ConflittiBassaIntensita

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XXI Secolo - stampa di Marina Forti Guerre dimenticate L’espressione guerre dimenticate si è affermata nel vocabolario politico-giornalistico italiano nei primi anni del 21° sec. e contiene in sé una connotazione polemica: dimenticate sono le guerre di cui non si parla, conflitti che ricevono poca o distratta attenzione dall’opinione pubblica e dai media di un Paese europeo occidentale come l’Italia. La cronaca d’inizio secolo è stata segnata da almeno due guerre ‘celebri’ seguite con grande attenzione e passione dai media di tutto il mondo: la guerra in Afghānistān nell’autunno 2001 e l’invasione dell’Irāq nella primavera 2003. Bisogna constatare però che in un qualsiasi anno dello stesso decennio si poteva contare, oltre a questi, almeno una trentina di altri conflitti armati in corso nelle più diverse regioni del pianeta: eppure anche il più attento lettore di giornali avrebbe difficoltà a elencarli. In questo senso, guerra dimenticata è un’espressione che definisce più il comportamento dei media e dell’opinione pubblica che non la guerra stessa. Forse però non è casuale che nel vocabolario politico-giornalistico siano entrate in questi stessi anni anche espressioni come guerre non convenzionali, a bassa intensità, striscianti, asimmetriche, o semplicemente nuove guerre, e che nelle cronache belliche ricorrano sempre più spesso termini come pulizia etnica o genocidio che indicano forme di violenza brutale in cui le vittime non sono solo militari, ma popolazioni civili. Si potrebbe allora argomentare che la disattenzione pubblica rispetto ad alcuni conflitti armati sia almeno in parte dovuta alla natura e alla tipologia dei conflitti stessi. In altre parole: è possibile rintracciare alcuni elementi ricorrenti e comuni, oltre al fatto di essere dimenticati, nei numerosi conflitti armati che hanno insanguinato questo inizio secolo. Le nuove guerre Nell’anno 2007, secondo l’Armed conflicts report (pubblicazione annuale del progetto di ricerca canadese Project ploughshares) si registravano 30 conflitti armati attivi in diverse regioni del pianeta. Di questi, dodici venivano localizzati nel continente africano, undici in Asia, uno in Europa (la Cecenia), due nelle Americhe, quattro in Medio Oriente. L’anno prima Project ploughshares aveva registrato 29 conflitti armati: il numero più basso da quando aveva cominciato il suo monitoraggio nel 1987, tanto da parlare di un relativo declino dei conflitti armati dopo i turbolenti anni seguiti alla fine del bipolarismo. In effetti è utile risalire all’ultimo decennio del secolo scorso: dopo il 1989, anno del crollo del muro di Berlino, ben Treccani, il portale del sapere http://www.treccani.it/enciclopedia/guerre-dimenticate_(XXI-Secolo)/?... 1 di 16 12/02/2015 13:08

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    di Marina Forti

    Guerre dimenticateLespressione guerre dimenticate si affermata nel vocabolario politico-giornalistico italianonei primi anni del 21 sec. e contiene in s una connotazione polemica: dimenticate sono leguerre di cui non si parla, conflitti che ricevono poca o distratta attenzione dallopinionepubblica e dai media di un Paese europeo occidentale come lItalia. La cronaca dinizio secolo stata segnata da almeno due guerre celebri seguite con grande attenzione e passione daimedia di tutto il mondo: la guerra in Afghnistn nellautunno 2001 e linvasione dellIrqnella primavera 2003. Bisogna constatare per che in un qualsiasi anno dello stesso decenniosi poteva contare, oltre a questi, almeno una trentina di altri conflitti armati in corso nelle pidiverse regioni del pianeta: eppure anche il pi attento lettore di giornali avrebbe difficolt aelencarli.In questo senso, guerra dimenticata unespressione che definisce pi il comportamento deimedia e dellopinione pubblica che non la guerra stessa. Forse per non casuale che nelvocabolario politico-giornalistico siano entrate in questi stessi anni anche espressioni comeguerre non convenzionali, a bassa intensit, striscianti, asimmetriche, o semplicementenuove guerre, e che nelle cronache belliche ricorrano sempre pi spesso termini come puliziaetnica o genocidio che indicano forme di violenza brutale in cui le vittime non sono solomilitari, ma popolazioni civili. Si potrebbe allora argomentare che la disattenzione pubblicarispetto ad alcuni conflitti armati sia almeno in parte dovuta alla natura e alla tipologia deiconflitti stessi. In altre parole: possibile rintracciare alcuni elementi ricorrenti e comuni,oltre al fatto di essere dimenticati, nei numerosi conflitti armati che hanno insanguinatoquesto inizio secolo.Le nuove guerreNellanno 2007, secondo lArmed conflicts report (pubblicazione annuale del progetto diricerca canadese Project ploughshares) si registravano 30 conflitti armati attivi in diverseregioni del pianeta. Di questi, dodici venivano localizzati nel continente africano, undici inAsia, uno in Europa (la Cecenia), due nelle Americhe, quattro in Medio Oriente. Lanno primaProject ploughshares aveva registrato 29 conflitti armati: il numero pi basso da quandoaveva cominciato il suo monitoraggio nel 1987, tanto da parlare di un relativo declino deiconflitti armati dopo i turbolenti anni seguiti alla fine del bipolarismo. In effetti utile risalireallultimo decennio del secolo scorso: dopo il 1989, anno del crollo del muro di Berlino, ben

