziente avrà la arterite a cellule giganti (temporale) se almeno 3 dei 5 criteri sono presenti. La presenza di 3 o piu criteri ha una sensibilità del 93.5% e una specificità del 91.2%

Tabella 1. Criteri classificativi ACR 1990 per la GCA [1].

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Il fumo e l’aterosclerosi sono fattori contributivi per la suscettibilità alla GCA [7].

Istologia

Istologicamente, la GCA è caratterizzata da iperplasia intima e da un infiltrato infiammatorio transmurale, costi-tuito prevalentemente da linfociti CD4 + e macrofagi con adattamento variabile di neutrofili e eosinofili. Inoltre, in circa il 50% dei casi le cellule giganti possono essere rilevate alla giunzione intima media (Figura 1A) [4]. La flogosi può essere segmentaria [8;9] o in alcuni casi l’infiammazione può essere limitata al vasa vasorum, ai vasi piccoli peri-avventiziali, o entrambi [10-12] (Figura 1B). Il rischio di cecità è peraltro sovrapponibile nei diversi pattern istolo-gici [12].

Patogenesi

Vari citotipi giocano un ruolo nella patogenesi della GCA. Le cellule dendritiche situate alla giunzione avventizia-me-dia nei pazienti con GCA hanno un fenotipo attivato, anche se i meccanismi che portano alla loro attivazione sono ancora oggetto di dibattito [13]. Le cellule dendritiche reclutano e attivano a loro volta linfociti e macrofagi CD4 [14]. Tra le varie citokine ha un ruolo importante l’inter-ferone-γ, prodotto dai linfociti [14]. L’espressione dell’in-terferone è correlata al rischio di sviluppare complicazioni ischemiche nella GCA [14]. L’interferone-γ agisce, almeno in parte, stimolando i macrofagi inducendo la sintesi di fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF) [14]. A sua volta, il PDGF induce una iperplasia intima e quindi a stenosi o occlusione arteriosa, che sottendono eventi ische-mici vascolari. Altre molecole prodotte in corso di flogosi sono il fattore di necrosi tumorale (TNF-α), l’interleu-china-1β e la interleuchina-6, che sono responsabili delle manifestazioni sistemiche della GCA [15;16]. Tuttavia, l’in-terleuchina-6 non ha solo un’azione proinfiammatoria, ma potrebbe anche avere un effetto protettivo contro l’ischemia [17].

Quadro clinico

L’inizio della GCA è graduale, ma può essere anche improv-viso [4]. Il sintomo più frequente di GCA è l’insorgenza di mal di testa (o un peggioramento di una cefalea pree-sistente), che colpisce due terzi dei pazienti. La cefalea è prevalentemente localizzata nell’area temporale, ma può anche essere avvertita su altri siti come l’area occipitale [4]. Il dolore è spesso resistente ai comuni antidolorifici.

Circa la metà dei pazienti presenta disestesie del cuoio capelluto, claudicatio della mandibola e manifestazioni sistemiche tra cui febbre, anoressia e calo ponderale [18]. In una minoranza di pazienti, le manifestazioni sistemiche possono essere le uniche caratteristiche della GCA [19].

Figura 1A

Figura 1B

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La perdita parziale o completa della visione in uno o entrambi gli occhi si verifica fino al 20% dei pazienti, mentre una amaurosis fugax (perdita visiva transitoria) si verifica nel 10% -15% dei pazienti [18] e spesso precede la perdita della vista. Il calo del visus è in genere dovuto a una neuropatia ottica ischemica anteriore (AION) causata da arterite occlusiva della arterie ciliari posteriori e, meno comunemente, da occlusione dell’arteria retinica. Cause molto più rare di calo del visus sono la neuropatia ottica ischemica posteriore (PION) o la ischemia corticale.

Gli eventi ischemici cerebrovascolari, inclusi attacchi ischemici transitori (TIA) e l’ictus, sono una rara compli-canza della GCA. Sono in genere precoci e dovuti a vascu-lite delle carotidi o delle arterie vertebro-basilari, mentre una vasculite intracranica è estremamente rara [4;20]. L’ipertensione, una storia pregressa di malattie cardiache ischemiche e l’assenza di manifestazioni sistemiche sono fattori di rischio per eventi ischemici [21].

Una grave ischemia esitante in necrosi del cuoio capel-luto, della lingua o delle labbra è descritta, ma è estrema-mente rara [4;22].

La tosse si verifica in circa il 10% dei pazienti con GCA, presumibilmente come conseguenza dell’ischemia dei recettori della tosse [23], e puo anche essere la manifesta-zione di presentazione della GCA.

Fino a un quarto dei pazienti con GCA sviluppa mani-festazioni cliniche correlate al coinvolgimento delle grandi arterie, tra cui rientrano la claudicatio delle estremità e i soffi arteriosi e cardiaci [4;24;25]. Aneurismi aortici tora-cici, addominali e stenosi dei grandi vasi si sviluppano nel 9,3%, nel 6,5% e nel 13,5% nei pazienti con GCA [26].

Esami di laboratorio

Gli indici di flogosi, in particolare la VES e proteina C-reat-tiva, sono elevati nella grande maggioranza dei pazienti con GCA [4]. Solo il 5% dei pazienti ha una VES < 40 mm/ora alla diagnosi. I pazienti con estremamente elevati valori di VES e PCR hanno un ridotto rischio di complicanze ische-miche craniche (perdita della vista, TIA e ictus). Alti livelli di fibrinogeno, bassi livelli di albumina, una lieve trombo-citosi e una anemia della infiamamzione cronica sono altre manifestazioni di laboratorio della GCA che fanno parte della risposta infiammatoria sistemica. Le fosfatasi alcaline epatiche sono elevate in un terzo dei pazienti. L’interleu-china-6 e probabilmente il piu sensibile indice di attivita di malattia, ma non e disponibile come test di routine.

Biopsia dell’arteria temporale (TAB)

Una positivita della TAB è considerata il gold standard per la diagnosi di GCA. Tuttavia, la TAB può essere falsamente negativa in alcuni pazienti con GCA [27]. Le alterazioni infiammatorie possono interessare le arterie temporali in modo segmentario, e se la biopsia non e di dimensioni ade-

guate tali lesioni possono essere mancate [9;28]. Inoltre, in alcuni pazienti con GCA le arterie temporali possono essere risparmiate dal processo infiammatorio, in questi pazienti sono interessati solo i grandi vasi (aorta e suoi principali rami) [24]. Un campionamento inadeguato, come la biopsia di segmenti di piccole dimensioni 9, 0,5 cm), può portare ad una biopsia falsamente negativa [29]. Infine, la durata della terapia con glucocorticoidi può ridurre la frequenza di TAB positive. Nei pazienti con GCA di nuova diagnosi trattati con glucocorticoidi ad alto dosaggio, la TAB è posi-tiva nel 78% dei pazienti trattati per meno di 2 settimane, nel 65% di quelli trattati da 2 a 4 settimane, ma solo nel 40% di quelli trattati per più di 4 settimane [30].

Esame del fundus oculare

L’esame del fundus oculare è indicato in tutti i pazienti con GCA che presentano disturbi visivi. Nei casi di AION si apprezza un edema con papilla ottica “chalky white”; l’angiografia a fluoresceina mostra una occlusione delle arterie ciliari posteriori [31]. L’ occlusione dell’arteria centrale della retina e dell’arteria cilioretinica sono cause meno comuni di perdita visiva [31]. Nei casi di PION il disco ottico ha un’aspetto normale nella fase acuta, e il pallore del disco ottico di solito si manifesta solo tar-divamente dopo qualche settimana [32]. Nei casi estrema-mente rari di cecità dovuta ad ischemia corticale, la papilla ottica ha un aspetto normale.

Imaging

Evidenze crescenti indicano che il coinvolgimento dei grandi vasi in pazienti con GCA sia molto più frequente e clinicamente piu rilevante di quanto precedentemente riportato. Nelle fasi precoci della malattia, la parete arte-riosa è interessata da un ispessimento infiammatorio tran-smurale, che nelle fasi più avanzate può evolvere verso alterazioni irreversibili del lume vasale in senso stenoti-co-occlusivo e/o dilatativo-aneurismatico [33]. Le nuove metodiche di imaging vascolare oggi disponibili (eco-co-lor-doppler, angioTC, angioRM e PET) permettono di stu-diare in modo accurato e non invasivo la parete delle arterie di grosso calibro e di rilevarne le alterazioni infiammatorie vasculitiche in una fase precoce e spesso clinicamente asin-tomatica. Inoltre l’eco-color-doppler, l’angioTC e l’angioRM permettono di studiare in modo accurato anche il lume vasale e di rilevarne lesioni stenotiche, occlusive ed aneu-rismatiche. Studi prospettici su pazienti con GCA di nuova diagnosi, hanno recentemente riportato una prevalenza di coinvolgimento dei grandi vasi che varia, in base alla meto-dica di imaging utilizzata, dal 29% al 83% [34]. Eco-color-doppler (ECD)Il segno ecografico più sensibile e specifico per GCA è il “segno dell’alone”, un ispessimento parietale concentrico ipoecogeno che riflette l’infiammazione della parete vasale

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(Figura 2) [35]. Il riscontro del “segno dell’alone” all’ECD delle arterie temporali ha una sensibilità del 75% ed una specificità del 83% per la diagnosi di GCA, specificità che arriva quasi al 100% se l’alone è bilaterale [36]. L’ecografia ha un ruolo anche nello studio dei vasi epiaortici, dimo-strandone un interessamento vasculitico nel 29-54% dei pazienti con GCA di nuova diagnosi [37,38].Tomografia computerizzata (TC) e angioTCLa TC è particolarmente indicata per studiare le arterie profonde di grosso calibro (aorta e suoi rami) e può essere combinata con l’angioTC per ottenere informazioni sulla parete e sul lume vasale. Il segno TC caratteristico del coin-volgimento dei grandi vasi in corso di GCA è l’ispessimento parietale concentrico, che nelle fasi di attività di malattia può mostrare un enhancement post-contrastografico [39]. Il 68% dei pazienti con GCA di nuova diagnosi ha evidenza TC di interessamento dei grossi vasi [39]. Dopo adeguata terapia, l’enhancement post-contrastografico scompare in quasi tutti i pazienti, mentre l’ispessimento di parete persi-ste a lungo termine in oltre il 50% dei pazienti, e non deve pertanto essere considerato un segno di attività di malattia [40].Risonanza magnetica (RM) e angioRM Come la TC, anche la RM è particolarmente indicata per studiare le arterie profonde di grosso calibro (aorta e suoi rami), e può essere combinata con l’angioRM per valu-tare sia le alterazioni di parete che del lume vasale. I segni RM caratteristici del coinvolgimento vasculitico dei grossi vasi includono l’edema parietale nelle sequenze T2 pesate, l’enhancement post-contrastografico nelle sequenze T1 pesate e l’ispessimento circonferenziale della parete del vaso [33]. La RM può essere usata anche per valutare le arterie temporali [41].Tomografia a emissione di positroni (PET) con fluorodesos-siglucosio (FDG)Il segno PET caratteristico del coinvolgimento dei grandi vasi in corso di GCA è l’ipercaptazione con pattern lineare e continuo del FDG a carico delle arterie coinvolte (Figura 3). La captazione vasale del FDG può essere valutata in modo semiquantitativo confrontandola con quella del fegato: grado 0 assenza di captazione vasale, grado 1 capta-zione vasale inferiore, grado 2 uguale e grado 3 superiore a quella epatica [33]. In pazienti non trattati, i gradi 2 e 3 sono generalmente considerati abbastanza specifici per vasculite attiva, mentre il grado 1 (e raramente anche il grado 2) possono essere osservati in arterie affette da aterosclerosi. Inoltre, mentre nelle vasculiti il pattern di ipercaptazione vascolare del FDG e continuativo e lineare, nelle lesioni ate-rosclerotiche e irregolare e discontinuo [33]. La PET ha una sensibilità del 80-90% ed una specificità del 89-98% per la diagnosi del coinvolgimento dei grossi vasi in corso di GCA [42, 43].

Terapia

La maggior parte dei pazienti con GCA risponde rapida-mente ad una dose iniziale di 40-60 mg/die di prednisone (o di un suo equivalente). In caso di mancata risposta, la dose deve essere incrementata [44]. La terapia steroidea è in grado di controllare i sintomi e di prevenire le complicanze ischemiche di malattia, compresa la cecità. Va tuttavia ricor-dato che una volta instauratesi, le complicanze ischemiche di malattia sono irreversibili [45-47]. La terapia steroidea va pertanto iniziata rapidamente e a dosi adeguate nel sospetto di GCA. I pazienti con cecità monolaterale sono ad elevato rischio di cecità bilaterale e vanno immediatamente trattati con prednisone 1 mg/kg/die, preceduto, quando possibile, da 3 boli endovenosi di metilprednisolone 1000 mg som-ministrati in 3 giorni consecutivi. La dose iniziale di ste-roide va mantenuta per 2-4 settimane e comunque fino alla risoluzione dei sintomi e alla normalizzazione degli indici di flogosi. Raggiunta la remissione lo steroide va ridotto ogni 1-2 settimane di non oltre il 10% del dosaggio gior-naliero. In caso di recidiva di malattia la dose di steroide è generalmente riportata a quella precedente la recidiva [44].

Figura 2

Figura 3

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La durata della terapia steroidea è variabile, e oltre la metà pazienti riesce a sospendere lo steroide dopo 1-2 anni di terapia [48-50]. Le complicanze secondarie alla terapia ste-roidea sono molto frequenti nei pazienti con GCA (86% dei pazienti) a sono correlate all’età e alla dose cumulativa di steroide [50]. Una adeguata terapia con calcio, vitamina D e bifosfonati deve essere prescritta a tutti i pazienti con GCA insieme alla terapia steroidea.

L’aggiunta del metotrexato alla dose di 7.5-15 mg la setti-mana alla terapia steroidea riduce del 35% il rischio di una prima recidiva e del 51% il rischio di una seconda recidiva di malattia, oltre a ridurre il dosaggio cumulativo di steroide. Tuttavia l’efficacia del metotrexato diventa evidente solo dopo 24-36 settimane di terapia e non è in grado di ridurre il rischio delle complicanze secondarie alla terapia steroidea [51]. L’azatioprina al dosaggio di 2 mg/kg/die ha mostrato un modesto effetto steroido-risparmiatore nei pazienti con GCA [52]. I farmaci biologici anti-TNFalfa infliximab e adalimumab non si sono dimostrati efficaci nei pazienti con GCA di nuova diagnosi [53,54], mentre l’etanercept ha mostrato solo un modesto effetto steroido-risparmiatore in pazienti con GCA con complicanze secondarie alla terapia steroidea [55]. L’uso dei farmaci anti-TNFalfa non è per-tanto raccomandato nella GCA.

Il tocilizumab, un farmaco biologico anti-recettore dell’IL6, si è recentemente dimostrato efficace rispetto al placebo nell’indurre la remissione di malattia (85% vs 40% alla 12 settimana) e nel ridurre la dose cumulativa di ste-roide in pazienti con GCA [56]. L’efficacia a lungo termine del tocilizumab non è tuttavia ancora nota e uno studio osservazionale ha riportato una elevata frequenza di reci-diva di malattia alla sospensione del farmaco [57]. Il ruolo di basse dosi di acido acetilsalicilico (75-150 mg/die) nel prevenire le complicanze ischemiche secondarie alla GCA è ancora controverso [58].

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

Le vasculiti idiopatiche dei piccoli vasi comprendono tre forme sistemiche, la Poliangioite Microscopica (MPA), la Granulomatosi con Poliangioite (GPA) e la Granuloma-tosi Eosinofila con Poliangioite (EGPA), e la Poliangioite Microscopica limitata al rene. L’80-90% dei pazienti presenta a livello sierico anticorpi diretti verso costituenti citoplasmatici dei granulociti neu-trofili (ANCA). Gli ANCA hanno un ruolo patogenetico fondamentale nella malattia. Si tratta di anticorpi diretti verso due princi-pali antigeni rappresentati dalla mieloperossidasi, una pro-teina cationica contenuta negli granuli primari dei granulo-citi neutrofili e nei lisosomi dei monociti (MPO-ANCA), e dalla proteinasi 3, una serin-proteinasi ad attività proteoli-tica (PR3-ANCA). Gli MPO-ANCA sono prevalentemente rilevabili nelle Granulomatosi con Poliangioite (78-80% dei casi), la Granulomatosi Eosinofila con Poliangioite (circa il 50% dei pazienti) e la Poliangioite Microscopica limitata al rene (90%). I PR3-ANCA sono più frequentemente deter-minabili nelle Granulomatosi con Poliangioite (circa l’80% dei casi).Ci sono evidenze che l’assetto sierologico abbia un forte condizionamento genetico ed identifichi due profili clinici differenti, le vasculiti PR3-ANCA-associate presentando una maggiore suscettibilità alla recidiva.

Il quadro clinico è prevalentemente caratterizzato da un’in-sufficienza renale a rapida progressione associata a micro-ematuria, con cilindruria eritrocitaria all’esame del sedi-mento urinario e proteinuria generalmente non nefrosica. Il coinvolgimento sistemico include sintomi a carico di apparato respiratorio, cute, articolazioni, muscoli, apparato gastroenterico e sistema nervoso periferico.Il rene è l’organo più accessibile alla valutazione istologica, fondamentale per la formulazione diagnostica, il giudizio prognostico e la decisione terapeutica.

Istopatologia renale

In microscopia ottica il quadro istologico è comune nelle diverse forme di VAA ed è rappresentato da una glomeru-lonefrite necrotizzante ed extracapillare con formazione di

semilune.Le semilune, segmentarie o circonferenziali, possono pre-sentarsi in diverse fasi evolutive. Il danno può variare da isolate aree di necrosi del flocculo, nelle fasi iniziali, fino a necrosi con proliferazione extracapillare di tipo circonfe-renziale nelle forme conclamate.I glomeruli non coinvolti dal processo infiammatorio e le aree di flocculo senza segni di capillarite non presentano in microscopia ottica segni di proliferazione mesangiale o alterazioni della membrana basale come invece accade nella forma da anticorpi anti-membrana basale. È presente una infiltrazione leucocitaria sia a livello glome-rulare che interstiziale.L’infiltrazione leucocitaria si localizza tipicamente in sede periglomerulare e si associa spesso alla rottura della capsula di Bowman. Quando l’infiltrazione è massiva si possono riscontrare aspetti simil-granulomatosi periglomerulari. Questi aspetti possono essere riscontrati, ancorchè con maggiore intensità e frequenza nella granulomatosi con poliangioite, in tutte le forme di vasculite ANCA-associata.Un certo grado di infiltrazione interstiziale di cellule mono-nucleate, costituita da linfociti T e B e monociti-macrofagi è costante. I granulociti neutrofili costituiscono una compo-nente meno rilevante.Nei casi di infiltrazione massiva è possibile osservare un danno tubulare con perdita del brush border.In meno del 20% dei casi possono essere presenti arteriti necrotizzanti.Gli aspetti morfologici di base della microscopia ottica, ad includere le aree di necrosi delle anse capillari, la pro-liferazione extracellulare, l’infiltrazione periglomerulare ed interstiziale, l’arterite necrotizzante, quando presente, sono simili nelle diverse forme, sebbene la presenza di veri gra-nulomi interstiziali, ancorchè relativamente rara, sia carat-teristica della GPA o della EGPA, ed il riscontro di infiltra-zione interstiziale eosinofila delle EGPA.Il coinvolgimento renale nella GPA si associa ad un’infiam-mazione necrotizzante di tipo granulomatoso a carico delle alte e basse vie respiratorie.Nel caso dell’EGPA gli aspetti istologici principali sono costituiti da granulomi (presenti nel 18% dei casi), infiltrati eosinofili a livello renale (52%) e vasculite necrotizzante dei

Vasculiti dei piccoli vasi

Dario Roccatello, Michela Ferro, Giacomo Quattrocchio, Roberta Fenoglio, Daniela Rossi, Savino SciasciaStruttura Complessa Universitaria di Nefrologia e Dialisi & CMID, Centro Multidisciplinare di Ricerche di Immunopatologia e Documentazione su Malattie Rare, Coordinamento della Rete Interregionale per le Malattie Rare del Piemonte e della Valle d’Aosta, Ospedale Giovanni Bosco e Università di Torino

© SIMI 2017

RELAZIONI - Vasculiti

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

piccoli vasi (55%).Nella MPA in associazione al quadro di glomerulonefrite necrotizzante è spesso rilevabile una capillarite con necrosi fibrinoide a carico del polmone. Non si riscontrano lesioni francamente granulomatose.Il gruppo di studio europeo sulle vasculiti (EUVAS – Euro-pean Vasculitis Study Group) ha proposto una classifica-zione istopatologia delle vasculiti ANCA-associate basata dell’estensione e le caratteristiche delle lesioni in microsco-pia ottica. Questa classificazione definisce quattro categorie con diverso coinvolgimento glomerulare: focale (meno del 50% dei glomeruli colpiti), “crescentica” (più del 50% dei glomeruli con semilune cellulari o fibrocellulari), sclerotica (oltre il 50% dei glomeruli con sclerosi globale) e mista (< 50% dei glomeruli colpiti, < 50% glomeruli con crescents, < 50% dei glomeruli con sclerosi globale). Le diverse classi sono state correlate con l’outcome renale a 1 e 5 anni e rap-presentano un fattore predittivo indipendente. A 5 anni i pazienti con forma focale presentano una sopravvivenza renale del 93%, quelli con forma “crescentica” del 76% e quelli con forma sclerotica del 50%.L’immunofluorescenza è per definizione caratterizzata dalla scarsità di depositi di immunoglobuline. È possibile il riscontro C3. In passato ritenuto aspecifico, questo rilievo sta acquisendo dignità patogenetica. Nelle lesioni glomeru-lari attive sono evidenziabili depositi di fibrina.L’esame ultrastrutturale non evidenzia depositi elettrondensi di immunocomplessi. Consente tuttavia di riconoscere alcuni aspetti morfologici caratteristici delle glomerulone-friti proliferative necrotizzanti, quali i gap della membrana basale glomerulare, la rottura della capsula di Bowman e la presenza di monociti-macrofagi nelle semilune.

Altri danni d’organo

Cute. La cute è colpita in tutte le forme di micropoliangio-ite primitiva sistemica ANCA-associata. Le manifestazioni più comuni sono: porpora, papule, lesioni vescico-bullose, ulcere, lesioni necrotizzanti. Queste lesioni sono partico-larmente localizzate agli arti inferiori. I granulomi extrava-scolari necrotizzanti, cosiddetti granulomi di Churg Strauss sono noduli della superficie estensoria del gomito osserva-bili nella GPA ed anche EGPA, in questo caso caratterizzate da un’infiltrazione eosinofila.Nella GPA ulcere digitali possono far seguito ad un’infiam-mazione delle arterie digitali di calibro medio.Tratto respiratorio superiore. Circa il 90% dei pazienti con GPA hanno un coinvolgimento naso-sinusale con persistente rinorrea, con croste ematiche, perforazione del setto con deformazione a sella del naso nei casi di maggiore compromissione. È anche frequente una severa sinusite con possibili lesioni ossee. Nel caso della MPA, la rinite è soli-tamente modesta così come i casi di sinusite che non ha mai carattere destruente. Nella EGPA dominano la poliposi nasale e la rinite allergica.Nella GPA e nella EGPA sono rilevabili ipoacusie da

conduzione, secondarie a flogosi dell’orecchio medio e neurosensoriali.Severi quadri di otite media sono anche stati descritti nella MPA. Sono relativamente frequenti nelle micropoliangioite sia a fenotipo granulomatoso che non gengivopatie (cosid-dette strawberry gums) ed ulcerazioni dei segmenti poste-ro-laterali della lingua.In corso di Granulomatosi Poliangioite sono rilevabili stenosi subglottiche, sequele di infiammazione tracheale.Occhio. Nella GPA le lesioni di interesse oftalmologico sono numerose: pseudo-tumore retro-orbitario che può indurre una proptosi con perdita del visus per effetto della compressione dei vasi responsabili della perfusione del nervo ottico, sclerite con fotofobia e dolore, a rischio di evolvere in scleromalacia perforante, cheratite. Episclerite e congiuntivite rappresentano manifestazioni meno severe, ma assai più comuni. Relativamente frequente è l’ostruzione del canale lacrimale. Sono rilevabili nella MPA: episcleriti, congiuntiviti, cheratiti ed occasionalmente scleriti, sebbene meno frequentemente che nella GPA.Sistema Nervoso Periferico. La manifestazione caratte-ristica del sistema nervoso in corso di micropoliangioiti ANCA-associate è rappresentata dalla mononeurite mul-tipla caratterizzata da multipli infarti di nervi periferici secondari ad una vasculite dei vasa nervorum con sintoma-tologia sensitivo-motoria.Due tipiche caratteristiche cliniche sono: la simmetria e la asincronia. L’insorgenza del sintomo, al contrario di altre manifestazioni polineuropatiche, rimane impressa nella memoria del paziente che spesso ricorda il momento in cui si è verificato il cedimento del piede o del polso. I pazienti hanno quasi invariabilmente anomalie sensitive (intorpidi-mento, formicolii o altre forme di disestesia “a calza” o “a guanto”). Frequente sequela è l’ipotrofia muscolare.Il recupero può richiedere molti mesi, spesso con residui irreversibili di danno nervoso.Tutte le micropoliangioiti ANCA-associate possono pre-sentare mononeuriti multiple anche devastanti, nella gra-nulomatosi micropoliangioite sono un po’ meno frequente-mente che nelle altre due forme. La neuropatia vasculitica è particolarmente frequente nella EGPA con prevalenza vicina all’80%. Infarti nervosi possono avvenire anche setti-mane dopo ad un trattamento adeguato.Nella MPA sono stati descritti casi di neuropatie delle piccole fibre che si estrinsecano clinicamente con intorpidi-mento e dolore. La diagnosi non si può avvalere degli studi fisiologici ma della valutazione della densità delle piccole fibre identificate con specifiche colorazioni in tessuto biop-tico cutaneo.Sistema Nervoso Centrale. È stato descritto un coinvolgi-mento del parenchima cerebrale nella GPA, ma manifesta-zioni più tipiche sono legate ad un’infiammazione granulo-matosa delle meningi.Apparato Gastroenterico. Nella GPA e nella MPA sono stati descritti casi di vasculite mesenterica, da interessa-menti di vasi di calibro medio.

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

Cuore. Sono stati riportati casi di pericarditi e di lesioni valvolari in corso di GPA. Il cuore è una comune causa di morte nella EGPA in cui l’interessamento cardiaco è carat-terizzato da un’insufficienza cardiaca congestizia o più rara-mente artrite coronarica o anomalie valvolari.Sistema muscolo-scheletrico. In tutte le micropoliangioiti ANCA-associate la sintomatologia più frequente è costitu-ita da artralgie non specifiche o franche artriti a carattere migrante più spesso a carattere pauci o monoarticolari delle estremità degli arti. Polmoni. Circa l’80% dei pazienti con GPA presentano un coinvolgimento polmonare con tosse, emoftoe, dispnea e talora dolore toracico di natura pleuritica. I più importanti rilievi radiologici sono rappresentati dagli infiltrati e dai noduli. Gli infiltrati sono spesso confusi come focolai di polmonite. I noduli usualmente multipli, bilaterali e spesso escavati sono frequentemente confusi con tumori polmo-nari. Sovente hanno una localizzazione periferica e, quando cuneiformi possono essere confusi con grossolani emboli polmonari. La capillarite polmonare può provocare emot-tisi. Una significativa stenosi bronchiale, simile alla stenosi subglottica della trachea è più comune nell’età evolutiva rispetto ai pazienti adulti. In presenza di dolore toracico e dispnea va considerata l’infrequente possibilità di un’em-bolia polmonare. Occasionalmente, infatti, la propensione della malattia ad interessare la circolazione venosa si estrin-seca in trombosi dei vasi venosi profondi.La principale manifestazione polmonare della MPA è la capillarite che comporta emorragie alveolari polmonari con emottisi. Aree di fibrosi polmonari simili a polmoniti interstiziali possono costituire le sequele di episodi alveo-lari emorragici. Più del 90% dei pazienti con EGPA hanno una storia di asma che può insorgere sia in età adulta che presentarsi in forma aggravata dopo una storia di sintomatologia asma-tica datata. L’asma può migliorare sostanzialmente anche prima dell’istituzione di un trattamento specifico della vasculite. A trattamento stabilizzato può, al contrario, per-sistere in forma steroido-dipendente. Nelle fasi iniziali della malattia sono presenti estese infiltrazioni di eosinofili degli alveoli e degli interstizi. Nella fase conclamata di malattia possono essere presenti aspetti di vasculite necrotizzante granulomatosa.

Diagnosi

La biopsia renale, in associazione ai dati clinici e sierologici, rappresenta un elemento indispensabile per la diagnosi. L’accertamento bioptico fornisce altresì importanti infor-mazioni prognostiche, consentendo di quantificare l’entità del danno ed il grado di attività delle lesioni, ed importanti indicazioni di approccio terapeutico.

Diagnosi differenziale delle sindromi rene-polmone

Le condizioni patologiche coinvolgenti simultaneamente

i parenchimi renale e polmonare – le cosiddette sindromi rene-polmone includono: granulomatosi con poliangioite, micropoliangioite, granulomatosi eosinofila con poliangio-ite, LES, crioglobulinemia mista essenziale, vasculite IgA, connettivite indifferenziata, artrite reumatoide, patologie infettive tipo polmonite da Pneumocystis jiroveci e varie forme di polmonite comunitaria.La distinzione tra sindrome di Goodpasture e vasculite può essere particolarmente difficoltosa nei pazienti con doppia positività degli anti-GBM e degli ANCA e in questi casi l’ac-certamento bioptico risulta pressoché irrinunciabile.Le sindromi rene-polmone sono meno comunemente asso-ciate alla vasculite IgA e alla crioglobulinemia.

Terapia

La terapia di induzione della remissione prevede l’utilizzo, in combinazione, di steroidi per os (prednisone alla dose ini-ziale di 1 mg/die), spesso preceduti da alte dosi di metilpre-dnisolone (7-15 mg/kg IV per 3 giorni), immunodepressori (Ciclofosfamide IV alla dose di 0.5-1 g/mq/mese per 6 mesi o per via orale alla dose di 2 mg/kg/die adattato al grado di contrazione funzionale e la risposta leucopenizzante) ed in caso di grave coinvolgimento polmonare con emor-ragia alveolare, plasmaferesi (5-7 procedure con scambio di almeno 1 volume plasmatico). Questo trattamento ha drammaticamente migliorato la prognosi delle vasculiti ANCA-associate, sebbene una consistente percentuale di pazienti rispondano in maniera parziale o recidivino entro 3-5 anni. Di più, una minoranza non irrilevante di pazienti risultano refrattari alla terapia convenzionale o sviluppano intollerabili effetti collaterali dose-dipendenti. Non è infre-quente che i pazienti sottoposti a terapia immunosoppres-siva convenzionale sviluppino una tossicità cumulativa che aggiunge ai danni della malattia in sé gli effetti avversi delle terapie, specialmente in caso di recidiva (ciò che comporta un incremento della dose dei farmaci). Persino nei pazienti che vanno in remissione con il trattamento di induzione, la qualità della vita risulta spesso compromessa dagli effetti talora devastanti delle terapie convenzionali. L’infertilità e l’insorgenza di tumori nel paziente di giovane età (par-ticolarmente nei trattamenti prolungati), e la leucopenia e le infezioni nei soggetti anziani rendono il trattamento immunosoppressivo convenzionale poco attrattivo. L’impiego del metrotrexate, utile in assenza di coinvolgi-mento renale, è controindicato con valori di creatinina superiori a 1.5 mg/dl. Il micofenolato di mofetile (2-3 g/kg/die) può rappresentare una valida opzione alternativa alla ciclofosfamide, ancorchè non rappresenti il gold standard del trattamento di induzione.Il Rituximab, anticorpo monoclonale chimerico genetica-mente ingegnerizzato che lega il CD20, è stato inizialmente considerato come terapia opzionale delle micropoliangioiti sistemiche nel tentativo di identificare trattamenti efficaci per i pazienti refrattari o intolleranti alle terapie convenzio-nali. Numerosi studi aperti ne hanno documentato bene-

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

fici effetti clinici quando somministrato in aggiunta ad altri immunosoppressori nei protocolli terapeutici di escalation delle forme refrattarie. In generale, la remissione clinica è stata ottenuta nell’80% dei casi entro 6 mesi. Questo profilo favorevole è stato confermato in uno studio retrospettivo condotto su 65 pazienti con micropoliangioite ANCA-asso-ciata refrattaria alle terapie standard in 4 centri della Gran Bretagna. Si è registrata una remissione completa nel 75% dei casi e parziale nel rimanente 23% dei pazienti. Circa il 60% dei pazienti è stato ritrattato in occasione di una reci-diva. Ha risposto l’84% dei pazienti. Sulla base dei risultati di questi studi aperti sono stati disegnati due studi ran-domizzati controllati intesi a verificare l’efficacia del Ritu-ximab come terapia di induzione rispetto al trattamento convenzionale con ciclofosfamide. Il RITUXVAS (RTX vs ciclofosfamide nella micropoliangioite con interessamento renale ANCA-associata) è uno studio randomizzato con-trollato condotto su 44 pazienti. I pazienti sono stati trat-tati con Rituximab (375 mg/mq, 4 dosi circa settimanali) + boli di metilprednisolone + 2 somministrazioni endove-nose di ciclofosfamide o con ciclofosfamide per os per 3-6 mesi, seguita da azatioprina come terapia di mantenimento. Il tasso di remissione era simile nei 2 gruppi (75 vs 82%) e gli effetti collaterali gravi risultavano comparabili (42 vs 36%) con una mortalità del 18% in entrambi i gruppi. Il Rituximab si dimostrava altrettanto efficace della ciclofo-sfamide con comparabili effetti collaterali. Anche il RAVE (RTX vs ciclofosfamide per pazienti con micropoliangio-ite ANCA-associata) è uno studio randomizzato in doppio cieco di non inferiorità disegnato per comparare la capacità del Rituximab rispetto alla ciclofosfamide di indurre una remissione nei pazienti con micropoliangioite. Sono stati arruolati 197 pazienti. I pazienti del braccio sperimentale venivano trattati con RTX, 375 mg/mq per 4 volte, asso-ciato a boli di metilprednisolone e steroidi a scalare gra-dualmente fino alla sospensione in 6 mesi senza successiva terapia di mantenimento. Quelli del gruppo di controllo venivano trattati con ciclofosfamide seguita da azatioprina come terapia di mantenimento. Il numero di pazienti con nuova diagnosi e quelli con malattia recidivante era simile nei due gruppi. La remissione è stata ottenuta nel 64 e nel 53% dei pazienti trattati rispettivamente con RTX e con ciclofosfamide. Il Rituximab, comparabilmente efficace alle valutazioni di outcome, è risultato superiore alla ciclofo-sfamide nell’indurre la remissione nei pazienti con malat-tia recidivante (67 vs 42% dei pazienti trattati rispettiva-mente con RTX e ciclofosfamide). Non si sono registrate differenze di effetti collaterali con l’esclusione di un più frequente riscontro di leucopenia nei pazienti trattati con ciclofosfamide. Sulla base di questi dati il Rituximab è stato registrato come farmaco biotecnologico elettivo nel trattamento di indu-zione delle GPA e delle MPA.La terapia di consolidamento della remissione tradizionale (definita comunemente terapia di mantenimento) si avvale in primis dell’azatioprina somministrata alla dose iniziale di

1.5-2mg/kg/die o, in alternativa al micofenolato di mofetile (la cui comparabile efficacia nel mantenimento è oggetto di controversia). La durata del trattamento è discussa. La maggior parte degli opinion leader suggerisce 3 anni. Anche il Rituximab è stato efficacemente utilizzato in schemi di mantenimento (con dosi di 0.5-1 g ogni 4-6 mesi), mostrando un’efficacia comparabile o perfino supe-riore all’azatioprina.Peraltro, un’analisi a 18 mesi dello studio RAVE ha dimo-strato che un singolo ciclo di Rituximab è sufficiente a man-tenere i pazienti in una remissione prolungata, senza incre-mento degli effetti collaterali (ad includere le neoplasie) con un tasso di recidive comparabile ai pazienti in terapia di mantenimento con azatioprina. Risultati analoghi sono stati osservati nel follow-up a 24 mesi dei pazienti in Ritu-ximab dello studio RITUXVAS.Il nostro gruppo ha condotto uno studio aperto, specifica-mente indirizzato a valutare la durata degli effetti del RTX nelle micropoliangioiti con o senza fenotipo granuloma-toso. Undici pazienti molto compromessi e clinicamente complessi (7 con coinvolgimento renale), intolleranti o refrattari alle terapie convenzionali sono stati trattati con 4 dosi di 375 mg/mq e 2 ulteriori dosi ad uno e 2 mesi di intervallo senza terapia immunosoppressiva di manteni-mento. Sono state osservate riduzioni significative dell’atti-vità clinica e dei livelli di creatinina sierica e di proteinuria. Nessuno dei pazienti ha mostrato recidive nei successivi 36 mesi di osservazione. L’efficacia del Rituximab nello stabilizzare i pazienti con vasculite ANCA-associata, particolarmente quelli con ANCA-MPO meno suscettibili al rischio di recidiva, sup-porta un atteggiamento terapeutico alternativo nei soggetti efficacemente trattati con Rituximab in fase di induzione. In questi casi alcuni autori suggeriscono il ri-trattamento solo in presenza di ri-popolamento dei linfociti CD20 e contestuale ricomparsa degli anticorpi ANCA.

Biibliografia

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

Riassunto

L’avvento delle terapie cellulari, basate principalmente sull’impiego delle cellule staminali, rappresenta un impor-tante passo in avanti nella terapia ed eventualmente nella cura delle malattie immuno-mediate. In virtù della duplice capacità di rigenerare i tessuti e favorire la tolleranza immu-nitaria, le cellule staminali mesenchimali (MSC) sembrano essere le migliori candidate, anche grazie alla mancanza di immunogenicità che ne consente il trapianto in assenza di un preventivo trattamento immuno-ablativo. A seguito di molti dati sperimentali positivi, negli ultimi anni è stato condotto un numero considerevole di studi clinici in cui le MSC sono impiegate a scopi immunoterapeutici, con risultati promettenti e molti altri sono in corso. Inoltre, la recente disponibilità di preparati industriali pronti all’uso direttamente al letto del paziente colma la lacuna creata dalla necessità di una produzione in loco. Tuttavia, l’im-plementazione clinica di questa nuova strategia terapeutica è ostacolata da alcune difficoltà che necessitano di essere superate.

