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1 FEMCA CISL MILANO METROPOLI II° CONGRESSO TERRITORIALE 21 – 22 FEBBRAIO 2017 CENTRO CONGRESSI NOVOTEL VIALE SUZZANI 13 MILANO Relazione del Segretario Generale Massimo Zuffi A nome della Segreteria

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FEMCA CISL MILANO METROPOLI

II° CONGRESSO TERRITORIALE

21 – 22 FEBBRAIO 2017

CENTRO CONGRESSI NOVOTEL

VIALE SUZZANI 13

MILANO

Relazione del Segretario Generale Massimo Zuffi

A nome della Segreteria

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Gentili ospiti,

care delegate, cari delegati,

benvenuti al II° Congresso FEMCA MILANO METROPOLI.

Il Congresso è un appuntamento importante per la vita democratica di un organizzazione, ideale prosecuzione della discussione iniziata con i nostri iscritti nelle assemblee svolte nei luoghi di lavoro e che troverà, con il contributo dei nostri ospiti, una prima sintesi nelle conclusioni di domani con il documento finale che riassumerà gli orientamenti definiti.

Il percorso Congressuale si svolge in un conteso di una conclamata crisi di sistema che non trova soluzione.

Sebbene più di qualcuno negli ultimi tempi professi un atteggiamento di ottimismo, in realtà i dati forniti dagli Istituti di ricerca non danno serenità e quindi questo Congresso si ripropone in maniera preoccupante, ai Congressi del 2013 e del 2009, quando la crisi era agli inizi e nessuno pensava che potesse durare così a lungo e gli effetti devastanti che avrebbe portato alla vita delle persone comuni.

Abbiamo trascorso anni, quasi un decennio ormai ad ascoltare analisi e previsioni di sedicenti esperti che ci hanno fornito la loro ricetta, sempre la solita, sempre uguale, per uscire da una crisi epocale, negando che fosse una crisi perdurante, generata da un modello di società basata esclusivamente su regole di carattere economico, sempre più avulse dai bisogni e dalle esigenze reali delle persone; tant’è che ad oggi non trova una via d’ uscita convincente e che ci ha reso consci che nulla sarà più come prima. A dieci anni dalla crisi, che ha portato il sistema finanziario mondiale sull’orlo del baratro, il dibattito sulle cause che lo hanno generato e sulle strategie per uscirne, è tutt’altro che esaurito. La verità incontestabile è data dalla sua strutturalità, rimossa dalla filosofia liberista dominante e dalle conseguenti politiche economiche dei governi; con un risultato paradossalmente e drammaticamente sorprendente, ovvero tentare di uscirne mantenendo inalterato il dispositivo strutturale che l’ha generata. Viene infatti negato che uno dei fattori principali della crisi finanziaria, è stata la conseguenza di trent'anni di sperequata distribuzione del reddito e di un aumento delle diseguaglianze a danno dei cittadini appartenenti alle classi sociali medie e basse. La caduta della domanda, con gli effetti negativi sulla crescita, è stata compensata non da una politica di redistribuzione a favore delle aree sociali deboli, attraverso aumenti salariali, riforme fiscali, rafforzamento del welfare, ma tramite la supplenza interessata della finanza. La elezione alla presidenza degli Stati Uniti d’America di Donald Trump, miliardario repubblicano, populista, fuori dagli schemi, dimostra che non basta avere una situazione economica in crescita se la percezione dei cittadini è di segno diverso.

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Negli Stati Uniti i democratici hanno affrontato le elezioni con una crescita del Pil tutt’altro che trascurabile e con un mercato del lavoro quasi alla piena occupazione. In Irlanda il governo in carica ha perso le elezioni pur presentandosi con un invidiabile tasso di crescita del Pil, superiore al 6%. Il Regno Unito è arrivato al referendum sulla Brexit con un risultato economico tra i migliori dei paesi dell’Unione Europea. Secondo le teorie liberiste che governano l’Europa ed il mondo occidentale, quando l’economia cresce tutto il resto funziona, in realtà constatiamo che l’economia non è tutto, quando il benessere economico viene misurato con gli indicatori sbagliati. E’ del tutto evidente che il benessere economico e sociale che conta, non è dato unicamente dal flusso di beni e servizi la cui produzione è contabilizzata in un determinato Paese, il benessere dei cittadini è piuttosto misurato attraverso i beni relazionali, economici e ambientali di cui una comunità può godere in un determinato territorio; in concreto, a nostro avviso, si dovrebbero guardare altri indicatori come ad esempio il reddito disponibile delle famiglie dopo aver pagato beni e servizi essenziali, la quantità di cittadini che hanno peggiorato o migliorato il loro accesso a sanità e istruzione, la qualità dell’ambiente in cui vivono, la sicurezza reale e quella percepita nelle loro città. Come le aziende misurano la soddisfazione dei clienti o dei dipendenti, anche la politica ed il Governo, devono imparare a leggere ed interpretare i dati sulla soddisfazione dei cittadini, la ricchezza distribuita, la qualità della vita in un rapporto tra realizzazioni e aspettative. È possibile infatti, che l’andamento dell’economia migliori e si assista tuttavia a una diminuzione della qualità della vita dei cittadini, perché viene meno l’equa redistribuzione della ricchezza prodotta; la qualità del lavoro e di conseguenza la soddisfazione cala, perché aumentano le aspettative e i bisogni. Senso di ingiustizia, risentimento, rabbia, protesta, la ricerca disperata del nuovo pur di cambiare qualcosa, finiscono per avere la meglio. Una delle chiavi del successo elettorale di Trump appare come una combinazione di questi elementi trascurati dagli analisti; la crescita del Pil, e la riduzione del tasso di disoccupazione, non hanno fugato la sensazione della contrazione dei livelli di benessere, prodotto da una miscela di declino economico, riduzione della qualità del lavoro disponibile, paura del diverso, impoverimento relazionale. In Italia e in Europa, dobbiamo imparare la lezione; costruire degli indicatori di misurazione del benessere equi e sostenibili non solo dal punto di vista finanziario degli Euro burocrati. Crediamo che il benessere di un popolo non si possa misurare in decimali di PIL; i fatti dimostrano che non è un indicatore sintetico sufficiente per definire il successo di una classe politica e lo stato di salute una nazione.

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Bisogna impostare leggi di stabilità che tengano conto non solo dei “decimali” ma anche e soprattutto dei bisogni sociali; l’austerità imposta dagli euro burocrati, si è rivelata la ricetta sbagliata per la risoluzione del problema; ha ulteriormente depresso i consumi, producendo un circolo vizioso che ha aggravato le condizioni del nostro Paese, già appesantito da forti ritardi strutturali, dall’aumento delle diseguaglianze sociali e dai divari territoriali, stretto tra assenza di crescita e alto debito pubblico. Per questo crediamo non si possa scindere il tema dello sviluppo e della crescita economica con quello della coesione del tessuto sociale e della capacità di inclusione. Abbandonare il regime dello Spread, abbandonare il dibattito sui "decimali" della crescita del Pil, il rimettere in discussione le disastrose ricette del Fondo Monetario Internazionale che hanno prodotto una concentrazione della ricchezza ed una diffusione della povertà, possono essere la chiave di volta per uscire da una crisi profonda ed apparentemente irreversibile. Lo Stato deve farsi promotore della ricerca, dell’innovazione e del progresso tecnico; non va dimenticata la lezione di Keynes sul ruolo che possono giocare gli investimenti pubblici non solo come moltiplicatore di domanda e, conseguentemente di occupazione, ma anche come diffusori di produttività privata attraverso utili infrastrutture e ricerca di base. In un contesto favorevole di bassi tassi di interesse, non dovrebbe essere difficile individuare settori nei quali gli investimenti pubblici possono generare un rendimento superiore ai costi per la finanza pubblica. I settori delle infrastrutture tecnologiche come la banda larga, delle infrastrutture fisiche e delle infrastrutture sociali, riconfigurando i sistemi del welfare in relazione alla trasformazione del tessuto sociale ed ai crescenti bisogni sociali, l’adeguamento del patrimonio edilizio con attenzione all'efficienza energetica e antisismica, sono alcuni dei campi d’azione che possono rimettere in moto settori chiave per lo sviluppo del paese ed per il benessere dei cittadini. Il dato sicuramente più vistoso e allarmante della crisi post shock finanziario globale è stato il crollo degli investimenti del 30% inferiori ai livelli del 2007, sulla quale l’economia italiana non registra ancora il punto di svolta, l’investimento pubblico in questo senso, può costituire una leva importante per gli investimenti privati. Affermare il primato strategico degli investimenti e la necessità di riqualificare la spesa pubblica e la sua funzione di traino degli investimenti privati, è la tesi che la Cisl ha sostenuto nel corso della crisi, come criterio di valutazione dell’efficacia delle politiche economiche dei Governi e di economie sociali ed ambientali sostenibili che deve guidare all’ uscita dai meccanismi generativi della crisi. Con più di un milione di preferenze ed una partecipazione al voto di circa il 72% della popolazione interessata, il Regno Unito ha scelto a maggioranza l’uscita dall’ Unione Europea.

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L’ idea Britannica è di lasciare l’Unione Europea ma salvaguardare le relazioni con l’Europa rimodellando e allargando ulteriormente il profilo della Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea ovvero non essere più tenuta a rispettarne le norme in materia di libera circolazione, le normative sui diritti, il rispetto delle competenze esclusive dell’Unione Europea e del coordinamento delle politiche;ma con un piede dentro saldo e stabile in quel mercato unico a cui il Governo di Londra vuole continuare ad avere accesso e da cui non vogliono escluderla tutti quei Paesi che hanno nella City inglese e nei mercati finanziari interessi importanti. Il Primo Ministro May,non ha mai fatto mistero di voler fare del suo Paese un leader mondiale del libero scambio e in questa direzione si era già mossa sia nella formazione del suo governo,istituendo il ministero del Trade in una fase di stallo dei negoziati sul TTIP, il Transatlantic Trade and Investment Partnership, (il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) oggi rimessi in discussione dall’amministrazione Trump, sia al G-20, proponendo accordi bilaterali ad Australia, India e Corea del Sud, che hanno irritato non poco l’Unione Europea e la Germania, rispetto all’avvio della procedura di divorzio. Come sindacato ci chiediamo quali saranno le conseguenze per il resto dei cittadini europei e siamo preoccupati per la sorte dei lavoratori Britannici e di tutti quegli stranieri che lavorano e vivono lì e ci chiediamo: “che ne sarà del rispetto delle normative comunitarie in materia di diritto del lavoro e protezione sociale?”; delle leggi in materia di libera circolazione delle persone nella zona euro ed il diritto di lavorare in un paese comunitario senza essere considerati stranieri.