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  • 57 guerre hanno devastato 45 Paesi. Il picco stato raggiunto nel 1995, quando Ploughsharesregistrava 44 conflitti armati attivi contemporaneamente, tra cui diversi in Europa, daiBalcani al Caucaso.Ma come si contano le guerre? Diverse istituzioni si dedicano a monitorare la violenzaorganizzata nel mondo: tra le pi autorevoli si possono ricordare il SIPRI (StockholmInternational Peace Research Institute), il Conflict data project dellUniversit di Uppsala, ilcitato Project ploughshares canadese, fino al think tank internazionale Crisis group, chepubblica un bollettino mensile sulle aree di crisi potenziali, attuali o in via di risoluzione. IlSIPRI nel 2007 elencava 14 conflitti armati principali. In generale, tra lultimo decennio delNovecento e i primi anni del nuovo secolo tutte queste istituzioni hanno registrato ogni announ numero di guerre, crisi o conflitti armati oscillante tra la ventina e i 50 o pi. Ventina ocinquantina? Limprecisione dipende da cosa si intenda per conflitto armato.Le definizioni sono importanti. In primo luogo bisogna sottolineare che in nessun modo leparole guerra e conflitto vanno considerate sinonimi: conflitto non significa necessariamenteviolenza, n tantomeno guerra. Nella vita pubblica c conflitto quando individui o gruppi,forme di associazione collettiva e/o istituzioni esprimono interessi divergenti o altri motivi ditensione: le societ umane conoscono conflitti sociali, sindacali, politici che possonoesprimersi in varie modalit. Il conflitto parte importante delle relazioni tra individui e tragruppi, a patto ovviamente che sia regolato da norme condivise o comunque trovi forme dinegoziazione e soluzione: allora pu diventare unimportante occasione di crescita, un fattoredi democrazia. La contrapposizione pu, tuttavia, assumere forme estreme e generaretensioni non componibili, fino a precipitare in crisi violente e/o conflitti armati.Il diritto internazionale definisce conflitto armato internazionale luso della forza armata tradue o pi Stati sovrani (cio soggetti di diritto internazionale): la definizione pi classica diguerra, che si tratti di guerra dichiarata o di uno stato di guerra non riconosciuto da uno o piStati coinvolti. Rientra nella definizione di conflitto armato internazionale loccupazioneparziale o totale del territorio di uno Stato da parte di forza straniera, anche nel caso in cuiquesta occupazione non trovi alcuna resistenza militare. Il diritto internazionale definisceinoltre conflitto armato il caso di popoli che lottano contro una dominazione coloniale,unoccupazione straniera o un regime razzista, lotta considerata legittima nellesercizio deldiritto allautodeterminazione dei popoli consacrato dalla Carta delle Nazioni Unite.Il diritto internazionale contempla inoltre il conflitto armato non internazionale, che sisvolge cio allinterno del territorio di un singolo Stato (guerra civile) e coinvolge di solito leforze armate dello Stato (cio lautorit di governo riconosciuta) e forze armate dissidenti ogruppi ribelli armati e organizzati.Il conflitto bellico regolato da norme che discendono dalla Carta fondamentale delle NazioniUnite e da quelle del diritto internazionale umanitario (le successive Convenzioni di Ginevra)e queste norme si applicano tanto al conflitto armato internazionale quanto alla guerra civile.Sempre pi spesso per il mondo assiste a eventi bellici che sfuggono a queste definizioni. Ilsemplice elenco dei conflitti armati di questo decennio rivela che le guerre tra Stati sovranirappresentano ormai leccezione. Molto pi numerose sono le guerre interne a singoli Paesi,dove le parti in causa non sono necessariamente eserciti regolari, ma piuttosto combinazioni

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  • diverse di eserciti, forze ribelli, signori della guerra, milizie mercenarie. Guerre striscianti ecroniche, il pi delle volte senza formali campi di battaglia, in cui le popolazioni civili sonodeliberatamente coinvolte. sempre pi difficile cogliere in questi conflitti armati politicheorganizzate e unitarie: sbiadite le matrici ideologiche che apparivano cos nette nel mondobipolare, emergono lotte per il potere basate su appartenenze etniche e/o cultural-religiose,con alleanze variabili e imprevedibili. Spesso si tratta di conflitti asimmetrici, cio trasoggetti non equivalenti: governi contro guerriglieri, milizie ribelli o gruppi estremisti armati.La letteratura scientifica tende inoltre a distinguere la categoria dei conflitti armati sopraillustrata, in cui tutte le parti in campo usano le armi, dai conflitti violenti (violent conflicts,deadly conflicts), in cui la violenza esercitata da un solo lato contro civili non armati. Spesso registrato come conflitto armato anche il caso di scontri violenti in cui nessuna delle particoinvolte unautorit di governo riconosciuta: la categoria dei factional conflicts, i cuiprotagonisti sono fazioni locali, o signori della guerra, warlords, secondo lespressioneentrata nel linguaggio politico-giornalistico corrente con la guerra in Afghnistn del 2001 e ilsuo cruento dopoguerra.In queste circostanze sempre pi complicato distinguere tra combattenti e non combattenti,aggressori e aggrediti. Ed vano fare appello allapparato del diritto internazionale cheregolava in qualche modo i conflitti armati classici.Un altro parametro per definire una guerra la magnitudine della violenza esercitata. Lasoglia su cui concordano convenzionalmente quasi tutti i programmi di ricerca quella deimille morti in battaglia. LUppsala conflict data project, in associazione con il SIPRI diStoccolma, definisce i conflitti armati secondo quattro gradi di intensit. Il pi alto il majorarmed conflict: un conflitto armato, in cui almeno una delle parti coinvolte sia lesercito diuno Stato, che ha causato la morte in battaglia di almeno 1000 persone in un anno (esclusedunque le vittime civili); il pi basso il minor armed conflict, quando si contano almeno 25morti in battaglia in un anno e almeno mille in totale (ma non nello stesso anno).Altri criteri e definizioni per sono possibili. LUniversit olandese di Leiden, nel suoProgramma di ricerca interdisciplinare sulle cause prime di violazione dei diritti umani,distingue i conflitti ad alta intensit, che raggiungono la soglia dei 1000 morti in un anno(ma non necessariamente in battaglia) e si caratterizzano per luccisione indiscriminata dicivili non combattenti; i conflitti a bassa intensit, che causano invece tra le 100 e le 1000vittime in un anno e sono caratterizzati dalla transizione dalla guerriglia al conflittoconvenzionale; infine i conflitti politici violenti, in cui si verificano fino a 100 morti allannoe dove si assiste a una progressiva escalation da forme di confronto non violente a strategieviolente.Il coinvolgimento delle popolazioni civili un elemento ricorrente nelle guerrecontemporanee. Allinizio del 21 sec. si stima che l80% delle vittime dei conflitti armatisiano civili, non combattenti. Spesso i conflitti armati seguiti alla fine del bipolarismo hannodeliberatamente preso le popolazioni civili come obiettivo: attaccate per terrorizzare eannientare il nemico, colpite perch ne sono la parte pi vulnerabile. Lesodo di popolazioniin fuga da combattimenti e atrocit diventato parte della routine delle guerrecontemporanee, dalla Bosnia negli anni Novanta del secolo scorso fino alle attuali guerre