Parole chiave: Cellule staminali mesenchimali • Malattie immuno-mediate • Rigenerazione tissutale • Studi clinici • Tolleranza immunitaria

Introduzione

Anche se il primo esempio di Medicina Rigenerativa può essere fatto risalire all’origine dell’umanità quando la donna fu creata dalla costola di un uomo, il suo impiego nell’era moderna è ancora minimo. Questo settore della Medicina, che comprende le terapie cellulari, la terapia genica e l’inge-gneria tissutale, è un campo multidisciplinare in grado di

riparare, rimpiazzare e rigenerare (le tre R) tessuti e organi compromessi da malattie, senescenza o difetti congeniti [1]. La convinzione generale è che il ripristino di una funzione sia raggiunto da cellule, tessuti o organi che svolgono quelle specifiche funzioni meglio di qualsiasi composto chimico. Tuttavia, tale straordinario potenziale raramente si è tra-sformato in nuove strategie terapeutiche e, ancor meno, queste sono state adottate dalla comunità medica. Per tale motivo, negli ultimi anni è emersa una discrepanza tra le aspettative dei pazienti e l’interesse generale per la Medi-cina Rigenerativa e il ritardo nella sua applicazione clinica [2], o addirittura il suo uso incongruo [3]. Certamente, alcuni motivi sono riconducibili a fattori esterni, ma alcuni sono attribuibili a noi stessi [4]. In primo luogo, il successo di qualsiasi progetto di ricerca traslazionale risiede nell’e-liminazione delle barriere che separano gli scienziati, i medici, le agenzie di regolazione e gli operatori del settore. In secondo luogo, a seguito della necessità di trasformare la prestazione sanitaria in elemento produttivo e della sempre minore disponibilità di fondi per la ricerca, il tempo che il clinico può dedicare alla ricerca è limitato. I ricercatori, d’altra parte, sono stati costretti ad abbandonare la ricerca translazionale che richiede tempo e risorse, per concen-trarsi su studi che garantiscono la loro pubblicazione. In terzo luogo, le terapie cellulari sono ritenute utili solo per il trattamento di malattie refrattarie o incurabili, in cui non esiste una strategia alternativa. Ci proponiamo, pertanto, di contribuire al superamento di questa visione aumentando la consapevolezza e individuando una serie di punti chiave la cui soluzione potrà accelerare l’impiego delle terapie cel-lulari nella pratica clinica.

Le cellule staminali mesenchimali

Le cellule staminali mesenchimali (MSC) sono cellule sta-minali/progenitrici somatiche in grado di auto-mantenersi e di differenziarsi verso diverse linee cellulari di cui, ini-zialmente, era stato evidenziato il loro straordinario potere rigenerativo [5]. Tuttavia, all’inizio degli anni 2000, è emersa un’inaspettata proprietà che è diventata prevalente, ossia quella immunomodulatoria [6], che ne ha consentito

Le cellule staminali mesenchimali

Rachele Ciccocioppo 1, Giuseppina Cristina Cangemi 2, Martina Pisati 2, Gino Roberto Corazza 2

1 Dipartimento di Medicina, Università di Verona e AOUI Borgo Roma, Verona, Italia.2 Dipartimento di Medicina Interna, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Università di Pavia, Italia.

© SIMI 2017

RELAZIONI - Verso una maggiore appropriatezza terapeutica nelle malattie immunomediate: le cellule staminali mesenchimali

Prof. Rachele Ciccocioppo ()Unità di Gastroenterologia, Università di Verona e AOUI Borgo Roma, Piazzale LA Scuro 10, Verona, Italia.Tel: +39 (0)45 8124466; Fax: +39 (0)45 8027495E-mail: [email protected]

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il loro uso nelle malattie infiammatorie croniche (Figura 1). Proprietà biologiche. A seguito dell’identificazione nel

midollo osseo (MO) da parte di Friedenstein e collabora-tori nel 1976 [7], le MSC sono state successivamente isolate da diversi tessuti, come il tessuto adiposo, i tessuti fetali, la placenta e il sangue cordonale [8]. Queste cellule sono state anche definite “stromali” in quanto garantiscono la formazione e il funzionamento della cosiddetta “nicchia” delle cellule staminali ematopoietiche necessaria alla loro corretta differenziazione [9]. A causa della mancanza di un marker specifico, il Mesenchymal and Tissue Stem Cell Com-mittee of the International Society for Cellular Therapy ha suggerito i seguenti tre criteri minimi per l’identificazione

delle MSC [10]: - devono aderire alla superfice plastica in coltura; - devono esprimere le molecole di superficie CD105,

CD73 e CD90 e non CD45, CD34, CD14 o CD11b o CD19 e l’antigene di istocompatibilità (HLA)-DR;

- devono differenziarsi in osteoblasti, adipociti e condro-blasti in vitro.

Tuttavia, le MSC sono anche in grado di trans-differenziarsi verso tipi cellulari della linea endodermica, come gli epa-tociti, o ectodermica, come i precursori neuronali [5,11] (Figura 1, pannello di sinistra). Questa straordinaria plasti-cità, unita all’eccellente potenziale di espansione ex vivo, alla capacità di migrare verso tessuti infiammati e di ripararli,

Figura 1. Proprietà biologiche delle cellule staminali mesenchimali che ne supportano l’impiego clinico. Il potenziale terapeutico delle cellule staminali mesenchimali si basa sulle loro capacità di differenziarsi e transdifferenziarsi in varie linee cellulari (pannello di sinistra), e di modulare la maturazione e la funzione di tutte le cellule coinvolte nella risposta immunitaria (pannello di destra; le linee rosse indicano un effetto inibitorio, le linee verdi indicano un effetto stimolatorio). Ciò ha fatto sì che le cellule staminali mesenchimali fossero usate non solo come nuova strategia terapeutica, ma anche come nuovo strumento per studi sperimentali e di tossicità.

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nonché all’assenza di controversie etiche, le rende fruibili per l’applicazione clinica [12]. Inoltre, grazie alla mancata espressione di molecole HLA di classe II e costimolatorie (CD40, CD80, CD86) e al basso livello di espressione degli antigeni HLA di classe I [13], le MSC sono considerate immuno-privilegiate [14], il che ne consente il trapianto anche allogenico in assenza di un preventivo trattamento immuno-ablativo [15].

Proprietà immunologiche. Nell’ultimo decennio, un gran numero di studi ha dimostrato la capacità delle MSC di influenzare la risposta immunitaria sia innata che adat-tativa [16], con l’effetto ultimo di favorire la tolleranza [17] (Figura 1, pannello di destra). Infatti, gli effetti delle MSC conseguono a un riequilibrio del rapporto T-helper 1/2 verso un profilo T-helper 2 [18], favorendo la differenzia-zione di cellule T naïve verso una popolazione di linfociti T regolatori (Treg) [19,20]. Infatti, le MSC sembrano eserci-tare i loro effetti senza differenziarsi in cellule organo-speci-fiche, ma piuttosto attraverso il rilascio di molecole bio-at-tive, quali fattori di crescita, antiossidanti, acidi nucleici e molecole immunomodulatorie [21]. È interessante notare come sia le MSC sia le Treg esprimono la principale mole-cola della tolleranza immunitaria, il fattore di trascrizione forkhead box protein 3 (FoxP)3 [22] e secernono la cito-china immuno-modulatoria transforming growth factor-β [6]. È stato inoltre dimostrato che le MSC hanno la capacità di inibire la proliferazione T-cellulare a seguito di una vasta gamma di stimoli aspecifici [23], e di indurne il blocco del ciclo cellulare nella fase G0-G1 [24]. Infine, attraverso la produzione della molecola HLA di classe I, HLA-G, ini-biscono l’attività citolitica delle cellule NK e delle cellule T CD8+, favorendo l’espressione di un profilo T-helper 2 e l’espansione delle Treg CD4+CD25highFoxP3+ [25,26]. Inoltre, le MSC riducono la produzione del tumour necrosis factor-α [27], una delle principali citochine infiammatorie iperespressa in molte malattie immuno-mediate. Inoltre, le MSC sono in grado di influenzare sia il fenotipo che la fun-zione delle cellule dendritiche, inibendo la differenziazione dei precursori CD34+ e dei monociti CD14+ [28], e inter-ferendo con l’attività delle cellule dendritiche mature [29]. In particolare, l’incubazione di queste ultime con le MSC ne determina il passaggio verso un fenotipo immaturo carat-terizzato da una ridotta espressione delle molecole HLA di classe II e da un aumento della loro attività endocitica, con minore produzione di interleuchina (IL)-12 [29]. Di conse-guenza, risulta compromessa la loro capacità di stimolare la proliferazione dei linfociti T, mentre viene stimolata la produzione di grandi quantità di IL-10 che è fondamen-tale ai fini dell’effetto immunomodulante [30]. Infine, sono disponibili solo poche e non univoche informazioni sugli effetti delle MSC sui linfociti B [31,32]. Infatti, due studi in vitro hanno dimostrato un effetto stimolante sulla pro-duzione delle immunoglobuline [33,34], mentre in uno studio in vivo su un modello animale di miastenia gravis, le infusioni di MSC hanno drasticamente ridotto i livelli

di anticorpi anti-recettore dell’acetilcolina e migliorato i deficit funzionali [35]. Nel complesso, questi risultati sup-portano l’ipotesi che le MSC possono essere utili nel ridurre l’infiammazione e favorire la rigenerazione in tutte quelle condizioni sostenute da un’abnorme risposta immunitaria e caratterizzate da danno tissutale [12].

Applicazioni cliniche

Le malattie infiammatorie croniche sono condizioni alta-mente invalidanti che possono colpire qualsiasi organo e la cui prevalenza ha subito un incremento tale che in un pros-simo futuro raggiungerà livelli epidemici, comportando notevoli oneri sociali ed economici [36]. La loro complessa immunopatogenesi rende difficile un corretto approccio terapeutico e non esiste una cura definitiva. L’uso delle cellule staminali rappresenta, quindi, un’area emergente e le MSC sono favorite. Il loro primo impiego risale alla metà degli anni ‘90 quando sono state utilizzate al fine di favorire l’attecchimento del trapianto in pazienti affette da tumore del seno sottoposte al trapianto autologo di MO [37]. Ciò, ha portato al loro uso nel trapianto allogenico in cui evi-denze successive hanno dimostrato un trend verso una minore prevalenza e gravità di graft-versus-host disease (GvHD) [38]. Al 30 aprile 2017, 719 studi clinici che impiegano le MSC risultavano registrati sul sito Clinical Trial Database (https://clinicaltrials.gov), di cui 149 (20,7%) per condi-zioni immuno-mediate (figura 2, pannello superiore). Tra questi, le principali indicazioni sono rappresentate da: tra-pianto di midollo osseo e GvHD (n = 42), malattie autoim-muni (n = 31, di cui 14 per il diabete di tipo 1), sclerosi multipla (n = 23) e malattie dell’apparato digerente (n = 21). La stragrande maggioranza comprende studi di fase 1, 2, mentre solo una piccola percentuale è di fase 3 o combinata 2/3 (tabella 1). Anche il tessuto di origine delle MSC dif-ferisce (tabella 1), essendo con il setting allogenico quello predominante (57%). Tabella 1. Ovviamente, la possibilità di utilizzare una fonte alloge-nica contribuisce in maniera considerevole al potenziale traslazionale di questa popolazione di cellule staminali [13,14,39], che giustifica il crescente numero di studi clinici registrati negli ultimi anni (figura 2, pannello inferiore). Qui di seguito verranno riportati gli studi in cui le MSC sono state impiegate a scopo immuno-terapeutico e i cui risultati sono disponibili.

Graft-versus-Host Disease Si tratta di una malattia sistemica che colpisce la cute, il tratto gastroenterico, il fegato e i polmoni, e che si sviluppa a seguito di trapianto allogenico di cellule staminali emo-poietiche [40]. Essa origina dalla reazione delle cellule T del donatore con peptidi presentati all’interno delle molecole HLA di classe I o II del ricevente. Ciò comporta l’innesco di una cascata infiammatoria, chiamata “tempesta cito-

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Tabella 1. Origine tissutale e fase di studio dei trial clinici con l’utilizzo di cellule staminali/stromali mesenchimali (MSC) per le patologie immuno-mediate.

Figura 2. Impiego clinico delle cellule staminali mesenchimali nelle malattie immuno-mediate. Il grafico in alto mostra le percentuali dei trials clinici registrati sul sito www.clinicaltrials.gov (al 30 aprile 2017) in cui le cellule staminali mesenchimali sono impiegate come trattamento di malattie immuno-mediate, raggruppati per malattia. Il grafico in basso mostra il numero totale dei trials clinici registrati negli ultimi anni.Abbreviazioni. GVHD: graft-versus-host disease; HSC: cellule staminali ematopoietiche.

ªCombinata= due o più origini di MSC

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chinica”, che causa i processi infiammatori associati alla GvHD acuta [40]. Tuttavia, anche se nella pratica clinica si distinguono le forme acuta e cronica in base all’intervallo di insorgenza, queste rappresentano in realtà un continuum biologico legato all’espansione clonale di linfociti T diretti contro organi bersaglio. A tutt’oggi, la GvHD rappresenta la principale causa di morbilità e mortalità, manifestan-dosi nel 30 ~ 40% dei trapianti di MO [40]. L’impiego delle MSC nella terapia della GvHD si è sviluppato più rapida-mente che per qualsiasi altra patologia immuno-mediata, grazie al case report di un paziente pediatrico con GvHD acuta steroido-refrattaria, che è stato trattato con successo mediante infusione di MO-MSC aploidentiche [41]. Su tale base, sono stati condotti molteplici studi clinici in Europa e negli Stati Uniti [42]. Tra i trial pubblicati, due sono studi multicentrici di fase 2, in cui le infusioni di MSC sono risul-tate efficaci nel trattamento della GvHD acuta, steroido-re-sistente [43,44]. Tuttavia, questo beneficio non è stato con-fermato da uno studio di fase 3 sponsorizzato dalla Osiris Therapeutics Inc. (Colombia, MD, USA), in cui i pazienti sono stati sottoposti a trattamento con un prodotto indu-striale (Prochymal®) [45]. Tale discrepanza può essere spie-gata dalla differenza tra la preparazione di MSC utilizzata in Europa (con risultati positivi) rispetto a quella impiegata in Nord America (con risultati dubbi) in termini di con-dizioni di coltura, numero di passaggi, crioconservazione, selezione dei pazienti (pediatrici rispetto ad adulti) e anche tipo di trapianto (MO, sangue periferico o sangue cordo-nale) [46,47]. Infatti, è probabile che dopo molti passaggi in coltura (come nel caso di produzione industriale) si sia verificata una modificazione epigenetica che ha contribuito alla ridotta efficacia terapeutica [47,48]. È pertanto neces-sario applicare rigorosi criteri di produzione delle MSC e di selezione dei pazienti prima di trarre delle conclusioni. Sicuramente, un vantaggio dell’immunoterapia con MSC rispetto alle altre terapie risiede nella loro capacità di inibire i meccanismi patogenetici pur conservando l’effetto graft-versus-leukemia, necessario per evitare lo sviluppo di tumori primitivi o secondari [49]. Infine, del tutto recente-mente, l’uso delle MSC nella profilassi della GvHD acuta ha ricevuto grande attenzione e un paio di studi ne dimostrano la sicurezza e fattibilità [50,51].

Malattie autoimmuni Il Lupus eritematoso sistemico (LES) è caratterizzato dalla presenza di linfociti B ipereattivi che producono autoanti-corpi diretti contro le proteine legate all’RNA, i fosfolipidi e il DNA nativo, che conducono a disfunzione multiorgano [52]. Il trattamento standard si basa sull’impiego di alte dosi di steroidi, ciclofosfamide, agenti immunosoppressivi e biologici [53]. Sebbene questi farmaci abbiano notevol-mente migliorato la prognosi dei pazienti, un sottogruppo di essi va incontro a severi effetti collaterali, tra cui infe-zioni e tumori maligni, che rappresentano le cause princi-pali di morbilità e mortalità in questa condizione. Pertanto,

un trattamento più efficace e meno dannoso è largamente atteso. Ad oggi, oltre ad alcuni case report, sono stati con-dotti tre studi di fase 2 in Cina che hanno valutato la sicu-rezza e l’efficacia delle MSC nel LES refrattario [54,55,56]. Da sottolineare come l’infusione sistemica di MSC alloge-niche (da midollo o da cordone ombelicale) abbia miglio-rato la citopenia e ridotto l’attività di malattia in 35 pazienti, con un follow-up medio di 21 mesi (range 6-45 mesi) [54]. La remissione clinica è stata accompagnata dall’aumento dei T-reg e da una riduzione del subset T-helper 17. Due pazienti sono morti per recidiva di malattia o per un’infe-zione, mentre non sono stati osservati eventi avversi cor-relati al trapianto. Uno studio successivo di fase 2 è stato condotto su 81 pazienti affetti da nefrite lupica attiva e refrattaria che sono stati trattati con un’infusione endove-nosa di MSC allogeniche da MO o da cordone ombelicale [55]. Complessivamente, il 60,5% (49/81) dei pazienti è andato incontro a remissione di malattia con un follow-up di 12 mesi, ottenendo un notevole miglioramento sia della funzione renale che dell’indice di attività di malattia, nono-stante le dosi di prednisone e farmaci immunosoppressori fossero state ridotte. Comunque, 11 pazienti (22,4%) sono andati incontro a riesacerbazione di malattia entro i 12 mesi, mentre non sono stati osservati eventi avversi corre-lati al trapianto. Un ulteriore studio clinico multicentrico ha valutato la sicurezza e l’efficacia di due infusioni endove-nose di MSC allogeniche da cordone in 40 pazienti con LES attivo e refrattario [56]. L’obiettivo primario era il profilo di sicurezza, mentre gli obiettivi secondari comprendevano la valutazione della risposta clinica e la ricaduta mediante score di attività clinica e indici di funzionalità renale. Il trattamento è stato ben tollerato e non sono stati osser-vati eventi avversi. Tredici pazienti sono andati incontro a remissione clinica e 11 hanno ottenuto una risposta par-ziale, con un significativo miglioramento sia dello score di malattia che della funzione renale. Vale la pena notare la riduzione degli anticorpi antinucleo e anti-DNA a seguito del trattamento con MSC, particolarmente significativa a 3 mesi. Tre pazienti sono andati incontro a ricaduta dopo 9 mesi (12,5%) e quattro dopo 12 mesi (16,7%), suggerendo così la necessità di ripetere le infusioni. Anche in assenza di un gruppo di controllo, i risultati sono considerati pro-mettenti e diversi trial multicentrici, prospettici, in doppio cieco sono attualmente in corso.

La sclerosi sistemica (SSc o sclerodermia) è una patologia autoimmune rara ma progressiva e fortemente invalidante, caratterizzata da infiammazione cronica, vasculopatia ed estesa fibrosi cutanea [57]. Due studi recenti hanno ripor-tato un miglioramento ottenuto in termini di riduzione del numero di ulcere digitali e dell’ispessimento cutaneo a seguito di iniezioni locali di MSC allogeniche in pazienti con grave SSc refrattaria [58,59], in assenza di effetti col-laterali. Anche se questi risultati sono incoraggianti, non possiamo trarre conclusioni definitive a causa del numero limitato di pazienti testati.

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L’artrite reumatoide (AR) è caratterizzata dall’espansione di fibroblasti sinoviali, infiltrazione di leucociti e secre-zione di citochine e proteasi all’interno delle articolazioni, a cui consegue distruzione della cartilagine ed erosione ossea [60]. A seguito di dati sperimentali conflittuali che hanno mostrano un miglioramento [61], nessun effetto [62] o addirittura un peggioramento della malattia [63] nel modello animale di artrite da collagene, i trial sull’uomo sono pressocchè inesistenti. Attualmente, sono in corso solo pochi studi che utilizzano le MSC nel trattamento dell’AR refrattaria e solo uno include un gruppo di con-trollo con placebo. I principali obiettivi sono rappresentati dalla sicurezza e dalla progressione della malattia. Passando al diabete di tipo 1, a seguito di forti evidenze sperimentali relative alla capacità delle MSC di prevenire il danno delle cellule β in entrambi i modelli di malattia [64,65], nonché di prevenire il trasferimento della malattia da parte di cellule T isolate da topi trattati [66], è stato condotto uno studio su pazienti affetti da diabete di tipo 1 di nuova insorgenza in cui infusioni sistemiche di MSC autologhe si sono mostrate efficaci nel bloccare la progressione della malattia e preser-vare la funzione delle cellule β [67].

Malattie dell’apparato digerente Alcune malattie infiammatorie croniche, come la malattia di Crohn (MC) [68], la rettocolite ulcerosa (RCU) [69] e la malattia celiaca [70], colpiscono il tratto intestinale e presentano un’alta prevalenza nella popolazione generale. Queste sono scatenate da un’alterata risposta immunita-ria verso antigeni batterici, dietetici o autoantigeni che si sviluppa in individui geneticamente suscettibili. Obiettivo del loro trattamento è l’induzione e il mantenimento della guarigione mucosale cui conseguono la remissione clinica e il ripristino della funzione intestinale. Per tale motivo, nella MC e nella RCU, terapie aggressive basate sull’uso di immunosoppressori e biologici sono sempre più precoce-mente prescritte, nel tentativo di modificare la storia natu-rale della malattia e migliorare la prognosi dei pazienti [71]. Tuttavia, un’elevata percentuale di pazienti non risponde o perde la risposta a tali terapie, o sviluppa complicanze. Tutto ciò, unitamente a una migliore compresione dei mec-canismi immunopatogenetici, ha spinto la ricerca verso lo sviluppo di un enorme numero di molecole la cui efficacia, sebbene gratificante nei modelli sperimentali, è risultata deludente quando usate nell’uomo [72]. Verosimilmente, il motivo risiede nel fatto che hanno un unico target terapeu-tico, mentre la cascata immunologica che porta alle lesioni è complessa e ridondante. Inoltre, il razionale che sottende il loro impiego terapeutico è quello di bloccare la risposta infiammatoria e non di sviluppare una tolleranza attiva e/o promuovere la rigenerazione dei tessuti. Pertanto, lo sguardo è stato rivolto verso le terapie cellulari, con grandi aspettative nei confronti delle MSC. A tal proposito, oltre al loro effetto immunomodulante su tutte le cellule coinvolte nella risposta immunitaria [16], esse svolgono un ruolo

importante nel processo di guarigione della mucosa inte-stinale, attraverso una serie di meccanismi che compren-dono la protezione sia delle cellule staminali delle cripte [73] che degli enterociti [74], nonché la preservazione della barriera epiteliale [75]. A seguito del beneficio ottenuto con l’impiego delle MSC in modelli murini di colite, sia se som-ministrate per via intraperitoneale [76], endovenosa [77], o localmente [78], sono stati eseguiti diversi trial di fase 1-2 che hanno testato l’uso di MSC da MO o placenta, autolo-ghe o allogeniche, mediante infusioni sistemiche in pazienti con MC refrattaria [79-82]. Certamente, tali studi hanno dimostrato che questo approccio è fattibile e sicuro, oltre che sostanzialmente efficace in quanto la remissione della malattia è stata ottenuta in oltre la metà dei pazienti con un follow-up compreso tra 6 settimane e 24 mesi. Tuttavia, la mancanza di dati endoscopici sulla guarigione mucosale in diversi casi può aver causato una sovrastima del suc-cesso. Da notare che il miglior risultato è stato ottenuto quando sono state eseguite infusioni seriali [82], mentre è stata osservata recidiva nei pazienti che hanno ricevuto solo una o due somministrazioni a breve distanza di tempo [79,81]. Ciò apre la questione sull’emivita o almeno sulla durata dell’effetto terapeutico delle MSC, con conseguente necessità di stabilire la giusta tempistica delle infusioni, che potrebbe dipendere non solo dal setting clinico, ma anche dalla fase della malattia.

Risultati più brillanti sono stati ottenuti a seguito dell’impiego delle MSC attraverso iniezioni locali nella forma fistolizzante di MC. Si tratta di una condizione alta-mente invalidante per i pazienti, a causa della scarsa qualità di vita, e impegnativa per i medici, a causa dell’alto tasso di recidiva [83]. Questa nuova strategia terapeutica ha dato ottimi risultati in termini sia di sicurezza che di efficacia, nonostante siano stati reclutati solo pazienti refrattari alle terapie standard [84-89]. Di rilievo, la recente pubblica-zione del primo studio multicentrico di fase 3, in cui 212 pazienti sono stati reclutati ed assegnati in modo rando-mizzato a ricevere un’unica iniezione locale di una prepa-razione industriale di MSC (Cx601®) o placebo [90]. Senza dubbio, le MSC sono state superiori al placebo nell’indurre la remissione e nel farlo in un tempo più breve. Da sot-tolineare come la disponibilità di un preparato cellulare direttamente al letto del paziente ha rivoluzionato l’ap-proccio a tale strategia terapeutica in quanto fino ad ora la mancata standardizzazione della produzione e la necessità di una Cell Factory avevano ostacolato la sua applicazione clinica nonostante dati sperimentali favorevoli. Altro punto importante è la durata dell’effetto delle MSC che, a un anno, appare superiore [85,87] a quella dei biologici [91], ma se si estende il follow-up a due o cinque anni [92-94], il tasso di recidiva aumenta progressivamente, evidenziando così la necessità di ripetere il trattamento.

A differenza della MC, sono disponibili solo pochissime informazioni sulla RCU, in quanto solo tre pazienti sono stati trattati mediante infusione sistemica di MSC alloge-

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niche con risultati promettenti [80]. Lo stesso vale per la malattia celiaca in cui, nonostante favorevoli presupposti teorici [95] ed evidenze sperimentali [96], non sono ancora disponibili dati clinici. Le due sole pazienti con enteropatia infiammatoria cronica sottoposte a trattamento con MSC sono state un caso di enteropatia autoimmune dell’adulto [97] e uno di malattia celiaca refrattaria [98]. Entrambe sono state salvate da una grave sindrome da malassorbimento mediante infusioni endovenose di MO-MSC autologhe. Ancora una volta, le infusioni seriate si sono dimostrate più utili [98] nell’evitare la ricaduta di malattia e un aumento dei T-reg è stato invariabilmente osservato [85,97,98].

Nel fegato, un certo numero di agenti, come l’obesità, l’alcol, i virus, i farmaci e le sostanze chimiche, è in grado di indurre cirrosi [99], una delle condizioni più diffuse al mondo [36]. Attualmente, il trapianto di fegato è l’unica opzione terapeutica per la malattia epatica in fase termi-nale, anche se vi sono molti ostacoli come la carenza dei donatori, le possibili complicanze chirurgiche, il rigetto e i costi elevati. Inoltre, si registra un progressivo incremento del tasso di mortalità dei pazienti in lista d’attesa che ha raggiunto il 20%. Per tale motivo, le MSC sono state pro-poste come nuova opzione terapeutica anche nella cirrosi, non solo per il loro potenziale di differenziarsi in epatociti [5], ma soprattutto per la loro capacità di spegnere l’infiam-mazione, ridurre l’apoptosi epatocitaria, inibire la fibrosi e migliorare la funzionalità epatica [100]. Ad oggi, oltre ad alcuni studi di coorte o caso-controllo che mostrano risul-tati favorevoli [101,102], sono disponibili tre studi rando-mizzati per un totale di 55 pazienti che sono stati sottoposti a infusione sistemica o locale di MO-MSC autologhe [103 -105]. Mentre la fattibilità e la sicurezza sono state inequi-vocabilmente dimostrate, un miglioramento della funzio-nalità epatica, valutata mediante test biochimici e progno-stici, è stato riscontrato nella maggior parte anche se non in tutti i casi. È probabile che il motivo risieda nella diversità delle cause di danno epatico, della fase di malattia, della dose e della via di somministrazione. Pertanto, attendiamo ulteriori risultati volti a chiarire questi aspetti.

Malattie neurologiche L’immunoterapia mediante MSC rappresenta una nuova frontiera anche nel trattamento di alcune malattie neuro-logiche [106]. Infatti, dopo promettenti risultati ottenuti in modelli sperimentali [107-109], un numero crescente di studi clinici è stato registrato e pubblicato negli ultimi anni. Le malattie più comunemente esaminate sono la sclerosi multipla (SM) e la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). La SM è una malattia infiammatoria cronica demielinizzante che colpisce giovani adulti e conduce a danni progressivi e irreversibili del sistema nervoso centrale [110]. Studi pre-clinici hanno rilevato che i linfociti T-helper 1/17 sono coinvolti nella sua patogenesi [111,112]. La terapia stan-dard è solo parzialmente efficace, soprattutto nella fase pro-gressiva di malattia [113]. La SLA, invece, è una malattia

neurodegenerativa che colpisce selettivamente i neuroni motori del cervello e del midollo spinale, portando così a un quadro clinico progressivo che esita in sintomi bulbari e respiratori [114]. Nessun trattamento è in grado di bloc-care il danno. Finora, 23 studi clinici sono stati registrati, principalmente di fase 1-2, in cui le MSC di diversa origine, somministrate per via endovenosa o intratecale, sono state impiegate nel trattamento della SM. Degni di nota sono i risultati di uno studio di fase 2, in cui sono stati reclutati 10 pazienti con SM e 8 controlli sani, in cui sono state dimo-strate la fattibilità e la sicurezza di un’infusione endovenosa di MO-MSC autologhe, mentre l’efficacia era difficile da valutare, sebbene un miglioramento di alcuni parametri funzionali, come quello relativo al nervo ottico, fosse chia-ramente evidente [115]. In un ulteriore studio, 15 pazienti affetti da SM refrattaria e 19 con SLA progressiva sono stati sottoposti a iniezioni intratecali (n = 20) o endovenose (n = 14) di MO-MSC autologhe [116]. Nel corso dei 6-25 mesi di follow-up non sono stati rilevati importanti effetti avversi acuti o tardivi, bensì si è assistito a una stabilizza-zione clinica o persino a un miglioramento. Da segnalare, la possibile diffusione delle MSC dal sito di iniezione alle meningi, alle radici spinali e al midollo, come evidenziato dalle indagini di imaging. Ancora una volta, sono risultati evidenti un aumento dei T-reg e una riduzione dei linfociti attivati, confermando così la presenza di effetti immuno-modulanti in vivo delle MSC. Per contro, la possibilità di rigenerazione attraverso la differenziazione delle MSC in cellule neuronali o gliali, sebbene teoricamente possibile, è ancora da dimostrare. Questi risultati hanno portato a un rapido aumento dei trial clinici sull’impiego delle MSC in malattie neurologiche.

Prospettive future

Come dimostrato dalla messe di dati clinici presentati, nell’ultimo decennio abbiamo assistito a un aumento pro-gressivo dell’applicazione delle MSC come nuovo agente immuno-modulante. Cosa abbiamo appreso da questi studi? Innanzitutto, le iniezioni di MSC, sia sistemiche che locali, sono sicure [117]. In secondo luogo, queste sem-brano funzionare meglio delle infusioni sistemiche, e l’e-spansione delle cellule T-reg sembra costituirne il princi-pale meccanismo d’azione. In terzo luogo, la sopravvivenza a lungo termine delle cellule è estremamente bassa [118], evidenziando la necessità di ripetere il trattamento. Infine, è emersa una discrepanza tra i risultati incoraggianti otte-nuti in studi preliminari e la mancata conferma in studi controllati. Cosa dovremmo fare per accelerare il poten-ziale traslazionale delle MSC nella pratica clinica? Sicura-mente, molti punti devono essere ancora risolti, tra cui la corretta tempistica del trattamento, la dose ottimale, la via di somministrazione, la necessità o meno di un precedente stimolo citochinico per incrementare l’efficacia delle MSC [119] e forse anche l’appropriata selezione dei pazienti.

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Inoltre, la limitazione dei donatori e l’invasività del pre-lievo quando si utilizzano il MO o il tessuto adiposo come fonti di MSC, hanno fatto sì che l’attenzione venisse rivolta a fonti alternative come la placenta [120]. Un altro quesito riguarda l’influenza del microambiente locale e la gerarchia attraverso cui le MSC agiscono in vivo in differenti situa-zioni patologiche. Un problema aggiuntivo che riguarda l’intestino è l’interazione con il microbiota, che merita studi dedicati. Altri punti in sospeso riguardano se l’efficacia delle MSC è influenzata dal congelamento [48], e se la capacità di migrare e di sopravvivere in organi diversi sia differente. Infine, le divergenze nel quadro normativo tra i diversi Paesi hanno ostacolato lo sviluppo omogeneo delle terapie cellulari [121,122]. Nella maggior parte dei Paesi asiatici, in particolare in Giappone, una politica progressista e la cre-azione di task force dedicate hanno consentito di ottenere l’approvazione per tali terapie in tempi molto rapidi. Ciò ha comportato una grande spinta allo sviluppo sia scientifico che industriale. A tal proposito non possiamo omettere la questione finanziaria, non solo in termini di costi diretti della terapia con le MSC, ma anche di interessi economici che le industrie farmaceutiche potenzialmente perdereb-bero qualora le terapie con MSC entrassero in commer-cio. Nonostante questo complesso scenario, le MSC hanno compiuto costanti passi in avanti verso la loro applicazione nella medicina personalizzata e di precisione. Dobbiamo, dunque, garantire che questo percorso continui e sia frui-bile per un maggior numero di pazienti.

Conflitto di interessi. Gli autori non hanno conflitti di interesse da dichiarare.

Abbreviazioni. AR: artrite reumatoide; FoxP: transcrip-tion factor forkhead box factor; GvHD: graft-versus-host disease; HLA: histocompatibility locus antigen; IL: inter-leuchina; LES: lupus eritematoso sistemico; MC: malattia di Crohn; MO: midollo osseo; MSC: cellula staminale mesen-chimale; RCU: rettocolite ulcerosa; SLA: sclerosi laterale amiotrofica; SM: sclerosi multipla; SSc: sclerosi sistemica; Treg: cellule T regolatrici.

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

Abstract

Numerosi studi hanno messo in evidenza che le cellule sta-minali mesenchimali anche definite “mesenchymal stromal cells” (MSC) possono coordinare la rigenerazione tissutale con un meccanismo paracrino. Tra i fattori liberati dalle MSC sono state recentemente identificate le vescicole extra-cellulari (EV) coinvolte nel trasferimento di lipidi e pro-teine biologicamente attivi e di acidi nucleici. In particolare il trasferimento orizzontale di informazione genetica può modificare il fenotipo delle cellule tissutali danneggiate ed attivare dei programmi rigenerativi. Numerosi studi precli-nici hanno dimostrato la possibilità di riprodurre gli effetti terapeutici delle MSC utilizzando le vescicole da esse deri-vate. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per identificare i meccanismi biologici coinvolti e per definire le potenzia-lità applicative in un contesto clinico delle EV.

Introduzione

Il destino di una cellula è determinato da interazioni dina-miche e coordinate tra diversi fattori che agiscono in un definito microambiente. Le cellule comunicano tra loro tramite interazioni fisiche che comprendono formazioni di membrana a ponte quali i “tunneling nanotubes” e i cito-nemi, e fattori solubili [1-3]. Inoltre nel microambiente la concentrazione di ossigeno, gli stimoli meccanici, e le con-dizioni metaboliche e biochimiche condizionano il feno-tipo e la funzione delle cellule [4,5]. Le cellule staminali in particolare sono estremamente sensibili ai segnali extra-cellulari che giocano un ruolo critico sia nel mantenere la staminalità sia nel coordinare la loro differenziazione. Recentemente è stato dimostrato un importante ruolo delle vescicole extra-cellulari (EV) nella comunicazione inter-cellulare, poiché sono in grado di trasferire diversi tipi di segnale da una cellula ad un’altra [6]. La comuni-cazione vescicolare tra cellule è un meccanismo altamente conservato nell’evoluzione e permette lo scambio di lipidi e proteine biologicamente attive nonché dell’ informazione genetica. Infatti, le vescicole contengono nel loro interno anche acidi nucleici quali DNA, mRNA, long non coding

RNA (lncRNA) e microRNA (miRNA) e li proteggono dalle nucleasi presenti nel citoplasma [7]. Di recente è stato dimostrato che gli acidi nucleici veicolati dalle EV sono in grado di modulare la pluripotenza e la differenziazione delle cellule staminali e la riprogrammazione delle cellule somatiche [8].

In base al meccanismo di formazione le EV liberate da cellule non apototiche possono essere classificate in esosomi, derivanti dalla membrana del compartimento endosomale e microvescicole che si formano per estrusione direttamente dalla membrana cellulare. Tuttavia, a causa dell’esistenza di una sovrapposizione delle caratteristiche di esosomi e microvescicole e data la variabilità del contenuto e del meccanismo di formazione in relazione al tipo cellu-lare, è stato suggerito di usare il termine vescicole extra-cel-lulari che comprende entrambi i due gruppi [9]. Durante il processo di formazione delle EV, lipidi biologicamente attivi, recettori e proteine di superficie restano associati alla membrana delle EV, mentre proteine citoplasmatiche e acidi nucleici vengono inclusi nelle vescicole [10]. L’intera-zione delle EV con la cellula bersaglio permette la fusione con la membrana cellulare e/o la loro internalizzazione con conseguente trasferimento del contenuto vescicolare.

Ruolo delle EV nella biologia delle cellule staminaliRatajczak e collaboratori [11] hanno dimostrato che le

EV, mediante il trasferimento di mRNA e proteine, erano determinanti nel mantenimento della staminalità e della pluripotenza delle cellule staminali/progenitrici ematopo-ietiche. Infatti, le EV delle cellule staminali embrionali sono in grado di riprogrammare i progenitori ematopoietici mediante trasferimento di mRNA e fattori di crescita con un aumento dell’espressione di fattori di pluripotenza quali Nanog, Oct-4 e Rex-1 e di marcatori di cellule staminali ematopoietiche quali HoxB4, Scl e GATA2. Il mRNA era trasferito dalle EV e tradotto in proteina nella cellula reci-piente dimostrando la funzionalità e la capacità del conte-nuto vescicolare di modificare il fenotipo cellulare. In modo simile abbiamo dimostrato il trasferimento orizzontale di mRNA dai progenitori endoteliali a cellule endoteliali quiescenti con conseguente attivazione di un programma angiogenetico [12]. In un successivo lavoro abbiamo dimo-

Le vescicole extracellulari

Giovanni Camussi, Maria Chiara DeregibusDipartimento di Scienze Mediche, Università di Torino, Corso Dogliotti 14, Torino

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RELAZIONI - Verso una maggiore appropriatezza terapeutica nelle malattie immunomediate: le cellule staminali mesenchimali

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strato che le EV derivate dalle cellule staminali mesenchi-mali (MSC) del midollo umano sono in grado di trasferire non solo mRNA funzionali ma anche micro RNA [13,14]. Chen et al. [15] hanno dimostrato che le vescicole derivate da cellule mesenchimali embrionali umane sono ricche di pre-miRNA. È stato suggerito che questi piccoli RNA non associati ad Ago2 siano incapsulati in vescicole ricche di colesterolo in quanto il trattamento con fosfolipasi le rende sensibili all’enzima RNasi. In vitro il trattamento con RNasi III genera miRNA maturi suggerendo che i pre-miRNA, dopo l’incorporazione nelle cellule, possano essere trasfor-mati in miRNA maturi [15]. Noi abbiamo dimostrato che le EV liberate da MSC di midollo osseo umano conten-gono miRNA maturi e che i miRNA presenti nelle EV sono arricchiti nelle vescicole rispetto alle cellule d’origine sug-gerendo una loro specifica compartimentalizzazione [16]. Le EV prodotte dalle cellule staminali presentano diverse proteine specifiche degli “stress granules” [14,16]. Queste proteine comprendono ribonucleoproteine coinvolte nell’ immagazzinamento del RNA quali Stau 1 e 2, TIA, TIAR e HuR, molecole espresse nel nucleo ma anche negli “stress granules” e assenti invece nei “processing bodies”. Inoltre le EV liberate dalle MSC contengono Ago2, una proteina della famiglia argonauta implicata nel trasporto e nella matura-zione dei miRNA [14,16]. I meccanismi di compartimen-talizzazione degli acidi nucleici nelle vescicole sono solo parzialmente noti, tuttavia è stato dimostrato che durante la biogenesi vescicolare Alix, una proteina multifunzio-nale del complesso ESCRT (Endosomal Sorting Complex Required for Transport), si associa ad Ago2, trascinando i miRNA nelle EV [16].