L’uscita della Gran Bretagna passerà attraverso un negoziato lungo e difficile, se l’Europa non mostrerà fermezza, quella fermezza e quel rigore che ha dismostrato nei confronti di Italia, Spagna e Grecia ad esempio, il rischio è che si inneschi l’inizio della definitiva disgregazione dell’unità Europea. Le politiche di austerità hanno fatto sì che una buona parte dei cittadini europei identifichi il processo di unificazione europea con un aumento delle ingiustizie e dei sacrifici e quindi un processo non positivo; è del tutto evidente che la disaffezione dei cittadini europei nei confronti delle burocrazie che la governano, è stata accentuata dalle scellerate politiche neoliberiste che hanno prodotto disoccupazione, povertà ed un incremento delle disuguaglianze sociali. Il risultato Britannico, è la constatazione della scarsa attrattività del modello europeo che si è sviluppato nell’ultimo decennio nei cittadini dell’Unione europea. L'Europa ed i Governi nazionali, hanno il dovere di rispondere alla scelta della Gran Bretagna accelerando la costruzione dell'Unione politica europea, attraverso una svolta nella gestione comune del debito, con un fisco omogeneo, un welfare nuovo ed inclusivo, politiche per la crescita e per gli investimenti pubblici e privati, rimettendo al centro la dignità del lavoro, la solidarietà e la partecipazione dei cittadini. Giustizia, democrazia e solidarietà devono essere le parole chiave della nostra azione nei confronti dell’austerity e delle politiche neoliberiste che da un ventennio con risultati tragici, animano l’azione di governo europeo.

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Abbiamo bisogno di un Europa diversa; di ripartire dal sogno dei padri costituenti e di tanti statisti europei come Adenauer, Bech, De Gasperi, Monnet, Schuman, Spaak, Spinelli.

Più Europa dei popoli e meno Europa dei banchieri e degli speculatori.

Il Manifesto di Ventotene (agosto 1941), indicava una direzione di marcia verso gli Stati Uniti d’Europa che la Cisl, unica Organizzazione sociale europeista dalla nascita, presidia come orizzonte strategico e barriera vitale contro le regressioni sociali dei nazional populisti. La Cisl deve lavorare con energica determinazione, da questo lato della storia.

La Cisl, nata in una fase storica di profonde diseguaglianze, dove gli interlocutori istituzionali erano solidamente definiti e gli attori politici legittimati, ha costruito un sindacato che non si perdeva nelle ideologie, ma si impegnava a elaborare soluzioni innovative, in grado di fare da traino per tutti gli altri interlocutori e, attraverso la formazione dei suoi militanti, a svilupparne le doti e le potenzialità.

Il nostro punto di riferimento era ed è ben definito nella centralità della persona; non come evocazione astratta e meramente valoriale, ma riferimento di analisi e di strategia per leggere la società per quel rappresenta, non per grandi aggregati, ma per situazioni reali, laddove l’ingiustizia distributiva colpisce i lavoratori come produttori di valore, come consumatori e come risparmiatori.

La Cisl non si deve rassegnare e non si rassegna e tal fine ha espresso, nel suo dibattito interno, nella CES e nelle sedi istituzionali, la necessità di prendere atto, a maggior ragione dopo la Brexit, dell’impossibilità di accelerare l’Unione economica e politica dell’ Europa a 27, anche in conseguenza delle esplicite teorizzazioni dello Stato etnico da parte di numerosi Paesi dell’Est Europa, incompatibili con i Trattati, alle quali hanno fatto seguito la costruzione di muri e l'innalzamento di fili spinati alle frontiere.

Crediamo che la costituzione degli Stati Uniti d'Europa oggi più che mai, sia la risposta migliore al riaffermarsi di pericolosi nazionalismi, alla xenofobia, ai tentativi di riportare indietro l'orologio della storia, facendo scelte chiare ed inequivocabili anche con quelle finte democrazie che i nuovi governi dell’Est Europa stanno proponendo.

L’Europa, gli Stati Uniti d’Europa, dovrebbero esprimere la capacità di governare le grandi emergenze del nostro tempo: crisi, terrorismo, migrazioni e di contribuire a garantire la pace.

Per salvare il Progetto europeo, crediamo si debba procedere a due velocità con un nucleo di Paesi dell’Eurozona decisi ad accelerare, nelle forme e nei tempi opportuni, verso gli Stati Uniti d’Europa ed un gruppo di Paesi che restano soltanto nel Mercato unico.

Il segno della svolta dovrebbe essere dato, con tempestività, in vista delle elezioni politiche del 2017 che si terranno in Francia, Germania e Olanda e delle elezioni europee del 2018 attraverso decisioni politiche in grado di contrastare l’ascesa dei nazionalismi ed il rischio frammentazione.

Il sindacato europeo, la Confederazione Europea dei Sindacati (CES), deve impegnarsi per un cambio radicale della propria azione politica, recuperando il progetto originale di costruzione

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europea, basato su un modello sociale democratico, di giustizia e di solidarietà, per tutti i cittadini dell’Unione.

E’ una battaglia culturale, che deve aprire una nuova fase nella vita economica e sociale del nostro continente, ponendo fine alle politiche recessive del rigore economico monetarista, adottando un percorso chiaro e definito di sviluppo e di crescita capace di ridare slancio e vigore al sogno di una “casa comune europea" dove tutti i cittadini possano riconoscersi.

Prima i diritti umani, l’Europa di popoli liberi e poi l’Europa degli affari economici.

Oggi le priorità e i valori si sono capovolti, bisogna voltare pagina, con decisione e coraggio.

Nel rapporto della Commissione Europea, si legge che il Prodotto interno lordo è attualmente più elevato rispetto al periodo pre-crisi, la disoccupazione è in calo e gli investimenti hanno iniziato a crescere. Tuttavia, alcuni dei fattori che hanno sostenuto la timida ripresa stanno venendo meno; l’incidenza delle ricadute sociali della crisi, gli elevati livelli di debito pubblico e privato, la percentuale dei prestiti in sofferenza sono ancora considerevoli. Gli Stati membri sono stati invitati ad intensificare gli sforzi, rilanciare gli investimenti, proseguire con le riforme strutturali e garantire politiche di bilancio responsabili, mettendo l’accento sull’equità sociale e l’obiettivo di una crescita più inclusiva». Secondo la Commissione a livello europeo, il Mercato del lavoro pare in miglioramento, si è rafforzato nel corso del 2015 e del 2016, con un miglioramento nella maggior parte degli indicatori. Il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni è aumentato di 0,9 punti percentuali nel 2015, fino a raggiungere il 71,1% degli occupati nel secondo trimestre del 2016, superando il livello pre-crisi che nel 2008 era del 70,3%. Tra i due sessi la crescita dell’occupazione è stata simile, con un lieve aumento nel 2015: il divario tra i tassi di occupazione femminile (64,3%) e maschile (75,9%), diminuito tra il 2008 e il 2013, è rimasto quasi inalterato. Mentre in Italia i dati ISTAT ci dicono che nell’ultimo quadriennio la disoccupazione è scesa di un punto circa attestandosi attorno all’ 11%; troppo poco per essere ottimisti. La Relazione osserva poi, che anche i salari nominali sono aumentati pur in un contesto di bassa inflazione, mentre vari Stati membri hanno riformato i loro sistemi salariali spesso in collaborazione con le parti sociali. Le dinamiche salariali nella maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, «sono in linea con la

produttività del lavoro e gli aumenti salariali avvengono dove il contesto economico lo permette»

sostiene la Commissione, secondo cui è comunque necessario un allineamento nel medio periodo per stimolare la domanda aggregata e la crescita. «I sistemi salariali dovrebbero perseguire

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ulteriormente il coordinamento tra i diversi livelli della contrattazione collettiva, pur consentendo un

certo grado di flessibilità a livello geografico e all�interno dei settori» si legge nella Relazione. La Commissione nota poi un diseguale coinvolgimento delle parti sociali nelle azioni di riforma: «Anche se tutti gli Stati membri hanno corpi bipartiti o tripartiti per permettere l’interazione tra le parti sociali e la loro consultazione nella progettazione e realizzazione di politiche, il loro coinvolgimento effettivo varia in modo significativo. Eppure, il dialogo sociale è di fondamentale importanza per assicurare riforme eque ed efficaci e valutare il loro impatto sui diversi gruppi di popolazione». La Confederazione europea dei sindacati (Ces) ha accolto favorevolmente il riferimento della Commissione agli aumenti salariali per generare aumenti di reddito reale, “gli aumenti salariali sono

cruciali per aumentare la domanda interna. Senza più soldi nelle tasche dei lavoratori, l�Europa non sarà

in grado di raggiungere una ripresa sostenibile” ha dichiarato Veronica Nilsson, vicesegretaria

generale.

Salari più elevati devono però essere «accoppiati con lavori di qualità e sicurezza dei lavoratori nella

transizione verso un�economia verde e digitale, oltre a investimenti per abbattere i livelli inaccettabili di

disuguaglianza sociale» ha osservato la CES, notando nell’impostazione generale del Pacchetto poco

chiara la posizione sulla fine del regime di austerità, che «non finirà fino a quando non sarà riformato il Patto di stabilità e crescita» al fine di incoraggiare gli investimenti. «Ci aspettiamo – ha

concluso la Nilsson, che la Commissione mantenga il suo impegno a rafforzare il dialogo sociale e a

coinvolgere le parti sociali in tutte le proposte sulle riforme del mercato del lavoro.

Noi, siamo pienamente d’accordo e crediamo ne debbano tenere in debito conto tutte le Organizzazioni Sindacali del nostro Paese, e lanciare un monito alle nostre controparti che non hanno ancora deciso di riconoscere un Contratto Nazionale dignitoso a migliaia di lavoratori, nella convinzione, totalmente errata, che “rubacchiare qualche euro” dalle tasche dei lavoratori, possa garantire loro la competitività sui mercati internazionali.