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  • africane. Quasi un ritorno a forme antiche di guerra: la pulizia etnica, il tentativo diannientare fisicamente laltro, in modo simbolico, con lo stupro, o letterale (genocidio).La violenza sulle donne durante una guerra non cosa nuova, ma colpisce luso sistematicodello stupro come arma per umiliare lavversario, gesto che richiama concezioni patriarcali dionore e appartenenza: colpire il nemico (uomo) attraverso la violazione delle sue donne. Iprimi rapporti sulluso dello stupro nella ex Iugoslavia erano stati compilati dalle NazioniUnite nel 1993 e avevano creato nellopinione pubblica europea orrore misto a imbarazzo:sembrava impensabile, perfino anacronistico, che qualcosa di cos bestiale avvenisse in unPaese europeo, in una moderna societ di donne emancipate. Con ogni evidenza,emancipazione e modernit non hanno messo le donne al riparo da una violenzaanacronistica. Stupri, mutilazioni, massacri di popolazione civile hanno segnato anche laguerra civile in Ruanda (1994) e pi di recente la crisi del Drfr in Sudan. In tutti questi casile donne sono oggetto di violenza, oltre che come donne, come esponenti di una comunit: Ilcorpo delle donne usato come campo di battaglia, scrive Karima Guenivet (2001; trad. it.2002). In Bosnia lo stupro e la gravidanza forzata servivano alla pulizia etnica (partorirai unpiccolo cetnico); in Ruanda lo stupro era accompagnato da mutilazioni di genitali, femminilie maschili, e puntava semplicemente a cancellare laltra etnia.Una cosa insegnano le cronache di guerra a cavallo del secolo: atrocit come uccisioni dimassa, stupri, villaggi bruciati ed esodi forzati non vanno considerati come tragici effetticollaterali dellevento bellico, perch ne sono in realt un elemento centrale. Si tratta diguerre combattute sulla popolazione civile.Gli strumenti del diritto internazionale, di fronte a simili crimini di guerra, sono aleatori. Allafine degli anni Novanta un accordo internazionale ha permesso di varare la Corte penaleinternazionale, con il mandato di indagare e giudicare crimini di guerra. Operativa dal 1luglio 2002, la Corte si occupata del Ruanda e pi di recente del Drfr. In questambito nelmarzo 2009 ha emesso un mandato di cattura internazionale per il presidente sudaneseOmar al-Bashir (Umar al-Bar), ritenuto responsabile di crimini di guerra e crimini controlumanit, primo esempio di incriminazione di un capo di Stato in carica.Il primo Tribunale per crimini di guerra costituito in Europa dopo la Seconda guerramondiale per quello creato per giudicare i crimini commessi nella ex Iugoslavia nelleguerre degli anni Novanta. Istituito nel maggio 1993, con una risoluzione del Consiglio disicurezza dellONU, si occupa di quanto avvenuto durante le guerre in Croazia (1991-1995), inBosnia Erzegovina (1992-1995) e in Kosovo (1998-99).La pi asimmetrica delle guerre contemporanee probabilmente anche quella che ha preso ilmondo pi alla sprovvista. Allinizio del 21 sec. infatti una nuova variabile entrata nelpanorama degli eventi bellici: il terrorismo internazionale. Non che il terrorismo sia unfenomeno nuovo, n sorprende che durante una guerra si possano verificare azioni di tipoterroristico. La parola terrorismo del resto stata utilizzata nel tempo per fenomeni moltodiversi tra loro e non ne esiste una definizione universalmente accettata. importante persottolineare che il termine allude a una modalit di lotta (colpire obiettivi senza importanzamilitare, ma di grande rilevanza politico-psicologica, attaccare civili inermi per intimidiregoverni e cittadinanze) pi che alla causa perseguita: azioni terroriste sono avvenute durante

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  • lotte di indipendenza nazionale, peraltro legittime, come nel corso di campagne di odio efanatismo.Certo che i termini del discorso sono irrimediabilmente cambiati con lattacco alle TwinTowers di New York e al Pentagono a Washington l11 settembre 2001. Non solo per ilnumero delle vittime, senza precedenti per un singolo attacco terrorista (quasi tremila morti),n solo perch lattacco avvenuto nel territorio di quella che considerata la primasuperpotenza mondiale, cosa di indubbio impatto politico-psicologico. Il punto che il crollodelle Torri gemelle ha inaugurato nel pi tragico e spettacolare dei modi una guerra suigeneris, dove da un lato c uno Stato (anzi, una superpotenza dotata del pi moderno eschiacciante arsenale militare) e dallaltro un soggetto non statale, non territoriale; non unesercito e neppure una classica forza guerrigliera, bens un soggetto sfuggente, unito da unaforte ideologia, ma organizzato in reti a geometria variabile, capace di manifestarsi di volta involta sulle montagne afghane o nel cuore delle grandi capitali europee.La risposta degli Stati Uniti agli attacchi dell11 settembre 2001 stata proclamare unaguerra al terrorismo combattuta su diversi fronti, di cui i pi visibili sono stati lAfghnistndei libn e lIrq di Saddam Hussein (addm usayn): sono quelle che qui abbiamodefinito le guerre celebri di inizio secolo. Altri fronti sono stati meno visibili: la guerra controle forze separatiste musulmane nellisola di Mindanao nelle Filippine, contro gruppi armatiislamici di ispirazione salafita nella regione del Sahara, contro le forze coagulate nelle Cortiislamiche nella Somalia in preda al caos, e ancora la guerra cronica contro i gruppi armatiindicati come rimasugli di al-Qida o nuovi libn nella regione montagnosa alla frontieratra Pakistan e Afghnistn. Alcune di queste attulamente sono scivolate tra le numeroseguerre dimenticate.Perch scoppiano le guerre dimenticateQueste definizioni aiutano a distinguere i numerosi conflitti armati del presente. difficileper proseguire in questanalisi senza considerare il quadro delleconomia mondiale alla finedel 20 secolo. Anche in questo ambito la fine del bipolarismo segna uno spartiacque, perquanto molti dei fenomeni che evidenzieremo abbiano radici pi lontane.Nei primi anni Novanta del secolo scorso, nel sistema di istituzioni delle Nazioni Unite erainvalso un certo ottimismo: la fine del bipolarismo avrebbe liberato ingenti risorse finanziariefino ad allora usate per alimentare la corsa agli armamenti. Il dividendo della pacefinalmente sarebbe stato investito nello sviluppo sociale e nella lotta alla povert, e questoavrebbe senza dubbio consolidato la pace. Si andava affermando allora tra economisti edesperti internazionali il concetto di sviluppo umano, ispirato dalleconomista e filosofoAmartya Sen e basato sulla convinzione che lo sviluppo di una nazione non si possa valutaresolo sulla sua crescita economica, convenzionalmente misurata con laumento del prodottointerno lordo (PIL), quanto piuttosto sulla sua capacit di garantire ai cittadini unesistenzalunga e sana, un buon livello di istruzione, un tenore di vita decente e la capacit dipartecipare consapevolmente alla vita pubblica. La crescita del reddito nazionale insommanon garantisce in s lo sviluppo, se non accompagnata dallinvestimento in sanit,istruzione, servizi sociali e cos via. Nel 1990 leconomista Mahbub ul Haq ha tradotto questaidea in un indice di misurazione (HDI, Human Development Index) che combina speranza di

