Comprendersi. Ascolto e espressione DEFINITIVO · La complessità del linguaggio e della...

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equilibra edizioni MASSIMO FRANCESCHETTI COMPRENDERSI Ascolto e espressione

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equilibra edizioni

MASSIMO FRANCESCHETTI

COMPRENDERSI Ascolto e espressione

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PRESENTAZIONE

I testi qui presentati riguardano la comunicazione interpersonale, il lavoro di gruppo e lo sviluppo personale. Hanno lo scopo di condividere quanto ho appreso attraverso la mia esperienza personale, gli studi e le lezioni tenute in aziende, istituzioni o scuole. Essi vogliono essere uno stimolo alla riflessione e all’azione per coloro che vogliono conoscere e migliorare il proprio comportamento nelle relazioni interpersonali. Non vogliono esaurire l’argomento, né sostituire le lezioni. Alla fine, viene dato qualche riferimento per orientarsi. Tutto quanto qui scritto è frutto di esperienze personali e letture di altri autori rielaborate personalmente. Questi testi non sono definitivi. Sono uno strumento provvisorio e limitato per aiutare me stesso e gli altri a riflettere. I testi non hanno subito un lavoro professionale di editing e quindi possono presentare errori. Sono grato per q u a l s i a s i s e g n a l a z i o n e o c o m m e n t o . Pe r f a r l o s c r i v e t e a : [email protected]

Ringrazio Andrea Bernardi per le correzioni e i suggerimenti. Per qualsiasi commento o suggerimento scrivere a:

[email protected]

I testi sono di proprietà dell’autore, Massimo Franceschetti, che si assume la responsabilità di quanto scritto. Essi non sono utilizzabili, da terzi, per nessun fine commerciale.

Creative Commons

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Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate CC BY-NC-ND

In copertina: René Magritte, La condizione umana, 1935.

Edizioni Equilibra Giugno 2018

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INDICE

Premessa 5

La complessità del linguaggio e della comunicazione 6

Cosa significa “comprendere” 8

La comprensione tra ascolto ed espressione 8

Ascoltare 10

Blocchi all’ascolto 11

1. Giudizio / Confronto 11

2. Immaginazione 12

3. Filtro 12

4. Esser bastian contrari/Essere molto accondiscendenti 13

5. Attaccamento alle proprie ragioni 13

6. Offrire la soluzione, far cambiare idea 14

Tipologie di ascolto 15

Ascoltare se stessi 15

Ascoltare gli altri 17

Perché, a volte, è meglio non ascoltare? 24

Ascolto: cosa fare? 25

Esprimersi 28

La conquista della chiarezza 29

Descrivere, interpretare, giudicare: tre forme base dell’espressione 32

L’importanza di chiedere 33

Quale obiettivo deve avere il chiedere? 35

Le modalità per chiedere 36

Esprimersi: cosa fare? 37

Conclusioni 39

Riferimenti 40

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(…) insegnare e trasmettere la comprensione umana. Questo è fondamentale: è uno degli aspetti più importanti dell’etica.

Edgar Morin

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Comprendersi

Premessa

Comprendersi è lo scopo della comunicazione. Si comunica per comprendersi e, sulla base della comprensione, portare a compimento i nostri scopi, realizzare i nostri desideri, soddisfare i nostri bisogni, come individui e come gruppo. Essere compresi è inoltre un bisogno intrinseco delle persone, è la risposta al bisogno di essere accettati, di sentirci presi in considerazione, per ciò che siamo. Essere compresi è quindi la risposta al bisogno di sentirci parte di un tutto in cui noi siamo considerati in quanto noi stessi, non altro, non altri. Comprendersi è il punto di arrivo di un processo che non ha nulla di automatico o scontato. La comprensione è un processo fatto di idee che occorre avere, atteggiamenti che occorre saper mantenere e di tanti piccoli atti che occorre saper compiere. Un processo, quindi, non banale, anche se alla portata di tutti. Un processo delicato, incline per natura al fallimento, data la complessità oggettiva degli scambi, a volte, per malintesi o fraintendimenti, per ignoranza sul come funzionino le parole, per inadempienza, distrazione, pigrizia o semplice disinteresse. Le possibilità di non comprendersi sono tante, mentre quelle di comprendersi decisamente minori. Non aiuta, in questo caso, la tendenza automatica a pensare che parlare sia sufficiente per capirsi. Generalmente si tende a pensare: “Siccome ho parlato, ed ho parlato chiaramente, l’altro deve aver capito”. Si dà per scontato che, condividendo lingua e contesti, si condivida lo stesso orizzonte, lo stesso mondo, le stesse intenzioni. Parlare la stessa lingua sembra quindi identico a pensare la stessa cosa anche se non è così. Non è nemmeno un problema di quantità di informazioni, il male intendersi, il fraintendersi o il non capirsi sono parte integrante della comunicazione, non un incidente. Tali incomprensioni possono essere ridotte, ma non eliminate, sono variabili inscritte nella natura stessa del linguaggio e della comunicazione. Per questo motivo occorre fare attenzione all’ascolto e all’espressione. Non darli per scontato, ma quantomeno impegnarsi e prestare attenzione al loro modo di funzionare. Di questo, in modo limitato e personale, tratta il testo a seguire.

Massimo Franceschetti !5

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La complessità del linguaggio e della comunicazione

Il linguaggio verbale umano è uno strumento di comunicazione tanto complesso quanto sottovalutato. Appartiene così profondamente alla nostra umanità che, spesso, addirittura stentiamo a prenderlo in considerazione. In realtà, il linguaggio umano è qualcosa di assolutamente straordinario e la sua comparsa ha segnato in modo irreversibile il mondo stesso e, ciononostante, siccome esso è radicato in noi e così “facile” da usare, dimentichiamo la straordinarietà delle sue caratteristiche. La prima è che è innato. La predisposizione al linguaggio, ad acquisire una lingua qualsiasi, è di tutti gli esseri umani. In un preciso periodo della sua vita, l’essere umano è in grado di apprendere qualsiasi lingua a cui sia esposto, compreso il linguaggio dei segni dei non udenti. Una seconda caratteristica è il collegamento tra linguaggio e attività cognitiva. Il linguaggio è profondamente connesso con lo sviluppo della mente e alle sue capacità psichiche. Il linguaggio è uno strumento ineguagliabile per pensare. Terza caratteristica del linguaggio: è un sistema di segni arbitrario. Ciò significa che nel linguaggio verbale non esiste nessun rapporto tra il significato della parola “cane” ed il suono /cane/. Per capirci, non è così nel linguaggio non verbale, dove il rapporto tra la “minaccia” ed il pugno non è arbitrario, ma analogico: per minacciare qualcuno di dare un pugno si mostra il pugno stesso, si agisce quindi per analogia. L’arbitrarietà consente un’estrema versatilità e flessibilità del linguaggio: lo stesso significato può essere detto in modi diversi sia all’interno della lingua stessa che in altre lingue. Tramite la combinazione di pochi suoni, detti fonemi, la lingua è in grado di creare qualsiasi parola collegandola ai significati che la mente riesce a produrre, basti pensare che addirittura riesce a parlare di se stessa, come sto facendo in questo momento, attraverso la scrittura, protesi del linguaggio verbale. Il linguaggio è vivo, mobile, si trasforma in continuazione, regredisce e progredisce, è un’entità nel quale noi, come esseri viventi, ci muoviamo e cresciamo, ci trasformiamo, regrediamo e progrediamo. Questo ci riporta ad un’altra caratteristica: il linguaggio verbale è sinonimico e polisemico. “Sinonimico” significa che suoni diversi possono indicare gli stessi significati. Ad esempio, posso dire che “dizionario” e “vocabolario” sono sinonimi, indicano entrambi la stessa cosa; così come “andare” e “procedere” sono verbi sinonimi: indicano la stessa azione di andare avanti, muoversi. “Polisemia” significa “avere molti significati”. Una parola può avere e assumere significati diversi, a volte addirittura opposti. Così come noi possiamo dire “porta” intendendo l’oggetto che divide una stanza da un’altra, allo stesso tempo potrebbe avere valenza di verbo, seconda o terza persona indicativa presente del verbo “portare”. È il contesto, sia della frase sia reale, nel quale essa è pronunciata, ad aiutare a disambiguarla.

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Il linguaggio verbale è, inoltre, ambiguo e vago, per due motivi: il primo è la natura stessa del linguaggio. La sua vaghezza permette una maggiore gestibilità e maneggevolezza. Si pensi se esistesse una sola parola per ogni singola cosa, sarebbe impossibile ricordarle tutte e soprattutto da maneggiare. Una parola assume un concetto, ma il concetto è un’astrazione e un’astrazione è, a sua volta, una generalizzazione. Una parola non corrisponde mai effettivamente ad un solo oggetto. In quanto tale una parola o una frase possono contenere molti casi particolari e quindi molti più significati. Ad esempio, se dico “cane”, “albero”, “casa”, cose del tutto concrete, in realtà non mi riferisco ad un cane o albero in particolare. Il significato delle parole, pur indicando qualcosa di specifico, ha un margine di generalità, in cui le interpretazioni del vocabolo possono essere diverse. Se volessi essere più preciso avrei bisogno di dire che quell’albero è un olmo o una quercia. “Quercia” e “olmo” sono parole molto più precise perché fanno riferimento a qualcosa di molto più specifico di “albero”. Sicuramente comunque non indicano “quell’albero” ma sono nomi più specifici per un tipo di albero. In ogni caso, resta un margine di interpretabilità delle parole che le rende, appunto, ambigue o vaghe. Il secondo motivo è che l’interpretazione del linguaggio verbale dipende dal linguaggio non verbale. Quando qualcuno dice qualcosa cerchiamo certamente di interpretare quello che dice a livello verbale, ma lo facciamo considerandolo in funzione dei segnali che riceviamo a livello non verbale. Il linguaggio non verbale specifica e definisce il significato del linguaggio verbale. Se qualcuno dice “ti amo” sarà il tono che verrà preso in considerazione e il senso della frase cambierà di conseguenza. Questo avviene sempre. Quando qualcuno dice cose come “Mi prendi il martello sul tavolo?” oppure “siamo stati a Ginevra” noi, in entrambi i casi, faremo attenzione al tono e al viso per capire bene cosa ci sta dicendo, perché dietro a queste due frasi, ci possono essere altri significati impliciti molto più complessi interpretabili solo comprendendo le sfumature del linguaggio del corpo. Purtroppo, non sempre le persone comprendono, o sono in grado di comprendere, in modo appropriato il linguaggio non verbale, rendendo l’interpretazione ancora più complessa e le possibilità di incomprensione più probabili.

Infine, il linguaggio verbale funziona meglio quando il gruppo di persone che lo usano hanno un vissuto comune, riferimenti simili o storie simili. Il linguaggio, infatti, fa largo uso di implicazioni, sottintesi o forme verbali che rimandano ad altro, senza doverlo ogni volta esplicitare: pronomi, accenni, allusioni ecc. Il discorso è pieno di elementi taciuti o dati del contesto non richiamati, da rendere la comprensione un complesso lavoro di inferenza, ipotesi e “scommesse”. Così, tanto più le persone vivono in contesti diversi, provengono da ambienti diversi, hanno poco vissuto comune e storie differenti, tanto più sarà complesso per loro comprendersi ed usare al meglio il linguaggio verbale.

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Cosa significa “comprendere”

“Comprendere” deriva dall’unione di due parole: “prendere” più “con”. Comprendere significa letteralmente “prendere insieme”, ovvero, prendere più cose o diversi significati. È raccogliere un insieme di tratti. “Abbracciare con la mente”. Comprendere, quindi, sottolinea un accogliere i molti significati che ogni discorso contiene in se. È un ascoltare profondo, esteso. Inoltre, comprendere, come capire, si usa anche per indicare che qualcosa si considera con “simpatia o indulgenza”. Ovvero, si comprende nel senso che si prova la stessa cosa (simpatia) o si è disposti a scusare perché si compatisce. Il verbo “comprendere” così inteso significa: “accogliere, prendere ed accettare, tenendo insieme tutti i diversi significati di ciò che si ascolta”. Quando vogliamo comprendere vogliamo andare fino in fondo, vogliamo capire di più, vogliamo tenere presente l’insieme, vogliamo non tralasciare nulla e, forse solo per un attimo, condividiamo quanto si prova, quanto si pensa, quanto si dice. La comprensione è il processo fondamentale attraverso il quale gli esseri umani vivono nel mondo e con gli altri. Esso è alla base di ogni possibile convivenza, anzi, alla base di ogni possibile esistenza.