La sfida “Industria 4.0” non è solamente tecnologica ma soprattutto culturale.

Una sfida che potrà essere vinta solo se la tecnologia non sarà chiamata a rimpiazzare l’uomo ma ad abilitarne competenze, l’autonomia e la creatività nei luoghi di lavoro.

Il calo costante e la stagnazione hanno origini che risiedono nella mancata quantità e qualità di investimenti in tecnologia ma, ancora di più, dalla mancanza di una organizzazione del lavoro che preveda lo sviluppo delle competenze professionali attraverso veri programmi di formazione continua e una piena e diffusa partecipazione dei lavoratori.

La sfida a nostro avviso, si gioca sulla combinazione di investimenti in tecnologia ed investimenti in competenze, con una nuova centralità della persona nei processi produttivi.

Crediamo che se “Industria 4.0” si focalizzerà unicamente sulla tecnologia, senza considerare il fattore umano ed il lavoro, la sfida all’innovazione, sarà una sfida perdente.

Esistono già oggi, macchine in grado di eseguire attività complicate e faticose per l’uomo, macchine che senza una gestione intelligente rischiano di avere poche possibilità di applicazione concreta;

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macchine che richiedono lavoratori con professionalità adeguate, senza queste, paradossalmente rischiamo di avere una tecnologia altamente avanzata ma non utilizzabile appieno.

Noi crediamo che non possa esistere lavoro produttivo e competitivo senza tecnologia ma ciò non significa che possa esistere tecnologia, anche la più avanzata, senza il lavoro e la qualità di chi lo genera.

Il rischio di illudersi che investire in formazione e in capitale umano non porti gli stessi effetti e gli stessi benefici che acquistare nuovi macchinari esiste, ma è una pericolosa illusione.

Solo il fattore umano, professionisti debitamente formati che interagiscono in una fabbrica intelligente, possono portare valore aggiunto in termini di innovazione e miglioramento dei processi, dei prodotti e della sostenibilità, può far crescere produttività e ricchezza; senza di essi, solo macchine fantastiche da esposizione ma di nessuna utilità concreta per la crescita.

Non esiste, a nostro avviso, una vera rivoluzione industriale senza un suo rinnovato umanesimo.

Un umanesimo che oggi ha bisogno di concretezza, attraverso investimenti sul sistema scolastico e sulla formazione dei lavoratori, in cui l’alternanza scuola lavoro e l’apprendistato devono essere considerati strumenti strategici di investimento e non forme di lavoro del passato o unicamente veicoli per risparmiare qualche euro sul costo del lavoro.

In questo contesto il sistema di nuovi incentivi previsti dal Governo, contenuti nel “piano Industria 4.0” ci pare muoversi nella direzione corretta, un primo accenno di una nuova politica industriale, una politica che deve prestare attenzione alle imprese ed alle persone, secondo logiche di sussidiarietà e responsabilità che non comprimono, ma che al contrario, valorizzino la libertà e il concreto apporto che ogni individuo può dare.

Ci vogliono coraggio ed idee chiare; la contrattazione aziendale ed i Contratti Nazionali, possono e devono dare il loro contributo per agevolare questo salto nel futuro.

La commissione Giugni del 1997, istituita dal governo Prodi al fine di verificare il funzionamento del protocollo del 1993 che mise fine alla scala mobile, concluse che:

- “La struttura industriale italiana necessita di maggiore adattabilità ai processi di globalizzazione, flessibilità che può essere garantita solo da una maggiore variabilità di una quota del salario”. Il mezzo più efficace per raggiungere questo obiettivo è quello di eliminare il peso della contrattazione collettiva nazionale nella determinazione del salario, così come vuole l’Europa.

Nella famosa lettera a firma congiunta Trichet - Draghi dell’agosto 2011 inviata al governo italiano, con la quale di fatto destituirono il governo Berlusconi a favore del governo tecnico guidato da Mario Monti, si leggeva: “

- “C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”.

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Si afferma l’idea che il peso dell’adattamento e dei sacrifici, deve ricadere unicamente sui lavoratori.

Il primo passo che ha sancito la subordinazione del contratto collettivo nazionale rispetto a quello aziendale o territoriale avviene poche settimane dopo quella lettera.

L’articolo 8 del decreto Sacconi del settembre 2011 prevede che quanto disposto dai contratti aziendali relativamente a salario, orario di lavoro, tipologie contrattuali e mansioni, può operare “anche in deroga alle disposizioni di legge che li disciplinano ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”.

Dal lato della contrattazione e delle relazioni industriali, la posta in gioco è in definitiva la derogabilità dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro per adattare, peggiorando se necessario, le condizioni di lavoro alle esigenze delle imprese.

Crediamo che la risposta migliore alla deriva democratica ipotizzata da questi signori, stia nella valorizzazione dell'autonomia contrattuale delle categorie, valore nella quale tutti ci riconosciamo e che deve aiutarci a fare un passo in avanti nella modernizzazione delle relazioni industriali. Noi crediamo che i processi relazionali tra lavoratori e parti datoriali debbano trovare una loro evoluzione attraverso la contrattazione tra le parti, attraverso la mediazione dei corpi intermedi di rappresentanza delle parti sociali ed in quell’ambito gestire eventuali deroghe finalizzate al bene comune. E’ solo attraverso la contrattazione ed i processi che la compongono che possiamo confrontarci con le idee, le convinzioni, le proposte e le necessità di tutti i soggetti direttamente interessati. Il nostro modello, inclusivo e partecipativo, offre l'esperienza di migliaia di delegati impegnati nelle RSU e di iscritti alla Organizzazione che ogni giorno, insieme a noi, si impegnano per se, per le proprie famiglie e per la società intera. Vi è un contenuto di vissuto e di partecipato nella contrattazione e più in generale nell’azione sindacale, che si esprime quotidianamente in migliaia di aziende e sul territorio, lavoratrici e lavoratori chiamati a dibattere, ad esprimersi in merito a un accordo sindacale o a scegliere i propri rappresentanti in azienda. In un Paese dove cresce drammaticamente l’astensionismo elettorale ai rinnovi delle Rsu partecipa la maggioranza dei lavoratori, segno che il sindacato, nonostante tutto, è vivo ed è ancora un punto di riferimento. Siamo di fronte ad un esercizio diffuso di democrazia partecipata e consapevole, un esercizio forte di democrazia come oggi non è dato vedere all'interno dei partiti, spesso caratterizzati da forti leadership personali, da un dibattito approssimativo che viaggia sulla rete a colpi di slogan, dalle semplificazioni sconcertanti.

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La lavoratrice, il lavoratore, i nostri delegati che si esprimono su un accordo, che portano il loro contributo di conoscenza e di esperienza all'organizzazione del lavoro dell'azienda in cui operano, sanno benissimo quello che fanno, conoscono le questioni nel merito e sono in grado di esprimersi in assoluta consapevolezza, con competenza portando il proprio contributo propositivo. Quando in azienda si sceglie un rappresentante nelle RSU o nelle Rappresentanze dei Fondi di Categoria, non si vota sulla base delle emozioni suscitate dalle apparizioni televisive, ma in base ad elementi oggettivi di conoscenza diretta delle persone; competenza e preparazione devono fare la differenza; i nostri delegati nelle aziende e sul territorio sono la vera risorsa strategica della nostra Organizzazione. Dobbiamo investire sulla nostra gente, e per fare ciò è necessario che le risorse a disposizione dell’Organizzazione, vengano trasferite sempre di più dal centro alla periferia, al territorio, non a pioggia o peggio ancora a “fondo perduto”, ma prestando particolare attenzione ai territori che hanno maggiori potenzialità e danno concretamente i risultati migliori. E’ per questa ragione che Femca Milano Metropoli, da anni sta investendo e continuerà ad investire, risorse importanti per la formazione dei propri operatori e dei propri delegati; e ci piacerebbe che gli altri livelli dell’Organizzazione ne tenessero conto; cosa che oggi purtroppo non accade. E’ per questa ragione crediamo che la Cisl debba pensare a nuove forme di agibilità per i delegati che svolgono attività non solo in azienda nelle RSU; non possiamo sostenere questo rilevante investimento su centinaia di nostri delegati solo con strumenti che fanno parte della storica agibilità, quali le ore di permesso sindacale distribuite in maniera indistinta. Crediamo altresì che sia necessario riflettere sui costi economici sostenuti delle Organizzazioni Confederali che stipulano i Contratti; superando l’attuale situazione che vede gli iscritti alle OOSS sostenere il peso economico ed organizzativo per ottenere benefici che vengono poi distribuiti a tutti in maniera indifferenziata tra iscritti e non iscritti. Se la partecipazione organizzativa resta lo strumento con cui poter incidere sulla produttività e mediante il quale è possibile misurare concretamente l’apporto di ciascun fattore produttivo, la partecipazione alla “Governance” d’impresa, privilegiando la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di Sorveglianza, diviene il mezzo attraverso il quale si può incidere sulle scelte strategiche; esercitare il controllo sugli investimenti produttivi, sull’innovazione tecnologica e sulle variabili che determinano la produttività e la buona occupazione. La democrazia sindacale non è complementare a quella politica, rappresenta un proprio originale spazio di consolidamento e ampliamento del tessuto democratico del nostro Paese; il patrimonio di esperienze e di valori che noi vogliamo affermare come contributo originale del sindacato alla vita del Paese; e quanto più saremo in grado di farlo unitariamente, tanto più questo contributo sarà importante e avrà un maggior peso.

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CGIL, CISL e UIL hanno identità proprie, una storia e patrimoni culturali importanti di cui sono orgogliose, ma in un periodo dove principi e valori vengono accantonati in nome del profitto, l’essere capaci di non rinchiudersi dietro il proprio orgoglio di organizzazione e privilegiare, nell’ interesse dei lavoratori, delle Imprese e del Paese, la ricerca della sintesi e di una proposta unitaria, diventa quanto mai indispensabile. Il rinnovo dei Contratti Nazionali di Lavoro, la definizione di un moderno sistema di relazioni industriali, la messa a punto delle regole della rappresentanza, sono le sfide immediate su cui consolidare l'iniziativa di CGIL, CISL e UIL per fare del lavoro l'elemento centrale della ripresa economica e sociale del nostro Paese. E’ nostra convinzione che solo rinnovi agili, con un significativo spazio alla contrattazione decentrata, possano mantenere moderno e insostituibile il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Nella nostra Categoria abbiamo ancora in fase di discussione numerosi rinnovi contrattuali in particolare nel comparto tessile e nel settore del gas e acqua; dobbiamo puntare in maniera decisa a chiudere tutte le vertenze aperte, in tempi brevi, i lavoratori non possono aspettare più di quanto già hanno atteso.

