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Conflitto e Mediazione Familiare A cura di Paolo Danza – psicopedagogista, Mediatore Familiare; Counsellor (liv. Formatore/Supervisore) INTRODUZIONE Nella domanda di mediazione è insita la richiesta della risoluzione di un conflitto tra i due coniugi: chiedono, e si rendono conto, di aver bisogno dell’aiuto di un terzo, il mediatore, che li aiuti a ritrovare il “bandolo di una matassa” che si sta’ sempre più aggrovigliando su se stessa. Al mediatore viene richiesto di “saper essere nella relazione”, e dunque anche nel conflitto, quale normale e componente della relazione. Ma, è lecito chiedersi, se il conflitto venga davvero considerato quale fisiologico elemento della relazione o se, nell’immaginario sociale, esso assuma strane ed oscure forme. Si ritiene sia significativo fare opportune riflessioni poiché l’interpretazione e la percezione che il singolo mediatore dà al conflitto (che è anche una persona con un vissuto emotivo e cognitivo) possa influenzare l’efficacia del processo di mediazione in atto. ALCUNE DEFINIZIONI La parola conflitto il cui significato deriva dal verbo latino confligere che significa “urtare, contrastare”, richiama oscuri presagi. Gallino definisce il conflitto come un tipo di interazione più o meno cosciente tra due o più soggetti individuali o collettivi caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse perché i soggetti possano conseguire detti scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o deviare verso altri scopi o impedirne l’azione altrui, anche se ciò comporta sia infliggere consapevolmente un danno, sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello scopo che si persegue 1 Il conflitto è stato analizzato secondo diversi aspetti 2 . L’analisi del conflitto tra gruppi o strati o classi sociali, risolvibile con la cessione di gran parte delle proprie libertà allo Stato, è formulata esplicitamente da Hobbes (Il Leviatano, 1651) con la teoria individualistica 1 Gallino, Luciano, Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1983, p.156. 2 ibidem, pp.156-161.

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Conflitto e Mediazione Familiare

A cura di Paolo Danza – psicopedagogista, Mediatore Familiare; Counsellor (liv. Formatore/Supervisore)

INTRODUZIONE Nella domanda di mediazione è insita la richiesta della risoluzione di un conflitto tra i due coniugi: chiedono, e si rendono conto, di aver bisogno dell’aiuto di un terzo, il mediatore, che li aiuti a ritrovare il “bandolo di una matassa” che si sta’ sempre più aggrovigliando su se stessa. Al mediatore viene richiesto di “saper essere nella relazione”, e dunque anche nel conflitto, quale normale e componente della relazione. Ma, è lecito chiedersi, se il conflitto venga davvero considerato quale fisiologico elemento della relazione o se, nell’immaginario sociale, esso assuma strane ed oscure forme. Si ritiene sia significativo fare opportune riflessioni poiché l’interpretazione e la percezione che il singolo mediatore dà al conflitto (che è anche una persona con un vissuto emotivo e cognitivo) possa influenzare l’efficacia del processo di mediazione in atto.

ALCUNE DEFINIZIONI La parola conflitto il cui significato deriva dal verbo latino confligere che significa “urtare, contrastare”, richiama oscuri presagi. Gallino definisce il conflitto come un tipo di interazione più o meno cosciente tra due o più soggetti individuali o collettivi caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse perché i soggetti possano conseguire detti scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o deviare verso altri scopi o impedirne l’azione altrui, anche se ciò comporta sia infliggere consapevolmente un danno, sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello scopo che si persegue1 Il conflitto è stato analizzato secondo diversi aspetti2. L’analisi del conflitto tra gruppi o strati o classi sociali, risolvibile con la cessione di gran parte delle proprie libertà allo Stato, è formulata esplicitamente da Hobbes (Il Leviatano, 1651) con la teoria individualistica

