COME STUDIARE LE ORGANIZZAZIONI · Comprendente perché l’oggetto di studio della sociologia è...

35
COME STUDIARE LE ORGANIZZAZIONI Bonazzi, 2002 Università degli Studi di Milano Facoltà di Scienze Politiche Corso di Scienze dell’Amministrazione

Transcript of COME STUDIARE LE ORGANIZZAZIONI · Comprendente perché l’oggetto di studio della sociologia è...

COME STUDIARE LE ORGANIZZAZIONI Bonazzi, 2002 Università degli Studi di Milano Facoltà di Scienze Politiche Corso di Scienze dell’Amministrazione

1. La burocrazia come organizzazione razionale e le sue varianti Si espone il modello ideale di burocrazia di Max Weber, da lui indicato come apparato amministrativo tipico del potere legale. Si presentano le dieci principali caratteristiche di quel modello e si discute in che misura e in che modo quelle caratteristiche siano cambiate dall’epoca di Weber ai giorni nostri.

1.1. Comprendere le istituzioni. Il concetto di modello ideale. Il primo grande nome che incontriamo è Max Weber, uno dei padri fondatori della sociologia, autore di opere di fondamentale importanza in pressoché tutti i campi del sapere sociologico. Il metodo di analisi weberiano può essere definito comprendente e istituzionale. Comprendente perché l’oggetto di studio della sociologia è l’agire dotato di senso. Scopo della ricerca sociologica è fornire una spiegazione comprendente dell’agire di una o più persone. Spiegare vuol dire trovare le cause che si suppone abbiano provocato un dato agire e comprendere vuol dire rendere evidente il senso che il soggetto ha dato al suo agire. Inoltre la ricerca è istituzionale perché rivolta a studiare le condizioni e i vincoli che determinate istituzioni sociali pongono sia all’agire umano che al senso che i soggetti danno al loro agire. Gli uomini nel corso della storia hanno costruito infinite forme di istituzioni sociali, che riguardano tutte le sfere dell’agire umano. A differenza di Marx che privilegia i rapporti economici e Freud che privilegia gli impulsi libidici, Weber non privilegia alcun fattore ritenendolo dotato di una particolare capacità di spiegare l’agire umano o le strutture sociali in cui gli essere umani si trovano a vivere. Weber non mira a dare spiegazioni generali della storia o a svilupparne leggi o tendenze predeterminate. Lo studio di Weber ha principalmente riguardato i presupposti materiali, sociali, economici, culturali, religiosi che hanno permesso la nascita delle forme istituzionali della storia umana, sia le obbligazioni normative che discendono da quelle istituzioni e pure le affinità che possono esistere tra istituzioni in apparenza molto lontane tra loro. Lo strumento fondamentale di ricerca di Weber è la costruzioni di tipi ideali, ossia di modelli che non esistono nella realtà ma solo nella mente del ricercatore. Per costruire un tipo ideale il ricercatore osserva e seleziona fra tutti gli aspetti di una data realtà gli elementi che gli appaiono i più significativi, trascura gli elementi che gli appaiono irrilevanti o accidentali e infine collega tra loro gli elementi selezionati, li accentua e li coordina in un quadro che deve essere internamente coerente e privo di contraddizioni. Il tipo ideale così costruito è quindi sempre un concetto limite, una forma pura che non si trova nella realtà concreta ma che serve come modello orientativo per la ricerca su quella realtà. E’ importante sottolineare che il tipo ideale:

a) non nasce da medie statistiche ma è un concetto qualitativo costruito. Ne consegue che la capacità euristica di un tipo ideale dipende unicamente dalla bravura del ricercatore;

b) non è un modello morale di condotta e non indica qualcosa che si possa desiderare; [aggiungere sintesi della biografia di Max Weber]

1.2. Forme pure di potere, legittimazione e burocrazia Weber costruisce tipi ideali anche per lo studio del potere. Egli definisce il potere come:

• la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini;

Per studiare il potere bisogna riconoscere che esso non è una qualità intrinseca di una persona, ma che ha una natura relazionale e specifica. E’ RELAZIONALE perché nasce dal rapporto tra chi comanda e chi accetta

di obbedire, ed è SPECIFICA perché bisogna sempre stabilire le circostanze, le condizioni e i limiti in cui un rapporto di potere si instaura. Il potere ha due proprietà importanti:

1) che quando viene esercitato in maniera continuativa richiede di essere legittimato, ossia che i sottoposti lo accettino come legittimo;

2) che per essere esercitato ha bisogno di un apparato amministrativo che faccia da tramite tra il capo e i sottoposti. L’apparato è molto diverso a seconda del tipo di legittimazione di cui gode il potere;

Quindi più che il potere in se stesso, la forma di legittimazione è ciò che più conta nella ricerca sociologica. Weber distingue tre forme o tipi puri di potere legittimo:

• POTERE CARISMATICO. Prende il nome da carisma e si fonda sulle qualità eccezionali e talvolta sovraumane che i seguaci attribuiscono al loro capo. Il potere carismatico porta a una dedizione di fede e di entusiasmo in un clima altamente emotivo. Nella sua forma pura il potere carismatico è irrazionale nel senso che manca di regole precostituite ed è rivoluzionario nel senso che rovescia il passato. L’apparato amministrativo del potere carismatico è rudimentale, formato da discepoli, uomini di fiducia che sono a diretto contatto con il capo. Tracce di carisma sono ravvisabili in tutte le situazioni in cui si obbedisce più per la capacità personale del capo di imporsi che non per il grado formale della sua carica. Quando il movimento iniziale si affievolisce, e soprattutto quando il capo muore o si ritira, i successori non possono evitare la graduale trasformazione del carisma in pratica quotidiana, la quale finisce con il trasformarlo in un potere burocratico o tradizionale;

• POTERE TRADIZIONALE. Fonda la sua legittimità su ordinamenti antichi e percepiti come esistenti da sempre. Il detentore del potere richiede obbedienza in virtù di dignità personale che gli è attribuita dalla tradizione. Egli può non avere doti di comando, ma i suoi sottoposti sono tenuti ugualmente ad obbedirgli. Tipico esempio di potere tradizionale è il sovrano che regna in base a un diritto di sangue, l’appartenenza ad una dinastia. Nel potere tradizionale il criterio prevalente per assegnare cariche non è la competenza ma il fatto di appartenere un gruppo privilegiato;

• POTERE LEGALE O RAZIONALE. E’ così chiamato perché fonda la sua legittimità sulla presunzione che chi comanda eserciti la carica in virtù di una nomina legale, che sia competente, e che i suoi comandi siano conformi a un ordinamento razionalmente orientato a ottenere determinati scopi. Si presume inoltre che l’ordinamento sia ispirato a criteri astratti e universali, applicabili in modo equo a tutti i casi simili. Anche il detentore del potere legale è quindi tenuto a rispettare lo stesso ordinamento impersonale che lui fa rispettare. Il carattere universalistico del potere legale ne fa una prerogativa degli stati di diritto, dove i soggetti sono cittadini con diritti riconosciuti e non sudditi.

1.3. Superiorità tecnica e ambivalenze della burocrazia L’apparato amministrativo tipico del potere legale è la burocrazia. Weber insiste sulla superiorità tecnica della burocrazia rispetto a qualunque altra forma di gestione amministrativa. Sull’amministrazione burocratica Weber scrive:

• la precisione, la rapidità, l’univocità degli atti, la continuità, la discrezione, la coesione, la rigida subordinazione, la riduzione dei contrasti, le spese oggettive e personali sono recati in misura migliore rispetto a tutte le forme collegiali o di uffici onorari o assolti come professione secondaria;

Weber distingue tra razionalità rispetto al valore e razionalità rispetto allo scopo. Il valore è qualcosa di eticamente buono, desiderabile in quanto tale, lo scopo è qualcosa che uno o più individui si prefiggono di raggiungere a prescindere. Weber sostiene che la burocrazia grazie alla sua intrinseca razionalità è, in quanto strumento tecnico, superiore a qualsiasi altro tipo di amministrazione. Weber compie poi un confronto storico tra burocrazia e apparati amministrativi precedenti, e questo confronto è posto nei termini dei modelli ideali. Ravvisandone la superiorità, vede la burocratizzazione come una tendenza generale della società moderna, un aspetto del più ampio processo di razionalizzazione che la caratterizza. Ma il potere burocratico ha una particolarità. A differenza dei poteri carismatico e tradizionale, esso è acefalo. Vale a dire che non ha dentro di sé le direttive supreme, di natura politica, che guidano le scelte

generali di un paese o di una organizzazione. La burocrazia è sempre un apparato al servizio di un potere politico. Il massimo responsabile di un apparato burocratico è un funzionario che prende le direttive da un capo politico. Ma mentre i capi cambiano a seconda delle vicende politiche, i funzionari restano secondo il modello di Weber. Ci sono casi però, come gli Stati Uniti, in cui l’avvento del nuovo presidente cambia anche la dirigenza amministrativa secondo il principio dello spoil system.

1.4. La burocrazia tra tipo ideale e varianti storiche Weber delinea un modello ideale dei principi costitutivi e del funzionamento di una burocrazia moderna intesa tanto come amministrazione pubblica che come impresa privata. Le caratteristiche di tale modello possono essere riassunte in 10 punti:

• FEDELTA’ DI UFFICIO: è previsto il dovere di obbedienza ai superiori in quanto detentori di un ruolo formale. La fedeltà non è alla persona ma al ruolo;

• COMPETENZA DISCIPLINATA: a ogni dipendente sono affidati compiti specializzati e precisi da svolgere secondo norme prestabilite che garantiscono il massimo di formalizzazione e di standardizzazione;

• GERARCHIA DEGLI UFFICI: un rigido sistema di subordinazione dell’autorità con poteri di direzione e di controllo dei superiori sugli inferiori. La gerarchia è sia una struttura di governo dall’alto al basso che un canale di comunicazione dal basso in alto;

• PREPARAZIONE SPECIALIZZATA: lavorare in una burocrazia richiede da un lato un corso di studi predeterminato e offre ai funzionari una posizione di prestigio sociale;

• CONCORSI PUBBLICI: per entrare in una burocrazia o per passare ai livelli superiori sono previsti dei concorsi per valutare con criteri universalistici il merito dei concorrenti;

• SVILUPPO DI UNA CARRIERA: si lavora in una burocrazia lungo tutto l’arco della vita attiva, con la possibilità di ricoprire posizioni sempre più alte e meglio retribuite per motivi di merito e di anzianità;

• SEGRETO DI UFFICIO: la burocrazia prevede la non divulgazione delle pratiche di ufficio e la rigida separazione tra vita d’ufficio e vita privata dei funzionari;

• STIPENDIO MONETARIO FISSO: pagato dall’amministrazione per cui si lavora. Nella burocrazia pura non si ricevono compensi economici dai clienti o dagli utenti dell’amministrazione;

• NON POSSESSO DEGLI STRUMENTI DEL PROPRIO LAVORO: da parte dei dipendenti. Gli strumenti sono dati in dotazione dall’amministrazione e i dipendenti sono tenuti a rendere conto dell’uso;

1.6. Burocrazia professionale o meccanica? Gouldner osserva che il principio weberiano di competenza disciplinata si fonda su una tensione che lo rende intrinsecamente instabile. La competenza contrasta con la disciplina. Chi è preposto a un ruolo che richiede alta competenza e responsabilità si comporta con l’autonomia derivante dalla padronanza delle conoscenze professionali necessarie. La tesi di Gouldner è che occorre passare dal modello unico weberiano di burocrazia a un modello dualistico che distingue tra una burocrazia basata sul principio di competenza e un’altra basata sul principio di disciplina. Un altro modo di concettualizzare la differenza tra 2 burocrazie è quello suggerito da Mintzberg che distingue tra burocrazia professionale e burocrazia meccanica. La prima comprende ruoli che richiedono vasti margini di discrezionalità e di iniziativa personale, la seconda comprende mansioni ripetitive e standardizzate secondo procedure prestabilite. Nella burocrazia meccanica il controllo dell’organizzazione è esercitato sulle modalità di prestazione del lavoro affidato, mentre nella burocrazia professionale il controllo è esercitato sulla formazione iniziale dei funzionari assunti dopo una verifica delle loro capacità e sui risultati che essi raggiungono entro un certo periodo di tempo.

Un originale criterio per valutare i differenti gradi di professionalità in seno a una organizzazione burocratica è quello escogitato da Jacques. Jacques osserva che quanto più un lavoro è ricco di contenuti discrezionali e di professionalità tanto più lungo è il periodo massimo di tempo in cui un dipendente è autorizzato a prendere di sua iniziativa decisioni che riguardano un dato ammontare di risorse appartenenti all’organizzazione. L’operaio viene controllato anche più volte in un turno, il caposquadra 2 o 3 volte al mese, il direttore dello stabilimento 2 0 3 volte all’anno e il general manager alla scadenza del mandato degli azionisti. Non si può inoltre trascurare il rapporto tra il processo di burocratizzazione descritto da Weber e l’organizzazione scientifica del lavoro elaborata negli stessi anni da Taylor. Se Weber vede nella razionalizzazione burocratica il processo distintivo della società moderna, la taylorizzazione che investì le fabbriche nella prima metà del XX secolo si impone certmanete come l’espressione più coerente ed estrema di quel processo. Il taylorismo (one best way) può essere giudicato come la manifestazione estrema di una burocrazia meccanica. I costi umani del processo di taylorizzazione, la resistenza che suscitò nelle fabbriche, i tentativi di recuperare una dimensione umana nel lavoro hanno costituito l’argomento centrale della sociologia industriale del XX secolo. In questi anni tuttavia si assiste a un fenomeno particolare: mentre nelle fabbriche vi è un progressivo abbandono delle forme estreme di taylorismo, questo conosce un’imprevista fioritura nei servizi.

1.7. Gerarchia di ufficio Il burocrate puro di Weber è inserito in una gerarchia in cui occupa un grado preciso. Ha dei superiori che gli danno delle direttive generali, dei pari grado con cui eventualmente ne discute e degli inferiori a cui egli trasmette quelle direttive adattandole alle circostanze e alle loro competenze. Tra gli anni ’30 e ’50 la scienza del managment ha lungamente esaminato e discusso le differenti forme che può assumere una gerarchia. Questo tema è stato anche affrontato tra gli anni ’60 e ’70 da un importante programma di ricerche sociologiche, la cosiddetta scuola delle contingenze. La scuola di origine britannica prende questo nome perché sostiene che non esiste un modo unico e ottimale di costruire un’organizzazione. Esistono invece tanti diversi modi e la scelta ottimale dipende dalle circostanze o contingenze in cui l’organizzazione si trova a operare. La variabile strategica messa in luce dalle molte ricerche ispirate alla teoria della contingenza è quella che si colloca lungo la dimensione tranquillità-turbolenza dell’ambiente in cui l’organizzazione opera. Un ambiente tranquillo significa che gli eventi che si succedono sono prevedibili, un ambiente turbolento viceversa. Un’altra soluzione escogitata per affrontare situazioni particolarmente complesse è la struttura a matrice. E’ così chiamata perché alla struttura gerarchica verticale viene sovrapposta una struttura che taglia orizzontalmente le divisioni gerarchiche. Le linee orizzontali corrispondono ad altrettanti progetti da portare a termine in tempi più o meno lunghi, e che per essere realizzati richiedono persone di competenza diversa provenienti dalle varie sezioni. I soggetti coinvolti in un progetto si trovano pertanto a partecipare a due strutture aziendali, quella istituzionale e quella del progetto. L’organizzazione a matrice rientra in un modello organizzativo che alcuni autori chiamano post-burocratico in quanto fondato sulla comunicazione diffusa e la responsabilità di gruppo per gestire problemi tecnici, sociali, gestionali complessi.