Dobbiamo fare questo percorso tutti insieme, ritrovando il nostro rapporto unitario, a partire dal rinnovo dei contratti aperti e dall'avvio di una nuova stagione di contrattazione basata sulla partecipazione, sul riconoscimento e la valorizzazione delle competenze delle lavoratrici e dei lavoratori, per dare alle nostre imprese maggiore competitività, ma anche più vivibilità, mettendo al centro le persone.

La produttività di un sistema dipende solo in parte dal costo del lavoro, pesano il livello di innovazione dei processi di produzione e dei prodotti, la preparazione professionale dei lavoratori, i vincoli dettati dalla burocrazia.

Allo stesso tempo, almeno nel breve, la crescita della produzione, spinta dalla domanda, favorisce la crescita della produttività.

Quando i redditi da lavoro aumentano c’è un effetto positivo per i consumi, da un lato aumenta il fatturato per le imprese e dall’altro si comincia a creare nuova occupazione, influenzando positivamente la produttività; ma questo deve avvenire anche investendo su istruzione, innovazione, ricerca, formazione.

La produttività dipende anche dagli investimenti, a maggior ragione in un paese come l’Italia che sconta un ritardo abissale rispetto alle economie più avanzate.

Troppo semplice e superficiale, a nostro avviso, la ricetta del legislatore che si è limitato ad enunciarla sommariamente quando ha definito i parametri oggettivi da tenere in considerazione per la definizione del salario variabile, e della retribuzione legata alla produttività aziendale.

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Tuttavia, la possibilità che le misure di produttività riguardino un risparmio sul costo del lavoro appare la più facile, quella più ovvia, nei fatti, quella più praticata, considerando lo scarso interesse delle imprese italiane per gli investimenti, soprattutto in innovazione ricerca e sviluppo.

L’idea di incentivare la produttività e quindi la crescita con la detassazione dei premi di produttività è positiva nella misura in cui questa non vada nella direzione di una instabilità del salario contrattuale a favore esclusivo dei profitti aziendali.

Profitti realizzati non attraverso gli investimenti e l’innovazione, ma a discapito dei lavoratori e dei cittadini che vedono diminuire i loro livelli retributivi, i loro diritti dentro e fuori il mercato del lavoro e nella società.

Se dal punto di vista negoziale, come Femca, con i nostri rinnovi abbiamo valorizzato i contenuti di welfare aziendale, e ne possiamo essere orgogliosi, non dobbiamo però perdere di vista i pericoli che sul lungo periodo questo può comportare.

L’ Agire, sulla defiscalizzazione e sul welfare aziendale, per incentivare questi accordi, è la grande opportunità che abbiamo colto, ma tuttavia non dobbiamo dimenticare che questo ha a che fare con l’intera società ed il ruolo dello Stato e della sua funzione nel definire quei diritti di cittadinanza che prescindono dallo status di lavoratore.

Ciò detto, accogliamo con favore l’accordo siglato nel 2016 da Cgil, Cisl e Uil con Confindustria, che permette di estendere i premi di risultato anche nelle realtà di piccole e medie imprese, non coperte da una rappresentanza sindacale, anche se intravvediamo il rischio che queste realtà sfuggano al controllo della corretta applicazione della Legge e conseguente abuso dei benefici.

Avremmo preferito che il dispositivo si concludesse con il riconoscimento della partecipazione attiva delle Federazioni di categoria, il rischio che corriamo è che le imprese non debbano più contrattare in azienda con le Organizzazioni Sindacali le quote di salario variabile, né i risultati da raggiungere per corrisponderli.

La legge di stabilità 2016, prevedeva che i premi di produttività e il welfare aziendale si applicassero ai lavoratori dipendenti e non anche ai percettori di redditi assimilati al lavoro dipendente come i lavoratori atipici, con una tassazione ridotta al 10 per cento uguale per tutti.

Apparentemente positiva, in realtà provocava un effetto regressivo, iniquo ed in contrasto con l’articolo 53 della Costituzione, secondo cui “il sistema tributario è impostato su criteri di progressività”; la tassazione unica, appiattisce e penalizza le professionalità più alte.

Se la nostra ambizione è rappresentare tutto il mondo del lavoro, riconoscere merito e professionalità, questa norma doveva essere rivista estendendo la platea dei beneficiari.

La legge di bilancio del 2017 interviene per sostenere ulteriormente i premi di risultato, innalzando della quota detassabile da 2.000 a 3.000 euro; fino a 4.000 euro per i dipendenti delle imprese che definiscono modalità di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro e l’ampliamento

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della platea dei lavoratori coinvolti con l’elevazione da 50.000 a 80.000 euro del livello di reddito per poter ottenere la defiscalizzazione. Inoltre, la legge 2017 incentiva ulteriormente il welfare contrattuale prevedendo, oltre la defiscalizzazione totale delle cifre dei premi trasformate in welfare, che non concorrono a formare il reddito da lavoro. Dobbiamo ammettere che il provvedimento va nella direzione da noi indicata e di questo risultato possiamo riconoscerci qualche merito. Se come categoria attraverso questi provvedimenti possiamo ricavarci grosse opportunità negoziali, a livello Confederale dobbiamo fare una riflessione più ampia nel trovare i giusti equilibri.

La spinta verso il welfare aziendale stimolata attraverso la detassazione, rischia di ledere uno dei princìpi costituzionali, la soddisfazione del bisogno di istruzione, casa, sanità, assistenza, viene trasferita dallo Stato alle Aziende.

Crediamo che su questo tema, si debbano focalizzare le nostre attenzioni ed evitare che, colti dall’ entusiasmo delle nuove opportunità di contrattazione, si abbassi il livello di guardia sullo “stato sociale universale” che lo Stato deve garantire ad ogni cittadino.

Non dobbiamo infatti dimenticare che il Welfare Aziendale, c’è ed esplicita tutti i suoi benefici fin quando il lavoratore è alle dipendenze dell’azienda; perso il lavoro, il welfare aziendale si perde; il problema è che il lavoratore, perso il lavoro, non cessa di esistere e con lui i suoi bisogni.

In un sistema basato sulla fiscalità generale, alimentato dalle tasse versate dai cittadini, prevalentemente lavoratori dipendenti, il rischio che una riduzione del gettito fornisca un alibi ai tagli di bilancio per sanità, istruzione, trasporti pubblici, assistenza, è reale.

Delegando la definizione del welfare ad imprese private, si rischia una vera e propria privatizzazione dello stato sociale, lasciando il diritto di cittadinanza all’arbitrarietà delle disponibilità e degli obiettivi delle imprese che vendono “pacchetti welfare”.

Se il rischio di un welfare, sempre più ristretto e insufficiente, ricade sull’intera collettività, saranno sempre più esclusi dalla protezione sociale coloro che dovrebbero maggiormente beneficiarne, i soggetti più vulnerabili: i precari, i disoccupati, i giovani in età scolare, gli anziani.

Venendo meno l’universalità del welfare si mina il fondamento del diritto alla protezione sociale, che scaturisce dai bisogni di singoli e gruppi sociali, si rischia di favorire la crescita di povertà e le disuguaglianze e di mettere a rischio la stabilità e gli equilibri economici dei Fondi Integrativi Contrattuali che non possono e non devono diventare sostitutivi del Servizio Sanitario Nazionale.

Con l’'intesa tra il Governo e le Organizzazioni sindacali sulla Previdenza nel 2016 si è aperta una nuova fase nel rapporto tra la politica e Parti sociali dopo anni di pervicace ostracismo su ogni tipo di confronto.

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E’ caduto un muro, e questo è stato l’aspetto politicamente più rilevante; non ci facciamo particolari illusioni, è del tutto evidente che, in quel frangente temporale, la necessità del Governo Renzi, di farsi degli amici anche al di fuori dell’alveo imprenditoriale o quanto meno di non aumentare il numero dei nemici in vista del referendum del 4 dicembre 2016 ha giocato un ruolo importante. Le difficoltà politiche di Renzi, evidenziatesi poi in maniera inequivocabile con il risultato nel referendum sulla riforma Costituzionale, ne hanno minato le certezze e l’arroganza e questo ha indubbiamente influito sulla necessità, da parte del Governo, di ricercare un’intesa con le Parti Sociali. Ciò premesso, abbiamo salutato favorevolmente l’Accordo di revisione sulle pensioni. Siamo convinti che se la Cisl non avesse ribadito la propria determinata fermezza nel voler perseguire un tavolo di confronto e avesse tenuto, nei confronti del Governo Renzi un atteggiamento ostile e pregiudiziale, questo risultato non ci sarebbe stato. Finalmente si è tornati ad utilizzare un metodo di confronto ed un linguaggio che favorisce la coesione sociale e la partecipazione, un vero peccato che ciò sia stato compreso troppo tardi; confidiamo che l’attuale Governo faccia tesoro delle esperienze passate e agisca di conseguenza. Alla luce di quanto è accaduto successivamente, coltiviamo la speranza che il risultato referendario abbia insegnato a tutta la classe politica che qualsiasi riforma, di qualsiasi natura, anche se giusta, se non è condivisa, se non tiene conto delle istanze dei corpi intermedi, se viene imposta dall’alto, rischia di naufragare miseramente. E’ tempo di aprire una nuova stagione di Concertazione. E’ innegabile che il risultato referendario ha avuto un perdente certo in Matteo Renzi con la sua presunzione; e dei vincitori, non i partiti di opposizione ma i cittadini, dimostrando che quando la posta in gioco è alta, la voglia di partecipare, di dire la propria indipendentemente dall’ appartenenza politica e di ceto sociale, il popolo c’è ed è capace di farsi sentire. E’ una lezione di cui dobbiamo fare tesoro anche noi; mantenendo vivi e vitali i nostri momenti di confronto con la base, ascoltando le loro istanze, condividendo le scelte. Un sindacato verticistico lontano dalla base, rischia di perdere la propria identità, di fare la fine dei partiti e di una parte delle istituzioni. Nell’ ultimo mese la CISL è tornata a far parlare di sé sui giornali e purtroppo, non per la sua capacità innovativa riformista e nemmeno per la stipula di accordi che contribuiscano alla crescita del paese, ma più mestamente per le code di una brutta pagina della nostra storia che evidentemente non è ancora conclusa. Già all’ Assemblea Organizzativa e in momenti successivi, all’interno degli organismi alla quale partecipiamo, la Femca Milano Metropoli in ogni sede, ha chiesto con fermezza di agire con