Gli studi del gruppo di Quesenberry hanno messo in evidenza un potenziale ruolo delle EV nella plasticità delle cellule staminali, un argomento ancora dibattuto [17]. In particolare è stata studiata la plasticità delle cellule sta-minali del midollo osseo e la loro capacità di acquisire il fenotipo di cellule polmonari dopo stimolo con EV deri-vate da tessuto polmonare [17,18]. Le cellule del midollo esprimevano mRNA specifici delle cellule del polmone quali la proteina specifica Clara cell, aquaporina-5 e i sur-factanti A-D [19]. In questi studi era dimostrata la capacità delle EV di trasferire mRNA tessuto-specifici nelle cellule midollari inducendone una trans-differenziazione [20]. L’inattivazione del RNA presente nelle EV inibiva le modi-ficazioni epigenetiche osservate nelle cellule del midollo osseo suggerendo un ruolo di non-coding RNA regolatori quali miRNA e lncRN veicolati dalle vescicole. Sulla base di questa evidenza, lo scambio di informazioni genetiche mediato dalle EV è stato indicato come componente fon-damentale del modello proposto da Quesenberry e colleghi di “continuum” nella biologia delle cellule staminali dove il transito nel ciclo cellulare e gli stimoli ambientali sono critici per la differenziazione delle cellule staminali [21].

Ruolo delle EV liberate dalle MSC nella riparazione del danno tissutale

Numerosi studi hanno dimostrato che le MSC derivate da midollo osseo hanno effetto protettivo nel danno renale acuto e cronico [22-27]. Tuttavia l’esiguo numero di MSC individuabili nel tessuto renale dopo la loro somministra-zione e l’aumentata proliferazione delle cellule tubulari nella fase rigenerativa sembrerebbero suggerire piuttosto un effetto paracrino da parte delle MSC sulle cellule residenti sopravvissute al danno, più che un diretto contributo delle MSC nella rigenerazione [26-28]. A differenza delle cellule staminali ematopoietiche, che sono in grado di impiantarsi nel rene [29], le MSC si localizzano solo transitoriamente nel rene danneggiato senza attecchire in modo perma-nente. Humphreys e collaboratori [28] hanno dimostrato che il miglioramento da danno renale acuto indotto dalle MSC è dovuto all’intrinseca capacità delle cellule epiteliali di ripopolare i tubuli danneggiati. Mediante la tecnica di “genetic fate-mapping” questi Autori hanno dimostrato come il meccanismo predominante della riparazione tubu-lare renale dopo danno ischemico è rappresentato dalla de-differenziazione delle cellule tubulari sopravvissute al danno con acquisizione di un fenotipo mesenchimale e dal rientro in ciclo con conseguente proliferazione delle cellule [28,30]. Inoltre Bi e collaboratori [27] hanno dimostrato che il medium condizionato delle MSC ha le stesse capa-cità rigenerative delle cellule nel danno renale acuto. Noi abbiamo messo in evidenza che le EV derivate dalle MSC hanno la stessa efficacia delle cellule d’origine sul recupero morfologico e funzionale del rene in un modello di danno renale acuto [22]. Il ruolo essenziale del trasferimento di RNA dalle MSC alle cellule tubulari renali danneggiate attraverso le EV è stato avvalorato da esperimenti di inat-tivazione del RNA e dalla dimostrazione che mRNA spe-cifico delle MSC umane contenuto nelle EV era funzionale in quanto tradotto in proteine sia in vitro sia in vivo nelle cellule epiteliali murine [22]. Esperimenti che dimostrano il trasferimento mediato da EV di mRNA per il recettore di IGF-1 umano alle cellule murine del tubulo prossimale, seguito dalla sintesi della proteina, hanno fornito una spie-gazione per l’azione rigenerativa delle MSC nonostante l’ esiguo numero di cellule che si localizzano nel rene [31].

L’efficacia delle EV derivate da MSC è stata anche osser-vata in altri modelli di danno renale quali il danno da cispla-tino, dove è stata dimostrata l’attivazione della pathway ERK 1/2 [extracellular signal-regulated kinase] coinvolta nella proliferazione cellule e nella protezione dall’apop-tosi [32]. Nello stesso modello le EV inducevano anche una significativa sopravvivenza dei topi dovuta ad una regolazione positiva di geni anti-apoptotici (Bcl-xL, Bcl2 e BIRC8) e negativa di geni pro-apoptotici (Casp1, Casp8 e LTA) [33]. In un modello murino di “remnant kidney” caratterizzato da sviluppo di insufficienza renale cronica, le EV liberate dalle MSC prevenivano la fibrosi [34]. Il coin-volgimento di un meccanismo paracrino/endocrino nell’ef-fetto rigenerativo indotto dalle MSC ed il coinvolgimento delle EV è stato riportato anche in altri organi quali fegato,

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polmone e cuore. Le EV prodotte da MSC sono state dimo-strate inibire la fibrosi indotta da CCl4 [35] e di favorire la rigenerazione epatica come conseguenza dell’attivazione della pathway dell’interleuchina 6/STAT3 [36]. Zhu e colla-boratori hanno studiato l’effetto delle EV liberate dalle MSC in un modello murino di danno polmonare acuto indotto dall’ endotossina dell’Escherichia coli [37]. Esperimenti di silenziamento dell’mRNA per il fattore di crescita dei che-ratinociti hanno dimostrato che l’effetto protettivo eserci-tato dalle EV era attribuibile al trasferimento di mRNA alle cellule epiteliali alveolari lese [37]. Studi sull’infarto mio-cardico effettuati in un modello murino di danno da ische-mia/riperfusione hanno evidenziato una riduzione delle dimensioni dell’area infartuata dopo somministrazione del terreno condizionato delle MSC [38] contenente EV [39]. Altri studi hanno messo in evidenza come il trasferimento EV-mediato di mRNA per il TGF-beta1 possa contribuire sia all’effetto rigenerativo sia alla proliferazione e attiva-zione dei fibroblasti con conseguente fibrosi [40]. Il ruolo rilevante dei miRNA veicolati dalle EV è stato dimostrato in numerosi studi [14,41,42]. In un modello in vitro di danno da ischemia/riperfusione indotto da riduzione di ATP le EV liberate dalle MSC proteggevano le cellule epiteliali tubulari del rene dall’apoptosi [43]. L’effetto biologico si associava non solo al trasferimento di miRNA con le EV ma anche alla modulazione della trascrizione dei miRNA nelle cellule tubulari renali danneggiate con un aumento di mRNA associati alla riparazione del tessuto renale e una riduzione di quelli associati con l’apoptosi, l’ipossia e la riorganizza-zione del citoscheletro [43]. L’importanza dei miRNA vei-colati dalle EV nelle proprietà riparative delle MSC è stata confermata da un successivo studio in vivo [44]. Infatti, la generazione di EV depletate di miRNA da parte di MSC knockdown per Drosha, enzima coinvolto nella biogenesi dei miRNA, abrogava gli effetti protettivi delle EV in un modello sperimentale di insufficienza renale acuta. Altri studi hanno convalidato il ruolo chiave dei miRNA nell’ef-fetto biologico delle EV. In un modello murino di danno da ischemia/riperfusione i miRNA contenuti nelle EV liberate dai progenitori endoteliali erano in grado di avviare un pro-cesso riparativo del tessuto renale mediante la riprogram-mazione delle cellule renali residenti [45].

In un modello murino di ipertensione polmonare indotta con monocrotalina, dove le cellule endoteliali pro-genitrici di origine midollare hanno un ruolo rilevante nella patogenesi del danno, Aliotta e collaboratori [46] hanno dimostrato che le EV derivate dalle MSC ne contrastavano l’effetto inibendo l’ipertensione polmonare. Inoltre, esperi-menti in vitro e in vivo hanno dimostrato che le EV liberate dalle MSC erano in grado di contrastare il danno prodotto dall’irradiazione sulle cellule staminali del midollo osseo del topo [47]. È stato anche dimostrato che le EV derivate dalle MSC sono capaci di stimolare la miogenesi e l’angio-genesi favorendo la rigenerazione muscolare con un mec-canismo almeno in parte mediato dal trasferimento del

miR-494 [48]. Altri miRNA veicolati dalle EV quali il miR-133b e il miR-221 sono stati implicati rispettivamente nella rigenerazione dei neuriti [49] e nell’effetto cardioprotettivo [50]. Recenti studi hanno caratterizzato in modo esteso il contenuto di miRNA, i possibili target, nonché il prote-oma delle EV derivate dalle MSC, nel tentativo di correlare il contenuto molecolare con gli effetti biologici dei diversi subset di vescicole [51,52].

Conclusioni

Le EV, trasferendo il loro contenuto biologicamente attivo di lipidi, proteine e acidi nucleici, possono riprogrammare le cellule recipienti attivando processi rigenerativi. In par-ticolare l’attività biologica delle EV è legata al trasferimento di fattori trascrizionali e di fattori capaci di regolare la tra-slazione come gli RNA non codificanti. Attraverso questi meccanismi molecolari le EV derivate dalle MSC contribu-iscono all’effetto paracrino di queste cellule nella rigenera-zione tissutale. Numerosi studi preclinici suggeriscono la possibilità di mimare l’effetto terapeutico delle MSC con la somministrazione di EV. Sono necessari tuttavia ulteriori studi per definirne i meccanismi d’azione, la bio-distribu-zione, la bio-sicurezza e le condizioni di produzione GMP su larga scala prima di pensare ad una potenziale applica-zione clinica.

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Nuova definizione e criteri diagnostici della sepsi Uno dei compiti più ardui del clinico è riconoscere il paziente con sepsi, in particolare quando essa si manifesta in un con-testo di elevata complessità per età avanzata, multimorbilità, immunodeficit. Nel 2016, un gruppo di esperti, formato da intensivisti, infettivologi, pneumologi e chirurghi, ha stilato nuove definizioni e nuovi criteri diagnostici della sepsi e dello shock settico. La sepsi viene oggi riconosciuta come una disfunzione di uno o più organi, potenzialmente mortale, causata da una risposta disregolata dell’ospite ad un’infezione. La disfunzione d’organo viene valutata mediante calcolo del punteggio SOFA (Sequential o ‘Sepsis-related’ Organ Failure Assessment). Un aumento di 2 punti di questo score in un soggetto già ospedalizzato o uno score ≥2 in un soggetto – ancorchè polipatologico – che in precedenza non presentava alcuna franca disfunzione d’organo potenzialmente letale viene considerato diagnostico di sepsi se si associa ad altri segni o sintomi o rilievi che fanno sospettare la presenza di una infezione. Secondo questo paradigma, l’infezione rappresenta dunque solo l’innesco della sepsi, nella quale è l’organismo il protagonista ed allo stesso tempo il bersaglio. Poiché il SOFA incorpora dati di laboratorio di non imme-diato ottenimento, i nuovi criteri diagnostici della sepsi pre-vedono l’utilizzo, in reparti diversi da quelli di area critica e nel setting extra-ospedaliero, di un punteggio semplificato ed eminentemente clinico, fondato sull’esame obiettivo gene-rale iniziale (‘prime impressioni’), cardiorespiratorio e neu-rologico. Su questa base, viene calcolato il punteggio qSOFA (quickSOFA o SOFA rapido), cha va da 0 a 3 e si computa verificando l’assenza (0 punti) o la presenza (1 punto) di tachipnea (frequenza respiratoria ≥22 atti/min), ipotensione sistolica (PAs ≤100 mmHg) e turbe de novo dello stato di coscienza (qualsiasi Glasgow Coma Scale score <15). Se ne deduce che in un soggetto con comprovata infezione, o in cui sussiste il sospetto di infezione (ad es. paziente nel quale sono stati eseguiti esami colturali o per il quale si ritiene indicata la somministrazione di antibiotici), la presenza di un qSOFA ≥2 consente di porre la diagnosi di sepsi. D’altronde, viene raccomandato di escludere la presenza di un’infezione nei (numerosi) ammalati che presentano, a domicilio o in reparto di degenza, un qSOFA ≥2. È opportuno sottolineare come un

qSOFA ≥2 non autorizzi nella maniera più assoluta a instau-rare automaticamente un trattamento antibiotico. Molto più adeguatamente, in tali condizioni è necessario impostare un corretto iter diagnostico volto a dimostrare la reale presenza dell’innesco, cioè dell’infezione batterica o fungina.

Elementi sui quali porre il sospetto diagnostico d’infe-zione e sepsi

Da sempre, la febbre è stata considerata la manifestazione cardinale d’infezione, ed è stata spesso utilizzata quale sur-rogato di sepsi. In realtà, la febbre è una risposta poten-zialmente protettiva dell’organismo ad una serie di stimoli pirogeni (esogeni ed endogeni) che si attivano in presenza di infezione batterica o fungina, ma anche virale, o protozo-aria, e in presenza di malattie di natura non infettiva, quali neoplasie (soprattutto ematologiche), malattie autoimmuni sistemiche e malattie autoinfiammatorie. La febbre non è pertanto un marcatore specifico d’infezione/sepsi. D’altro canto, essa non è nemmeno un marcatore sensibile, potendo essere assente in pazienti con sepsi conclamata.

L’ipotensione è un’altra possibile modalità di presenta-zione della sepsi e, in particolare, dello shock settico. Essa s’instaura a seguito dell’attivazione di sistemi di vasodilata-zione periferica mediati per lo più da molecole endogene. L’ipotensione è tuttavia condizione di frequente riscontro in medicina clinica ed è presente in numerosi altri stati fisio-patologici, quali l’insufficienza cardiaca, l’ipovolemia, la disidratazione (anche conseguente a febbre, diarrea o ipo-dipsia), o per l’effetto di farmaci ipotensivanti. Queste cause di ipotensione posso coesistere con una sepsi, o la sepsi può complicare tali condizioni.

Le altre componenti della sindrome da risposta infiam-matoria sistemica (SIRS) sono similmente di frequente riscontro, ma anche del tutto aspecifiche. La presenza di anomalie della conta leucocitaria, così come un aumento della frequenza cardiaca o della frequenza respiratoria, sono reperti clinico-laboratoristici oltremodo frequenti nel paziente ospedalizzato.

Si comprende pertanto come le manifestazioni cliniche sulla base delle quali viene classicamente posto il sospetto

Conoscere per riconoscere. La sepsi in Medicina: bastano nuove definizioni  per definire un nuovo paradigma di cura?

Emanuele Durante MangoniDipartimento di Internistica Clinica e Sperimentale, Università della Campania ‘L. Vanvitelli’ e UOC Medicina Infettivologica e dei Trapianti, AORN Ospedali dei Colli-Ospedale Monaldi, Napoli

© SIMI 2017

RELAZIONI - Sepsi e shock settico

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diagnostico di infezione e quindi di sepsi siano poco sen-sibili e specifiche, perché possono non essere presenti nel malato settico, o possono essere presenti in assenza di sepsi. Ciò ha stimolato la ricerca di marcatori bioumorali di infezione/sepsi che possedessero un’elevata capacità discri-minatoria tra stati infiammatori o reazionali non infettivi e sepsi batteriche o fungine. Tra i biomarcatori studiati vi sono proteina C reattiva, procalcitonina, neutrofili iposeg-mentati, lattati, interleukina-6, brain natriuretic peptide, troponina, copeptina, adrenomedullina. Essi hanno in generale una variabile specificità e possono essere normali o solo di poco elevati in presenza di infezione/sepsi. Alcuni

di essi sono proposti invece principalmente come indicatori di disfunzione d’organo. Le principali proprietà dei diversi marcatori bioumorali della sepsi sono riassunte in Tabella 1.

Ruolo della diagnostica microbiologica

La prova principale che il paziente con sospetta sepsi o shock settico è effettivamente portatore di un’infezione si basa sulla dimostrazione della positività di colture batteriche o fungine. La Tabella 2 elenca le colture che è possibile e necessario otte-nere in pazienti con sospetta sepsi o shock settico.

Nella pratica clinica, nel corso dei primi 15-30 minuti

Tabella 1. Valore diagnostico dei principali marcatori bioumorali della sepsi

Sensibilità Specificità Commenti Proteina C reattiva Intermedia Bassa

Cinetica di incremento e riduzione più lenta. Riflette sia infezione che risposta dell’ospite. Elevata in trauma, chirurgia, infezioni, flogosi autoimmunitarie, cancro.

Neutrofili iposegmentati Bassa Bassa Economico e pratico. Poco valido negli immunocompromessi o in pazienti in trattamento con steroidi.

Procalcitonina Alta

Medio-Alta

Elevata in infezioni da bacilli Gram-negativi, meno in quelle da Gram-positivi. Normale in infezioni virali. Aumenta poco in infezioni fungine, ma può essere elevata nell’aspergillosi invasiva. Livelli plasmatici costantemente elevati durante la sepsi, aumento più tardivo nei neutropenici. Più utile della PCR nella DD fra sepsi e SIRS, ma può aumentare nel trauma. Ha migliore valore prognostico la cinetica piuttosto che un singolo valore. I livelli plasmatici correlano con l’evoluzione peggiorativa della sepsi e si normalizzano più rapidamente della PCR.

Lattati Bassa Bassa Elevati anche in casi di insufficienza cardiorespiratoria non settica o epatica. Poco utile il singolo valore. Valutare la clearance dei lattati che correla con la prognosi.

Interleukina-6 Intermedia Alta Livelli plasmatici fluttuanti. Più precoce della PCR

Brain Natriuretic Peptide Intermedia Bassa Utile nella stratificazione del rischio nel paziente con shock settico. Ruolo diagnostico limitato dai falsi positivi. Elevati livelli di BNP correlano con la presenza di disfunzione miocardica (indotta dalla sepsi) e con una prognosi peggiore.

Copeptina Alta Bassa Elevata in shock settico ed emorragico. Utile nell’identificare i soggetti con infezioni polmonari a prognosi sfavorevole.

MR pro-Adrenomedullina Non nota Non nota Così come la calcitonina, è più utile della PCR come fattore predittivo di sepsi nei pazienti oncologici. Influenzata da funzione renale.

Tabella 1. Valore diagnostico dei principali marcatori bioumorali della sepsi

Tabella 2. Colture da ottenere in pazienti con sospetta sepsi o shock settico.

Ruolo della diagnostica microbiologica

La prova principale che il paziente con sospetta sepsi o shock settico è effettivamente portatore di un’infezione si basa sulla dimostrazione della positività di colture batteriche o fungine. La Tabella 2 elenca le colture che è possibile e necessario ottenere in pazienti con sospetta sepsi o shock settico.

Nella pratica clinica, nel corso dei primi 15-30 minuti dalla presa in carico del paziente con sospetta sepsi o shock settico, è sempre possibile ottenere 2-3 emocolture (utilizzando barattoli per coltura sia in aerobiosi che in anaerobiosi, per un totale di 40-60 ml di sangue) ed un campione per urinocoltura (in genere all’atto dell’inserimento di un catetere vescicale, mediante una siringa da 60 ml a punta conica, prima della connessione dello stesso alla busta di raccolta). Subito dopo, se clinicamente indicato, è possibile iniziare a somministrare la terapia antibiotica empirica ritenuta appropriata (vide infra). Se presente, in questa fase è opportuno raccogliere anche l’espettorato (in genere nel corso dell’esame obiettivo del torace, quando il paziente effettua colpi di tosse necessari a chiarire i caratteri dei rumori aggiunti auscultati). In casi selezionati, è infine doveroso ottenere ulteriori campioni (sempre dopo aver assicurato la raccolta di sangue, urine ed espettorato), quali ad esempio liquor, pus, liquido pleurico, ascite, tamponi cutanei.

Non infrequentemente, l’ammalato giunge all’osservazione dopo aver già assunto antibiotici a domicilio o in setting assistenziali di livello precedente, e senza aver praticato alcun esame colturale. In questi casi, in assenza di shock settico o di importante disfunzione d’organo rapidamente progressiva, può essere opportuno attendere alcune ore (in genere 4 emivite dell’antibiotico somministrato) prima di procedere con le colture microbiologiche o affidarsi a metodi di diagnosi microbiologica non colturali (ad es. antigene urinario di Legionella o pneumococco, tests rapidi di amplificazione di acidi nucleici).

Tabella 2. Colture da ottenere in pazienti con sospetta sepsi o shock settico.

Fluido biologico / Sito Quando Commenti

Urine Sempre - Mitto intermedio riduce le false positività

- Prelevare le prime urine al momento dell’inserimento di un

catetere urinario

- Se il catetere è già in sede, segnalare il prelievo come ‘urine da

catetere’

Sangue (60 ml) Sempre - Non è necessario attendere il picco febbrile

- Se presente catetere venoso centrale, effettuare sempre un

prelievo da almeno una via dello stesso, in contemporanea con il

prelievo da vena periferica

Espettorato Quando presente Se il paziente è incapace di espettorare, è utile effettuare un

tampone rinofaringeo dopo tosse. In alternativa, è sempre utile

considerare l’esecuzione di un tracheoaspirato o di un

broncoaspirato o lavaggio broncoalveolare

Liquor Quando indicato Non è necessario dilazionare la somministrazione di antibiotici in

attesa dell’esecuzione della rachicentesi

Raccolte purulente Quando presenti L’incisione e drenaggio è in molti casi la principale e unica manovra

terapeutica necessaria

Drenaggi di liquidi (pleurico, ascite) Quando presenti Inserire il liquido drenato direttamente in flaconi per emocoltura.

Ustioni / Ferite / Siti chirurgici Quando presenti Detergere sempre prima il sito con soluzione fisiologica sterile. Le

biopsie tissutali hanno maggiore sensibilità e specificità dei tamponi.

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dalla presa in carico del paziente con sospetta sepsi o shock settico, è sempre possibile ottenere 2-3 emocolture (uti-lizzando barattoli per coltura sia in aerobiosi che in ana-erobiosi, per un totale di 40-60 ml di sangue) ed un cam-pione per urinocoltura (in genere all’atto dell’inserimento di un catetere vescicale, mediante una siringa da 60 ml a punta conica, prima della connessione dello stesso alla busta di raccolta). Subito dopo, se clinicamente indicato, è possibile iniziare a somministrare la terapia antibiotica empirica ritenuta appropriata (vide infra). Se presente, in questa fase è opportuno raccogliere anche l’espettorato (in genere nel corso dell’esame obiettivo del torace, quando il paziente effettua colpi di tosse necessari a chiarire i caratteri dei rumori aggiunti auscultati). In casi selezionati, è infine doveroso ottenere ulteriori campioni (sempre dopo aver assicurato la raccolta di sangue, urine ed espettorato), quali ad esempio liquor, pus, liquido pleurico, ascite, tamponi cutanei.

Non infrequentemente, l’ammalato giunge all’osserva-zione dopo aver già assunto antibiotici a domicilio o in setting assistenziali di livello precedente, e senza aver pra-ticato alcun esame colturale. In questi casi, in assenza di shock settico o di importante disfunzione d’organo rapida-mente progressiva, può essere opportuno attendere alcune ore (in genere 4 emivite dell’antibiotico somministrato) prima di procedere con le colture microbiologiche o affi-darsi a metodi di diagnosi microbiologica non colturali (ad es. antigene urinario di Legionella o pneumococco, tests rapidi di amplificazione di acidi nucleici).

Antimicrobici nella sepsi: tempestività e appropriatezza In presenza di ‘sepsi’ (diagnosticata come riportato sopra) è indicato iniziare ‘tempestivamente’ una terapia antimi-crobica, ma non tanto presto da impedire l’esecuzione del pannello minimo di colture. La rapidità con cui instaurare la terapia è direttamente proporzionale alla gravità o instabi-lità delle condizioni cliniche (Figura 1). Tuttavia, una terapia molto precoce non potrà che essere empirica, laddove una dilazionata potrà essere parzialmente ritagliata al caso spe-cifico, o del tutto mirata, soprattutto in contesti nei quali la microbiologia fornisce rapidi riscontri ed utilizza metodi dia-gnostici rapidi (MALDI-TOF, biologia molecolare, ACCE-LERATE). Oltre che tempestivo, il trattamento antibiotico del paziente con sospetta sepsi o shock settico deve essere il più possibile ‘appropriato’. Infatti, se un ritardo nell’inizio della terapia si può associare ad un peggiore esito clinico, ciò è ancor più vero in caso di una terapia empirica che a poste-riori risulta inappropriata. L’inappropriatezza può attenere la scelta della/e molecola/e da somministrare, la via di sommi-nistrazione utilizzata o la dose. In generale, la scelta di un trattamento antimicrobico ‘appropriato’ si basa sulla considerazione di 4 elementi: il rischio di infezione da patogeni multi-farmaco-resistenti (MDR); il/i patogeno/i più probabile/i; i parametri di effi-

cacia e sicurezza degli antimicrobici; i parametri farmaco-cinetici e farmacodinamici (PK/PD) degli antimicrobici. I primi due elementi richiedono un rapido inquadramento epidemiologico del caso. L’ospite con sospetta infezione può infatti essere un paziente ‘acuto-acuto’, precedentemente sano (es. giovane motociclista con politrauma stradale) o ‘acuto-su-cronico’, già affetto da precedenti malattie e vero-similmente caratterizzato da pregressi (nei 90-180 giorni precedenti) contatti con strutture assistenziali (infezione ‘health-care related’). Nel primo caso, l’approccio terapeu-tico è con farmaci a spettro ristretto attivi su patogeni far-macosensibili. Nel secondo, l’approccio consigliato è con farmaci a spettro esteso, attivi su patogeni MDR. Inoltre, il primo approccio deve sempre prevedere la possibilità di effettuare una escalation della terapia all’ottenimento dei risultati delle colture, con possibile ampliamento dello spettro a patogeni non ‘coperti’ dalla terapia empirica inziale a spettro ristretto. Il secondo approccio deve altresì sempre prevedere la verifica della possibilità di effettuare una de-escalation della terapia all’ottenimento dei risultati delle colture, con riduzione dello spettro antimicrobico ai patogeni effettivamente isolati e per i quali non è necessaria una terapia a spettro esteso attiva su patogeni MDR. L’eziologia probabile può essere determinata seguendo un approccio di tipo sindromico basato sulla conoscenza del/dei patogeno/i più spesso in causa nella specifica sindrome. Una volta definiti i patogeni più probabili, viene scelta una molecola che - sulla base del suo meccanismo d’azione e dell’epidemiologia microbica attuale - è ritenuta più proba-bilmente attiva per quel patogeno/i. A mero titolo esempli-ficativo, si descrive in Figura 2 un albero decisionale possi-bile in un paziente ‘settico’ con segni di infezione delle basse vie respiratorie.

Rilevanza dei parametri dinamici e cinetici degli antimicrobici

Nella scelta di un’appropriata terapia antimicrobica empirica, ed ancor più di quella mirata successiva all’ottenimento dei risultati delle colture, è fondamentale considerare l’intera-Relazione tra tempestività e tipologia di terapia antimicrobica nella sepsi

EMPIRICA RAGIONATA

0 1 2 3 TEMPO ALLA PRIMA DOSE DI ANTIMICROBICO

(GIORNI)

GRAVITA’ CLINICA

PARZIALMENTE RITAGLIATA

MIRATA

Figura 1. Relazione tra tempestività e tipologia di terapia antimicrobica nella sepsi.

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zione ospite/farmaco. Ad esempio, è necessario sommini-strare la molecola più appropriata per ciascun focolaio d’in-fezione. È noto in particolare che alcune molecole, di per se efficaci, ben tollerate ed attive in vitro nei confronti del pato-geno da trattare, non diffondono nel focolaio di infezione (ad esempio il liquido di rivestimento epiteliale del polmone). A mero titolo esemplificativo, le concentrazioni di antimicro-bici d’uso comune nella bile differiscono di molteplici ordini di grandezza, con molecole caratterizzate da concentrazioni elevate (es. rifampicina, ampicillina, tigeciclina, piperacillina, ciprofloxacina), medie (ceftriaxone, levofloxacina, clindami-cina), o basse (gentamicina, vancomicina, cotrimossazolo). Effettuare la terapia giusta per il proprio paziente richiede la selezione della molecola meno tossica in quello specifico caso: ad esempio, nel trattamento di un’infezione acuta di cute e annessi da Staphylococcus aureus meticillina-resi-stente, in presenza di normofunzione renale la vancomicina può essere un’opzione, mentre la daptomicina può essere più appropriata in presenza di malattia renale cronica e il linezo-lid nel paziente in emodialisi.

Come in qualsiasi altro contesto di terapia farmacologica, la conoscenza della farmacocinetica (PK, effetti dell’organi-

smo sul farmaco) e della farmacodinamica (PD, effetti del farmaco sull’organismo o, nel nostro caso, sul microrganismo) sono essenziali per l’impostazione e la gestione di una corretta terapia antimicrobica della sepsi. Vi è infatti una modalità ottimale di utilizzo di ciascuna molecola. Dal punto di vista PD, vi sono 3 principali patterns di effetto antimicrobico: attività -cida o statica concentrazione-dipendente, tempo-di-pendente, o dipendente dal rapporto esposizione/tempo. Nel primo caso, l’obiettivo della terapia è quello di ottenere il rap-porto più elevato possibile tra concentrazione massima del farmaco (picco di concentrazione, Cmax) e concentrazione minima inibente (MIC) del batterio, indipendentemente dal tempo in cui la concentrazione resta elevata; nel secondo, l’intento è di mantenere la concentrazione del farmaco il più a lungo possibile al di sopra della MIC durante l’intervallo posologico (T>MIC); nel terzo caso, la strategia si fonda sulla conciliazione tra il raggiungimento di una concentrazione elevata in rapporto alla MIC del microrganismo e il tempo durante il quale tali concentrazioni permangono elevate (area sotto la curva, AUC/MIC). La Tabella 3 schematizza la rile-vanza dei diversi parametri PD degli antimicrobici.

Anche la PK degli antimicrobici è fondamentale al fine

Approccio sindromico ragionato all’impostazione della terapia antimicrobica empirica nella sepsi. Caso di sospetta infezione delle basse vie respiratorie.

Sepsi (qSOFA ≥2+sospetta infezione)

INQUADRAMENTO EPIDEMIOLOGICO

Segni di impegno respiratorio (tosse, dolore toracico, espettorazione, dispnea, ottusità percussorie,

rumori aggiunti a focolaio, infiltrato rx)

C.A.P. H.C.A.P. – H.A.P. – S.A.P.

EZIOLOGIA PROBABILE

Streptococcus pneumoniae Moraxella catarrhalis Haemophilus influenzae Mycoplasma pneumoniae Chlamydia pneumoniae Legionella pneumophyla

Beta-lattamico: Ampicillina, Amoxicillina, Amoxicillina-Clavulanato

Macrolide: Claritromicina, Azitromicina

Fluorochinolone: Levofloxacina, Moxifloxacin

EZIOLOGIA PROBABILE

Staphylococcus aureus Escherichia coli Klebsiella pneumoniae Enterobacter cloacae Proteus / Serratia Pseudomonas aeruginosa Acinetobacter baumannii Burkholderia cepacia

Oxacillina – Linezolid Ceftarolina/Ceftobiprole

Cotrimossazolo

Meropenem - Colistina Cotrimossazolo

Fosfomicina

Ceftazidime – Cefepime Piperacillina-Tazobactam

Meropenem

Figura 2. Approccio sindromico ragionato all’impostazione della terapia antimicrobica empirica nella sepsi. Caso di sospetta infezione delle basse vie respiratorie.

paziente richiede la selezione della molecola meno tossica in quello specifico caso: ad esempio, nel trattamento di un’infezione acuta di cute e annessi da Staphylococcus aureus meticillina-resistente, in presenza di normofunzione renale la vancomicina può essere un’opzione, mentre la daptomicina può essere più appropriata in presenza di malattia renale cronica e il linezolid nel paziente in emodialisi.

Come in qualsiasi altro contesto di terapia farmacologica, la conoscenza della farmacocinetica (PK, effetti dell’organismo sul farmaco) e della farmacodinamica (PD, effetti del farmaco sull’organismo o, nel nostro caso, sul microrganismo) sono essenziali per l’impostazione e la gestione di una corretta terapia antimicrobica della sepsi. Vi è infatti una modalità ottimale di utilizzo di ciascuna molecola. Dal punto di vista PD, vi sono 3 principali patterns di effetto antimicrobico: attività -cida o statica concentrazione-dipendente, tempo-dipendente, o dipendente dal rapporto esposizione/tempo. Nel primo caso, l’obiettivo della terapia è quello di ottenere il rapporto più elevato possibile tra concentrazione massima del farmaco (picco di concentrazione, Cmax) e concentrazione minima inibente (MIC) del batterio, indipendentemente dal tempo in cui la concentrazione resta elevata; nel secondo, l’intento è di mantenere la concentrazione del farmaco il più a lungo possibile al di sopra della MIC durante l’intervallo posologico (T>MIC); nel terzo caso, la strategia si fonda sulla conciliazione tra il raggiungimento di una concentrazione elevata in rapporto alla MIC del microrganismo e il tempo durante il quale tali concentrazioni permangono elevate (area sotto la curva, AUC/MIC). La Tabella 3 schematizza la rilevanza dei diversi parametri PD degli antimicrobici.

Tabella 3. Modalità di effetto antimicrobico degli antibiotici e loro caratterisiche

Tipologia di attività antimicrobica

Funzione che descrive l’efficacia antimicrobica

Modalità ottimale di somministrazione

Adeguamento posologico in presenza di disfunzione degli emuntori

Modello

concentrazione-dipendente Cmax / MIC Monosoministrazione giornaliera, bolo rapido (se possibile)

Allungamento dell’intervallo posologico senza riduzione della dose

Aminoglicosidi

tempo-dipendente Tconc > MIC Infusione continua o estesa dopo I dose in bolo, multiple somministrazioni giornaliere

Riduzione della dose senza allungamento dell’intervallo posologico

Beta-lattamici

dipendente dal rapporto esposizione/tempo

AUC / MIC Multiple infusioni lente Prima allungamento dell’intervallo posologico poi riduzione della dose

Fluorochinoloni

Anche la PK degli antimicrobici è fondamentale al fine di ottimizzare la concentrazione del farmaco nello specifico sito di infezione. Infatti, non infrequentemente molecole che sarebbero ideali sotto il profilo PD (elevata attività in vitro, adeguate modalità di somministrazione) sono clinicamente poco efficaci perché non penetrano nei tessuti sede dell’infezione o vengono rapidamente eliminate o, al contrario, sono tossiche perché si accumulano. In generale, si distinguono molecole idrofile e molecole lipofile o idrofobe. Le principali proprietà di queste molecole sono sintetizzate nella Tabella 4.

Tabella 4. Principali caratteristiche farmacocinetiche degli antibiotici

Antimicrobici idrofili Antimicrobici idrofobi

Modello β-Lattamici Glicopeptidi Aminoglicosidi Lipopeptidi

Fluorochinoloni Oxazolidinoni Macrolidi Rifampicina Tetracicline

Proprietà PK Escreti immodificati nelle urine Non passano la membrana cellulare Scarsa penetrazione tissutale Buona concentrazione nel plasma

Elevato metabolismo (epatico) Alta penetrazione tissutale/diffusione Attraversano la membrana cellulare Scarsa concentrazione plasmatica

Tabella 3. Modalità di effetto antimicrobico degli antibiotici e loro caratterisiche.

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di ottimizzare la concentrazione del farmaco nello specifico sito di infezione. Infatti, non infrequentemente molecole che sarebbero ideali sotto il profilo PD (elevata attività in vitro, adeguate modalità di somministrazione) sono clini-camente poco efficaci perché non penetrano nei tessuti sede dell’infezione o vengono rapidamente eliminate o, al con-trario, sono tossiche perché si accumulano. In generale, si distinguono molecole idrofile e molecole lipofile o idrofobe. Le principali proprietà di queste molecole sono sintetizzate nella Tabella 4.

Conclusioni

La sepsi è una sindrome clinica di frequente riscontro nel paziente Internistico e richiede adeguati skills clinici per il suo riconoscimento. L’infezione batterica o fungina rap-presenta l’innesco iniziale. In alcuni casi, esso attiva una risposta immuno-infiammatoria disregolata, responsabile dell’insorgenza di danno d’organo, e che potenzialmente può progredire, anche in maniera estremamente rapida, in una condizione di grave disfunzione multiorgano con ipo-tensione refrattaria (shock settico). In presenza di sospetta infezione, il calcolo del punteggio SOFA o del qSOFA con-ferma la diagnosi di sepsi. In questa condizione, è necessario eseguire rapidamente gli esami colturali e, successivamente, iniziare, senza ulteriori attese, una terapia antibiotica empi-rica ragionata. Tale terapia deve essere appropriata per l’e-ziologia probabile, il focolaio sospetto o certo di infezione e le dosi e modalità di somministrazione degli antimicrobici.

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Come in qualsiasi altro contesto di terapia farmacologica, la conoscenza della farmacocinetica (PK, effetti dell’organismo sul farmaco) e della farmacodinamica (PD, effetti del farmaco sull’organismo o, nel nostro caso, sul microrganismo) sono essenziali per l’impostazione e la gestione di una corretta terapia antimicrobica della sepsi. Vi è infatti una modalità ottimale di utilizzo di ciascuna molecola. Dal punto di vista PD, vi sono 3 principali patterns di effetto antimicrobico: attività -cida o statica concentrazione-dipendente, tempo-dipendente, o dipendente dal rapporto esposizione/tempo. Nel primo caso, l’obiettivo della terapia è quello di ottenere il rapporto più elevato possibile tra concentrazione massima del farmaco (picco di concentrazione, Cmax) e concentrazione minima inibente (MIC) del batterio, indipendentemente dal tempo in cui la concentrazione resta elevata; nel secondo, l’intento è di mantenere la concentrazione del farmaco il più a lungo possibile al di sopra della MIC durante l’intervallo posologico (T>MIC); nel terzo caso, la strategia si fonda sulla conciliazione tra il raggiungimento di una concentrazione elevata in rapporto alla MIC del microrganismo e il tempo durante il quale tali concentrazioni permangono elevate (area sotto la curva, AUC/MIC). La Tabella 3 schematizza la rilevanza dei diversi parametri PD degli antimicrobici.

Tabella 3. Modalità di effetto antimicrobico degli antibiotici e loro caratterisiche

Tipologia di attività antimicrobica

Funzione che descrive l’efficacia antimicrobica

Modalità ottimale di somministrazione

Adeguamento posologico in presenza di disfunzione degli emuntori

Modello

concentrazione-dipendente Cmax / MIC Monosoministrazione giornaliera, bolo rapido (se possibile)

Allungamento dell’intervallo posologico senza riduzione della dose

Aminoglicosidi

tempo-dipendente Tconc > MIC Infusione continua o estesa dopo I dose in bolo, multiple somministrazioni giornaliere

Riduzione della dose senza allungamento dell’intervallo posologico

Beta-lattamici

dipendente dal rapporto esposizione/tempo

AUC / MIC Multiple infusioni lente Prima allungamento dell’intervallo posologico poi riduzione della dose

Fluorochinoloni

Anche la PK degli antimicrobici è fondamentale al fine di ottimizzare la concentrazione del farmaco nello specifico sito di infezione. Infatti, non infrequentemente molecole che sarebbero ideali sotto il profilo PD (elevata attività in vitro, adeguate modalità di somministrazione) sono clinicamente poco efficaci perché non penetrano nei tessuti sede dell’infezione o vengono rapidamente eliminate o, al contrario, sono tossiche perché si accumulano. In generale, si distinguono molecole idrofile e molecole lipofile o idrofobe. Le principali proprietà di queste molecole sono sintetizzate nella Tabella 4.