La comprensione tra ascolto ed espressione

“Comprendere” è il risultato di un processo in cui l’ascolto e l’espressione sono i due movimenti necessari. Pur profondamente collegati, “ascoltare” e “parlare” sono due abilità che richiedono competenze e comportamenti molto diversi. Si sviluppano in due zone differenti del cervello, in modo diverso e si mantengono costantemente separate. Per questo esse possono essere distinte e a volte quasi opposte. Ascoltare ed esprimersi attentamente è essenziale per la comprensione. Sono due processi, costituiti da comportamenti ed abilità che si acquisiscono con il tempo e non si attuano meccanicamente. Sia l’ascolto che l’espressione sono due momenti precisi che richiedono una scelta consapevole: non è sempre possibile ascoltare con attenzione, né è sempre possibile esprimersi con attenzione. Anzi, è abbastanza comune non ascoltare ed esprimersi in modo automatico, così come accade spesso che la comprensione tra le persone sia abbastanza difficile e fallimentare. Accade, inoltre, che le persone si esprimano senza tenere conto degli interlocutori e della comprensibilità di ciò che esprimono. Comunicare è un comportamento talmente automatico ed inconsapevole che gran parte di quest’attività avviene senza una vera e propria attenzione. Se a questo aggiungiamo come le persone non siano abituate a riflettere sulla propria comunicazione e le conseguenze che questa determina, non sorprenderà che

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ascoltare attentamente ed esprimersi correttamente siano comportamenti piuttosto rari. Va considerato, infine, che “ascoltare” ed “esprimersi” non hanno, nella nostra cultura, lo stesso valore. Si prenda, ad esempio, la parola “comunicare”, si nota abbastanza facilmente che essa è sinonimo di “parlare”, ma non di “ascoltare”. Avere una buona comunicazione, nella nostra società, significa innanzitutto saper parlare, non saper ascoltare. Così, nella nostra società si dà una maggiore importanza al “parlare” piuttosto che all’“ascoltare”. Infatti, è piuttosto comune insegnare l’arte oratoria, il parlare in pubblico, l’aiutare le persone a sviluppare il proprio modo di esprimersi, mentre pare ci siano molti meno sforzi ed occasioni in cui si preparino le persone ad ascoltare. Eppure, non può esserci espressione senza ascolto, poiché se il bambino non ascoltasse non apprenderebbe a parlare. Non può esserci alcuna comprensione senza ascolto: la capacità di ascolto è sorta molto prima di quella di esprimersi. 1

La mente umana si è sviluppata prima della parte legata alla fonazione. La mente era in grado di 1comprendere prima che dell’avvento del linguaggio fonetico vero e proprio.

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Ascoltare

L’ascolto è un comportamento articolato, composto di diversi momenti. È un’attività complessa che può essere praticata in certi momenti e non in altri. Quando siamo in preda ad una forte emozione, ad esempio, ascoltare diviene molto difficile. Quando siamo presi da una fantasia, un pensiero, la nostra attenzione divaga e senza attenzione non c’è ascolto. L’ascolto è un’attività che si acquisisce con l’esercizio e l’esperienza.

Gradi e attitudini all’ascolto variano molto da persona a persona e possono esserci differenze profonde tra la qualità e le modalità di ascolto delle persone. L’ascolto è molto richiesto, ma non sempre è chiaro cosa, quando, come e, soprattutto, perché si dovrebbe ascoltare. “Ascoltare”, dovresti averlo chiaro, non è “sentire”. Sentire è un processo fisico, inevitabile. Ascoltare è un processo cognitivo frutto di una scelta. Non si può ascoltare senza sentire ma si può sentire senza ascoltare. L’ascolto può avere gradi 2

diversi di profondità. Posso sentire e capire il significato di ciò che mi viene detto. Ma posso anche andare oltre il significato delle parole sentite e spingermi a comprendere come sono state dette queste parole. Posso concentrare la mia attenzione alle sfumature di tono, intonazione, volume e i significati insiti in queste sfaccettature. Posso tenere presente, insieme a ciò, anche tutta una serie di segni provenienti dal corpo. Posso anche fare di più: posso prestare attenzione allo stato emotivo che accompagna e colora ciò che viene detto e, da qui, comprendere sia gli schemi mentali, sia i bisogni della persona che mi parla. Attraverso un ascolto, che, infatti, si definisce “attivo”, il discorso della persona che ho di fronte può essere aperto ed esplorato. Ascoltare quindi significa non solo un passivo ricevere dei suoni o dei significati (questo è sentire) ma significa indagare, esplorare, andare in profondità, andare oltre, andare dentro (auscultare). Saper ascoltare significa saper fare questo processo mentale di approfondimento, ma può significare anche avere la lucidità e la forza di non ascoltare volontariamente. Potrei ascoltare con intelligenza, evitando di soffermarmi su certe parole e considerandone altre. Il “filtro”, come vedremo, è un blocco all’ascolto, ma, a riprova che in comunicazione occorre essere flessibili, può essere anche un grande aiuto nella relazione!

Ovviamente non vale per i sordi, i quali devono soprattutto vedere per capire.2

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Blocchi all’ascolto

Esistono comportamenti o situazioni che impediscono l’ascolto. L’ascolto è un’attività così complessa che è normale non riuscire ad ascoltare ogni volta che si dovrebbe. Inoltre, spesso non si ha nessuna voglia di ascoltare, perché le motivazioni interiori, i propri pensieri, sono molto più importanti di ciò che ci accade intorno. Il flusso del pensiero è spesso ingestibile: guizza via con grande velocità e senza il nostro controllo. Mentre qualcuno parla, il pensiero può andare ovunque. Vedo bene, in aula, le persone, che ad un certo punto, pur guardandomi, non mi ascoltano: semplicemente pensano ad altro. Il mio discorso, quando va bene, stimola il loro pensiero ma adesso stanno pensando a qualcosa di diverso e non ascoltano quello che sto dicendo. Succede. Non è di per se un male. Non posso pretendere che le persone mi prestino ascolto ininterrottamente per tanto tempo. Devo fare pause, devo cambiare registro, devo permettere loro di svagare con la mente, di seguire il loro flusso di pensiero. È fisiologico. Fa parte dei normali processi di gestione dell’attenzione. A partire dalla mia esperienza personale, credo che ascoltare sia un’attività preziosa e rara. Non posso pretendere un ascolto continuo e totale ed allo stesso modo non posso garantirlo sempre e comunque. Molto spesso mi scopro a non ascoltare involontariamente, cerco allora di dirlo con molta semplicità, se è il caso in cui so già che, per un motivo o per l’altro, non posso garantire un buon ascolto. “Mi dispiace, ma ora non riesco ad ascoltarti come vorrei. Possiamo fare in un altro momento?”. Altrimenti, mi concentro e cerco di ascoltare la persona. Fino a quando non mi accorgo di non ascoltare più. Altri blocchi emergono. Allora, si deve ricominciare da capo.

Prima di osservare alcuni modi di ascoltare, ho riassunto alcuni “blocchi” all’ascolto: atteggiamenti o comportamenti che impediscono un ascolto vero e proprio.

1. Giudizio / Confronto

Giudico il discorso dell’altro mentre lo ascolto. Giudicare vuol dire diverse cose: a) il discorso che l’altro sta tenendo non mi piace, mi irrita e quindi intervengo. b) giudico la persona che sta parlando e mi confronto con lei e quindi non

ascolto (sto pensando al confronto). c) Confronto tutto ciò che viene detto con la mia esperienza. Io sono metro di

tutte le cose.

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Facendo questo, ovviamente, posso non comprendere il discorso dell’altro, sovrapponendo il mio pensiero, che è legato ai miei valori, a quello che l’altro sta dicendo.

2. Immaginazione

Mentre l’altro parla io credo di aver già capito. La mia mente (per lo più in modo incoscio) riempie i buchi del non detto, anticipa cosa mi vuole dire e perché. In sintesi: a) immagino lo scopo del suo discorso e quindi intervengo, senza avere la

certezza di ciò che ho immaginato. b) immagino ciò che non mi sta dicendo o mi ha ancora detto e quindi

intervengo, senza avere la certezza di ciò che ho immaginato. c) Immagino, a partire dal discorso corrente, qualcosa di diverso.

Anticipare il senso del discorso, così come completare quello che l’altro mi vuole dire, aggiungendo del significato, sono comportamenti pericolosi. Essi possono condurre a malintesi oppure, ad innervosire molto l’altro. Sognare ad occhi aperti, a partire dal discorso altrui, è possibile e spesso inevitabile, soprattutto quando siamo stanchi o la cosa ci colpisce particolarmente. Ogni volta che ce ne accorgiamo, tuttavia, possiamo provare a rifocalizzare la nostra attenzione sul discorso dell’altro.

3. Filtro

La nostra percezione, in generale, è limitata ed orientata. Essa è un processo complesso che seleziona gli input che derivano dal nostro esterno o interno. Così è anche quando ascoltiamo: selezioniamo ciò che ci viene detto. Lo facciamo, in genere, in modo inconsapevole. Rimuoviamo da quello che l’altro sta dicendo ciò che riteniamo inappropriato, inopportuno oppure doloroso. Rimuoviamo spesso ciò che non capiamo oppure ciò che non consideriamo. Se siamo emotivamente sotto pressione, ad esempio, saremo interessati solo ad alcune cose, il nostro ascolto sarà limitato e selettivo. Come ho già scritto sopra, non sempre filtrare è un male. A volte è un bene. Posso filtrare battute inopportune, sarcasmi inutili, critiche subdole, toni inappropriati ecc. In altre parole, proprio perché l’ascolto è un’attività cognitiva consapevole, essa può essere diretta, guidata e gestita. Una tale caratteristica può essere considerata un problema, un blocco, ma anche una opportunità, un mezzo per ridurre la conflittualità.

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4. Esser bastian contrari/Essere molto accondiscendenti

Come immagino avrai già notato, ci sono persone che spesso dicono il contrario di quello che dicono gli altri. Ti accorgi che non è solo un modo di fare, ma di essere. A loro piace essere contro qualcuno o qualcosa: la massa, l’azienda, lo Stato, il partito, il gruppo X, la squadra Z. Insomma, appena si inizia a parlare, loro devono attaccare qualcuno o qualcosa. In questo modo si ha la sensazione che le persone così fatte non ascoltino. Quello che dici loro è solo un pretesto per attaccare un lungo monologo contro qualcosa. In questa maniera, tengono alta l’attenzione, la loro e la tua. D’altro canto, ci sono persone a cui va bene tutto. Tu parli con loro e loro sono d’accordo. Non ne sei sicurissimo perché non hai ben capito cosa pensino, ma quello che vedi è che si sforzano di andare d’accordo con tutti. Rispetto ai primi sono molto meno faticosi, ma comunque, alla fine, hai l’impressione che non ci sia stato un vero scambio, un vero accordo. Avresti bisogno quasi di provocarli per vedere cosa succede. Il loro ascolto è selettivo e molto personalizzato. A nessuno dei due interessa ciò che dici, ma la relazione con te: uno vuole distinguersi, l’altro appiattirsi. In ogni caso, tu che parli, sei solo un pretesto.