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  • vita, istruzione della popolazione adulta e reddito. Da allora lUnited nations developmentprogramme (UNDP) classifica le nazioni secondo lindice HDI nel suo annuale Humandevelopment report. Estendendo il criterio dello sviluppo umano, nel 1994 lUNDP ridefinivaanche il concetto di sicurezza: protezione non solo da violenza interna o esterna, ma anchedalle minacce di fame, malattie, disoccupazione, criminalit, repressione politica, degradoambientale.In quello stesso decennio abbiamo assistito a unaccelerata trasformazione nei sistemidelleconomia mondiale. Crollato limpero sovietico e il suo sistema economico, il liberismoera ormai il modello egemone. Negli anni Novanta un insieme di trattati internazionali sulcommercio (alla base della creazione della WTO, World Trade Organization) ha spinto gliStati a cedere quote crescenti di sovranit in campo economico per adottare politiche basatesulla liberalizzazione totale del commercio e dei capitali, leliminazione delle barriere, laprogressiva privatizzazione di propriet e attivit economiche statali e perfino di servizipubblici come listruzione e la sanit. In gran parte dei Paesi in via di sviluppo, questo haaccelerato ed esteso la portata di scelte dettate gi da tempo dalle organizzazioni finanziarieinternazionali (in particolare la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale) chehanno condizionato la concessione di crediti allapplicazione di piani di aggiustamentostrutturale delle economie invariabilmente orientati a privatizzare attivit economiche eservizi e a promuovere la produzione per lexport. Nellinsieme, aumentata la capacit dellagrande finanza e delle istituzioni finanziarie internazionali di determinare le scelteeconomiche e politiche dei singoli Paesi, in particolare delle economie meno forti,semplicemente spostando capitali e concedendo (o negando) crediti.Esula dagli intenti di questo articolo approfondire il tema della globalizzazione economica.Basti qui notare che la globalizzazione ha creato opportunit senza precedenti per alcuni,mentre altri ne sono rimasti esclusi. Alle soglie del 21 sec. assistiamo cos a un vertiginososquilibrio tra Paesi ricchi e Paesi poveri, tra regioni industrializzate e non, Paesi inclusi oesclusi dai flussi globali delleconomia. Lo sviluppo diseguale che aveva caratterizzato laseconda met del Novecento si approfondito nellepoca delleconomia globalizzata; anchenei Paesi che finalmente registrano buoni tassi di crescita per cresciuto il gap interno traricchi e poveri, inclusi ed esclusi. Non si tratta solo dellaccesso a beni di consumo: lapolarizzazione tra chi ha o non ha accesso anche alla salute, allistruzione, ai flussi diinformazione, ai processi decisionali delleconomia globale.Alla polarizzazione Est-Ovest del mondo bipolare si dunque sostituita, secondo ladefinizione di Maurizio Simoncelli, direttore dello staff di ricerca dellArchivio disarmo, unapolarizzazione tra ricchi e poveri (Le guerre del silenzio, 2005). Queste diseguaglianzehanno ripercussioni a tutto campo: sociali, politiche, economiche, perfino ambientali. Ilsovrasfruttamento delle risorse naturali produce fenomeni ormai impressionanti di degradoambientale, che a loro volta accentuano la miseria umana; la povert estrema e/o i disastrinaturali e le carestie spingono allesodo masse di profughi in cerca di sopravvivenza. Daltraparte, il divario sempre pi visibile tra le regioni depresse e il mondo pi ricco spinge milionidi persone a muoversi e migrare, seguendo linsopprimibile spinta a cercare miglioramentomateriale e nuove opportunit per s e per i propri figli. Uno squilibrio profondo che genera

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  • dunque fenomeni sociali e politici sempre pi difficili da gestire, con crescenti rischi diinstabilit che possono infine precipitare in numerosi conflitti armati.Linsieme di squilibri ambientali e sociali divenuto un elemento di fondo di tutte le analisisulla diffusione dei conflitti armati: il SIPRI, nellintroduzione del suo Yearbook 2007,sottolinea il concetto di rischio e di politiche di sicurezza basate sullanalisi del rischio(risk-based security analysis): Politiche pubbliche che tengano conto dellintero spettro deirischi inclusi i disastri naturali e le vulnerabilit sociali ed economiche, oltre ai conflitti e alterrorismo hanno pi chances di valutare correttamente le priorit.Il boom della spesa militareSe lo sviluppo umano resta un lontano obiettivo, anche il dividendo della pace si rivelato inbreve tempo unillusione. La spesa militare, diminuita in effetti nei primi anni seguiti al crollodellUnione Sovietica, ha ricominciato a crescere nella seconda met degli anni Novanta.Linsieme della spesa militare mondiale annua ammontava a 762 miliardi di dollari nel 1993,era sceso a 691 miliardi nel 1996, aveva riguadagnato quota 723 miliardi di dollari nel 2000(SIPRI, Yearbook 2003) per poi superare nel 2003 il livello di dieci anni prima, e continuarea crescere. Nel 2007 la spesa militare mondiale ha raggiunto i 1339 miliardi di dollari, stima ilSIPRI (Yearbook 2008): si tratta di un aumento in termini reali del 6% rispetto allannoprecedente e del 45% in dieci anni. Questa cifra rappresenta il 2,5% del PIL mondiale nel2007.Gli Stati Uniti hanno aumentato la propria spesa militare del 59% in termini reali tra il 2001 eil 2007, soprattutto in ragione dei 381 miliardi di dollari destinati alle operazioni inAfghnistn, Irq e altrove nellambito della guerra al terrorismo, ma anche per laumentodel budget militare di base che nel 2007 stato il pi alto dalla fine della Seconda guerramondiale. La spesa militare degli Stati Uniti, 547 miliardi di dollari nel 2007, rappresenta il45% del totale mondiale. Sempre nel 2007 la Cina era il terzo Paese al mondo per spesamilitare, con 58,3 miliardi di dollari, superando la Francia in cifre assolute, anche seovviamente non pro capite. La spesa militare aumentata complessivamente nei PaesidellEuropa orientale del 15% nel 2007, il maggiore aumento percentuale al mondo, in granparte dovuto allaumento (+13%) della spesa militare della Russia. Laumento minore quelloregistrato in Europa occidentale. Nel decennio 1997-2007, sei regioni hanno aumentato lapropria spesa militare di oltre il 50% in termini reali: sono, nellordine, Europa Orientale,America Settentrionale, Medio Oriente, Asia meridionale, Africa, Asia orientale (SIPRI,Yearbook 2008).Va da s che anche la produzione e il commercio di armamenti conoscano un vero e proprioboom. Le 100 maggiori aziende al mondo (escluse quelle cinesi) hanno venduto nel 2006armamenti per un totale di 315 miliardi di dollari, secondo la stima del SIPRI (Yearbook2008). Gli Stati Uniti e la Russia sono stati i maggiori esportatori di armamenti convenzionalitra il 2003 e il 2007: insieme a Germania, Francia e Regno Unito coprono l80% del volumedelle vendite. I maggiori importatori al mondo sono stati, in quel periodo, Cina, India edEmirati Arabi, anche se con un relativo declino delle ordinazioni cinesi.Quando si parla di grandi importatori, ci si riferisce spesso allacquisto di armamentisofisticati, ad alta tecnologia. Si noti per che la richiesta di armi proveniente da Paesi in via