Tabella 4. Principali caratteristiche farmacocinetiche degli antibiotici

Antimicrobici idrofili Antimicrobici idrofobi

Modello β-Lattamici Glicopeptidi Aminoglicosidi Lipopeptidi

Fluorochinoloni Oxazolidinoni Macrolidi Rifampicina Tetracicline

Proprietà PK Escreti immodificati nelle urine Non passano la membrana cellulare Scarsa penetrazione tissutale Buona concentrazione nel plasma

Elevato metabolismo (epatico) Alta penetrazione tissutale/diffusione Attraversano la membrana cellulare Scarsa concentrazione plasmatica

Tabella 4. Principali caratteristiche farmacocinetiche degli antibiotici.

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

Chiedersi se sia possibile seguire un paziente settico in un reparto di Medicina è evidentemente una domanda reto-rica. È in Medicina infatti che viene ricoverata la maggior parte dei pazienti accettati dal Pronto Soccorso con dia-gnosi di sepsi o di infezioni gravi ed è in genere molto limitato il numero di pazienti che dalla Medicina vengono trasferiti in Terapia Intensiva per l’aggravarsi di una condi-zione settica. [1] Questo stato di cose è giustificato da due ragioni principali:- la maggior parte dei pazienti settici non è in shock settico

e non richiede trattamenti che non possano essere effet-tuati in un reparto di degenza;

- una quota non irrilevante di pazienti settici non trova indicazione alla terapia intensiva a causa dell’età e/o della presenza di co-patologie multiple e di grado avanzato; spesso in questi casi l’infezione è l’evento terminale di una patologia cronica e progressiva.

La vera domanda da porsi non è dunque se un paziente settico possa essere gestito in un reparto di Medicina, ma piuttosto come un reparto di Medicina si debba attrezzare per seguire correttamente un paziente settico.Nei paragrafi che seguono si tratteranno dapprima veloce-mente alcuni aspetti culturali e organizzativi dell’approccio al paziente settico, per poi ragionare sull’aspetto specifico della riperfusione in termini di fisiopatologia e di gestione clinica del paziente.

Riconoscere e monitorizzare il paziente settico

La sepsi viene oramai comunemente considerata come una condizione tempo dipendente [2], anche se nel caso di questa sindrome, il termine assume un significato diverso da quello che gli si attribuisce comunemente nel caso dell’infarto miocardico o dello stroke. Mentre in queste due urgenze vascolari la tempo dipendenza riguarda un intervento ben identificabile, quale la rivascolarizzazione, nel caso della sepsi quello che è in gioco è un insieme di azioni,spesso messe in atto contemporaneamente e diffi-cilmente districabili per quanto riguarda la rilevanza pro-gnostica. Tra tutte, la precocità della terapia antibiotica è

ad oggi quella con il più convincente supporto di dati. [3-5]Che si tratti di iniziare una terapia antibiotica, di som-

ministrare un carico idrico, di mettere in moto un inter-vento di bonifica del focolaio infettivo, resta fondamentale il riconoscimento precoce della sepsi. In un reparto di Medicina questo aspetto prende innanzitutto la forma di un controllo attento e regolare di tutti i pazienti acuti, con l’obiettivo di riconoscere con prontezza un eventuale trend negativo dei parametri vitali e di mettere in atto con altret-tanta prontezza gli interventi necessari. Tra gli strumenti più sperimentati vanno citati il National Early Warning Score (NEWS) ampiamente diffuso nel National Health System britannico (ma sempre di più anche in Italia) e il più semplice Modified Early Warning Score MEWS. [6] Al di là del loro contenuto specifico, è importante raccogliere il messaggio di cui questi strumenti sono portatori: ad ogni livello di gravità del paziente e ad ogni livello di deterio-ramento acuto delle sue condizioni deve corrispondere una azione che può variare dall’aumento nella frequenza delle rilevazioni all’allertamento del medico di guardia o dell’intensivista. Nulla che non si possa fare in un reparto di degenza. Meglio, naturalmente, se il reparto di degenza si è organizzato per avere un’area ad elevata intensità assisten-ziale, posizionata nella vicinanza dell’area di lavoro infer-mieristica e dotata di monitor.

Un secondo elemento che favorisce la velocità e la appropriatezza degli interventi, risiede nella autonomia che il reparto ha per quanto riguarda l’esecuzione di alcuni esami, specie se si tratta di esami che devono essere ripe-tuti serialmente per valutare l’andamento delle condizioni del soggetto e la sua risposta alla terapia. Nello specifico gli strumenti minimali per poter adeguatamente seguire un paziente settico sono un emogasanalizzatore, che fornisca anche il valore del lattato, e una competenza di ecografia base d’urgenza acquisita da tutti i medici, come aiuto fon-damentale nella identificazione della fonte settica e nella valutazione della risposta del paziente al carico volemico. Competenze ecocardiografiche più avanzate e metodiche di valutazione non invasiva dei parametri emodinamici possono essere utili nei reparti di Medicina d’Urgenza, ma richiedono livelli di formazione specifica che non sembra

Ristabilire la perfusione. La sepsi può essere gestita in un reparto di Medicina?

Daniele CoenGrande Ospedale Metropolitano Niguarda – Milano

© SIMI 2017

RELAZIONI - Sepsi e shock settico

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

ragionevole, né conveniente, richiedere diffusamente ai reparti di Medicina Interna.

C’è infine un aspetto culturale che informa l’approccio di un reparto ai problemi con infezioni gravi. Medici e infer-mieri devono abituarsi a chiamare con il loro nome le con-dizioni cliniche del paziente. Dunque non più “polmonite con insufficienza renale” né “infezione delle vie urinarie con iniziale piastrinopenia”, ma “sepsi a genesi respiratoria” e “sepsi a genesi urinaria”. Una volta chiarito che ci si trova di fronte ad un paziente settico, si farà riferimento agli stru-menti (per esempio il SOFA) che consentono di valutarne il rischio di mortalità, spesso più elevato di quanto si imma-gini a prima vista. Diventa di conseguenza più immediato utilizzare i protocolli di reparto che saranno stati prearati per questa condizione (dal più semplice “Sepsis 6”, alle indicazioni di terapia antibiotica, a quelle per la terapia riperfusiva).

La perfusione nel paziente settico

La ipoperfusione nel paziente settico è il risultato di alte-razioni fisiopatologiche estremamente complesse che vengono generalmente indicate come una risposta srego-lata e aberrante dell’organismo ad una infezione, con conse-guente sviluppo di una o più insufficienze d’organo. [9-12] Se sul versante microscopico giocano un ruolo prevalente le alterazioni dell’endotelio e del microcircolo, sul versante emodinamico sono di particolare importanza la vasoplegia (specie a carico del comparto venoso) e la depressione fun-zionale del miocardio. [9,13,14]

Dal punto di vista della terapia, gli strumenti a dispo-sizione del medico per contrastare questi due principali meccanismi dell’ alterazione emodinamica sono l’espan-sione volemica e l’uso di vasopressori e inotropi. Studi fisio-patologici e clinici hanno offerto informazioni e risposte spesso contrastanti tra loro per quanto riguarda il timing e le modalità di impiego di questi trattamenti, anche a causa dell’arruolamento di popolazioni spesso eterogenee tra di loro.

Tra le considerazioni spesso addotte da chi consiglia cautela nell’impiego dei fluidi, c’è il fatto che relativamente pochi tra i pazienti settici sono ipovolemici e che dunque quella che si va spesso a trattare con importanti quantità di liquidi è in realtà una ipovolemia relativa, legata ad una vasoplegia che potrebbe rispondere adeguatamente a basse dosi di vasopressori. [15,16] Ancora minori sono le giustifi-cazioni pe somministrare un carico idrico elevato in quella maggioranza di pazienti che non è in condizioni di shock.

Come ultimo dato che consiglia ragionevolezza nell’effet-tuazione di un carico volemico (destinato a traferirsi quasi completamente nell’interstizio nel giro di poche decine di minuti, contribuendo a ostacolare la diffusione di ossi-geno alle cellule), è il fatto che meno del 50% dei pazienti in shock settico risponde ad un carico di volume aumen-

tando la gettata sistolica, e che questo è tanto più vero per i pazienti che hanno già sviluppato una disfunzione car-diaca (diastolica o sistolica), come evidenziato dalla cura di Frank-Starling (Figura 1). [15,16]

A favore della somministrazione di un carico volemico si possono portare considerazioni in qualche modo opposte e simmetriche a quelle che abbiamo appena fatto: esiste senz’altro una quota di pazienti ipovolemici tra i pazienti settici e, se la metà dei pazienti non risponde ad uno o più boli di liquidi con un miglioramento dei parametri emo-dinamici, è anche vero che un’altra metà invece risponde positivamente. Infine non possiamo dimenticare l’impatto che per oltre dieci anni hanno avuto sulla pratica clinica i risultati dello studio di Rivers sulla Early Goal Directed Therapy, dove l’intervento che maggiormente differenziava il gruppo dei trattati da quello dei controlli era proprio il volume di liquidi somministrato entro le prime 6 ore. E a questo maggiore carico volemico corrispondeva una importante riduzione di mortalità. [17]

Oggi che i risultati dello studio di Rivers sono stati for-temente ridimensionati da altri tre grandi trial control-lati [18-20] e che numerosi studi osservazionali hanno mostrato una preoccupante associazione tra un bilancio volemico positivo a 24-48 ore e la mortalità dei pazienti in shock settico [21-24], il ruolo dei liquidi nel trattamento della sepsi deve essere attentamente rivalutato. In questo quadro trova sempre maggiore supporto un approccio che comprenda la somministrazione aggressiva di liquidi solo nella fase resuscitativa dei pazienti in shock settico e che passi poi ad un approccio individualizzato, fortemente guidato dalla risposta del singolo paziente e comunque mirato ad un ritorno il più possibile precoce a condizioni di euvolemia. [25-26]

Per quanto riguarda la scelta dei fluidi, sembra oramai conclusa a favore dei cristalloidi l’annosa controversia con i colloidi. [27] La maggior permanenza all’interno del comparto vascolare, che teoricamente dovrebbe favorire l’impiego di questi ultimi, è in realtà meno manifesta nei pazienti settici, nei quali la accresciuta permeabilità endo-teliale facilita il passaggio nell’interstizio anche delle mole-cole relativamente grandi contenute nei colloidi. Diversi studi clinici hanno poi messo in evidenza un accresciuto rischio di insufficienza renale acuta tra i pazienti trattati con idrossietilamido, che ha ulteriormente spostato la bilancia a favore dei cristalloidi. [28,29] Anche l’albumina, nono-stante alcuni dati favorevoli emersi nel sottogruppo dei pazienti in shock di uno studio policentrico italiano, non sembra conferire alcun sostanziale vantaggio prognostico rispetto ai cristalloidi, a costi significativamente maggiori. [30-31] Soprattutto per i pazienti trattati con importanti volumi di liquidi le soluzioni bilanciate (es. Ringer lattato) hanno dimostrato analoga efficacia della fisiologica e una minore incidenza di acidosi ipercloremica e insufficienza renale. [32,33] È dunque verso questo tipo di soluzione che converge oggi il parere di esperti e linee guida.

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

L’impiego dei vasopressori, spostato ad intervento di seconda linea nella EGDT di Rivers, viene oggi rivendicato da diversi Autori come una scelta da non tardare troppo a fare nei pazienti in shock che restano ipotési dopo un primo carico di cristalloidi (indicativamente 20 mL/Kg in 30 minuti). [16,34,35] Di particolare interesse un vasto studio retrospettivo che situa non prima di un’ora e non dopo le 6 ore dalla diagnosi il periodo ottimale per iniziare la terapia con amine. [36] Per quanto riguarda la scelta del farmaco, la noradrenalina è da preferirsi alla dopamina per la minore incidenza di effetti collaterali aritmici. [37] Sempre per quanto riguarda la dopamina si considera inoltre inappro-priato perché inefficace l’impiego dei bassi dosaggi usati per molti anni a scopo di “protezione renale”.

L’approccio alla riperfusione del paziente settico in un reparto di degenza medica

Per mettere insieme le informazioni fin qui proposte e tra-durle in un comportamento pratico da applicare al tratta-mento dei pazienti settici in un reparto non intensivo, è importante che di fronte al proprio paziente il medico si ponga due domande fondamentali:1. questo paziente è in shock settico?2. al momento, o in caso di peggioramento, questo paziente

potrebbe avere indicazione al trasferimento in terapia intensiva?

Dalla prima domanda consegue direttamente il livello di aggressività del trattamento da mettere in atto. Dalla seconda l’opportunità di condividere precocemente le proprie decisioni con un anestesista rianimatore.

Di fronte ad un paziente non in stato di shock, le priorità sono la raccolta degli esami culturali, una precoce terapia antibiotica empirica a largo spettro, il controllo delle fun-zioni vitali e l’inizio di un attento monitoraggio, meglio se eseguito con l’aiuto di uno score come il MEWS. La entità e la numerosità delle disfunzioni d’organo devono essere valutate tanto allo scopo di una prima considerazione pro-gnostica, quanto per identificare l’eventuale indicazione a specifici interventi terapeutici (es. ossigenazione/venti-lazione, trattamento delle aritmie, etc.). Quando la fonte settica non sia già nota, l’esecuzione di una ecografia d’ur-genza di addome e torace potrà identificarla in una alta per-centuale di casi. [7]

La somministrazione di un bolo iniziale di 500 mL di soluzione bilanciata potrà essere sufficiente come attacco. Ulteriori infusioni andranno guidate da una attenta valu-tazione della risposta ai fluidi sulla base principalmente di parametri clinici (livello di coscienza, frequenza cardiaca e respiratoria, pressione arteriosa e diuresi). Le metodiche strumentali per la valutazione dei parametri emodinamici sono raramente di utilità immediata in questi pazienti.

Diverso è l’approccio nei pazienti che si presentano ipotési. In questo caso l’apporto iniziale di liquidi potrà essere più sostanzioso (fino a 20mL/Kg di cristalloidi in

Figura 1. Curve di Frank-Starling nel cuore iperattivo, normale e insufficiente. In un cuore normale l’aumento del precarico aumenta la gettata sistolica fino al raggiungimento di una fase di plateau. In un cuore insufficiente, la risposta al carico volemico è minima, il plateau viene raggiunto molto più precocemente e la somministrazione di ulteriori fluidi può provocare edema interstiziale ed alveolare.

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boli da 500 mL nella prima mezz’ora), poi si proseguirà in considerazione della risposta ottenuta. A fronte di un ritorno della pressione arteriosa a livelli normali, si passerà ad una terapia infusiva di ottimizzazione, che prevede l’attento monitoraggio del paziente e della sua persistente responsività ai fluidi. Il dibattito sugli esami strumentali che possono essere di aiuto per valutare la responsività al carico di volume è ancora aperto. Gli strumenti di più facile impiego in un reparto di degenza (PVC e valutazione della variazione respiratoria del diametro della vena cava infe-riore) non sono di generale utilità, ma possono offrire utili informazioni se interpretati all’interno del contesto clinico e con attenzione al loro trend piuttosto che ai loro valori assoluti.

Se dopo il primo carico volemico di 20 mL/L il paziente resta ipotéso e in stato di shock, le strade che si aprono sono diverse a seconda che un trasferimento in terapia intensiva del paziente sia o meno considerato una possibilità. Nel primo caso è probabilmente questo il momento per con-frontarsi con un rianimatore, anche in considerazione dei tempi non sempre rapidi necessari per liberare un posti di Terapia Intensiva. Nel caso in cui il trasferimento non sia un’opzione (o in attesa del trasferimento), la sommini-strazione di fluidi può essere continuata a boli di 250 mL e con attento controllo dell’andamento dei parametri clinici e emodinamici. Con tutti i limiti di una generalizzazione, la somministrazione di oltre 4-5 litri di cristalloidi nelle prime 6 ore non dovrebbe essere superata, salvo casi eccezionali.

È inoltre questo il momento per iniziare una infusione di noradrenalina a basso dosaggio, da titolare verso l’alto in considerazione della risposta dei valori pressori. L’infusione di noradrenalina può essere praticata anche attraverso una agocannula inserita in una grossa vena periferica il cui buon funzionamento sia stato accuratamente valutato.38,39 Resta comunque preferibile garantire un accesso centrale se l’infusione è destinata a prolungarsi al di là di poche ore.

Conclusioni

La maggioranza dei pazienti settici viene ricoverata in reparti di degenza medica o chirurgica, in particolare quando non sia presente un quadro di shock settico. In questi pazienti la riperfusione tissutale si basa principal-mente sul trattamento precoce dell’infezione e sulla cor-rezione di una eventuale ipovolemia. I pazienti con shock settico trovano indicazione al trattamento in un reparto di degenza solo in attesa di un trasferimento in terapia inten-siva, o nel caso in cui questa indicazione sia stata esclusa. La presenza di un’area dedicata alla gestione dei pazienti ad elevata intensità assistenziale, la disponibilità di alcune minime dotazioni strumentali e una appropriata cono-scenza dei protocolli da parte dei medici internisti, sono gli elementi fondamentali per una corretta gestione dei pazienti.

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

A metà degli anni ‘90, negli Ospedali americani emerse la necessità di un nuovo modello organizzativo finalizzato al miglioramento di alcuni indicatori di performance, in particolare la durata della degenza, i costi diretti e indi-retti dell’assistenza sanitaria e la frequenza delle re-o-spedalizzazioni. Questo nuovo tipo d’organizzazione si fondava sull’individuazione della figura del medico unico che prende in carica il paziente al momento del ricovero per, poi, riaffidarlo al medico di famiglia con il quale con-tinuare il processo di cura al proprio domicilio. A questa nuova figura professionale, che avrebbe operato esclusiva-mente all’interno dell’ospedale (vera novità per gli USA), gli fu attribuito il nome di hospitalist e affidata la gestione del paziente con il compito di coordinare le attività degli altri operatori sanitari, compresi eventuali specialisti pre-senti all’interno dell’Ospedale. In seguito, all’hospitalist fu chiesto d’interagire con i vari specialisti d’estrazione chi-rurgica, soprattutto nella gestione dei pazienti più anziani e complessi, con risultati particolarmente rilevanti anche in questi particolari setting assistenziali. La figura dell’hospi-talist ottenne un notevole successo tant’è che, nel 2016, se ne contavano oltre 54.000, una numerosità pari a quella dei pediatri e di molto superiore a quella dei cardiologi (circa 22.000).

L’esigenza di questa nuova figura di specialista era stata dettata dalla necessità di armonizzare e rendere più effi-ciente, in quel preciso momento storico e socio-economico, l’erogazione della cura sia per i pazienti con assicurazione privata sia per quelli iscritti al programma Medicare, senza sacrificare la qualità delle prestazioni e il grado di soddi-sfazione dei pazienti. Un implicito riconoscimento dell’e-vidente contrasto tra diseguaglianza socio-economica e il diritto alla salute, cui era necessario porre rimedio.

Anche se al nuovo modello assistenziale - hospital medi-cine - va riconosciuto il merito di aver dato una risposta positiva sia ai bisogni assistenziali (qualità e uguaglianza delle cure) sia a quelli economico-gestionali (sostenibilità del sistema e miglioramento dell’appropriatezza), non si possono ignorare alcune criticità e/o limiti da esso gene-rati. Tale modello ha, infatti, prodotto sostanziali variazioni nella remunerazione dei medici, oltre che nella qualità

delle competenze cliniche e nel mantenimento dell’aggior-namento professionale. La peculiarità del medico ameri-cano consisteva nella possibilità della duplice gestione del paziente, sia all’interno sia all’esterno dell’Ospedale con un tipo di remunerazione proporzionale al diverso livello di prestazione. In particolare, era sempre lo stesso professio-nista a curare il paziente, spostando all’interno dell’ospe-dale il luogo delle cure quando necessario. Allo stato, con la presenza dell’hospitalist, l’erogazione delle cure in regime di ricovero priva, di fatto, di una fonte di guadagno aggiuntiva il medico di comunità, sia egli specialista o medico delle cure primarie. Di conseguenza, tale modello ha portato a una riformulazione quali-quantitativa del rapporto offerta/domanda della prestazione sanitaria in ambito extra-ospe-daliero e, inevitabilmente, anche del bisogno di aggior-namento professionale e del mantenimento del proprio livello di competenze. Ovviamente, questo impoverimento culturale e professionale in una parte della classe medica americana rappresenta il contraltare, non condivisibile, della nascita dell’hospitalist e della sua importante crescita numerica.

Cambiando l’organizzazione assistenziale e il modello di erogazione delle prestazioni sanitarie, è lecito chie-dersi qual è il nuovo ruolo dell’Ospedale in tale contesto e, soprattutto, chi è l’hospitalist? Ovviamente, i nuovi obiettivi gestionali degli Ospedali hanno inciso sul reclutamento del personale (maggiore attrattività del contratto intra-ospeda-liero), sull’orario di lavoro (nessuna limitazione temporale), sulla retribuzione (proporzionale al grado d’attività), sulla riorganizzazione operativa interna (maggiore assunzione di hospitalist) e sull’indirizzo della formazione post-laurea (riduzione dei medici delle cure primarie e aumento degli internisti). La definizione dell’hospitalist non è semplicis-sima e, soprattutto, non può essere identificata con una precisa figura professionale del nostro SSN. In generale, si può dire che l’hospitalist è un sanitario, assimilabile al medico ospedaliero italiano, specialista in internal medi-cine con competenze cliniche più ampie rispetto a quelle degli specialisti e ultra-specialisti. Va, comunque, detto che, per differenze culturali e formative, oltre che per la diver-sità dell’esperienze professionalizzanti, l’hospitalist non è

L’hospitalist nella organizzazione assistenziale: ne abbiamo realmente bisogno?

Francesco PerticoneDipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università degli Studi Magna Græcia di Catanzaro

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LETTURE

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

assolutamente paragonabile allo Specialista in Medicina Interna; egli può essere considerato un medico (general internist) capace di affrontare le patologie non chirurgiche con conoscenze e competenza adeguate al contrario degli altri specialisti d’organo e armonizzando i diversi livelli assistenziali. Volendo divagare, nella storia della medicina, gli ambiti delle competenze mediche sono state identificate, a volte, su fattori quali l’età dei pazienti (pediatria e geria-tria), altre volte in base a criteri anatomici e fisiopatogici (oftalmologia e gastroenterologia), o in base allo strumen-tario tecnico del medico (radiologia e chirurgia). L’internal medicine, invece, nel contesto sanitario americano è stata definita in base alla sede dove essa viene esercitata, diffe-renziandola da quella svolta in ambito extra-ospedaliero. In Italia il termine Internista ha tutt’altra valenza culturale e professionale.

Da quanto finora espresso è, indubbio, che esistano pro-fonde differenze tra la figura dell’hospitalist e lo specialista in Medicina Interna, anche se il modello organizzativo-ge-stionale su di esso costruito propone interessanti spunti di riflessione per quanto attiene l’appropriatezza e, di conse-guenza, l’attivazione di processi clinico-gestionali coerenti con il mantenimento della sostenibilità del SSN e di quelli regionali che, negli ultimi tempi, è molto spesso messa in discussione. D’altra parte, appare sempre più difficile man-tenere uno stabile equilibrio, che a volte rischia di diventare utopico, tra sostenibilità e le caratteristiche universalistiche e il principio di sussidiarietà su cui si fonda il SSN.

Lo scenario epidemiologico, e di conseguenza clini-co-assistenziale che si è delineato negli ultimi anni, è quello di un progressivo invecchiamento della popolazione, di un costante incremento della prevalenza di patologie croniche e della multimorbilità e di cambiamenti socio-economici che hanno profondamente messo in discussione il modello di cure a cui l’organizzazione sanitaria, del recente passato, ci aveva abituato. Tale realtà impone, ovviamente, profonde riflessioni sia sul piano della riorganizzazione assistenziale intra- ed extra-ospedaliera sia su quello della formazione pre- e post-laurea. Lo studio della complessità non è pre-visto in maniera sistematica in nessuna fase del percorso formativo del medico. Allo stesso modo, non esiste nessun indicatore amministrativo che sia in grado di definire esau-stivamente la complessità dei pazienti e, quindi, il carico di lavoro dei reparti di Medicina Interna. Lo stesso rapporto medico/paziente è cambiato, o dovrebbe cambiare, alla luce delle nuove evidenze cliniche, sociali, economiche, etiche e morali. È sicuramente diversa la gestione dell’acuzie dalla cronicità, dove l’empowerment del paziente, strumento importante previsto dal chronic care model, è notevol-mente condizionato dal rapporto medico/paziente che rap-presenta, altresì, un aspetto fondamentale e irrinunciabile per la gestione della fine vita e nell’accettazione del concetto che, molto spesso, nei pazienti più fragili l’ospedalizzazione è, di per sé, un fattore di rischio per morbilità e mortalità.

Questi aspetti, apparentemente non coerenti con il ruolo

assistenziale del medico, caratterizzano la specificità dello specialista in Medicina Interna perché nel concetto di cura deve essere inserito non solo l’aspetto biologico ma anche il contesto psico-socio-ambientale del paziente. Infatti, per complessità non si deve intendere la semplicistica somma-toria delle diverse malattie presenti nel paziente, ma l’intera-zione dei vari componenti che concorrono alla gestione del paziente, inquadrato nell’unitarietà della sua dimensione bio-psico-socio-economica, e non della singola malattia. Ovviamente, tale approccio confligge con la visione patoge-netica della malattia di tipo meccanicistico (singola malat-tia e singolo meccanismo d’azione) e quello riduzionistico nell’erogazione della cura (linee guida basate sull’evidenza, medicina statistica o di popolazione). Ne consegue che è fondamentale individuare le priorità operative della medi-cina basata sulla complessità.

Queste potrebbero essere definite come di seguito riportato: 1. focalizzare i principi organizzativi dei sistemi studiati e le loro perturbazioni, più che mirare ad una mera predizione numerica degli eventi; 2. costruire modelli di fenotipi complessi;3. costruire meta-modelli di coerenza nell’evoluzione temporale dei modelli fenotipici complessi per includere la modellizzazione delle specifiche individualità che comprendono l’unicità reale degli individui; 4. verificare la validità dei modelli fenotipici complessi e dei meta-modelli con sperimentazioni cliniche ad hoc di intervento di tipo evidence-based ma anche sistemico-induttivo sui nodi critici delle mappe costruite con la modellizzazione di cui ai punti precedenti.

Infine, va rimarcato che nel settore clinico/applicativo e relazionale, la considerazione della complessità necessita di una relazione tra medico e paziente orientata a questo scopo, con una formazione specifica (systems medicine e systems biology, teoria della sistemica, gruppi di case-re-view inter-disciplinare, gruppi di auto-formazione tra pro-fessionisti, scrittura auto-biografica, counselling sistemico, medicina narrativa, ecc). Le priorità in tale settore appa-iono essere:1. definizione e l’utilizzo di modelli clinici di tipo inclusivo2. sviluppo dell’approccio interdisciplinare nelle cure3. definizione di nuovi modelli di alleanza terapeutica in cui medico e paziente siano entrambi:

a. coscienti della complessità della persona (autoeco-organizzazione)

b. coinvolti attivamente e coscientemente nella relazione terapeutica

c. disponibili alla responsabilità attiva del paziente.

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Pertanto, è evidente che la complessità richiede un approccio sistematico che non vuole dire mera compren-sione olistica dell’individuo malato. Non potendo prescin-dere dalla realtà sanitaria ed economica in cui ci troviamo, questo approccio si propone d’individuare, fra tutti i deter-minanti e le loro connessioni, quelli che hanno un ruolo chiave nell’influenzare lo stato di salute dell’individuo, sia nell’immediato sia nel futuro, in modo da identificare le priorità e pianificare una strategia terapeutica e assisten-ziale unitaria. Il fenotipo o fenoma complesso, lungi dall’es-sere una semplice sommatoria delle condizioni morbose che lo compongono, rappresenta un’entità fenomenica in cui le singole parti interagiscono fra loro in maniera dina-mica con i determinanti non biologici, al fine di realizzare un unico sistema funzionale. Ovviamente, per assolvere a questo compito sono richieste competenze specifiche, proprie dell’Internista, e una riorganizzazione del SSN con una profonda rimodulazione dell’organizzazione intra- ed extra-ospedaliera e che tenga conto del coinvolgimento attivo del paziente e degli altri soggetti coinvolti nel pro-cesso assistenziale globale, compresa la prevenzione, come i decisori istituzionali e le varie forme di volontariato e asso-ciazionismo (chronic care model).

In conclusione, la diversità dei modelli di welfare, pre-senti in USA e in Italia, connotano realtà sociali, cliniche e organizzative completamente diverse che rendono profon-damente diverse le figure dell’hospitalist e dello specialista in Medicina Interna. Il modello organizzativo dell’inter-nal medicine si prospetta come una soluzione proponibile anche nel SSN italiano che necessita, tuttavia, di una pro-fonda riorganizzazione nelle sue varie articolazioni. Anche se, da tempo, l’Internista svolge, di fatto, questo ruolo di hospitalist è necessario, tuttavia, il riconoscimento formale di tale funzione che è irrinunciabile per far fronte alle attuali criticità assistenziali, sia quantitative sia qualitative, segna-late ripetutamente ma mai affrontate in maniera organica e definitiva. A risorse definite, l’appropriatezza resta l’unico strumento per continuare ad avere un SSN di tipo univer-salistico, con elevati livelli di efficienza e efficacia, e in grado di consentire l’accesso alle terapie innovative ma costose. La medicina di precisione, anche se costosa, non può essere né ignorata né negata.

A chiusura riporto i versi di Paul Valery che, a mio modesto avviso, possono essere considerati il manifesto della Medi-cina Interna e degli Internisti.

Curare e anche una politica.Può essere fatto con un rigoredi cui la dolcezza e il rivestimento essenziale. Un’attenzione squisita alla vita che si veglia e si sorveglia.Una precisione costante.

Una sorta di eleganza negli atti,una potenza e una leggerezza, una presenza e una sorta di percezione molto attenta che osserva i minimi segni.È una sorta di opera, di poema che la sollecitudine intelligente compone.

Bibliografia consigliata

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Il rapporto fra medici e pazienti può essere considerato un libro di medicina narrativa, ed è suggestivo interpretarne i capitoli come la storia dei propri antenati. Una storia mille-naria, che per quanto sappiamo comincia nel quarto secolo avanti Cristo con Platone, Ippocrate e la medicina ippocra-tica, e dura fino ai giorni nostri. È un libro fondamentale: senza un buon rapporto fra medico e paziente è arduo per il medico fare storia clinica e dunque diagnosi, e per il paziente è incompleta o imprecisa l’aderenza alla terapia.

1. Rapporto fra medici e pazienti nella storia (dal 4° secolo a.C. al 1992)

1. I greci (Ippocrate, Ippocratici); Galeno. I quattro umori 2. Il medioevo e la peste 3. 1600-1700: rivoluzione medica; Thomas Sydenham e

Giovan Battista Morgagni 4. Dal tardo 1600 (1673, Molière) al 1829-30 (Palermo,

Spedale Grande e Nuovo) e al 1860 (Oliver Wendell Holmes, “the spirit of skepticism”)

5. 1923: Jules Romains, Knock 6. 1943. Un paese, la guerra, un dottore 7. 23 Maggio 1992. La mafia e le vittime

1. I greci (Ippocrate, ippocratici) e Galeno. I quattro umori Nell’antico Egitto, chi cura i malati (“the healer”) è allo stesso tempo mago e sacerdote, e il rapporto col paziente è proba-bilmente paternalistico [1]. In Grecia, nel IV secolo avanti Cristo, Platone separa gli schiavi dagli uomini liberi, e riserva solo ai medici di questi ultimi la facoltà di discutere delle malattie “con il paziente e con i suoi amici” [2]. Nello stesso secolo i Greci, e più specificamente gli Ateniesi, che cono-sciamo meglio grazie alla “Guerra del Peloponneso” dell’ate-niese Tucidide, sviluppano concetti antesignani di filosofia e di medicina. - Di filosofia: dal discorso dei Corinzi agli Spartani, che

è nelle intenzioni un atto d’accusa per gli Ateniesi, ma che disegna l’homo sapiens oltre il tempo e la geografia: “Adoprano la mente come la cosa che più loro appartiene...Sono amanti delle novità, rapidi nel concepire un piano e nel portarlo a compimento; per essi speranza e realtà

sono la stessa cosa, tanta e la rapidità con cui pongono mano a ciò che hanno deciso.....E tutto questo essi otten-gono travagliandosi per tutta la vita tra fatiche e pericoli: pochissimo godono di quanto possiedono, perche la loro e una conquista continua; insomma, se uno per definirli in breve, dicesse che essi sono nati per non aver mai pace e per non concederla al mondo, direbbe la pura verità” (Da: La guerra del Peloponneso, volume primo, p. 60-61. Arnoldo Mondadori, III Edizione 1963).

- Di medicina: da Ippocrate e dai medici ippocratici, due principî tuttora validi nella medicina del nostro tempo e nel rapporto medico-paziente: primo, malattie e guari-gioni non sono governate dagli dei dell’Olimpo o da altri interventi ultraterreni, ma da cause naturali; secondo, il medico deve imparare a conoscere il proprio paziente come malato e come persona: “The hippocratic doctor needed to know his patient thoroughly, what his social, eco-nomic, and familial circumstances were, how he lived, what he usually ate and drank, whether he had travelled or not, whether he was a slave or free, and what his tendencies to disease were”[3, p. 6-7].

“Per collocare Ippocrate nel suo tempo, e utile ricordare che l’arco della sua esistenza si estese da Socrate a Platone, e che egli morì dieci anni prima della nascita di Alessandro Magno, quando Aristotele era un ragazzo. Pericle, Euripide, Eschilo, Sofocle e Aristofane furono suoi contemporanei. Fu uno di quei momenti di grande esplosione di energia spirituale che di tanto in tanto fanno la loro comparsa nella cultura della civiltà occi-dentale” [4, p. 15]. Una considerazione che come vedremo si può ripetere per il milleseicento-millesettecento con Thomas Sydenham e Giovan Battista Morgagni.

È di origine greca [3, p. 9-11] la teoria dei quattro umori – bile gialla, bile nera, sangue e flegma (= muco), ripresa e diffusa nel mondo di Roma da Galeno (che nasce a Pergamo, prossima all’Egeo, e scrive in greco) nel II secolo dopo Cristo. La teoria - (“humoralism” [3, p. 15]) - collega la salute all’equi-librio (eucrasia) e la malattia al disequibrio (discrasia) fra gli umori. Ogni discrasia è personale, le infermità sono indivi-duali: non esiste il concetto di malattie condivise da gruppi di pazienti e caratterizzate da sintomi, segni e decorso comuni, che sarà introdotto nel milleseicento da Thomas Sydenham.

Il rapporto fra medici e pazienti

Luigi PagliaroProfessore emerito di medicina - Università di Palermo

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Seguendo la teoria, il medico deve identificare la discrasia che determina l’infermità, e deve riportare a norma gli umori deviati. È questa la ragione che lo induce a prescrivere cli-steri, salassi, purganti, diuretici, emetici, e altre procedure.

La teoria dei quattro umori ha sopravvivenza pluriseco-lare, fino al milleottocento. Ma “like a castle built in the air [5, p. 108]” non è fondata su fatti osservabili; le cure su di essa fondate sono inutili e spesso dannose, e di esse è specialmente dannoso il salasso, per secoli usato largamente: “Bloodletting is one of the oldest and most persisting therapies...it continued to be a mainstay therapeutics until the mid-19th century, and was abandoned only gradually and reluctantly” [3, p. 12-13].

Nel 1799 George Washington, presidente degli Stati Uniti di America, si ammala di una epiglottite presumibilmente batterica. E la sua storia è un esempio di come il salasso possa contribuire e forse essere decisivo per la morte di un paziente – in questo caso, di un paziente illustre. La malattia, curata con un salasso “eroico” di 2365 ml di sangue in meno di dodici ore, con ripetute applicazioni di vescicanti di can-taride e con purganti (calomelano), porta Washington alla morte in due giorni, dal 12 al 14 Dicembre 1799. “In conside-ring the final illness of George Washington, it is worth remem-bering that he received prompt and expert medical care that reflected then current concepts” [6]. “Expert medical care” che il presidente accetta senza apparenti riserve, proprio come in ogni tempo pazienti di qualsiasi rango hanno subito cure che i medici ritenevano utili e che utili non erano. Del resto anche oggi le cure omeopatiche trovano seguaci, e nelle farmacie si trovano banchi di “farmaci“ omeopatici – acqua fresca nella polemica ma esatta definizione di Silvio Garattini.

2. Il medioevo 2.1. “Fra i primi scrittori cristiani del Medioevo, alcuni, come Gregorio di Tours, avevano messo l’accento sull’immoralità della medicina, in quanto i medici cercavano di cambiare il giudizio di Dio. Gregorio citava esempi di uomini e donne che avevano ricevuto la giusta punizione per aver cercato soccorso nella medicina, fornendone altri di persone guarite miracolo-samente con l’olio benedetto dopo che i medici nulla avevano potuto...E secondo Bernardo di Chiaravalle «consultare medici e prendere medicamenti non e conforme alla religione e contra-rio alla purezza» [7, p. 71]. 2.2 Nel Medioevo, il rapporto fra medici e pazienti è profon-damente influenzato dalle ricorrenti e devastanti pandemie di peste - soprattutto nel milletrecento, e poi in media ogni dieci anni nei successivi tre secoli [7, p. 123]. Ma nella storia dell’umanità la peste è un’afflizione antica: nel quarto secolo avanti Cristo così racconta Tucidide. “Sul cominciare dell’e-state fece la sua prima comparsa fra gli Ateniesi la peste… In nessun luogo, mai a memoria d’uomo, si ricordava un simile flagello, e una così grande strage di uomini. Né i medici erano in grado di combatterla… anzi essi stessi, in modo particolare, morivano, in quanto più di tutti si accostavano ai malati [8] – dal IV secolo a.C., un breve richiamo al rapporto fra medici e pazienti. Nel milletrecento, la peste, “spazzando il Paese

come uno tsunami”, uccide in Inghilterra circa il 45% della popolazione [7, p. 119]. In Toscana ispira il Decamerone di Boccaccio, e così la descrive Agnolo di Tura: “La mortalità cominciò in Siena di magio… El padre abandonava el figliolo, la moglie el marito, e l’un fratello l’altro… E io, Agnolo di Tura, detto il grasso, sotterrai 5 miei figliuoli co’ le mie mani, e mori-vano tanti, che ognuno credea che fusse finemondo” [7, p.121]. Barbara Tuchman: I dottori, in veste rossa e cappuccio di pelliccia, curavano gli ammalati con terapie intese a far uscire dal corpo veleno e infezioni, in gran parte fondate sulla teoria dei quattro umori: salassi, purganti e clisteri, applicazione di impiastri caldi, incisione e cauterizzazione dei bubboni. Nessuno di questi rimedi era utile [9, v. figura].