1.8. Concorsi pubblici, carriera e tempo pieno Il burocrate puro entra nell’organizzazione vincendo un concorso pubblico. Quindi inizia una carriera che si svolge lungo tutto l’arco della sua vita attiva e lavora a tempo pieno escludendo qualsiasi seconda

occupazione. Il concorso pubblico è l’istituzione che più di ogni altra garantisce, in linea di principio, equità di criteri nel giudicare i concorrenti e decidere qual è il più meritevole. Oggi i concorsi non si limitano a regolare le assunzioni dall’esterno di nuove leve. Tanto nel settore pubblico quanto in quello privato sono proliferati i concorsi interni banditi per decidere con criteri di equità l’avanzamento di carriera del personale già assunto. Il mercato interno del lavoro ha l’effetto di sancire legalmente che i già assunti in una data organizzazione hanno un diritto di precedenza rispetto agli esterni. I mercati interni se da un lato sono una fonte legale di ineguaglianza sociale, dall’altro favoriscono la sicurezza di un impiego stabile e la creazione di uno spirito di corpo e di un’identità collettiva in seno ad un’organizzazione. Insieme allo sviluppo del mercato interno si ha un processo di flessibilizzazione del lavoro secondo tre tipi diversi di flessibilità:

• FUNZIONALE, quella del lavoratore in grado di svolgere molti lavori e disponibile a trasferirsi in sedi diverse;

• FINANZIARIA, che nasce dagli sforzi delle imprese di introdurre maggiore competizione individuale tra i lavoratori, allo scopo di incentivare la produttività;

• NUMERICA, che incide sulle assunzioni e sui licenziamenti; Anche l’impiego a tempo pieno, indicato da Weber come un tratto caratteristico della burocrazia pura, conosce sempre maggiori eccezioni.

1.9. Segreto d’ufficio e separazione tra vita pubblica e vita privata Il burocrate puro osserva scrupolosamente il segreto d’ufficio in quanto garanzia di autorevolezza e di efficacia delle decisioni prese. Egli sa che solo mantenendo il segreto su quanto si fa e si decide in ufficio è possibile evitare interferenze e pressioni indebite di fonte esterna. Strettamente connessa al segreto è per Weber la separatezza tra la sfera della vita pubblica e quella della vita privata. Le cose sono cambiate. Lo sviluppo dei mass media impone una profonda revisione delle normative e delle pratiche di tutela del segreto d’ufficio. Inoltre la diffusione dell’informatica e la creazione di una rete mondiale, quindi la facilità tecnica di comunicazione, fa aumentare in misura esponenziale il volume delle comunicazioni stesse e abbassare la soglia di controllo sui contenuti. Infine è cambiato il mondo della produzione e quindi anche il concetto di segreto industriale. E’ pratica comune per le aziende avvalersi della consulenza di fornitori esterni che lavorano anche per la concorrenza. Fornitori ed esperti passano così da un’azienda all’altra portando con sé il proprio know-how, il proprio bagaglio di esperienze e quindi portando ad un’omologazione dei prodotti.

1.10. Stipendio monetario fisso La separazione tra retribuzione e costo del servizio è indicata da Weber come una condizione primaria per evitare favoritismi agli utenti e per garantire l’imparzialità dell’ufficio. Essa è un tratto fondamentale di ogni organizzazione burocratica e fa parte integrante di un moderno stato di diritto. Grazie agli studi di economia del lavoro è possibile riconoscere come le politiche retributive costituiscano un importante aspetto su cui esaminare le differenze tra le varie organizzazioni burocratiche. In tali politiche è possibile individuare almeno quattro dimensioni significative:

a) il livello retributivo rispetto ai valori di mercato. Si presume che quanto più le retribuzioni sono alte tanto più l’organizzazione opti per una politica di eccellenza che le consente di selezionare gli elementi migliori disponibili sul mercato del lavoro;

b) la curva retributiva nel tempo. Un’organizzione può optare per una politica di retribuzioni relativamente basse all’inizio della carriera per poi innalzarle con il passare degli anni. Tale politica mira a incentivare la permanenza dei dipendenti nella stessa organizzazione per l’intera durata della loro vita lavorativa;

c) l’ampiezza della differenza tra retribuzioni minime e massime. Quanto minore è la differenza, tanto più l’organizzazione mostra tendenze egualitaristiche e viceversa tanto maggiore è la differenza sociale tra vertice e base dell’organizzazione;

d) incentivi monetari e simbolici legati a parametri come produttività, efficienza, operosità, qualità del prodotto o della prestazione, scarso assenteismo. Gli incentivi possono essere individuali, di gruppo o collettivi;

Una particolare forma di incentivo nelle organizzazioni di profitto è la partecipazione agli utili d’impresa oppure nei distretti industriali di piccole imprese è la possibilità offerta ai dipendenti di diventare dopo un certo periodo un piccolo imprenditore sviluppando relazioni d’affari con l’ex datore di lavoro.

1.11. Non possesso degli strumenti del proprio lavoro Il burocrate puro non possiede gli strumenti del proprio lavoro e usa unicamente quelli che gli sono messi a disposizione dalla sua organizzazione. In linea generale il grado di tolleranza nell’uso privato delle risorse d’ufficio, il suo titolo più o meno ufficializzato, le categorie di dipendenti che ne possono beneficiare sono aspetti su cui una ricerca comparata tra organizzazioni burocratiche può dare utili informazioni sul clima interno e sulle norme più o meno formalizzate di comportamento.

1.12. Conclusioni. I tratti essenziali di una burocrazia pura La razionalità propria del modello weberiano ha una prima importante implicazione:

• che una burocrazia pura tenta di eliminare o quanto meno di controllare il più possibile ogni influenza extraorganizzativa sul comportamento dei suoi membri;

Da questo assunto derivano tre altre conseguenze: che la burocrazua pura è una struttura centralizzata, formalizzata e rigida.

1) la burocrazia è una struttura centralizzata perché le decisioni critiche sono materia esclusiva del vertice centrale, mentre le decisioni di routine sono delegate;

2) la burocrazia è una struttura standardizzata che prevede precise procedure di funzionamento. I dipendenti sono tenuti a rispettare tali procedure perché a) si presume siano le più appropriate e b) l’uniformità dei comportamenti permette la sostituibilità degli addetti;

3) la burocrazia è una struttura rigida perché non prevede cambiamenti. La ragione è nella sua stessa natura: poiché la burocrazia è uno strumento intrinsecamente razionale, per raggiungere determinati scopi è essa stessa la fonte dei cambiamenti che avvengono negli ambienti toccati dalla sua azione;

2. Sistemi cooperativi: il ruolo dei soggetti Il rapporto tra organizzazione e soggetti. Si spiega la definizione di Barnard delle organizzazioni come sistemi cooperativi e si passa al contributo di Simon centrato sul concetto di razionalità limitata. Si presentano due ricerche empiriche (Roy e Crozier) che gettano luce sull’amplissima e ambigua gamma di rapporti tra le organizzazioni e i soggetti che ne fanno parte.

2.1. Barnard: oltre l’organizzazione puramente razionale e formale Il lascito di Weber, Taylor e della scuola imprenditoriale classica è che le organizzazioni vanno considerate come strumenti razionali per raggiungere scopi specifici. Lo sviluppo delle scienze sociali e in particolare degli studi organizzativi avviene con la critica di quell’impianto teorico e la discussione di problemi da esso contemplati, come il ruolo dei soggetti, le conseguenze inattese delle loro strategie, i limiti della razionalità organizzativa e le dinamiche del potere. Chester Barnard (1886-1961) è l’autore che per primo avvia questi nuovi discorsi. Contro una visione puramente formale e razionale delle organizzazioni, egli sostiene che non è possibile comprendere il loro funzionamento se non si tengono presenti i moventi che spingono gli individui a contribuire alle organizzazioni stesse. Il rapporto che si stabilisce tra le organizzazioni e gli individui che a qualsiasi titolo contribuiscono al perseguimento dei loro fini costituisce pertanto l’oggetto centrale della sua analisi. Negli anni in cui opera Barnard il capitalismo conosceva un grosso cambiamento nel governo dell’impresa. Alla figura tradizionale del padrone, al tempo stesso proprietario e dirigente, si stava sostituendo la figura del manager. La comparsa del manager rende più complessi i giochi strategici nell’impresa, perché dallo schema dicotomico proprietà-dipendenti si passa allo schema tricotomico proprietà-managment-dipendenti. I manager sono tenuti a identificarsi con gli interessi dell’impresa tanto da apparire uomini dell’organizzazione, ma questo impegno non porta all’annullamento della propria personalità. Anzi la personalità forte e indipendente svolge un ruolo fondamentale nel decidere le sorti dell’impresa. Sempre negli stessi anni si diffonde il pensiero della scuola delle relazioni umane che sottolineava l’importanza del fattore umano nello spiegare il rendimento lavorativo dei dipendenti. Tutta una serie di fattori vennero individuati come la sfera dei rapporti informali di cui il managment deve tenere conto per sopperire all’insufficienza dei soli rapporti formali. Alla visione dell’organizzazione come macchina, si sostituisce una visione dell’organizzazione come un organismo le cui cellule sono le persone e i gruppi che lo formano. A livello teorico Barnard avverte la necessità di superare la contrapposizione tra visione formale e informale e di pervenire a una visione più complessa che tenga conto di entrambi gli aspetti.

2.2. La parabola del masso: il sistema cooperativo Il problema a cui Barnard cerca di dare risposta è squisitamente teorico e può essere così formulato: come è possibile che persone con una loro vita, con dei loro interessi, che non si conoscono e che non hanno nulla a che fare con gli scopi dell’organizzazione decidano a un certo momento di impegnare il loro tempo e le loro energie per il raggiungimento di quegli scopi? E come può l’organizzazione ottenere il loro consenso e il loro impegno? Barnard non parla solo di organizzazioni di lavoro, ma di tutti i possibili tipi di organizzazione: politiche, culturali, ricreative, religiose o militari. Egli mira a fornire un modello capace di riferirsi a qualsiasi categoria di membri. In secondo luogo mira ad approfondire le condizioni che consentono alle organizzazioni di

perseguire i propri scopi soddisfacendo al tempo stesso gli interessi e le aspettative dei singoli individui che accettano di contribuire al perseguimento dei loro scopi. Per avviare il suo discorso Barnard ricorre a una parabola. Supponiamo che un uomo viaggiando su una strada solitaria si imbatta in un masso che gli impedisce di proseguire. Dopo aver constatato che da solo non riesce a spostare il masso, egli attende che sopraggiungano altre persone anch’esse interessate a sgomberare la strada. Unendo gli sforzi tutti insieme riescono a spostare il masso: là dove i limiti di una sola persona impediscono di raggiungere un dato scopo, la cooperazione tra più persone interessate al medesimo scopo riesce nell’intento. Ma immaginiamo che il masso sia talmente grande che le quattro persone impegnate non riescano a spostarlo. Esse dovranno chiedere l’aiuto di una quinta persona, supponiamo un contadino che arriva con un trattore. Il contadino non ha un interesse diretto a spostare il masso – lui non passa per quella strada – ma di fronte all’offerta di una congrua somma in denaro egli accetta di impiegare il trattore. In quel momento spostare il masso diventa anche il suo scopo. Attraverso la mediazione in denaro il contadino si mobilita per raggiungere uno scopo che non è suo personale ma del gruppo che lo ha chiamato e a cui accetta di partecipare. La parabola del masso si presta ad alcune riflessioni:

1) il gruppo è riuscito a spostare il masso perché si è organizzato. Un’organizzazione nasce quando ci sono persone in grado di comunicare tra di loro e che desiderano collaborare per raggiungere uno scopo comune. In questa affermazione è già contenuto sia l’elemento informale (la comunicazione) che quello formale (la decisione). Organizzarsi equivale a formare un sistema cooperativo il cui scopo non è più delle singole persone ma dell’intera organizzazione che esse hanno formato. L’organizzazione non consiste nella semplice somma degli sforzi dei singoli individui, ma vi è in essa un quid in più che nasce dalla cooperazione. Studiare un’organizzazione equivale a studiare come funziona un sistema cooperativo in cui si crea quel quid in più rispetto ai contributi dei singoli membri;

2) bisogna però sempre distinguere tra gli scopi dell’organizzazione e i moventi personali. Distinguere tra scopi organizzativi e moventi personali comporta che i capi di un’organizzazione non possono preoccuparsi di perseguire gli scopi organizzativi ma devono anche tener presente i moventi che spingono i singoli membri a partecipare. Il problema fondamentale dei dirigenti è quindi come riuscire a mobilitare un insieme di persone per uno scopo che non è loro, offrendo incentivi sufficienti a soddisfarli;

3) un terzo aspetto riguarda la distinzione, ma anche l’intimo rapporto tra gli elementi formali e quelli informali. Rapporti informali possono pre-esistere rispetto a un’organizzazione, ma dopo che essa è formata nuovi rapporti informali possono crearsi. Si instaura così un’osmosi tra livello formale e livello informale dei rapporti umani;

2.3. Efficacia ed efficienza. Contributi, incentivi e persuasione Barnard rifiuta tanto una fondazione puramente etica dell’ordine sociale, spiegato come interiorizzazione da parte dei soggetti del sistema dei valori prevalenti, quanto una spiegazione puramente utilitaristica, basata sul calcolo del tornaconto individuale. Barnard addita una terza via capace di conciliare le esigenze dell’organizzazione con quelle dei soggetti. La distinzione tra fini organizzativi e i moventi personali è la base su cui Barnard sviluppa la tesi che ogni membro di un’organizzazione è dotato di una doppia personalità: una personalità organizzativa e una personalità individuale. Il rapporto tra personalità organizzativa e personalità individuale è problematico e proprio questo riconoscimento costituisce uno dei punti intorno a cui ruota tutta la costruzione di Barnard. La distinzione tra questi due fini porta Barnard ad individuare due diverse dimensioni dell’azione organizzativa, che sono l’efficacia e l’efficienza. L’efficacia misura il grado in cui l’organizzazione raggiunge i suoi obiettivi, mentre l’efficienza misura il grado in cui i moventi personali di far parte di un’organizzazione sono soddisfatti. Efficacia ed efficienza non sono necessariamente connesse, ma il loro incrocio può dar luogo a 4 possibilità:

a) efficace ed efficiente; b) efficace ma non efficiente, quindi raggiunge i propri scopi ma non soddisfa i propri membri;

c) non efficace ma efficiente, quando non raggiunge i suoi scopi ma soddisfa i suoi membri; d) non efficace e non efficiente;

La situazione comune nelle organizzazioni è quella in cui la ricerca congiunta di efficacia ed efficienza genera tensioni e dilemmi, così che la conciliazione tra i 2 termini è vista da Barbard come il problema fondamentale che si pone alla direzione di qualsiasi organizzazione. E’ nella prospetiva della precarietà dell’organizzazione che Barnard elabora un modello da lui chiamato l’economia degli incentivi e della persuasione. Gli incentivi sono fattori oggettivi che mirano a soddisfare le aspettative delle persone e possono essere sia materiali che morali. Ma gli incentivi non sono sempre sufficienti a ottenere il contributo stabile delle persone. L’organizzazione deve allora ricorrere alla persuasione. Questa opera sul lato soggettivo del rapporto tra persone e organizzazione perché mira a modificare le aspettative esistenti e a inculcare nei soggetti nuovi moventi.

2.4. La fondazione soggettiva del valore e la solvenza del sistema Nel modello di Barnard vanno sottolineati tre aspetti. Il primo è che il calcolo del rapporto tra costi e benefici non è mai puramente razionalistico. Il secondo è che il modello di Barnard non ha solo una validità economica e materiale, infatti egli insiste sull’importanza degli incentivi non materiali nelle organizzazione del lavoro. Il terzo aspetto riguarda la solvibilità del sistema cooperativo nei confronti dei suoi membri. Si potrebbe obiettare che se i membri di un’organizzazione si attendono da essa un contributo almeno pari o superiore all’incentivo che essi le danno, l’organizzazione è ben presto destinata all’insolvenza. All’obiezione Barnard replica con due argomenti:

• il primo consiste nel ricordare che la disponiblità complessiva dell’organizzazione non è solo la somma dei contributi dei singoli membri, ma è quella moltiplicata per un certo coefficiente che è dovuto al sistema cooperativo;

• il secondo argomento consiste nella fondazione soggettiva del valore attribuito ai contributi dati e agli incentivi ricevuti;

2.5. Esercizio dell’autorità e area dell’indifferenza Il sistema cooperativo e un efficace equilibrio tra contributi e incentivi non nascono per generazione spontanea in seno alle organizzazioni. La loro creazione è il compito di un’autorità che per essere riconosciuta come tale deve essere legittimata e competente. In particolare occorre che l’ordine ricevuto:

• sia capito; • non appaia in contrasto con i fini generali; • sia compatibile con gli interessi legittimi delle persone a cui è diretto; • le persone a cui è impartito siano in grado di eseguirlo;

Barnard affronta quindi quale sia il terreno specifico su cui si esercita l’autorità e lo trova nella distinzione tra fini dell’organizzazione e i moventi dell’individuo. Per quanto possano essere intensi i moventi che inducono l’individuo a cooperare, Barnard ritiene irrealistico pretendere che gli individui giungano a identificarsi completamente con l’organizzazione. La sua tesi è che i dirigenti devono porsi un obiettivo praticabile, ossia gestire il rapporto tra contributi e incentivi in modo tale che i sottoposti allarghino l’area della propria disponibilità a obbedire ai comandi impartiti dai superiori (area dell’indifferenza). In tal modo Barnard evita di impostare il rapporto individui-organizzazione sulla base di un utopico misticismo aziendale, una fusione tra fini organizzativi e moventi individuali. E’ vero che l’agire cooperativo si deve fondare sul primato degli incentivi morali, ma tale primato non significa che i moventi individuali debbano essere subordinati ai fini organizzativi. Non è necessario che i dipendenti amino il lavoro che fanno, è sufficiente che lo facciano con senso del dovere e con professionalità. Questa scelta realistica si accompagna al riconoscimento che gli individui hanno degli spazi privati, degli interessi e delle lealtà molteplici e che quindi si sottraggono alla pretesa totalitaria di una sola organizzazione.