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  • di sviluppo, che si tratti di governi o di forze ribelli o irregolari, riguarda piuttosto armi nonavanzate tecnologicamente: la gran parte delle guerre pi o meno dimenticate dei nostritempi sono in fondo combattute con armi piccole e leggere, economiche, facili da usare eaggiustare. Una delle armi leggere pi devastanti per il suo effetto a lungo termine rappresentata dalle mine antiuomo, devastanti soprattutto perch restano sul terreno perlunghi anni anche dopo la fine dei conflitti e continuano a fare un gran numero di vittimecivili: si calcola che in media 20.000 persone vengono uccise o mutilate ogni anno nei campi,nei villaggi, sulle strade. La vendita, luso e lo stoccaggio delle mine antiuomo sono ormaibanditi dal Trattato di Ottawa del 1997, cui nel 2007 avevano aderito 158 Paesi, ma non StatiUniti, Cina, Russia e India; e questo fa s che le mine continuino a circolare in modomassiccio. Nel maggio 2008 si riunita a Dublino (Irlanda) una conferenza internazionalecon lobiettivo di bandire anche le bombe a grappolo (cluster bombs) che disseminano sulterreno oggetti esplosivi spesso non riconoscibili come tali dalla popolazione civile mietendovittime ben al di l dei campi di battaglia. La prima tornata di negoziati non ha per raggiuntoalcun accordo.Infine, nel 2006 il numero di militari e personale dispiegato in missioni di pace(peacekeeping) era pi alto che in ogni anno precedente e anche la spesa in missioni di paceha raggiunto livelli senza precedenti. Quellanno erano attive 60 missioni di pace, di cui 20guidate dalle Nazioni Unite, 33 da alleanze e organizzazioni regionali (come quelle dellaNATO o dellUnione africana) e 7 da coalizioni ad hoc. Se si esclude la Forza multinazionalein Irq, che costituisce un caso a parte, impiegavano 167.600 persone, tra militari e civili,con un costo combinato di 5,5 miliardi di dollari nel 2006 (SIPRI, Yearbook 2007).Un excursus bellicoLa guerra dunque non mai scomparsa dalla scena. Lultimo decennio del 20 sec. eracominciato con linvasione irachena del Kuwait (ag. 1990) e la prima guerra del Golfo (1991),destinata a lasciare una pesante eredit di tensioni, premessa del ciclo di guerra e terrorismoesploso a partire dal 2001. seguito lintervento internazionale in Somalia nel 1992, prestotrasformatosi in una guerra tra i peacekeepers e i signori della guerra locali. in quel decennio del resto che la guerra tornata anche in Europa dove era scomparsa dallafine della Seconda guerra mondiale: nei Balcani (con limplosione della Iugoslavia e la nascitadi repubbliche separate) e nel Caucaso, con la ridefinizione di poteri e territori dopo il crollodel potere centralizzato dellUnione Sovietica. degli stessi anni il genocidio in Ruanda (1994) e linizio della guerra nella RepubblicaDemocratica del Congo (1996), a volte chiamata prima guerra mondiale africana, perch vihanno preso parte le forze armate di sei Paesi del continente, arrivando a coinvolgere fino acentomila soldati. A margine, decine di crisi cronicizzate e per lo pi ignorate dai media.Come gi notato, le tendenze osservabili nel 2007-08 dicono che il numero dei conflittiarmati in relativo declino, anche se resta alto. Nella categoria major armed conflicts, ilSIPRI segnala, nel suo Yearbook 2007, un accentuato transnazionalismo delle guerre incorso, ovvero un accresciuto ruolo di diaspore e reti di gruppi combattenti o terroristi. InAfghnistn, per es., il governo centrale, sostenuto dalla presenza di una Forzamultinazionale della NATO sotto mandato ONU, continua ad affrontare lopposizione armata

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  • dei libn, che ha consolidato basi e supporto logistico nel vicino Pakistan. Questo Paese, asua volta, conosce un conflitto interno strisciante con i libn pakistani nelle regioni allafrontiera con lAfgnistn.Non ci soffermeremo qui sul conflitto israelo-palestinese, uno dei pi presenti sui mediaitaliani.La Somalia, sprofondata in una profonda crisi che lha resa, dai primi anni Novanta, campo dibattaglia dei signori della guerra, tra il 2005 e il 2006 anche diventata un punto focale siadella guerra globale al terrorismo statunitense, sia di interessi regionali (nel 2007 lEtiopia intervenuta a sostegno del Governo federale di transizione di Mogadiscio contro le milizieorganizzate nelle Corti islamiche; lintervento si concluso nel gennaio 2009 con il ritiro delletruppe).LAsia resta la regione in cui si registra il pi elevato numero di conflitti armati maggiori:oltre allAfghnistn si segnalano il Kashmir; le guerre etniche in Myanmar; lo Sr Lak dove ripresa la ventennale guerra tra lesercito governativo (della maggioranza etnica cingalese) eil movimento secessionista armato della minoranza Tamil; la guerra tra il governo delleFilippine e il Moro national liberation front nellisola di Mindanao.Laltra regione pi rappresentata in questo elenco lAfrica, anche se non necessariamentenella categoria dei conflitti maggiori. Oltre alla citata Somalia si pensi al Sudan, dove nel2004 finito lannoso conflitto tra il governo centrale arabo-islamico e i ribelli del Sudanpeoples liberation movement che rivendicavano una regione autonoma nel sud animista-cristiano: la pace resta fragile, ma nei primi mesi del 2009 ancora resisteva. Nel 2003 eraesploso un conflitto nella regione occidentale del Drfr, ai confini con il Ciad, che vedevaopporsi lesercito governativo e due principali gruppi ribelli (Justice and equality movemente Sudan liberation movement). Nel conflitto intervenivano contro i ribelli anche milizieirregolari, anwd, responsabili di feroci incursioni contro la popolazione civile.Bombardamenti di villaggi e scorrerie di miliziani hanno finora ostacolato laccesso aosservatori e operatori umanitari; il conflitto del Drfr stato definito genocidio dalleNazioni Unite, che nel luglio 2007 hanno deliberato linvio di una missione di peacekeepingdi 26.000 uomini, missione congiunta ONU-Unione africana. Il governo sudanese ne haaccettato la presenza, ma il dispiegamento stato solo parziale. Nel frattempo per la crisi si estesa al Ciad.Si aggiungano ancora lUganda, dove nel novembre 2008 definitivamente fallito untentativo di pace negoziata tra il governo centrale e i ribelli del Lords resistance army: gliormai 19 anni di guerra civile hanno fatto decine di migliaia di morti e costretto a sfollare 1,6milioni di persone. Le Nazioni Unite stimano inoltre che i ribelli abbiano rapito circa 20.000bambini.Nel 2007 una certa normalit sembrava tornata in Sierra Leone e Costa dAvorio, che neglianni precedenti avevano conosciuto un ciclo sanguinoso di ribellioni e guerre civili.Segnaliamo ancora la Nigeria, dove serpeggia il conflitto tra il potere centrale e linsorgenzaarmata della setta al-Sunna wa al-ama (i cui componenti sono stati spesso designaticome i libn neri) nelle regioni del Nord, mentre a Sud la regione petrolifera dellimmensodelta del fiume Niger vive una nuova escalation militare, dopo quella sperimentata nei primi