5. Attaccamento alle proprie ragioni

Uno dei più frequenti blocchi all’ascolto si manifesta quando ci impegniamo a dimostrare di avere ragione. Il riconoscimento del valore delle persone è una delle condizioni fondamentali della comunicazione. Se sentiamo di non avere valore, se non avvertiamo un riconoscimento del nostro valore, oltre a star male, siamo più propensi a confliggere. Purtroppo, una delle modalità che usiamo più spesso per riconoscerci valore è l’attribuzione della ragione. Quando qualcuno dice che abbiamo ragione ci sentiamo bene. Mi pare di poter dire che veniamo, in questo modo, riconosciuti nel nostro valore. Quando qualcuno non lo fa, in genere sentiamo che viene messo in discussione il nostro valore. Si è crea quindi una sorta di equazione: se ho ragione, allora ho valore; se non ho ragione, allora non ho valore. Questa considerazione personale, basata sull’esperienza e sulla teoria del valore, mostra perché le persone siano così attaccate alla ragione. Tutti noi vogliamo avere ragione. Quindi, quando accade che qualcuno metta in discussione quanto stiamo dicendo, ci irritiamo e, in automatico, reagiamo per dimostrare all’altro che si sbaglia o perché la ragione è dalla nostra parte. È piuttosto buffo perché se guardi con attenzione la dinamica che si scatena in tali casi, ti accorgerai che, in definitiva, in quasi tutte le occasioni in discussione, sia impossibile stabilire realmente chi ha ragione o torto. Le persone impegnate in

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questo tipo di conversazione, quasi mai sono interessate veramente a stabilire la realtà di un fenomeno. Esse appaiono molto più interessate al fatto che l’altro, a parole, ci dia ragione, non che la dimostri. In ogni caso, impegnarsi nell’avere ragione rende l’ascolto molto difficile. Se sono impegnato a dimostrare di avere ragione, probabilmente sto trascurando ciò che l’altro mi sta dicendo. Forse ho capito grosso modo il senso, ma probabilmente non lo sto approfondendo, non mi dedico allo stato d’animo, alle intenzioni, ai presupposti dell’altro. Per questo, molto spesso accade che persone che siano impegnate a cercare di ottenere ragione non si accorgano di star dicendo le stesse cose!

6. Offrire la soluzione, far cambiare idea

Probabilmente ti sarà capitato di aver avuto una conversazione di questo tipo: “Oggi sono proprio stanca/o, il lavoro mi toglie ogni energia…” L'altro:” Fatti un giro per rilassarti”, oppure “Dovresti pensare a cambiare lavoro”, o ancora “Devi dormire di più”. Non so tu, ma io ci casco quasi sempre. Ed il bello è che lo so, appena lo dico mi pento! Ma è troppo tardi. L'altro in genere, sbuffa e se ne va. Non voleva un suggerimento, ma comprensione o, se vuoi, ascolto. Cosa è successo? È successo che quando qualcuno ci dice qualcosa tendiamo a prenderlo alla lettera o ad interpretarlo (filtro, immaginazione) come se fosse una richiesta di aiuto a cui rispondere con un suggerimento concreto su come risolvere il problema esposto. Molto più probabilmente, la persona vuole solo comprensione, empatia o magari solo la possibilità di dirlo. Forse non serve dire nulla, solo ascoltare. O forse basterebbe che le si dica: “Eh sì, hai lavorato molto…” oppure “Eh sì, fai un lavoro duro, ti dai un sacco da fare…”. Non è detto, ma forse è quella la situazione. Dare suggerimenti, dare consigli, dire agli altri cosa dovrebbero fare sono comportamenti “pericolosi”, perché l’altro può avvertirli come una invasione e quindi come un attacco. “Chi sei tu per dirmi cosa devo fare io?”, “Ma che ne sai tu di come sto io?” ecco cosa pensano, anche se non lo dicono. Anche quando le persone chiedono suggerimenti o consigli tendono ad ascoltarli con grande fatica, lo so per esperienza. Come colui che li ha chiesti, mi sono accorto che alla fine faccio sempre di testa mia e spesso i suggerimenti non li ascolto neanche (vedi blocchi n° 3 e 4!). Come consulente, insegnante, mi accorgo che le persone non amano affatto ricevere consigli, nemmeno quando siamo in aula. Occorre fare molta attenzione a darli. Va considerato anche che le soluzioni che offriamo, spesso, non sono particolarmente originali né brillanti. Le persone arrivano da sole a pensarle o trovarle. Non hanno bisogno di noi. Infine, considera che quando qualcuno si lamenta, in realtà, non vuole risolvere nulla. Vuole solo comprensione. Vuole solo potersi sentire meglio parlando del

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proprio male. Vuole auto compatirsi, auto assolversi, forse, ma sicuramente non vuole risolvere, non vuole consigli, non vuole un atteggiamento pratico o risolutore. Vuole solo essere ascoltato. Se vorrà risolvere la questione, probabilmente lo farà senza parlarne più di tanto.

Tipologie di ascolto

Questi sono solo alcuni blocchi dell’ascolto. Ma l’ascolto vero e proprio come dovrebbe essere? Come si ascolta? Chi si ascolta? E quando non farlo? Perché? Insomma, parliamo un po’ di ascolto.

Vari studiosi hanno individuato diverse modalità di ascolto. La più famosa è l’ascolto attivo sviluppato da T. Gordon. L’ascolto attivo è una forma in ascolto in cui si sospendono giudizi, si evitano affermazioni, ma si fanno domande all’interlocutore in modo che questi possa esprimersi il più possibile, spesso arrivando da se a ciò di cui necessita. Se vuoi approfondire ti rimando alla lettura diretta dei suoi lavori, molto chiari e interessanti. Noi riprenderemo qui alcuni suoi suggerimenti.

Un’altra modalità di ascolto abbastanza conosciuta è l’ascolto empatico, che anche qui riprenderemo e che ha a che fare con l’ascolto delle emozioni. L’ascoltatore presta attenzione alle emozioni, ai sentimenti della persona. In altre parole, l’ascolto empatico pone attenzione alla dimensione affettiva, alla condivisione dello stato emotivo, sospensione del giudizio anche qui, ma soprattutto concentrazione sulla dimensione affettiva delle parole dell’altro.

Qui ti offro una sintesi personalizzata dell’argomento. Innanzitutto, partirò dall’ascolto di se, che ritengo fondamentale. Poi vedremo l’ascolto degli altri.

Ascoltare se stessi

La nostra vita prende forma innanzitutto in noi: nei nostri pensieri, nelle nostre fantasie, nei nostri desideri e vissuti. L’essere umano ha sviluppato un sistema nervoso molto complesso, così complesso da entrare in connessione con se stesso. Nel momento in cui il nostro sistema nervoso entra in connessione con se stesso, nasce la coscienza e la nostra particolare forma di linguaggio. Ascoltare se stessi, 3

Quesdta affermazione lapidaria nasconde un lavoro enorme, tanti dibattiti. Come in altri testi, 3

rimando al lavoro di H. Maturata e F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti. Ma c’è tanta altra bibliografia. In particolare segnalo anche La scimmia che si parla, di Felice Cimatti, Boringhieri.

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quindi, significa entrare in contatto con questo mondo interiore che vive dentro di noi e che pone le basi per il mondo fuori di noi. Le nostre voci che dialogano dentro di noi definiscono e sviluppano la nostra identità, così attraverso l’ascolto di me, mi conosco e nello stesso tempo mi definisco. Attraverso l’ascolto delle parole che mi dico, il loro tono, le loro immagini, posso comprendere meglio la radice delle mie emozioni e con esse posso prendere coscienza di ciò che desidero e ciò che non desidero. Attraverso l’ascolto del mio corpo, dei suoi dolori e piaceri, attraverso le sue ribellioni e le sue malattie posso capire meglio cosa si muove dentro di me.

Ascoltare se stessi vuol dire giungere a comprendere, sotto il mare di parole, emozioni, sintomi, bisogni o le mie specifiche esigenze di quel momento, le quali spesso si esprimono in forme indirette, con una voce che a volte rimane sullo sfondo, si nasconde, scompare dentro parti del corpo. Molto semplicemente, ascoltare se stessi può significare cogliere, in mezzo al brusio della nostra mente ciò che è propriamente nostro. Mi capita spesso che una voce dentro di me dica una cosa che sento utile, importante, vera, ma che, a volte, disattendo. Anche nelle cose banali, che poi forse banali non sono: “Vuoi uscire stasera?” Una voce mi dice “No”. Ed io dico “Si” pensando di far piacere all’altra persona. Mi sono ascoltato? No. A chi ho dato retta? Chi o cosa ho ascoltato? Il mio bisogno di calma oppure il mio bisogno di essere considerato un bravo amico? Ascolto in modo equilibrato ora quello ora questo, o ascolto sempre uno dei due, rattristando l’altro?

Un mio amico e collega usa un’espressione interessate: “Ascoltati” dice. Quando propone una cosa, anche se tu hai già risposto, lui non prende la prima risposta, ma invita ad ascoltarti e poi a rispondere. Ecco, lui ti dice: “Non scattare subito con la prima risposta che ti viene in mente, che viene automatica, ma ascoltati. Ascolta le diverse voci dentro di te. Non sei mai solo.”

Ascoltarsi significa individuare la propria voce e darle spazio, volume, diritto di cittadinanza. L’ascolto di sé è l’ascolto di ciò che si muove dentro di noi sotto forma di parole, stati d’animo, idee, desideri. Un ascolto senza giudizio, empatico, complice. Un ascolto amorevole, benevolo. Il che non esclude che a volte ci si obblighi a fare qualcosa, anche se non avremmo voglia di farlo, che si possa essere anche duri con se stessi, rimproverarci anche, ma ascoltarsi, come si fosse il proprio figlio e come tale trattarci. Se non sempre, almeno qualche volta: anche con se stessi non si può pretendere un ascolto continuo e totale.

Ascoltarsi significa quindi darsi del tempo, instaurare un altro tempo, rispetto al dire. Significa fermare l’agire e sospendere il fare. Significa fermarsi per far emergere la nostra forma, per dare il tempo necessario a noi stessi di esprimersi ed

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emergere. Dare il tempo a qualcosa che forse dentro di noi è stato sepolto sotto tanto chiasso e che ha bisogno di tempo e pazienza per venire alla luce e sentirsi ascoltato.

Ascoltare se stessi richiede la stessa accettazione e sospensione di giudizio che chiediamo ad ogni atto di comprensione. Non ci può essere ascolto se vogliamo cambiare chi parla o il suo discorso, e questo vale tanto per gli altri quanto per noi stessi. Non c’è ascolto se mentre mi ascolto, nella quiete di un attimo preso per me o nello scrivere sul mio diario, io giudico, critico, colpevolizzo o accuso. Se ascoltare implica prendere le distanze dal flusso del proprio pensiero, sospendere l’azione, allora ascoltare significa accettare e lasciar fluire i miei pensieri, sentimenti, emozioni e bisogni. Cosa ti dici veramente? Cosa vuoi? Di cosa hai bisogno? Quante volte dici sì e pensi no, dici no e pensi sì? Quale comportamento consideri veramente il meglio per te, ora, stando la situazione in cui ti trovi? Cosa si muove dentro di te? Quali desideri, quali aspirazioni? Quali potenzialità? Quali paure, quali nostalgie o tristezze?

Ascoltarsi significa farsi queste domande (perché ascoltare è indagare) e accogliere le risposte che arriveranno.

Ascoltare gli altri

L’ascolto è quasi sempre ascolto di sé e dell’altro. Non può esserci un dialogo reale se ognuno di noi non media o comprende entrambi i lati. Ascoltare solo l’altro, senza ascoltare se stessi, può portare ad una profonda frustrazione e rabbia; ascoltare solo se stessi e non gli altri, alla solitudine e al solipsismo. Ascoltare, dunque, nel senso più semplice e profondo della parola significa prestare attenzione sia a chi parla sia a chi ascolta.

Ascoltare è dunque l’abilità di comprendere, nel proprio discorso così come in quello dell’altro, alcuni elementi essenziali. In particolare: significati, emozioni e bisogni. Ascoltare è il processo attraverso il quale si osserva, si indaga e si comprende i significati, letterali o impliciti, le emozioni ed i bisogni che le persone comunicano intenzionalmente o meno, a se stessi o agli altri.

Il significato letterale fa riferimento al significato semantico della parola. Quando qualcuno parla dice “qualcosa”: un pensiero, un’idea, un concetto. Questo è il suo significato semantico. Ad esempio, prendiamo la frase: “Vuoi uscire stasera?”. Il significato letterale della frase è: una richiesta (la forma interrogativa) di

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conoscenza se io, a cui è rivolta la domanda, desidero uscire quella particolare sera. Accanto al significato letterale esistono altri significati impliciti che la frase sottende. Questi sono spesso collegati ad aspetti non verbali: intonazione, sguardo e postura. Oltre a tutto questo, ciò che un normale ascoltatore può cogliere in modo molto rapido sono le emozioni con le quali si accompagnano le parole. Le emozioni vengono quasi sempre espresse in modo molto diretto dal corpo, ossia dal linguaggio non verbale (espressioni del viso, gesti, postura ecc.) e il linguaggio paraverbale (tono, timbro, volume della voce). Così ad esempio, il tono con cui l’altra persona mi fa la richiesta, è allegro, sorridente, quasi entusiasta. Da questo io ricavo come un desiderio e forse potrei comprendere anche un bisogno.