1 Gallino, Luciano, Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1983, p.156. 2 ibidem, pp.156-161.

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dello Stato. Per la teoria individualistica, il conflitto è una condizione intrinseca dell’esistenza sociale caratterizzata da interessi particolari e generali che necessitano di un controllo da parte dello Stato in quanto potere superiore. Secondo Hegel il conflitto tra corporazioni, o ceti, o classi, è una condizione patologica derivante dal mancato riconoscimento della superiorità morale dello stato. Con la teoria organica dello Stato, Hegel propone che ogni interesse del singolo sia subordinato allo Stato in quanto essere superiore morale. Tale principio sarà sviluppato dagli hegelismi di destra e di sinistra sino alle estreme conseguenze. L’hegelismo di sinistra sviluppa il conflitto come contrasto tra classi sociali. Secondo Marx, esso è un carattere specifico delle società fondate su rapporti di produzione antagonistici, come la società feudale e borghese. Per tale motivo, secondo Marx, esso non esisteva nella comunità primitiva e non esisterà più nella società capitalistica. L’hegelismo di destra culmina nella dottrina nazista dello Stato, per cui il conflitto sociale è un morbo che inquina la solidarietà naturale della nazione quale totalità vivente. La difesa di tale comunità non ammette interessi di maggioranze o minoranze, pluralità di opinione o opposizione all’illimitato potere dello Stato. La sociologia positivista dell’Ottocento, segnala Gallino, ha mostrato scarso interesse per il conflitto; mentre nel Novecento ”sono compresenti due scuole sociologiche, l’una conflittualista, comprendente in primo luogo tutti gli indirizzi della sociologia marxista e radicale, l’altra integrazionista, formata da una gran parte di tutti gli altri indirizzi”.3 Simmel sottolinea le funzioni positive del conflitto. Egli considera la società a partire dall’azione e inter-azione degli individui tra di loro “la relazione sociale è la categoria teorica fondamentale in Simmel, per il quale essa è e deve essere pensata come interazione (…) o interdipendenza, o effetto reciproco, o effetto di reciprocità”.4 Il conflitto è una forma di interazione che va collocato tra le forme di processo sociale unificante: “Se ogni interazione tra uomini è un’associazione, il conflitto, che è dopotutto una delle più vivaci interazioni e che, inoltre, non può essere portato avanti da un individuo soltanto, deve certamente essere considerato come associazione”.5 Le stesse cause del conflitto assumono, nella visione dello studioso, una connotazione positiva in quanto odio, invidia, bisogno, desiderio, fanno esplodere il conflitto “che è un modo di raggiungere un qualche genere di unità”.

3 Ibidem, p.157. 4 Donati, Pierpaolo, Teoria relazionale della società, Milano, FrancoAngeli, 1991, p.46. 5 Simmel, G., Il conflitto della cultura moderna ed altri saggi, a cura di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, p.87.

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Secondo Simmel, la società per evolversi ha bisogno di dualismi quali l’armonia e la disarmonia, associazione e concorrenza, tendenze favorevoli e sfavorevoli che rappresentano categorie di interazioni che si presentano sempre come del tutto positive. Vi è una concezione abituale, secondo lo studioso, per cui la società reale e definita scaturisce solo da quelle forze sociali che sono solo positive e, nella misura in cui, le forze negative non lo impediscono. Tale concezione, secondo Simmel, è superficiale, un malinteso che deriva dal duplice significato del concetto di unità. L’unità è ”il consenso e l’accordo di elementi sociali, in contrapposizione alle loro discordie” ma essa è anche ”la sintesi totale in un gruppo di persone, energie e forme, la totalità conclusiva di quel gruppo, nella quale sono compresi tanto i rapporti unitari in senso stretto quanto i rapporti dualistici”6. Ciò che è negativo e dannoso, all’interno di singoli rapporti, non necessariamente, dunque, ha effetti dannosi sulla totalità dei rapporti. Per spiegare tale concetto egli ricorre alla metafora della vita, secondo cui essa mostra sempre due parti in opposizione tra loro: da una parte successo, felicità, forza, ecc.; dall’altra insuccesso, sofferenza, incapacità, fallimento. Secondo Simmel, dobbiamo considerare queste due differenziazioni polari come “una vita”; infatti “nel più comprensivo rapporto della vita, persino ciò che come elemento singolo è disturbatore e distruttivo, è del tutto positivo; non rappresenta il vuoto ma il compimento di un ruolo solo a lui riservato”7. Un’équipe di educatori, che operano all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, e che entrano in conflitto tra loro per diversi motivi (linea terapeutica degli utenti, responsabilità tecniche, turni e orari di lavoro, ecc.) è un gruppo che nella sua “sintesi totale” esprime vivacità, ricchezza di opinione e azione.

TIPOLOGIE E MODALITA’ DI RISOLUZIONE DEL CONFLITTO

L’opposizione espressa in un conflitto, permette all’individuo di non sentirsi completamente succube in un rapporto. In tal modo, essa esercita un’influenza distensiva, porta ad un equilibrio interno, rende vitali i rapporti sociali e, soprattutto, è un mezzo per conservare il rapporto e non sfuggirlo. Molti studi contemporanei che sottolineano le funzioni positive del conflitto, contro la tradizione sociologica che lo stigmatizza come patologia sociale, si richiamano alla visione simmeliana. Il pensiero di Simmel in merito alla interazione degli individui quale relazione sociale è, inoltre, il punto di partenza della teoria relazionale della società che considera i vari modelli e i metodi di

6 ibidem, p.91. 7 ibidem, p.90.