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coraggio ed intervenire in profondità, affinché le distorsioni emerse all’interno dell’organizzazione venissero rimosse e con loro i responsabili di tali atti. Purtroppo anziché solidarietà e condivisione, in molti casi abbiamo sentito freddezza e distacco attorno a noi, battute poco lusinghiere, qualche volta emarginazione; in alcuni ambiti abbiamo percepito il disagio perla nostra fastidiosa presenza; ma non ci siamo arresi. I fatti di questi giorni ci stanno dando ragione; ne prendiamo atto; chiediamo a tutti di prenderne atto. Anna Maria Furlan sembra decisa ad andare fino in fondo e rimuovere tutte le distorsioni createsi in anni di evidente mancato controllo o di controlli compiacenti. Noi saremo al suo fianco in questa battaglia, la più delicata per la storia della CISL; bisogna fare pulizia senza riguardi né sconti per nessuno; chi ha sbagliato deve assumersi le proprie responsabilità ed essere conseguente. Forza e coraggio Anna Maria, lo dobbiamo ai tanti nostri iscritti che con il loro sacrificio ci permettono di esistere, ai nostri delegati, che quotidianamente “ci mettono la faccia” con dedizione e passione; ai nostri operatori, che non si risparmiano mai, sacrificando anche la famiglia per il bene della CISL; ed anche ai tanti Segretari, persone per bene che non meritano di essere accumunati a certi personaggi. Lo dobbiamo, se me lo permettete, ai nostri figli, che non devono vergognarsi di dire dove lavorano i loro genitori. Bisogna agire con decisione e rigore; la CISL non è quella che viene rappresentata oggi dai giornali. In Femca abbiamo avuto il cambio al vertice con la elezione del nuovo Segretario Generale Angelo Colombini che ha sostituito Sergio Gigli.

La linea politica tracciata da Angelo, è di una Federazione orientata al sistema partecipativo, focalizzata sulla contrattazione con quel pragmatismo negoziale che ci ha sempre contraddistinto.

Linea che la Femca MM condivide nel suo percorso politico, così come abbiamo apprezzato l’avvio del processo di un rinnovamento della struttura nazionale con l’inserimento di giovani che potranno garantire un futuro nella continuità.

La Femca Milano Metropoli ha giudicato positivamente ed ha sostenuto con convinzione il progetto di rinnovamento operato da Angelo Colombini ma crediamo che il processo, iniziato con decisione prevalentemente nel Comparto Tessile, debba proseguire, in tempi brevi anche negli altri comparti.

Abbiamo apprezzato il cambiamento importante della Linea della Federazione su temi a noi cari come il rilancio del Coordinamento dei Quadri e Alte professionalità, ed il riposizionamento politico sull’attività Internazionale, temi particolarmente sensibili per la Femca MM che la precedente Segreteria aveva erroneamente abbandonato.

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All’amico Angelo diciamo che su questi progetti può contare su di noi, non solo in termini di sostegno ideale e politico ma anche e soprattutto, crediamo di poter offrire persone preparate e che stiamo, allo scopo, ulteriormente formando.

Confidiamo che si tenga in debito conto delle esperienze maturate in questo territorio, convinti che possano essere utili alla Segreteria Nazionale per la buona riuscita dei progetti di rinnovamento e di rilancio in un’ottica di crescita del ruolo della Femca nel suo complesso.

Ci auspichiamo che nella distribuzione degli incarichi e delle responsabilità, si consideri in giusta misura quanto la Femca MM può offrire e che, nei criteri di scelta delle persone, si facciano prevalere conoscenza, esperienza e qualità, più che gli equilibri politici e le ingiustificate ambizioni personali di qualche dirigente.

Resta ancora molto da fare, noi ci siamo, abbiamo ancora molto da offrire, nel corso del mandato congressuale che sta per scadere, abbiamo messo a disposizione dell’organizzazione colleghi che oggi sono impegnati con il ruolo di Segretari Territoriali e Regionali, questo ci rende orgogliosi, ancora una volta il territorio di Milano si è rivelato una palestra utile per tutta l’organizzazione.

L’ obiettivo che ci diamo nel corso del prossimo mandato è di proseguire nel programma di crescita delle nostre persone in modo da essere pronti ad assumere incarichi importanti in un prossimo futuro.

Rimane, in osservanza delle indicazioni Confederali, da risolvere il problema della distribuzione delle risorse laddove la Confederazione invita a lasciare al territorio il 70% delle risorse.

Se sul tesseramento decentrato siamo a poco distanti, la stessa cosa non accade sul tesseramento centralizzato dove le risorse a disposizione del territorio si aggirano attorno al 30%.

Ci aspettiamo su questo tema un segnale di coerenza da parte della Segreteria Nazionale già a partire da questo Congresso.

Il progetto di accorpamento con la FIM sembra tramontato.

Nella relazione congressuale del 2013 evidenziammo forti perplessità per la decisione di accorpare in tempi brevi le due Federazioni, raccomandammo prudenza, e di ponderare scadenze temporali adeguate alle dimensioni dell’operazione, alfine di evitare traumi alle organizzazioni.

Per esperienze passate, eravamo consapevoli che la somma dei problemi irrisolti e delle difficoltà intrinseche di un operazione di tale portata, spesso creano un problema più grande ed una maggiore complessità nel trovare le soluzioni.

I fatti hanno dimostrato che avevamo previsto il giusto; la nostra non era paura del nuovo, come ci siamo sentiti dire; ma consentitecelo, era saggezza; troppe differenze, culturali e politiche con la FIM.

In quella occasione criticammo anche la scelta fatta dalla CISL, di sancire la separazione della rappresentanza dei lavoratori della produzione e della distribuzione di energia elettrica, dai lavoratori degli altri settori della produzione e della distribuzione di energia organizzati dalla Femca.

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Constatiamo, a quattro anni di distanza, che avevamo ragione, e oggi non possiamo che prenderne atto; abbiamo perso l’occasione per avere, oltre al sindacato dell’industria, il completamento della rappresentanza dei lavoratori della filiera dell’energia; cosa che hanno fatto ad esempio CGIL e UIL, costituendo un'unica Federazione con chimici, tessili ed energia, elettrici compresi. Siamo convinti oggi più di allora, che si debba creare anche nella CISL un'unica federazione dell’energia ed auspichiamo che, per il bene stesso dell’organizzazione, si possa portare avanti questo progetto in cantiere da tempo e mai realizzato. Forti di un esperienza di fattiva collaborazione con la FLAEI che a Milano ha portato, anche in questo quadriennio, solo successi per entrambe le Federazioni, confidiamo che la proposta di Angelo Colombini di adottare il meccanismo di seconda affiliazione, per altro da noi auspicato già nel nostro precedente Congresso di quattro anni fa, possa in qualche modo favorire la ripresa di un dialogo più stretto con tutta la FLAEI più che con la FIM.

Nel mese di dicembre dello scorso anno (3 mesi fa), sono accaduti due eventi importanti che segnano la profonda differenza tra FIM e Femca, sia sul versante politico/strategico, sia sul versante delle modalità di rapporto con la base.

La prima in occasione del referendum sulla Riforma Costituzionale che ha visto la FIM schierarsi apertamente su un versante; per altro con lo schieramento perdente; i nostri iscritti, evidentemente non li hanno seguiti.

Molti dei nostri iscritti e militanti, schierati sulla parte avversa, non hanno gradito questa invasione nel campo nella politica e nella sfera delle scelte individuali.

La decisione della FEMCA, nel solco della tradizione della CISL, di non schierare ufficialmente l’Organizzazione se non si tratta di temi strettamente legati al lavoro e lasciare a iscritti e militanti una libera scelta, è stata la soluzione più coerente.

Alla luce di quanto è successo, ci permettiamo di dire che, la nostra, è stata una scelta politicamente saggia, che abbiamo apprezzato.

La seconda sulle scelte negoziali; con il rinnovo del tanto atteso Contratto Nazionale per l’industria 4.0, annunciato dai vertici FIM a seguito dei commenti poco lusinghieri sui contenuti dell’ultimo rinnovo del CCNL Chimico Farmaceutico, ci hanno lasciato al quanto perplessi e con la convinzione che se questi sono i risultati, meglio essere cauti con le innovazioni.

Facciamo i contrattualisti, ci misuriamo giornalmente con le difficoltà di un negoziato, comprendiamo le complessità e non ci permettiamo giudizi di valore; ma non possiamo esimerci dal dare un giudizio politico: se questa dovrà essere la via della riforma della contrattazione, ci permettiamo molto sommessamente di invitare le nostre segreterie ad una attenta riflessione.

Nessuno di noi può nascondere le oggettive difficoltà di rinnovare i Contratti Nazionali in una fase di stagnazione e di deflazione; tuttavia riteniamo che operare aumenti salariali con un meccanismo “ex post” come è stato definito tecnicamente; più che innovazione 4.0, ci è sembrata la riesumazione riveduta e corretta (poco) della vecchissima Scala Mobile; non a caso abbandonata “illo tempore” proprio perché generatrice di inflazione e di perdita di potere di acquisto dei salari.

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Ci permettiamo di ricordare che il Contratto Nazionale dei Chimici dell’ormai lontano 1990 aveva introdotto un meccanismo flessibile di erogazione del salario, (ARC) una vera innovazione per l’epoca, che forse anche oggi in maniera aggiornata, riveduta e corretta potrebbe rispondere positivamente a questa fase di bassa inflazione o di inflazione zero.