Quanto più è estesa l’area di disponibilità dei dipendenti a eseguire degli ordini tanto più efficace è l’autorità. Ma l’area di indifferenza esprime anche il grado di efficienza nel senso inteso da Barnard.

2.6. Le funzioni del dirigente e la sua professionalità Stabilito che espandere l’area di disponibilità alla collaborazione da parte dei membri è il compito principale dell’autorità in una organizzazione, Barnard passa a esaminare le specifiche funzioni che un dirigente deve svolgere. Queste sono tre:

• la prima e la più importante è assicurare un efficiente sistema di comunicazioni; • la seconda è garantire il regolare e constante afflusso delle risorse necessarie al funzionamento

dell’organizzazione. Le risorse più importanti sono quelle umane, vale a dire i membri in rapporto cooperativo con l’organizzazione;

• la terza funzione è stabilire i fini dell’organizzazione; Può forse stupire che Barnard collochi solo al terzo posto una funzione che generalmente è considerata l’attività principale di un dirigente. Questa scelta si capisce alla luce del significato che Barnard conferisce al concetto di fine, inteso come l’insieme delle azioni in cui si verifica l’efficacia del sistema cooperativo. Barnard concepisce il fine di un’organizzazione non come un atto di volontà solitaria che discende dall’alto, ma come un processo che coinvolge tutti i membri dell’organizzazione. La determinazione del fine diventa così una funzione molto distribuita, di cui solo la parte più generale è quella direttiva. Concepire il fine dell’organizzazione come un processo diffuso che coinvolge tutto il sistema cooperativo si collega al fatto che nella funzione del dirigente Barnard sottolinea molto di più l’importanza degli aspetti comunicativi che non quelli decisori. Il senso di responsabilità secondo Barnard è una sorta di meta-codice o codice superiore che negli inevitabili dilemmi morali garantisce la coerenza a un principio. Per un dirigente il senso di responsabilità può anche essere visto come espressione di una elevata personalità organizzativa che si oppone agli inevitabili dubbi e tentennamenti che nascono dalla personalità individuale. Barnard, manager, sa per esperienza diretta che un manager può scontrarsi non solo con i dipendenti ma anche con la proprietà e che quindi ha bisogno di una continua legittimazione per portare avanti le sue ragioni e la sua autonomia. La teoria dell’organizzazione come un sistema cooperativo in cui tutti i membri sono regolati dalla logica dell’equo rapporto tra contributi e incentivi offre la base per quella legittimazione.

2.7. Simon: razionalità limitata e processi decisionali Bernard pone le basi per quello che sarebbe divenuto uno dei temi più dibattuti ed esplorati nelle ricerche organizzative, il rapporto tra le organizzazioni e i soggetti che li costituiscono. Un autore la cui opera per molti versi può essere considerata uno sviluppo e un completamento dell’opera di Barnard è Herbert Simon (1916-2001). Simon riconosce il suo debito a Barnard su due punti: le organizzazioni vanno viste come strumenti cooperativi per estendere il campo degli obiettivi raggiungibili dall’azione umana e l’equilibrio tra contributi e incentivi è la condizione fondamentale per l’esistenza delle organizzazioni. Simon sposta il suo oggetto di analisi a un livello più alto e astratto e lo individua nelle decisioni o più precisamente nei processi decisionali che avvengono all’interno delle organizzazioni. Le decisioni sono prese in base a criteri di razionalità limitata. Questa è una condizione universale che riguarda le decisioni che i soggetti prendono in nome e per conto dell’organizzazioni. La decisione in base a criteri di razionalità limitata è dunque un concetto altamente unificante. In primo luogo sancisce la continuità della condizione umana dalle organizzazioni più complesse e formali fino alla sfera più intima e privata. Individuare nei processi decisionali l’oggetto centrale dell’analisi organizzativa comporta che per esaminare ciò che avviene all’interno delle organizzazioni si deve partire dall’azione dei soggetti.

Quindi non basta tenere presente i moventi dei soggetti a partecipare, bisogna partire dalla considerazione che sono i soggetti a costruire le organizzazioni, nel modo più razionale possibile ma anche con tutti i limiti intrinseci di questa razionalità. Quello di Simon può anche essere visto come un monito contro il rischio di reificare le organizzazioni, vale a dire considerarle come entità dotate di vita propria e indipendente dall’azione umana. L’oggetto per eccellenza dell’analisi organizzativa non è il ruolo ma è la decisione. Bisogna quindi creare un quadro teorico che permetta di studiare in che modo informazioni, vincoli, procedure e motivazioni dei singoli soggetti concorrono a formale le decisioni. Alla base di questo quadro Simon pone il principio di razionalità limitata. Simon riprende il discorso di Barnard sui limiti umani ma sposta l’accento sui limiti mentali. In contrasto con la teoria economico classica che postula gli esseri umani come delle creature perfettamente razionali, informate su tutte le possibili scelte e dotate di un sistema di preferenze sicure, Simon sottolinea i fattori che limitano la razionalità umana. La conseguenza è che nella maggioranza dei casi le decisioni non sono prese secondo il criterio della massima efficienza, ma secondo quello della sufficienza. E’ questo l’unico criterio che consente di agire, mentre ostinarsi nella ricerca della soluzione ottimale porta quasi sempre alla paralisi dell’azione.

2.8. Il continuum mezzi-fini Il primo passo di Simon è di distinguere due grandi categorie di giudizi, quelli di fatto e quelli di valore. I giudizi di fatto riguardano eventi avvenuti o previsti nel mondo sensibile e sono verificabili, i giudizi di valore esprimono invece la preferenza per un certo stato di cose. Quest’ultimi possono essere accettati o rifiutati solo in base ad altre premesse di valore e non in base a criteri di verificabilità scientifica. In linea di principio le decisioni si possono distinguere tra quelle riguardanti i mezzi per raggiungere un fine e che poggiano su giudizi di fatto e quelle riguardanti la scelta dei fini e che poggiano su giudizi di valore. Ma nei concreti processi decisionali la distinzione non è così semplice. La tesi di Simon è che esiste sempre un continuum tra mezzi e fini, nel senso che un dato fine raggiunto in base a una decisione di valore si trasforma a sua volta in un mezzo per raggiungere un fine successivo. Il continuum mezzi-fini si presta ad alcune importanti considerazioni. La prima è che non si può valutare la bontà di uno scopo disgiungendolo dai mezzi necessari per raggiungerlo. Il fine non giustifica i mezzi, la desiderabilità degli scopi non può essere stabilita prescindendo dai mezzi che si sceglie di usare per raggiungerli. Il giudizio di valore sugli scopi può cambiare nel quadro di un giudizio più generale sul contesto in cui essi si collocano e nuovi scopi possono emergere nel prosieguo del continuum. Una seconda considerazione è che l’agire in una catena di decisioni dove quelle precedenti sono strumentali per quelle successive garantisce la coerenza del comportamento umano e consente di affermare che questo è orientato a criteri di razionalità. La coerenza tra mezzi e fini non è solo espressione di razionalità, in essa si forma la stessa identità sociale di un soggetto, il suo carattere e la sua immagine. Una terza considerazione è che, proprio perché la razionalità umana è limitata, la catena mezzi-fini è sempre vaga e incompleta. La catena può essere abbastanza precisa su un arco di tempo relativamente limitato, ma quanto più il fine è remoto, tanto più debole e sfuggente diventa il concatenamento tra le azioni.

2.9. Decisioni critiche e decisioni di routine: procedure Il discorso di Simon riguarda sia le decisioni individuali che quelle organizzative. In linea di principio si può rispondere che la maggiore differenza consiste nella complessità delle decisioni organizzative che di norma coinvolgono più persone, sono più formali, seguono procedure prescritte e hanno conseguenze socialmente più rilevanti delle decisioni attinenti alla vita privata.

Ma per fondare teoricamente queste differenze occorre tenere presente le considerazioni fatte in precedenza sulle organizzazioni intese come supporto per estendere l’area degli obiettivi raggiungibili dall’azione umana. Mentre Barnard insiste sui limiti fisici che spingono i soggetti a cooperare, Simon ha presente soprattutto i limiti mentali. Per Simon l’organizzazione è un sistema cooperativo che non si limita a coordinare i compiti dei membri per raggiungere certi obiettivi, ma che conserva e accumula nel tempo la memoria di quei coordinamenti, con le decisioni prese, i risultati acquisiti, le esperienze fatte e gli errori commessi. Quindi l’organizzazione è un sistema cooperativo che si mantiene e si sviluppa nel tempo. Uno dei modi più efficaci per espandere la razionalità limitata è quello di trarre giovamento dalle esperienze passate. Affinché possano porsi obiettivi complessi, occorre che non debbano prendere decisioni nuove per ogni singolo atto che compiono e che possano ricorrere il più possibile a procedure, ovvero a sequenze di decisioni prestabilite in base a esperienza e a calcoli. Le procedure così non si limitano soltanto a fornire gli schemi per affrontare i problemi che si pongono nella vita di un’organizzazione, esse servono anche ad assorbire l’incertezza di coloro che devono decidere. Il comportamento razionale, secondo Simon, esige modelli semplificati che includano gli elementi essenziali del problema senza rifletterne tutta la complessità. Da tutto ciò derivano alcune importanti indicazioni per capire il comportamento umano: si decide cercando una soluzione soddisfacente e non ottimale; si decide man mano che si procede, affrontando un problema alla volta; si decide scegliendo fra programmi d’azione già disponibili nel repertorio dell’organizzazione; infine si esegue il programma d’azione prescelto in semi-indipendenza da altri programmi. La limitata connessione tra le varie parti di un’organizzazione è un requisito indispensabili per il suo funzionamento.

2.10. Roy: un contributo dalla sociologia industriale La sociologia industriale conobbe la sua fioritura nei decenni centrali del XX secolo, in concomitanza con la massima espansione del regime produttivo taylor-fordista. I limiti della razionalizzazione tayloristica e la dimensione resistenza-consenso operaio alla volontà del managment di ottenere il massimo di produzione sono due temi che si prestano bene a essere interpretati facendo riferimento ai modelli di Barnard e di Simon. Tra i tantissimi autori che hanno studiato la fabbrica Donald Roy (1911-1980) è certamente tra quelli che hanno dato una delle testimonianze più vivide. Nella sua analisi si possono individuare 4 punti rilevanti:

a) il cottimo, ovvero i premi di produzione in base alla quantità di lavoro, era fonte di continuo conflitto e di profonda sfiducia tra operai e managment;

b) inoltre la risposta operaia al cottimo era ben lontana da quanto la direzione si proponeva. Gli operai davano due risposte molto diverse allo stesso sistema di cottimo, in un caso lo accettavano fino ai limiti estremi delle loro possibilità mentre nell’altro lo rifiutavano restando largamente al di sotto della quota prevista;

c) in mezzo a questo si inserivano i capisquadra, costretti continuamente a mediare tra le richieste del managment e la preoccupazione di non perdere il consenso degli operai;

d) infine il quarto punto riguarda l’intero sistema di motivazioni che spinge gli operai a lavorare. Non solo quella economica, ma anche quella personale insita nella soddisfazione di riuscire a produrre oltre quanto richiesto nel minor tempo possibile. Il cottimo così diventa un meccanismo assai complesso che oltre al guadagno include il piacere di trasformare il lavoro in un gioco di bravura;

2.11. Crozier: potere e strategie dei soggetti Michel Crozier (1922-vivente), francese, è il fondatore di una scuola di studi organizzativi e ha potentemente contribuito alla riforma dell’apparato amministrativo francese. Una frase è rivelatrice del suo pensiero: l’uomo non è soltanto un braccio e non è soltanto un cuore; l’uomo è una mente, un progetto, una libertà.

Per capire il funzionamento di un’organizzazione non basta l’approccio classico (braccio) e neppure le relazioni umane (cuore) ma bisogna tener presente la mente degli individui, riconoscere che esse sono capaci di pensare, di progettare e di fare scelte non previste dall’organizzazione in cui agiscono. Crozier completa il discorso iniziato da Barmard sostenendo che i soggetti sono capaci di sviluppare delle strategie all’interno dell’organizzazione. E se per Simon la razionalità umana è limitata, Corzier osserva che la razionalità non appartiene soltanto alle organizzazioni perché i soggetti hanno delle loro razionalità private che non solo non coincidono con quella dell’organizzazione ma che possono portare a condotte non previste dalla stessa. Di qui la possibilità che si innestino dei circoli viziosi, vale a dire dei processi degenerativi che al di là della volontà dei singoli soggetti conducono le organizzazioni a disfunzioni e inconvenienti. Connesso ai concetti di strategia e di circolo vizioso è quello di potere, definito da Crozier come la capacità di controllare i margini di incertezza presenti nei propri rapporti con altri soggetti. Al di là del progetto utipoco del taylorismo di predeterminare e standardizzare ogni azione all’interno di un’organizzazione, restano nella realtà margini di imprevedibilità dei comportamenti umani entro cui, secondo Crozier, si annida il vero potere. Quindi le radici del potere si trovano nei rapporti squilibrati di prevedibilità tra due o più soggetti. In tutte le situazioni in cui un soggetto è in grado di prevedere le mosse altrui, nascondendo le proprie, si può dire che egli si trova in un rapporto di potere favorevole rispetto agli altri interlocutori. Da questa definizione di potere discendono tre importanti conseguenze:

1) il potere è cosa diversa dall’autorità formale; 2) chi detiene un margine di incertezza nel suo comportamento agisce per conservarlo mentre coloro

che lo subiscono tentano di eliminarlo o di ridurlo il più possibile; 3) il risultato sistemico complessivo di queste strategie possono essere circoli viziosi;

2.12. I circoli viziosi della burocrazia e le indicazioni per il cambiamento Crozier ottenne fama internazionale con “il fenomeno burocratico” (1963), il libro in cui presenta la sua ricerca sul funzionamento di due amministrazioni statali. Le due amministrazioni richiamavano per alcuni aspetti il modello weberiano di burocrazia pura:

• erano acefale, nel senso che le decisioni principali dipendevano dal potere politico; • la dirigenza era di nomina politica con criteri esclusivamente legali e burocratici; • tutto il funzionamento si ispirava a regole rigide, precise e impersonali a cui la dirigenza era tenuta

ad uniformarsi; • le retribuzioni e l’assegnazione dei compiti erano rigorosamente regolate secondo il criterio di

anzianità e l’impiego era garantito a vita; Nonostante le premesse da tipo ideale, queste due organizzazioni si discostavano dal modello weberiano per lentezza, pesantezza e scarsa efficienza oltre che incapacità di innovazione. Crozier descrive un microcosmo bloccato, stratificato, senza conflitti espliciti ma anche con pochissime occasioni di comunicazione e di contatto sociale. La logica di ridurre al minimo i poteri personali dislocati lungo la linea gerarchica aveva portato all’accentramento delle responsabilità formali al vertice della struttura, ma al tempo stesso allo svuotamento di un reale potere. Il fatto di essere acefale rende queste burocrazie prive degli strumenti finanziari, politici e tecnici per decidere qualsiasi innovazione. Ma anche la cultura aziendale era ostile al cambiamento. Quando i valori prevalenti in un luogo di lavoro sono la sicurezza dell’impiego e l’uguaglianza mancano le premesse per poter avviare un qualunque programma innovativo. Quando le organizzazioni sono prive di meccanismi correttivi interni la loro unica possibilità di cambiamento sta nel collasso. Secondo Crozier è meno grave rischiare casi di incapacità e di sperpero piuttosto che mantenere la società bloccata a causa della paralisi della sua classe amministrativa.