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  • anni Novanta. Una crisi in cui intervengono lesercito mandato a proteggere le installazionipetrolifere, le milizie di sicurezza private delle aziende petrolifere medesime, movimenti diprotesta pi o meno violenti, come il Movement for the emancipation of the Niger Delta, egang armate e agguerrite che si dedicano a un fiorente commercio parallelo di greggio (circa il10% del petrolio estratto, si stima, prende la via del contrabbando). Le organizzazioniinternazionali hanno raccolto testimonianze di raid con elicotteri contro villaggi ribelli e diviolenze indiscriminate da parte di militari e milizie private.Infine, nellAmerica Meridionale resta attivo il conflitto che lacera la Colombia, dove siaffrontano lesercito governativo e una trentennale guerriglia rivoluzionaria (le Fuerzasarmadas revolucionarias de Colombia e lEjrcito de liberacin nacional), ma il quadro complicato dalla presenza di un narcotraffico agguerrito, di milizie paramilitari nate a voltecome guardie private per il settore estrattivo (petrolio, smeraldi) e a volte come squadre dellamorte, in ogni caso usate per il lavoro sporco. A complicare ulteriormente il quadro, inColombia sono presenti forze armate degli Stati Uniti nellambito del Plan Colombia.I luoghi delle guerre dimenticateLelenco non pretende di essere esaustivo, ma gi permette di notare che gran parte dellaconflittualit armata sviluppatasi a cavallo del nuovo secolo ha luogo in Paesi in via disviluppo oltre che, come gi accennato, nelle zone periferiche e marginali dellex imperosovietico: cio per lo pi nella parte del pianeta pi povera e svantaggiata dai flussi globalidelleconomia. Project ploughshares ha sovrapposto la mappa dello sviluppo umano conquella dei conflitti armati avvenuti tra il 1997 e il 2006: si pu constatare cos che appenal1,6% dei Paesi ad alto sviluppo umano stato interessato da eventi bellici, contro il 30% deiPaesi a medio e il 39% di quelli a basso sviluppo umano.Le cause profonde vanno probabilmente cercate proprio nello sviluppo diseguale, oltre chenei processi di decolonizzazione incompiuti. Con la Seconda guerra mondiale, e poi negli anniSessanta e Settanta del secolo scorso, le allora colonie in Africa e Asia hanno via viaconquistato lindipendenza; con poche eccezioni per le ricchezze delle nuove nazioni sonorimaste sostanzialmente sotto il controllo delle ex potenze coloniali (anche se ormai per lo piattraverso grandi aziende private, multinazionali).Prendiamo, per es., lAfrica: dopo un primo periodo di ottimismo, spesso le nuove nazionipostcoloniali sono entrate in crisi. Le ricchezze sono rimaste concentrate nelle mani di piccolelites locali legate a interessi stranieri, le economie non sono decollate. Le istituzionidemocratiche non sono riuscite a consolidarsi, le amministrazioni sono rimaste monopolio digruppi ristretti spesso appartenenti alluna o allaltra delle componenti etniche dei nuoviStati; i meccanismi di successione spesso sono stati dinastici o di clan. Questo ha contribuitoa generare tensioni interne e scontri tra diversi gruppi sociali per il controllo del potere e dellerisorse; non di rado tali tensioni sono sfociate in colpi di Stato, ribellioni armate, guerriglie;cosa che ha contribuito a spaccare ulteriormente le nuove nazioni e a impoverirle. Nelfrattempo la popolazione in queste regioni cresciuta, e cos anche la tendenza allamigrazione dalle zone rurali impoverite e teatri di conflitto verso le aree urbane, ormaiattorniate da baraccopoli in cui si riproducono povert e tensioni sociali.In un mondo bipolare i conflitti e le fratture sociali tendevano ad assumere la forma di

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  • contrapposizioni politico-ideologiche, anche perch spesso i contendenti cercavano sostegnopresso una o laltra delle potenze mondiali. Alla fine del 20 sec., perse le coloritureideologiche, le lotte di potere hanno fatto leva piuttosto sulle appartenenze, di solito etniche oreligiose (cosa non difficile, se si pensa che i confini degli attuali Stati postcoloniali sonospesso creazioni artificiali, risultato di spartizioni tra le vecchie potenze che non avevanotenuto conto della distribuzione delle popolazioni sul territorio; inoltre non di rado le potenzecoloniali avevano usato i gruppi etnici gli uni contro gli altri per mantenere il loro dominio,creando o accentuando conflitti).Anche per questo motivo, al pubblico della lontana Europa queste guerre appaiono il pi dellevolte indecifrabili e, nella difficolt di distinguere cause profonde, torti e ragioni, vengonoliquidate come guerre intestine, perenni conflitti tribali.Guerre per le risorse naturaliSpesso, in queste lotte di potere sfociate in conflitto armato, il controllo delle ricchezzenaturali la posta in gioco quanto e a volte pi del controllo del potere politico. Il petrolio (sipensi alla Nigeria e alle serpeggianti ribellioni armate nella regione petrolifera del Delta delNiger), luranio, i diamanti, il coltan, il legname tropicale e infinite altre: sono ricchezzeimmense, materie prime che muovono le moderne economie industrializzate, oggetto dispartizione tra lites locali e grandi attori delleconomia globale. Anche per questo, non dirado allombra di guerre croniche, sono cresciute intere economie criminali: prosperanotraffici e trafficanti mentre le economie nazionali crollano e si moltiplicano i casi di failedStates (Stati falliti), in un circolo vizioso che tende a perpetuarsi (Collier, Elliott, Hegre et al.2003).Limportanza delle risorse naturali nelle nuove guerre merita una sottolineatura. MichaelRenner, ricercatore del Worldwatch institute di Washington, osserva che su una cinquantinadi crisi violente e conflitti armati presenti nellanno 2001 almeno un quarto era in qualchemodo legato al controllo di risorse naturali: nel senso che lestrazione e lo sfruttamento legaleo illegale di una ricchezza naturale costituiva una delle cause e/o poste in gioco del conflitto, ocontribuiva a esacerbarlo, o permetteva di finanziare la sua continuazione (Renner 2002). Gliesempi sono numerosi, vanno dalla guerra civile in Cambogia negli anni Novanta (dove sia laguerriglia dei Khmer rossi, sia lesercito governativo si sono finanziati con il legnametropicale pregiato), a quella che fino a tutto il 2002 ha devastato lAngola (dove un cicloventennale di guerra civile aveva perso ormai ogni connotato ideologico e le miniere didiamanti erano diventate il vero oggetto della ribellione armata contro il governo centrale). Sipotrebbero aggiungere leconomia della coca in Colombia e quella delloppio in Afghnistn.La guerra del Congo forse lesempio pi impressionante: nella seconda fase del conflitto, trail 1998 e il 2002-03, gli eserciti di sei Paesi africani sono accorsi a sostegno delle diversefazioni in lotta nella Repubblica Democratica del Congo, governativi o ribelli, e tutti sono statiripagati con ricche concessioni minerarie: il presidente ruandese Paul Kagame lavevadefinita una guerra che si autofinanzia. Le Nazioni Unite hanno incaricato un gruppo adhoc di esperti di indagare sul nesso tra sfruttamento illegale di risorse e approvvigionamentodi armi nella Repubblica Democratica del Congo. Il rapporto consegnato al Consiglio disicurezza dellONU nellautunno 2003 conteneva un ampio capitolo sul traffico darmi e