Allora non fu compresa, troppo innovativa forse e di conseguenza abbandonata; oggi potrebbe tornare di attualità, sicuramente più innovativa e tutelante per i lavoratori di ciò che abbiamo letto nel testo di rinnovo del CCNL dei Metalmeccanici.

Ci siamo limitati ad evidenziare due casi esemplificativi della distanza di fondo tra noi e la FIM; crediamo che all’interno della stessa costellazione CISL esistano due mondi paralleli e che difficilmente potranno diventare un solo sistema senza creare traumi e pericolose perdite di identità.

Crediamo che la Femca sia in grado di proporre un modello contrattuale diverso da quello concordato con Federmeccanica; e confidiamo sulla lungimiranza, il coraggio e la capacità innovativa delle nostre controparti Federchimica, Farmindustria, Federazione Gomma Plastica di offrire ancora una volta come già in passato, soluzioni veramente innovative nell’interesse di tutti.

Il recente rinnovo del CCNL Energia e petrolio; ha dimostrato che altre soluzioni sono possibili.

A SMI (Sistema Moda Italia), chiediamo di abbandonare la parte più retriva di Confindustria e di abbracciare quel pragmatismo contrattuale che ha sempre contraddistinto Filctem, Femca e Uiltec.

La FEMCA Milano Metropoli si è mossa sul territorio in un contesto di difficoltà legate ai numerosi processi di ristrutturazione che abbiamo dovuto gestire e che si sono conclusi anche nelle situazioni più complicate con accordi approvati a grandissima maggioranza dai lavoratori anche se ci sono stati in alcuni casi, delle differenze con la Filctem su alcuni principi fondamentali come la decisa difesa dell’applicazione integrale dell’art. 5 delle Legge 223/91 (mobilità).

Un articolo che riteniamo fondamentale per la difesa dei lavoratori più deboli e non comprendiamo il perché di un approccio così morbido e ci chiediamo a tal proposito a cosa servono le iniziative per chiedere l’estensione dei diritti a chi non li ha se poi non difendiamo con determinazione quelli che già ci sono?

Se nella maggioranza dei casi, la volontà di trovare una sintesi unitaria ha consentito di superare queste difficoltà e concludere decine di accordi, dobbiamo registrare che, a volte, all’ unità di intenti, sono prevalse altre logiche ed abbiamo dovuto assistere ad accordi firmati dalla strana coppia UGL, CGIL.

La riteniamo una ferita, nel solco di una tradizione come quella milanese che aveva difeso l’unitarietà della categoria contro tutto e contro tutti, anche dopo il venir meno della FULC.

Noi siamo convinti che da soli non si va da nessuna parte e le fratture tra Filctem, Femca e Uiltec possono solo far gioco a tutte quelle forze che auspicano un ridimensionamento delle Organizzazioni di ispirazione Confederale.

Su questo versante crediamo si debba lavorare dal punto di vista politico e culturale, in troppi oggi pensano che la propria posizione personale si rafforzi attraverso l’accreditamento presso le controparti e le fughe solitarie in avanti siano più importanti, dell’unità di azione.

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Siamo convinti che questo sia un atteggiamento perdente; per noi, “i sindacati” si chiamano CGIL, CISL e UIL e per quanto ci riguarda, Filctem, Femca e Uiltec; ed è con loro che intendiamo ricercare unità di azione e di intenti; gli altri, ci sono estranei per cultura e per tradizione ed è per questo motivo che non ci rassegniamo e ricercheremo tutti i percorsi di convergenza possibili; ma ognuno deve fare la propria parte.

La Femca Milano Metropoli, continua a godere di buona salute, grazie agli interventi correttivi sistematici sulla struttura e sui costi di gestione che ci hanno permesso di mantenere gli equilibri, nonostante il calo degli iscritti ( al congresso 2013, 7.607 iscritti – congresso 2017, 6.046 iscritti) registrato negli ultimi due anni determinato prevalentemente dalle uscite per mobilità, causate dai numerosi processi di ristrutturazione verificatisi in tutti i nostri settori, che hanno determinato un significativo calo degli addetti e la chiusura delle aziende ( 1.264 nel 2013 – 1.122 nel 2017).

Nonostante si sia ridotta l’area di intervento, stimiamo che sul territorio milanese, la rappresentanza di Filctem, Femca e Uiltec non superi mediamente il 30% degli addetti; restano quindi spazi di crescita che dobbiamo occupare.

Ad oggi, l’impegno dei nostri operatori e di molti dei nostri delegati, non è stato sufficiente a colmare le uscite ed occupare questi spazi.

Nei prossimi quattro anni, dobbiamo rafforzare la nostra azione politico/contrattuale ed una rinnovata attenzione al proselitismo; con la consapevolezza che il tesseramento non è un problema solo della Segreteria e gli Operatori.

Il tesseramento misura la rappresentatività della Femca e dei delegati Femca all’interno di ciascuna azienda; chi tra i nostri delegati pensa che sia un problema che non lo riguardi, sbaglia.

A questo scopo, opereremo un rinnovamento della nostra Organizzazione, affiancando ai nostri delegati che hanno dimostrato una solida affidabilità, giovani che stanno dimostrando qualità ed entusiasmo; al fine di “tornare in quota” e riaffermare il nostro grado di rappresentatività.

Dal punto di vista organizzativo, il vincolo Statutario, che limita l’incidenza del costo del lavoro entro la soglia del 65% delle entrate, introdotto recentemente è un limite che giudichiamo in contraddizione con la missione che l’Organizzazione ci ha affidato e che ripetutamente ci viene ricordata; ovvero di presidiare il territorio e stare in mezzo ai lavoratori, cosa che per altro abbiamo sempre fatto.

Questa regola ci vincola nella possibilità di incrementare l’organico in carenza di un aumento degli iscritti e quindi di fornire una capillare assistenza ai nostri delegati ed ai nostri associati, compromettendo lo sviluppo della Contrattazione di secondo livello e qualsiasi iniziativa di proselitismo, in particolare sulle piccole e medie aziende che notoriamente, hanno maggiore bisogno di assistenza e della presenza della struttura.

Questa, riteniamo sia una scelta che può avere una logica di contenimento dei costi in alcuni ambiti; applicato alle Federazioni Territoriali di categoria, crediamo sia un vincolo sbagliato.

Ci auspichiamo che la ragionevolezza delle nostre Strutture superiori, ci consenta una flessibile applicazione di questa parte del regolamento in modo da permetterci di attuare la progettualità necessaria ed un efficace presidio del territorio.

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Il secondo vincolo detta l’obbligo tassativo, introdotto nel nuovo regolamento, di avere una Segreteria Territoriale con un massimo di tre componenti di cui una donna, il che comporta alla nostra struttura scelte e decisioni ingiustamente penalizzanti per alcuni di noi e a forzare un percorso che avrebbe trovato una sua evoluzione naturale entro il prossimo mandato congressuale, dando la possibilità alla nostra rappresentanza femminile ed ai nostri segretari più giovani, di crescere e consolidarsi in un percorso condiviso.

Le modifiche all’ art.21 del Regolamento di attuazione dello Statuto Confederale approvate il 31 gennaio di quest’anno hanno riconosciuto, a livello Confederale, alle Aree Metropolitane la possibilità di avere una segreteria con quattro componenti.

Crediamo che una delle ragioni principali stia nell’ammissione della complessità di tali territori e la particolare attenzione da dovervi riporre.

Purtroppo pare che questo riconoscimento non verrà esteso alle Federazioni di Categoria dello stesso Territorio; confidiamo tuttavia di poter contare su una fase transitoria che, tenendo conto della vastità e della complessità del territorio e della struttura della Femca MM, ci consenta una messa regime in tempi ragionevoli.

Ci aspettiamo un minimo di flessibilità, in nome di una ragionevolezza operativa, per il bene delle persone che vi operano, e dell’efficienza dell’Organizzazione, una flessibilità sostenuta da un progetto di ringiovanimento, al termine del quale la Segreteria Femca Milano Metropoli, potrà garantire una compagine con una prospettiva duratura nel tempo, facendo maturare un esperienza di gestione ai nostri colleghi più giovani ed offrire alle nostre strutture superiori persone in grado di ricoprire ruoli rilevanti nell’ Organizzazione.

Per quanto concerne i comparti, abbiamo deciso di lasciare in allegato le relazioni redatte dai segretari responsabili.

Dal percorso Congressuale, che per noi inizia oggi e proseguirà sia a livello di Categoria, sia a livello di Confederazione per tutto il primo semestre di quest’anno, ci auguriamo possa nascere ed affermarsi la CISL e la Femca del futuro.

Permettetemi infine di ringraziare i nostri Ospiti per la partecipazione al nostro Congresso e per il contributo che porteranno alla nostra discussione oltre a un caloroso ringraziamento ai nostri delegati per la partecipazione.

Grazie a tutti per l’attenzione e la pazienza.

Buon Congresso.

Un sentito ringraziamento a Elena e Maria che con pazienza, determinazione e competenza si sono fatte carico di tutta la fase organizzativa di questo Congresso e per la capacità creativa dimostrata nel concepire il manifesto del nostro Congresso.