3. L’approccio istituzionalista: mutamento, potere, ambiente Il capitolo segue l’evolversi del pensiero istituzionalista, da Selznicj fino agli sviluppi neoistituzionalisti contemporanei. Si spiega come nella seconda parte del XX secolo la percezione dell’influenza esercitata dall’ambiente esterno sulle organizzazioni sia profondamente cambiata, passando dal pessimismo di Selznick alla contestazione che si tratta di fenomeni normali e diffusi.

3.1. Caratteri generali dell’istituzionalismo Nel capitolo precedente abbiamo assistito al progressivo ispessimento del ruolo dei soggetti nel loro rapporto con le organizzazioni. La base per vedere un progressivo disincanto nello studio delle organizzazioni, con l’attenzione che si sposta sempre più dalle condizioni che ne permettono il normale funzionamento ai fattori che provocano disfunzioni e patologie. Si può dire che il percorso intellettuale da Barnard a Crozier esaurisce le possibilità di analisi offerte dallo studio dei rapporti diretti tra le organizzazioni e i soggetti. Per andare oltre e mettere a fuoco altri ordini di problemi occorre uno sfondamento di quello schema concettuale, estenderlo ad altre variabili, considerare fenomeni finora trascurati. E’ questa l’operazione compiuta dagli autori che adottano l’approccio istituzionalista. L’istituzionalismo è una scuola di pensiero molto ramificata, presente sia nelle scienze economiche che in quelle politiche e sociali e cha ha il suo carattere comune nel rifiuto di vedere la società come il semplice aggregato di individui orientati a massimizzare le proprie utilità secondo criteri di razionalità, sia pure limitata. Il rifiuto si lega al fatto che l’istituzionalismo pone in primo piano i condizionamenti di ordine materiale e simbolico che concrete istituzioni storiche esercitano sugli orientamenti e sui comportamenti umani. L’insieme di queste istituzioni costituisce l’ambiente sociale e culturale di cui bisogna tenere conto per spiegare specifici comportamenti umani a livello sia individuale che collettivo. Riconoscendo l’importanza dell’ambiente così definito l’istituzionalismo si differenzia:

• dalle correnti razionaliste che ritengono di spiegare i comportamenti umani in base a principi universali e astratti della natura umana;

• da una visione riduttiva dell’ambiente inteso unicamente come un insieme di fattori produttivi dotati di maggiori o minore turbolenza;

3.2. Philip Selznick: un approccio funzionalista e pessimista Philip Selznick (1919-vivente) è comunemente considerato il padre fondatore della prima fase dell’istituzionalismo nell’analisi organizzativa. Tre sono gli aspetti qualificanti del suo pensiero:

a) il funzionalismo in base al quale le organizzazioni sono concepite come sistemi sociali che per sopravvivere devono soddisfare alcuni bisogni fondamentali;

b) l’enfasi nelle influenze che centri di potere esterno, percepiti come istituzioni, esercitano sulle organizzazioni per indurle ad agire in conformità con i loro voleri;

c) il pessimismo dell’analisi che concepisce il mutamento organizzativo essenzialmente come il risultato di logiche degenerative presenti nelle organizzazioni. Per sopravvivere esse accettano compromessi con le istituzioni esterne, ma tali compromessi le allontanano dagli scopi originari per cui sono state fondate;

Selznick si differenzia da Crozier nel fatto di individuare le origini del processo degenerativo non nelle strategie dei singoli soggetti operanti all’interno delle organizzazioni, bensì nell’azione di centri di potere esterno. Il quadro classico dell’analisi organizzativa secondo Selznick trascura due elementi importanti per capire l’effettivo comportamento di un’organizzazione:

• il primo è che un’organizzazione formale è soltanto un aspetto di una struttura sociale concreta; • il secondo elemento è che l’organizzazione si trova inserita in un ambiente che non è neutro ma che

esercita su di essa delle pressioni costringendola a continui adattamenti; I due elementi portano Selznick a individuare quello che lui chiama l’inevitabile paradosso di ogni organizzazione: le persone e l’ambiente esterno sono indispensabili affinché l’organizzazione possa esistere, ma al tempo stesso sono continue fonti di dilemmi, tensioni se non addirittura di rovina. Da un lato il modello formale non è in grado di tenere in conto la totalità della vita reale, dall’altro lato proprio la vota reale che resta esclusa da quel modello è la parte più rilevante per il mantenimento e lo sviluppo dell’organizzazione formale. Interessi e pressioni sia dei soggetti che dell’ambiente esterno sono due dimensioni non razionali dell’organizzazione che il modello formale per sua definizione non potrà mai includere.

3.3. Fonti di perturbazione: cricche istituzionalizzate e poteri esterni Ecco dunque il terreno di ricerca che Selznick assegna alla sociologia dell’organizzazione: i processi di perturbazione delle strutture formali a opera delle cricche interne e dei centri di potere esterno. Può avvenire anche che le deviazioni dalle strutture formali si istituzionalizzino. L’istituzionalizzazione è un processo in base al quale i comportamenti individuali o pratiche sociali che si ripetono in modo regolare e costante vengono percepiti come istituzioni, vale a dire come strutture relativamente stabili, e ciò indipendentemente dal loro grado di legittimità formale (per esempio in questo senso la mafia è un’istituzione). Ci possono quindi essere dei comportamenti informali istituzionalizzati, sia all’interno che all’esterno delle organizzazioni o ad esse trasversali nel senso che attraversano più organizzazioni. Tra le istituzioni informali ci sono le cliques o cricche basate su relazioni personali, attraverso cui i membri interni all’organizzazione cercano di controllare l’ambiente in cui si prendono le decisioni organizzative. Le cricche provocano spesso conseguenze deleterie per gli scopi formali dell’organizzazione, ma in certi casi possono allargare le risorse disponibili e contribuire a far raggiungere gli scopi dell’organizzazione. Anche le cricche fanno parte integrante del sistema cooperativo, inteso come un sistema concreto che oltre le prescrizioni formali. I cambiamenti nel sistema formale possono essere capiti e interpretati solo in rapporto alle pressioni informali e inconfessate esercitate dalle cricche. Il carattere istituzionale delle cricche porta a studiare le funzioni che esse svolgono nelle organizzazioni a prescindere dalle personalità dei soggetti che le compongono. Così come le organizzazioni formali, anche le cricche obbediscono a logiche d’azione che superano la personalità dei membri. L’altro fattore perturbativo della struttura formale delle organizzazioni sta nei centri di potere esterno che agiscono per modificarne il funzionamento. In conformità con i suoi assunti funzionalisti Selznick vede le organizzazioni come sistemi sociali le cui componenti interne, in analogia con quanto avviene negli organismi viventi, svolgono funzioni necessarie a mantenere in vita i sistemi a cui appartengono. Selznick elenca alcune di queste funzioni:

• la sicurezza dell’organizzazione in rapporto alle forze sociali che agiscono sull’ambiente; • la stabilità delle linee interne di autorità e comunicazione; • la continuità della politica e delle fonti nella sua definizione; • l’omogeneità dell’immagine con riferimento al significato e al ruolo dell’organizzazione;

Nell’ottica funzionalista i moventi che inducono le persone ad agire hanno relativamente poca importanza rispetto alle conseguenze oggettive che le azioni possono produrre su larga scala. L’accento sulle conseguenze impreviste delle azioni piuttosto che sulle intenzioni di chi agisce si associa in Selznick a una visione pessimista dell’attività delle organizzazioni. Il suo ragionamento è il seguente:

• le persone interessate a un dato scopo fondano un’organizzazione che deve essere lo strumento per perseguire quello scopo. Nel momento in cui nasce, l’organizzazione ha bisogno di risorse per vivere e per espandersi. Ma ottenere risorse non è facile, bisogna dedicare energie, stringere accordi e scendere a compromessi. Inoltre accade spesso che centri di potere già esistenti sul territorio esercitino delle pressioni sull’organizzazione per condizionarne l’azione. I suoi dirigenti pur di farla sopravvivere vengono a patti, attenuano la purezza del programma originario e al tempo stesso

ricorrono all’ideologia dell’organizzazione per proclamare la fedeltà della loro azione ai suoi scopi originari e per giustificare le scelte compiute;

Un concetto fondamentale nell’analisi di Selznick è la recalcitranza dei mezzi. Con questa espressione egli intende che l’organizzazione va vista come uno strumento indispensabile per raggiungere un obiettivo, ma al contempo come uno strumento imperfetto che deforma l’obiettivo verso cui tende. La ragione della recalcitranza sta nel fatto che gli strumenti creati per raggiungere un dato fine hanno una vita propria, presentano esigenze di conservazione che possono entrare in contrasto con lo stesso fine per cui sono stati creati. Oggetto quindi dell’esame di Selznick non sono le strategie dei singoli preoccupati di conservare piccoli o grandi margini di potere (come per Crozier), ma il modo in cui in nome della sopravvivenza dell’organizzazione i suoi responsabili accettano progressivi scostamenti dagli scopi e dallo spirito originario dell’organizzazione stessa.

3.4. Le radici dell’erba. Una ricerca sulle pressioni istituzionali Le considerazioni svolte finora trovano origine e completamento nello studio che Selznick svolse negli anni ’40 sulla Tennessee Valley Authority (TVA). La TVA era un ente voluto negli anni ’30 dal presidente Roosvelt nel quadro del New Deal, la politica di intervento statale orientata a superare la crisi economica del 1929. La TVA nasceva per realizzare un vasto programma di opere pubbliche nella valle del tennessee nonché per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni residenti in quel territorio. Roosvelt volle che nascesse dotata di poteri pubblici ma con flessibilità di un’impresa privata. La TVA fu esentata da una serie di controlli amministrativi, le fu concesso uno stanziamento annuo e la possibilità di riutilizzare gli utili ricavati dalla vendita dell’energia elettrica e dei prodotti chimici. La TVA rappresentava un’iniziativa completamente nuova nel panorama americano. Gli oppositori obiettavano che il nuovo organismo combinando il potere statale con i vantaggi dell’impresa privata costituiva un caso di concorrenza sleale nel sistema di libera impresa ed era un pericolo per la democrazia locale. La dirigenza della TVA dovette pertanto sviluppare una politica capace di superare le opposizioni preconcette e di conquistare la fiducia degli enti locali, pena il fallimento nel raggiungimento degli scopi. Quindi decisero di decentrare i dipartimenti sul territorio coinvolgendo il più possibile gli enti locali, le associazioni, le comunità etniche, le università e gli uffici statali e federali. La collaborazione con le istituzioni locali in nome degli interessi generali della popolazione divenne così il manifesto idelogico della TVA. Ma che cosa vuol dire realmente interessi della popolazione e istituzioni legate alla popolazione? La risposta di Selznick è che queste sono solo delle astrazioni indeterminate, con una funzione ideologica di copertura. Poiché nella società locale vi erano interessi sociali contrapposti, la TVA si trovò a dover scegliere con chi schierarsi: o portare avanti un programma radicale di tutela degli strati più deboli ed emarginati oppure adottare un programma più cauto e conservatore che non provocasse l’ostitlità dei maggiorenti locali. E siccome questi ultimi erano meglio rappresentati dei primi nelle associazioni locali, ne coseguì che l’intenzione della TVA di soddisfare la domanda espressa attraverso i canali di rappresentanza locali significò di fatto favorire i ceti privilegiati.

3.5. Cooptazione formale e informale Entra qui in gioco l’istituto della cooptazione a cui la TVA fece largo ricorso per coinvolgere le forze locali nell’attuazione del suo programma. Selznick definisce la cooptazione come il processo di assorbimento di nuovi elementi nella direzione o nella struttura che determinano la politica di un’organizzazione, come mezzo per prevenire minacce alla sua stabilità e alla sua esistenza. La cooptazione è una strategia razionale per disinnescare conflitti pericolosi, ma in certe condizioni può rischiare di mettere in discussione la stessa ragion d’essere dell’organizzazione. Selznick distingue due tipi di cooptazione, quella formale e quella informale o sostanziale. Vi è cooptazione formale quando

un’organizzazione assorbe ufficialmente nuovi elementi attraverso l’allargamento degli organi direttivi o la creazione di nuovi ruoli. La cooptazione formale si rende necessaria quando:

a) il carattere legittimo di un ente o del suo gruppo direttivo viene contestato da una componente rilevante della popolazione interessata;

b) oppure quando il bisogno di promuovere la partecipazione di strati più larghi di popolazione suggerisce di concedere delle forme di autogoverno;

Essa non si traduce però in effettivo trasferimento di poteri, l’invito a partecipare è più che altro un atto simbolico, e talvolta comporta la condivisione di responsabilità impopolari. A una logica diversa obbedisce la cooptazione informale o sostanziale. Il suo scopo non è quello di allargare la base del consenso popolare a una linea politica che resta immutata, ma quello di fronteggiare delle minaccie provenienti da centri di potere esterno. Ciò può avvenire in due modi: o inserendo alcuni dei loro esponenti nei propri organi decisionali oppure accettando di fatto le loro richieste. Questo tipo di cooptazione è di norma destinato a rimanere informale perché le forze esterne sono interessate alla sostanza del potere e non alle sue forme. I due tipi di cooptazione implicano un differente rapporto con l’ideologia ufficiale dell’organizzazione. Selznick considera l’ideologia un importante strumento in mano all’organizzazione per legittimare la propria azione. In generale quanto più rilevante è la cooptazione informale, tanto più profondo diventa il solco tra la condotta pratica dell’organizzazione e il suo bagaglio ideologico. Il contrasto tra qualità morali e compromessi politci è quello di esaminare le conseguenze inattese provocate dalle logiche dell’azione organizzativa.