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  • affermava che lo sfruttamento illegale [di risorse naturali] resta una delle principali fonti difinanziamento dei gruppi responsabili di perpetuare il conflitto, specialmente nelle regioniorientali e nord-orientali.Il nesso tra guerra e risorse naturali mette in luce unaltra caratteristica delle nuove guerredi questo inizio secolo: conflitti armati geograficamente remoti, poco presenti sui massmedia, di cui sempre pi difficile comprendere ragioni e torti e perfino individuareprotagonisti e alleanze, sono per estremamente globalizzati. Un caso paradigmatico quellodel coltan, o colombite-tantalite, minerale indispensabile allindustria elettronica avanzata (usato per fabbricare i condensatori che regolano il flusso di corrente nei circuiti integrati,presenti in tutti i prodotti ad alta tecnologia, dai telefoni cellulari alle PlayStation, aicomputer di bordo di un jet, ai sistemi elettronici militari). Tra il 2000 e il 2001 il boomdellindustria dellinformazione e delle comunicazioni aveva portato a unimpennata delladomanda mondiale di coltan, e al quasi esaurimento delle riserve disponibili. Nelle regionidel Kivu, Bukavu e Ituri, in Congo occidentale, il coltan abbondante in giacimentisuperficiali, dove lestrazione richiede poca tecnologia: basta scavare, setacciare, ripulire conattrezzature elementari. Cos in pieno conflitto migliaia di persone si sono buttate in questaattivit mineraria da poveri: il coltan estratto veniva raccolto da intermediari che loportavano a grossisti e infine ad aziende di export a Kampala o Kigali, le capitali dei viciniUganda e Ruanda. Il coltan congolese ha dato allindustria elettronica mondiale la flessibilitnecessaria a far fronte a una contingente penuria della materia prima fornendo, inoltre, allefazioni in guerra unabbondante fonte di finanziamento e procurando ai cercatori unmiserabile reddito di sopravvivenza (Forti 2004).Dunque i minerali estratti nel Congo sono volati direttamente sui mercati internazionali. Allostesso modo, il legname tagliato sui monti della Cambogia finisce nei mobilifici di Cina, StatiUniti, Europa. I diamanti estratti in Angola sono arrivati nelle gioiellerie di Roma, Londra oNew York, finanziando grandi acquisti illegali di armi. Tra i minatori di coltan immersi nelfango delle foreste congolesi, il sangue della guerra e i telefonini prodotti dallindustriahigh-tech esiste dunque un filo diretto.Tutto questo non chiama in causa solo milizie ribelli e trafficanti, ma coinvolge grandi societminerarie, aziende dintermediazione commerciale, agenzie di trasporti e linee aeree,industrie, banche. Le responsabilit variano dal ruolo attivo di chi va a estrarre risorse inzone di guerra alla complicit silenziosa di chi fa affari con un certo regime o una determinataforza ribelle. Chiamano in causa attori insospettabili: chi commercia i diamanti angolani, chiacquista il coltan estratto in Congo, chi vende mine antiuomo e altre armi poco tecnologiche,ma letali.Globali sono anche le implicazioni di queste guerre: le masse di rifugiati, il futuro di interepopolazioni, la devastazione ambientale, il traffico darmi e le mafie che lo controllano, lafragilit dei diritti umani e la trasparenza delle aziende corporate accountability, contermine anglosassone in uneconomia globalizzata.Nel 2005 il Worldwatch institute di Washington ha lanciato un programma biennale diricerca sullintersezione tra disastri naturali, degrado ambientale, conflitti armati epeacemaking. Ha analizzato tra laltro i casi di Aceh (provincia settentrionale di Sumatra,

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  • Indonesia) e di Sr Lak, le due regioni pi colpite dallo tsunami che il 26 dicembre 2004 hadevastato i Paesi affacciati sullOceano Indiano. Al momento del disastro naturale sia Aceh,sia le regioni settentrionali e nord-orientali di Sr Lak erano interessate da conflitti civilipi che ventennali tra i governi centrali e forze separatiste; limmane devastazione provocatadallo tsunami ha portato le parti a sospendere le ostilit (nel caso di Aceh) o a rinsaldare unafragile tregua (in Sr Lak) per permettere le operazioni di soccorso, anche grazie a unmassiccio intervento umanitario internazionale. In entrambi i casi le forze internazionalihanno anche garantito una certa mediazione tra le parti, sempre in riferimento ai soccorsi;infine si sono concretizzate mediazioni internazionali per riaprire negoziati di pace. Lesito stato positivo nel caso di Aceh, dove le forze separatiste e il governo centrale indonesianohanno infine trovato un assetto di pace; non cos a Sr Lak, dove la tregua negoziata nel2002 era gi stata rotta da entrambe le parti quando nel gennaio 2008 il governo di Sr Lakha formalmente ripreso le ostilit; nel gennaio 2009 lesercito, attuando una massicciaoffensiva, ha conquistato i bastioni ribelli.Perch alcuni conflitti sono dimenticati e da chiA cavallo del secolo una ricerca promossa dalla Caritas italiana, con la collaborazione delleriviste cattoliche Famiglia cristiana e Il regno, ha cercato di analizzare i motivi delladisattenzione dellopinione pubblica e dei media italiani nei confronti dei numerosi conflittiarmati in corso nel mondo.La ricerca, coordinata da Francesco Strazzari e Giampiero Giacomello, si svolta tra ilgennaio 1999 e il giugno 2001 e ha messo a confronto un paio di conflitti celebri (Palestina eKosovo), con cinque casi-studio di conflitti annosi che per sono risultati meno noti alpubblico (Angola, Colombia, Guinea-Bissau, Sierra Leone, Sr Lak). I ricercatori hannoesaminato linformazione (TV, radio, stampa, Internet e agenzie di stampa) e sondato uncampione rappresentativo della popolazione italiana; hanno cos cercato di capire che cosaimpone allattenzione alcuni conflitti e ne spinge altri, pure drammatici e sanguinosi,nelloblio (Caritas italiana 2003).Un primo elemento, ovvio, che la consapevolezza e linteresse dellopinione pubblica sonostrettamente correlati allo spazio che i media dedicano a questo o quellevento. Spazio scarsoe discontinuo, come testimonia anche lultimo rapporto su Le crisi umanitarie dimenticatedai media compilato dalla sezione italiana di Medici senza frontiere con lOsservatorio diPavia sui mass media (marzo 2009).Ma cosa determina realmente la presenza o assenza di conflitti e guerre nellarenacomunicativa? Gli autori della ricerca promossa dalla Caritas italiana hanno avanzato delleipotesi interpretative, individuando alcune variabili strategiche: la presenza o meno dimilitari italiani coinvolti nel conflitto, la lontananza geografica del Paese in questione, lagravit del conflitto stesso (numero di vittime, uso di armi inumane, trattamento dellapopolazione civile) e la sua durata (un conflitto che si cronicizza ha pi probabilit di esseredimenticato); la rilevanza geostrategica della regione coinvolta e la presenza di interventomilitare o di peacekeeping internazionale; limportanza del/dei Paese/i in situazione diconflitto rispetto agli scambi commerciali con lItalia; la presenza di legami storico-culturalicon lItalia.