Desideri, intenzioni o bisogni, sono molto più complessi da cogliere, poiché quasi mai vengono espressi in modo diretto e chiaro. Così, l’ascoltatore deve essere una sorta d’investigatore, il quale da alcuni indizi deve ricavare gli elementi necessari per comprendere l’altro: cosa vuole dire, cosa significa quello che comunica, i suoi desideri, i suoi stati d’animo, i suoi bisogni. Se riprendiamo l’esempio precedente, alla domanda “Vuoi uscire stasera?” l’ascoltatore dovrà farne altre: “Tu cosa vuoi fare? Poiché mi pare che tu abbia molta voglia di uscire. È così?”. Se l’altra persona dice che in effetti ha molta voglia, l’ascoltatore dovrà a sua volta ascoltarsi, capire di cosa ha voglia e poi a chi, dentro di lui, dare retta: a chi vuole far contento, se stesso e non uscire oppure far contento la parte di sé che gode nel far contenti gli altri e dire di sì. Può anche aprirsi alla possibilità che uscire possa essere un’esperienza migliore di quanto immagina, e via dicendo. Ricollegandomi all’inizio, un buon ascolto non è solo diretto verso l’altro, ma anche verso se stessi. L’ascolto è un continuo andirivieni nelle due direzioni: io e tu.

Ascoltare le parole, cogliere il significato

Comprendere una parola, ed il suo significato, può essere più difficile di quanto si pensi. Per questo è importante, qualora si voglia ascoltare e comprendere, prestare attenzione alle parole. Non dare per scontato che il loro significato sia quello immediato. Una parola non ha mai un solo significato, come si può constatare leggendo qualsiasi vocabolario, possiede sempre diversi significati sia all’interno della lingua stessa, sia per effetto del significato che ciascuno di noi gli attribuisce lungo la sua vita. Ognuno di noi eredita significati dalla società in cui nasce e vive, ma poi “aggiunge”, a questi significati, anche una sua propria interpretazione che riguarda un vissuto specifico. In questo modo, sia quando ci esprimiamo che quando ascoltiamo, dobbiamo tenere presente che le parole possono assumere significati diversi e quindi sono poi concepite, ascoltate ed usate in modi personali.

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Marco, ad esempio, a volte usa alcune parole in modo non appropriato rispetto al significato che il vocabolario attribuisce loro. Egli sposta leggermente il significato, come di lato, a quello ufficiale. Il suo discorso assume a volte un che di buffo o colorato perché la parola non è che sia proprio sbagliata, rispetto al contesto della frase e alle sue intenzioni, ma non è la parola esatta.

Marta, invece, fa un largo uso di pronomi, ellissi, rendendo il discorso una sorta di coperta piena di buchi che l’ascoltatore deve riempire da solo. Lei risponde sempre meravigliata a chi fa domande per capire meglio: “Lui chi?” “Dove?” “A cosa ti riferisci?”, si è costretti a chiedere precisazioni. Ma lei è abituata a parlare in un contesto dove le persone condividono molto e i riferimenti dovrebbero essere immediatamente evidenti. Così il suo modo di parlare appare abbastanza incomprensibile quando quel contesto, invece, non lo si condivide più.

Giulia reagisce male a certe parole. La parola “coppia”, ad esempio, le dà fastidio. Così ad esempio “spirituale” a cui non riesce ad attribuire un reale significato. Parole che generalmente possono essere considerate positive, su di lei hanno una incidenza negativa.

Piero, è molto preciso, ma estremamente sintetico. Le parole non sono messe a caso, ma sono drammaticamente poche, così che il povero ascoltatore deve inevitabilmente chiedere chiarimenti su scopi, contesti, motivazioni, pregressi, presupposti. Con lui devi sempre chiedere maggiori spiegazioni.

Ascoltare non è un gesto immediato e semplice. Per questo è sempre molto apprezzato. Per ascoltare occorre indagare e per indagare può essere utile parafrasare.

La parafrasi è una tecnica di ascolto che implica che l’ascoltatore ripeta ciò che ha compreso del discorso dell’altro con parole sue e in forma di domanda. “Mi stai dicendo quindi che non vuoi più lavorare con Mario?”. Di solito l’altra persona “aggiusta” o meno la parafrasi permettendo all’ascoltatore di cogliere sempre meglio i significati, lo stato d’animo e anche il bisogno più nascosto dietro una prima espressione, magari lamentosa e generica. Altri esempi:

A. “Non ritengo che sia giusto che l’azienda mi obblighi a continuare a lavorare in queste condizioni. Non ho la possibilità di lavorare bene, non capisco cosa si vuole da me” B. “Mi stai dicendo che vorresti un aiuto da parte dell’azienda?”

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A. “Sì, certo, vorrei che il giro che mi viene attributo potesse essere concordato un minimo, altrimenti non riesco a portarlo a termine. Chi definisce il giro non sa cosa succede per strada” B. “Quindi vorresti che prima di partire ci mettessimo d’accordo sul giro da fare?” A. “Sì, ecco, sì vorrei che lo concordassimo insieme”

In questo breve scambio si nota come la persona A non esprime in modo chiaro e costruttivo ciò di cui ha bisogno, ma semplicemente giudica e accusa. Se B ascoltasse l’accusa o il giudizio gli risulterebbe molto difficile non criticare a sua volta, invece B si concentra sul senso generale della frase (una richiesta di aiuto) e nella parafrasi lo mette in evidenza in modo semplice e positivo. A allora precisa meglio cosa vorrebbe che accadesse, B parafrasa ancora arrivando ad un più chiaro punto di accordo su ciò che A vuole veramente.

Ascoltare le parole, cogliere lo stato d’animo

Oltre al significato delle parole, il discorso è sempre emotivamente “colorato”. Se non in rare occasioni, ogni volta che una persona parla, esprime anche il suo stato d’animo. Attraverso le parole, la persona esprime dei significati, dei concetti, delle idee, ma, allo stesso tempo, con il corpo, la voce, la persona esprime ciò che prova. La comunicazione non verbale esprime lo stato d’animo di una persona e spesso questo è proprio ciò che la persona vuole comunicare. Ascoltare allora significa tenere presente questa dimensione ogni volta che è necessario, ossia quantomeno ogni volta che il discorso diviene personale e relazionale. Più il discorso riguarda la dimensione personale e relazionale, più l’ascolto dello stato d’animo con cui viene accompagnato è importante.

La dimensione emotiva di un discorso, la sua carica emozionale, trasforma il significato del discorso. Se riprendi l’esempio della frase di cui sopra, vedi come attraverso l’ascolto della particolare coloritura entusiasta della domanda, si comprenda come la persona non è solo interessata al desiderio dell’altro di uscire, ma esprime la gioia di poterlo fare, il desiderio personale di poter uscire insieme con l’altro, cambiando in modo radicale il significato della frase che da “Vuoi uscire stasera?”, diventa “Sarei proprio felice di uscire stasera (con te) (e mi farebbe piacere moltissimo che tu lo capissi e lo accogliessi)!”. Spesso esprimiamo ciò che vogliamo (o pensiamo) più attraverso una coloritura emotiva che usando il puro e semplice significato delle parole a nostra disposizione. Ad esempio, quando usiamo parole come sempre, mai, niente, tutto, tutti, nessuno stiamo indicando uno stato d’animo, piuttosto che un reale significato. Raramente, i termini sopra menzionati indicano uno stato reale del mondo. Difficile che essi indichino qualcosa che esiste veramente. Piuttosto indicano che la persona è emotivamente toccata, in positivo come in negativo, ed esprime questo

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attraverso una forma di assolutizzazione. “Lasci sempre le cose in giro!” (o “Non metti mai in ordine!”) esprime frustrazione rispetto al desiderio di ordine o pulizia di una persona, non indica una vera e propria abitudine dell’altro. “Ti dimentichi tutto!” (o “Non ricordi nulla”) anche qui una frustrazione rispetto ad un desiderio di maggiore efficienza, piuttosto che una vera e propria malattia dell’altro. “Tutto è meraviglioso quando ci sei!” esprime un grande piacere di condividere, di essere insieme, non certo una trasformazione del mondo. Quando qualcuno ci rimprovera o esprime in questo modo la sua gioia di stare con noi, ciò che dobbiamo ascoltare non è tanto il senso letterale delle parole, l’accusa o l’iperbole, quanto il sentimento o l’emozione che vi è sotto: frustrazione, irritazione, rabbia oppure gioia, soddisfazione, contentezza. È di questo che si sta parlando, anche se in modo indiretto.

Ascoltare lo stato d’animo per comprendere il bisogno

Il concetto di bisogno è stato definito in diversi modi, qui userò una definizione semplice e, spero, utile. Il bisogno è una necessità: ciò che un individuo considera necessario per vivere, e per vivere al meglio. Il bisogno è ciò che un essere vivente deve ottenere o fare per mantenersi tale. Negli esseri umani, a ciò che è dato sapere oggi, sembra che i bisogni siano gli stessi per tutti. Variano, invece, i modi di soddisfarli. Ad esempio: la fame è identica per tutti, ma non tutti mangiano le stesse cose. I bisogni sono stati individuati e raggruppati in vari modi, tra i più “famosi” c’è la piramide di Abraham Maslow. Noi, tuttavia, ci rifaremo alla classificazione che ne dà Marshall Rosenberg , egli organizza i bisogni in varie tipologie. A differenza di 4

Maslow, Rosenberg, ad esclusione dei bisogni vitali, non fa una gerarchia dei bisogni, ma li considera tutti potenzialmente compresenti. Ogni individuo, nell’arco della sua vita, organizza la propria gerarchia. In ogni caso, raramente una persona ha un solo, unico, bisogno, ma ne ha più d’uno contemporaneamente. Oppure, in certi contesti o momenti, un bisogno diviene preponderante, mentre in un altro contesto o momento lo diviene un altro. Ecco l’elenco di bisogni di Rosenberg:

Vitali: fisiologici, cibo, cure, protezione, riposo, sicurezza. Significato: scopi, senso, comprensione, apprendere, crescere. Trascendenza: armonia, spiritualità, bellezza, ordine, sacro. Interdipendenza: amore, accettazione, accordo, fiducia, pace. Autonomia: libertà, autodeterminazione, scopi, indipendenza. Integrità: autostima, autenticità, rispetto, sincerità, lealtà. Gioco: benessere, divertimento, fantasia, creatività, piacere.

Cfr.M.B.Rosenberg, Le parole sono finestre oppure muri, Edizioni Esserci.4

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Celebrazione: delle gioie e dei dolori, condivisione dei risultati.