3.6. Istituzioni e funzioni della leadership La ricerca sulla TVA lascia irrisolto un problema di fondo: se la TVA è una organizzazione che subisce le pressioni di centri di potere esterni, non hanno forse una struttura organizzativa anche questi centri di potere? E se questi centri di potere sono anch’essi delle organizzazioni, non viene meno l’assunto che tutte le organizzazioni subiscono pressioni dall’ambiente esterno? Ma se ci sono organizzazioni che subiscono e altre che le esercitano, in base a quale criterio possono essere distinte? Selznick risponde a queste domande in una nuova opera dedicata allo studio della leadership nelle organizzazioni. Qui il pessimismo che attraversa la ricerca sulla TVA sembra attenuarsi. L’impressione nasce dal fatto che oggetto di analisi non sono le pressioni esterne a cui l’organizzazione è costretta ad adattarsi, ma sono le iniziative che la leadership prende per dare degli scopi all’organizzazione e per creare nei suoi membri il consenso necessario per raggiungerli. Selznick distingue allora due tipi di organizzazioni. Ci sono organizzazioni strumentali che si limitano a svolgere servizi tecnici e ci sono organizzazioni che lui chiama istituzioni, capaci di una progettualità politica. Mentre nelle organizzazioni strumentali contano l’efficienza amministrativa e le procedure razionalmente orientate a fini tecnici, nelle istituzioni conta definire e proporre dei valori, avere un’identità e un progetto che le distingua dall’essere semplici strumenti tecnici. Per meglio chiarire il suo pensiero distingue poi tra decisioni di routine e decisioni critiche. La leadership, ovvero la capacità di assumere decisioni critiche, non è mai un mero adattamento passivo alle spinte esterne, essa è sempre un’attività creativa che rende l’istituzione un soggetto capace di prendere iniziative. La leadership, che può essere svolta da una persona sola ma anche da un gruppo dirigente, si manifesta in 4 funzioni fondamentali:

1) definisce la missione e il ruolo dell’istituzione: ossia indica una prospettiva generale di azione che ricomprende e subordina tutte le attività di routine;

2) incorpora lo scopo nell’istituzione: non si limita a indicare degli scopi ma si impegna a diffondere determinati modi di pensare, di sentire e di agire, cerca di creare un’identità collettiva in modo che tutti i membri interiorizzino gli scopi dell’istituzione;

3) difende l’integrità istituzionale: alla leadership spetta il compito di tutelare il patrimonio ideale dell’istituzione, di gestire i suoi valori e la sua identità. La leadership è tenuta a svolgere una funzione altamente simbolica e comunicativa;

4) compone i conflitti interni: la leadership deve anche essere capace di mediare e di comporre i conflitti che possono verificarsi in seno all’istituzione. Una buona mediazione dovrebbe sempre portare a un aumento del consenso di cui gode la leadership;

Selznick indica tre principali rischi nell’esercizio di una leadership:

a) la fuga nella tecnologia, quando una leadership in carenza di obiettivi strategici si concentra sull’acquisizione di mezzi come se fossero un surrogato ai fini;

b) l’opportunismo, quando si perseguono fini a breve termine, senza una visione di largo respiro. Il pericolo maggiore dell’opportunismo è la perdita dell’identità dell’istituzione;

c) l’utopismo, quando si perseguono obiettivi non raggiungibili in base a considerazioni puramente ideologiche;

3.7. Leadership, istituzioni e ambiente esterno: ambiguità Nel momento in cui Selznick distingue tra organizzazioni e istituzioni egli riconosce che queste ultime, grazie ad una leadership efficace, non sono solo in grado di resistere alle pressioni esterne, ma sono anche capaci di definire i propri scopi e perseguirli con successo. Nella misura in cui questi scopi investono l’ambiente esterno, le istituzioni esercitano un potere su tale ambiente. Tenendo presente ciò che Selznick scrive sulla leadership si può affermare che i centri di potere esterno che condizionavano l’azione della TVA altro non erano che delle istituzioni dotate di una leadership efficace e che simmetricamente la rinuncia della TVA agli obiettivi originari di cambiamento sociale deve essere imputata al fatto di non essere stata in grado di diventare essa stessa un’istituzione condizionando l’ambiente esterno. Se è così sorge una domanda: il fallimento della TVA è da imputare ai limiti della dirigenza interna o è da imputare a dei microfattori ambientali che l’avrebbero comunque condannata al fallimento? Nonostante l’ambiguità, se consideriamo insieme le due opere sulla TVA e sulla leadership notiamo che esse definiscono un solo e costante oggetto di ricerca: quello dei rapporti di potere tra le organizzazioni e dei mutamenti provocati da tali rapporti. A questo punto possiamo trarre due conclusioni. La prima è che la fonte del mutamento istituzionale risiede in ultima analisi nell’iniziativa umana, a patto che questa sappia imporsi come leadership. La seconda è che sono le istituzioni a formare il quadro dei poteri forti di cui bisogna tenere conto per capire che cosa avviene nelle altre organizzazioni e nella società in generale. [DA QUI]

3.8. Le ricerche istituzionaliste di prima maniera L’opera di Selznick segnò profondamente gli indirizzi di ricerca della sociologia americana dell’organizzazione. Nel loro insieme le ricerche istituzionaliste di prima maniera presentano alcuni tratti comuni:

• un impianto discorsivo e olistico; • l’enfasi sull’ambiente esterno visto come un insieme di istituzioni capaci di condizionare le scelte

delle organizzazioni; • un terzo carattere sta nel fatto che tanto le organizzazione che subiscono pressioni quanto le

istituzioni che le esercitano appaiono dotate di una logica di azione che trascende le volontà dei singoli individui. In questa prospettiva il mercato appare una delle massime istituzioni di cui tenere conto per comprendere il comportamento di organizzazioni con scopi in apparenza anche lontanissmi dalla sfera economica;

3.9. La scuola neoistituzionalista. Isomorfismo e miti razionali Sul finire degli anni ’70 le ricerche istituzionaliste conobbero un nuovo impulso grazie ad autori che ripresero il tema dei rapporti tra organizzazioni e ambiente, ma in una prospettiva diversa. Proprio per marcare la novità i propugnatori di questa rinnovata corrente di studio le diedero il nome di neoistituzionalismo. La domanda diviene: come mai organizzazioni dello stesso tipo sono così simili tra loro?

La ridefinizione del problema comporta anche alcuni rilevanti cambiamenti nell’impianto concettuale. Rispetto al vecchio istituzionalismo, nel nuovo:

• scompare il funzionalismo, che portava a vedere le organizzazioni come sistemi organici con bisogni primari da soddisfare per poter sopravvivere;

• cade la centralità di un potere intenzionale e specifico volto a dominare le organizzazioni esistenti e soprattutto quelle nuovo;

• scompare il pessimismo di principio che portava a vedere le organizzazioni sottopste come condannate a tradire sempre gli scopi originari;

• emerge una visione più articolata dei rapporti tra le organizzazioni sottoposte a una diffusa rete di influenze reciproche che non sono sempre negative;

• viene dato spazio ai processi cognitivi degli attori, vale a dire viene riconosciuta l’importanza delle mappe mentali nella costruzione sociale della realtà;

A John Meyer (1948-vivente) e Brian Rowan (1950-vivente) va il merito di aver rilanciato per primi le tematiche neoistituzionaliste con un articolo (1977) in cui propongono il concetto di isomorfismo. Con tale concetto essi intendono descrivere le ragioni e i processi per cui le unità che formano una data popolazione sono spinte ad assomigliare sempre di più tra loro. Essi osservano che le organizzazioni operano in contesti altamente istituzionalizzati che stabiliscono i criteri di razionalità che le organizzazioni stesse sono tenute a rispettare per essere giudicate efficienti. Ma assumere che i criteri di razionalità sono stabiliti all’esterno delle organizzazioni apre una nuova prospettiva di ricerca totalmente nuova rispetto agli orientamenti tradizionali. Meyer e Rowan proclamano un’ipotesi di lavoro rivoluzionaria, e cioè che molto spesso le organizzazioni:

• non hanno criteri propri di razionalità e seguono i criteri suggeriti dall’ambiente esterno; • oppure hanno criteri propri, ma questi differiscono da quelli prevalenti nell’ambiente;

Da quest’ipotesi discende che l’oggetto principale di ricerca sono le pressioni che le istituzioni esercitano sulle varie organizzazioni affinché si adeguino ai criteri della razionalità prevalenti: in altre parole come si sviluppano i processi di isomorfismo. Il messaggio di Meyer e Rowan è che siamo entrati in un mondo profondamente diverso dal passato. Un tempo le organizzazioni nascevano per iniziativa dell’imprenditore e questi doveva avere sufficiente spirito di intraprendenza, intuito e propensione al rischio per farsi largo da solo e arrivare al successo. Il rischio era solo suo, così come soltanto suoi erano i criteri con cui guidare e organizzare l’impresa. Oggi è sempre meno così. La società è fittamente popolata da istituzioni di ogni tipo che nell’insieme formano un quadro istituzionale. Il quadro stabilisce un fitto reticolo di normative a cui le organizzazione devono attenersi per avere riconoscimento e successo, tanto che oggi non è più possibile comprendere l’azione e la stessa esistenza di singole organizzazioni se non si tengono in conto le pressioni ambientali volte a farle nascere e operare in un certo modo. Ma quali criteri governano lo sviluppo dei processi di isomorfismo? Meyer e Rowan li indicano in alcune potenti regole istituzionali che fungono da miti razionalizzati. Essa indica delle regole che non si basano su prove empiriche ottenute con metodo scientifico, am che sono legittimate dalla convinzione di essere razionalmente efficaci o conformi a un mandato legale. Meyer e Rowan distinguono due tipi di organizzazioni: quelle che recepiscono dall’esterno i criteri di razionalità e quelle che hanno criteri propri che possono confliggere con quelli esterni. Appartengono al primo tipo le organizzazioni prive di criteri intrinseci per valutare l’efficienza e che quindi si basano sulla capacità di adeguarsi alle aspettative e alle esigenze prescritte da istituzioni esterne. Appartengono al secondo tipo le organizzazioni che possiedono invece criteri autonomi percepiti come oggettivi nel valutare l’efficienza del loro processo produttivo. Sono le organizzazioni del secondi tipo a porre alla ricerca i problemi più interessanti a causa del contrasto che può venire a crearsi tra i loro criteri di efficacia e quelli suggeriti dalle istituzioni esterne.

3.10. Powell e Dimaggio. Campi organizzativi tipologia dell’isomorfismo

Un importante approfondimento nello studio dei processi di isomorfismo è dato da Powell (1949-vivente) e Dimaggio (1951-vivente). In un articolo del 1983 essi:

• elaborano il concetto di campo organizzativo con cui superano la distinzione tra organizzazioni che subiscono e istituzioni che esercitano pressioni all’isomorfismo;

• osservano che i processi di isomorfismo non sono uguali e indistinti, ma si diversificano secondo una tipologia basata sulle modalità e sulla rapidità con cui si sviluppano;

• sottolineano che l’isomorfismo non riguarda solo le organizzazioni ma investe anche i singoli individui, dentro e fuori le organizzazioni;

Powell e di Maggio assumono come punto di partenza la conclusione di Meyer e Rowan che le pressioni istituzionali spingono le organizzazioni a diventare sempre più simili senza che per questo divengano necessariamente più efficienti. Ma il problema che resta da spiegare sono le ragioni per cui questo fenomeno accade. Powell e Dimaggio trovano la risposta nel concetto di campo organizzativo, da loro definiti come un sistema di organizzazioni che, considerate complessivamente, costituiscono un’area riconosciuta di vita istituizionale: fornitori-chiave, consimatori e prodotti, agenzie di controllo e altre organizzazioni che producono prodotto o servizi simili. In altre parolo, un campo organizzativo non è formato soltanto da unità in concorrenza tra loro ma da una moltitudine di attori che in modo più o meno diretto e consapevole concorrono a un processo di cambiamento, sia esso politico, culturale, economico o tecnologico. Per la ricerca il concetto di campo organizzativo comporta 3 conseguenze:

1) una ricerca su un processo di cambiamento non può limitarsi ad esaminare i processi decisionali all’interno di specifiche organizzazioni, ma deve estendersi al ruolo svolto d tutti gli attori interessati a quel processo;

2) scompare la distinzione tra organizzazioni che subiscono pressioni e organizzazioni che le esercitano. Poiché i fattori più importanti di cui le organizzazioni devono tenere conto sono altre organizzazioni, tutte le parti in causa sono al tempo stesso oggetto e soggetto delle pressioni che attraversano un campo organizzativo;

3) la ricerca su un cambiamento organizzativo diventa la ricostruzione dell’intero pezzo di storia della società in cui il cambiamento si è verificato;

Inoltre secondo Powell e Dimaggio l’isomorfismo non è un processo indistinto, ma varia a seconda delle modalità e della velocità con cui si sviluppa. Essi distinguono 3 tipi di isomorfismo: coercitivo, mimetico e normativo:

• coercitivo, quando l’organizzazione è sottoposta a pressioni esterne che la obbligano a conformarsi. Tipicamente vincoli di legge o clausole contrattuali con imprese più potenti;

• mimetico, quando le organizzazioni al fine di fronteggiare l’incertezza dell’ambiene iniziano spontaneamente dei processi imitativi;

• normativo, quando nasce dai processi di professionalizzazione, ossia quando i responsabili della conduzione apprendono in centri specializzati dell’esistenza e della convenienza di nuovi metodi di conduzione, di nuove tecnologie o di nuovi orizzonti di ricerca;

L’isomorifismo delle organizzazioni si riproduce nell’isomorifismo delle persone e queste diventano a loro volta un potente fattore che rafforza l’isomorfismo normativo delle organizzazioni. Infine l’isomorifismo è tanto più rapido quanto più un’organizzazione dipende da risorse esterne e quanto maggiori sono l’incertezza e l’ambiguità dei suoi obiettivi.

4. Economia dei costi di transazione, popolazioni organizzative La prima parte del capitolo è dedicata alla teoria dei costi di transazione e ai nuovi orizzonti che si aprono alla ricerca organizzativa. Si esaminano le conseguenze che derivano dall’ampliare il concetto di organizzazione fino a includervi, oltre alla burocrazia, anche il mercato e le reti. La seconda parte del capitolo è dedicata alla cosiddetta teoria ecologica in cui oggetto di analisi non sono più singole organizzazioni, ma intere popolazioni organizzative.

4.1. Due nuove prospettive di analisi In questo capitolo esaminiamo due scuole di pensiero che superano l’analisi di singole unità organizzative dai confini ben definiti. La prima è l’economia dei costi di transazione (ECT) e la seconda è l’analisi delle popolazioni organizzative o approccio ecologico. La ECT ci avverte che il concetto di organizzazione è assai più vasto di quello di burocrazia. Si definisce organizzazione qualsiasi modello stabile di rapporti tra soggetti, siano essi individuali o collettivi. Il nuovo modo di intendere l’organizzazione richiede alcuni commenti:

• mercato e organizzazione non sono viste come realtà contrapposte, ma si suppone tanto che il mercato abbia qualche forma di organizzazione quanto che le organizzazioni possano avere al loro interno delle forme di mercato;

• le organizzazioni non hanno confini stabili e definiti in base a un criterio univoco. Il confine diventa un concetto relativo e cangiante a seconda dei criteri usati per misurare l’intensità e la natura dellee relazioni che intercorrono tra i vari soggetti;

• le organizzazioni, tra cui il mercato, non possono essere studiate prescindendo dal contesto istituzionale in cui sono inserite. Sotto questo profilo la ECT fa parte della nuova economia istituzionale (NEI) che è la versione in sede economica del neoistituzionalismo;

Anche l’approccio ecologico supera l’assunto che si possano studiare soltanto singole organizzazioni esistenti al momento dell’indagine. Il suo oggetto di analisi sono le popolazioni organizzative, ovvero un insieme di organizzazioni che condividono la caratteristica di operare o di avere operato nella stessa nicchia ambientale per un certo periodo di tempo. Di conseguenza oggetto di analisi non sono soltanto le organizzazioni sopravvissute a un processo di selezione, ma anche quelle scomparse e di cui bisogna cercare le ragioni dell’insuccesso. Vedremo inoltre che l’approccio ecologico:

• offre gli strumenti concettuali per rispondere alla domanda sul perché nella società contemporanea esiste una così alta varietà di forme organizzative;

• richiama il contesto istituzionale per capire i processi generatori delle forme organizzative e si propone pertanto di integrare la spiegazione dei processi di isomorfismo fornita dalla scuola neoistituzionalista;

4.2. Evoluzione del concetto di impresa Per comprendere la novità teorica della ECT è opportuno partire dalla concezione tradizionale delle imprese produttive. Per lungo tempo esperienza comune e teoria economica hanno condiviso il presupposto che il fine istituzionale delle imprese fosse quello di produrre e di mettere sul mercato una determinata serie di beni con l’obiettivo di ottenere il massimo profitto utilizzando al meglio le tecnologie disponibili. In gergo economico si dice che l’impresa era considerata una funzione della produzione. Se usiamo il concetto di verticalizzazione per esprimere l’estensione delle fasi produttive direttamente compiute dall’impresa, si può dire che le imprese tradizionali avevano di norma una elevata verticalizzazione. Con gli anni 70 tuttavia cominciarono a diffondersi processi di deverticalizzazione provocati dal fatto che le grandi imprese trovavano conveniente affidare ad altre imprese, in genere più piccole, l’appalto di specifiche lavorazioni o anche di componenti complesse dei propri prodotti. A loro volta le imprese subappaltavano all’esterno parte del lavoro affidatogli, con il risultato di creare una rete relativamente stabile di fornitori e subfornitori. Il diffondersi su scala mondiale di questi fenomeni finì con il diventare un’anomalia troppo rilevante rispetto al modello tradizionale di impresa perché non ponesse il problema teorico di elaborare un nuovo modello capace di tenerne conto. E’ in questa prospettiva che si comprende la nascita e la fortuna dell’ECT, una scuola di pensiero che ha nell’amerciana Oliver Williamson (1930-vivente) il suo più noto e prestigioso esponente. Secondo Williamson è sbagliato considerare l’impresa come un’entità la cui funzione fondamentale è produrre. Bisogna invece considerarla come una struttura di governo (governance), la cui funzione

fondamentale è quella di stipulare e garantire contratti affidabili ed efficienti. Nel momento in cui la funzione dell’impresa viene riformulata in questo modo cambia radicalmente il quadro delle sue scelte strategiche. Nel modello classico l’impresa industriale poteva scegliere che cosa e quanto produrre, ma non aveva di fronte a sé altra alternativa se non quella di produrre. Nel nuovo modello le scelte si allargano perché l’impresa si trova di fronte all’aternativa tra produrre al suo interno oppure comprare sul mercato esterno. Questo spostamento di ottica comporta due conseguenze. La prima è che l’unità elementare di analisi non è più il bene prodotto, ma è la transazione, vale a dire qualsiasi forma di contratto che l’impresa può stipulare. La seconda conseguenza è che la tecnologia non è più il fattore primario nello stabilire i confini dell’impresa. Cade l’idea che all’indivisibilità fisica di un impianto produttivo debba corrispondere un solo proprietario o un solo fruitore.