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  • Ciascuno di questi elementi contribuisce a far s che una guerra si imponga o menoallattenzione pubblica, anche se non basta in s a spiegarlo: la guerra nella RepubblicaDemocratica del Congo, con circa 3 milioni di morti e 2 milioni di profughi, stata tra le pisanguinose dei tempi recenti, ma non ha certo avuto in Italia unattenzione proporzionata;lEritrea e lEtiopia hanno legami storico-culturali con lItalia, ma la guerra di frontiera tra idue Paesi non riscuote grande attenzione. Questi elementi vanno considerati non come fattoristatistici, ma come ipotesi esplicative, elementi che contribuiscono a dare o meno rilevanzamediatica a certi eventi.Questo ha spinto gli autori della ricerca a fare alcune considerazioni sulla percezione che lemoderne societ democratiche hanno dei conflitti moderni e sulla mutata natura di questiconflitti. Da un lato, fanno notare, le moderne democrazie si sono demilitarizzate: nelsenso che lesperienza bellica appartiene solo a una minoranza di cittadini che intraprendonovolontariamente il mestiere delle armi, cio i militari e il piccolo indotto logistico e tecnicoche accompagna le forze armate, e alla minoranza ancora pi esigua che svolge volontariatodi carattere umanitario in zone di conflitto o vi svolge un lavoro dinformazione. Lastragrande maggioranza della popolazione di una moderna democrazia avanzata nonpartecipa direttamente allesperienza del conflitto armato, anzi evita di trovarsi in areegeografiche dove la propria sicurezza potrebbe essere in pericolo.Per i pi, insomma, la guerra unesperienza solo virtuale: dalla fine della Seconda guerramondiale, le generazioni nate in Europa occidentale, a eccezione dei Balcani, hanno avuto ilprivilegio di non subire guerre. Questa indubbia fortuna fa s che i conflitti percepiti comeremoti non abbiano grande rilevanza per la sicurezza e il benessere dei cittadini italiani e ingenere delle nazioni occidentali, benestanti e democratiche; ci influenza anchelatteggiamento dei cittadini-contribuenti-elettori rispetto alle guerre medesime: nessunovorr rischiarvi la propria vita e sicurezza (o quella dei propri figli). Daltra parte, la tipologianuova dei contemporanei conflitti armati li rende in qualche modo sfuggenti per lopinionepubblica, non aiutata di certo da mass media che tendono a uninformazione discontinua espesso rinunciano a fornire le chiavi di lettura e gli approfondimenti necessari a interpretarneorigini e cause.La Caritas italiana, sempre con Famiglia cristiana e Il regno, ha ripetuto a distanza dipochi anni uno studio riguardante conflitti dimenticati, guerre infinite, terrorismointernazionale e la persistente disattenzione dellopinione pubblica italiana, coordinato anchequesta volta da F. Strazzari, professore di relazioni internazionali allUniversit di Amsterdam(Caritas italiana 2005). Di nuovo, nellarco di tre anni (giugno 2001-giugno 2004) iricercatori hanno condotto una complessa raccolta di dati e informazioni, analizzato loffertadei mass media e intervistato un campione di popolazione italiana. Hanno osservato unaconsapevolezza maggiore della pervasivit della guerra, anche perch conflitti cronici rimastiin ombra, come quello della Cecenia, erano tornati sulla scena in modo drammatico con ilmassacro dei bambini della scuola di Beslan, nella vicina Ossezia, nel settembre 2004: in quelmomento la capitale cecena, Groznyj, era sullorlo di una terza guerra civile dopo quelle deglianni Novanta, mai realmente risolte. Forse anche perch in quegli anni di guerra alterrorismo le questioni della sicurezza sono diventate onnipresenti: il periodo seguito all11

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  • settembre 2001 ha visto nuovi terribili episodi di terrorismo kamikaze prima nella lontanaBali e a Djakarta, poi a Londra, Madrid, Mosca. In quegli anni il terrorismo internazionale stato proclamato la pi grave minaccia alla sicurezza nel secolo 21, come ebbe a dire nel2003 lallora premier britannico Tony Blair. Le immagini di attentatori (e attentatrici) suicidi,ostaggi sgozzati, giornalisti rapiti hanno portato la violenza dei conflitti armati pi vicina alpubblico, bench sempre attraverso la mediazione dei mass media.La maggiore consuetudine con notizie di guerra per non impedisce che decine di conflittiarmati continuino a consumarsi nellombra, lontano dai riflettori della grande informazione.In effetti, la dimenticanza non solo fenomeno quantitativo e indiscriminato, ma anche esoprattutto qualitativo e selettivo, osserva Strazzari nellintroduzione alla nuova ricercadella Caritas: Che si vedano pi immagini di morte non significa che se ne informi meglio, etantomeno che siamo in possesso di un maggior numero di chiavi esplicative (Caritasitaliana 2005). Alla ricerca di chiavi interpretative sui motivi della disattenzione pubblica,questa nuova ricerca si dunque soffermata di pi sullanalisi della natura dei conflitti, perosservare la presenza crescente di nuove guerre infinite, diluite nel tempo e nello spazio,incluso il terrorismo internazionale; la presenza di conflitti apparentemente culturali o dicivilt dietro a cui c sempre la lotta per il potere e per le risorse; il forte legame tra guerre epovert, il crescere di economie criminali allombra di guerre croniche. Soprattutto, la ricercadella Caritas sottolinea il crescere delle violazioni dei diritti umani connesse alla guerra e lanecessit di approcci nuovi per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti.Dalle due ricerche citate emerge un ultimo dato di grande interesse: i cittadini italiani per lopi ritengono che i conflitti armati possano essere evitati grazie a mediazioni politicheinternazionali, e considerano le Nazioni Unite, il Papa e la Chiesa cattolica le uniche vociautorevoli che si levano contro lingiustizia delle guerre. Si potrebbe prenderlo come un buonauspicio: nel senso comune, lorrore di tante guerre pi o meno dimenticate chiede di esserefermato.BibliografiaK. Guenivet, Violences sexuelles. La nouvelle arme de guerre, Paris 2001 (trad. it. Roma2002).M. Renner, The anatomy of resource wars, Worldwatch report, Washington 2002.L. Bertozzi, I bambini soldato, Bologna 2003.Caritas italiana, I conflitti dimenticati, a cura di P. Beccegato, W. Nanni, Milano 2003.P. Collier, V.L. Elliott, H. Hegre et al., Breaking the conflict trap. Civil war and developmentpolicy, Washington 2003.F. Mini, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nellepoca della pacevirtuale, Torino 2003.M. Forti, La signora di Narmada, Milano 2004.Caritas italiana, Guerre alla finestra, a cura di P. Beccegato, W. Nanni, F. Strazzari, Bologna2005.Worldwatch institute, State of the world 2005: redefining global security, Washington 2005(trad. it. Milano 2005).Le guerre del silenzio. Alla scoperta dei conflitti e delle crisi del XXI secolo, a cura di M.

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  • Simoncelli, Roma 2005.Ch. Abbott, P. Rogers, J. Sloboda, Global responses to global threats. Sustainable securityfor the 21st century, London 2006.M. Renner, Z. Chafe, Beyond disasters. Creating opportunities for peace, Worldwatch report,Washington 2007.Medici senza frontiere, Osservatorio di Pavia, Le crisi umanitarie dimenticate dai media,quinto rapporto, Roma 2009.WebgrafiaPer approfondire largomento, si vedano i seguenti siti:www.ploughshares.ca/libraries/ACRText/ACR-TitlePageRev. htm; www.pcr.uu.se/research/UCDP/index.htm; www.sipri.org; www.crisisgroup.org; www.conflittidimenticati.org.

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