Come si può notare, molti di questi bisogni non sono materiali, ma di natura immateriale e, in particolare, relazionale. La comunicazione nella soddisfazione di molti di questi bisogni è essenziale. Per esempio: comprensione, amore, accettazione, accordo, fiducia, pace, rispetto, sincerità, lealtà, piacere, condivisione… sono tutti bisogni che hanno la possibilità di essere soddisfatti solo attraverso un’adeguata comunicazione. Ogni essere vivente è letteralmente messo in moto (e-mozione) dalla necessità di soddisfare i propri bisogni. Le necessità che i bisogni rappresentano scatenano le emozioni di una persona. Per questo tra emozioni e bisogni c’è uno stretto legame. Ora, la questione è che le persone non sempre parlano dei bisogni in modo diretto e chiaro. Essi rimangono sullo sfondo, nascosti da tutti i comportamenti o le modalità attraverso i quali si soddisfano. Invece di parlare dei nostri bisogni profondi, le persone parlano d’altro. Questo rende più difficile la comprensione. Ascoltare significa quindi capire a quali bisogni occorre rispondere, quale richiesta ci viene fatta. Chi ascolta, dunque, dovrebbe concentrarsi, in certe occasioni quantomeno, su quali siano i bisogni che muovono la persona e, insieme, il modo in cui la persona ha appreso o cerca di soddisfare il proprio bisogno. Ad esempio, se una persona dice: “Nessuno mi ha augurato buon compleanno” esprime un bisogno di celebrazione, condivisione, forse anche di amore o stima. Chi ascolta dovrebbe cogliere ovviamente, al di sotto della tristezza con la quale la frase viene proferita (o rabbia), quel tipo di bisogno. Non dovrebbe perciò rispondere: “Ma no! Dai, guarda quanti messaggi hai ricevuto!”, ma potrebbe invece parafrasare ed empatizzare un minimo dicendo: “Vuoi dire che ti dispiace non aver ricevuto gli auguri da alcune persone?”. Se qualcuno dice “Non ti fai mai vedere!” esprime un giudizio/accusa che nasconde solo la frustrazione data dal desiderio di vederti di più. L’ascoltatore, se è la parte in causa, potrebbe, se riesce a contenere a sua volta la rabbia che l’accusa gli potrebbe scatenare, reagire in questo modo:” Mi dispiace sentirti arrabbiata/o. Vorresti vedermi più spesso?” Oppure, a seconda della situazione, “Anche a me farebbe piacere vederci più spesso, come possiamo fare?”. Spesso l’ansia, la paura, non solo la rabbia, nascondono i nostri bisogni e si manifestano in modi controproducenti. In aula, una volta, abbiamo immaginato un genitore alle prese con una figlia (diciott’anni appena compiuti) che voleva andare in Croazia con gli amici, per una breve vacanza. Il padre all’ennesima richiesta del permesso, sbotta dicendo “Non ci vai in Croazia, è troppo pericoloso!”. Al che la figlia risponderà, probabilmente, in modo altrettanto brusco. Certo qui, non si può chiedere alla figlia la coscienza di un ascolto attento delle paure del padre, ma forse si può chiedere al padre, magari insieme con la madre, di ascoltarsi e di capire che il punto non è la vacanza o la Croazia, ma il suo bisogno di sicurezza, e quindi di tranquillità. È possibile negoziare tra il bisogno di sperimentarsi nell’autonomia di una figlia che sta crescendo ed è appena maggiorenne e quella dei genitori che

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vogliono essere rassicurati sulle condizioni del viaggio e che la figlia non finisca in pericolo? 5

Al di là della soluzione finale, l’ascolto reciproco aiuterebbe almeno a ridurre la conflittualità, per certi versi inevitabile. Immaginiamo allora che il genitore, ascoltandosi, comprenda che ha paura: la situazione è comunque una novità e lui non è ancora veramente abituato a considerare la figlia una persona autonoma, anche su altri versanti lo dimostra ampiamente. Egli, inoltre, teme per la sua incolumità, ma teme anche di perdere il controllo sulla vita di lei. Chi incontrerà? Cosa faranno? Si metteranno in pericolo? Sono timori che un qualsiasi genitore vive. Ascoltandosi, accettandosi, il padre, alla richiesta della figlia, potrebbe rispondere: “Mi fa piacere il tuo bisogno di conoscere, scoprire e sperimentarti, (ovvero: di libertà e autonomia), ma allo stesso tempo ho bisogno di un po’ di sicurezza, ho bisogno di capire meglio, ti va di darmi qualche informazione in più?”. In questo modo, il genitore prova ad ascoltare i bisogni di entrambi e a tenerli presente nella ricerca di una forma di soluzione. Forse si può fare di meglio, ma almeno non si inizia litigando e quindi complicando le cose.

Ascoltare la richiesta di valore

Se è pur vero che non esista una vera e propria gerarchia dei bisogni, soprattutto se si escludono quelli vitali, è altrettanto vero, secondo me, che alcuni bisogni hanno una urgenza imprescindibile. Quindi, una sorta di gerarchia esiste. Non solo i bisogni vitali sono prioritari, c’è un bisogno che considero fondamentale, ed è quello di “essere considerati un valore”. Il che significa (soprattutto): amore, accettazione, rispetto e stima. Questi bisogni sono l’espressione concreta di un’unica, grande, profonda e ineludibile esigenza: quella di essere considerato un valore per qualcuno. Così, un ascoltatore attento non faticherà ad osservare che, pur insieme ad altri, un bisogno sarà sempre presente: essere accettato, amato, stimato e rispettato. Sotto ogni movimento, esigenza, bisogno; sotto ogni desiderio, impulso ad agire, comportamenti; sotto ogni gioia o dolore, vittoria o sconfitta; sotto ogni accordo o conflitto io non vedo che questo: un valore riconosciuto, un valore misconosciuto. Una volta che la comunicazione, i comportamenti, le azioni o gli atteggiamenti hanno mandato un messaggio positivo a questa esigenza, tutto il resto probabilmente assume una rilevanza secondaria o può scorrere più facilmente. Se questo bisogno non viene soddisfatto, invece, tutto il resto sarà difficile e doloroso.

Ovviamente non sappiamo nulla del contesto e quindi facciamo finta che sia tutto normale e definito. La 5figlia potenzialmente in grado di andare e i genitori solo spaventati.

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Le persone che incontro hanno un profondo bisogno di veder riconosciuto il proprio valore. Non importa cosa facciano, come siano o cosa abbiano raggiunto. Se una persona - e ce ne sono molte - non è stata educata in modo irreversibile a non chiedere di essere considerata un valore; se anni e anni di privazione non l’hanno assuefatta all’assenza di amore, accettazione, stima o rispetto, se questa persona è sopravvissuta con le facoltà intatte a questa violenza, non potrà non aver bisogno di essere considerata, anche per poco, anche solo da qualcuno, un valore. Purtroppo, non parliamo direttamente di questo. Non chiediamo apertamente di essere considerati un valore, non chiediamo di essere amati, accettati o stimati, anche se poi, in realtà, non facciamo altro dalla mattina alla sera. Ma non lo riusciamo a fare direttamente. Vogliamo che accada spontaneamente, vogliamo che gli altri lo facciano spontaneamente. Non ci interessa comprare valore, anche se a male estremi molti ricorrono al denaro per comprare il valore che vorrebbero, per ottenere un valore dagli altri. Non ci interessa né ci soddisfa veramente, ma, a volte, oggetti (vestiti, case, macchine, eccetera), posizioni sociali, cariche, autorità, fama servono a compensare quel valore che non arriva gratuitamente, direttamente, pienamente dalle persone che vorremmo ce lo dessero. Così ascoltare è una delle forme più comuni ed efficaci di dare valore alle persone. Se dare valore significa “prestare attenzione”, l’ascolto è la forma più efficace per comunicare attenzione; è, esso stesso, una delle forme più importanti di attenzione e quindi di rispetto. Molto spesso il bisogno di considerazione non è altro che il bisogno di essere ascoltate: non aiutate, non guidate, non supportate, non consigliate, ma semplicemente ascoltate, comprese. La comprensione è un bisogno fondamentale e l’ascolto, che ne è uno strumento, è una delle forme attraverso il quale possiamo soddisfarlo. Ascoltare, quindi, è già dare valore. Ascoltare è esprimere un’attenzione importante che aiuta le persone di per sé.

Perché, a volte, è meglio non ascoltare?

L’ascolto è un’attività cognitiva importante e come ho già scritto prima è qualcosa che occorre dosare ed indirizzare. Il filtro dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti attraverso il quale, inevitabilmente, ascoltiamo, può, in certe occasioni, rivelarsi non solo strategico, ma necessario. Così, a volte, è meglio far finta di non aver sentito, ascoltato o capito. Ad esempio, se qualcuno mi provoca con una mezza battuta, può essere più conveniente per tutti far finta di niente, tirare avanti. Può essere utile o strategico non ascoltare il rimprovero sottile che ci viene fatto per non alimentare una conversazione che non porterebbe a nulla. Può essere utile o strategico non ascoltare la minaccia che è insita nella voce alta, ma considerare che la persona sia così aggressiva perché in fondo lei stessa si sente minacciata e ha

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bisogno di essere rassicurata. Può essere utile e strategico non ascoltare il nostro bisogno di essere riconosciuti quando qualcuno di fronte a noi esprime lo stesso bisogno, in questo caso è opportuno dare riconoscimento prima di chiederlo. Così come sarebbe opportuno non ascoltare chi chiede vendetta, chi incita alla reazione brutale, chi ci conduce verso uno scontro di cui non possiamo prevedere l’evoluzione. Ascoltare è sempre scegliere. Scegliere se farlo o no, come farlo, cosa ascoltare, se limitarsi ai significati, se parafrasare o meno, se chiedere per capire meglio o meno; se empatizzare con le emozioni o andare al di là e cogliere i bisogni; se rispondere innanzitutto all’esigenza di essere riconosciuto come un valore oppure concentrarsi su altro. Ascoltare è il frutto di un comportamento, per questo non può essere un’attività costante, continua, anche se alcuni riescono a farlo per molto più tempo di altri, con molto più persone. O almeno danno questa impressione. Ascoltare è un’attività umana tra le più delicate ed importanti. Si impara con il tempo a praticarla sempre meglio.

Ascolto: cosa fare?

In sintesi, riassumiamo qui i comportamenti più idonei per sviluppare un ascolto consapevole e intelligente.

1. Restare vigile e consapevole del fatto che la comunicazione in se è un processo che comprende il fallimento come parte integrante del suo processo. Non è, l’incomprensione, frutto di una volontà (può esserlo, ma spesso non lo è), non è un limite di qualcuno. L’incomprensione è una possibilità sempre presente quando si comunica.

2. Ascoltare se stessi, innanzitutto. Passare del tempo con se stessi. Soli. Meditare, scrivere un diario, camminare, nuotare, ascoltare musica, farsi un giro in macchina di notte, ognuno ha il suo modo per prendersi del tempo per se stesso. Farlo. E in questo tempo preso per sé, farsi delle domande, ascoltare le risposte, lo stato d’animo con cui esse emergono. Ascoltare le numerose voci che ci abitano. Cosa dicono? Cosa vogliono? Ascoltare tutti, come fossero bambini. Ascoltare se stessi richiede accettazione e sospensione di giudizio.

3. Tenere presente che l’ascolto, di se stessi e degli altri, può esercitarsi su tre dimensioni: il significato delle parole, lo stato d’animo che le accompagna ed i bisogni.

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4. Quando parliamo, non sempre prestiamo la dovuta attenzione alle parole che usiamo. Invece di usare le parole necessarie, le parole adatte, le parole che meglio rendono il nostro pensiero, usiamo le parole che siamo abituati ad usare. Non sempre queste coincidono con ciò che si vuole dire. Non sempre queste arrivano chiare all’orecchio dell’altro. Così chi ascolta dovrebbe fare attenzione all’ambiguità insita nel linguaggio, alla sua inevitabile vaghezza.

5. Per comprendere meglio il significato delle parole occorre: A. Conoscersi meglio possibile, conoscendo così il modo d’intendere certe

parole. Marta che ha una visione negativa della parola “coppia”; Giorgio considera la parola “disciplina” in modo negativo, mentre per Fabio è qualcosa di altamente positivo. Se non ci si conosce, frequentandosi, parlandosi, confrontandosi, è più difficile capirsi.

B. Fare domande dirette sul significato di certi giudizi, quando si intuisce che alcune parole sono particolarmente significative, o semplicemente si usano parole astratte. Consiglio, in certi casi, di fare domande dirette e semplici su intenzioni o scopi. Ecco alcuni esempi:

- “Cosa intendi quando dici che l’azienda non si comporta correttamente?”

- “Cosa vuol dire “comportarsi correttamente?” - “Cos’è per te una “crisi”?” - “Cosa vuoi ottenere da questa situazione?” - “Quali sono le tue intenzioni? Non mi è chiaro”.