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indagine sociologica come casi particolari di un’analisi relazionale; afferma in tal senso Donati, riferendosi a Simmel “con lui la sociologia comprende per la prima volta che la realtà di ciò che chiamiamo sociale è intimamente relazionale”.8 Vi sono altre dimensioni, secondo Gallino9, di cui bisogna tener conto nella definizione del conflitto come il livello analitico del soggetto, la simmetricità o asimmetricità, lo scopo perseguito dalle parti e le risorse che essi si contendono. I soggetti del conflitto possono essere individui, gruppi, associazioni, classi o strati o raggruppamenti etnici o religiosi. La simmetricità/asimmetricità rimanda al fatto che ciascun soggetto può entrare in conflitto sia con uno o più soggetti del suo stesso livello, sia con soggetti di livello inferiore o superiore. Gli scopi differiscono a seconda del tipo e livello dei soggetto, della simmetricità o asimmetricità del conflitto, della situazione, della cultura che orienta i soggetti. Le risorse, per cui i soggetti agiscono, possono essere ricondotte a quattro grandi classi: ricchezza, potere, prestigio, strumenti. Un’altra distinzione è tra conflitto manifesto e latente. Tale distinzione si basa sull’ipotesi che il conflitto, osservabile tra due o più soggetti, sia la manifestazione di uno più diverso e profondo, di cui non si ha ancora una esatta percezione. L’osservazione del conflitto deve, quindi, indagare eventuali conflitti latenti per renderli manifesti. L’espressione risoluzione del conflitto designa “un processo mediante il quale la dipendenza reciproca delle parti in conflitto viene gradualmente accresciuta, in forme di cui i soggetti sono coscienti, sino a sfociare in qualche tipo di collaborazione"10. E’ importante notare che risoluzione del conflitto non significa scomparsa ma riduzione dello stesso. Gli uomini vivono il conflitto interpersonale (coppia), sociale (gruppo) e collettivo (organizzazione), in quanto forma di interazione. Spaltro e de Vito Piscicelli11 sottolineano gli aspetti positivi del conflitto:

• aumenta la consapevolezza del proprio ruolo e del proprio potere nella situazione relazionale con le reazioni della controparte;

• intensifica la mobilitazione dell’energia psichica e a essere più efficace nel raggiungimento degli obiettivi;

• stimola al mutamento e all’attività;

8 Donati, Pierpaolo, Teoria relazionale della società, Milano, FrancoAngeli, 1991, p.45. 9 Cfr. Gallino, Luciano, Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1983, pp. 158-159. 10 Ibidem, p.159. 11 Cfr. Spaltro, Enzo e de Vito Piscicelli, Paola, Psicologia per le organizzazioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1990, pp.111-134.

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• aumenta l’identità da parte delle due o più componenti implicate: ogni conflitto definisce meglio amici e nemici e la loro reciproca interazione. Le considerazioni suddette evidenziano l’importanza del conflitto quale forza unificatrice nelle relazioni. Il conflitto, sostiene Coombs12, ha una natura duale. Tale sentimento di dualità si distingue tra un essere e un dover essere, porta con sé un sentimento di colpa, cioè la paura di una punizione e la tendenza ad eliminarlo mediante comportamenti la cui finalità è la rimozione del conflitto. In tal modo, il singolo evita il conflitto e il possibile cambiamento che esso comporta. Tali comportamenti13 sono di due tipi:

1. Espiazione: ricorrendo a una mediazione, a una pratica espiatoria. Tali strategie inconsce mirano a produrre auto-soddisfazione togliendo all’altro il ruolo del danneggiatore.

2. Rimozione: riducendo la dualità (essere/dover essere) in unità con una rimozione, una razionalizzazione, una denegazione; questi elementi possono agire separatamente o tutti insieme. In questo caso, il conflitto crea attorno all’individuo la percezione di essere “solo contro tutti” e la paura di sbagliare ed essere puniti. La via di uscita consiste nel trovare un nemico, di solito falso, per poterlo accusare e proiettare su di esso il proprio senso di colpa. La difesa dal conflitto è alla base delle difese nei confronti del cambiamento. Ci interessiamo al problema della colpevolezza proprio perché da esso derivano molte resistenze all’idea del nuovo. La padronanza nella gestione del senso di colpa aiuta l’individuo a non temere il conflitto. In tal modo, le relazioni con gli altri fluiscono liberamente e le situazioni di conflitto non possono che risolversi costruttivamente.