4.3. Due fonti di incertezza: razionalità limitata e opportunismo Una variegata gamma di possibilità si apre così all’agire economico delle imprese. Ma in base a quali criteri si stabilisce la scelta migliore? Rispondere in modo esaustivo a questa domanda equivale a fondare una nuova teoria economica e a questo scopo secondo Williamson occorre partire da due presupposti riguardanti la natura umana: la razionalità limitata e l’opportunismo. Il presupposto dell’opportunismo stabilisce che gli essere umani possono perseguire i propri interessi con dei mezzi illeciti come l’inganno e la frode. La via maestra per combattere l’opportunismo è uscire dai piccoli numeri perché man mano che aumenta il numero dei soggetti interessati alla transazione cresce la competizione e diminuisce la possibilità di bloccare le informazioni. Se la razionalità non fosse limitata e se i comportamenti umani fossero sempre onesti stipulare dei contratti non costituirebbe un problema. I contratti potrebbero prevedere ogni eventualità con la massima precisione e sarebbero rispettati senza rischio di frode. Ma il fatto che si agisca in condizioni di razionalità limitata e con rischio di opportunismo genera una diffusa incertezza e rende problematico stipulare i contratti. Di qui la necessità di studiare le strutture e le procedure più adatte tanto per economizzare la risorsa scarsa della razionalità limitata, quanto per stipulare efficaci clausole di salvaguardia contro i rischi di opportunismo. Questa è la premessa da cui Williamson parte per sostenere che nella teoria economica occorre distinguere due tipi di costi di produzione e i costi di transizione. I costi di produzione sono quelli che riguardano i processi di trasformazione fisica di un dato materiale dallo stato A allo stato B. Questi sono i soli costi considerati dall’economia classica. I costi di transazione sono invece quelli necessari per stipulare e gestire un contratto e possono essere pagati sia prima che dopo il contratto stesso. Williamson considera i costi di transizione l’equivalente economico dell’attrito nei sistemi fisici, un fattore che può essere ridotto ma mai azzerato. Nell’ipotesi che i costi di produzione siano uguali e costanti, sono i costi di transazione quelli su cui Williamson costruisce la sua teoria: l’esigenza di economizzare questi costi si pone come il problema centrale nel governare l’assetto dell’impresa.

4.4. Il dilemma fondamentale: comprare o produrre? Il dilemma dell’impresa: conviene di più comprare o produrre va dunque affrontato in rapporto ai costi di transazione. Su questo punto Williamson introduce nel discorso 3 variabili:

• la tecnologia usata per ottenere il bene o il servizio richiesto; • la frequenza delle transazioni; • le salvaguardie necessarie perché il contratto sia rispettato;

La tecnologia può essere generica o specialistica. E’ generica quando non richiede competenze o investimenti particolari, il suo carattere standard la rende facilmente disponibile sul mercato e i suoi fornitori possono essere sostituiti con facilità. In questi casi non c’è bisogno di particolari clausole di salvaguardia per proteggere il contratto.

La tecnologia è invece specializzata quando richiede investimenti e risponde a esigenze particolari e ripetute nel tempo. Questi sono i casi in cui l’impresa ha maggiore bisogno di salvaguardie contro il rischio di comportamenti opportunistici da parte del contraente. Quindi la tesi di Williamson è di comprare dal mercato quando le transazioni non sono ferquenti ma sono generiche, di produrre invece quando la tecnologia è specifica e le transazioni frequenti. Al principio della contrattazione sul mercato si sostituisce il principio di disciplina accettato dai dipendenti in base a un contratto di impiego firmato in precedenza e ridiscusso soltanto alla scadenza. Da parte sua l’impresa costruisce al suo interno una gerarchia di governo per garantirsi con il diretto controllo del processo produttivo che tutte le prestazioni pattuite con i dipendenti siano effettivamente eseguite. Mercato e gerarchia rappresentano i due poli estremi delle scelte possibili per un’impresa. Ma queste non sono mai scelte stabili e definitive, esse possono essere rimesse in discussione quando dei comportamenti scorretti provocano una crisi del mercato o della gerarchia. Si ha una crisi di mercato quando un’impresa continuando a rivolgersi allo stesso fornitore finisce col porre quest’ultimo in una posizione privilegiata rispetto agli altri concorrenti. Da un lato il fornitore tenderà a specializzare le sue prestazioni per soddisfare le esigenze dell’impresa, ma dall’altro è probabile che sviluppi dei comportamenti opportunistici. In questo caso all’impresa non conviene tornare sul mercato a cercare un altro fornitore perché l’attuale ha cumulato un knoe how specifico non disponibile altrove. La scelta più conveniente per l’impresa diventa quella di acquistare il fornitore con tutto il suo bagaglio di competenza e di metterlo sotto il controllo diretto della sua gerarchia. Si dirà allora che l’impresa ha scelto una strategia di integrazione verticale. Si ha crisi della gerarchia nella situazione opposta, quando l’impresa decide di andare sul mercato a causa degli inconvenienti originati dalla sua eccessiva integrazione verticale. Le crisi possono essere provocate dall’eccessiva conflittualità della manodopera, dalla crescita di logiche corporative non più comptabili con gli interessi dell’impresa, da un’ipertrofia burocratica che scoraggia l’innovazione o semplicemente dalla difficoltà di comandare una macchina organizzativa diventata troppo grande e complessa. In questi casi all’impresa conviene decentrare parte del processo produttivo a imprese esterne, con cui intratterrà normali rapporti commerciali. E’ più probabile che all’impresa però convenga una scelta ibrida, o intermedia, tra gerarchia e mercato. Si parkerà in questo caso di quasi mercato. Una tipica scelta intermedia sono le joint-ventures, collaborazione temporanea su obiettivi specifici, e i franchising, che sono contratti tra due impresa formalmente indipenenti in cui la prima permette alla seconda di operare sotto la sua marca e di usare metodi di produzione e di commercializzazione in cambio di pagamenti diretti o indiretti. Un’altra forma di contratto ibrido sono i rapporti di collaborazione che una grande impresa sviluppa con una rete di imprese minori, le quali pur rimanendo formalmente indipendenti accettano controlli interni da parte dell’impresa madre, diventando suoi fornitori permanenti. Si creano in questo caso dei rapporti idiosincratici.

4.5. Istituzioni, mercato e transazioni: dimensioni macro e micro Concepire l’impresa come una struttura di governo anziché come una funzione della produzione è la maggiore novità teorica suggerita dall’economia dei costi di transizione, e più in generale dalla nuova economia istituzionale (NEI). La NEI contesta l’idea del mercato astratto come un meccanismo autosufficiente avulso dal contesto sociale. Bisogna tenere presenti le specifiche istituzioni storiche in cui il mercato si inserisce e che condizionano il suo sviluppo. Quindi l’economia istituzionale colloca il mercato all’interno di un ambiente istituzionale e mostra che la prosperità delle nazioni non può essere disgiunta da un appropriato sistema di regole entro le quali il mercato può operare. Finché l’impresa era considerata una funzione della produzione l’analisi economica e la sociologia dell’organizzazione procedevano su strade separate. Con l’avvento della NEI e della ECT i rapporti tra analisi economica e analisi organizzativa sono ripensati alla radice; infatti la decisione dell’impresa di produrre in

casa, di acquistare sul mercato oppure di costruire una rete selezionata di fornitori di fiducia ha una rilevanza al tempo stesso economica e organizzativa. Un effetto unificante investe i rapporti tra le dimensioni macro e micro dell’analisi. La dimensione macro riguarda il quadro istituzionale in cui si collocano le transazioni, mentre la dimensione micro riguarda le singole transazioni e i meccanismi di governo che le regolano. Con una metafora si può dire che mentre a livello macro si esaminano le regole del gioco dettate dalle istituzioni, a livello micro si esaminano i modi in cui i giocatori (imprese e individui) scelgono di giocare. Per esempio a parità di altre condizioni si può presumere che un’impresa che opra in un contesto caratterizzato da un robusto sistema di relazioni industriali, con un sindacato forte e riconosciuto, una contrattazione centralizzata e il governo centrale nel ruolo attivo di mediatore tra le parti, riceverà forti sollecitazioni per orientarsi verso opzioni to make con costi del lavoro negoziati istituzionalmente. Viceversa si può presumere che la stessa impresa che opera in un quadro liberistico con contratti di lavoro privatistici e con un sindacato debole o inesistente si orienti verso opzioni to buy con una forte precarizzazione dei rapporti di lavoro. Per essere completa l’analisi a livello macro deve considerare anche gli effetti economici di istituzioni non economiche ma sociali, religiose, politiche, culturali e di costume e deve essere integrata da quella micro, il che vuol dire scendere sul campo per osservare i concreti comportamenti delle imprese e dei soggetti. Quanto più l’analisi si sposta sul piano del comportamento organizzativo tanto più va tenuta presente la considerazione di Williamson che l’uomo organizzativo è meno calcolativo dell’uomo economico ma è motivazionalmente più complesso. Ciò vuol dire che non è sufficiente calcolare equazioni di ottimalità economica per prevdere i comportamenti umani. Si apre così la strada ad analisi ancora più sottili nella direzione cognitiva della nano-economics e della Behavioral Decision Theory. Si tratta di analisi sui processi mentali che si sviluppano nel corso delle decisioni.

4.6. Nella scia dei costi di transazione: problemi applicazioni varianti Le due idee forti emerse – l’impresa come struttura di governo delle transazioni e le istituzioni come quadro di riferimento per spiegare le forme economiche – concorrono da molti anni ad alimentare uno sterminato dibattito che investe le scienze economiche, organizzative e dell’amministrazione.

4.6.1. Settori produttivi e confini delle imprese La pratica aziendale di comprare all’esterno beni o servizi quanto l’attenzione degli studiosi verso tale pratica è relativamente recente. Esistono però dei settori produttivi dove quella pratica è stata adottata fin da tempi remoti nella forma del subappalto. Due settori tipici in questo senso sono l’edilizia e la cantieristica. Edilizia e cantieristica sembrano suggerire che tutti i settori con processi molto differenziati per produrre beni compositi abbiano una particolare convenienza in scelte to buy. Esistono però delle eccezioni che impongono cautela per evitare conclusioni affrettate e quella dell’industria automobilistica è certamente il caso più rilevante. Anche l’auto è un prodotto risultante dall’assemblaggio di migliaia di componenti merceologicamente eterogenei, eppure per quasi tutto il XX secolo le case produttrici di automobili sono state l’espressione per antonomasia del regime fordista basato sulla verticalizzazione e sul to make. L’industria dell’automobile ci ammonisce contro il rischio di spiegazioni deterministiche che non tengono conto dell’importanza delle convinzioni del managmente nello spiegare specifiche scelte strategiche. Soltanto a partire dagli anni ’80 le case automobilistiche occidentali hanno avviato un crescente ricorso a scelte di mercato. Fin da quegli anni però alcune ricerche hanno messo in luce che quasi sempre nell’industria dell’auto il to buy non è indotto, come sostiene Williamson, dall’intenzione di ridurre i costi di transazione ma da quello di ridurre i costi di produzione. La convenienza di acquistare all’esterno parti importanti del prodotto finale favorisce crescenti processi di terziarizzazione del processo produttivo (outsourcing) con rilevanti conseguenze organizzative.

E’ un esempio di come la possibilità di scegliere tra to make e to buy generi nelle imprese dei comportamenti pratici che vanno oltre il quadro delle aspettative teoriche formulate da Williamson su quella distinzione. Una robusta analisi di queste tendenze era stata compiuta già negli anni ’80 da Kanter. Da una ua ricerca emergevano tre principali indicazioni:

• la ristrutturazione interna al fine di trovare nuove sinergie tra le varie componenti dell’impresa. Quest’ultima diventa una confederazione di unità semiautonome che possono essere in competizione tra loro ma che la tempo stesso sono sollecitate a sviluppare strategie cooperative su alcuni obiettivi strategici;

• l’apertura delle proprie frontiere a nuove allenaze con fornitori, clienti e altre imprese; • lo sviluppo di programmi di investimento per formare delle joint-ventures;

L’interpenetrazione tra le imprese può diventare così stretta da rendere difficile distinguere i dipendenti di un’impresa da quelli di un’altra. Ma proprio questa difficoltà segnala che il problema dei confini dell’impresa va posto in termini profondamente nuovi rispetto al passato. Un criterio potrebbe essere trovato nel concetto di cordata e nello stabilire che tutte le imprese coinvolte in un dato programma produttivo fanno parte della stessa cordata, a prescindere dai rapporti di proprietà tra esse. Ma anche il concetto di cordata appare inadeguata perché sempre più spesso le imprese fornitrici partecipano ai programmi produttivi di più imprese committenti, anche se queste sono in competizione tra loro. Sul problema dei confini di un’impresa Pfeffer e Salancik avevano proposto una soluzione a livello micro. L’unità di analisi non sono più i singoli individui ma i comportamenti, con la conseguenza che il confine dell’organizzazione diventa mobile perché dipende dall’uso momentaneo delle risorse umane. Questa proposta fa un implicito riferimento a un criterio finanziario: ciò che importa è il conto economico di costi e profitti. Ma che dire allora delle prestazioni in joint-ventures dove due o più imprese collaborano per raggiungere un determinato risultato che poi utilizzeranno in competizione tra loro?

4.6.2. Ouchi: il clan come governo di transazioni nel lungo periodo Un’originale variante del modello di Williamson è offerta da William Ouchi autore americano di origine giapponese che scrive tenendo presenti i modelli di comportamento economico tipici del capitalismo asiatico. La tesi di Ouchi è che mercato e gerarchia non sono le sole forme di governo delle transazioni che si offrono ad un’impresa. Esiste anche il clan, la forma di governo più complessa perché per funzionare non è sufficiente il solo riferimento al prezzo di mercato, e al prezzo più all’autorità come nella gerarchia, ma p necessaria l’appartenenza a un’istituzione con tradizioni, norme e valori comuni. La tesi di Ouchi è che il clan è il solo strumento che permette di governare transazioni complesse, in particolare quelle che si svolgono su un lungo arco di anni. Il clan consente un equità seriale che si contrappone alla equità istantanea che caratterizza il mercato e in certa misura anche la gerarchia, o burocrazia. Questo si presta ad alcune considerazioni. La prima è che il clan è un’aggregazione sociale che spesso preesiste all’attività economica. Le transazioni economiche sono quindi facilitate da un fattore squisitamente non economico e ciò conferma la fondatezza dell’approccio istituzionale che insiste nel considerare l’agire economico inserito (embedded) nel contesto sociale in cui si svolge. Il clan è anche un modello appropriato per studiare le organizzazioni economiche criminali. Il clan inoltre come forma di governo economico si pone pertanto in potenziale conflitto con i criteri occidentali perché assume che l’universalismo dei diritti non è un requisito necessario per il successo economico. Il ftto che l’efficienza economica possa prescindere dall’universalità dei diritti e dei doveri pone un’inquietante sfida all’assunto ottimistico del pensiero politico occidentale secondo cui un’economia sviluppata trova la sua forma istituzionale più congruente nello stato universalistico di diritto e quindi nella democrazia politica.

L’analisi di Ouchi sembra suggerire che si possa invece ottenere un alto sviluppo economico senza un parallelo sviluppo di democrazia politica: situazione questa comune a non pochi paesi dell’Estremo Oriente.