3. Rivoluzione medica: 1600, Thomas Sydenham; 1700, Giovan Battista Morgagni Il milleseicento è il secolo della rivoluzione medica [7, p. 225]. La richiesta di assistenza medica passa dal 5% del 1585 al 50% del 1705 [v. figura; da 7, p. 226]. 1600: nel 1666, in Inghilterra, Thomas Sydenham pubblica l’opera Methodus curandi febres, nella quale per la prima volta appaiono due concetti fondamentali [10]. Il primo concetto: il rapporto tra medico e paziente si deve

fondare “on the personal observation of the physician at the bedside when attending case… and not appealing entirely on the ancient authorities”; è il lavoro del clinico, come verrà descritto tre secoli (nel 1967) dopo da Feinstein in Clinical Judgement [11, p. 21]: “The clinician is the doctor at the sufferer’s bedside, the doctor who accepts responsibility for the life entrusted to him by the patient, the doctor who plans the strategy and executes the tactics of therapeutic care”. Anche se oggi molti pazienti hanno malattie croniche dalle quali non sono obbli-gati a letto e le cure sono spesso condivise fra più specialisti, le parole di Sydenham e poi di Feinstein restano vere per il

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medico di medicina generale e - nella medicina ospedaliera - per il medico di medicina interna o per lo specialista delle malattie per le quali il paziente è a maggior rischio di morire – il cardiologo e l’oncologo. Il secondo concetto: le malattie non sono eventi individuali. Nel suo elegante inglese, Sydenham rovescia il concetto ippocratico-galenico di infermità come eventi individuali, e scrive: “Nature in the production of disease is uniform and consistent, so much so that for the same disease in different persons the symptoms are for the most part the same, and the selfsame phenomena that you would observe in the sickness of a Socrates you would observe in the sickness of a simpleton”. 1700: Giovan Battista Morgagni. Un secolo dopo Sydenham, la moderna procedura di esame del paziente viene da Giovan Battista Morgagni [4, p. 150-151]. Nel De Sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (pubblicato a Venezia nel 1761), Morgagni descrive circa settecento casi per i quali i sintomi della malattia possono essere ricondotti, dopo la morte, agli organi di origine. Le sue scoperte sono una rive-lazione che molti medici a lui contemporanei accolgono con stupore, abituati come sono ad attribuire la malattia a ele-menti vaghi: venti cattivi, lassismo morale, miasmi e a una divinità molto calunniata [4, p. 208].

4. Dal tardo 1600 (1673, Molière) al 1829-30 (Spedale Grande e Nuovo, Palermo) e poi al 1860 (Oliver Wendell Holmes, “the spirit of skepticism)Le cure basate sull’intento di riportare a norma gli umori dominano indiscusse la pratica dei medici per molti secoli, fino alla metà del 1800. Nel 1673, a Parigi, quasi in contemporanea con le intuizioni di Sydenham in Inghilterra, Molière volge in satira le cure correnti nella sua ultima commedia “Le malade Imaginaire”, per la prima volta in scena il 10 febbraio al Palais-Royal (v. figura). Le cure per le malattie di cui narra - hydropisia; eticis, pulmonicis, atque asmaticis; grandam fievras cum redou-blamentis; grandem febrem cum attac-chis violentis - erano certamente quelle diffuse nella pratica del tempo (altrimenti la satira non avrebbe avuto mordente), e sono invariabili nella voce dei candidati medici a un esame immaginario:

Clysterium praticare, Postea salassare,

Infinem purgare ...e in quella dei medici laureati che li esaminano:

Bene, bene, bene, bene respondere Dignus, dignus est entrare

In nostro docto corpore Passano 150 anni, e nel 1829-30, le stesse cure sono appli-cate ai pazienti ricoverati nello Spedale Grande di Palermo, che ha sede nel trecentesco Palazzo Sclafani. Ecco le cure che nello Spedale Grande ricevono i sessantasei pazienti ricove-rati in quei due anni [11]:

• uno o più clisteri in 32 casi (48%); • uno o più salassi in 24 casi (36%); • somministrazioni ripetute di purganti in quasi tutti i casi.

Sono cure inutili, disagevoli e spesso dannose; cambiando continente, nel 1860, in una presentazione alla Massachusetts Medical Society, Oliver Wendell Holmes, ”the spirit of skep-ticism” afferma che “Throw out a few specifics which our art did not discover… and I firmly believe that if the whole materia medica, as now used, could be sunk to bottom of the sea, it would be all the better for mankind – and all the worse for the fishes” [12], epigramma legittimato dalla pratica del tempo.

E i pazienti? Non amano le cure eroiche: “Patients, gene-rally speaking, adored some bloodletting and some purging. But heroic medicine went beyond the bounds of what patients found acceptable. It was the eccesses of traditional therapeu-tics, not its basic principles, that caused unease among suffe-rers, making primary care seem more a last resort than a route to wellbeing” [5, p. 109]. È questo il rapporto dell’epoca fra i medici, amanti delle cure anche se “eroiche” (come la storia di Washington insegna), e i pazienti che le subiscono, soffe-renti e forse scettici.

5. Jules Romains, Knock (Paris, Comedy des Champs-Elysées, 15 décember 1923); pubblicato da ‘Editions Galli-mard, 1924 • Le tambour: “Le docteur Knock, successeur du docteur

Parpalaid, presente ses compliments à la population de la ville e du canton de Saint Maurice, et a l’honneur de lui faire connaitre que, dans an esprit philanthropique, et pour enrayer le progrès inquiétante des maladies de toute sourte que envahissent depuis quelques années nos regions si salubres autrefois...il donnera tous le lundis matin, de neuf heures trente à onze heurs et trente, une consultation entierement gratuite, réservée aux habitants du canton” (p. 38)

• Knock: “Tomber malade”, vieille notion qui ne tient plus devant le donnèes de la science actuelle. La santé n’est qu’un mot, qu’il n’y aurait aucun inconvenient à rayer de notre vocabulaire. Pour ma part, je ne connais que de gens plus o moins atteints de maladies plus o moins nombreu-ses...(p. 80)

• Vous me donnez un canton people de quelques milliers d’individus neutres, indeterminés. Mon role, c’est de les déterminer, de les amener à l’existence medicale. Je les mets au lit, e je regarde ce qui va pouvoir en sortir: un tuberculeux, un névropath, un artério-scléreux, ce qu’on voudra, mais quelqu’un, bon Dieu! Quelqu’un! Rien ne m’agace comme cet etre ni chair ni poisson que vous appelez un homme bien portant. (p. 135).

6. 1943. Un paese, la guerra, un dottore Reitano è un paese dei Nebrodi; 400 metri sul livello del mare, circa 1500 abitanti nel 1930-40, oggi non più di 400, il resto defunti o emigrati.

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6.1 Quando andando a Mistretta mi fermo fugacemente a Reitano, passo per vicoli silenziosi; pochi passanti, pochi bambini, case sbarrate, scuri di legno chissà da quanto non più aperti. E parlando di defunti, è forse leggibile nella figura qui sotto la formula perfetta che racconta la morte nel regi-stro degli atti della Chiesa Madre (Codex incipiens ab anno Dei 1651): ”mortem cum vita commutavit in maiore (o minore) etate”, a cui seguiva il nome del defunto. Il registro è oggi chiuso in un mobile dietro la mia poltrona di lavoro, recuperato da mio cugino Filippo Pagliaro dal materiale che aveva già mandato al macero l’arciprete Colli per “sbarazzare” la sacrestia e riverniciarla (Figura 1). A Reitano era medico condotto il dottor Antonino Salvatore Pagliaro, mio padre, in famiglia e per gli amici Turiddu, dimi-nuitivo del secondo nome Salvatore. Si occupava dei malati abitanti in paese o in campagna. Aveva anche un piccolo

laboratorio, e poichè non c’era elettricità (nè acqua corrente), per l’esame al microscopio del sedimento le urine erano cen-trifugate con una centrifuga azionata a mano. Questo era un mio compito, come la colorazione degli strisci di sangue (May Grunwald-Giemsa) per la ricerca dei parassiti della malaria (che era diffusa, e in qualche caso, mortale – se era da P. Fal-ciparum, raro ma presente a Reitano). Ho molti indizi che mi fanno credere che mio padre, per la sua competenza tecnica e per la sua dedizione, fosse a Reitano molto apprezzato e ben-voluto. È uno straordinario documento di coraggio e senso morale di mio padre la vicenda a cui si riferisce la storia di un giovane del paese – Luigi Dainotti - qui di seguito riportata. 6.2 La Figura 2 è il certificato di morte di Luigi Dainotti, di 29 anni, di Reitano; la data è il 30 luglio 1943, uno o due giorni prima dell’arrivo in paese dei primi soldati americani.

Luigi Dainotti era uno sbandato, uno dei tantissimi mili-

Figura 1

Figura 2

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tari siciliani che vivevano da sbandati nel caos di quei giorni; si era nascosto sulla montagna che sovrastava dal lato di Reitano l’ingresso a uno dei ponti della statale fra Reitano e Mistretta – il ponte di Giordano, si chiama così anche oggi. Il ponte non c’era più - era stato fatto saltare dai tedeschi in ritirata ed era ridotto ai due tronconi rispettivamente dal lato di Reitano e di Mistretta. Luigi Dainotti era sceso a bere vicino al troncone di ponte distrutto dal lato di Reitano, ed era saltato su una mina messa dai tedeschi subito davanti al casotto che apriva la condotta nella quale scorreva l’acqua. Era rimasto gravemente ferito, con le gambe dilaniate dallo scoppio della mina. Mio padre fu chiamato – eravamo sfollati in una nostra campagna, si chiama Pantano, e a piedi (4 o 5 chilometri, 2 su un sentiero di campagna, gli altri sulla statale verso Mistretta) andò a suo ipotetico soccorso. Non poteva fare nulla, ma rimase ad assistere il ferito, non so per quanto tempo, comunque alcune ore, fino alla sua morte (vedi l’atto di morte nella figura). È la posizione morale del medico che assiste il suo paziente anche se non può essere efficace. La stessa che vedremo nel “Doctor” di Luke Fildes al capez-zale (capezzale? sedie accostate con qualche cuscino) di un bambino forse morente nel capitolo “Vedendo un quadro”.

7. 23 Maggio 1992. La mafia e le vittime Fuori tema – ma è la testimonianza di chi ha vissuto come amico personale la storia di Giovani Falcone e Francesca Morvillo. Alle ore 18.30 del 23 maggio 1992 arrivano al Pronto Soccorso dell’Ospedale Vincenzo Cervello di Palermo i primi politraumatizzati, vittime dell’attentato di Capaci (l’ospedale dista da Capaci pochi minuti di ambulanza). Su Francesca Morvillo viene stilata la seguente relazione:

“Stato soporoso (risposta quasi assente agli stimoli esterni, riflessi corneali e pupillari torpidi). PAO 65/40 mmHg. Evi-dente frattura biossea esposta della gamba destra; verosimile frattura del collo del piede sinistro; frattura biossea dell’avam-braccio sinistro; vistoso ematoma popliteo destro con asfig-mia della pedidia e della tibiale posteriore omolaterali. Ferita lacero contusa labbro inferiore… ematoma regione anteriore del torace… condizioni peggiorate (coma, assenza di riflessi… elisoccorso già impegnato (due elicotteri in volo con pazienti a bordo)… trasferimento in ambulanza all’Ospedale Civico per TAC (Tac di Villa Sofia non in funzione)”.

Trasferita all’Ospedale Civico, Francesca Morvillo muore intorno alle 22. Alle 19.05 nello stesso luogo era morto il marito, Giovanni Falcone.

È difficile mantenere il tono asettico di una relazione scientifica davanti all’amarezza e alla rabbia per la sorte delle vittime di delitti atroci, ed è ancora più difficile se quelle vittime le conosci personalmente. Tante volte Giovanni Falcone mi aveva convocato nel suo ufficio al piano rialzato del Palazzo di Giustizia, o era venuto nel mio studio all’Ospe-dale Cervello. Gli argomenti più frequenti erano i problemi clinici veri o presunti dei detenuti dell’Ucciardone, il vecchio carcere di Palermo. Un esempio: le crisi ipoglicemiche, ricor-renti e severe fino alla perdita di coscienza di un omicida

napoletano (di cui ricordo ancora il nome, anche se non lo scrivo). Perchè di crisi ipoglicemiche si può morire, e nessun giudice si augura che un carcerato sotto la sua responsabi-lità muoia in questo modo. Sembravano irrisolvibili fino a quando Falcone trasferì il detenuto protagonista di questa storia in una struttura sanitaria per detenuti di Parma, dove senza cure si verificò una definitiva “guarigione”.

È difficile per chi ha avuto amicizia, affetto e rispetto per Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e che può con-centrare la propria amarezza e rabbia sui tradimenti che Falcone subisce in vita anche dal Consiglio Superiore della Magistratura, che gli preferisce come giudice istruttore un grigio anziano personaggio che mai si è occupato di mafia, e che come primo provvedimento cancella il pool creato da Falcone. O che percorrendo l’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo alza lo sguardo subito prima dello svincolo per Capaci e legge “NO MAFIA” sulla casamatta bianca dove il pluriomicida di adulti e bambini Giovanni Brusca col tele-comando in pugno attendeva il passaggio di Falcone, avver-tito di ogni dettaglio chissà da chi. 2. Rapporto fra medici e pazienti, oggi

F.J. Ingelfinger. Health: a matter of statistics or feeling? Editorial. Ingelfinger reports an aphorism of Lawrence Henderson, a world-famous American biochemist, 1935: “Somewhere between 1910 and 1912 in this country…a random patient, with a random disease, consulting a doctor chosen at random had, for the first time in the history of mankind, a better than fifty-fifty chance of profiting from the encounter” N Engl J Med 1977;296, p. 448-449 L. Pagliaro, A. Argo: La medicina: due componenti, molte varianti [13]. La medicina ha due componenti: la prima è l’efficacia delle cure, dovuta alla competenza clinica, che presuppone la dia-gnosi, e che ha lo scopo di migliorare il corso delle malattie, ottenendone la guarigione, arrestandone la progressione, o alleviandone i danni funzionali. La seconda è la funzione di sostegno morale a una persona che ha una malattia a pro-gnosi grave o incerta e ne soffre le conseguenze emozionali, generalmente definita come empatia. L’efficacia delle cure, in straordinario progresso dalla metà del secolo scorso a oggi, presuppone una diagnosi corretta; è basata sulla ricerca, e sulla competenza dei clinici nell’adattarne i risultati alle variabili caratteristiche specifiche dei propri malati. L’em-patia richiede al clinico di considerare il paziente come una persona con cui stabilire una comunicazione bidirezionale e un rapporto di vicinanza psicologica”. In coerenza con questa premessa, ecco l’analisi delle due componenti, con l’aggiunata di una terza- frammentazione del paziente e specializzazioni:

2.1 Competenza clinica 2.2 Il paziente come persona e l’empatia 2.3 Frammentazione del paziente e specializzazioni

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2.1. Competenza clinica Introduzione “L’acquisizione della competenza in compiti complessi come gli scacchi di alto livello, la pallacanestro professionale o il domare gli incendi e lenta e complicata, perché la competenza in un dato campo non e tanto una singola capacità, quanto un nutrito insieme di mini-capacità. Gli scacchi rappresentano un buon esempio. Un giocatore esperto comprende una configura-zione complessa con una sola occhiata ma ci vogliono anni per maturare quel livello di abilità” Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci. Arnoldo Mondadori, Oscar saggi, 2013, p. 263. Il medico che acquisisce il “nutrito insieme di minicapa-cità” della competenza in medicina e del rapporto con i suoi pazienti è il clinico. Nella definizione di Feinstein [14, p. 21], il clinico è “the doctor at the sufferer’s bedside, the doctor who accepts responsibility for the life entrusted to him by the patient, the doctor who plans the strategy and executes the tactics of therapeutic care ”(prescribing, v. figura)

Prescribing, MC Escher Anche se oggi i pazienti che ricorrono alla medicina in grande maggioranza non sono costretti a letto e se per molti di essi le cure sono distribuite fra più specialisti (non sempre coordinati), tuttavia ancora corrispondono alla descrizione di Feinstein il medico di medicina generale, l’internista ospe-daliero e gli specialisti che si occupano di malattie ad alto rischio di morte – cardiologi, oncologi, medici di unità di emergenza. Appartiene a questi medici che fanno i clinici la parte più difficile della medicina, ma anche quella di mag-giore soddisfazione umana, etica e intellettuale. Le minicapacità che si integrano nella competenza clinica sono sei, qui riportate in dettaglio come minicapitoli: 1. esperienza e riflessione; 2. intuizione; 3. role models; 4. capacità di usare la tecnologia e l’informatica per la diagnosi e per la terapia; 5. capacità per quanto possibile di evitare gli errori; 6. capacità di controllare le “distrazioni” dell’EBM.

1. Esperienza e riflessione L’esperienza non si identifica con il crescere degli anni di pratica [15]. Considerarla tale è un errore, come sapeva già Osler nel 1889: “The value of experience is not in seeing much, but in seeing wisely” [16, p. 198]. L’esperienza è il

fattore più importante della competenza e della capacità di comprensione clinica e umana dei pazienti se il clinico riflette sul proprio lavoro e sugli errori compiuti, e se custodisce in memoria quello che ha fatto, di buono e di sbagliato (Pagliaro L et al, 17, p. 239-280; Zwaan et al, 18). Sono questi i con-cetti alla base della “deliberate practice” di Ericsson [19], dove “deliberate” significa ponderata; cioè una esperienza clinica-mente utile perché associata a riflessione, e a un feedback che preceda e segua decisioni e interventi: “Based on a review of research on skill acquisition, we identified a set of conditions where practice had been uniformly associated with improved performance. Significant improvements in performance were realized when individuals were: - given a task with a well defined goal, - motivated to improve, - provided with feedback, and - provided with ample opportunities for repetition and gradual refinements of their performance”. Quando ha queste caratteristiche, l’esperienza dei clinici è fattore fondamentale della generale riduzione di mortalità, come largamente documentato in letteratura. Per esempio, questo accade per l’infarto del miocardio, per l’insufficienza cardiaca, per la polmonite [20], per le sepsi [21]; infine per la chirurgia, dove la mortalità è minore negli ospedali con maggior volume di interventi e per i chirurghi con più inter-venti [22]. E l’esperienza può essere, attraverso il continuum di incontri con la sofferenza e con le preoccupazioni dei pazienti, fattore determinante di una pratica di una medicina ispirata all’etica, alla comunicazione con il paziente e a una funzione samaritana - e che non sia solo arida biomedicina.

2. Intuizione “Un contadino indica a un ornitologo un piccolo punto nero che vola in distanza, e lo identifica come una cornacchia. Le ragioni per questo riconoscimento apparentemente arbitra-rio sono le seguenti...” (L Pagliaro et al, [17], p 118-119; ripreso da K Hodgkin, Towards earlier diagnosis. Churchill Livingstone, 1973,p. 15) Questo quadretto agreste coglie l’intuizione di un contadino certamente digiuno di studi ornitologici, e dell’intuizione evidenzia cinque caratteristiche: primo, il contadino non ha avuto bisogno di riflessione per decidere che il puntino nero è una cornacchia (l’intuizione è immediata); secondo, l’intu-izione è basata sull’esperienza (chissà quante volte il conta-dino ha visto cornacchie volare in stormi al tramonto); terzo, l’intuizione dipende dal contesto (c’è una colonia di cornac-chie sugli alberi vicini); quarto, dovendo spiegare perchè ha detto che il puntino nero è una cornacchia, il contadino non saprebbe rispondere (l’intuizione ha un percorso mentale inconscio); infine - quinto - il contadino è pienamente fidu-cioso nel suo riconoscimento, e non ha dubbi sul fatto che il puntino nero sia una cornacchia. E concludendo con K Hodgkin, p. 15: “The family doctor uses his background knowledge of his practice in a similar way”. Un esempio storico di intuizione è la lettera inviata a Lancet

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dall’ostetrico australiano William McBride, e pubblicata dal giornale nel dicembre 1961. Nella sua breve lettera (14 righe), William McBride scrive che mentre la frequenza di anomalie congenite è circa l’1.5%, in donne che in gravidanza avevano assunto Distaval (talidomide) come anti emetico o sedativo era quasi del 20%; e chiede: ha qualcuno dei vostri lettori visto simili anomalie in bambini partoriti da donne che in gravidanza avevano assunto questo farmaco? (v. L Pagliaro et al, [17], p. 118). Nella definizione di Gigerenzer, [23] l’intuizione è: • un giudizio che affiora rapidamente alla coscienza • del cui fondamento e ragione non siamo pienamente consapevoli • che ha una forza sufficiente per indurci ad agire e ricorrendo a un esempio clinico e non ornitologico, è signi-ficativo il racconto del Dr Jenkins, di Cardiff (v. BMJ, Narra-tive based medicine in an evidence-based world. 1999;318:p. 323-325): “ricevetti una chiamata telefonica da una mamma che diceva che la sua bambina aveva avuto diarrea e si compor-tava in modo strano (“was behaving strangely”). Io conoscevo bene la famiglia, e fui abbastanza preoccupato da sospendere il mio ambulatorio per visitarla immediatamente. La bambina aveva una meningite meningococcica. Daniel Kahneman riporta in Pensieri lenti e veloci l’inter-pretazione dell’intuizione di Herbert Simon, (v. p. 261): “la situazione ha fornito un indizio, questo indizio ha dato all’e-sperto accesso a informazioni immagazzinate nella memoria, e le informazioni forniscono la risposta. L’intuizione non e ne più ne meno riconoscimento.” È una interpretazione interessante, che apre una finestra sulla ricchezza di sentieri e connessioni con cui funziona la nostra mente.

3. Role models “Disease in man is never exactly the same as disease in an expe-rimental animal, for in man the disease at once affects and is affected by what we call the emotional life. Thus, the physician who attempts to take care of a patient while he neglects this factor is unscientific as the investigator who neglects to control all the conditions that may affect his experiment…Time, sym-pathy and understanding must be lavishly dispensed, but the reward is to be found in the personal bond which forms the greatest satisfaction of the practice of medicine. (FW Peabody. The care of the patient. JAMA 1917; 88:877-882). “Faculty members who emphasized interactions between patients and physicians and the psychosocial aspects of medi-cine…were more likely to be perceived as positive role models… While physicians who show insensitivity to or disrespect for patients, professional dissatisfaction or a lack of camaraderie are judged to be negative role models” (Skeff KM, Mutha S. Role models – guiding the future of Medicine. N Engl J Med 1998;339:2015-2017). “The gradual emergence of the system of the visiting professor-ship during the past decade has somehow escaped the notice of social anthropologists and educators. The ambitious young chairman invites the most powerful itinerant academic politi-

cian to be his visiting professor. The honored guest is flattered to be asked, and his head is obviously turned by the flowers and cellophane-wrapped fruit awaiting him in his hotel bedroom…It is hoped that this analysis by the authors, who in the past as hosts have ben flagrant sinners and as visiting professors sinned against, will serve to increase the teaching productivity and enjoyment of an institution that now is an accepted part of modern medical education.” (Eiseman B, Thompson JC. The visiting professor. N Engl J Med 1977;296:845-850). Una interpretazione maliziosa: visiting+host = vanità per due. Dal racconto di due giovani medici di una divisione di Medicina Interna: “Il professore dedicava almeno l’80% del tempo che trascorreva in ospedale all’attività clinica, svolta al letto del paziente, delegando ad altri i compiti ammini-strativi. Teneva molto alla visita dei pazienti che svolgeva con grande regolarità in entrambi i piani del reparto, a giorni alterni, per cui vedeva ogni paziente almeno due volte alla settimana, partecipando direttamente al programma dia-gnostico e terapeutico. La visita si svolgeva così: il profes-sore entrava in sala sempre sorridente, salutava inchinando il capo, e lasciava il passo agli studenti e ai medici donne. Avvicinava lui stesso la sedia accanto al letto del paziente, e con questi, dopo averlo salutato, iniziava un rapporto fatto di complicità e affettuosità. Ciò avveniva stabilendo subito con il paziente un contatto fisico, per esempio tenendone il polso o il braccio. Quindi iniziava l’intervista partendo sempre da dettagli personali del paziente. Chiedeva del suo lavoro, della sua vita, talora facendo commenti sulle origini del cognome o sul luogo di residenza, o ancora su un particolare della sua persona, i baffi o l’accento. Tutto ciò serviva a raccogliere ele-menti della storia personale del paziente, utili per la diagnosi, ma anche a stabilire un rapporto diretto, basato sulla fiducia. Ogni commento era sempre bonario e complice, mai affet-tato o censorio o moralistico. Ciò si traduceva nella creazione di un rapporto personale, che si rafforzava nella successione degli incontri. Il professore chiedeva dell’attività lavorativa del paziente a cui si rivolgeva con l’esatto titolo o ruolo; chie-deva della sua famiglia e dei figli, per cui l’anamnesi rela-tiva ai problemi clinici che raccoglieva successivamente era già ricca di tanti elementi, utilizzabili anche ai fini del pro-gramma diagnostico e terapeutico. Nel fare l’anamnesi il pro-fessore partiva da domande ampie, non specifiche, e lasciava parlare il paziente su ciò che era più importante per lui, ascoltandolo senza distrarsi e senza prendere mai appunti. In una fase successiva, poneva quesiti più specifici orientati sui singoli problemi emergenti dalla conversazione ed indiriz-zati alla verifica delle ipotesi già formulate. In tale momento dell’incontro con il paziente, utilizzava anche dati anamne-stici raccolti e filtrati dal medico della sala, incorporandoli nella sua personale valutazione. Visitava i pazienti con cura, garbo e gentilezza, evitando di denudarli davanti ai medici e studenti che osservavano; se alzava la camicia da notte a una donna, tirava su il lenzuolo per coprirle le gambe, e non dimenticava mai un paziente scoperto. Alla fine metteva a conoscenza il paziente dell’ipotesi guida, gli comunicava il

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programma e dava molta importanza alla sua rassicurazione. Il professore era sempre facilmente raggiungibile dai pazienti o dai suoi familiari, la porta del suo ufficio era sempre aperta, non aveva alcuna anticamera o un segretario che facesse da filtro. Arrivando presto al mattino, alle 7, i parenti dei pazienti potevano raggiungerlo per chiedere informazioni sul congiunto o sui programmi diagnostici e terapeutici”.

4. Capacità di usare la tecnologia e l’informatica per la dia-gnosi e per la terapia “I really like him as my doctor”, the neighbor told me, but for the first time in all these years he sat at his desk with one eye on the clock and one eye on the computer screen, only occasionally turning his head to look at me” J. Groopman. How Doctors think. A Mariner book, 2008, p.99 “È vero, il medico passa più tempo al computer che a parlare con i pazienti. Ma non è una scelta, se non inserisci al pc i dati richiesti non puoi lavorare, non puoi prescrivere farmaci, non puoi ordinare esami di laboratorio e radiografie” (Remuzzi, lettera personale). E sempre da Remuzzi, sui test d’imma-gine: “Un paziente che abbiamo avuto in questi giorni con una dissecazione dell’arteria renale che non si sarebbe mai potuta diagnosticare senza una tecnologia ecografica avanzatissima, e stato curato da un radiologo interventista che e riuscito a mettere uno stent a fronte di una lesione apparentemente impossibile da riparare”. Remuzzi ha ragione. I test d’immagine – dalla multiadatta-bile ecografia alla TC, alla risonanza magnetica, agli altri oggi disponibili - sono i test diagnostici il cui uso è più aumen-tato negli anni duemila (vedi JK Iglehart, N Engl J Med 2009;360:1300-1037: ”Use and expenditures for imaging ser-vices have increased more rapidly than other physician ordered services).

5. Capacità per quanto possibile di evitare gli errori

Dal 2001 al 2006 Lancet ha pubblicato con varia frequenza la rubrica Uses of Error [24], una serie di brevi articoli, che alla fine saranno 153. Sono scritti soprattutto da medici anziani che raccontano errori lontani nel tempo ma vivi-damente incisi in memoria, a dimostrazione che, anche se è vero che gli errori sono generalmente il prodotto finale di una catena di cause di sistema e individuali [25], il respon-sabile diretto li soffre come eventi traumatici personali. Gli errori possono essere di tre tipi: di diagnosi, di terapia, e di rapporto medico-paziente; seguono come esempi quattro

Uses of Error, uno per ciascuno dei primi due casi, due del rapporto medico-paziente, in contrapposizione a un esempio di rapporto corretto.

Errore nella diagnosi. Nel dipartimento di emergenza del John Hopkins Hospital vidi un giovane negro che aveva febbre e cefalea. Il dipartimento era affollato, e c’era in giro un po’ d’in-fluenza. Così feci un esame rapido, conclusi per influenza, e lo rimandai con un antipiretico. Il giovane si diresse alla porta, uscì e io lo richiamai per dirgli di tornare se non fosse stato meglio. Egli si girò, disse okey e uscì. Mi sembrò che nel suo comportamento ci fosse stato qualcosa di inquietante; ma il mio disagio si dissolse nell’intenso lavoro. Otto ore dopo lo riporta-rono morto. All’autopsia la diagnosi fu di sepsi meningococcica fulminante. E allora realizzai che cosa mi aveva colpito quando si era voltato: non aveva girato il collo – si era voltato con tutto il corpo, rivelando un segno di meningite – rigidità nucale. Io ero devastato e inconsolabile; e da allora non ho mai dimenti-cato che non basta guardare: devi essere capace di vedere [26].

Errore nella terapia. Feci il mio primo errore fatale quando ero un giovane interno. Un uomo di cui ero responsabile ebbe uno stroke embolico da fibrillazione atriale. In ospedale, io regolai il dosaggio del Warfarin mentre lui prendeva anche un barbiturico per l’insonnia. Poi lo dimisi con la stessa dose di Warfarin, sospendendo il barbiturico. Entro una settimana il metabolismo del Warfarin, non più accelerato dal barbitu-rico, si era rallentato al punto che il paziente andò in eccesso di Warfarin; e dovette essere ricoverato in emergenza per una emorragia mesenterica che gli fu fatale [27].

Errori nel rapporto medico-paziente: false interpretazioni e amarezza. Esaminavo con tre studenti la lettera di presenta-zione di una paziente in attesa che lei entrasse. Era una qua-rantaduenne con un nome singolare che veniva per una quarta opinione su un aumento di spessore progressivo e gravemente doloroso di una pleura. La diagnosi di mesotelioma era ovvia, ma le biopsie erano “strongly suggestive” e non “diagnostic”, e la paziente era confusa e angosciata. Mentre aspettavamo io feci una battuta sul suo impronunciabile nome. Così lei, entrando, vide quattro uomini in camice bianco che ridevano – e giusta-mente dedusse che in qualche modo le risate la riguardavano. Io rividi la documentazione, spiegai la diagnosi, lei ascoltò e accettò il suggerimento di rivolgersi a un centro oncologico. Io conclusi con la solita domanda: c’e altro che vorrebbe chiedere? Lei si fermò, e dandomi un’occhiata carica di amarezza, disse: sì. Perche trovate divertente tutto questo? E uscì [28].

Errori nel rapporto medico-paziente: un medico ipo-competente. “Il medico si presenta con un frettoloso borbot-tio così che la paziente non ricorderà il suo nome. Per tutta la durata del colloquio rimane seduto su una sedia a due metri di distanza della paziente, e non c’e contatto fisico; solo due volte le si rivolge per nome (e lo storpia). In più occasioni la paziente manifesta il proprio disagio emozionale, che il medico ogni volta ignora. Il medico: esattamente, dov’e questo dolore? La paziente: e così difficile per me spiegarlo… Il medico: bene, il dolore e alto nella sua pancia, o basso? La paziente: mi sono sentita sempre più debole. Non volevo venire in ospedale…

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sono così spaventata… Il medico: il dolore e venuto prima della debolezza o dopo?” L’esame fisico è brusco. Alla fine dell’intervista, il medico senza commenti chiude così: “Bene, faremo alcuni esami e vedremo qual e la faccenda con lei” [29].

E, in contrapposizione alla storia di questo medico ipo-competente, un’altra storia, del tutto diversa.

“Il giorno in cui siamo venuti da lei per la prima volta, quando siamo entrati e lei l’ha aiutata a sedersi, si ricorda? Mia moglie ha detto: vengo da lei perche il dottor Jardin ha detto che non poteva più fare niente per me. E sia io che mia moglie abbiamo visto come lei era indignato. Ha risposto, me lo ricorderò per tutta la vita: “qualunque sia la malattia, si può sempre fare qualcosa”, e quando ce ne siamo andati, lei ci aveva tenuto lì per un bel po’, eppure mia moglie si sentiva meglio. Ha camminato fino alla macchina senza che la sor-reggessi, e per quindici giorni e stata come non l’avevo mai vista dall’inizio della malattia, ha ripreso coraggio...non sono granche quindici giorni quando uno e stato male di filato per tre anni, ma di quei quindici giorni lei gliene e sempre stata grata... e anch’io. Da: La malattia di Sachs, Feltrinelli 1999, p. 167. Autore Martin Winckler, che è un medico.

6. Capacità di controllare le “distrazioni” dell’EBM What evidence supports teaching Evidence-based Medicine? “If we cannot prove that teaching EBM changes medical practice and patient outcomes for the better, should we conti-nue our crusade?

It is difficult and inappropriate to continue teaching EBM without some evidence that our interventions are beneficial to learners and patients. After rigorous evaluation of the outco-mes of EBM teaching programs, we may discover that the emperor truly has no clothes.”

AE Dobbie et al. Acad Med 2000;75:1184-1185 Le “distrazioni” che spostano l’attenzione dai pazienti in

carne e ossa alle “evidenze” cartacee o dal web (sui test e sulle misure quantitative di probabilità, per la diagnosi; sui trial e sulle meta-analisi per la terapia) sono quelle raccomandate dai corifei della medicina basata sulle evidenze (EBM [30]), introdotta in pompa magna (“A new paradigm for medical practice is emerging. Evidence-based Medicine de-emphasizes intuition, unsystematic clinical experience, and stresses the exa-mination of evidence from medical research”) nel 1992 da un gruppo di lavoro internazionale (chairman Gordon Guyatt).

Ma non mancano gli scettici: nel 1995 Grahame-Smith introduce un immaginario dialogo fra Socrate e un enthusia-sticus dell’EBM: Socrates: “Tell me, Enthusiasticus, (Meta-a-nalyticus), they say you are expousing a new form of medical practice. Is that so? Enthusiasticus:...I am so busy applying this new methodology to the appraisal of medical practice that I no longer have time to see patients myself (D. Grahame Smith. Evidence-based medicine. Socratic dissent. BMJ 1995;310:1126-7).

E nel 1997 Feinstein e Horwitz salutano con ironica defe-renza i successi mediatici dell’EBM: “Within 5 years of the first proposal, evidence-based medicine (EBM) has received enthu-

siastic endorsement from editors of prominent journals, achie-ved the publication outlet of its own new journal, and acquired the kind of sanctity often accorded to motherhood, home, and the flag” [31]. Da allora e a tutt’oggi, l’EBM è circondata da religioso rispetto, benchè essa distragga dal malato deviando i medici alla ricerca di pubblicazioni cartacee o dal web (“evi-denze”), necessariamente di carattere generale e come tali incertamente applicabili a un particolare paziente [v. anche 32, 33]. Ma qual è l’apporto dell’EBM per la diagnosi e le decisioni di terapia?

EBM e diagnosi. La domanda iniziale per interpre-tare sintomi, segni e il loro complesso è: qual è la causa del sintomo x, o del segno y, o del loro complesso? Trovare “evi-denze” dalla letteratura cartacea o dal web in risposta a queste domande, è assai più difficile che trovare risposte a domande di terapia. Molta parte del significato diagnostico dei sintomi e segni dipende infatti da un gran numero di particolari (p- es. contesto clinico, caratteri e cronologia dei sintomi e segni, altro, Pagliaro 17, p. 178). Come è stato osservato “diagnosis depends more on skilled history taking than on examination or studying the results of tests. Evidence-based medicine only follows when a correct diagnosis has been made” [Fowler, 34]. L’EBM ignora gli aspetti cognitivi della diagnosi e degli errori diagnostici [G Bordage, 35]; ecco, in ordine decrescente, le prime 5 cause di errori diagnostici: “it never crossed my mind”;” I paid too much attention to one finding, especially lab results”; “I didn’t listen enough to the patient story”; ”I was too much in a hurry”; “I didn’t know enough about the disease”, e si concentra sui test e sulle probabilità pre- e post-test (Guyatt G et al. Users’ Guides to the medical literature. A manual for evidence-based clinical practice. JAMA evidence, McGraw Hiil Education Third Edition 2015, p. 329-366. Una interpretazione lontana da quella reale nella pratica clinica.

EBM e terapia. Molto più che la diagnosi, la terapia è il tema dominante dell’EBM. Ma l’EBM restringe la sua attenzione ai trial clinici randomizzati e alle meta-analisi, benchè gli uni e le altre siano tipicamente population-derived research [36] e abbiano come tali riconosciute limitazioni per le decisioni cliniche nei pazienti individuali [37-40]: “The paradox of the clinical trial is that it is the best way to assess whether an inter-vention works, but is arguably the worst way to assess who will benefit from it” [Mant, 37] “Between measurements based on RCTs... in the community there is a gulf which has been much under-estimated” [AL Cochrane, citato da PM Rothwell, 38]; “The strength of evidence is often judged by conventional tests that rely heavily on statistical significance. Less attention has been paid to the clinical significance or the practical importance of the treatment effects” [Kaul and Diamond, 39]; “Neither individual trials nor meta-analyses, reporting as they do on population effects, tell how to treat the individual patient;… One size may not be always fit all” [Lau J et al, 40].

Gerarchia delle evidenze. La gerarchia delle evidenze è un assioma dell’EBM, con trial e meta-analisi al posto d’onore. Ma Michael Rawlins, chairman del NICE inglese, in Harve-ian Oration del 2008 osserva: “Decisions about the use of the-

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rapeutic interventions, whether for individuals or entire heal-thcare systems, should be based on the totality of the available evidence. Rather, decision makers need to exercise judgement about whether (and when) evidence gathered from experimen-tal or observational sources is fit for purpose…The notion that evidence can be reliably placed in hierarchies is illusory. Hie-rarchies place RCTs on an uncomfortable pedestal for while the technique has advantages it also has disadvantages.” [41]. Una posizione decisamente condivisibile.

2.2. Il paziente come persona e l’empatia “Medicine is more than the sum of our knowledge about diseases. Medicine concerns the experiences, feelings and interpretations of human beings in often extraordinary moments of fear, anxiety and doubt”. William Osler 1. Il paziente come persona La paura, i sentimenti e e le interpretazioni di un malato assai raramente o mai emergono nella storia che un medico ospedaliero registra e trascrive in cartella; cioè il medico vede nel suo paziente un problema di salute, ma assai meno una persona. 1.1 Da una lettera che Giulio Maccacaro, Professore nell’U-niversità di Milano, scrisse nel 1972 al Presidente dell’Ordine dei Medici di Milano [42]: “La stessa raccolta dell’anamnesi, unica occasione di un vero incontro fra il medico e il malato, delegata dal professore all’aiuto, all’assistente, allo specializ-zando, allo studente interno, all’ultimo arrivato. Ciò imprime nello studente l’idea che questo rapporto con il malato e in fondo un rapporto accessorio, non necessario; questa idea lo studente la porterà sempre con sé, la porterà anche nell’ospe-dale, nell’ambulatorio, ovunque. 1.2. Da Oliver Sacks [43]: “Le anamnesi sono una forma di storia naturale, ma non ci dicono nulla sull’individuo e sulla sua storia; non vi e «soggetto» nella scarna storia di un caso clinico: le anamnesi moderne accennano al soggetto con formule sbrigative che potrebbero riferirsi a un essere umano come a un ratto. Per riportare il soggetto – il soggetto umano che soffre, si avvilisce, lotta – al centro del quadro, dobbiamo approfondire la storia di un caso fino a farne una vera storia, un racconto. Solo allora avremo un «chi» oltre a un «che cosa», avremo una persona reale, un paziente – in relazione alla malattia”. 1.3. Ancora Oliver Sacks [44]: “Noi esseri umani abbiamo molto in comune con gli altri animali, per esempio i fonda-mentali bisogni di cibo, acqua e sonno; tuttavia, vi sono anche esigenze e desideri mentali ed emozionali che forse sono una nostra esclusiva. Vivere alla giornata non ci basta; abbiamo bisogno di trascendenza, estasi, evasione; abbiamo bisogno di significato, comprensione e spiegazione; di riconoscere nella nostra vita dei modelli generali; e di sperare, di vedere un futuro”. 1.4. Infine, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, maggio 2008, p. 235: “Don Fabrizio quella sensa-

zione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita, insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere, andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affol-lano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia...Gli bastava sempre un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua vita e lo lasciavano per sempre ”.