C. Chiedere conferma dopo una parafrasi: “Mi stai dicendo che…, è così?” “Ho capito che…, è quello che intendevi?”

6. Tenere presente la dimensione affettiva dei discorsi, soprattutto quando si parla di rapporti personali, di se stessi, di altri; quando si parla di come stiamo, di come ci sentiamo, di come sentiamo di essere considerati da altri. A. Esprimere il proprio stato d’animo: “Mi dispiace”; “Ne sono felice” B. Esprimere lo stato d’animo della persona così come lo si percepisce: “Mi

dispiace, sei proprio arrabbiato”; “Sono felice di vederti così contenta”. In molti casi è molto importante tenere sempre presente lo stato d’animo e segnalare che lo stiamo considerando, lo stiamo cogliendo. Spesso non è facile se siamo coinvolti emotivamente. Così se una persona a cui teniamo è triste tenderemo a volerla gioiosa, piuttosto che ascoltare ed empatizzare con lei. Se invece siamo con una persona che ci irrita, tenderemo a dirle cosa sbaglia, ad accusarla, piuttosto che ascoltare la nostra rabbia ed empatizzare con noi stessi. Non è raro che una persona particolarmente gioiosa possa infastidirci. Quando è possibile, invece, possiamo partecipare alle emozioni altrui ed esprimerlo. Le persone si sentono ascoltate in modo più profondo.

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7. Tenere presente che alcuni discorsi, soprattutto quando sono emotivamente colorati, esprimono bisogni, necessità ed esigenze della persona che non vengono espressi in modo diretto. In questo caso occorre provare a parafrasare e provare ad indagare l’esigenza che c’è sotto un’espressione di disagio, un’accusa, un rimprovero, oppure un’espressione di particolare entusiasmo o gioia. A. “Fate sempre quello che volete voi!” esprime il bisogno di partecipazione,

condivisione, attenzione. Al che si potrebbe rispondere: “Vuoi dire che vorresti essere maggiormente coinvolto nelle decisioni?”. Si badi bene che, in questa prima fase dello scambio, non ha alcuna importanza se sia vero o meno, se la persona abbia titolo o no di partecipare. Se non si ascolta il bisogno - e se la persona arriva a dire così vuol dire che comunque non ha avvertito ascolto a quel livello - la persona non si fermerà, non sarà in grado di dialogare e quindi anche capire, nel caso, che è invece spesso coinvolto o non ha titoli per esserlo.

B. Non si negano o negoziano i bisogni, almeno quelli veri, fondamentali. Si negozia però su come soddisfarli. A volte, soddisfare un mio bisogno entra in contrasto con quello di un altro. È il caso della figlia (diciassette anni) che voleva andare in Croazia con gli amici, per una breve vacanza. Lei ha bisogno di sentirsi autonoma, di fare esperienze, di vivere l’appartenenza al suo gruppo. Il padre, invece, ha bisogno di sicurezza e controllo sulla incolumità (e i comportamenti) della figlia, di cui è anche legalmente responsabile. La prima vuol andare in vacanza con gli amici, per rispondere al suo bisogno. Il padre vuole impedirglielo per rispondere al suo. I due bisogni sono entrambi sacrosanti e non andrebbero messi in discussione. Ciò che le due persone dovrebbero fare è invece trovare modi adeguati per soddisfarli. Questo è il principio cardine di ogni negoziazione. Per approfondire questo tema, che esula dal nostro testo, rimandiamo ai lavori della Scuola di Harvard che su questo tema ha proposto le migliori strategie oggi conosciute. Per dare qui qualche suggerimento, nel caso 6

specifico, il padre potrebbe semplicemente iniziare a chiedere alla figlia di trovare un modo perché lui possa sentirsi più tranquillo con lei in vacanza. “Io temo per te e siccome sono anche responsabile legale di ciò che puoi fare, temo anche per me e per noi. Vorrei aiutarti nel soddisfare quello che vuoi tu, come possiamo fare? Cosa puoi propormi per farmi sentire più tranquillo? (oppure, variante: “Ti va se vediamo insieme qualche soluzione a cui ho pensato perché io e tua madre possiamo stare più tranquilli?”)

C. La richiesta più diffusa, frequente, inevitabile è quella di essere considerato un valore. Ascoltarla significa tenere presente che in ogni nostro discorso è

Cfr. William Ury, Negoziare in situazioni difficili, Alessio Roberti Editore.6

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bene rimandare una qualche forma di valorizzazione. Ascoltare in se è una delle forme più importanti di valorizzazione. Quando il padre sopra non nega a priori l’esigenza della figlia di andare con gli amici, ma è pronto a negoziare, le sta dicendo che presta attenzione a lei, la considera un valore. Quando una persona cerca di capire meglio un’altra le sta dicendo che è un valore. Quando sospendiamo il giudizio, empatizziamo, stiamo dicendo che l’altro è un valore.

8. Ascoltare significa anche non prestare attenzione a ciò che potrebbe scatenare reazioni ancora più difficili da gestire. Significa ascoltare in modo costruttivo, in modo da indirizzare lo scambio verso delle soluzioni pratiche, costruttive, positive quanto possibile, piuttosto che recriminazione, accuse o rimproveri reciproci. Per questo è bene non reagire in modo diretto ed immediato a provocazioni, sarcasmi, accuse e rimproveri. Prendersi del tempo, per costruire una risposta adeguata, per individuare responsabilità reali, bisogni nascosti. E poi imbastire una risposta adeguata.

Esprimersi

Il verbo “esprimere” vuol dire “manifestare, rendere palese con parole ed atti i propri pensieri e i propri sentimenti”. La parola “esprimere” deriva dal latino “ex” più “premere”: letteralmente “premere fuori”. Esprimere qualcosa è un movimento che va dall’interno verso l’esterno; ha a che fare con lo “spremere”, così quando esprimiamo qualcosa è come se manifestassimo solo una parte di noi. Così come si spreme un limone estraendone il succo, ma non tutto ciò che c’è, anche quando ci esprimiamo dovremmo considerare che ciò che esprimiamo è il “succo” di qualcosa che in noi resta più grande ed articolato. Tale è il nostro universo interiore, conscio e inconscio, che è sempre più di quanto possiamo esprimere. Molte parti di noi possono rimanere inespresse: parti del nostro pensiero, presupposti, idee, giudizi così come le nostre potenzialità possono non essere espresse al meglio. Il discorso, dunque, ciò che comunichiamo attraverso i vari canali, è solo una parte che emerge e che non rende conto di tutto ciò che si potrebbe o si dovrebbe dire. Negli esseri umani l’espressione è un bisogno fondamentale. L’essere umano ha bisogno di esprimere le proprie necessità, i propri pensieri, il proprio vissuto. Ha bisogno di condivisione e quindi di manifestare agli altri ciò che si sente dentro. Per questo, forse, la nostra espressione ha raggiunto una complessità che altri animali non hanno raggiunto, almeno, per quanto ne sappiamo oggi. Abbiamo cercato di esprimere quanto più possibile ciò che è il nostro vissuto interiore ed abbiamo inventato innumerevoli forme espressive per farlo. Anche se sentiamo di non riuscire ad esprimere veramente ciò che abbiamo dentro con le parole, gli atti

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o altre forme espressive, come le forme artistiche, non dobbiamo dimenticare che abbiamo un patrimonio di possibilità espressive straordinario. Oggi, ancora più di ieri. Possiamo in realtà esprimere tantissime condizioni interiori o possiamo indicare in maniera praticamente infinita gli stati del mondo così come lo percepiamo. Imparare ad usare questa facoltà è il cuore di questo lavoro. Scrivo questo testo proprio per permetterti di esprimerti meglio e quindi essere meglio compreso dagli altri. Nei capitoli precedenti ho cercato di indicare come esprimersi in modo più consono, appropriato, coerente, facilitando così la comprensione. Nel capitolo dedicato alla percezione, ad esempio, ho indicato come esprimersi, tenendo presente come funziona la nostra percezione. Se noi abbiamo un ruolo importante nel definire ciò che ci accade, allora il modo in cui ci esprimiamo ha un’incidenza sulla nostra realtà, sul nostro vissuto. Nel capitolo sul valore delle persone ho indicato come esprimere valore nei confronti delle persone, elemento fondamentale per favorire la buona comprensione tra le persone. Nel capitolo sull’affettività ho indicato come esprimere emozioni e sentimenti in modo da essere realmente compresi, invece che giudicati o rimproverati. Continuerò a parlare di espressione (e ascolto) anche nei capitoli successivi, perciò in questo capitolo mi soffermerò soltanto su alcuni aspetti dell’espressione che ritengo importanti per favorire la comprensione tra le persone. In particolare, vorrei soffermarmi su alcuni criteri di base per essere compresi, alcune forme di espressione e su come esprimere meglio le proprie esigenze.

La conquista della chiarezza

Da sempre lo scopo di ogni espressione è quella di essere chiara. La chiarezza è sinonima di semplicità e di comprensibilità, ma esprimersi con chiarezza è una conquista. La semplicità di espressione è un traguardo che può richiedere molto lavoro e condizioni favorevoli. L’”essere chiari”, infatti, non è una condizione oggettiva, una proprietà intrinseca del discorso, ma un giudizio relativo che qualcuno emette a partire da un punto di vista specifico. Un discorso chiaro di per sé, oggettivamente chiaro, non esiste, e non può esistere per i motivi che abbiamo illustrato sopra. Quando parliamo e ascoltiamo, lo facciamo sempre in modo parziale: diciamo alcune cose e non altre, ascoltiamo alcune cose e non altre. Fraintendersi, capire poco o male, è normale ed accade continuamente. La chiarezza diventa quindi qualcosa che si costruisce insieme, qualcosa di relativo, legato alle persone che comunicano e al contesto. Non si è chiari con se stessi, ma lo si è in rapporto a qualcosa o a qualcuno, lo stesso discorso può essere chiaro per qualcuno, ma non per qualcun altro. Inoltre, la chiarezza è un processo e non uno stato. Non si è chiari, ma lo si diventa sempre più, a mano a mano che

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le persone si conoscono ed iniziano a "parlare la stessa lingua". Esistono, tuttavia, alcune condizioni che permettono di accrescere il tasso di chiarezza di un discorso. Eccole in modo schematico:

a) La lingua con la quale ci si esprime. Conoscere la lingua e le sue sfumature è la base della possibilità di esprimersi con chiarezza. Le parole hanno significati a più dimensioni: conoscere una lingua significa proprio conoscere tutte queste dimensioni e usarle nel proprio discorso, tenerle presente per indirizzare la comprensione.

b) La ridondanza. Un discorso può diventare più chiaro se è espresso in modi diversi, attraverso registri diversi, parole diverse ed anche mezzi diversi. La ripetizione sotto varie forme dello stesso concetto aumenta la possibilità di essere chiari.

c) La condivisione dei mondi personali. Le persone che condividono le proprie storie ed il proprio vissuto possono comprendersi meglio. Sembra una banalità, e lo è, ma condividere storie e vissuti significa anche raccontarsi il più possibile, esprimere i propri pensieri, opinioni e stati d’animo in modo aperto e diretto, cosa che spesso non è incoraggiata. Le persone passano molto tempo insieme, ma non è detto che condividano o che raccontino di sé in modo adeguato da conoscersi e quindi comprendersi. Penso al mondo del lavoro dove si tende ad essere molto più discreti di quanto a volte sia necessario. Scambiarsi molte informazioni, anche superflue, può essere molto utile per rendere i discorsi importanti più chiari.

d) Il corpo, la sua presenza, la sua espressività. La presenza fisica dell’interlocutore aiuta la creazione di un discorso chiaro. Il corpo manda continui messaggi o feedback che permettono a chi parla di orientare il proprio discorso, articolarlo e svilupparlo in modo tale che possa essere compreso meglio.

e) La condivisione del contesto. Per condivisione del contesto intendo sia la condivisione dello spazio nel quale la comunicazione avviene, sia la condivisione del tempo lungo il quale si sviluppa la comunicazione. Le persone che condividono i contesti in cui parlano hanno molta più possibilità di comprendersi. Se sono presente, di fronte all’altro, se posso osservare cosa succede attorno a noi e nell’altro, se condivido lo spazio e quello che vi accade mentre sto parlando, posso capire meglio se il mio discorso sia stato compreso o no, e di conseguenza posso precisarlo meglio, perfezionarlo, renderlo più adatto all’altro. Non condividere il contesto è una mancanza importante nella comprensione del discorso. È il motivo per cui le mail o le telefonate possano essere estremamente pericolose. Tali strumenti possono dare l’impressione di comunicare in modo diretto, ma in realtà essi non comprendono una vasta porzione di contesto e per questo possono dare vita a spiacevoli malintesi.