4.6.3. Applicazioni micro e macro: economia domestica e sviluppo locale

Nonostante i problemi teorici che solleva, la ECT e più in generale la NEI dimostrano una straordinaria duttilità applicativa. Lo spazio di scelta compreso tra mercato e gerarchia e le istituzioni viste come quadro di riferimento entro cui si collocano le specifiche forme delle attività economiche si rilevano un potente strumento concettuale utlizzabile in ricerche a livello sia micro che macro. Pollack esamina i vantaggi e gli svantaggi che la famiglia vista come impresa offre nell’organizzare un’attività economica rispetto a un’impresa che sia istituzionalmente tale. Egli individua 4 vantaggi, tutti derivanti dal fatto che la famiglia nasce e si sviluppa con criteri che non sono economici ma affettivi: la forza degli incentivi non monetari, la diffusa e continua circolazione di informazioni, l’altruismo e la lealtà. Ma anche 4 svantaggi: conflitti di natura non economica possono avere conseguenze negative sulla cooperazione lavorativa e sul bilancio domestico; le scarse prestazioni di alcuni membri della famiglia possono essere oggetto di eccessiva tolleranza; alcuni membri possono indirizzarsi verso attività lavorative di cui la famiglia non ha bisogno; la ridotta dimensione della famiglia impedisce più conveniente economia di scala. L’equiparazione della famiglia a un’impresa economica può sembrare un mero esercizio intellettuale, ma non è così. Infatti una parte rilevante delle attività economiche sono svolte da aziende a conduzione familiare. A un livello intermedio tra micro e macro si colloca un altro campo di studi, quello dello sviluppo locale e dei fattori ambientali che favoriscono la formazione di imprenditorialità. Queste possono essere considerate anche come ricerche sull’organizzazione del territorio, dove la parola organizzazione denota tanto processi intenzionali gestiti da specifiche agenzie politiche ed economiche quanto il risultato ex post di una somma di comportamenti individuali all’interno di un robusto quadro istituzionale. Un’ormai classica ricerca di questo tipo è quella che Brusco svolse sulle province di Modena e reggio e che lo portò a delineare il Modello Emilia. Si tratta di due province di diffusa e crescente prosperità, con un forte sviluppo industriale caratterizzato da:

• fitto tessuto di medie e piccole imprese specializzate in produzioni di nicchia; • struttura produttiva dualistica, formata da una fascia primaria di medie imprese con un proprio

mercato finale e una fascia secondaria fatta da uno sciame di piccole e piccolissime imprese, inclusi i singoli artigiani, che in larga parte lavorano su commessa delle imprese relativamente grandi;

• bassissima integrazione verticale, con rapporti tra committenti e subfornitori regolati da puri criteri di mercato. I subfornitori non sono legati a committenti fissi;

Queste caratteristiche consentono un’eccezionale flessibilità produttiva con l’assorbimento senza traumi di eventuali crisi aziendali. Questi meccanismi di puro mercato, inoltre, si svolgono in un contesto istituzionale caratterizzato da:

• un elevato associazionismo di categoria; • un sindacato autorevole e moderato; • un sistema bancario disponibile a finanziare anche le microimprese; • enti locali efficienti nel tutelare gli interessi collettivi;

4.6.4. La varietà dei capitalismi: convergenze e differenze tra versione sociologica e versione economica del neoistituzionalismo

L’individuazione a livello territoriale di un particolare modello di sviluppo socioeconomico può anche essere letto come la declinazione su scala locale di un più vasto discorso sulla varietà dei capitalismi. Riconoscere che le forme dell’agire economico sono plasmate dal quadro istituzionale in cui si svolgono comporta l’abbandono della concezione del capitalismo come di un’entità unica e indifferenziata e il riconoscimento dell’esistenza di una varietà storica di capitalismi.

Però mentre il neoistituzionalismo sociologico mira a mettere in luce i processi di isomorfismo che rendono tra loro omogenee le diverse componenti di una data società, il neoistituzionalismo economico è invece interessato a esaminare le differenti potenzialità di sviluppo che si aprono ai vari tipi di capitalismo. Quindi il primo studia come il tipo di sistema capitalista plasma la società, il secondo come il sistema sociale incida sul modello capitalista.

4.7. Le popolazioni organizzative secondo Stinchcombre: l’onore della novità e l’imprinting della specie

Esaminiamo un’altra scuola di pensiero, quella dell’approccio ecologico alle organizzazioni. In un saggio pubblicato da Stinchcombe alla metà degli anni ’60 si assumeva come oggetto di ricerca non singole organizzazioni bensì degli insiemi omogenei o specie di organizzazioni, chiamate appunto popolazioni organizzative. Lo spostamento di ottica consente a Stinchcombe di mettere sul tappeto numerose questioni mai prima dibattute. Due di esse di particolare importanza per la nostra analisi:

• quali effetti ha la struttura di una data società sul tasso di fondazione di nuove organizzazioni e in particolare sulla creazione di nuove specie organizzative?

• esiste una connessione tra il periodo storico in cui una data specie organizzativa è comparsa e la struttura sociale delle organizzazioni oggi esistenti che appartengono a quella specie?

Per rispondere correttamente alla prima domanda bisogna, secondo Stinchcombe, tenere in conto l’onere della novità (liability of newness), ossia il fatto che la percentuale di insuccesso è di norma molto più alta tra le nuove organizzazioni, in particolare tra le specie organizzative mai tentate in precedenza. La domanda va pertanto riformulata nel senso di chiedersi quali sono le società umane che offrono le migliori condizioni per superare l’onere della novità. La risposta di Stinchcombe è che queste sono le società più progredite nei processi di modernizzazione, quelle dove già si è sviuppata una fitta rete di organizzazioni. Con il suo approccio compie quindi due rotture rispetto al modo tradizionale di intendere il rapporto tra società e organizzazioni:

• la prima sta nel sostenere che le organizzazioni di una nuova specie hanno più difficoltà ad affermarsi che non quelle appartenenti a vecchie specie. Infatti si tende ad osservare solo ciò che sopravvive senza considerare i tentativi abortiti. Ciò porta a individuare nella nati-mortalità delle organizzazioni un dato fondamentale per la comprensione del rapporto tra società e organizzazioni;

• la seconda sta nel fatto che se lo sviluppo economico e sociale è il terreno di coltura più favorevole al fiorire di ogni tipo di organizzazione ne deriva che pluralismo, tolleranza e vita associativa sono più presenti nelle società sviluppate che altrove. Questo in contrapposizione alla tesi romatica secondo cui le società arcaiche erano maggiormente solidali di quelle industriali e urbane. Secondo Stinchcombe, quanto più è avanzato lo sviluppo economico e culturale, tanto più il pluralismo etnico e sociale trova spazio e può esprimersi in una vita associativa e solidaristica sconosciuta nelle società arcaiche;

Stinchcombe affronta poi la seconda questione, che le organizzazioni conservano nel tempo alcuni tratti distintivi dell’epoca storica in cui nacque la loro specie di appartenenza. A questo fine egli esamina la storia dello sviluppo industriale e sostiene che nel suo corso si possono osservare degli scatti (spurs), periodi densi e brevi in cui si affermano determinate specie di imprese e non altre. Si può dunque dire che un imprinting a livello di specie organizzativa si tramanda nel tempo, sicché indipendentemente dall’anno in cui è nata, ogni impresa appartenente a un dato settore presenta dei tratti che riflettono l’epoca storica in cui è comparso il settore a cui appartiene. Questo esame offre a Stinchcombre gli elementi per un modello che adatta alla cosietà la spiegazione darwiniana dell’evoluzione naturale. Il modello si basa su due assunti:

• il primo è che le condizioni economiche e tecniche di una data epoca determinano le specie organizzative più appropriate per raggiungere alcuni scopi e non altri;

• il secondo assunto è che tali specie non possono esistere prima che compaia una tecnologia e una struttura sociale appropriata;

4.8. Ecologia delle popolazioni organizzative: la selezione come fattore di isomorfismo e di pluralità della specie

Stinchcombe è stato il precursore di una scuola di pensiero nata nella seconda metà degli anni ’70 e che si autodefinisce ecologia delle organizzazioni. La scuola propone un approccio macrosociale che:

• parte dal presupposto che le organizzazioni hanno una vita precaria, che quelle esistenti sono sopravvissute a una selezione durissima e che quindi l’analisi deve tenere conto delle unità scomparse;

• studia i processi di trasformazione di lungo periodo derivanti dalla reciproca influenza tra l’evoluzione delle popolazioni organizzative e ei mutamenti dell’ambiente sociale circostante;

• individua nella selezione e nella competizione sociale i fattori che spiegano tanto i processi di isomofismo quanto la proliferazione di una pluralità di forme e specie organizzative;

Michael Hannan e John Freeman osservano che la spiegazione più comune del cambiamento organizzativo è quella di considerarlo come effetto dell’adattamento strategico delle singole organizzazioni a mutamenti, sfide o opportunità emergenti nell’ambiente. Questa è la speigazione del neoistituzionalismo. Ma il cambiamento può avvenire come effetto complessivo della creazione di nuove forme di organizzazione che man mano sostituiscono quelle vecchie. In questo caso il cambiamento non è la somma delle trasformazioni consapevolmente attuate dalle singole organizzazioni allo scopo di sopravvivere, ma è provocato dalle grandi mutazioni demografiche che investono le popolazioni organizzative. In questo caso il prodotto di un processo di cambiamento è la selezione e ciò che conta sono i grandi numeri più che l’intenzionalità dei soggetti. Il risultato della competizione è un processo di isomorfismo e al tempo stesso di pluralismo organizzativo. Il risultato complessivo è quello di un insieme di popolazioni differenziate tra loro e omogenee al proprio interno. Ma il processo di selezione è cieco, nel senso che non ha una finalità intrinseca, non è lineare e procede con esiti casuali. La forza teorica del modello di Hannan e Freeman sta nel fatto di presentare una spiegazione dei processi di isomorfismo e segmentazione sociale che in linea di principio è alternativa a quella neoistituzionalista ma in realtà non è in contrasto con essa.

5. Gli approcci morbidi: cultura, conferimento di senso e processi di strutturazione

Nel capitolo si spiegano il significato e la fortuna degli “approcci morbidi” alle organizzazioni. Si sottolinea la loro estrema varietà, che va da un polo culturalista rappresentato da Schein fino a un polo cognitivista rappresentato da Weick. Su posizioni intermedia si trovano altri autori, come Martin, Kunda e Barley che sviluppano analisi riflessive, postmoderne e centrali sul concetto di strutturazione delle organizzazioni.

5.1. Le ragioni degli approcci “morbidi” Questo capitolo è dedicato ai cosidetti approcci morbidi (soft) alle organizzazioni, vale a dire agli approcci che privilegiano gli apsetti culturali, simbolici, riflessivi, nonché i processi di conferimento di senso che i soggetti mettono in atto interagendo con le organizzazioni stesse. Questi approcci trovano la loro ragion d’essere in due fattori concomitanti e in parte collegati. Il primo fattore è rappresentato dalla tendenza delle grandi imprese a passare da strumenti di controllo di tipo prevalentemente burocratico-disciplinare a strumenti più raffinati di natura normativa, basati sull’interiorizzazione da parte dei dipendenti dei valori e degli obiettivi dell’impresa. Il secondo fattore è ò’insoddisfazione che in quegli stessi anni cominciava a diffondersi verso gli approcci hard, che privilegiavano lo studio degli aspetti strutturali delle organizzazioni, riconducibili a grandezze numeriche come i livelli gerarchici, i campi di competenza e di controllo e la frequenza delle comunicazioni.

Le sfide mosse agli approcci contingentisti nascevano da due principali contestazioni:

• le scelte strategiche delle imprese non potevano essere spiegate in base alle loro caratteristiche strutturali, ma dipendevano in larga misura dall’azione strategica dei soggetti che prendevano le decisioni;

• imprese operanti nello stesso settore, di analoga ampiezza e con strutture organizzative comparabili rivelavano un’atmosfera interna, motivazioni a partecipare e livelli di prestazione profondamente diversi;

E’ possibile individuare l’asse oggetto-soggetto come la dimensione concettuale lungo cui collocare gli approcci che esamineremo in questo capitolo. Ad un estremo troviamo gli approcci oggettivisti, così chiamati perché partono dal presupposto che le organizzazioni possiedono una propria cultura intesa come un giacimento che si è progressivamente accumulato nel tempo (approcci culturalisti). All’estremo opposto troviamo gli approcci soggettivisti così chiamati perché partono dal presupposto che la realtà esterna sia soltanto una costruzione sociale risultante dal conferimento di senso che i soggetti compiono nel flusso della loro esperienza.

5.2. Edgard Schein e il concetto di cultura organizzativa La tesi fondamentale di Schein è che studiare un’organizzazione equivale a studiare la sua cultura. Schein ne dà la seguente definizione:

• la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi;

E’ una definizione complessa e che richiede di essere commentata. Il concetto di cultura, inteso come insieme di assunti fondamentali, è secondo Schein la conoscenza di una cultura organizzativa che procede attraverso un’analisi che si sviluppa a differenti livelli di profondità. Al livello più superficiale vi sono gli artefatti. Per definizione gli artefatti sono visibili, ma non per questo facilmente decifrabili. Al secondo livello si trovanioi valori espliciti dell’organizzazione. Al terzo livello gli assunti di base, ovvero le convinzioni profonde e inespresse, date talmente per scontate da non attrarre l’attenzione e di cui spesso i membri non sono neppure consapevoli.

5.3. Schein: la formazione di una cultura organizzativa Ma come si formano gli assunti fondamentali di un’organizzazione? La sua risposta è che una cultura si forma sempre all’interno di un gruppo, e questo è formato da persone che sono state insieme il tempo sufficiente per aver condiviso problemi significativi, averli affrontati, avere osservato gli effetti delle soluzioni tentate e avere trasmesso quelle soluzioni a neovenuti. Quanto più il gruppo è omogeneo e stabile con esperienze lunghe e intense, tanto più forte e articolata è la sua cultura. In sintesi, per sviluppare una cultura comune il gruppo deve avere una storia comune. Schein distingue poi due grandi categorie di problemi: quelli riguardanti l’adattamento del gruppo all’ambiente esterno e quelli riguardanti l’integrazione interna. I problemi del primo tipo riguardano gli obiettivi, le strategie e i mezzi per realizzare gli obiettivi e la valutazione delle prestazioni. Su questi problemi occorre un consenso minimo pena la dissoluzione del gruppo. I problemi di integrazione riguaradano invece la capacità del gruppo interno all’organizzazione di funzionare come tale. Anche qui c’è un’esigenza di consenso, che riguarda i criteri per includere ed escludere i membri, per distribuire il potere, per sviluppare amicizia, confidenza e affetto, per stabilire premi e punizioni. Soprattutto occorre il consenso sull’ideologi, ovvero sul sistema di discorsi con cui attribuire significato o ridurre l’ansia dei membri di fronte a eventi inspiegabili o traumatici.

Tutti questi problemi hanno delle specificità che riflettono la storia dell’organizzazione e l’ambiente in cui opera. Per affrontarli l’organizzazione sviluppa degli assunti che secondo la definizione data da Schein devono funzionare abbastanza bene da poter essere considerati validi. Questi assunti formano la cultura dell’organizzazione. Ma la cultura non è soltanto un patrimonio condiviso dai membri già presenti nell’organizzazione, essa richiede di essere trasmessa ai nuovi membri in modo da garantire la sopravvivenza del gruppo. E’ un’operazione complicata quando i nuovi membri, soprattutto se introdotti a livelli alti dell’organizzazione, portano con sé idee e valori già acquisiti in altre esperienze. In questi casi è possibile che l’entrata di nuovi membri provochi dei cambiamenti nella cultura dell’organizzazione. L’analisi della cultura organizzativa deve essere integrata da un approccio che metta a fuoco 3 aspetti:

• i processi di socializzazione dei nuovi membri, ossia come la cultura organizzativa viene trasmessa, recepita e adattata;

• le risposte date a eventi critici nella storia dell’organizzazione, e questo perché quelle risposte formano un patrimonio di ricordi che concorrono a formare l’identità collettiva dell’organizzazione;

• le anomalie o i tratti sorprendenti osservati man mano che la ricerca procede. Una cultura organizzativa può essere messa meglio a fuoco se si esaminano le irregolarità, le devianze e le tensioni latenti che in essa si producono;

Infine tutti questi elementi devono essere ricondotti al modo in cui viene esercitata la leadership. Per Schein leadership e cultura non sono che due aspetti della medesima realtà: studiando la leadership di un’organizzazione si studia la sua cultura e viceversa.