2. L’empatia “Students start out with much empathy …a real desire to help other people. In medical school, however, they learn to mask their feelings, or worse, to deny them” H Spiro, what is empathy and can it be taught? Ann Intern Med 1992; 116:843-846 Gli psicologi distinguono tre tipi di empatia [45, 46]: • Cognitive empathy (understanding): è la capacità di com-

prendere, giudicare e analizzare il comportamento, l’espe-rienza e lo stato presente di un altro;

• Emotional empathy (feeling): è la risposta affettiva alla per-cezione dello stato emozionale di un’altra persona;

• Empathic concern: è la capacità di sentire che cosa un’altra persona richiede da te E secondo una definizione più articolata [47]: “Empathy

can be defined as the ability to understand and share another person’s feelings and perspectives, and using that understanding to guide future actions… Appropriate empathy - while main-taining a clear self-other differentiation - linked with respect and competence will result in an adequate action, and might be a valuable ethical equipment for a good physician”. Il grado di empatia è diverso da un medico all’altro, e si può distinguere in tre modelli, con continuità di passaggi dall’uno all’altro; dei quali il primo (medicina come biomedicina, fre-quente), e il terzo (esagerato coinvolgimento emotivo, non frequente) si traducono in errori nel rapporto con i pazienti. • Empatia e biomedicina

Il medico può interpretare il proprio lavoro in termini esclu-sivamente tecnici, osservando i pazienti come organismi bio-logici con un guasto da riparare, e ignorandoli come persone. Per un medico di questo tipo, la medicina si identifica con la biomedicina, che lascia fuori l’empatia verso il paziente e ogni altra componente psicosociale della malattia (v. figura); e che – forse con maggior frequenza – spiega il declino dell’empatia nel corso della vita professionale dei medici [45].

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È il dogma segnalato da Engel (1977), professore di medicina e psichiatria: “The biomedical model has thus become a cultu-ral imperative, its limitations easily overlooked. In brief, it has now acquired the status of dogma” [48]. Il dogma della bio-medicina ha la sua prima origine nel curriculum pre laurea fortemente sbilanciato verso di essa, tanto da provocare due domande retoriche. La prima: “The relevant question is not how to create [humane qualities] but how it comes about that medical education destroys them” [49]; e la seconda: “Is there hardening of the heart during medical school?” [50]. Forse i curricula pre-laurea (e di specializzazione) sbilan-ciati a favore della biomedicina andrebbero interpretati (e corretti) come “root cause” degli errori dei medici nel loro rapporto con i pazienti o forse, anche a prescindere dai cur-ricula, è difficile che un medico possa resistere per l’intera vita professionale alla pressione di una pratica, soprattutto in ospedale, votata all’interpretazione biomedica della malattia e del malato, e alla omissione della componente psico-so-ciale. Per il clinico, una professione praticata come biomedi-cina in assenza o carenza di sensibilità e di empatia, che oggi è noto essere correlata a disfunzione dell’amigdala, si traduce nel rischio di incorrere in “patients’ reports of minimal emo-tional responses and an impaired ability to recognize distress in peers or respond physiologically to it [51].

• Altri medici si interessano del paziente non solo come problema clinico ma anche come persona; condividono le sue preoccupazioni, si interessano della sua famiglia, del suo lavoro, della sua vita passata (i malati anziani sono più frequenti dei giovani), delle conseguenze personali e familiari della malattia. Non nascondono la verità ma non distruggono la speranza, mostrando che c’è sempre qual-cosa da fare [52, p 87].

• Empatia ed esagerato coinvolgimento emotivo. Può acca-dere infine che un medico venga emozionalmente travolto dalla sofferenza di un paziente – o dalla morte recente di un altro suo paziente. Come conseguenza, in un paziente successivo il medico può prendere una decisione clinica inappropriata – di accanimento terapeutico (un esempio: un neolaureato risuscita da un arresto cardiaco una ottantenne con un carcinoma mammario estesamente e dolorosamente metastatico [53]); oppure, al contrario, di rinuncia a una terapia giudicata, sbagliando, non utile.

2.3. Frammentazione del paziente e specializzazioni “Non esiste più, dammi retta, il vecchio dottore che curava tutte le malattie, adesso ci sono solo specialisti che si reclamiz-zano sui giornali. Hai problemi al naso? E loro ti mandano a Parigi, dove c’e il migliore specialista europeo per le malattie del naso. Arrivi a Parigi, lui ti visita il naso, poi sentenzia: posso guarirvi la narice destra, perché della sinistra non mi occupo. Andate a Vienna, troverete uno specialista particolare per le

narici sinistre”. Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, 1879 Fedor Dostoevskij leggerebbe con vivo interesse un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2011 e intitolato “Specialization, Subspecialization, and Subsubspe-cialization” [54], che si conclude con un commento critico alla crescente moltiplicazione delle specializzazioni: “At a time when most authorities believe that the country despera-tely needs more generalists, the American Board of Internal Medicine (ABIM) is adding new specialties… New specialties can benefit both patients and physicians. However, a prolife-ration of specialties without adequate justification may simply confuse the public without creating a social good”. E con eguale interesse per la medicina specialistica Fedor Dostoevskij leg-gerebbe i tre brani di seguito riportati, dei quali il terzo è un elegante “filler” del BMJ. 3.1 “There is some basis for the criticism that doctors tended

to become more interested in the workings of diseased organs than in their owners… Responsibility for the care of the “whole patient” is delegated to more recently qualified members of the staff, who orchestrate events by calling in one specialist after another to offer an opinion on the piece of patient that interests him or her [55, p. 326]”.

3.2. “Defining Patient-Centered Medicine”. A patient consults an orthopedist because of knee pain. The surgeon determi-nes that no operation is indicated and refers her to a rheu-matologist, who finds no systemic inflammatory disease and refers her to a physical therapist, who administers the actual treatment. Each clinician has executed his or her craft with impeccable authority and skill, but the patient has become a shuttlecook. Probably a hassled, frustrated and maybe bank-rupt shuttlecook. [56].

3.3 “Dorothy and her Doctors” [57]. Dorothy era stata nostra vicina per molti anni, e aveva vissuto sola da quando, dieci anni prima, era morto il marito. Nonostante la sua decisa volontà di rimanere indipendente e autosufficiente, era stata ricoverata in ospedale per compensare un sempre più instabile diabete. La nostra visita in ospedale coincise con il suo novantesimo compleanno; era seduta sul letto e indossava un’elegante giacchetta rosa, i sottili capelli erano accuratamente spazzolati. Tre cartoline d’auguri di compleanno sul comodino segnalavano orgogliosamente l’anniversario. Quando le domandammo come stava, esitò per parecchi secondi prima di rispondere. “Bene”, disse pacatamente, “un grazioso giovane dottore è venuto e ha guardato le ulcere sui miei vecchi piedi, una dottoressa è venuta e ha guardato i miei occhi, e poi uno specialista più anziano è venuto e ha ascoltato il mio cuore”. Avver-tendo che non era del tutto soddisfatta di come era assi-stita nonostante l’accuratezza delle indagini, la invitai a un ulteriore commento. Di nuovo lei esitò, sospirò, e guar-dandomi negli occhi rispose: “Bene, io ho un dottore per i

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miei piedi, uno per i miei occhi e uno per il mio cuore, ma non mi pare di avere un dottore per me”.

3. La comunicazione

“They [the patients] do expect their doctors to be [intelligible and ]exquisitely humble and very gentle about these things [chance of cure or the likely length of survival]” Lancet 2002; 359:1245) «Dottore, posso chiederle...» «Mi dica» «Fra poco e Natale. Andrò a casa?» «Certamente. Vorremmo poterlo dire a tutti, vorremmo che il giorno di Natale i malati lo passassero a casa, non in ospedale» «Ma io veramente glielo chiedevo...» «Ho capito, vorrebbe restare qua con noi. Nessun problema, può rimanere, ci farà compagnia» Andrea (non e il suo vero nome) accenna un sorriso. «Sa dottore, il Natale a casa da solo. C’e un badante, viene per qualche ora, fa le pulizie, mi porta in bagno. I giorni normali va bene, ma il Natale no». Sì, perché se sei solo, in ospedale lo sei di meno… Capita perfino di fare due chiacchiere coi parenti del tuo vicino di letto... Se gli portano un fiore puoi far finta che sia un po’ per te... [52, p. 1-3]. La comunicazione è una componente essenziale del rapporto fra medico e paziente. Il medico deve essere abile a cogliere quello che il paziente dice e anche quello che non dice, il lin-guaggio non verbale; deve sedersi (stare in piedi esprime la fretta; e rimanendo in piedi il medico tacitamente comunica di essere in posizione più elevata); deve parlare con i pazienti, non avere fretta di passare all’altro letto o di andar via; non deve perdere il suo tempo al telefono; e al paziente che non vuole andare a casa a Natale deve dire la verità, ma senza togliere la speranza [52, p 87].

4. Vedendo un quadro

(L Pagliaro. Medicina basata sulle evidenze e centrata sul paziente. Il Pensiero Scientifico Editore, 2006. p. 301-304) Luke Fildes. The Doctor, 1891. Tate Gallery, Londra

“La dignità della professione medica non sta nell’onnipotenza risolutiva, ma nel farsi prossimo di colui che soffre. Questo Sir Luke l’aveva sperimentato di persona nei giorni in cui il dottor Murray visitò il figlio Philip, per la malattia di cui

sarebbe morto il mattino di Natale del 1877” (da: Dizionari dell’arte. La Medicina, Electa 2009, p. 366)

Il distinto dottor Murray che guarda con aria pensierosa il bambino malato è stato evidentemente chiamato a una visita domiciliare. La luce tenue che entra dalla finestra si confonde con quella fiocamente prodotta dal lume acceso; lo stesso Fildes dirà che ha dipinto l’alba, e il lume acceso fa pensare che il dottore sia lì da alcune ore. Non sappiamo qual è la malattia del bambino e non sappiamo da quanto tempo il dottore è in quella stanza. Sappiamo però che di quella malattia il bambino morirà, e In chiaroscuro intravvediamo sullo sfondo l’angoscia dei genitori. Possiamo però interpre-tare. La malattia del bambino è certamente grave. Potrebbe essere una polmonite, all’epoca di Fildes molto frequente, senza cure efficaci e non raramente fatale (in Inghilterra, attorno all’anno 1900, la mortalità per polmonite era di oltre 2.500 per milione di abitanti e per anno). Sappiamo dunque come finisce la storia, e interpretiamo il quadro come una sorta di omaggio al Dottor Murray, che l’aveva seguito senza successo. Del resto, nel 1891 contro la polmonite (presumi-bilmente pneumococcica, la più frequente) il medico era pra-ticamente disarmato. Se con l’immaginazione trasferissimo all’oggi la storia riprodotta nel quadro, il bambino sarebbe in ospedale, il medico indosserebbe un camice, e guarderebbe – forse più che al bambino – allo schermo di un monitor che lo informa sulla saturazione di O2, sulla frequenza cardiaca, sulla pressione arteriosa e su altri parametri; conoscerebbe dall’esame radiologico l’estensione della polmonite e dal laboratorio il germe responsabile e l’antibiogramma; avrebbe a disposizione antibiotici efficaci, e se necessario interventi rianimatori in emergenza. E il bambino avrebbe probabilità di sopravvivere incomparabilmente più alte che all’epoca di Fildes. Eppure, come osserva un editoriale di Silverman “i medici trovano difficile capire un paradosso: riveriti quando erano relativamente inefficaci (come “the Doctor” del 1891), si trovano sempre più soggetti a critiche oggi, quando per la prima volta sono capaci di cambiare il decorso di malattie fatali o inabilitanti” (Silverman WA. Suspended judgement. Doc-toring: from art to engineering. Controlled Clinical Trials, 1992;13:97-99). Forse è il caso di tornare al titolo di questo saggio e al rapporto medico-paziente. Nel nostro mondo di anziani e di frequente polimorbilià i medici sono diventati “esperti” in medicina e specialisti sempre più settoriali, ma forse hanno perso una parte della capacità di rapporto inte-rumano con i malati che a giudicare dal quadro aveva “The Doctor”.

5. Paternalismo, autonomia e condivisione

Paternalismo, nel bene e nel male. Franz Ingelfinger e Debra L. Roter, Judith A. Hall Il seguente brano è tratto da uno “special article” [58] di Ingelfinger intitolato “Arrogance” e scritto dopo un’operazione che aveva subito per un cancro della giunzione gastro-esofagea; le domande che nell’articolo si pone Ingelfinger sono: “Che fare ora? Radioterapia? Che-

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mioterapia? Nessuna terapia?”. Paternalismo, nel bene: “At that point, I received from phy-

sician-friends throughout the country a barrage of well-inten-tionated but contradictory advice…As a result, not only I but my wife, my son and daughter-in-law (both doctors) became increasingly confused and emotionally distraught. Finally, when the pangs of indecision had become nearly intolerable, one wise physician friend said: “what you need is a doctor”…When the excellent advice was followed, my family and I sensed immediate and immense relief… If arrogance in the sense of paternalism and dominance is an ingredient of benefi-cial medical care, these qualities have to be used appropriately”.

Nel male: “…To the extent that paternalism and domi-nance are… infected by insolence, vanity, arbitrariness, or a lack of empathy, the care he attempts to provide his patient is nullified”.

Concludendo: “A physician who merely spreads an array of vendibles in front of the patient, and then says: “go ahead and choose, it’s your life”, is guilty of shirking his duty, if not of malpractice”.

Debra L. Roter e Judith A. Hall: “Doctors Talking with Patients/Patients Talking with Doctors” [59].

Paternalisno, nel bene: “Patients may draw comfort and support from a doctor «father» figure. Indeed, the supportive nature of paternalism appears to be all the more important when patients are very sick and at their most vulnerable...Relief from the burden of worry is curative in itself, some argue”, p. 28.

Nel male: “[Paternalism] is the potential for legitimate medical authority to be used for manipulation and exploita-tion of the vulnerable and ill, that has fueled the ascendance of the autonomy doctrine to the preeminent bioethical value in patient-physician relationships”, p. 29.

Concludendo (ma lasciando aperta la domanda): the Pre-sident’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research (1982) concluded that “even when patients have mutually agreed upon a paternalistic relationship, questions regarding its appro-priateness may still be raised”.

Autonomia e condivisione Si contrappone al paternalismo del medico l’autonomia

del paziente nelle decisioni che lo riguardano. Come indica il brano di Ingelfinger, anche i medici (e Ingelfinger era un medico di straordinario valore), se malati, tendono ad assu-mere il ruolo di paziente, lasciando al collega che li ha in cura la responsabilità di decidere: “Findings... suggested that phy-sicians, like the regular patients in the study, preferred that the principal role in decision making for their illnesses be taken by the doctor, not by themselves” [59, p. 30].

Secondo Robert Truog, professore di bioetica, anestesio-logia e pediatria a Harvard: [60] “Today patients and phy-sicians are beginning to find a healthier balance of power, through a process of shared decision-making. È il concetto di “condivisione”, che può guidare le decisioni in molte situa-zioni della pratica di ogni giorno, ma la cui validità dipende

fortemente dalla gravità della malattia del paziente e dal rischio di esito fatale. Perché se la malattia è grave ed è alto il rischio di morte, l’autonomia del paziente e la condivisione tendono a cedere il passo al paternalismo: “As the severity of the illness increases, the tendency of physician-patients was to rely even more on their own physicians for decision making” [59, p. 30]. Un giudizio con cui non può non concordare chi ha una lunga pratica di pazienti con malattie gravi e ad alto rischio di morte.

6. I medici che diventano pazienti

“When I was given a diagnosis of aggressive inflammatory carcinoma, I found myself transformed from one who orders and administers medication to a terrified recipient… It was a shock, then, to undergo the foreign and surreal experience of becoming a patient... One day, discouraged, I sat in an exami-ning room waiting for the return of my physician. I heard him talking with a resident about “a great case” he had… I began to weep when I realized that I was the great case”. (Jane Poulson, Bitter pills to swallow: “A great case” [61] “Alcune settimane fa, in campagna, lontano dalle luci della città, ho visto tutto il cielo «punteggiato di stelle» (per usare le parole di Milton)… Fu lo splendore di quel cielo a farmi capire, all’improvviso, quanto poco tempo, quanto poca vita, mi fossero rimasti. La percezione della bellezza dei cieli, dell’e-ternità, era per me inseparabilmente mescolata a un senso di transitorietà – e di morte. Da quando, a febbraio, ho raccon-tato delle mie metastasi, sono stato confortato dalle centinaia di lettere che ho ricevuto, dalle espressioni di affetto e di stima, e dalla percezione di aver vissuto (nonostante tutto) una vita buona e utile. Mi sento felice e grato per tutto questo: ma nulla mi tocca come quel cielo notturno pieno di stelle”, Oliver Sacks “La mia Tavola Periodica” in “Gratitudine”, Adelphi, 2016, p. 33-39, [62]. La “bitter pill to swallow” di Jane Poulson ci trasmette l’ama-rezza di una internista e specialista di cure palliative che si vede trasformata da chi “ordina e somministra medicine” a un “great case” a cui è stata fatta diagnosi di un carcinoma aggressivo. È una storia personale e intima. Mentre nel breve, affasci-nante saggio “la mia tavola periodica”, terzo dei quattro che compongono il piccolo libro “Gratitudine” - uno dei suoi ultimi scritti - Oliver Sacks supera la dimensione intima per immergersi nella bellezza del creato (“un cielo punteggiato di stelle”) e nel senso di transitorietà umana e personale dopo una vita lunga (ottantadue anni) e ben spesa.

7. L’industria

7.1 Partendo da lontano: un libretto del Dr. Stanislao Silin-gardi, presentato al XVI Congresso Sanitario Alta Italia dell’Associazione Nazionale Medici Condotti. Trento-Trieste, settembre 1909. «L’affare della “réclame” in medicina, saggio analitico-critico,

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un libro di 99 Pagine stampato nello Stab. Tip. Lit. F Apollonio, Brescia, 1909» A pagina 98: «nell’anno, poniamo, 2000…quando gli studiosi di legisla-zione troveranno il codice del feno-meno tutto nostro che si chiama réclame scriveranno a filosofico com-mento riassuntivo:» ”erano tempi quelli di grande abuso nello spaccio di sostanze utili o presunte tali contro certi stati organici allora detti malattie. Ma provvide disposizioni di legge...valsero a togliere di mezzo quel singolare inconcepibile commercio che altro poi non era che uno sfrutta-mento di quella umanità primitiva ed ammalata, avviandola sulla via della prevenzione dei mali la quale ci ha condotti al presente benessere fatto d’igiene...” Una previsione temeraria, e che infatti non si è avverata: la prevenzione cambia al cam-biare della patologia e della società (per esempio, da conta-dina a industriale), non tutte le malattie si possono prevenire; e comunque ad essa molti contemporanei non sono molto attenti (si pensi alla sedentarietà, all’ingordigia, al fumo o all’alcool). 7.2 Prima e dopo l’anno 2000 e a tutt’oggi, l’industria riesce a vendere i propri farmaci almeno in parte oltre il loro valore in termini di efficacia. Una sintesi dei punti principali dell’ar-gomento, qui tradotta in italiano, si trova sul retro di coper-tina del classico volume di Marcia Angell “The truth about the drug companies. How they deceive us and what to do about It”, Random House Publishing Group, 2004 [63]. L’industria farmaceutica: • dichiara di essere un business ad alto rischio, ma anno dopo anno...ha di gran lunga i maggiori profitti rispetto a qualsi-asi altra industria; dichiara di essere innovativa, ma solo una piccola frazione dei suoi farmaci sono veramente nuovi; molti sono varianti di farmaci più vecchi • contrariamente a quanto generalmente si crede, le grandi compagnie farmaceutiche spendono molto meno in ricerca e sviluppo che in promozione commerciale • le grandi compagnie farmaceutiche “inventano” malattie (“Selling Sickness, How drug companies are turning us into patients”, Ray Moynihan and Alan Cassels, 2005) a cui asso-ciare i propri farmaci (p. es ansia generalizzata, sindrome disforica premestruale, disfunzione erettile altre) • le compagnie farmaceutiche hanno un forte controllo sui trial clinici dei loro farmaci. 7.3 Da J. Collier, I Iheanacho. The pharmaceutical industry as an informant. Lancet 2002; 360: 1405-1409 [64]: “Large, transnational companies… via their promotional and educa-tional activity, are probably the biggest individual influence on prescribing practice. For the pharmaceutical industry, invest-ment in information is time and money well spent…Usually, the first step is to increase the target audience’s awareness of a disorder and to highlight present deficits in its treatment…Having persuaded people of the treatment need, the next stage is to introduce the new medicine, telling of its unique advan-

tages. The ultimate aim is to induce clinicians to prescribe the product and for familiarised members of the public to ask for it” 7.4 E infine, dal BMJ 2016;353:i2412.doi [65], Silvio Garat-tini: The European Medicines Agency (EMA) is still too close to industry. Two decades after its inception, the agency still fails to put patients’ interests first…Its Committee for Medi-cinal Products for Human Use (CHMP) for substantial fees gives scientific advice to industry figures to help them prepare studies that are then judged by the committee itself…The con-tribution of industry to EMA is about 83% of its total budget…This dependence is incompatible with the EMA being seen to be independent.

8. Un sommario

“Parlare delle malattie e un intrattenimento da mille e una notte” è una riflessione di William Osler che si può applicare anche al rapporto fra medico e paziente, più specificamente fra clinico e paziente. Sono argomenti che generano rifles-sioni e divagazioni che si espandono come le onde al cadere di una pietra in uno specchio d’acqua tranquilla. È accaduto anche in questo saggio. La storia della medicina dissociata dalle divinità dell’Olimpo e le idee sul rapporto fra medici e pazienti iniziano in Grecia quattrocento anni prima di Cristo: il medico ippocratico deve conoscere il suo paziente “thoroughly, what his social econo-mic and familial circumstances were”. Ed è di origine greca la teoria dei quattro umori secondo cui salute e infermità dipendono rispettivamente dal loro equilibrio (eucrasia) o disequilibrio (discrasia). Passano i secoli, e nel II° dopo Cristo Galeno riprende e sistematizza la teoria. I quattro umori sopravvivono a lungo, e la teoria è il principio-base delle cure (clisteri, purganti, salassi e altre procedure) che hanno lo scopo di restaurare l’eucrasia. In Francia, nel 1673 le cure sono volte in satira da Molière nel Malato immaginario; a Palermo, sono applicate nei pazienti ricoverati nello Spedale Grande di Palazzo Sclafani nel milleottocentoventinove-trenta. Qualche anno prima di Moliere, nel 1666, Thomas Sydenham in Inghilterra introduce due principî rivoluzionari. Il primo: le malattie sono entità con sintomi e decorso comuni a gruppi omogenei di pazienti; il secondo: la medicina dev’es-sere basata sulla pratica al letto del malato – deciso richiamo, trecentocinquanta anni fa - alla necessità di un rapporto di vicinanza e partrecipazione fra medico e paziente. Un breve intermezzo è dedicato all’EBM, nata con squilli di tromba e che continua a vivere nelle pubblicazioni su carta e sul web, pur essendo di incerta connessione con la medicina scienti-fica o clinica. Inoltre, sarebbe stato colpevole ignorare idee e concetti centrali per la medicina di oggi: lo sbilanciamento della formazione e della pratica professionale verso la bio-medicina a sfavore della componente psicosociale nelle malattie; l’importanza della comunicazione e dell’empatia; la frammentazione della pratica medica in specialità, sotto-spe-cialità e sotto-sotto-specialità.

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Infine, le storie di Jane Poulson e di Oliver Sacks mostrano la psicologia del medico che diventa paziente; la storia di Jane Poulson ha dimensione privata; mentre nella seconda, in Gratitudine, uno dei suoi ultimi scritti, Oliver Sacks, grande neurologo e scrittore, inglese di nascita e americano di ado-zione, si mostra sereno davanti alla morte prossima e alla transitorietà della vita, ed è commosso dalla bellezza e dall’e-ternità del “cielo punteggiato di stelle”. Questo saggio non ha conclusioni, o forse una sola: la desti-nazione più impegnativa, ma anche più ricca di contenuto umano e intellettuale della vita del medico, è quella di fare il clinico. E io mi considero privilegiato dalla sorte per aver fatto di me un clinico - un clinico che nella sua lunga vita professionale non ha selezionato i pazienti per censo - e un educatore di medicina clinica nell’Università statale; non, o assai meno, un ricercatore.

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

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Un vivissimo ringraziamento a Gino Corazza e a Rodolfo Sbrojavacca per il continuo e prezioso supporto di “criti-cism and advice”; e grazie per il loro aiuto nelle ore di vita familiare a mia moglie Enza, anche lei medico, e a mio figlio Antonio, astrofisico e scrittore.

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La Sindrome Metabolica (SM) può essere descritta come una condizione di rischio clinico caratterizzato da altera-zioni metaboliche associate ad un aumento del rischio di insorgenza di malattie cardiovascolari. Tali alterazioni includono: alterazioni del metabolismo glucidico (dall’in-tolleranza al glucosio sino al diabete mellito di tipo II), disli-pidemia (elevati livelli di trigliceridi sierici e ridotti valori di colesterolo-HDL), ipertensione arteriosa, obesità di tipo “centrale”. La SM è una patologia sistemica e composita, ad eziopatogenesi multifattoriale, in cui rivestono ugual peso il background genetico individuale e lo stile di vita. Due eventi fisiopatologici sono attualmente considerati i prin-cipali responsabili dell’insorgenza della SM: l’insulino-resi-stenza e la dislipidemia. L’obesità è responsabile dell’instau-rarsi di insulino-resistenza: il tessuto adiposo “centrale” o “viscerale” rilascia gli acidi grassi nella vena porta e quindi direttamente a livello epatico. La misurazione dello spes-sore del grasso epicardico e della circonferenza vita nei sog-getti obesi sono considerati indici di adiposità viscerale e rappresentano validi markers di progressione della SM, ben correlati al rischio cardiovascolare [1]. In questa rassegna, ci proponiamo di chiarire il ruolo dell’obesità viscerale nella sindrome metabolica e l’eventuale peso che questo fattore possa avere in oncologia.

Sindrome metabolica ed obesità

L’obesità è una patologia diffusa in maniera epidemica in tutto il mondo con importanti conseguenze sulla salute e sulla spesa pubblica [2]. Questa patologia interessa il 69% degli adulti negli Stati Uniti e il 38% nel mondo [3] con 1,7 miliardi di persone che possiedono un aumentato rischio di sviluppare patologie non trasmissibili, correlate al peso, come il diabete tipo II. Studi condotti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomandano la perdita del

5 – 10% di peso negli individui obesi, al fine di migliorare la propria salute e lo stile di vita [4]. L’obesità e il sovrap-peso sono il risultato di un cronico disequilibrio energetico. Quando l’introito calorico derivante dall’apporto nutrizio-nale supera il dispendio energetico, l’eccesso viene depo-sitato sotto forma di trigliceridi nel tessuto adiposo deter-minando un aumento della massa corporea. Il mancato controllo del peso corporeo porta a disordini metabolici, insulino-resistenza (iperinsulinemia e iperglicemia) e alte-razioni nei livelli di adipochine e di ormoni sessuali (estro-geni, androgeni, testosterone), oltre che ad uno stato di infiammazione cronica subclinica, che influenza il rischio di patologie. Le linee guida della Società Italiana di Obesità raccomandano ai medici di misurare peso e altezza e calco-lare l’indice di massa corporeao o BMI (Body Mass Index) in occasione dei controlli annuali. Il BMI si calcola divi-dendo il peso espresso in chilogrammi per il quadrato dell’altezza espressa in metri (kg/mq). L’OMS definisce in sovrappeso soggetti con un BMI compreso fra 25 e 29,9 kg/m2 ed obesi pazienti con un BMI superiore o uguale a 30 kg/m2, determinando tre sottoclassi di obesità (da 30 a 34,9; da 35 a 39,9; ≥ a 40 kg/m2). L’aumento del BMI è diret-tamente proporzionale al rischio cardiovascolare, al diabete di tipo II, al rischio di tumore e alla mortalità [4]. Bisogna sottolineare che l’obesità, ed in particolare quella centrale o “viscerale”, riveste un ruolo chiave nella SM correlata ad un elevato rischio di sviluppare patologie cardiovascolari e diabete mellito di tipo 2 [5].

Per la definizione di SM bisogna, invece, considerare i criteri forniti dalle società scientifiche. La consensus confe-rence dell’International Diabetes Federation (IDF) del 2004 ha fornito una definizione di SM basata sulla presenza di: • obesità centrale (circonferenza addome (WC) negli

europei ≥ 80 cm nella donna e ≥ 94 cm nell’uomo) o BMI >30 kg/m2 ed almeno altri due fra i seguenti criteri:

• trigliceridemia ≥ 150 mg/dl o in trattamento specifico• colesterolo HDL < 40mg/dl nelle donne e < 50 mg/dl

negli uomini • valori di pressione arteriosa > 130/85 mmHg o iperten-

Sindrome metabolica e tumori: il ruolo dell’obesità

Antonio Moschetta, Lucilla Crudele, Marica Cariello, Patrizia Suppressa, Elsa Berardi, Gianfranco Antonica, Carlo SabbàUnità Operativa Medicina Interna Universitaria “C. Frugoni”Dipartimento Interdisciplinare di Medicina, Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari

© SIMI 2017

LETTURE

Prof. Antonio Moschetta ()E-mail: [email protected]

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

sione in trattamento• glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl o diabete già diagnosti-

cato [4].L’Adult Treatment Panel III/National Cholesterol Edu-

cation Program (ATPIII/NCEP) prevede, invece, la dia-gnosi di SM quando presenti almeno tre criteri qualsiasi dei cinque sopra elencati. Pertanto, il ruolo dell’ obesità centrale assume un ruolo chiave nello sviluppo della SM e la WC viene considerata un indicatore del rischio meta-bolico più specifico rispetto al BMI. L’uso della tomogra-fia computerizzata permette oggi di quantificare il tessuto adiposo intra-addominale e la massa muscolare scheletrica fornendo, in tal modo, informazioni più specifiche sulla composizione tissutale rispetto al solo BMI [6, 7].

Due eventi fisiopatologici sono attualmente considerati i principali responsabili dell’insorgenza della SM: l’insuli-no-resistenza e la dislipidemia. L’insulino-resistenza è con-siderata centrale nello sviluppo della SM, in quanto correlata positivamente con la dislipidemia e con uno stato pro-in-fiammatorio. Resta da approfondire il ruolo del profilo genetico, dell’attività fisica, dell’età, dello stato pro-infiam-matorio e della disregolazione ormonale nella patogenesi della SM. Ad esempio, l’inattività fisica promuove l’ obesità e modifica, nei muscoli, la sensibilità all’insulina, così come l’età correla positivamente con la perdita di massa musco-lare e l’incremento di massa grassa, in particolare addomi-nale. È stato, inoltre, ipotizzato che il contributo specifico di ognuno di questi fattori varii in relazione al gruppo etnico di appartenenza.

Approfondire e comprendere la complessa intera-zione tra fattori predisponenti/protettivi e fattori genetici/ambientali, sarà necessario per poter chiarire la patogenesi di questa malattia.

Sindrome metabolica e stile di vita

La prevalenza della SM, secondo la definizione dell’IDF, stimata in una coorte di età ≥ 20 anni, è del 39.0%, mentre l’ATPIII/NCEP, la considera pari al 34.5% [8]. Negli Europei adulti la prevalenza di SM è del 15% considerando i soggetti con iperinsulinemia e 2 o più criteri fra: obesità, iperten-sione, dislipidemia o alterata glicemia [9]. Secondo i dati raccolti nell’ambito dell’Osservatorio Epidemiologico Car-diovascolare (Oec)/Health examination survey (Hes), nella popolazione italiana di età compresa tra i 35 e i 74 anni, il valore medio del BMI è aumentato a distanza di 10 anni (nel decennio 2008-12 rispetto al 1998-2002) in entrambi i generi, passando da 27 a 28 Kg/m² negli uomini e da 26 a 27 Kg/m² nelle donne. Un incremento è stato registrato anche per la circonferenza vita con una variazione da 95 a 96 cm negli uomini e da 85 a 86 cm nelle donne. Nessuna variazione significativa è stata osservata per i valori medi di rapporto vita/fianchi. La prevalenza di obesità è aumen-tata sia negli uomini (dal 17,5% al 24,5%) che nelle donne (dal 22% al 24,9%) raggiungendo circa il 25% in entrambi i

generi. Sono in sovrappeso il 47,5% degli uomini e il 31,8% delle donne. Anche la prevalenza di adiposità addominale è incrementata nei due sessi ma è rimasta più elevata nelle donne (dal 35,9% al 40,3%) rispetto agli uomini (dal 22,5% al 26,6%).

Le cause di questo incremento di SM metabolica ed obesità sono da ricercarsi nello stile di vita con particolare attenzione all’alimentazione. Secondo l’OMS, sono da con-siderare sane le seguenti abitudini alimentari: - consumo giornaliero di verdura corrispondente o supe-

riore a 200 grammi (pari a 2-3 porzioni); - consumo giornaliero di frutta compreso fra 200 e 500 g

(pari a 2-3 porzioni); - consumo di pesce almeno 2 volte a settimana (circa 150

g per porzione); - consumo di formaggi per non più di 3 volte a settimana

(circa 75 g per porzione); - consumo di salumi e insaccati per non più di due volte a

settimana (circa 50 g per porzione); - consumo di dolci per non più di 2 volte a settimana

(circa 100 g per porzione); - consumo di bibite zuccherate inferiore a una a settimana

(circa 330 ml, ovvero una lattina); - consumo complessivo di alcool non superiore a 20 g al

giorno per gli uomini e a non più di 10 g per le donne.Considerando come stile di vita corretto il rispetto di

almeno 5 comportamenti alimentari sani, insieme allo svol-gimento di attività fisica nel tempo libero e all’assenza di fumo di sigaretta, è emerso che solo il 7% degli uomini e il 13% delle donne segue uno stile di vita corretto. La preva-lenza di inattività fisica nel tempo libero è rimasta a distanza di 10 anni su livelli molto elevati in entrambi i generi ma in particolare nelle donne, per le quali nell’ultima indagine è stato registrato il 41,6% di inattività fisica rispetto al 32,3% rilevato negli uomini [10].

Un’indagine sugli otto comportamenti alimentari consi-derati sani, seguendo le indicazioni della piramide alimen-tare e calcolando le quantità delle porzioni secondo i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana revisione del 2012 (LARN 2012), ha dimostrato che solo un terzo degli italiani consuma una quantità di verdura e pesce adeguata. Gli italiani seguono il consumo raccomandato di frutta (seguito da più del 50% degli uomini e delle donne) e quello di formaggi (seguito dal 41% degli uomini e dal 50% delle donne). Solo il 14% degli uomini e il 15% delle donne consuma dolci secondo le raccomandazioni. Importanti differenze di genere si osser-vano nel consumo di salumi/insaccati e in quello di alcol: in entrambi i casi l’adesione al consumo raccomandato è nettamente migliore nelle donne con il 39% e il 68% rispet-tivamente, rispetto al 22% e 41% rilevato negli uomini. Il 2,7% degli uomini e lo 0,6% delle donne non segue nessuna indicazione alimentare sana. Solo l’11% degli uomini e il 24% delle donne osserva un numero di comportamenti ali-mentari sani compreso tra 5 e 8.

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

Nel 2010, durante la IV Conferenza Nazionale sulla Pre-venzione Cardiovascolare, l’Istituto Superiore di Sanità ha, inoltre, stratificato la prevalenza della SM nella popolazione italiana secondo il livello culturale, segnalando significative differenze. La SM e l’obesità sono presenti rispettivamente nel 33% e nel 32% della popolazione con un’istruzione fino alla Scuola media inferiore, contro un 17% e 19% della popolazione più istruita.

Obesità e cancro

Numerosi studi osservazionali suggeriscono che l’obesità ed i fattori ad essa associati, come sedentarietà ed un compor-tamento alimentare non sano, possano significativamente aumentare il rischio di tumore e conseguente mortalità [11, 12]. Obesità e inattività fisica sono fortemente legati ad un alto rischio di mortalità e sono considerati dei fattori di rischio in patologie neoplastiche che coinvolgono la prostata, l’apparato genitale, il colon ed il tratto gastroin-testinale [13]. Un eccesso di peso corporeo è ormai rico-nosciuto come fattore di rischio per numerose tipologie di tumore dell’adulto. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha identificato 13 tipi di cancro obesità-correlati: adenocarcinoma esofageo, cancro del cardias, colon-retto, fegato, colecisti, pancreas, mammella, endometrio, ovaio, rene, tiroide, meningiomi e mieloma multiplo [14]. Uno studio che ha coinvolto più di 900.000 adulti americani con 16 anni di follow up ha dimostrato l’associazione tra BMI e mortalità correlata a tumore [11]. In particolare, pazienti con obesità di III grado hanno un’aumentata mortalità per cancro (RR 1,52; 95% IC): gli uomini per tumore di fegato e stomaco, le donne per tumore di utero, rene, pancreas e mammella [15, 16].