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La chiarezza è un processo a cui occorre fare attenzione. Ecco alcuni ulteriori suggerimenti per migliorare la chiarezza dei propri discorsi:

1. Il contesto: in che contesto mi trovo a tenere il mio discorso? L’espressione sarà tanto più comprensibile ed accettabile tanto più sarà coerente con il contesto. Parlare di calcio alla ragazza che si è invitato a cena per la prima volta, non è un modo appropriato di esprimersi, dato il contesto in cui ci si trova. Esprimersi, anche per scherzo, in modo volgare in certi contesti può essere appropriato, in altri altamente sgradevole. Scherzare è un altro modo di esprimersi che ha una sua efficacia solo in determinati contesti.

2. Lo scopo del discorso: qual è lo scopo del mio discorso? Cosa voglio ottenere alla fine del discorso? La comunicazione è “agire insieme in funzione di uno scopo”. Lo scopo regola l’espressione. Può facilitare la comprensione esplicitare il proprio scopo.

3. Chi sono gli interlocutori: quali caratteristiche hanno, quali valori, quali scopi perseguono, quali storie raccontano, quali abitudini, quale lingua parlano (anche gergale)?

4. Usare parole concrete e specifiche che permettano di ridurne la polisemia e quindi la possibilità di interpretazioni diverse.

5. Fare attenzione alle reazioni dell'altro, in modo da correggere, eventualmente, il proprio discorso. Osservare se l’altro dà segni non verbali di incomprensione: aggrotta la fronte, stringe le sopracciglia, guarda fisso. Nell’eventualità chiedere sempre: “Sono stato chiaro?”

6. Verificare, dopo aver parlato, che l’altro abbia compreso (o di aver compreso) sia il significato che le intenzioni. Quest’atto, tanto semplice, è in realtà poco usato perché potrebbe essere frainteso. Infatti, può essere sentito come aggressivo (io interrogo te) o offensivo (tu non capisci). Ma è opportuno, con le dovute maniere, chiedere comunque. Ad esempio: “Potrebbe ridirmi, così come le viene, cosa ho detto?” “Siccome ho bisogno di verificare cosa sono riuscito a spiegare, potreste gentilmente dirmi cosa vi è rimasto di quanto detto?” Verificare in modi anche indiretti attraverso test, osservazioni, prove cosa sia stato compreso del proprio discorso.

Abbiamo osservato alcune condizioni per essere chiari. Vediamo ora, in modo sintetico cosa può rendere poco chiaro un discorso. Quando un discorso rischia di essere poco chiaro? Quando:

• è automatico, impulsivo. Quando si reagisce a qualcosa, quando ci si esprime sull’onda di una reazione.

• segue il proprio filo senza curarsi di chi ascolta, senza osservarlo, senza considerarlo. Quando si è presi totalmente da ciò che si deve dire, senza rendersi conto che il proprio dire è inutile senza l’ascolto e la comprensione degli altri.

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• dà per scontato che gli altri conoscano o capiscano. Quando dà per scontato gli elementi essenziali del proprio discorso.

• è molto sintetico, schematico. Il fatto che poche parole siano immediatamente chiare richiede condizioni molto speciali, possibili, ma rare. Per aumentare il grado di comprensione è necessaria una certa ripetizione, ridondanza e abbondanza di informazioni.

La chiarezza è una conquista che richiede attenzione e tempo. Un’espressione chiara è un punto di arrivo, non una proprietà intrinseca del discorso, per questo c’è bisogno di migliorare continuamente la propria comunicazione.

Descrivere, interpretare, giudicare: tre forme base dell’espressione

Carl Rogers scrisse: La nostra prima reazione di fronte all’affermazione di un altro è una valutazione o un giudizio, anziché uno sforzo di comprensione. Quando qualcuno esprime un sentimento o un atteggiamento o un’opinione tendiamo subito a pensare “è ingiusto”, “è stupido”, “è anormale”, “è irragionevole”, “è scorretto”, “non è gentile”. Molto di rado ci permettiamo di “capire” esattamente quale sia per lui il significato dell’affermazione.

Per ridurre l’incomprensione tra le persone può essere utile prendere coscienza di alcune distinzioni che il linguaggio è capace di fare, ma anche di confondere. Parlando possiamo, infatti, distinguere tre processi: la descrizione di un fatto o uno stato d'animo, l’interpretazione delle cause dei fatti o stati d’animo e la loro valutazione. Nel primo caso, cerco con le mie parole di ridurre al minimo il mio punto di vista, che tuttavia c’è e rimarrà sempre, e di offrirne la descrizione così come lo osserverebbe anche un terzo o un estraneo. Dirò dunque “Il treno è partito alle 12.15 invece che alle 12”, questo dato potrebbe essere verificato da terzi. Seppur presente, la soggettività della persona, nella scelta delle parole, della formula o nell’intonazione, è ridotta al minimo possibile. Nel caso dell’interpretazione io dirò “Il treno è partito alle 12.15 invece che alle 12, probabilmente (secondo me) ha avuto un problema alla locomotiva”, cerco di dare una spiegazione al fatto che il treno sia partito con 15’ di ritardo. Questa interpretazione è comunque un processo personale, basato su presupposti personali, su conoscenze limitate e su un punto di vista. Ora, cosa ancora diversa è dire “Partono sempre in ritardo. È partito alle 12.15. Sono i soliti inefficienti!”, quest’ultima parte è un giudizio di valore negativo. Esso è assolutamente legittimo, ma è molto diverso da un’interpretazione e da una descrizione di un fatto. È bene saper cogliere questa differenza. Perché ci si renderà conto che non passiamo molto tempo a descrivere, né investiamo molta energia nel verificare, approfondire e comprendere le interpretazioni. In genere, andiamo direttamente al giudizio.

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Così, quando due persone parlano è probabile che comunichino attraverso giudizi piuttosto che attraverso descrizioni o interpretazioni. È comunque più probabile che si confrontino interpretazioni piuttosto che descrizioni. Anzi è possibile che, a partire da un giudizio, si costruiscano interpretazioni che si sostiuiscono alle descrizioni di fatti (in modo, a questo punto, tendenzioso). Ma soprattutto, ed è la cosa peggiore, si fa tutto questo senza la benché minima consapevolezza di queste distinzioni. Si confondono i tre livelli con conseguenze ovviamente disastrose. Si prende un giudizio per un dato, una interpretazione per un dato o per un giudizio. Insomma, la mancata coscienza di questi tre importanti significati non aiuta la comprensione tra le persone. Non solo, confondendo questi piani, allinearsi su un piano comune e andare d’accordo, è molto complicato. O si è d’accordo sul giudizio di valore oppure non è possibile trovarlo. Le persone costruiscono una realtà che è espressione di un giudizio e poi si aspettano che gli altri siano d’accordo, dopodiché prendono questo disaccordo come un attacco al proprio valore. Anche se la gente crede di costruirsi un giudizio a partire da una realtà, è più probabile che le realtà che credono di vedere siano espressione di un giudizio o di un'interpretazione che si sono costruiti “prima” di avere a che fare con la realtà stessa. Comunicare in questo modo implica difficoltà, fraintendimenti e spesso conflitti. E questo rende tutto maledettamente confuso e spiacevole. Purtroppo, non esiste una realtà comune data, ma occorre all’interno di qualsiasi gruppo, imparare a costruirla insieme, a non darla né per acquisita né per scontata. Ecco perché è così importante definire bene gli scopi e i valori, comunicare continuamente su di essi, ribadire e ripetere. Ecco perché è così importante imparare ad ascoltare gli altri, e se stessi, con l’attenzione ai criteri che ciascuno usa nella propria realtà, senza giudicarli in assoluto, ma in funzione degli scopi che si vogliono raggiungere e dei valori che si sono condivisi. Ecco perché, infine, è fondamentale ricordarsi che la propria visione è limitata, soggettiva, personale, anche se estremamente valida. Essa ha e avrà sempre bisogno di altri per potersi allargare, per poter diventare sempre più articolata e complessa, senza questo allargamento non sarà possibile conseguire obiettivi importanti.

L’importanza di chiedere

Quando due persone parlano esprimono diverse cose contemporaneamente. Qui mi soffermo solo su come esprimere meglio, direttamente, ciò di cui si ha bisogno. La nostra educazione, lo so, non ci allena ad una comunicazione semplice e diretta. Né tantomeno ci educa all’espressione diretta di ciò che per noi è importante. Parliamo di tante cose, ma meno di ciò che è importante per noi, di ciò che vogliamo, desideriamo, esigiamo. Passiamo molto tempo ad aspettarci che gli altri lo capiscano, lo evincano da come ci comportiamo, dalle cose che diciamo,

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che però riguardano altro. Rimaniamo spesso delusi, frustrati perché ci rendiamo conto che gli altri non capiscono. Purtroppo, spesso ce la prendiamo con gli altri, mentre dovremmo prendercela con la nostra educazione che è così “primitiva”, comunicativamente parlando. Non ci aiuta. Non ci sostiene. E allora dobbiamo farlo noi stessi, modificando un poco il nostro modo di parlare. Dobbiamo imparare almeno a fare delle richieste adeguate, ad esprimere in modo appropriato ciò che vogliamo, ciò che per noi è importante. Senza vergogna, senza aspettarsi che gli altri, come indovini, colgano i nostri bisogni più profondi dalle nostre poche parole, quando, spesso e volentieri, non riescono nemmeno a decifrare i propri bisogni. Questo non sminuisce, evidentemente, il consiglio di parlare quanto più possibile delle cose importanti per noi, dei nostri valori o schemi che, nel tempo abbiamo imparato a riconoscere come nostri, quelli a cui teniamo, quelli che ci definiscono. È importante farsi conoscere, raccontare se stessi, parlare delle proprie emozioni, dei propri bisogni, delle proprie esigenze, sapendo anche che queste cambiano, con il tempo. Se pensi in questo modo, ho l’impressione - ma è solo un’impressione vaga e non supportata da nessun dato - che alla fine, nonostante tutto il nostro chiacchierare, e nonostante tutti i potenti e variegati mezzi di comunicazione che oggi possediamo, le persone parlino poco di sé, parlano poco delle cose importanti, chiedono poco e così alla fine e capiscono poco l’uno dell’altro. Detto questo, cosa significa “chiedere”? Chiedere può essere inteso come domandare per avere o ottenere qualcosa, volere come prezzo per una vendita o per una prestazione di lavoro. Fig. esigere, comportare. Oppure può significare domandare per sapere. Assumere informazioni per comprendere meglio. Così vediamo che esistono due tipi di richieste: una concreta ed una di conoscenza. L’italiano usa più comunemente chiedere, per la prima situazione, mentre domandare, per la seconda. Anche se i due verbi sono intercambiabili, il primo ha una valenza più concreta, mentre il secondo più astratta. Si chiede un prestito, si domanda una informazione. Non si domanda un mutuo o si chiede una informazione. Chiedere in particolare, deriva da Quaerere che a sua volta estende la radice KA che significa “desiderare” “cercare”. Come chiediamo normalmente? Non so tu, ma io chiedo spesso male, al momento sbagliato, nel modo sbagliato, oppure chiedo troppo o troppo poco. Mi sono domandato perché. Perché è così difficile chiedere “bene”, apertamente, onestamente, direttamente, chiaramente? Direi di poter dare queste risposte in modo schematico:

a) Potremmo dire, forzando un poco le cose, che, almeno fino a poco tempo fa, esisteva una regola socialmente condivisa: “Non è lecito chiedere di essere aiutato a soddisfare i propri bisogni” il che significa sia “Devi risolverti le cose da

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solo, non devi importunare gli altri con i tuoi problemi e le tue necessità” sia “Non hai il diritto, non meriti di essere al centro dell’attenzione di altri, di essere sostenuto o aiutato da altri”.

b) Come corollario di a) possiamo dire, anche qui semplificando molto, che è possibile che genitori o contesti familiari molto supportivi, che offrono ogni ben di Dio al bambino, impediscano lo sviluppo dell’abilità di chiedere: il bambino non sa chiedere, perché riceve già tutto prima di farlo.

c) Soprattutto per quanto riguarda le richieste affettive c’è una sorta di tabù: non si deve chiedere affetto in modo diretto e aperto. Non si deve chiedere riconoscimento, stima, in modo diretto e aperto. Non si deve chiedere mai apertamente. Questo genere di cose deve venire spontaneamente e gratuitamente. Altrimenti, una richiesta affettiva diretta potrebbe metterci in una posizione di inferiorità o subordinazione e può essere doloroso. Oppure potrei ricevere un rifiuto e quindi una disconferma personale, che riguarda me: non sono abbastanza importante, non sono abbastanza amato/a. Il rifiuto alla mia richiesta potrebbe, allora, mettere in crisi la relazione, potrei non accettarlo e potrebbe creare tensione. Questo aspetto è molto spesso più importante della soddisfazione di un nostro bisogno. E quindi ci “sacrifichiamo” per non turbare la relazione e noi stessi.

d) Questa serie di impedimenti ad un aspetto istintivo e necessario per la condizione umana (la soddisfazione di un bisogno), fa sì che le nostre richieste siano comunque da esprimere e allora prendano una forma distorta, spesso controproducente. Ecco cosa succede allora: che non potendo (sapendo) chiedere, le richieste non fatte si tramutano in insoddisfazione che a sua volta si potrebbe trasformare in rabbia o tristezza. Agiamo in modo indiretto contro l’altro o contro noi stessi. E così spesso, non potendo o sapendo chiedere, pretendiamo e quando pretendiamo non otteniamo oppure otteniamo in modo parziale o controproducente.