1. La socializzazione è luogo privilegiato nella spiegazione delle resistenze al cambiamento: gli individui vivono numerose interazioni nei livelli della coppia, del piccolo gruppo e del collettivo. In esse sono chiamati a gestire il proprio senso di colpa. Il conflitto ha una sua logica ”in quanto strettamente legato alle relazioni interumane e al loro utilizzo per impiegare l’energia psichica”.14 Essa consiste nel dilemma tra povertà e ricchezza energetica. Il timore della povertà energetica o la speranza della ricchezza rappresentano un punto fondamentale per la comprensione e trattamento del conflitto. Il problema del singolo è se investire o no la propria energia psichica: cosa succede se non accontento un desiderio? Quale che sia la scelta, le conseguenze (allegria/tristezza) incidono sul singolo ma anche sul collettivo.

12 Coombs C.H., Avrunin G.S., The Structure of Conflict, London, Lea Hillsdale, 1988. 13 Cfr. Cargnello, D., Alterità e alienità, Milano, Feltrinelli. 14 ibidem, p.125.

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tratto da Spaltro

L’utilizzo delle energie disponibili in un individuo pone il problema dei rapporti tra desiderio e repressione. Lo schema 10 evidenzia il nesso desiderio-repressione: non vi è desiderio senza repressione. Inoltre, un eccesso di desiderio porta al bivio tra un comportamento liberante (antirepressivo) o di rimozione (eccesso di repressione). Quindi, se prevale il desiderio si va in rivolta; se prevale la repressione si va in frustrazione. Il conflitto rivolta-frustrazione è ricorrente nelle relazioni interpersonali in cui ognuno deve prendere, con la controparte, una posizione. In tali situazioni, ciascuno è chiamato a trattare il problema della paura che ogni conflitto porta con sé con il conseguente bilancio costi-benefici. Vi possoono essere tre stili di risposta al conflitto15: lo stile di evitamento, quello orientato alla soluzione dei problemi o cooperativo e quello antagonistico o distruttivo. Lo stile di evitamento e antagonistico possono essere complementari: se un soggetto percepisce il conflitto come assolutamente negativo cercherà di evitarlo ad ogni costo. Non accadrà nulla se entrambi i soggetti tendono ad evitare il conflitto. Se, invece, il soggetto evitante si trova in interazione con un soggetto competitivo si avrà conflittualità aperta e l’evitante non potrà sottrarvisi. Entrambi finiranno col convincersi delle proprie aspettative di partenza: l’evitante soccomberà e continuerà A pensare che il conflitto è negativo; l’antagonista vincerà e continuerà a pensare che fa bene a relazionarsi in tal modo. Quando in interazione si trovano due soggetti competitivi si assisterà ad una vera e propria “battaglia” che vedrà, alla fine, un vincente.

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Lo stile orientato alla soluzione dei problemi, o cooperativo, affronta il conflitto in maniera costruttiva: si confronta sui contenuti e dati oggettivi, ascolta, dichiara sentimenti e bisogni, evita offese e giudizi. Raggiungendo la soluzione dei problemi permette alle parti di apprendere dall’episodio conflittuale. Tale stile non presuppone un vincitore e un perdente ma è orientato alla formula “win to win”: entrambi le parti rimangono soddisfatte degli accordi raggiunti pur avendo dovuto rinunciare a qualcosa.

15 Deutsch M., the Resolution of Conflict: Constructive and descrutive Casebook, Irvington, New York, 1979.

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IL MEDIATORE ED IL (SUO) CONFLITTO