Chlebowski et al. hanno dimostrato che il rischio di mortalità da cancro aumenta del 20 – 40% nelle donne obese rispetto a quelle normopeso prima o entro 1 anno dalla diagnosi [17]. I pazienti oncologici obesi hanno anche un rischio più alto di complicanze chirurgiche e di tossicità da chemioterapia, con effetti collaterali come stanchezza e neuropatia. Quindi, la crescente obesità della popolazione sta riducendo in qualche modo i progressi compiuti nella lotta contro i tumori [16]. Basti pensare che l’obesità e il sovrappeso, al momento della diagnosi, sono un fattore prognostico negativo per i pazienti con cancro dell’esofago e dello stomaco, e che l’obesità di classe II e III associata alla sarcopenia [18] rappresentano un fattore prognostico nega-tivo per il cancro del pancreas e per il carcinoma epatocel-lulare. Inoltre, l’obesità di classe II e III e il BMI sono legati alla sopravvivenza nei pazienti con cancro del colon retto non metastatico: il rischio di progressione o morte è più alto fra i pazienti con BMI<18,5 kg\m2, raggiunge il valore massimo per BMI di 28 kg\m2 e segue una fase di plateau per valori di BMI superiori. Le suddette evidenze rendono, dunque, il peso corporeo un utile biomarker prognostico predittivo dei benefici del trattamento dei tumori del tratto

gastrointestinale [6]. Nelle donne, l’obesità è associata principalmente allo svi-

luppo del cancro endometriale. Uno studio retrospettivo sulle donne con cancro dell’endometrio nei primi stadi ha dimostrato che le donne gravemente obese hanno una mor-talità più alta delle donne normopeso, ed il 67% delle morti è ascrivibile a cause non cancro-specifiche, ma legate all’o-besità [19]. E’ interessante osservare che anche il rischio di altre neoplasie ginecologiche risulta influenzato dall’obesità ed in particolare l’adiposità centrale rappresenta un fattore di rischio per il tumore dell’ovaio più forte del BMI 20. Per quanto riguarda il tumore della mammella, l’obesità è asso-ciata ad un rischio di recidiva e morte aumentato di circa il 40%, ed un BMI aumentato al momento della diagnosi potrebbe rappresentare un indice di prognosi negativa, specie per i tumori ER-positivi [3]. Infine, è stato osser-vato che nelle terapie adiuvanti per il tumore della mam-mella non si tiene conto del BMI e per quanto riguarda la terapia chemioterapica di questo tumore, uno studio con-dotto su 3023 pazienti mostra un aumento della tossicità nelle pazienti obese [14]. Alla luce di ciò, la condizione di obesità, non è solo indicativa dell’aumentato rischio tumo-rale, bensì potrebbe e dovrebbe influenzare la scelta della strategia terapeutica da parte degli oncologi.

Diabete e cancro

Negli ultimi anni sono stati individuati numerosi tra il cancro ed un’altra patologia correlata all’obesità: il diabete. Il diabete di tipo II è una patologia cronica progressiva caratterizzata da anni di insulino-resistenza ed iperinsuli-nemia compensatoria che precedono lo sviluppo dell’iper-glicemia. Il prediabete, che può precedere la diagnosi di diabete mellito di tipo II fino a 10 anni, è una fase poten-zialmente modificabile frequentemente associata alla sin-drome metabolica. Numerosi studi hanno dimostrato un aumento consistente nell’incidenza di carcinoma pancrea-tico, epatobiliare ed endometriale ed un elevato rischio per carcinoma della mammella e del colon-retto nei pazienti con diabete di tipo II [21, 22]. Alcuni studi hanno ipotiz-zato che la terapia usata per trattare il diabete possa influen-zare il rischio di sviluppo del cancro e/o la mortalità. La metformina, un farmaco anti-diabetico attivatore della pro-teina chinasi AMP-dipendente (AMPK), abbassa i livelli di glucosio nel sangue principalmente inibendo la gluconeo-genesi epatica, stimolando l’assorbimento di glucosio insu-lino-indipendente a livello muscolare e riducendo i livelli di insulina circolante. L’uso della metformina in donne e uomini con diabete mellito di tipo II riduce la mortalità per tumore della cervice uterina e della prostata di circa il 20% [23]. A conferma di questi dati, uno studio di metanalisi ha dimostrato che i pazienti che assumono questa mole-cola hanno una riduzione della mortalità per tumore del colon-retto [24] ed un effetto benefico dall’assunzione del farmaco. La stimolazione dell’AMPK potrebbe rappresen-

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tare un meccanismo protettivo nei confronti del tumore. Ci sono due principali ipotesi per spiegare gli effetti anti-neoplastici della metformina. Il primo è un meccanismo diretto che prevede, a seguito dell’attivazione di AMPK, ini-bizione della via mTOR, diminuzione dell’infiammazione nel microambiente tumorale e riduzione di attività esochi-nasica ed uptake di glucosio e, dunque, della glicolisi nelle cellule tumorali [23]. Il secondo è un meccanismo indi-retto che comporta la diminuzione dell’insulina circolante, ridotta insulino-resistenza e conseguente diminuzione della glicemia.

Alterazioni nell’omeostasi del tessuto adiposo

Il tessuto adiposo, oltre alla sua classica funzione di raccolta e mobilizzazione dei triacilgliceroli, è un organo endocrino dinamico in grado di promuovere cambiamenti fisiologici e, dunque, responsabile dell’omeostasi energetica [6]. L’in-cremento dei depositi di tessuto adiposo altera l’omeostasi sistemica aumentando i livelli di insulina, di insuline-like growth factor (IGF), leptina, citochine infiammatorie come l’interleuchina 6 (IL-6) e riducendo, invece, i livelli di adipo-nectina. L’eccesso di nutrienti connesso con l’obesità e la SM attiva i segnali che guidano l’uptake di glucosio, la crescita cellulare, la proliferazione e l’angiogenesi. Il tessuto adiposo produce citochine che hanno effetti pleiotropici sullo stato di sazietà, sul metabolismo, sui segnali cellulari e sistemici e sui processi infiammatori. Alterazioni nei livelli delle adipochine, in particolare l’aumento di leptina e la dimi-nuzione di adiponectina, sono comunemente osservate nei pazienti obesi e possono influenzare la tumorigenesi. Il legame dell’adiponectina ai suoi recettori attiva le vie di trasduzione del segnale che regolano negativamente la pro-liferazione, e inibiscono la divisione e la crescita cellulare. Il legame della leptina ai suoi recettori, invece, induce la pro-liferazione cellulare e la sopravvivenza nelle linee cellulari tumorali di prostata, mammella, endometrio e colon. Per-tanto, l’alterazione dei livelli di adiponectina e leptina osser-vati nell’obesità possono promuovere la proliferazione e la crescita cellulare, con possibili implicazioni sull’incidenza e sulla prognosi di numerosi tumori obesità-correlati. Una metanalisi su 15 studi osservazionali ha rilevato che esiste una relazione inversa fra adiponectina e rischio di cancro della mammella sia nelle donne in pre-menopausa che nelle donne in post menopausa, mentre livelli di leptina più elevati correlano con un rischio aumentato di carcinoma mammario [25]. Le adipochine sono state, inoltre, correlate allo sviluppo e alla gravità del cancro del colon-retto, infatti, l’adiponectina ma non la leptina ha un effetto protettivo sul rischio di sviluppare il carcinoma del colon [26]. Inoltre, i livellli di adiponectina correlano inversamente allo stadio del carcinoma prostatico nei soggetti obesi e in sovrappeso [23].

Le cellule tumorali presentano alterazioni nel metaboli-smo del glucosio ed utilizzano la glicolisi come via di pro-

duzione principale di energia pur in presenza di ossigeno, fenomeno noto come effetto Warburg. Pertanto, le cellule tumorali aumentano il numero di trasportatori di mem-brana e, dunque, l’uptake di glucosio ed incrementano la sensibilità all’iperglicemia tipica dell’obesità: un maggior rifornimento di substrati per una via metabolica meno effi-ciente, ma con una maggiore capacità enzimatica rispetto alla fosforilazione ossidativa, fornisce energia sufficiente a sostenere i processi anabolici associati all’alta attività pro-liferativa [3]. In questo setting metabolico, le condizioni di iperglicemia e di iperinsulinemia, tipiche della SM, sono cruciali sia per avviare che per sostenere la crescita tumorale. In uno studio che ha coinvolto 820.900 soggetti, la glicemia a digiuno è stata associata ad un aumentato rischio di morte cancro-correlata [27]. Quindi, l’insulina, prodotta dalle cellule beta-pancreatiche, gioca un ruolo chiave. Questo ormone è un membro della famiglia delle IGF, che comprende anche i ligandi IGF1 ed IGF2, i recet-tori tirosin-chinasici, IR, IGF-1R e un ibrido IR/IGF-1; e sei tipi di binding-protein, IGFBP, responsabili di inibire la degradazione di IGF1 e IGF2. Il recettore dell’insulina (IR) è presente in due isoforme, IR-A e IR-B: la prima gioca un ruolo prevalentemente mitogenico, la seconda ha un ruolo metabolico. IR-A è maggiormente espresso nelle linee cellulari dei tumori di mammella, endometrio, polmone, colon, fegato, reni. Si è osservato che l’espressione di IR è più elevata nel cancro della mammella spiegando la sensi-bilità del tumore all’iperinsulinemia [20]. Quando insulina, IGF1 e IGF2 legano, con differenti affinità, i propri recet-tori, si attivano vie metaboliche che inducono un aumento della proliferazione, della migrazione e dell’invasione cellu-lare, stimolando vie che attivano la sintesi proteica, la cre-scita, la proliferazione e la sopravvivenza cellulare. Secondo studi epidemiologici, nella popolazione in buono stato di salute, un aumentato livello di IGF1 correla con un aumen-tato rischio di sviluppare il cancro della mammella, dei polmoni, della prostata e del colon-retto ed i livelli di IGF1 sono aumentati in queste patologie neoplastiche, oltre che nel cancro del fegato [24]. A differenza dell’insulina, IGF1 è secreto dal fegato in risposta all’ormone della crescita (GH) e i suoi livelli ematici sono associati ad un elevato rischio di cancro della prostata e della mammella. L’insulina aumenta la produzione epatica di IGF1 e down-regola la produ-zione di IGF1BP, aumentando dunque la porzione libera e metabolicamente attiva di IGF1. Quindi, l’insulino-re-sistenza e l’iperinsulinemia, due comorbidità comuni nei soggetti obesi, possono aumentare il rischio di sviluppare differenti tipi di tumore nonché di peggiorarne la prognosi [20]. Gli individui in sovrappeso mostrano aumentati livelli tissutali e cellulari di insulina e di IGF1. Livelli elevati di insulina e peptide C (prodotto nel processo di maturazione della pro-insulina) sono associati ad un rischio aumentato di tumore del colon e della mammella e correlano con la ricorrenza di adenomi colon rettali. Nuove evidenze sug-geriscono che lo sviluppo e la progressione del cancro della

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prostata possa essere connesso con alterazioni metaboliche in quanto elevati livelli di peptide C, misurati prima della diagnosi, sono stati correlati con la mortalità e la ricorrenza di cancro della prostata [3].

Il tessuto adiposo produce aromatasi, enzima chiave nella conversione degli androgeni in estrogeni, pertanto, negli uomini e nelle donne dopo la menopausa, la produzione di estrogeni dipende dal tessuto adiposo. La secrezione di aro-matasi è aumentata anche dall’iperinsulinemia. Il segnale estrogenico induce multipli effetti che potrebbero pro-muovere la crescita tumorale: proliferazione, angiogenesi e inibizione dell’apoptosi. In aggiunta, l’obesità è associata con livelli più bassi della sex-hormon binding globulina, che aumenta la quota di estradiolo libero, associato ad un elevato rischio di cancro [20]. Mantenere una corretta ome-ostasi del tessuto adiposo è di fondamentale importanza al fine di prevenire la produzione di fattori pro-tumorali. Il tessuto adiposo ed il microambiente infiammatorio

L’infiammazione rappresenta un meccanismo centrale e reversibile attraverso il quale l’obesità promuove il rischio di cancro e la sua progressione. L’eccesso di tessuto adiposo nei distretti periferici è associato ad un’alterata funzione tissutale, morte degli adipociti e infiammazione cronica di basso grado. A livello sistemico, la SM opera sinergica-mente sostenendo il microambiente infiammatorio e pro-muovendo la crescita tumorale.

Il microambiente nello sviluppo, crescita, e progressione tumorale gioca un ruolo di fondamentale importanza. Esso è rappresentato da linfociti, monociti/macrofagi, cellule dendritiche, granulociti, fibroblasti cancro-asso-ciati, cellule endoteliali, matrice extracellulare e altre com-ponenti stromali. L’alterazione dell’omeostasi di questo complesso network può causare disfunzioni epiteliali e in ultima istanza, carcinogenesi. Studi epidemiologici hanno stabilito un’associazione fra infiammazione cronica e svi-luppo/progressione di numerosi tumori tra cui il cancro dello stomaco, dell’esofago, del colon-retto, del fegato, del pancreas, della colecisti e del polmone [28]. È interessante osservare che numerosi tumori obesità-associati insor-gono all’interno o nelle immediate vicinanze dei depositi di tessuto adiposo, come nel caso della mammella o degli organi viscerali, suggerendo che le alterazioni biologiche del tessuto adiposo possano rappresentare uno stimolo alla tumorigenesi. Il tessuto adiposo bianco funziona come un tessuto cronicamente danneggiato nel quale si attivano tutte le vie caratteristiche dell’infiammazione. Gli indivi-dui obesi hanno elevati livelli di acidi grassi liberi (FFA), rilasciati dagli adipociti, che possono attivare il tool like receptor (TLR) 4 sulla membrana plasmatica dei macrofagi, inducendo un incremento dell’espressione di geni pro-in-fiammatori fra cui TNFα, IL-1β e ciclossigenasi 2 (COX-2), che a loro volta stimolano il rilascio di FFA con un mec-canismo a feedback. Gli FFA possono, inoltre, indurre lo

stress del reticolo endoplasmatico rugoso, che diviene inca-pace di assicurare una corretta sintesi delle proteine, deter-minando un accumulo di proteine mal ripiegate e morte programmata della cellula. In questo scenario, anche la matrice extracellulare gioca un ruolo chiave nel promuo-vere la crescita tumorale, aumentando la densità e rigidità dei miofibroblasti. Inoltre, l’interazione diretta fra cellule tumorali e adipociti contribuisce alla crescita tumorale in quanto gli adipociti acquisiscono un fenotipo fibroblastico che promuove l’invasione tumorale attraverso la secrezione di citochine, come l’IL-6. É stato dimostrato che la secre-zione di IL-6 e IL-8 da parte degli adipociti nell’omento, il sito di metastasi più comune in corso di cancro ovarico, favorisca l’annidamento, la migrazione e l’invasione delle cellule tumorali. L’IL-6 è in grado di richiamare i recettori degli androgeni e promuovere la proliferazione e la soprav-vivenza delle cellule tumorali prostatiche. Parallelamente, molti dei mediatori pro-infiammatori, come TNF-α, IL-1β e prostaglandina E2, possono indurre l’aromatasi, determi-nando un aumento degli estrogeni e quindi una maggiore suscettibilità al tumore. E’ stato osservato, inoltre, che nelle donne obese sono presenti elevati livelli circolanti di Pro-teina C Reattiva (PCR) ed IL-6, dimostrando che l’infiam-mazione sub-clinica che si verifica nei vari siti di deposito determina un aumento dei mediatori dell’infiammazione a livello sistemico. L’infiammazione del tessuto adiposo locale è associata alla SM e correla con una prognosi peg-giore nelle pazienti con cancro della mammella. Quando alla crescita del tessuto adiposo non segue un adeguamento della perfusione sanguigna, si va incontro ad ipossia intra-cellulare, stress e morte degli adipociti. Questi processi sono sostenuti dalla produzione della monocyte chemotactic protein (MCP)1 che è coinvolta, oltre che nel richiamare i macrofagi, anche nel sostenere la loro proliferazione all’in-terno del tessuto adiposo. I macrofagi formano un involu-cro intorno agli adipociti morti in una configurazione che viene detta “a corona”, che costituisce un marker istologico di infiammazione. Nelle donne con cancro della mammella ai primi stadi, la presenza di infiammazione nel sito della mastectomia è associata ad una precoce comparsa delle metastasi e ad una minore sopravvivenza globale. Inoltre, l’infiammazione del tessuto adiposo bianco della mam-mella, nei pazienti con tumore, è associata ad un decorso clinico peggiore indipendentemente dal BMI, avvalorando l’ipotesi che quest’ultimo non sia un buon indice di infiam-mazione del tessuto adiposo. L’infiammazione del tessuto adiposo rappresenta, dunque, un punto di convergenza di numerosi processi disregolati nello stato di obesità, che non sono opportunamente identificati dal BMI. La carat-terizzazione dell’omeostasi del tessuto adiposo potrebbe rendere più efficace l’identificazione della popolazione a rischio, le misure di prevenzione e le strategie terapeutiche che abbiano come target il cancro ed il microambiente nel quale esso si sviluppa. Considerata l’importante relazione tra infiammazione del tessuto adiposo e stato pro-tumorale,

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sono auspicabili interventi che riducano l’infiammazione dei questo organo al fine di prevenire e trattare il tumore [29].

Cambiamenti nello stile di vita: la riduzione del peso corporeo

Nonostante un numero consistente di studi osservazio-nali che pongono in relazione obesità e incidenza di morta-lità correlata a tumore, ci sono pochi trial su larga scala che dimostrino l’impatto dei cambiamenti del peso corporeo, dell’introito calorico, dell’equilibrio energetico e dell’attività fisica sul rischio di tumore, prognosi e recidiva. La ridu-zione del peso corporeo attraverso la dieta e\o l’esercizio fisico potrebbero riportare alla normalità numerosi pro-cessi disregolati nello stato di obesità [29].

Ligibel et al. hanno valutato come i cambiamenti nella dieta, nel peso o nell’attività fisica possano modificare la qualità della vita, riscontrando che non ci sono evidenze che la perdita del peso, la restrizione calorica o un aumen-tato esercizio fisico possano prevenire il cancro o abbas-sare i livelli di mortalità [13]. Onstad et al. in un trial fra i sopravvissuti al cancro hanno dimostrato che interventi sullo stile di vita basati su riduzione del peso e aumento dell’attività fisica determinano una migliore qualità di vita e un minore affaticamento [14].

Nonostante gli interventi sullo stile di vita non facciano parte della routine del management dei pazienti con cancro o dei guariti dallo stesso, i report riguardanti il peso corpo-reo e l’attività fisica nei sopravvissuti al tumore hanno sug-gerito che soltanto un terzo raggiunge i livelli raccoman-dati di attività fisica e più del 70% dei sopravvissuti sono in sovrappeso o obesi [13]. Secondo l’American Society of Clinical Oncology Statement (ASCO), sono molti gli onco-logi che non consigliano ai loro pazienti il controllo del peso, un’alimentazione sana ed esercizio fisico. Uno studio condotto dalla Associated press-NORC Center for Public Affairs Research nel 2013, ha riscontrato che solo il 7% dei soggetti americani intervistati era a conoscenza del maggior rischio di sviluppare un tumore in soggetti obesi [16].

Considerato che l’obesità rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo del cancro e per la progressione e la risposta del paziente alla terapia, è fondamentale indivi-duare nuovi regimi clinici che riducano gli effetti negativi di questo stato metabolico [24]. In questo scenario, le rac-comandazioni ASCO in merito alla dieta da seguire sono di consumare preferibilmente frutta, verdura, cereali integrali ed evitare una dieta caratterizzata dal frequente consumo di carne rossa, dolci, bevande zuccherate e grano raffinato. Si raccomanda, inoltre, un’attività fisica di almeno 150 minuti di attività aerobica moderata a settimana (100 passi al minuto) [6]. L’attività fisica è di fondamentale importanza non solo perché contribuisce al controllo del peso corpo-reo ma anche perché è stata associata ad un miglioramento della prognosi [13, 15, 17].

In conclusione, l’obesità gioca un ruolo di primaria importanza nella definizione della SM. Obesità, sedenta-rietà ed un comportamento alimentare non sano possono aumentare il rischio di tumorigenesi ed influenzare le stra-tegie terapeutiche da parte degli oncologi. L’alterazione dell’omeostasi del tessuto adiposo è in grado di determinare aumento dei livelli di insulina, leptina, IGF ed estrogeni che favoriscono la crescita tumorale. Inoltre, il microam-biente infiammatorio attraverso la produzione di citochine pro-infiammatorie stimola il rilascio di FFA promuovendo ulteriormente la crescita cellulare. Interventi terapeutici in grado di ridurre l’adiposità addominale sono auspicabili al fine di migliorare la prognosi dei pazienti oncologici. Le crescenti evidenze suggeriscono che la perdita di peso possa prevenire o ridurre il rischio di recidiva tumorale e di altre patologie e migliorare la qualità di vita generale. Ulteriori studi sono, quindi, necessari al fine di chiarire se questa sia una relazione causale e se il cambiamento nello stile di vita sia necessario e sufficiente ad indurre cambiamenti a livello biologico sufficientemente efficaci nella “prevenzione pri-maria e secondaria” in oncologia.

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Introduzione

Nonostante una riduzione dell’incidenza di altre patologie cardiache, l’ICC (Insufficienza Cardiaca Cronica) conti-nua ad essere la principale causa di ospedalizzazione nei pazienti ultrasessantacinquenni e ad avere un ruolo impor-tante nella spesa pubblica. In molti paesi Europei, >2% (2,4% in Italia) del totale della spesa sanitaria è volta alla gestione di tale tipologia di pazienti e fino al 70% (80% in Italia) di questi costi sono dovuti alle molteplici ospedaliz-zazioni [1,2].

Nonostante i molteplici tentativi, non si è mai riusciti a ricondurre l’ICC ad un singolo meccanismo patogenetico. Il noto “modello neuro-ormonale”, che ha gettato le basi fisio-patologiche per l’utilizzo dei farmaci attualmente impiegati, ha mostrato numerosi limiti: incompleta inibizione del sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone (RAAS) ed il Sistema Nervoso Adrenergico (SNA) per effetti dose limi-tanti dei farmaci; esistono pathway metabolici alternativi non antagonizzati con i farmaci convenzionali (e.g. chimasi miocardiche); sistemi ignoti, biologicamente attivi, aventi un ruolo nella patogenesi e progressione dell’ICC. Ad un certo punto della sua storia naturale, infatti, tale malattia progredisce indipendentemente dallo stato neuro-ormo-nale [3,4].

La ricerca di sistemi biologici alternativi ha dimostrato una downregulation dei sistemi ormonali anabolici evi-denziando una sindrome da deficit ormonale multiplo [5]. La lista include GH (growth hormone) ed il suo effettore periferico IGF-1 (insulin-like growth factor-1), andro-geni, ormoni tiroidei, ed insulina [5,6]. Il deficit degli assi anabolici nell’ICC sembrerebbe, inoltre, costantemente associato ad una ridotta capacità funzionale e ad una peg-giore sopravvivenza [7]. Il link patofisiologico tra sistemi ormonali anabolici e le molteplici caratteristiche dell’ICC è ancora distante dall’essere compreso in toto. Ciononostante, sono stati portati a termine incoraggianti studi che eviden-ziano la sicurezza e l’efficacia di terapie ormonali sostitutive nella suddetta popolazione [8].

GH/IGF-1

GH ed IGF-1 sono essenziali nel preservare morfologia car-diaca e performance cardiopolmonare in soggetti adulti [9]. Inoltre, il deficit di GH (GHD) per se risulta associato ad un incremento della mortalità cardiovascolare nella popo-lazione generale [10] e porta ad una ridotta performance cardiopolmonare [11,12].

La prevalenza di GHD (diagnosticato con appropriati test dinamici) nell’ICC sembrerebbe di circa il 30-40% [13,14]. Negli ultimi anni sono stati condotti numerosi trial di GH terapia nell’ICC.

Il nostro gruppo di ricerca ha evidenziato un migliora-mento dell’emodinamica, del metabolismo energetico mio-cardico e delle condizioni cliniche in 7 pazienti con ICC trattati con GH [15]. Nel tempo differenti autori hanno confermato l’effetto benefico del GH in questa categoria di pazienti. Nel 2007 una metanalisi, che raccoglieva dati di 12 trial (195 pazienti totali), evidenziava che la GH terapia (dose target tra 7 e 28 UI/settimana, durata somministra-zione tra i 2 ed i 6 mesi) non solo incrementava significativa-mente la tolleranza all’esercizio, ma migliorava la funzione e l’architettura ventricolare inducendo un rimodellamento inverso e riducendo stress di parete e resistenze vascolari periferiche. Una seconda analisi degli stessi dati ha inoltre mostrato una significativa correlazione tra la grandezza della risposta dell’IGF-1 e gli effetti della GH terapia [16].

La recente introduzione del test di stimolo con GHRH (GH Releasing Hormone) + arginina ha portato un signi-ficativo cambiamento nella selezione dei pazienti candidati alla terapia con GH. Andando a trattare con terapia ormo-nale sostitutiva solo soggetti con ICC e coesistente GHD [13,17], si evidenziava un miglioramento di parametri cardiovascolari, Qol score, ed attività neurormonale dopo 6 mesi, mentre nessuna variazione è stata osservata nella popolazione di controllo. Un’estensione dello stesso studio ha mostrato come i pazienti trattati vadano incontro non solo ad un significativo rimodellamento inverso del ven-tricolo sinistro (VS) con incremento del consumo di O2 al

Squilibrio anabolico/catabolico nello scompenso cardiaco: un nuovo paradigma per l’Internista

E. Bobbio 1, A. Salzano 1, M. Arcopinto 1, P. Valente 1, R. D’Assante 2, A.M. Marra 3, A. Cittadini 1

1 Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Federico II University, Naples, Italy2 Department of Cardiac Surgery, IRCCS Policlinico San Donato, Milan, Italy3 IRCCS S.D.N., Naples. Italy.

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MEDICINA IN CORSIA

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

picco, ma anche ad una riduzione degli eventi di mortalità ed ospedalizzazione dopo 4 anni di follow-up18. In consi-derazione di ciò, nonché di successive evidenze, è possibile affermare che proprio la presenza di un GHD identifichi un sottogruppo di pazienti con ICC caratterizzato da ridotta capacità funzionale, rimodellamento del VS ed elevati livelli di NT-proBNP. Inoltre, il suddetto deficit ormonale si associa ad un’aumentata mortalità da tutte le cause [19].

Le suddette evidenze scientifiche suggeriscono infine che, se confermata da grandi trial randomizzati controllati, una terapia sostitutiva con GH a lungo termine potrebbe rappresentare un nuovo e promettente approccio nell’ICC.

Testosterone La prevalenza di bassi livelli di testosterone (T) nei pazienti affetti da ICC è di circa il 25%, e risulta essere associata a ridotta tolleranza allo sforzo fisico [20], riduzione della massa muscolare, ed affaticabilità [21] e può contribuire ad una riduzione della sopravvivenza [7].

I meccanismi che sottendono gli effetti benefici mediati dalla terapia sostitutiva con T nell’ICC includono non solo il cambiamento della composizione corporea e l’aumento della forza muscolare, ma anche effetti anti-infiammatori, sensibi-lizzazione insulinica periferica e miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare [22].

Per la prima volta nel 2003 furono descritti gli effetti emo-dinamici acuti del T in 12 pazienti maschi con ICC. Dopo somministrazione di 60 mg di T per os, fu osservato un incremento della gittata cardiaca in assenza di significativi effetti avversi [23].

Successivi lavori confermavano gli effetti benefici di tale terapia evidenziando come forza muscolare, capacità funzio-nale ed insulino resistenza migliorassero significativamente dopo somministrazione di T [24]. Queste ed altre evidenze dimostrano che l’azione anabolica del T eserciti effetti bene-fici non solo sulla muscolatura dei pazienti affetti da IC ma anche su alcuni parametri ventilatori (VO2 peak e VE/VCO2 slope) di per se in grado di distinguere quei pazienti ad alto o basso rischio di morte CV [25].

Un recente lavoro pubblicato al riguardo è stato condotto su 50 pazienti in un placebo-controlled trial, ed ha portato risultati simili con evidente miglioramento sia della distanza al 6-MWT che del Qol index [26].

Considerando la possibilità di utilizzare formulazioni dif-ferenti, l’ottimo profilo di sicurezza e un significativo miglio-ramento di parametri chiave nell’ICC, la terapia sostitutiva con T rappresenta una promettente opzione terapeutica.

Insulino resistenza

ICC ed insulino resistenza (IR) sono condizioni stretta-mente correlate al punto che quest’ultima rappresenta un

predittore di ICC indipendente da altri fattori di rischio [27], è associata a prognosi peggiore in caso di IC concla-mata [28], e, al contrario, i pazienti con IC sono predisposti all’IR ed al diabete di tipo 2 [29].

Al fine di migliorare la resa energetica del miocardio, l’IR è oggi considerata un nuovo target terapeutico nell’ICC [30]. Una potenziale opzione farmacologica è rappresen-tata non tanto dall’insulina esogena, quanto dagli insulino sensibilizzanti.

A questa classe di farmaci appartengono i tiazolidine-dioni, attualmente controindicati nell’IC [31], ma anche la metformina. Inizialmente anch’essa controindicata, oggi molteplici evidenze hanno sottolineato come la stessa sia associata ad effetti benefici comparata con altri antidiabe-tici [32,33].

Tra i farmaci più recenti, i GLP-1 (glucagone-like peptide 1) agonisti in ICC sembrerebbero avere effetti positivi sulla frazione d’eiezione del VS, sulla distanza al 6-MWT, sul consumo di O2 al picco e sul QoL index sia in pazienti dia-betici che non [34].

Tiroide

Gli ormoni tiroidei presentano effetti genomici e non sulla struttura e sulla funzione cardiaca, incrementando la fun-zione sistolica e diastolica del VS attraverso l’espressioni di molteplici geni ed un’azione indiretta sul sistema vascolare [35].

Entrambe le condizioni di ipo- ed ipertiroidismo sono accompagnate da modifiche nella gittata cardiaca, nella contrattilità e nelle resistenze periferiche, mentre la loro correzione porterebbe una reversione suddette anomalie [36]; il 13-30% dei pazienti con IC svilupperebbe inoltre una condizione definita come “low T3 syndrome”, data da un’alterata conversione della tiroxina (T4) a T3 da parte di una specifica deiodasi [37].

Sia la somministrazione orale di basse dosi di L-T4 che l’infusione continua di L-T3 hanno evidenziato un miglio-ramento nella gittata cardiaca e nella tolleranza all’esercizio fisico dopo un breve periodo di trattamento in ICC [38]. Tuttavia ulteriori studi sono necessari al fine di esplorare e chiarire il potenziale dell’uso degli ormoni tiroidei in aggiunta alla terapia standard nell’ICC.

Conclusione Crescenti evidenze suggeriscono che l’ICC rappresenti una complessa sindrome caratterizzata da un deficit multi ormonale. L’impairment anabolico/catabolico, in quanto significativamente associato alla riduzione della perfor-mance cardiaca e fisica e, soprattutto, ad aumentata mor-talità, non sembrerebbe essere un mero epifenomeno, ma piuttosto una fondamentale determinante di progressione

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Dal 10 al 30% della popolazione generale dei paesi indu-strializzati presenta sintomi digestivi di severità variabile. Nel maggior parte dei casi indagini diagnostiche tradizio-nali non permettono di identificare cause organiche, siste-miche o metaboliche che ne giustifichino la presenza per cui i sintomi vengono inquadrati come malattie digestive funzionali. Nonostante solo un quarto di questi individui cerchi assistenza medica (Figura 1), le sindromi digestive funzionali rappresentano circa il 40% delle diagnosi gastro-enterologiche [1] e una delle principali cause di accesso ai Pronto Soccorso (Figura 2) [2], ma per motivi difficili da comprendere esse continuano ad essere molto spesso sotto-valutate dai medici. Nella pratica clinica, dopo una serie di indagini negative, il medico crede di rassicurare il paziente dicendo frasi del tipo “non si preoccupi: non c’è nulla di grave, provi questa terapia” oppure addirittura “è una malat-tia cronica o cronicamente recidivante con la quale deve abi-tuarsi a convivere”. In realtà è noto da tempo che i pazienti non sono affatto rassicurati da questo atteggiamento che ritrovano purtroppo anche in ambiente specialistico [3] e inevitabilmente si rivolgeranno altrove nella speranza di trovare la causa dei propri disturbi, con conseguente lievi-tazione dei costi sanitari diretti ed indiretti [4]. L’assenza di segni e sintomi di allarme (insorgenza dei sintomi dopo 1 50 anni, storia familiare di neoplasie del canale alimentare, presenza di sangue nelle feci, recente assunzione di anti-biotici, perdita di peso involontaria, risveglio indotto dai sintomi, masse palpabili all’esame obiettivo) e la presenza di caratteristiche costellazioni sintomatologiche associate ad un minimo di indagini diagnostiche mirate permettono di formulare con certezza la diagnosi di una specifica malattia funzionale gastrointestinale nella stragrande maggioranza dei casi. Una diagnosi corretta non solo indirizza in modo più preciso la terapia, ma è anche indispensabile per impo-stare un positivo rapporto medico-paziente. Quest’ultimo infatti deve essere basato sulla conoscenza da parte del medico non solo di aspetti fondamentali della sindrome in questione quali meccanismi fisiopatologici, penetranza dia-gnostica dei vari test ed efficacia terapeutica degli approcci terapeutici, ma anche sulla sua capacità di traferire queste conoscenze ai pazienti. Solo la comprensione da parte del

paziente delle cause dei suoi sintomi e delle strategie adot-tate per controllarli è in grado di rassicurarlo davvero ed evitare quindi il ripetersi di inutili indagini diagnostiche. La mancata conoscenza del problema da parte dei medici e, di conseguenza dei pazienti, è causa di errori diagnostico-te-rapeutici anche grossolani, come dimostrato dal fatto che i pazienti affetti ad esempio da sindrome dell’intestino irri-tabile vengono sottoposti addirittura ad inutili interventi chirurgici, con inevitabili rischi, disagi ed incremento dei costi sanitari diretti ed indiretti [4].

Il termine “Criteri di Roma” indica una classificazione sistematica basata sull’evidenza dei disordini gastrointe-stinali funzionali [5]. Originariamente creati per scopi di ricerca, sono stati recentemente proposti dalla Rome Foun-dation per facilitare il compito del clinico nel definire le principali sindromi digestive funzionali. Recenti progressi nella comprensione dei meccanismi cellulari e molecolari responsabili delle disfunzioni digestive e della percezione dei sintomi [6,7] permettono oggi di gestire tali frequenti condizioni patologiche in modo più preciso ed efficace. La conoscenza delle sindromi digestive funzionali dovrebbe essere trasversale a tutti i medici non solo per la loro elevata frequenza ma anche per le frequenti correlazioni con altre patologie di grande diffusione. I criteri di Roma sono giunti alla loro quarta edizione e classificano 27 distinte sindromi digestive funzionali, raggruppate in 6 domini distinti (Figura 3) [8]. Tra queste le più frequenti sono sicu-ramente la dispepsia funzionale e la sindrome dell’intestino irritabile.

La dispepsia funzionale è caratterizzata da sintomi dolo-rosi o non dolorosi suggestivi di patologie gastro-duodenali [9]. Si tratta di un termine generico che comprende due sot-to-categorie: 1) la post-prandial distress syndrome (PDS) (già dispepsia simil-motoria) che comprende ripienezza postprandiale e sazietà precoce, sintomi questi indotti per definizione dall’ingestione dei pasti che non devono essere confusi con tensione / gonfiore addominale tipici della sin-drome dell’intestino irritabile (IBS); 2) la epigastric pain syndrome (EPS) (già dispepsia simil-ulcerosa) che com-prende dolore e bruciore epigastrico, non necessariamente correlati all’ingestione di un pasto che deve essere distinta

Le malattie “funzionali” dell’apparato digerente

Vincenzo StanghelliniPoliclinico S.Orsola-Malpighi, Università degli Studi di Bologna

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MEDICINA IN CORSIA

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

dalla patologia da reflusso gastro-esofageo (GERD). In assenza di sintomi e segni di allarme [9] il work up dia-gnostico si basa su anamnesi ed esame obiettivo e prevede un trattamento con antisecretori per EPS, pro cinetici per PDS e antidepressivi per i pazienti che non rispondono alle suddette terapie. Se tale approccio non è sufficiente è consigliata l’effettuazione di test non invasivi per valutare la presenza di un’eventuale infezione da Helicobacter pylori. L’approccio test-and-treat è ormai considerato doveroso in pazienti sintomatici e, nel caso i sintomi rispondano alla terapia eradicante e non recidivino per almeno 6 mesi la dispepsia viene considerata secondaria all’infezione batte-rica [9]. In assenza di infezione da Helicobacter pylori o in caso di mancata risposta alla terapia eradicante la dispepsia è considerata funzionale e sono suggeriti approfondimenti diagnostici presso Centri specialistici per valutare eventuali anomalie fisiopatologiche che possono indirizzare le ulte-riori scelte terapeutiche: a) combinazioni di vari procinetici e/o antiemetici in

pazienti con ritardato svuotamento gastrico; b) combinazioni di agonisti dei recettori serotoninergici

5HT-1° e/o prodotti naturali specifici (es. STW5) in pazienti con ipertono del fondo gastrico;

c) combinazioni di antidepressivi comprendenti amitripti-lina in pazienti con ipersensibilità viscerele;

d) combinazioni di antistaminici e/o antileucotrienici in pazienti con flogosi aspecifica con o senza eosinofilia della mucosa duodenale.

Con il termine “Sindrome dell’intestino irritabile” o “IBS” (dall’inglese irritable bowel syndrome) si indica una con-dizione clinica caratterizzata da dolori addominali che si accompagnano a modificazioni dell’alvo in senso stitico (IBS-C) o diarroico (IBS-D) o misto con periodi di stipsi alternati appunto a scariche diarroiche (IBS-M). Dal momento che IBS è una malattia che interessa tutto l’in-testino e che l’intestino tenue occupa la parte centrale dell’addome ed il colon ne occupa “la cornice” il dolore addominale dell’IBS può mimare molte altre malattie quali coliche biliari, patologie gastriche, pancreatiche o uro-gine-cologiche, tanto è vero che, rispetto alla popolazione gene-rale, i pazienti affetti da IBS hanno una probabilità almeno doppia di essere sottoposti ad interventi di colecistectomia, appendicectomia o a carico dell’apparto uro-genitale che ovviamente sono spesso inutili, potenzialmente dannosi e sicuramente costosi. IBS-C si può manifestare come totale assenza di stimolo evacuatorio o, al contrario, con pres-sochè costante necessità di evacuare associato a difficoltà espulsive spesso non solo per le feci ma anche per i gas intestinali, che esitano eventualmente anche in evacuazioni ripetute nell’arco della giornata con feci aride e di piccole dimensioni (feci caprine o scibale di diametro ridotto). IBS-D è caratterizzato da emissione di feci di consistenza

ridotta (liquide o poltacee), spesso mal digerite e con urgenza che, nei casi più gravi può esitare in incontinenza. In entrambi i casi le evacuazioni possono presentare anche tracce più o meno abbondanti di muco, indice di una forte infiammazione della mucosa intestinale. IBS, ancora oggi indicato con termini antichi e potenzialmente fuorvianti quali “colite spastica” o “colite nervosa”, è frequentemente caratterizzata, oltre che dai suddetti sintomi anche da gon-fiore, tensione, fastidio addominale, borborigmi accentuati, e si può associare ad altre condizioni patologiche digestive (patologia da reflusso gastro-esofageo, PDS, EPS, nausea cronica, episodi di vomito, ecc.) ed extra-digestive (infe-zioni genito-urinarie, tachicardia, difficoltà di respiro, cefalea, emicrania, fibromialgia, sindrome della stanchezza cronica, ecc.). Ne deriva un quadro clinico complesso di non facile gestione da parte del medico che, rassicurato dalla non-letalità della condizione morbosa, tende a disin-teressarsene o trattarla con superficialità [10], spesso anche in ambiente specialistico [11] con una netta separazione tra la sua percezione e quella che il paziente ha della malattia. Spesso dopo una serie di indagini negative il medico crede di rassicurare il paziente dicendo “non si preoccupi: non c’è nulla di grave, provi questa terapia”. In realtà i pazienti non sono affatto rassicurati da questo atteggiamento. Come invitabili conseguenze, il paziente: a) inizia un pellegrinaggio da un medico ad un altro e da

un’indagine diagnostica all’altra (spesso inutilmente e costosamente ripetute) nella speranza di trovare la causa dei propri disturbi e quindi alla ricerca di chi possa fornire spiegazioni credibili e disegnare un percorso dia-gnostico-terapeutico efficace;

b) nell’attesa (purtroppo ancora troppo spesso lunga) di essere gestito correttamente il paziente si sente “isolato” non solo dalla classe medica, ma anche dagli stessi parenti che, anche convinti dallo scarso interesse mostrato dai medici e dalla apparente normalità delle numerose inda-gini diagnostiche, tendono a sottovalutare la situazione attribuendola esclusivamente alla somatizzazione di un disturbo psicologico.