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L’ATTIVITA’ DEI COMPARTI

COMPARTO ENERGIA

A cura di Roberto Scarlatella

Il comparto energia a Milano rappresenta circa 1000 iscritti, siamo presenti in quasi tutte le società che applicano i contratti dell’energia e del gas/acqua. Negli ultimi anni abbiamo rinnovato le RSU, ottenendo risultati lusinghieri in grandi gruppi come Snam e A2A ma anche in piccole società come la Sigemi. Cogliamo l’occasione esprimere un caloroso benvenuto nella nostra categoria, assieme alle nostre congratulazioni ai delegati della Metropolitana Milanese che sono confluiti dal contratto pubblico impiego al contratto gas/acqua, ottenendo alle elezioni RSU un ottimo risultato. Il buon risultato in A2A è il frutto della collaborazione con la Flaei. Alla luce di questa esperienza, abbiamo proseguito il progetto estendendolo anche al Gruppo Edison, dove le sinergie delle due federazioni hanno consentito un altro grande risultato alle elezioni RSU. Il settore del gas/acqua e la collaborazione con la Flaei per noi sono e saranno importanti nei prossimi quattro anni e per questo motivo vogliamo investire ancor più di quanto fatto fino ad oggi. Il comparto è cresciuto sul nostro territorio; abbiamo investito risorse economiche importanti svolgendo attività di formazione specifiche, partecipando con le nostre delegazioni a tutte le iniziative nazionali con numerosi delegati, creando grande coesione ed una compattezza di cui siamo fieri; i risultati si sono visti. In questi quattro anni abbiamo ripetutamente convocato le sessioni di comparto sia per l’attività di formazione, sia per discutere e dare le nostre opinioni sulle proposte nazionali in riferimento al contratto o ad argomenti più generali quali la politica energetica. Si è evidenziata una profonda e veloce trasformazione del settore ed è emersa in maniera inequivocabile, la perdurante assenza di un Piano di politica nazionale dell’energia, asset che riteniamo strategico per il paese. Crediamo altresì che debba essere valorizzato il ruolo dei delegati nelle RSU ci auspichiamo e manterremo il nostro impegno di chiedere alla segreteria nazionale un maggiore decentramento dei temi della contrattazione aziendale; nella convinzione di avere sul territorio, delegati preparati in grado di confrontarsi e di intercettare le necessità dei colleghi. Sul nostro territorio la contrattazione di secondo livello nel settore è coperta al 100%; non ci sono aziende a cui non si applichi la contrattazione aziendale, siamo soddisfatti del lavoro svolto.

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Quattro anni fa chiudemmo i contratti del Comparto con l’obiettivo di unificarli; oggi invece sembrano sempre più lontani. Crediamo sia giunto il momento per riprendere la discussione, considerando che i salari e le normative non sono poi così differenti come nel ventennio passato. Stiamo rinnovando i CCNL sugli stessi valori di riferimento, senza nessuna possibilità di contrattare altro e la normativa sta diventando, purtroppo, l’elemento di scambio per far crescere il salario. Non vediamo vie di uscita, siamo convinti che per migliorare e per cambiare bisogna trovare il coraggio di fare il grande passo di un contratto unico dell’energia, solo così possiamo sviluppare una migliore politica energetica ed una nuova contrattazione forte e credibile. Ieri i due contratti si differenziavano nella governance, le OIL company e le ex municipalizzate. Oggi, le municipalizzate sono diventate tutte grandi gruppi, perché le normative in vigore non permettono più ad una piccola municipalizzata di essere competitiva e soprattutto di garantire gli investimenti richiesti. Il business dell’Upstream registra sempre maggiori investimenti all’estero e le poche compagnie impegnate, prevalentemente in Basilicata, trovano sempre più difficoltà nell'avviarsi o nel continuare ad investire. Abbiamo perso un’opportunità, perché quel territorio, sicuramente disagiato, potrebbe sviluppare un progetto di grande rilevanza economica, coinvolgendo anche le regioni limitrofe sviluppando l’intera area, dimostrando che le attività di perforazione posso essere un punto di forza pur nel rispetto dell’ambiente. Non sappiamo le vere ragioni perché Total abbia deciso di abbandonare il nostro paese ma temiamo che tutto quello che è avvenuto riguardo sul “caso Total in Val d'Agri” non può non lasciare dei dubbi. Total, impegnata da anni in Basilicata nell’Upstream, occupa un centinaio di addetti mentre nel settore Downstream, dove strategicamente sono i leader di mercato attraverso la fusione con Erg, occupano più di 500 dipendenti. La dichiarazione di uscire dal mercato Italiano del downstream non può non far pensare che l’ennesima vicenda giudiziaria, che li vede coinvolti in Basilicata, sia una diretta conseguenza. L'uscita della Shell dal settore downstream, il riassetto della raffinazione degli anni passati, e questa novità dichiarata da Totalerg non ci consente di sperare in un’espansione del settore in Italia. Questa situazione riteniamo debba imputarsi al grave ritardo di una politica energetica nazionale. Il governo, oggi azionista delle più grandi società di trasporto e distribuzione, è dovuto intervenire su uno dei più grandi player mondiali nel settore dell’ingegneria e della cantieristica, la Saipem. Riteniamo corretto l'intervento del governo nel mettere in sicurezza le grandi aziende di questo settore, ma dobbiamo chiedere a gran voce di non ripetere gli errori del passato.

Dobbiamo impegnare tutti i livelli della nostra Federazione e della Confederazione, affinché si elaborino delle proposte per un piano Energetico CISL, da presentare al governo; la storia della

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nostra organizzazione dimostra che nei momenti di difficoltà, non ci siamo mai “tirati indietro”, esprimendo idee e progetti originali che riguardavano al futuro del nostro paese.

COMPARTO TESSILE-MODA

A cura di Eustachio Rosa

Il Comparto Moda rappresenta in Italia, un’eccellenza di carattere mondiale, nonostante in questi anni ha sofferto la grave congiuntura e la forte competizione con i paesi emergenti che in molte occasioni sono caratterizzate da basso costo del lavoro derivante da un Dumping sociale.

L’Italia rimane il terzo Paese, dopo Germania e Cina, esportatore mondiale sul settore tessile e abbigliamento, occupando 402.779 addetti con un meno 0,9%(dato 2016) pari a 3600 posti di lavoro in meno.

Nel settore sono presenti 47.079 aziende con una flessione del 0,1% in meno, pari a 540 aziende cessate e 52,4 miliardi di produzione nel 2015.

Il commercio estero dell’Industria Tessile/Moda italiana vede nel primo semestre gennaio-luglio 2016 i seguenti dati:

SETTORE TESSILE IMPORT per 4.148mln euro con una variazione del 2,9 %, l’export in 6.189mln/e con una variazione dell’1,0%- con un saldo di 2.041mln euro, rispetto allo stesso periodo anno precedente.

SETTORE MODA importazioni per 7.979mln euro -1,1 %, l’EXPORT 17.533 con una variazione dello 0,5% con un saldo di 3.364mln euro rispetto allo stesso periodo anno precedente. ( fonte SMI su Istat).

Inoltre nel dettaglio nel settore Tessile hanno segno Negativo i settori dei Tops, Filati e Tessile Casa, e Segno Positivo il settore Tessuti e altri prodotti tessili.

Nella Moda, i settori abbigliamento e calzeria registrano un segno Negativo, Positivo invece il settore maglieria.

Altro settore importante e secondo per numero di addetti e per numero di aziende, il Calzaturiero, che nell’anno 2015 registrava un numero di addetti pari a 4.936 con un + 0,6% e 4.936 aziende con un meno 1,9%) con un saldo commerciale di -5,0%(mln di paia -120,3) e con una variazione del -2,7 % pari a 4.130,22mln di euro (fonte istat, su stime Assocalzaturificio).

Il Comparto Moda è anche caratterizzato da altri settori cosiddetti “Minori” in termini di addetti e per numero di aziende, ma non in termini di prodotti di eccellenza, quali Luxottica, Prada, Fila (che applicano i CCNL, Occhialeria, Pelli e Cuoio, Spazzole e Pennelli), che registrano crescite di fatturati ed Ebitda a due cifre.

Il Comparto si caratterizza sempre più in una divisione quasi cronica, tra i Brand forti e solidi ed il resto della filiera che continua ad essere in affanno.

Gli elementi di novità in questi ultimi anni sono stati la vendita di importanti marchi a gruppi stranieri da Gucci a Valentino a Ferrè per citarne alcuni; mentre altre realtà sono state ridimensionate e i processi di ristrutturazione hanno coinvolto numerosi lavoratori.

La situazione vissuta dal Comparto a livello Nazionale, si riflette in maniera speculare sul nostro territorio; l’orientamento distributivo delle aziende del Comparto è caratterizzato da un forte

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accentramento dei Brand con Sede nella City; mentre in provincia sono localizzate le attività produttive.

In provincia, le crisi aziendali con ristrutturazioni e riduzione del personale è più sentita rispetto ai grandi Brand ed anche in quest’ultimo anno l’area metropolitana nel suo complesso, ha visto qualche centinaia di licenziamenti collettivi.

Anche il distretto Calzaturiero di Parabiago, uno dei più importanti d’Italia, ha mostrato segni di difficoltà, dovuti al forte calo di ordini soprattutto dal mercato Russo.

Da un punto di vista generale c’è una stabilità di carattere strutturale seppur con qualche segno negativo, mentre l’industria del lusso dà ancora segnali importanti di crescita nel comparto.

Nel nostro territorio si evidenzia un aspetto critico nel Mercato del Lavoro con difficoltà a reperire professionalità che hanno un “mestiere” consolidato.

Le aziende, nella maggior parte dei casi anzichè lavorare su una crescita interna o assunzioni di apprendisti da formare alle loro esigenze, puntano a reclutare personale già formato sottraendolo alla concorrenza.

Questa scelta non solo non aiuta i giovani lavoratori, ma neppure le imprese che, “viziando” il Mercato del Lavoro, provocano danni in efficienza, costi e qualità al settore.

Nella situazione Generale come sopra evidenziata si collocano i rinnovi dei Contratti Nazionali.

Ad oggi sono stati rinnovati tutti i CCNL definiti “Minori” come Lavanderie Industriali, Pelli e Cuoio.

Restano da portare a conclusione il CCNL del Sistema Moda e quello dei Calzaturieri; anche se quest’ultimo, diversamente dall’altro, sembrava sino a pochi giorni fa, che ci potessero essere le condizioni per il rinnovo.

Purtroppo sono emerse richieste dalle controparti che avrebbero destabilizzato le tutele per i lavoratori e le lavoratrici e, di conseguenza, la discussione si è improvvisamente arenata.

Non possiamo che augurarci una ripresa del dialogo e una conclusione dignitosa.

La criticità più grossa rimane il rinnovo del CCNL SMI, 10 mesi di attesa e 16 ore di sciopero con sostenuta dalle manifestazioni, non sembra aver modificato una posizione datoriale che sta mettendo in discussione la storia del settore, con un appiattimento culturale su settori Confindustriali estranei alla tradizione.

Noi riteniamo sia necessario avere un contratto moderno, flessibile e funzionale al settore, ma non attraverso la revisione delle condizioni “in pejus” per i lavoratori così come si evince da alcune richieste avanzate dalle controparti datoriali.