Sulle pretese ti rimando al testo dedicato, in cui prendiamo in considerazione proprio questa particolare condizione che spesso conduce a dei conflitti. Per ora ci concentriamo sul chiedere.

Quale obiettivo deve avere il chiedere?

Lo scopo del chiedere dovrebbe essere quello di informare gli altri di una nostra esigenza o bisogno. Informare anche di quanto per noi è importante, poiché potrebbe non essere evidente. Devi considerare che le persone, normalmente, hanno voglia di soddisfare i bisogni degli altri. Se non lo fanno è perché hanno a loro volta bisogno di capire o sentire qualcosa.

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Quindi lo scopo del chiedere dovrebbe essere quello di far comprendere e, in linea di principio, cercare la soddisfazione di tutti. L’obiettivo non deve essere quello di cambiare, imporre o cercare la soddisfazione di uno a scapito di un altro.

Le modalità per chiedere

Si possono riassumere schematicamente i comportamenti da tenere presenti nel momento di una richiesta genericamente intesa: 1) Ascolto di se: capire cosa voglio esattamente e perché. È importante capire che

cosa vogliamo veramente prima di chiedere. Sembrerà banale, ma per esperienza so che le persone non solo non sanno sempre cosa vogliano, ma a volte si sbagliano. Credono di volere una cosa mentre invece ne vogliono un’altra. Il tabù che abbiamo nei confronti di un contatto intimo con noi stessi ci ha resi ciechi a noi stessi, ai nostri bisogni, alle nostre stesse dinamiche interiori. Perciò potrebbe accadere di non avere le idee chiare su cosa vogliamo. Se non abbiamo le idee chiare noi, non possiamo pensare che l’altro ce le abbia.

2) Valutare criticamente il nostro desiderio e capire se la richiesta è essenziale e necessaria. Tutto ciò che possiamo fare noi dobbiamo farlo noi, prima che chiederlo agli altri. Se riteniamo che sia necessario l’intervento dell’altro allora chiediamo.

3) Esprimere ciò di cui abbiamo bisogno in modo chiaro, preciso e concreto. È molto importante che la richiesta verta su cose da fare e non da essere. Che si chieda qualcosa di concreto, delimitato e riconoscibile.

4) Oltre a chiedere un comportamento, è bene domandare anche cosa ne pensa l’altro, cosa ha compreso della nostra richiesta. La domanda è essenziale per distinguere la richiesta da una pretesa e per dare il segnale di essere attenti alla soddisfazione dell’altro non solo alla propria.

5) Eventualmente, ascoltare cosa vuole l’altro. Aiutarlo ad esplicitarlo in modo concreto, preciso e chiaro rispetto la sua richiesta. Ascoltare una richiesta aiuta ad iniziare a soddisfare la propria richiesta.

Questi passaggi non valgono sempre ed in ogni contesto, tuttavia, tenere a mente questi aspetti può essere utile. È importante considerare che le nostre necessità possono non essere evidenti e quindi potrebbe risultare necessario esprimersi su di esse in modo semplice, diretto e concreto.

Prendiamo ora due semplici esempi. Normalmente una persona si esprime così: "Ho bisogno che tu ti dia una calmata, sai!". L'espressione "ho bisogno di" in realtà non è appropriata. Si dovrebbe dire: "Vorrei che tu ti dessi una calmata,

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perché quando urli mi sento a disagio". Il bisogno reale, qui, della persona che si esprime è pace, tranquillità, serenità, comprensione. La persona avrebbe potuto dire: "Ho bisogno di calma. Non riesco a ragionare in un clima di tensione. Quando urli così divento teso. Ti va di aiutarmi? Come possiamo fare?" Altro esempio: "La smetti di interrompermi?!" La persona qui dà un ordine al posto di dire di cosa ha bisogno. Il bisogno è quello di esprimersi e la frase avrebbe potuto essere: "È già la terza volta che non riesco a finire il mio discorso. Ho bisogno di esprimere ciò che sento, ho bisogno di sapere che ti è chiaro cosa voglio/cosa è importante per me. Posso finire?" Come si vede, in questo contesto, le persone tendono a a) Dare ordini, dire agli altri cosa fare, criticare, rimproverare piuttosto che dire cosa vogliono. Perciò il suggerimento è esprimere il più possibile, in positivo, cosa si vuole, cosa è importante per noi. b) Le persone tendono ad imporre le loro modalità e cercare accordo su quelle, piuttosto che cercare modalità consone a ciascuno e l'accordo sugli scopi. c) Non fare e non farsi delle domande, ma dare per scontato che esista solo una modalità per soddisfare un bisogno. Non è così. Esistono molti modi per soddisfare lo stesso bisogno, così come esistono molti cibi per soddisfare un bisogno di fame.

Esprimersi: cosa fare?

Proviamo qui a riassumere e ad elencare i suggerimenti pratici per migliorare l’espressione, in modo da ottenere una maggiore comprensione:

1. L’espressione è un processo di manifestazione del nostro mondo interiore, sempre più ricco di potenzialità e significati di quanto riusciamo ad esprimere. Esprimersi è una ricerca costante del modo migliore per rendere ciò che pensiamo, sentiamo e viviamo.

2. Per facilitare la comprensione dell’espressione si possono considerare i seguenti criteri:

a. Contesto: in che contesto mi trovo a tenere il mio discorso? b. Scopo: qual è lo scopo del mio discorso? Cosa voglio ottenere alla fine? c. Chi è il destinatario? quale lingua (o gergo), quali valori, quali scopi

persegue, quali storie racconta? d. Usare parole concrete e specifiche. Infatti, più la parola è legata ad un

significato concreto, più la parola è comprensibile e non si presta a malintesi. Più la parola è riferita ad un oggetto preciso, specifico, verificabile, meno esse hanno bisogno del contesto, e quindi sono più facili da capire. Più le parole sono vaghe, più il contesto cambia il loro significato reale. Più le parole sono astratte, generiche, più la

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comprensione si compromette. Se dico che “voglio diventare più ricco”, ad esempio, il significato espresso da questa frase è abbastanza chiaro, ma anche molto vago. Supponiamo che a dirlo sia io e poi supponiamo che la stessa frase venga detta da Bill Gates. Il significato sarà molto diverso. Il suo diventare più ricco, non ha niente a che fare con il mio!

e. Fare attenzione alle reazioni dell’altro f. Chiedere di ripetere

3. Quando ci esprimiamo dobbiamo distinguere ciò che descriviamo dalla valutazione che ne diamo. Ricordarsi che ogni volta che usiamo il verbo “essere” come definizione della realtà stiamo facendo un gioco: facciamo finta di stabilire una realtà unica per tutti, ma non è così. “La terra è rotonda”. “Mario è pigro”. “Io non sono capace” non sono la stessa cosa e non sono descrizioni assolute della realtà. La prima frase può essere una descrizione, la seconda un giudizio e la terza è una interpretazione. Può essere di aiuto porsi le seguenti domande:

a. Sto esprimendo una valutazione, una interpretazione o una descrizione? b. Se è una interpretazione, su quali basi o informazioni sviluppa la sua

interpretazione? c. Se è una valutazione, quali sono i criteri o i termini di paragone che uso?

4. Quando ci esprimiamo è sempre meglio esprimere innanzitutto ciò che vediamo e solo poi le nostre interpretazioni e i nostri giudizi: “Ho visto che hai fatto… credo che non sia giusto…”

5. Quando esprimiamo una interpretazione sarebbe bene sempre chieder conferma, verificarla: “Penso che tu lo abbia fatto perché eri arrabbiato, è così?”. “Credo che tu sia spaventata, è così?”. “Credo che tu l’abbia fatto apposta, è così?”

6. Quando si esprime un giudizio o una interpretazione, è più coerente relativizzare ciò che si dice, aggiungendo: “Secondo me”, “Dal mio punto di vista”, “Per quello che io vedo”, “Per come io ho capito”. Non dare come realtà definitive le proprie interpretazioni o giudizi.

7. Esprimere più chiaramente possibile i propri bisogni ed esigenze. Imparare quindi a dire in modo diretto di cosa si ha bisogno e perché. Lo scopo del chiedere dovrebbe essere quello di informare gli altri di una nostra esigenza o bisogno. Informare anche di quanto per noi è importante, poiché potrebbe non essere evidente.

8. Quando si chiede tenere presente: a. Essere delimitati e concreti nella richiesta. Chiedere qualcosa di visibile e

delimitato. Non essere generici nelle richieste. Non si chiede la sincerità, la lealtà o la fiducia. Non si chiede la ricchezza o l’amore. Si chiede: “Dimmi cosa pensi di…”, “Fai “così” se veramente ci tieni”; “Vorrei ottenere 500 euro nei prossimi 10 giorni”; “Voglio che mi abbracci”.

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Comprendersi

b. Domandare anche cosa ne pensi l’altro, cosa abbia compreso della nostra richiesta. La domanda è essenziale per distinguere la richiesta da una pretesa e per dare il segnale di essere attenti alla soddisfazione dell’altro non solo alla propria.

c. Dare ascolto al desiderio o richiesta dell’altro. Soddisfare una richiesta aiuta ad iniziare a soddisfare la propria.

9. Ripetere in più modi e con più strumenti lo stesso concetto. Usare parole diverse, storie diverse in base alla varietà dell’auditorio.

Conclusioni

La comprensione reciproca, spero si sia compreso!, non è qualcosa che si possa dare per scontato, né qualcosa che avviene per il solo fatto che due persone siano ben intenzionate. Occorre imparare a comprendersi. Sono tanti gli aspetti che possono favorire la comprensione o impedirla. Qui ho voluto dare alcuni spunti di riflessione, nozioni di base, perché si abbia, nei confronti della comprensione, un approccio più realistico. Perché alla fine siamo persone, esseri umani che hanno bisogno tutti, l’uno dell’altro, di comprendersi. Tanto più il mondo si fa globale e complesso, tanto più diventa urgente e necessario imparare a comprendersi, ascoltarsi ed esprimersi, andare al di là degli stereotipi, delle semplificazioni eccessive, delle facili conclusioni.

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Comprendersi

Riferimenti

Oltre ai testi già citati lungo questo lavoro, ecco alcune indicazioni per continuare a riflettere sul tema:

Sul linguaggio e il suo funzionamento Raffaele Simone, Fondamenti di linguistica, Laterza.

Sull’ascolto e i suoi blocchi: Thomas Gordon, Relazioni efficaci, Edizioni la meridiana. McKay M., Davis M., Fanning P., Messaggi, IlSole24Ore. Sclavi M., L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe.

Sull’espressione e le possibilità di renderla più chiara possibile Stone D., Patton B., Heen S., Conversazioni difficili, Baldini e Castoldi.

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