La gestione clinica dei pazienti con IBS si basa, come per la dispepsia in assenza di sintomi e segni di allarme, su anam-nesi ed esame obiettivo, oltre che su un numero assai limi-tato di test laboratoristici volti ad escludere anemia, infiam-mazione e celiachia, almeno in aree geografiche come l’Italia ad alta prevalenza di malattia. Se consigli dietologici ed antispastici possono essere usati in tutti i pazienti, IBS-C e IBS-D si giovano, ovviamente, di approcci terapeutici diversificati: a) fibre idrosolubili, macrogol, bisacodile, prucalopride,

linaclotide per IBS-C; b) loperamide, chelanti acidi biliari, rifaximina, probiotici,

eluxadolina per IBS-D.

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Riassunto

L’idea di utilizzare a scopo terapeutico piccoli frammenti di RNA (oligonucleotidi) risale agli anni ’90, successivamente alle fondamentali scoperte dei meccanismi di silenziamento genico e di RNA-interference (RNA-i). I primi tentativi in tal senso furono tuttavia vanificati da problemi di stabiliz-zazione e di veicolazione verso i tessuti bersaglio. I recenti progressi nella manipolazione chimica degli oligonucleotidi hanno permesso di superare, almeno parzialmente, tali osta-coli. La coniugazione con ligandi per determinati recettori permette di veicolare selettivamente gli oligonucleotidi verso cellule-bersaglio (es. gli epatociti) ove vengono internaliz-zati, esplicando infine il silenziamento. In parallelo, gli studi di next-generation sequencing (NGS) a livello di popolazione hanno permesso di identificare target molecolari di partico-lare interesse, grazie soprattutto alla scoperta dell’esistenza di “knock-out” umani “naturali”. Tale definizione designa indi-vidui completamente mancanti di una determinata proteina, a causa di mutazioni non-senso nel rispettivo gene. Essi sono spesso sani, se non addirittura protetti dallo sviluppo di determinate malattie. È il caso, ad esempio, dei soggetti mancanti di modulatori del metabolismo lipoproteico quali PCSK9 o ANGPTL-3, protetti dallo sviluppo di dislipidemie e malattie cardiovascolari. Il fatto che essi godano di sostan-ziale benessere nonostante l’assenza completa di una certa proteina fa sì che il rispettivo gene rappresenti un candidato ideale per un approccio di silenziamento, senza rischi di sostanziali effetti avversi. I primi trials clinici con oligonucle-otidi anti-PCSK9 o anti-ANGPTL-3 a lunga durata d’azione hanno fornito risultati tanto incoraggianti da farne ipotizzare un uso futuro come “vaccini” contro l’aterosclerosi. Di per sé, l’utilizzo degli oligonucleotidi a scopo terapeutico può essere

rivolto virtualmente a qualunque bersaglio molecolare, e potrebbe rivoluzionare a breve il variegato mondo dei cosid-detti “farmaci biologici”, affiancando e finanche sostituendo approcci oggi più consolidati, come quello degli anticorpi monoclonali.

Principi e basi molecolari della terapia con oligonucleotidi

Gli oligonucleotidi rappresentano un esempio illuminante di applicazione delle informazioni genomiche alla produ-zione di farmaci “intelligenti” [1]. Ne esistono due tipologie principali: gli oligonucleotidi antisenso propriamente detti (antisense oligonucleotides, ASO), e i piccoli RNA interferenti (short interfering RNA, siRNA) [2, 3]. Il principio comune alla base del loro impiego terapeutico è illustrato in Figura 1. Le sequenze appositamente disegnate, una volta introdotte nella cellula, si legano al RNA messaggero (mRNA) comple-mentare, provocandone la degradazione e quindi il blocco di sintesi della proteina corrispondente. Gli ASO sono mono-filamenti che si appaiano al mRNA in modo diretto (Figura 1). I siRNA sono invece doppie eliche ove si distinguono un filamento “guida” contenente l’informazione complemen-tare al mRNA da silenziare, e un filamento “passenger” che serve a favorire l’inclusione del pro-farmaco nel complesso RISC (RNA induced silencing complex), ossia l’effettore finale del silenziamento [4]. La definizione dei dettagli moleco-lari del meccanismo di RNA-interferenza è valsa il premio Nobel 2006 per la Medicina a Craig Mello & Andrew Fire [5], motivato dall’ “immenso impatto nella ricerca e nelle applicazioni in biomedicina” (http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/2006/). L’uso terapeutico degli oligonucleotidi è stato tuttavia a lungo ostacolato da due problemi maggiori: 1) la rapida degradazione da parte delle ribonucleasi endogene; 2) le difficoltà a veicolare seletti-vamente il farmaco verso specifiche cellule bersaglio, spesso (non sempre) rappresentati dagli epatociti sintetizzanti la proteina d’interesse. I recenti progressi nella manipolazione chimica degli oligonucleotidi hanno permesso di superare in larga parte tali inconvenienti, rilanciandone l’uso. Da un lato, le modificazioni dello scheletro ribonucleotidico con l’inserimento di gruppi fosfo-tiolici e metilici hanno reso gli

Gli oligonucleotidi antisenso nelle malattie cardiovascolari e metaboliche

Domenico Girelli, Giacomo Marchi, Fabiana Busti, Nicola Martinelli, Oliviero Olivieri

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Domenico Girelli ()Sezione di Medicina Interna - Dipartimento di MedicinaUniversità di Verona e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona Policlinico Giambattista Rossi, 37134 VeronaTel. 045 8124791 - Fax 045 8027473E-mail [email protected]

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oligonucleotidi resistenti alla degradazione e, quindi, molto più stabili [3]. Dall’altro, decisiva si è rivelata la coniugazione con gruppi chimici riconosciuti da specifici recettori cellu-lari, come ad esempio la N-acetil-galattosamina (Gal-NAc) in grado di legarsi al recettore per la asialoglicoproteine (ASGPR) altamente espresso sulla membrana epatocitaria [6]. Il complesso oligonucleotide-Gal-NAc/ASPGR viene quindi internalizzato nella cellula, creando le condizioni per un silenziamento genico ottimale (Figura 2). La tecnologia di stabilizzazione e coniugazione con Gal-NAc è risultata altamente efficace nel caso dell’inclisiran, diretto verso la pro-proteina della convertasi subtilisina/Kexin tipo 9 (PCSK9, v. oltre) [7], e può essere virtualmente applicata in futuro a qualunque proteina sintetizzata prefe-renzialmente dal fegato.

Bersagli molecolari delle terapie con Oligonucleotidi – I “knock-out” umani

La terapia con oligonucleotidi presenta intrinsecamente potenzialità immense. Ciò appare valido soprattutto nel campo oncologico e, più in generale, in tutte le malattie a componente genetica pre-dominante (es. le m. mendeliane), o comunque rilevante (es. le malattie “complesse” cardiovascolari e metaboli-che). In oncologia, l’importanza di poter silenziare geni abnormemente attivati è intuitiva. Ad esempio, è noto che muta-zioni attivanti di KRAS concorrono alla patogenesi di circa il 20% delle neoplasie umane [8]. Pertanto, la recente descri-zione di un ASO anti-KRAS con risultati preclinici promettenti [9], apre grandi speranze applicative per il futuro. L’appli-cazione alle malattie complesse è invece più articolata, dovendo tener conto anche dei potenziali effetti funzionali negativi del silenziamento genico, che, di fatto, determina l’abolizione di una determinata proteina. A tal proposito, si stanno rivelando particolarmente utili le recenti scoperte, attraverso studi di NGS a livello di popolazione, dell’esistenza di individui portatori di mutazioni non-senso in determinati geni, e quindi assi-milabili a “esperimenti della natura”, o “knock-out” umani [10-12]. In taluni casi, questi particolarissimi individui mostrano uno stato di salute apparente-mente normale pur mancando comple-tamente di una data proteina. Anzi, nel caso dei “knock-out” umani per PCSK9 o per angiopoetina-like 3 (ANGPTL3),

due geni notoriamente critici per il metabolismo delle lipo-proteine plasmatiche, essi risultano protetti dallo sviluppo di dislipidemia e malattie cardiovascolari. Non avendo essi altri disturbi, è perciò ipotizzabile che il silenziamento di tali geni non determini rischi particolari, ma solo i benefici deri-vanti dalla riduzione dei livelli di colesterolo LDL (nel caso di PCSK9), o delle lipoproteine ricche di trigliceridi (nel caso di ANGPTL3). La terapia con oligonucleotidi, frutto indiscusso dall’era genomica, trova pertanto i suoi presupposti applica-tivi proprio in un settore di ricerca affine, quale la genomica di popolazione [1, 13].

Figura 1

Figura 2

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Esempi paradigmatici di terapie con oligonucleotidi nelle mm. cardiovascolari e metaboliche

L’ultimo anno ha visto la pubblicazione di una fioritura di studi clinici con oligonucleotidi nelle mm. cardiovascolari. Oltre ai già citati PCSK9 e ANGPTL3, altri bersagli moleco-lari d’interesse per il silenziamento sono i geni LPA (codifi-cante per la Lipoproteina(a)) [14], APOC3 (codificante per l’apolipoproteina C3) [15], e APOB (codificante per l’apolipo-proteina B) [16, 17] (Tabella 1). Per limiti di spazio, ci si limita di seguito a illustrare a scopo esemplificativo i risultati otte-nuti con inclisiran, l’inibitore di PCSK9, ossia della proteina chiave che controlla negativamente l’espressione dei recettori per le LDL. In uno studio di fase 1, questo oligonucleotide si è rivelato in grado di ridurre in modo marcato e prolungato i livelli di colesterolo LDL [7]. Nei volontari sani trattati con inclisiran si è infatti osservata una riduzione di circa il 60% del colesterolo LDL per oltre 6 mesi dopo una singola som-ministrazione, ben tollerata e in assenza di effetti collaterali maggiori [7]. Tali risultati sono stati giudicati talmente pro-mettenti da indurre l’illustre cardiologo E. Braunwald a ipo-tizzare l’utilizzo futuro di inclisiran come “vaccino” contro l’a-terosclerosi. Uno studio di fase 2 su pazienti dislipidemici ad alto rischio cardiovascolare, spesso già in terapia massimale con statina, ha essenzialmente confermato i risultati [18]. Un ulteriore punto a favore degli oligonucleotidi è rappresentato dai costi di produzione, che appaiono competitivi rispetto ad altri farmaci “biologici” recentemente utilizzati nelle mede-sime condizioni, quali ad es. gli anticorpi monoclonali [4]. Sebbene al momento se ne prospetti l’indicazione in associa-zione alle statine o nei soggetti intolleranti a queste ultime, non si può escludere che inclisiran e similari diventino in futuro un’attraente alternativa alle statine stesse, stante la

semplicità d’uso (1-2 somministrazioni s.c. all’anno versus l’assunzione quotidiana per os). In ogni caso, ovviamente, prima di evocarne un uso estensivo, è necessario confermare su larga scala i dati di sicurezza. Una lista esaustiva delle spe-rimentazioni in atto o già concluse con oligonucleotidi nel trattamento delle più svariate condizioni cliniche è riportata in una recente review di Bennett e collaboratori [2].

Conclusioni

La terapia con oligonucleotidi, in grado di abolire per tempi anche molto prolungati la produzione di determinate pro-teine attraverso il silenziamento genico, rappresenta una risorsa potenzialmente universale per la moderna medicina di “precisione”. I progressi nella manipolazione chimica degli oligonucleotidi sembrano avere risolto gli iniziali problemi di stabilità e di veicolazione verso i tessuti o le cellule bersaglio. In parallelo, i progressi della genomica suggeriscono bersagli molecolari sempre più attraenti sul piano fisiopatologico. I prossimi anni saranno decisivi nel rivelare se la terapia con oligonucleotidi raggiungerà o meno la piena maturità clinica.

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Nel 1937, The Lancet, preceduto dell’editoriale intitolato Mathematics and Medicine, pubblicava il primo di una serie di articoli che Sir Austin Bedford Hill scrisse per mostrare l’utilità della statistica in medicina, e che costituirono la base del testo Principle of medical statistics [1] pubblicato nello stesso anno.

Quell’articolo esordiva con la seguente domanda: “Is the application of the numerical method to the subject matter of medicine a trivial and time-wasting ingenuity as some hold, or is it an important stage in the development of our art, as others proclaim?”

Sono passati 80 anni da allora, ma anche se di acqua sotto i ponti ne è passata molta, ancora oggi questa domanda è drammaticamente attuale, ed è alla base, se non capisco male, del tema che la Società Italiana di Medicina Interna mi ha chiesto di discutere.

Anche grazie allo straordinario impulso di Bedford Hill, le sperimentazioni cliniche (controllate e randomizzate, RCT) hanno via via assunto un ruolo centrale e insosti-tuibile nella ricerca clinica, fino a diventare uno dei rari esempi in cui il razionale scientifico ha saputo diventare il paradigma della comunità medica. Basti pensare che, quasi 60 anni dopo il pionie-ristico lavoro di Hill, Sackett et al., nel loro altrettanto pionieristico testo sull’Evidence Based Medicine, raccomandavano: “If you find a study was not randomized, we’d suggest that you stop reading it and go on to the next article” [2].

Cosa è rimasto ancora attuale degli insegnamenti di Bedford Hill e Sackett? Due cose a mio parere. Prima, l’idea che per generare solide evidenze relative a un ben definito, rilevante ed originale quesito clinico, è necessario stabilire a priori le regole con le quali lo studio verrà effettuato in un protocollo. Seconda, che il ruolo del biostatistico nella stesura del protocollo, nella sua valutazione nei Comitati etici, nella conduzione di un’appropriata analisi dei dati, oltre che nell’interpretazione dei

risultati basata sui limiti dello studio, è ormai consoli-dato. L’altra faccia della medaglia è che tale ruolo è spesso vissuto come imposizione dogmatica, piuttosto che come strumento per affrontare in modo razionale l’incertezza insita in ogni nostra osservazione. È della fine degli anni ’70 l’immagine della Nuova Santa Trinità in Medicina, un fumetto che per reazione alla cosiddetta rivoluzione stati-stica in medicina, illustra che (i) il medico continua a essere considerato come Dio per il paziente; (ii) per il medico la voce di Dio è nel verdetto del biostatistico, “significativo” (p < 0.05) o “non significativo”; (iii) il biostatistico, infine, vede Dio nello specchio [3].

Sempre verso la fine degli anni ’70, parallelamente all’af-fermarsi della sperimentazione clinica come modello per la valutazione delle azioni mediche, ha cominciato a farsi strada l’idea che i risultati delle sperimentazioni non sono sufficienti per predire l’effetto delle terapie nella pratica clinica [4]. I motivi sono molti. Primo, i pazienti inclusi negli RCT sono in media molto diversi rispetto a quelli osservati nella pratica clinica corrente. È del 2012 un articolo pubbli-cato da BMJ in cui gli AA mostrarono che, nel setting delle

cure primarie del Regno Unito, solo il 2.8% dei pazienti con diagnosi di scompenso car-diaco, e il 6.0%, il 6.5% e l’8.8% dei pazienti con storia rispettivamente di ictus cerebrale, fibrillazione atriale e malattia coronarica, non ha associata alcun’altra condizione car-diovascolare [5]. È superfluo ricordare che tutti i trial su queste malattie escludono i pazienti con comorbosità cardiovascolare. Secondo, la compliance al trattamento spe-rimentale è ottimale negli RCT, mentre l’a-derenza e la persistenza alle terapie croniche è problematica nel mondo reale [6]. Terzo, per diversi motivi (costo, necessità di appro-vare la terapia in tempi rapidi, abbandono progressivo dei pazienti, cambiamenti della residenza del paziente, instabilità del lavoro degli investigatori, ecc.), gli RCT possono durare al massimo pochi anni, mentre la speranza di vita dei pazienti nel mondo

Il rischio dell’hazard ratio- uso e misuso della statistica per generare evidenze solide, rilevanti e pertinenti -

Giovanni CorraoStatistica Medica, Università degli Studi di Milano-Bicocca

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reale è spesso di qualche decennio. Queste considerazioni suggeriscono che, accanto alle evidenze scientificamente valide delle sperimentazioni cliniche (ovvero oltre a misu-rare se il nuovo trattamento può funzionare in condizioni ideali), abbiamo bisogno di valutarne l’azione nel cosid-detto mondo reale [7].

C’è poi un’altra ragione che rende quanto mai attuale il bisogno di evidenze dal mondo reale. Sotto la spinta della FDA prima, e dell’EMA poi, al fine di garantire un più veloce accesso ai cosiddetti farmaci innovativi, abbiamo assistito in questi anni a numerosi esempi di un’accelera-zione del processo regolatorio. Tutto questo genera tuttavia giuste preoccupazioni nella comunità medico-scientifica. Si pensi ad esempio al caso del Vandetabib, approvato per il trattamento del tumore della tiroide, dopo che due piccoli studi, uno di fase 2 e l’altro di fase 3, hanno mostrato van-taggi in termini di sopravvivenza libera da progressione (progression free survival), ma non di sopravvivenza com-plessiva (overall survival) [8,9]. Ancora, si pensi al caso della combinazione di Olaratumab e Doxorubicin appro-vata per il trattamento del sarcoma dei tessuti molli avan-zato sulla base di due piccoli trial di fase 1b e 2 [10]. In par-ticolare, la sopravvivenza libera da progressione è passata da 4.1 mesi nei pazienti sottoposti al solo trattamento con Doxorubicin verso i 6.6 mesi in quelli sottoposti alla com-binazione Olaratumab e Doxorubicin, differenza statistica-mente significativa ad un livello di 0.0615 (inferiore a un = 0.2 come definita dal protocollo!), ma opinabile sul piano della rilevanza (anche in relazione alla spesa). In generale, stiamo assistendo a un cambiamento epocale del processo di approvazione che porta le agenzie regolatorie ad appro-vare terapie innovative con limitate evidenze [11].

Per tutte queste ragioni, da almeno un decennio sta emergendo in modo sempre più pressante il bisogno di valutare l’effetto delle terapie nel mondo reale della pratica clinica. Questo processo è facilitato dall’enorme disponibi-lità di dati, spesso archiviati elettronicamente e generati per fini amministrativi o clinici (ovvero rispettivamente usati dalle autorità sanitarie e dalle assicurazioni per rimborsare i fornitori di prestazioni mediche o dai medici come pro-memoria per gestire i propri pazienti). In generale, abbiamo oggi a disposizione numerosissime fonti che ci permettono la rilevazione delle “impronte” che i pazienti lasciano e che possono svelarci le malattie di cui soffrono, il modo con cui vengono trattati, quali esiti sperimentano e addirittura quanto costa il loro trattamento. In altri termini, tutto ciò che accade a tutti i pazienti affetti da qualsiasi condizione.

Questo ha indubbiamente portato a una nuova rivolu-zione del modo con cui si costruiscono le conoscenze in medicina. Bisognerebbe capire i tratti peculiari del cam-biamento, non certo con lo scopo di impedirne l’afferma-zione, ma per coglierne le opportunità e magari governarne il processo. A mio avviso c’è un grande e pericoloso frain-tendimento che ci sta portando verso un clamoroso errore di parallasse. Dal mio punto di vista, il nobile tentativo di

acquisire evidenze dal mondo reale (real-world evidence) è solo marginalmente una sfida tecnologica, visto che ormai disponiamo di efficienti strumenti per l’archivio, l’aggior-namento e l’analisi di enormi quantità di dati. E non credo neanche che, al momento attuale, i sistemi di intelligenza artificiale siano in grado di fornire le risposte di cui medico e decisore necessitano. Piuttosto, noi riteniamo che la vera sfida sia quella di riallinearci al paradigma del metodo scientifico, adattando (ma non rigidamente applicando) le consolidate procedure di buona pratica della ricerca clinica a un contesto oggettivamente diverso.

Questo vuol dire che non possiamo rinunciare alla pretesa che, per rispondere in modo credibile a un rilevante quesito, si debba innanzitutto procedere con la stesura e la neutra valutazione del protocollo, pena il rischio di accet-tare che i (molti) dati vengano torturati fino a quando non generino risultati coerenti con le aspettative [12]. Se così fosse (e così è in molti contesti) da dove deriverebbe la pretesa di considerare scientificamente credibili gli studi di real-world?

Il protocollo, tuttavia, necessariamente deve tener conto che il mondo reale è diverso da quello artificialmente costruito del setting sperimentale. La mancata randomiz-zazione e le approssimazioni alle quali è necessario ricor-rere in assenza di misurazioni dirette delle caratteristiche cliniche dei pazienti, devono essere affrontate in modo razionale, anche ricorrendo a sofisticati metodi statistici ed emergenti disegni osservazionali, il cui uso è sempre più frequentemente riportato sulle riviste mediche più lette e citate. C’è poi un problema ancora non sufficientemente affrontato dai biostatistici. Il cosiddetto culto della signifi-catività statistica [13], che come tale abbiamo già commen-tato, assume nel caso degli studi di real-world un’accezione ancor più problematica in quanto si tratta quasi sempre di indagini di enormi dimensioni, che sistematicamente gene-rano differenze significative, anche quando irrilevanti sul piano clinico e della sanità pubblica.

Per concludere, stiamo assistendo a un’epocale cambia-mento che aggiunge ai tradizionali strumenti della ricerca clinica, nuove e rilevanti prospettive. Qualcuno ha detto che quando soffia il vento del cambiamento alcuni costrui-scono muri, altri mulini a vento. Fuor di metafora, il nostro mulino non può che essere il governo del cambiamento in modo da tenere ben fermo il timone nella direzione verso la quale andare (ovvero, senza mai mettere in discussione il metodo scientifico come strumento per migliorare le cono-scenze e finalizzarle alla qualità delle cure) ma nello stesso tempo riconoscendo e assecondando le folate di vento che, non solo non ci fanno perdere la rotta, ma ci aiutano a rag-giungere più facilmente gli obiettivi (ovvero, le spinte real-mente innovative).

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

La fibrosi polmonare idiopatica (idiopathic pulmonary fibrosis, IPF) è una patologia respiratoria cronica, a carat-tere progressivo e a causa non nota, che colpisce individui adulti, limitata ai polmoni ed associata al pattern radio-logico e/o istologico della “usual interstitial pneumonia” (UIP) [1]. L’IPF si caratterizza per la presenza di gravi alterazioni della normale architettura del parenchima pol-monare tali da determinare un progressivo deficit funzio-nale fino alla comparsa dell’insufficienza respiratoria ed in definitiva della morte, che subentra in media a circa 3 anni dalla diagnosi. Nonostante i numerosi passi avanti nella comprensione dei meccanismi patogenetici della malattia, l’origine dell’IPF rimane ancora oggi in parte sconosciuta. L’IPF può essere considerata come il risultato di una com-plessa interazione tra il substrato genetico di ogni individuo e il danno tissutale causato da diversi fattori quali il fumo, alcuni virus, il reflusso gastroesofageo o l’eventuale espo-sizione ambientale e professionale a sostanze nocive. In questo contesto inoltre si aggiunge, in qualità di fattore di rischio endogeno, anche l’invecchiamento cellulare il quale favorisce lo sviluppo di instabilità genomica, la comparsa di mutazioni epigenetiche, l’accorciamento dei telomeri e la senescenza cellulare che sono tutte causa di un’alterazione della normale risposta a ripetuti stimoli, ponendo quindi le basi per lo sviluppo della fibrosi [2-4].

Fattori di rischio

Nel polmone, così come in altri organi, sono stati indivi-duati diversi fattori di rischio che possono variare il tipo di risposta cellulare e quindi la suscettibilità individuale ai vari stimoli, giocando un ruolo importante nella patogenesi. Tali fattori di rischio sono responsabili di ripetuti micro-insulti e di un danno cronico a carico delle cellule epiteliali alveolari tali da determinare o la distruzione tissutale come avviene nel caso dell’enfisema oppure tali da innescare processi degenerativi cellulari portando allo sviluppo di neoplasie. Nel caso dell’IPF, la presenza di questi ripetuti micro-insulti innesca un processo riparativo eccessivo e ridondante che porta alla formazione di una fibrosi progressiva ed irrever-sibile dei polmoni. In alcuni individui tuttavia uno stesso

fattore di rischio quale ad esempio il fumo può determinare la comparsa di un duplice danno come la contemporanea comparsa di enfisema e fibrosi generando un’entità nota come “combined pulmonary fibrosis emphysema” (CPFE) che si associa inoltre con una maggiore frequenza di cancro del polmone [5]. Diversi studi epidemiologici hanno sancito una stretta correlazione tra fumo, GERD, alcune infezioni virali, l’esposizione ambientale e/o professionale e l’IPF [6], tuttavia i meccanismi attraverso cui questi fattori di rischio possono portare allo scatenarsi della malattia restano poco chiari.

Il fumo di sigaretta è costituito da centinaia di compo-nenti chimici che alterano la normale attività delle cellule respiratorie attraverso vari meccanismi. Tali componenti possono indurre stress ossidativo cellulare, danno del DNA, alterazioni epigenetiche, un alterato ripiegamento delle proteine ed indurre inoltre un processo di difesa chiamato “unfolded proteine response” (UPR). Il fumo di sigaretta inoltre altera l’attività proteasomica cellulare determinando stress del reticolo endoplasmatico (ER stress) ed apoptosi, creando così un ambiente pro-infiammatorio e pro-fi-brotico [7]. Recenti studi hanno inoltre dimostrato che lo stress ossidativo indotto dal fumo di sigaretta aumenta l’espressione del MUC5B, un gene associato sia alla forma sporadica che alla forma familiare di IPF [8]. L’aumentata espressione del MUC5B, causata dalla comparsa di un poli-morfismo di un singolo nucleotide nella regione promoter del gene, può ridurre i meccanismi di difesa della mucosa bronchiale interferendo con i meccanismi di riparazione [9]. Il fumo di sigaretta, la dieta, le sostanze chimiche e i fattori ambientali assieme con l’invecchiamento sono inoltre responsabili di una serie di alterazioni epigenetiche ovvero alterazioni nell’espressione genica senza modifiche nella sequenza del DNA attraverso la metilazione del DNA, modifiche degli istoni o un’alterazione nella regolazione dei microRNA (miRNA) [10].

Patogenesi

Diverse alterazioni genetiche sono riscontrabili nella pato-genesi dell’IPF. Tali modifiche genetiche tendono ad alte-

La Fibrosi Polmonare Idiopatica

Luca RicheldiUOC Pneumologia, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

rare specifici meccanismi cellulari quali il ciclo cellulare, il processo di differenziazione cellulare e l’apoptosi. Una delle prime alterazioni genetiche studiate nell’IPF riguarda la mutazione del gene che codifica per la proteina C del sur-factante (SP-C) che è correlata alle forme familiari di IPF [11].

Un’ipotesi recente suggerisce che l’IPF possa rappresen-tare una patologia legata ad un invecchiamento precoce dei polmoni. A supporto di questa ipotesi esiste infatti l’evi-denza clinica che l’incidenza dell’IPF aumenta all’aumen-tare dell’età e che in soggetti con età maggiore ai 75 anni risulta relativamente più frequente il riscontro radiologico di alterazioni interstiziali [12]. L’invecchiamento ha delle caratteristiche peculiari quali le mutazioni epigenetiche, l’instabilità genomica, l’accorciamento dei telomeri, la sene-scenza cellulare, l’esaurimento delle cellule staminali, l’alte-razione delle normali comunicazioni cellulari, la perdita del meccanismo di proteostasi e la disfunzione mitocondriale.

L’accorciamento dei telomeri, rappresentante anch’esso uno dei tasselli della patogenesi dell’IPF, riconosce alcune cause non genetiche già menzionate quali il fumo ed il danno ossidativo ed altre cause genetiche quali le mutazioni dei geni codificanti per le telomerasi (TERT e TERC) che si riscontrano nel 8-15% delle forme familiari e nel 1-3% delle forme sporadiche di IPF [13].

Le cellule alveolari epiteliali (AEC) sono di due tipi e giocano un ruolo chiave nel processo di patogenesi rappre-sentando il bersaglio comune di stimoli dati dai fattori di rischio e dall’invecchiamento ed essendo sede delle alte-razioni genetiche. Le cellule alveolari epiteliali di primo tipo (AEC I) sono cellule squamose che ricoprono circa il 90-95% della superficie alveolare formando uno strato molto sottile attraverso cui passano i gas, mentre le cellule alveolari epiteliali di secondo tipo (AEC II) sono impe-gnate nei processi di riparazione e nella produzione di sur-factante, una complessa molecola lipoproteica (SP-A, SP-B, SP-C e SP-D) che mantiene la stabilità alveolare riducendo la tensione superficiale a livello dell’interfaccia aria-liquido [14]. La continua esposizione delle AEC ai ripetuti stimoli da parte del fumo, dei virus, del reflusso gastroesofageo, dello stretching meccanico, dell’esposizione professionale o ambientale può danneggiare l’epitelio causando un’attiva-zione aberrante di tali cellule, la perdita di integrità dell’epi-telio e l’apoptosi.

Anche nel caso dei fibroblasti l’apoptosi assume un ruolo chiave nella patogenesi della IPF, ma se da un lato le AEC tendono con più facilità ad andare incontro ad apoptosi, nel caso dei fibroblasti invece si osserva una forte resistenza verso l’apoptosi costituendo così un vero paradosso. Si è inoltre notato che l’IL-6, che normalmente ha un’azione pro-apoptotica FAS-indotta, nel caso dei fibroblasti sembra al contrario avere l’effetto opposto riducendo l’apoptosi [15].

Sono quindi diversi gli ostacoli ancora da superare per giungere ad una piena comprensione della patogenesi della

malattia, ciò nonostante, ad oggi abbiamo abbastanza ele-menti per disegnare uno scenario ragionevole della pato-genesi dell’IPF. Essa può essere considerata il risultato della summa di una sfortunata combinazione di fattori esogeni ed endogeni che interagiscono tra di loro attraverso complessi meccanismi causando la malattia. La sfida per il futuro è quindi di migliorare la comprensione di questi meccanismi coinvolti nella patogenesi dell’IPF in modo da poter avere nel prossimo futuro sempre più frecce al nostro arco da poter scagliare contro questa terribile malattia nella pro-spettiva di una terapia sempre più efficace e personalizzata.

Terapia

Storicamente, l’industria farmaceutica si è dimostrata in generale riluttante nell’investire nello sviluppo di farmaci per malattie rare come IPF [16]. Tuttavia, a seguito della pubblicazione delle prime linee guida ATS/ERS sulla dia-gnosi e gestione di IPF avvenuta circa 15 anni fa [1], l’in-teresse in questo campo è progressivamente cresciuto, portando ad una maggiore comprensione dei meccani-smi patobiologici alla base della malattia grazie agli sforzi congiunti di istituzioni accademiche, organizzazioni di pazienti, autorità sanitarie e, appunto, compagnie farma-ceutiche [17]. Da allora un grande numero di molecole sono state testate come nuove potenziali terapie, con sempre più pazienti reclutati in studi clinici randomizzati di stadio avanzato, progressivamente meglio disegnati. Nonostante la maggioranza degli studi sinora ha avuto risultati delu-denti, soprattutto dovuto alla pletora di mediatori e vie di segnale coinvolti nella progressione del processo fibrotico, l’anno 2014 ha testimoniato l’approvazione dei primi due agenti anti-fibrotici efficaci nel rallentare il decorso di IPF, segnando un punto di svolta per la gestione della malattia e accendendo la speranza per lo sviluppo di una cura defi-nitiva [18]. D’altra parte tuttavia, fino ad ora nessun tratta-mento farmacologico si è dimostrato capace di prolungare la sopravvivenza in pazienti con IPF. Durante gli ultimi 5 anni, la gestione del paziente con IPF si è basata principal-mente sulle raccomandazioni di società scientifiche come quelle rappresentate dalle più recenti linee guida ATS/ERS/ALAT/JRS del 2011 [19]. In questo documento sono state presentate raccomandazioni a favore o contro diversi trattamenti farmacologici o non farmacologici secondo il metodo GRADE (Grading of Recommendations, Asses-sment, Development and Evaluation), una metodologia di valutazione basata sull’evidenza che classifica la qualità dell’evidenza disponibile e la forza della raccomandazione a seguito di approfondite ricerche nella letteratura scien-tifica. Sulla base del sistema GRADE, le raccomandazioni in queste linee guida vengono classificate come “forti” o “deboli” sulla base della qualità dei dati e l’evidenza di effi-cacia del trattamento. Il pannello di esperti coinvolti non trovò, al tempo, evidenza sufficiente a raccomandare l’uso di alcun trattamento farmacologico per IPF sulla base dei

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118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina InternaVolume degli ATTI

risultati di studi in gran parte inconsistenti o negativi. Il tra-pianto di polmone fu l’unico intervento che ricevette una raccomandazione favorevole dato il vantaggio di sopravvi-venza dimostrato in alcuni studi.

Da allora tuttavia alcuni studi clinici chiave hanno ride-finito l’evidenza per quel che riguarda l’approccio tera-peutico in IPF. Innanzitutto, importanti lezioni sono state fornite dai risultati di alcuni recenti studi con risultati chia-ramente negativi. La cosiddetta “tripla terapia” (consistente nella combinazione di prednisone, aziatioprina e N-acetil-cisteina), un tempo universamente accettata [20] e che rice-vette una raccomandazione debole a sfavore nel documento del 2011, è stata associata con un incremento della mortalità rispetto a placebo nel recente studio a tre bracci PANTHER (Prednisone, Azathioprine, and N-acetylcysteine: A Study That Evaluates Response in IPF) [21]. Mentre il braccio con la triplice terapia è stato appunto discontinuato precoce-mente per ragioni di sicurezza, il braccio trattato con N-a-

cetilcisteina in monoterapia ha completato lo studio, ma in ultima analisi ha fallito nel dimostrare sostanziale efficacia [22]. L’anticoagulazione, che per anni fu considerata come potenziale terapia sulla base di un piccolo studio che aveva dimostrato un vantaggio di sopravvivenza in pazienti con IPF ospedalizzati e trattati con warfarin [23], è stata infine pure associata ad incrementata mortalità nel recente studio ACE-IPF (AntiCoagulant Effectiveness in Idiopathic Pul-monary Fibrosis), precocemente discontinuato [24]. Se gli antagonisti dei recettori dell’endotelina Bosentan and Macitentan hanno mostrato risultati negativi in tre studi di fase 2 [25-27], lo studio ARTEMIS (a Randomised, Place-bo-Controlled Study to Evaluate Safety and Effectiveness of Ambrisentan in IPF study) su Ambrisentan, un antagonista selettivo del recettore A dell’endotelina, è stato disconti-nuato precocemente per mancanza di efficacia e una mag-giore probabilità di eventi avversi nel gruppo trattato [28]. L’evidenza ancora più importante tuttavia ottenuta durante

9

Tabella 1.

Farmaco (acronimo dello

studio) Meccanismo d’azione

Linee guida 2011

Aggiornamento linee guida 2015

Nintedanib (INPULSIS)

Inibitore multiplo di tirosin-chinasi

Non valutato Raccomandazione

condizionale a favore dell’uso

Ambrisentan (ARTEMIS)

Antagonista recettore A endotelina

Non valutato Forte raccomandazione

contro l’uso

Imatinib Inibitore di tirosin-

chinasi Non valutato

Forte raccomandazione contro l’uso

Sildenafil (STEP)

Inibitore di fosfodiestrasi-5

Non valutato Raccomandazione

condizionale contro l’uso

Pirfenidone (ASCEND)

Multiplo (sconosciuto) Debole raccomandazione

contro l’uso

Raccomandazione condizionale a favore

dell’uso Macitentan e

Bosentan (BUILD-1 and -3)

Antagonisti duali dei recettori dell’endotelina

Forte raccomandazione contro l’uso

Raccomandazione condizionale contro

dell’uso Warfarin

(ACE) Anticoagulante

Debole raccomandazione contro l’uso

Forte raccomandazione contro l’uso

Prednisone, azathioprine, e N-

acetylcysteine (PANTHER)

Immunosopressivo, anti-infiammatorio e anti-

ossidante

Debole raccomandazione contro l’uso

Forte raccomandazione contro l’uso

Terapia anti-acido Vario Debole raccomandazione

a favore dell’uso

Raccomandazione condizionale a favore

dell’uso N-acetylcysteine

(PANTHER) Anti-ossidante

Debole raccomandazione contro l’uso

Raccomandazione condizionale contro l’uso

Interferone- -1 (INSPIRE)

Antifibrotico, antiproliferativo,

immunomodulatorio

Forte raccomandazione contro l’uso

Non valutato

Tabella 1

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Volume degli ATTI118° Congresso Nazionale - Società Italiana di Medicina Interna

gli ultimi anni è che due farmaci anti-fibrotici, pirfenidone e nintedanib, hanno dimostrato di rallentare il declino fun-zionale in IPF in diversi trials clinici di fase 3, i primi con risultati positivi [29, 30]. Tale evidenza ha portato all’appro-vazione di pirfenidone e nintedanib a livello globale.

Sulla base di questi ed altri risultati recenti, le linee guida del 2011 sul trattamento di IPF sono state recente-mente aggiornate [31]. Seguendo il modello del 2011, il sistema GRADE è stato nuovamente adottato per espri-mere raccomandazioni a favore o contro l’utilizzo di una serie di trattamenti presi in esame, con la sola sostituzione del termine “debole” con “condizionale”. Se nessun trat-tamento ha ancora ricevuto una forte raccomandazione a favore, ci sono stati alcuni cambiamenti sostanziali, dal momento che la terapia di combinazione con prednisone, azatioprina e N-acetilcisteina ha ricevuto una forte rac-comandazione a sfavore, e così è successo per altri agenti incluso warfarin. N-acetilcisteina in monoterapia è rimasta associata ad una raccomandazione condizionale a sfavore. Di maggiore importanza, alla luce dei recenti studi, è la rac-comandazione condizionale a favore per il pirfenidone, che al contrario nel 2011 aveva ricevuto una raccomandazione a sfavore. Una raccomandazione condizionale è stata data a favore dell’utilizzo di nintedanib, che non era stato neanche preso in considerazione nello statement del 2011. Nulla è cambiato, invece, per quel che riguarda la raccomanda-zione – rimasta come condizionale a favore - all’uso della terapia anti-reflusso o anti-acido in questi pazienti, per cui il livello di evidenza rimane limitato a dati retrospettivi che mostrano un beneficio funzionale o addirittura di sopravvi-venza in pazienti trattati con inibitori di pompa protonica o antagonisti dei recettori dell’istamina. Le raccomandazioni basate sull’evidenza attuali per il trattamento dei pazienti con IPF sono sintetizzate in Tabella 1.

Lo scenario degli studi clinici randomizzati di fase precoce e avanzata è comunque in continua evoluzione, e diverse nuove terapia oggi in corso di valutazione hanno meccanismi anti-fibrotici più precisi rispetto al passato. Ci sono ottime speranze che questi studi condurranno all’in-dividuazione di altre molecole sicure ed efficaci per il trat-tamento dell’IPF.

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