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E’ importante che il mediatore16 si renda conto e chiarisca alla coppia se il loro è un conflitto emotivo, di dati, di interessi, di valori. Se il conflitto è di tipo emotivo l’interazione sarà caratterizzata da risentimenti ed espressioni di rabbia con vere e proprie “scene madri” con frequenti fraintendimenti e visioni stereotipate dell’altro. In tal caso, il problema non è tanto sui contenuti e sulle informazioni ma è la relazione deteriorata che rende difficoltosa la mediazione. Nel conflitto di dati vi sono fraintendimenti o mancanza di informazioni, punti di vista, esperienze, procedure. Se il conflitto è di interessi il mediatore dovrà sforzarsi di far emergere la condivisibilità di essi o parte di essi; in tal caso, tuttavia, il problema principale deriva dal conflitto psicologico legato alla stima personale dei coniugi. Il conflitto di valori è inevitabile nell’interazione tra due o più persone; spesso tale conflitto si trasforma in conflitto di interessi e sarà compito del mediatore eliminare dal processo di mediazione il conflitto di valori non necessari al raggiungimento dell’accordo. Nel processo di mediazione è opportuno che il mediatore tenga presente e focalizzi subito l’atteggiamento emotivo di “chi lascia” e quello di “chi è lasciato”. La persona “che lascia” e che, molto probabilmente, è in preda ad un senso di colpa può risolvere tale sentimento con l’espiazione ed è quindi pronto a farsi carico di tutto. Al contrario può risolvere il senso di colpa con un processo di rimozione giustificando se stesso e colpevolizzando l’altro. La persona “lasciata” potrebbe avere un atteggiamento aggressivo e colpevolizzante o, al contrario, un atteggiamento remissivo dovuto al “colpo” inferto alla propia stima personale inferto dalla separazione in atto. Il mediatore deve anche interrogarsi sui pregiudizi personali legati al sesso, cultura, sembianze fisiche, modalità comunicative dei due contendenti. Può chiedersi se essi gli evocano figure che appartengono alla propria storia personale. Si rende dunque necessaria, a chi intende cimentarsi in tale processo, una buona consapevolezza del proprio “vissuto storico” specie quello legato a figure affettivamente importanti (genitori, fratelli o sorelle, partners, ecc.). E’ importante che tenga presente le aspettative, i timori, i desideri che potrebbero portare i due coniugi ad intentare “giochi” con il mediatore con l’obiettivo, conscio o meno, di “tirarselo dalla propria parte”. Nelle prime sedute, i coniugi litigheranno più per i risentimenti accumulati che per i contenuti sui quali si discute. In sostanza, il conflitto sarà incentrato più sulla relazione che sui contenuti. Compito del mediatore sarà di stimolarli a 16 Buzzi I., Haynes J., Introduzione alla Mediazione Familiare, Milano, 1996, Ed. Giuffrè.

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prendere decisioni sui “contenuti”. Gli sarà di aiuto un atteggiamento di ascolto e l’uso appropriato della tecnica della “riformulazione” con la quale sintetizza quello che i due dicono rimandando i contenuti in termini oggettivi e positivi. La riformulazione lo aiuterà anche a verificare che sta capendo quello che i due dicono. Potrebbe risultare decisivo un atteggiamento “bidirezionale”: proteso ed empatico sia verso un coniuge sia verso l’altro con la consapevolezza che, in quanto essere umano, non lo sarà mai perfettamente. Il mediatore dovrà fare i conti con il proprio stile di affrontare il conflitto che, in ultima analisi, è il frutto del vissuto che egli ha del proprio conflitto. Se tende ad evitare il conflitto potrebbe condizionare i coniugi a concludere il processo di mediazione con accordi poco elaborati e, quindi, dal futuro debole. Oppure, nella facile ipotesi di un’esplosione emotive dei due contendenti perdere il controllo della situazione. Un mediatore dallo stile antagonista potrebbe cadere nella trappola di uno o entrambi i coniugi ed entrare in un meccanismo di sfida. O lasciar fare il coniuge competitivo che tende a schiacciare l’altro più arrendevole. Lo stile cooperativistico, in ultima analisi, è quello che meglio si concilia alla filosofia della mediazione e del mediatore quale facilitatore di comunicazione, figura “bidirezionale” che spinge i due coniugi a lavorare sui contenuti ed a prendere decisioni condivise.

BIBLIOGRAFIA Buzzi I., Haynes J., Introduzione alla Mediazione Familiare, Milano, 1996, Ed. Giuffrè. Cargnello, D., Alterità e alienità, Milano, Feltrinelli. Coombs C.H., Avrunin G.S., The Structure of Conflict, London, Lea Hillsdale, 1988. Deutsch M., the Resolution of Conflict: Constructive and descrutive Casebook, Irvington, New York, 1979. Donati, Pierpaolo, Teoria relazionale della società, Milano, FrancoAngeli, 1991 Gallino, Luciano, Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1983, Simmel, G., Il conflitto della cultura moderna ed altri saggi, a cura di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, p.87. Spaltro, Enzo e de Vito Piscicelli, Paola, Psicologia per le organizzazioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1990, pp.111-134.