5.4. Joanne Martin e la pluralità delle culture organizzative Nell’opera di Schein vi sono una forza e una debolezza. La forza è metodologica e sta nell’offrire un convincente strumento di analisi delle culture organizzative. La debolezza è teorica e sta nel proporre una visione sostanzialmente olistica e omogenea delle culture organizzative. Joanne Martin è un’autrice che corregge la pretesa assolutistica del modello di Schein. Non ne rifiuta il modello ma lo relativizza, nel senso che lo considera come una lettura possibile delle dinamiche organizzative. L’originalità della Martin sta nello sviluppare un discorso che lei stessa definisce postmoderno e che nasce dall’affiancamento di 3 diverse prospettive di analisi. La sua tesi è che attraverso il continuo passaggio dall’una all’altra prospettiva è possibile pervenire a una conoscenza riflessiva delle organizzazioni, che tiene costantemente conto del fatto che quelle prospettive generano discorsi incompatibili tra di loro. Nessun discorso è più vero degli altri due e proprio questa consapevole incompatibilità è la premessa per afferrare l’intrinseca ambiguità delle organizzazioni e delle loro culture. Le tre prospettive da cui le culture organizzative possono essere studiate sono:

• integrativa: secondo cui la cultura è fonte di armonia e di consenso; • differenziate: secondo cui in un’organizzazione esistono diverse subculture talvolta in conflitto tra

loro; • frammentaria: secondo cui in un’organizzazione non esistono culture ben definite ma una

molteplicità di punti di vista fluttuanti e ambigui; Per capire come le tre prospettive possano coesistere bisogna tenere presenti due punti. Il primo è che esse non rispecchiano situazioni oggettivamente esistenti, ma sono delle interpretazioni soggettivamente imposte al processo di raccolta e di analisi del materiale osservato. E’ vero che nelle organizzazioni esistono degli aspetti che appaiono più congeniali a una prospettiva che non alle altre due; ma questo può essere detto di ciascuna prospettiva sicché nessuna può essere considerata più corretta delle altre. Il secondo punto è che il passaggio attraverso le 3 prospettive, proprio perché si escludono a vicenda, offre al ricercatore la possibilità di una comprensione più profonda delle organizzazioni studiate.

5.5. Gideon Kunda: la cultura aziendale come strumento di controllo Lo scopo di Kunda non è di esaminare da quali e quante prospettive si può parlare di una cultura d’impresa, ma è quello di studiare in che cosa consiste quella cultura, come viene trasmessa e inculcata nei dipendenti e come questi reagiscono. Il risultato dell’analisi non è la scoperta delle convinzioni profonde che ispirano la cultura dell’impresa, ma è piuttosto l’ambiguità dei dipendenti, il mix di dedizione e di ironia, di entusiasmo e sarcasmo, di spietatezza e compassione che si esprime nelle loro azioni e nei loro discorsi. Per capire il senso della ricerca di Kunda è opportuno ricordare la tesi fondamentali di Barnard, il quale indicava nel rapporto tra organizzazione e soggetti il problema centrale tanto della pratica manageriale che dell’analisi organizzativa. Per quanto esigente ed impegnativa, un’organizzazione non può mai spingersi al punto di richiedere l’annullamento della personalità dei suoi membri. E’ sul riconoscimento di questa irriducibilità che per Barnard si fonda tanto la teoria organizzativa che la scienza del managment. Il controllo nelle organizzazioni è stato attuato inizialmente, a quello che potremmo chiamare un primo livello, in maniera coercitiva, poi ad un secondo livello per via gerarchica e burocratica e infine ad un terzo livello, ovvero tramite un controllo concertato dove i soggetti hanno interiorizzato talmente bene i codici aziendali da essere divenuti i più solerti controllori di se stessi e dei propri colleghi di lavoro. Nel ricorrere al controllo culturale l’impresa non si ferma sulla soglia della personalità privata dei suoi membri.

5.6. Ideologia e rituali comunicativi della cultura aziendale Per esaminare la cultura aziendale è opportuno introdurre il concetto di ideologia. L’ideologia è un sistema autoritario di significati che chi detiene il potere presenta all’opinione pubblica come una mappa per leggere la realtà e comportarsi di conseguenza. L’ideologia aziendale proclama che l’azienda ha una cultura forte, ne enuncia i principi, sottolinea che i dipendenti devono farla propria se vogliono contribuire al successo dell’impresa e così facendo raggiungere anche il proprio successo personale. Questo insieme di valori, regole, raccomandazioni sono oggetto di continua comunicazione.

5.7. La risposta dei dipendenti. Lo spettro del burnout e la sua cultura Come reagiscono i dipendenti alle iniziative e alle pressioni della cultura aziendale? Per rispondere è necessario ricorrere ai concetti di presa di ruolo e di distanza dal ruolo, elaborati da Goffman:

• il modo migliore di rappresentare l’individuo è quello di un’entità in grado di prendere posizione, di assumere una certa collocazione a metà strada tra l’identificazione con un’organizzazione e l’opposizione ad essa e che alla minima pressione è pronta a trovareil suo equilibrio spostandosi in entrambe le direzioni;

E’ nel continuo intreccio tra identificazione di ruolo e presa di distanza che si forma il senso di sé. Scrive ancora Goffman che:

• il sé non è un’entità seminascosta dietro gli eventi, ma una formula mutevole per gestire se stessi nel corso di tali eventi. Così come prescrive la maschera ufficiale dietro la quale dobbiamo nascondere noi stessi, la situazione in cui viviamo provvederà anche a specificare il luogo e il modo più opportuni per manifestare noi stessi. È la cultura stessa a prescrivere il tipo di identità a cui noi dobbiamo credere di appartenere per avere qualcosa da manifestare;

Quindi Goffman ci avverte che per capire i processi di socializzazione del soggetto non basta considerare i meccanismi integrativi che spingono alla conformità di ruolo, come sosteneva il funzionalismo classico.

Bisogna anche tenere presenti i meccanismi che spingono le persone a distanziarsi dai ruoli prescritti perché è nel mutevole equilibrio tra adesione e distanza che si crea la nostra personalità complessiva. Allora aderire al ruolo significa sottomettersi alla definizione del proprio sé che da l’impresa. Ma l’adesione totale è considerata dagli stessi dipendenti poco dignitosa, un segnale di essere perdenti. Questo difficile, che richiede controllo, è difficile da raggiungere e da mantenere. Incombe così il rischio di burnout, ovvero dello scoppio per l’eccesso prolungato di attività e per lo stress provocato dall’accavallarsi degli impegni, delle continue prove che il sistema richiede e dalla stessa pressione dei colleghi. Il sintomo tipico del burnout è la perdita del controllo di se stessi, l’aggressione verbale contro colleghi o superiori, il dare in escandescenze con l’azienda e le sue regole.

5.8. Le ambivalenze della cultura aziendale Il sé diventa pertanto un continuo processo di costruzione, un incessante equilibrismo tra apparenza e realtà:

• l’esperienza centrale nella vita del membro non consiste solo nel vivere il ruolo che l’ideologia cerca di inculcare, ma anche nel lottare contro tale ruolo. In tal senso i membri hanno interiorizzato il problema del controllo che è insito nel cuore stesso dell’organizzazione, e il sé privato dei membri finisce per diventare un territorio conteso (Kunda);

La possibilità che il sé privato non sia totalmente colonizzato ma che permangono degli interstizi dove i soggetti riescono a rifugiarsi con ironia, cinismo e autoanalisi induce kunda a negare che le imprese siano organizzazioni totali, come Goffman definisce quelle in cui il continuo e assoluto controllo elimina ogni possibilità di difesa (prigioni, lager e ospedali psichiatrici). Il problema che si pone Kunda riguarda l’impatto che le culture aziendali possono avere sull’intera società. Quale forza potrà mai avere un ordine morale basato solo sulla ricerca del benessere materiale e individuale e dove l’interiorizzazione da parte degli individui degli obiettivi dell’impresa lascia questi ultimi esenti da qualsiasi valutazione critica? L’interrogativo pone l’inquietante problema che imprese troppo potenti possono nuocere alla democrazia dei paesi.

5.9. Sul versante della soggettività: Karl Weick e i processi cognitivi La cultura per Schein è cumulativa, consensuale e pragmatica nel senso che nasce in modo spontaneo e diffuso dall’esperienza di tutto un gruppo e in modo analogo si trasmette alle nuove generazioni. È assente in Schein l’idea che la cultura possa essere il risultato ideologico e consapevolmente costruito da parte di un gruppo di potere che la usa come strumento di controllo normativo. L’esigenze riflessiva è presente invece sia in Martin che in Kunda. Questa riflessività allontana Martin e Kunda dall’oggettivismo di Schein e li avvicina a posizioni più soggettivistiche sensibili ai processi ognitivi con cui si dà senso a una data realtà sociale. Ma per capire pienamente che cosa si intende per processi cognitivi e per conferimento di senso (sensemaking) occorre prendere in esame l’espressione più radicale di questo pensiero, che trova in Karl Weick uno dei più noti esponenti. Per Weick l’oggetto di studio sono i processi cognitivi attraverso cui i soggetti conferiscono senso ai loro flussi di esperienza. Di conseguenza la cultura, come qualsiasi altra realtà esterna, prende senso solo attraverso tali processi. La tesi di Weick è che il mondo esterno non possiede un suo senso intrinseco, ma ha sempre e soltanto il senso che noi gli attribuiamo. Da questa impostazione teorica discendono due conseguenze. La prima è la centralità dell’analisi dei processi di creazione di senso (sensemaking); la seconda è la totale equivalenza tra processi di creazione di senso e processi di organizzazione (organizing). Per Weick dare un senso a un flusso di esperienza e organizzare la realtà in cui ci troviamo non sono che i due lati della stessa medaglia. Creare senso e organizzare non sono uno la metafora dell’altro: sono esattamente la stessa cosa.

La prima conseguenza di questa impostazione è che Weick è molto più interessato alla dinamica del processo di organizzazione che non alla statica delle organizzazioni. Organizing è più importante di organization. La seconda conseguenza è che l’organizzare aspetti o momenti della vita quotidiana non è in linea di principio differente dal gestire un’organizzazione. In questa luce diventa più chiaro il pensiero di Weick quando afferma che tutto ciò che siamo abituati a pensare come una realtà esterna a noi non esiste se non all’interno dell’esperienza dei soggetti che le esperiscono. L’organizzazione non va vista come un’entità dotata a priori di strutture formali che esistono al di fuori dei soggetti. L’organizzazione va vista piuttosto come un corpo di pensiero pensato da pensatori pensanti.

5.10. Proprietà e occasioni del sensemaking Per comprendere meglio il pensiero di Weick bisogna tenere presenti altri 4 punti:

1. considerare la realtà come prodotta dal conferimento di senso ai flussi di esperienza non significa supporre che la realtà stessa sia indefinitamente plasmabile dai soggetti. Un ambiente retroagisce sui soggetti che lo hanno attivato, li obbliga a prendere atto dei suoi vincoli e a comportarsi di conseguenza. La retroazione dell’ambiente sui soggetti che lo hanno attivato ha una diretta applicazione nelle organizzazioni formali. Weick porta l’esempio di una piccola impresa che cerca a fatica il suo spazio di mercato, lo trova, ci naviga dentro e si ingrandisce. Ingrandendosi acquista potere e plasma l’ambiente esterno. Ma questo non significa che l’impresa sia esente da obblighi verso l’ambiente che essa ha creato. Il mercato, che spesso viene percepito come un’entità oggettiva che incombe sui soggetti che vi operano, non è; in realtà che il prodotto di una serie continuata di scelte strategiche compiute dai soggetti stessi. Ma l’effetto cumulato di quelle scelte può essere tale da schiacciare chi le ha compiute. Il concetto di ambiente attivato suggerisce a Weick una penetrante considerazione sulla tecnologia. La tecnologia comprende anche la capacità delle persone di governare le macchine, di interagire con esse e di comprenderne le potenzialità. Tecnologia è anche la capacità umana di ottenere dagli strumenti prestazioni insospettate dagli stessi costruttori;

2. la centralità del linguaggio nei processi di organizing e sensemaking. È una centralità sia a livello metaforico che sostantivo. A livello metaforico l’organizzazione può essere vista come una grammatica convalidata consensualmente per la riduzione dell’ambiguità attraverso comportamenti interdipendenti dotati di senso. L’organizzazione come risultato finale (e mai definitivo) dell’organizzare serve a ridurre la gamma delle ambiguità e degli equivoci. Vi è poi l’importanza sostantiva della lingua nel sensemaking: le parole vincolano il dire che viene prodotto, le categorie imposte per vedere quello che si è detto e le etichette con cui si fissano le conclusioni di tale processo;

3. il sensemaking è un processo che non conosce né principio né fine, ma è anche vero che esso è sottoposto a continui sussulti con il conseguente cambiamento dei materiali grezzi a cui la persona conferisce senso. I processi di sensemaking sono come delle ondate che sopraggiungono una sull’altra;

4. il problema del potere. Una delle obiezioni più comuni da parte dei lettori abituati a pensare in termini di realismo tradizionale può essere espressa nel modo seguente: se ognuno di noi attiva il proprio ambiente, su che base è possibile un’esperienza collettiva della realtà? La risposta di Weikc è che alcune persone dotate di particolare potere possono attivare ambienti che sono poi proposti cone lettura della realtà anche ad altre persone. Da questo punto di vista concordare su alcuni conferimenti di senso non comporta l’appiattimento delle persone, che conservano la loro irriducibile specificità, generata dall’ininterrotto sensemaking delle loro complessive esperienze di vita;

5.11. Da Giddens a Barley: i processi di strutturazione organizzativa Vi sono anche quelle che abbiamo chiamato le posizioni intermedie lungo l’asse oggetto-soggetto e che in vario modo riprendono la teoria della strutturazione elaborata da Giddens. La tesi di Giddens è che bisogna rifiutare tanto l’imperialismo del soggetto umano quanto quello dell’oggetto, e il duplice rifiuto è possibile se noi assumiamo come oggetto di studio non l’esperienza dei singoli attori e nemmeno l’esistenza di totalità

sociali, bensì un insieme di pratiche sociali ordinate nello spazio e nel tempo, vale a dire condotte istituzionalizzate di azione osservabili nella vita quotidiana. In altri termini la struttura deve essere concepita come un mezzo che consente di organizzare ricorsivamente le condotte umane, ma che nel tempo stesso è un risultato di quelle condotte. Se consideriamo la lingua come una struttura, vediamo che essa è una condizione perché possano generarsi atti di discorso e si verifichi il dialogo, ma essa è anche una conseguenza non intenzionale della produzione di discorso e del verificarsi del dialogo. Questa dualità porta Giddens a individuare nei processi di strutturazione l’oggetto centrale dell’analisi sociale. Per strutturazione egli intende le condizioni che governano nello spazio e nel tempo la continuità o il mutamento delle strutture e pertanto la riproduzione dei sistemi sociali. Esaminare i processi di strutturazione dei sistemi sociali significa studiare i modi in cui tali sistemi sono continuamente prodotti e riprodotti in processi interattivi:

• ogni atto che contribuisca alla riproduzione di una struttura costituisce anche un atto di produzione, un’iniziativa nuova e in quanto tale può dare luogo a mutamento alterando quella struttura nello stesso momento in cui la riproduce, allo stesso modo in cui il significato delle parole cambia nel corso e proprio attraverso il loro uso;

Per comprendere il ruolo e l’azione dei soggetti coinvolti nella struttura Barley ricorre alla nozione di script. Gli script sono degli abbozzi di interazioni ricorrenti che definiscono in modo generico l’essenza del ruolo degli attori. L’ipotesi di Barley è che i processi di strutturazione indotti dall’avvento di nuove tecnologie attraversino varie fasi in cui gli script nel loro ripetersi passano da una prima vaga definizione a definizioni sempre più precise. Concorrono a questa progressiva strutturazione le interazioni tra i cambiamenti di origine esterna, i vincoli istituzionali all’azione e gli effetti dell’azione umana sulla struttura.