Un CCNL che individui i veri canali di innovazione, partendo da un sistema classificatorio moderno, superando l’obsolescenza di quello attuale, che mortifica competenze e professionalità, se anche in questo settore si vuole parlare di industria 4.0.

Bisogna lavorare su un Welfare integrativo dignitoso ed un riconoscimento economico equo che garantisca l’universalità dei lavoratori.

E’ necessario che il II° livello di contrattazione sia veramente un momento di confronto rispetto alle specificità, ai bisogni organizzativi aziendali e la ridistribuzione del reddito sia una costante, e non un elemento utilizzabile solo quando bisogna gestire processi di ristrutturazione.

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Le richieste datoriali, che tendono ad avere un carattere punitivo e ultraliberista, su malattia, ferie, orario di lavoro e flessibilità sono inaccettabili; già oggi, il CCNL regola gli interventi su queste materie e non riteniamo siano necessari altri interventi.

Il principio da salvaguardare è quello del confronto a livello aziendale con la RSU e con le strutture territoriali più rappresentative.

Oggi la contrattazione di secondo livello nel comparto si svolge solo nel 30% delle aziende presenti sul territorio; un risultato del tutto insoddisfacente.

COMPARTO CHIMICO – MANIFATTURIERO A cura di Salvatore Di Rago e Massimo Zuffi

Il Comparto chimico sul nostro territorio si riconferma il comparto con il maggior peso sia come numero di iscritti che come aziende collegate. La diffusione della contrattazione di secondo livello copre circa il 70% delle aziende collegate e si distingue non solo per le quantità economiche messe a disposizione, ma anche per il livello qualitativo delle parti normative con particolare attenzione al welfare e alle nuove forme organizzative del lavoro (smart working, flessibilità, conciliazione). Il sistema di relazioni industriali ha storicamente dato prova della propria capacità di innovare, di “guardare avanti" cogliendo in anticipo le esigenze a sostegno di competitività e dell’occupazione. A partire dagli anni 70, sul fronte della salute e sicurezza, ambito nel quale le scelte contrattuali hanno spesso anticipato il legislatore. Negli anni 80,con l’introduzione dell'osservatorio contrattuale e l’ avvio un percorso innovativo sui temi della partecipazione e della formazione. Negli anni 90 con l'introduzione di una significativa flessibilità contrattuale sugli orari di lavoro. Negli anni 2000, con la Responsabilità Sociale e Welfare contrattuale, assoluta novità nel nostro Paese, si promuovono i fondi di Previdenza settoriali e di Sanità integrativa Fonchim e Faschim e successivamente, il protocollo sulla definizione dei temi di produttività e di occupabilità.

Questo orientamento politico incentrato sulla partecipazione, si riafferma nel rinnovo contrattuale sottoscritto nell’ottobre 2015, confermando la solidità e la validità di questo sistema; con l'obiettivo di preparare e indirizzare le parti datoriali e quelle sociali in azienda a confronti innovativi di corresponsabilità. Crediamo che la competitività dell'impresa dipenda dalla interazione con l'ambiente esterno e che nell'economia della conoscenza, innovazione e sviluppo sostenibile devono rendere le parti attori consapevoli.

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Il settore farmaceutico italiano con circa 63.000 addetti di cui il 90% laureati e diplomati; il 43% donne occupate; 6.100 addetti a Ricerca e Sviluppo, tra cui il 52% sono donne e 66.000 occupati nell’indotto è uno dei più avanzati nel panorama industriale del nostro paese. Si stima una produzione di 30 miliardi di euro, di cui il 73% destinato all’export (22 miliardi di euro), 2,6 miliardi di euro destinati agli investimenti, dei quali 1,4 mld in Ricerca & Sviluppo e 1,2 mld in attività di produzione. Nel 2015 l’industria farmaceutica in Italia è stata uno dei settori che ha contribuito di più allo sviluppo del Paese. La produzione è cresciuta del 5%, soprattutto grazie all’export che ha raggiunto il suo record storico in valore assoluto in 22 miliardi e in percentuale sulla produzione del 73%. Le imprese del farmaco inoltre si confermano ai primi posti per intensità di ricerca, competitività, produttività, investimenti, qualità delle risorse umane. Nonostante nell’ultimo quinquennio si sono moltiplicate le riorganizzazioni aziendali con riduzioni significative di personale, in particolare sulle reti esterne, è da rilevante la ripresa dei livelli occupazionali e degli investimenti. Il numero complessivo degli addetti cresce dell’+1%, con circa 6.000 assunzioni che hanno superato le uscite, soprattutto per l’aumento nella aree della produzione e della ricerca. Gli investimenti sono aumentati del 5%, raggiungendo il massimo livello degli ultimi dieci anni. Questo testimonia come le imprese del farmaco siano un punto di forza del sistema industriale Italiano; un patrimonio che il Paese deve valorizzare, in un contesto internazionale estremamente concorrenziale. E’ necessario superare alcuni vincoli di Sistema, che rischiano di mettere a rischio lo sviluppo del settore a partire dal sotto finanziamento della spesa farmaceutica pubblica, la più bassa d’ Europa in termini di un -30% rispetto alla media dei Unione Europea. Bisogna assicurare un quadro normativo con regole stabili e arrivare in tempi rapidi a una governance adeguata ad un settore in profondo cambiamento a livello globale, sostenibile e più favorevole per l’accesso all’innovazione. Il 2015 ha confermato la posizione di eccellenza dell’Italia per la produzione farmaceutica nell’Unione Europea; seconda dopo la Germania, con la possibilità di diventare prima nel medio periodo, se si realizzassero condizioni favorevoli per ulteriori investimenti. Dal 2010 al 2015 l’export farmaceutico è cresciuto più della media dell’Unione a 28 con un +57% rispetto a +33% della UE. Nei primi 4 anni, a fronte di una recessione per l’economia nazionale, la produzione farmaceutica è stata positiva e nel 2015, con un PIL in crescita, la farmaceutica ha continuato a trainare l’attività manifatturiera crescendo dell’11%.

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Dopo anni di tagli, dal 2014 le imprese farmaceutiche hanno investito in piani di sviluppo per 1,5 miliardi con un incremento di 2.000 addetti tre anni e le proiezioni 2016 indicano valori ancora superiori con un +1,6 miliardi per gli investimenti e un aumento di circa 3000 addetti che si basa soprattutto sul rafforzamento delle funzioni di produzione e ricerca (dati Farmindustria). Interessante a nostro avviso è il confronto per titolo di studio che evidenzia nella farmaceutica un notevole impiego di personale laureato o diplomato rispetto al resto del sistema industriale. Sul totale degli occupati i laureati sono il 54% nella farmaceutica rispetto al 21% dell’industria manifatturiera. Laureati e diplomati nella farmaceutica rappresentano il 90% degli occupati, rispetto al 63% della media dell’industria. Gli uomini sono il 57% del totale, con una prevalenza tra dirigenti (69%), intermedi (83%) e operai (73%); le donne sono il 43% del totale; più alta della media dell’industria che si attesta al 25% e si distribuisce in tutti i livelli professionali compresi dirigenti e quadri. Inoltre, uomini e donne sono ritenuti professionalmente equivalenti nell’80,5% dei casi, mentre nel totale dell’industria tale valore è pari a 21,0%. La farmaceutica in Italia si distingue per un modello di relazioni industriali innovative. La contrattazione aziendale è molto diffusa; le imprese che applicano un contratto aziendale con contenuti economici sono il 65%, rispetto al 45% del totale dell’industria: Le imprese che erogano premi variabili nel settore sono il 78%, rispetto al 58% nel totale dell’industria e si caratterizzano per un’incidenza di infortuni e malattie professionali inferiori alla media (-9%). La contrattazione di secondo livello sul territorio milanese supera l’80% nelle imprese farmaceutiche collegate, quindi superiore alla media nazionale e si caratterizza non solo per i valori economici dei premi ma anche per una contrattazione di qualità che tocca temi come gestione degli orari di lavoro, l’estensione dei permessi, dei congedi parentali (+41%), la formazione; ed è diffusa anche la pratica degli osservatori aziendali e territoriali. Sta emergendo l’attenzione sul modello Industria 4.0. Negli ultimi 5 anni il 65% delle imprese ha adottato in modo convinto strategie di digitalizzazione dei processi aziendali e si stima che nei prossimi 5 anni si consolideranno, con una tendenza alla crescita sui versanti dell’uso in terapia e nella comunicazione per oltre il 90% delle imprese. Strategica per i lavoratori e per il sindacato sarà la formazione degli addetti; un modello innovativo e partecipativo di Relazioni Industriali ed una contrattazione aziendale diffusa, finalizzata alla crescita ed al consolidamento del lavoro di qualità.

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Settore gomma-plastica Il settore rappresenta lo 0,6% del PIL italiano con oltre 1/3 delle produzioni destinate all'esportazioni. Dopo la pesante caduta dei primi anni della crisi il settore è ripartito soprattutto grazie all’ export invertendo la tendenza e nell’ ultimo anno la crescita è stata del 2,1% confermando il trend positivo che si attesta ad un + 9,6% nel triennio. La produttività del comparto e tra le più alte del settore industriale, ma nonostante ciò, nel decennio si sono persi 37.000 posti di lavoro e non si prevedono inversioni di tendenza significative nei prossimi anni. Difficile prevedere un ritorno ai livelli occupazionali pre crisi anche alla luce delle continue riorganizzazioni ed il prevedibile ed auspicabile avvento della digitalizzazione legata al progetto " Industria 4.0". Crediamo sia importante anche in questo settore attrezzarci per affrontare questo evento che avrà riflessi importanti sul futuro dei lavoratori; dovremo gestire la crescita professionale degli addetti attraverso un processo formativo diffuso ed una organizzazione del lavoro che cambierà profondamente. Ad oggi la contrattazione di II° livello è presente in circa il 50% delle aziende collegate e tocca prevalentemente i temi della gestione degli orari di lavoro e i premi di risultato. Nei prossimi anni ci poniamo l’ obiettivo di estendere la contrattazione aziendale ai livelli degli altri settori del comparto. La buona notizia: dopo anni di gestazione e non pochi ostacoli, anche i lavoratori del settore gomma plastica avranno il loro fondo sanitario integrativo: il fondo sanitario gomma plastica, è partito.